Le unioni civili e la battaglia che non c’è
di Adriano Labbucci
Su l’Unità del 27 dicembre Vincenzo Vita ha scritto un articolo che prendendo spunto dalla vicenda del Registro delle unioni civili, bocciato dal Consiglio Comunale di Roma, svolge un ragionamento il cui centro è nella seguente affermazione «ogni occasione è buona per mettere in difficoltà il processo costituente del partito democratico (e il Sindaco di Roma, che del Pd è il segretario)».
Visto che di Roma si parla si può dire alla romana che Vita la “butta in caciara”, cioè parla d’altro, alza una cortina di parole per sfuggire al merito della questione, mischia le carte per confondere.
Io capisco la difficoltà a spiegare, ancora oggi a due settimane di distanza, quella scelta da parte del Pd di bocciare la proposta. Dire come è stato detto che il Registro è inutile si espone alla banale domanda: e allora perché, non cinque anni fa ma poco più di un anno fa, è stato scritto nel programma di Veltroni Sindaco? Troppi infatti si dimenticano di questo piccolo particolare.
L’impressione perciò è che il Pd sia rimasto folgorato non sulla via di Damasco, ma su qualche via più vicina a casa nostra.
Vita poi si domanda «forse che sulle unioni civili, obiettivo laicamente sacrosanto, si è fatto un passo in avanti?». Ma la domanda, di grande interesse, rimane a mezz’aria, sospesa, in attesa di una risposta che non arriva, forse perché ritenuta una domanda retorica.
Eppure la domanda non è retorica e ha bisogno di una risposta che non è particolarmente difficile ma al contrario evidente: non si è fatto nessun passo in avanti perché il Pd invece di sostenere la proposta coerentemente a quanto scritto nel programma ha votato contro insieme alla destra. E quindi la domanda nient’affatto retorica va rivolta al Pd.
Da tutta questa giostra il risultato è il seguente: al Parlamento tutto è bloccato per l’esiguità dei numeri e per le divergenze nell’Unione; e al Comune di Roma dove invece si poteva fare un passo in avanti, cercando così di spingere anche sulla vicenda nazionale, il Pd si è opposto. Sull’odg del PD lasciamo stare perché gli odg lasciano il tempo che trovano: se è bello resta bello se piove resta piove, come si dice sempre a Roma. Dalle compagne e dai compagni che con Vita alle primarie del Pd hanno promosso la lista «A sinistra» io, e non solo io, mi sarei aspettato qualcosa di diverso, tanto più in questa vicenda dove invece è prevalsa la logica di gruppo, l’unità del Pd, rispetto al contenuto.
Se si vuole giustamente ridare credibilità e autorevolezza alla politica, la prima cosa da fare è capovolgere l’ordine del discorso politico corrente che si chiede: cosa mi conviene, cosa è utile per me o per il mio gruppo? E sostituirlo con: che cosa è giusto, coerente rispetto ai valori e agli interessi che voglio rappresentare? E alle parole far corrispondere i fatti.
Se non si opera questo capovolgimento, prevale e prevarrà sempre più la politica usa e getta e l’indifferenza, virus mortale per la politica e quindi per la sinistra e per qualsiasi ipotesi di cambiamento.
Un’ultima osservazione. All’indomani della bocciatura del Consiglio Comunale è apparsa un’intervista a monsignor Sgreccia che a proposito delle coppie omosessuali affermava che quelle vanno aiutate con il sostegno psicologico e con terapie adeguate. Parole indicative di una subcultura alimentata da ignoranza e pregiudizio, lontana anni luce da quel simbolo di amore e misericordia rappresentato dal Cristo in croce. Ebbene: il giorno dopo in un lungo articolo su la Repubblica Walter Veltroni non trova l’occasione e lo spazio di una risposta, idem Vincenzo Vita. Perché?
Miriam Mafai ha scritto che l’Italia di trent’anni fa, quella del referendum sul divorzio e sull’aborto, era più laica e più avanzata sui diritti civili dell’Italia di oggi. Penso che ci sia un nesso tra l’assordante silenzio sulle parole di monsignor Sgreccia e l’arretramento culturale e politico che Miriam Mafai segnala. E che una delle risposte si trovi proprio in quella logica che dicevo prima: se è conveniente e utile polemizzare con un’esponente della gerarchia vaticana e rispondersi che non conviene, meglio far finta di niente, sorvolare; e invece prendersela con la sinistra, magari con l’aggiunta radicale, che fa tanto riformista e poi piace tanto ai giornali signora mia. Non capendo che qui il tema non è la disputa tra laici e cattolici, credenti e non credenti ma, per dirla con il cardinal Martini, tra pensanti e non pensanti. Ma così, è bene saperlo, si preparano solo ulteriori arretramenti perché le battaglie perse sono solo quelle che non si danno.
Presidente del Consiglio Provinciale di Roma
l’Unità 29.12.07
Caravaggio, l’ultima partita a tennis
di Egizio Trombetta
C’era di mezzo una donna: i due, non potendo sfidarsi a duello, si diedero appuntamento a Campo Marzio per una partita
Il pubblico seguiva dalle tribune otto giocatori sul campo. Ma a un certo punto le racchette sparirono e apparvero le spade
UNA PARTITA di pallacorda (così si chiamava il gioco con palla e racchetta nel Cinquecento) fu il teatro della morte di Ranuccio Tomassoni per mano di Caravaggio. Che fu aiutato da Fabrizio Sforza Colonna a nascondersi e poi fuggire
Un incontro di tennis o meglio di pallacorda cambiò per sempre la vita di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, il massimo esponente della scuola barocca, a seguito del quale uccise Ranuccio Tomassoni, uomo influente e ben introdotto coi Farnese. Era il pomeriggio del 28 maggio 1606, il pittore lombardo e Ranuccio Tomassoni si accordano per scontrarsi alla pallacorda così da chiarire una volta per tutte la loro supremazia su di una prostituta d’alto bordo, la senese di nome Fillide Melandroni, di cui entrambi erano amanti. Successe a Roma, al Campo Marzo in via della Pallacorda n.5, ora lì c’è un garage in via di ristrutturazione.
Quindi una donna, o forse due, furono la causa dell’inimicizia fra i due. La seducente Fillide, che fece da modella al pittore (nel 1600 col Ritratto della Cortigiana Fillide, quadro andato distrutto a Berlino nel 1945 a seguito dei bombardamenti durante seconda guerra mondiale) e forse anche Lavinia Giugoli,la chiacchierata moglie di Ranuccio, sarebbero state la causa per cui Tomassoni e Caravaggio arrivarono a duellare. I duelli però erano banditi a causa delle leggi «sistine» ancora vigenti, erano tempi in cui la Santa inquisizione manda a morte Giordano Bruno e Beatrice Cenci. Si doveva trovare un espediente affrontarsi e la pallacorda si prestava bene allo scopo. Secondo i piani il duello sarebbe dovuto fermarsi al primo ferimento di uno dei contendenti, senza andar oltre. L’appuntamento è vicino al campo di via di pallacorda, probabilmente proprio in Piazza Firenze. Con Ranuccio c’è suo fratello, il caporione Gian Francesco, e ci sono i suoi cognati, Ignazio e Federico Giugoli. Caravaggio si fa invece accompagnare dall’architetto Onorio Longhi, il capitano Petronio Troppa, e infine c’è il famoso quarto uomo rimasto sconosciuto per tutti questi secoli. L’identità del quarto uomo venne artatamente occultata negli atti del processo sotto un discreto N.N, Nescio Nomine. È evidente che l’N.N in questione poteva essere un rampollo di una grande famiglia, un personaggio da proteggere ad ogni costo. Dai quadri d’epoca si deduce che il campo era certamente allo scoperto, mentre il pubblico poteva seguire le vicende di gioco da «tribunette» coperte stile vittoriano. In quell’incontro di pallacorda si fece uso probabilmente di racchette anche se al tempo si potevano usare in alternativa i guantoni specifici. A dividere il campo non c’era la rete, come oggi si usa, ma la corda, è da cui deriva appunto il nome del gioco, «pallacorda». Come viene messo in evidenza dai documenti in nostro possesso, non fu una partita di singolare, ma fu un confronto quattro contro quattro. Due giocatori posizionati più avanti, in prossimità della corda, due giocatori posizionati dietro, come si dice ai tempi nostri «a fondo campo». Ad assistere allo scontro-incontro non c’è Fillide, non c’è Lavinia e non c’è tanto meno la donna ufficiale del pittore, Lena, con cui Caravaggio trascorre l’ultima notte romana. Non si sa molto dell’andamento dell’incontro, certamente fu un incontro equilibrato anche perché sarebbe stato difficile prevalere in un campo di dimensioni così ridotte, circa 9 metri per 27 e soprattutto con otto giocatori in campo. Le occasioni per tergiversare non mancarono e alla prima contestazione il «gioco» cambiò, sempre quattro contro quattro, ma le spade presero il posto delle racchette. Il Merisi, manco a dirlo, prese in consegna proprio il Tomassoni che nella concitazione cadde in terra. L’allora trentacinquenne pittore non ci pensò su due volte e ferì Ranuccio all’inguine con la punta della sua spada con la chiara intenzione di evirarlo. Fece male i suoi conti però perché recise malauguratamente l’arteria femorale di Ranuccio. Risultò subito evidente agli occhi dei presenti che la ferita subita dal Tomassoni era gravissima. Scapparono tutti, anche il pittore fu ferito gravemente, con Ranuccio morente rimase il bolognese ex-guardia di Castel Sant’Angelo Petronio Troppa, ferito mortalmente anche lui da Gian Francesco, il fratello del Tomassoni. A soccorrere Merisi ci pensò proprio il quarto uomo, il famoso N.N, che lo trascinò non nel più vicino ospedale e nemmeno a Palazzo Firenze presso il Cardinale Del Monte dove il Caravaggio alloggiò in passato, bensì lo portò fin casa sua, a Palazzo Colonna. Alla luce di recenti approfondimenti effettuati dallo storico dell’arte, esperto di caravaggio, Maurizio Marini risulta meno oscura l’identità del Nescio Nomine: «ulteriori approfondimenti - continua Marini - ci hanno portato a concludere che il Caravaggio quel pomeriggio ebbe facile accesso a Palazzo Colonna perché stava con qualcuno di casa. Il quarto uomo fin ora protetto dagli atti dalla discrezione di un Nescio Nomine è senza dubbio Fabrizio Sforza Colonna». Risulta anche evidente che il cosiddetto quarto uomo, benché non provocò il ferimento di nessuno, ebbe premura di sparire insieme al vero colpevole: «Fabrizio si trovava in una posizione difficile - sottolinea Marini -. Il giorno precedente entrò in città da interdetto a seguito di una condanna subita l’anno precedente. Per lui essere coinvolti in un omicidio era una situazione pericolosissima». È per questo motivo dunque che Fabrizio Sforza Colonna portò in gran fretta Caravaggio a Palazzo Colonna per poi fuggire via alla volta di Zagarolo. A suffragare ulteriormente la tesi del Marini c’è un esperto di storia del Tennis, l’olandese Cees De Bondt (autore del libro Royal Tennis in Renaissance Italy): «A Palazzo Colonna - spiega De Bondt - c’è stato sicuramente qualcuno interessato al gioco della pallacorda. Nel 1610, quattro anni dopo la sanguinaria partita, fu costruito nel Palazzo proprio una sala della pallacorda, dal lato di via della Pilotta».
La gran mole dei documenti in nostro possesso e utilizzati dallo stesso Marini per la sua opera (Caravaggio, pictor praestantissimus) sono raccolti nel libro di Mons. Corradini Caravaggio, Materiali per un processo. Lo stesso Monsignore precisa: «Le mie fonti - spiega Corradini - sono state ad esempio le relazioni dei birri successive allo scontro della pallacorda. Purtroppo il faldone del processo non fu mai ritrovato». È chiaro che fu fatto sparire.
Il resto della vita del pittore è noto, fu costretto a rimanere lontano da Roma fino alla fine dei suoi giorni. Morì a Porto d’Ercole, in circostanze non del tutto chiare, col rimorso per quanto commesso. Rimorso che fu ben rappresentato da un dipinto del diciassettesimo secolo La morte di Giacinto. Non sappiamo con certezza chi sia l’autore del quadro del quadro in questione (da non confondere con un dipinto di Giambattista Tiepolo del 1752-1753) anche se l’olandese De Bondt ha le idee abbastanza chiare in proposito: «Ho dedicato molto tempo nelle ricerche in merito a questo dipinto - spiega -. Dall’idea che mi sono fatto è probabile che il dipinto è stato realizzato dal francese Simon Vouet sotto ispirazione e suggerimento del poeta e scrittore italiano Gianbattista Marino, che era a Roma nei giorni dell’omicidio». Il ritratto fatto allo scrittore da parte di Caravaggio nel 1600 e i sonetti dello stesso poeta a lui dedicati sono la prova evidente del rapporto d’amicizia che c’era fra i due. È probabile dunque che Gianbattista Marino tentò di far trasparire il pentimento del pittore così da intercedere in suo favore.
Repubblica 29.12.07
Anni 70. Un decennio infelice
di Alberto Arbasino
La Triennale milanese ospita una scintillante rassegna che sembra molto un videogioco
I ricchi ormai si esiliavano a Montecarlo per non fare gli stronzi alla Scala contestata
Già a metà fra il ´63 e il ´68 si ritornava volentieri nella vecchia California
Passamontagne e spranghe in territori urbani piccolissimi tra strade plumbee
Ai giovani non importava più niente della letteratura non impegnata
Fra cortei armati e fumetti e canzoni e Cina e Cile, Moro e Pasolini muoiono in tutti i media
Coi soliti senni del poi (ma perché, poi?), naturalmente parrà molto "epocale" (o «un battito di farfalla»?) quella frattura tra il ´63 e il ´68. Prima, l´emergente Gruppo d´avanguardia giovane, generalmente ben visto dagli Antichi Maestri già un po´ emarginati nelle loro nicchie: Gadda, Anceschi, Palazzeschi, Ungaretti, Praz, Comisso. Fra centro e sinistra, nei territori mediatici lasciati usufruibili dagli incauti democristiani, tutto un Establishment clientelare e normalizzatore, di "midcult" e di mezza età: la generazione dei Moravia coi tradizionali poteri "egemonici" all´italiana, esercitati raccomandando o «tagliando i viveri» ai letterati subalterni che campavano di prestazioni precarie, senza ancora contratti o salari o assicurazioni o pensioni.
Qualche "posticino" già acquisito nelle carriere accademiche o pubblicistiche o radiofoniche poteva comunque garantire l´indipendenza alimentare e culturale di una letteratura sperimentale che profittasse del boom italico non solo per vendere bestseller. E senza le tradizionali sputtananti preghiere italiane ai Poteri di turno. Anche perciò continuarono poi lungamente le accuse di «volevano prendersi tutti i posti!», da parte degli intellettuali di regime o protesta che effettivamente, dopo il Sessantotto, si presero un mucchio di direttorati nelle strutture e prebende. Senza più curriculum, né concorsi, né titoli. Ma una volta sistemati, escono dall´attualità perché «non hanno più niente da dire». («Ditemi un titolooo!»).
Ma l´Establishment non aveva previsto il dopo. Solo cinque anni, ed ecco insorgere un inaspettato movimento generale collettivo, e assolutamente alieno da ogni letteratura, in lotta e guerra o guerriglia dura (come nelle rivoluzioni "da manuale") per abbattere l´Establishment (ora detto "Sistema"), e occupare direttamente i "Palazzi" direttivi. Magari a costo di ammazzamenti e ferimenti adesso commemorati, «per non dimenticare», in tanti luoghi della Memoria, monumenti ai Caduti, lapidi, "format", sceneggiati, e via.
Nella scintillante rassegna-videogioco sugli anni Settanta alla Triennale milanese, chissà se i giovani nati in seguito sapranno discernere se furono anni «formidabili» o «di piombo», o un´intrigante playstation. Qui, fra cortei armati e fumetti e canzoni in lp e Cina e Cile e video e sangue ed effimero, Moro e Pasolini vengono riammazzati in tutti i media, mentre non si ritrovano facilmente Feltrinelli o Calabresi o Casalegno o altri, lungo gli abiti di Fiorucci e i versi di De André, il juke-box e il Vietnam e i punk e la P38 o la P2. Ma non molti artisti o sarti o scrittori o musicisti emergenti dai "collettivi", come prima e dopo. E nemmeno concretezze dei capetti - dopo le spranghe e i manganelli - circa i treni dei pendolari, gli ambulatori per i poveri, l´assistenza ai neonati dopo le ammucchiate di massa. Mentre i ricchi ormai andavano in Svizzera anche solo per il dentista. E si esiliavano a Monte-Carlo per non fare gli stronzi alle contestate prime della Scala o nelle mitiche sparatorie stradali.
Già a metà fra il ‘63 e il ‘68, comunque, senza aspettare le successive scoperte e scopate di massa, si ritornava sempre più volentieri nella vecchia California per godersi allo stato nascente e con piacevolezza i "trends" che dopo qualche stagione sarebbero arrivati quali "novità" ideologiche e predicatorie anche da noi. Come in un ribaltamento di quel «piano inclinato» che era l´America secondo Oscar Wilde e Saul Steinberg, dove rotola tutto ciò che casca dall´Europa e prima o poi riappare a San Francisco.
E così, via! Le rivolte studentesche sull´erba, i figli dei fiori e dei funghi, i parchi e giardini lisergici e psichedelici, sconfinati, vastissimi, con culi e chitarre al vento, macché passamontagne e spranghe in territori urbani piccolissimi fra plumbee vie Carducci o Pascoli o Collodi o De Amicis... Altro che highways fra Sacramento e Big Sur e Tijuana... E le musiche sempre più amplificate, nelle prime discoteche di massa e di mandria, enormi e cascanti, in una grafica sinuosa e languida fra LSD e Art Nouveau per i poster e i dischi. E tutto un cinema molto sperimentale e poco adatto ai non-cinefili; e un teatro molto "off" con tutti seduti per terra impietosi e scomodi fra candelotti da processione alla Vergine. E officianti che scendevano a urlare «fuck!» trasgressivi, ma si offendevano a toccargli per provocazione il sedere. E parecchia cera colorata da fiaccolate per stragi orientali anche nei penetrali e ricettacoli dei piccoli supplizi ove si scatenavano praticamente le fantasie ancora originali dell´immaginario individuale, prima dell´omologazione globale imposta alle masse dalla «liberazione sessuale», e poi dalla grande paura per l´epidemia dell´Aids.
Autobiograficamente, appunto Off-off si intitolava un mio instant book di corrispondenze sul campo a caldo (con «quell´estate a Manhattan», appunto), uscito da Feltrinelli alle fine del ‘68. Con già dentro i vari trends che sarebbero poi stati scoperti e divulgati, serialmente e addirittura scolasticamente, nel corso dei nostri successivi anni Settanta. «Il sabato del Village»... Un Underground in tutti i sensi: le colossali discoteche supertecnologiche «da sballo» con le più recenti droghine rustiche o chimiche ma comunque subito mitiche, e le cantine sordide con recitanti ieratici e famelici, al Village. Cantine fra i docks e i macelli, invece, con marines e calciatori e cowboys forse neanche finti in "numeri" allora sensazionali di ring e gabbie e vasche per usi innominabili; e poster di protesta da "college" per la cameretta studentesca. Il New American Cinema decrepito dalla nascita, e la Factory di Andy Warhol (mio coetaneo per niente "impegnato") piena di trovate attonite ma vispissime, in paraggi allora succulenti. E il Living Theater, il Café La Mama, i Velvet Underground, The Mothers of Invention, i mini-circuiti di cooperative e monologhisti e travestiti e Pop Art non-correct, le disgraziate famose per qualche giorno al Chelsea Hotel e finite malissimo...
Oltretutto, negli Stati Uniti «on the road» come nell´Italia mediterranea, tradizionalmente i "ragazzoni" facevano le loro "ragazzate" («ah se ci fosse qui una bella ragazza!», «già, ma non c´è!») dall´Est al West fra ostelli e deserti remoti dalla cultura dei passamontagne, quando ancora prefissi come «omo» o «etero» si applicavano a concetti astratti come l´omonimia o l´eterogeneità dei fini. Non certamente al sesso spontaneo nelle docce. Non esistevano i "nomi", e quindi neanche le "cose", che tanti facevano tra acque e saponi o cespugli in Texas o a Hollywood, senza curarsi di etichettarle come "trasgressioni". Dopo le classificazioni e le suddivisioni e i distintivi, ecco invece la formazione dei piccoli ghetti specializzati: e ancora per primi a San Francisco, nel «Castro Village». Non più festose sfrenatezze in allegri bar o bagni "maledetti", bensì negozietti di ferramenta e plastiche e protesi ormai mediatiche e patetiche come i tacchi sadomaso nei grandi magazzini con liquidazione delle rimanenze. E sempre meno "Immaginazione", tra gli sfoghi serali pianificati a Houston come a New Orleans, Amburgo, l´Oktoberfest a Monaco, il Carnevale di Rio, la deplorevole Bangkok, con anziani "pasolinidi" in preda beata per frotte di atroci piccini.
Frattanto, «inter nos», questioni sempre meno gramsciane sui «gggiovani» già sviluppati quali protagonisti di contestazioni e consumismi e pubblicità rock... Quando la «Giovinezza» ricordava ancora troppo l´inno fascista ormai vecchio, la «Gioventù» era appena stata hitleriana nei cinegiornali, e qualunque «Fischia il sasso» col «ragazzo di Portoria» si era stati obbligati a cantarlo, non solo a Genova, in cortei di piccoli Balilla poco propensi alle adunate e ai motti come a ogni Doge o Duce sui palchi.
Dunque, all´epoca, avendo compiuto i 40 anni allo scoccare del decennio di piombo - e avendo scarso interesse per le ideologie e le canzoni e i vestiti e gli arredi e gli spettacoli italiani dell´epoca - si riproponeva il problema già avvertito negli anni Cinquanta: se stabilirsi con libri e tutto non a Roma bensì a Londra, o Parigi, o Broadway, o Hollywood, campando bene come "corrispondente" giornalistico, e coinvolto con la società culturale locale. Senza esporsi troppo al «quanto ti fermi ancora?», se non si partecipa ogni giorno e sera alle telefonate e iniziative e ricevimenti locali, come succede quando si rimane per un paio di settimane.
Oppure: far fronte, per ovvio e frainteso senso civico, a un desueto e sfottuto dovere di testimonianza storica e antropologica "on the spot" nello Stato di cui si ha la cittadinanza e i redditi? Senza magari smaccatamente abbandonarsi, secondi i regimi in auge, all´interminabile lagna del "presenziare" italiano: adunate, manifestazioni, commemorazioni, fiaccolate, cortei per innumerevoli vittime assolutamente indimenticabili, fin da piccini tra scuole e doposcuole e discorsi e lapidi e gite e cippi e steli e slogan; e poi, nella toponomastica e nelle pagine gialle e sui mezzi pubblici e radio-taxi, e "format" luttuosi in tv.
Allora: fare gli antitaliani contromano e controcorrente e "versus"? O intrupparsi in movimenti omogeneizzati e collettivi, a costo di comprarsi un passamontagne per le sfilate invece di un boxer per Malibu? Ingraziarsi movimenti «gggiovani» dediti alle ideologie stagionali, per poi diventare capiservizio e quindi «ad» e direttori e presidenti in tutti gli enti possibili? Bloccando per decenni le carriere e il curriculum delle successive generazioni di postulanti ormai anziani in crisi, quando ancora sui giornali si legge «un ragazzo di trentotto anni»...
Non per nulla, ai promettenti giovani degli anni Settanta, e anche a Giangiacomo Feltrinelli che me lo ripeteva, non importava più niente la letteratura "personale" degli scrittori non impegnati, ma soltanto le ideologie nei documenti collettivi anonimi. E Italo Calvino mi bofonchiava: «un altro che non vuol più credere alla letteratura?». In quel grigiore davvero plumbeo e terroristico, fra i mitra di strada e i Sex Pistols nelle discotechine due metri più sotto, e i conformismi minacciosi sempre più nuovi e massicci, chi poteva prevedere che tante Immaginazioni e Utopie sarebbero presto sfociate in un redditizio revival delle saghe familiari e degli intimismi con gioie e dolori, nonché infiniti thriller e killer di consumo per le immortali signore mie e le future casalinghe di Voghera?
Così, venne proprio intitolato In questo Stato un mio instant book sulle vivaci ricezioni romane e italiane ai telegiornali e ai gossip nei lunghi tempi del sequestro di Moro. Messo in un cassetto dai dirigenti della Feltrinelli d´allora, fu passato dal grande agente Erich Linder a Livio Garzanti, che subito lo pubblicò. (Come del resto, al crollo dei Muri nell´epocale Ottantanove, Elvira Sellerio seppe stamparmi in fretta La caduta dei tiranni. Poi, certo, passò la voglia di occuparsi narrativamente delle figurine e figurette che si incontrano negli «ambienti esclusivi» o nella cronaca giornalistica).
Ma intanto, per salutare la fine del «genere-Romanzo-non-merce», dopo i carissimi capolavori e le Grandi Incompiute del primo Novecento - in contemporanea con gli epiloghi della Sinfonia e dell´Opera e della Pittura: «signore e signori, si chiude!» - pareva piuttosto giusto dedicarsi ai "meta-romanzetti": «Super-Eliogabalo», «Principe costante», «Specchio delle mie brame». Mentre Calvino stesso faceva della meta-narrativa con «Se una notte d´inverno», Pasolini passava al cinema, Testori si buttava sul teatro... Però, con l´aggravarsi dei peggiori corsi e ricorsi più storici, riecco il dovere personale di ripassare a una funzione prettamente civile. Anche malgrado gli entusiasmi di chi aveva vent´anni anarchici proprio negli anni Settanta. E dunque viveva le stesse passioni antisociali dei ventenni nel 1870, o 1770, o eccetera. Quindi, scritti e pulsioni piuttosto congiunturali, con titoli di servizio: Equo canone, Confezioni per famiglie, Condizioni di impiego, Servizio non compreso, Priorità non acquisite... Come aveva insegnato Adorno, morto di contestazione appunto allora.
Ma intanto, fra un lutto e un piombo, anche lunghi viaggi nei più discussi paesi esotici: Cina, Giappone, Bali, Nepal, Giava, Iran, Malesia, Siam, Australia, Hawai... E moltissime visite alle grandi mostre e ai concerti che si continuavano a tenere a Londra, Parigi, Berlino, Amburgo, Amsterdam, Washington, Hollywood, Rio de Janeiro, Vienna, Monaco, Lisbona, Istanbul, Zurigo... Lasciando perdere con profitto tanti eventi "locali" poi proclamati formidabili e imperdibili, o magari stronzate.
Andando e tornando, si accumulavano così i materiali tradizionali e trasgressivi per Un Paese senza, antropologia dei caratteri e fantasmi italiani apparsa appunto nel 1980, alla chiusura del decennio infelice.
E il decennio successivo? Bella roba, gli anni Ottanta? E i Novanta? E nelle celebrazioni del quarantennale 1968-2008, che faranno i ventenni o trentenni «duemilaottini» di fronte a un Sistema o Establishment che è nuovamente riuscito a «metterglielo là», oltre alla "movida" e alla "vaiolance" a tutta birra? Con le bottigliette da spaccare contro i muri graffiti non più con «W la Figa» o «W il Duce» in gessetti e carboni ormai fuori commercio, ma in ghirigori acrilici per segnalare lo spaccio più vicino, o i «Dio c´è» per registrare il controllo malavitoso su un territorio... Annate e cause ed effetti ed eventi con martiri e vittime - nel secolo scorso e anche in questo - ancora una volta formidabili, belli e bellissimi con lutti imperdibili e happy hours indimenticabili, e quarantennalmente commemorabili e celebrabili nel 2048...
Repubblica 29.12.07
I numeri. Fascino discreto tra scienza e arte
di Piergiorgio Odifreddi
Fin dalla più remota antichità i numeri hanno esercitato un fascino strano sugli uomini. E il sette ha il privilegio di corrispondere al numero dei corpi celesti allora conosciuti. Per chi aggiungeva a questi anche la Terra e le stelle fisse aveva importanza il nove. Ma già dai tempi di Pitagora si era creata un´analogia tra i sette corpi celesti e le note musicali ed è da questa associazione matematica che è nata la teoria pitagorica che mette in relazione la natura con la musica. Per i pitagorici, insomma, la matematica ha una doppia valenza: oltre che essere considerata una scienza è vista anche come linguaggio dell´arte. Il sette inoltre rappresentava un fenomeno misterioso, una specie di buco nelle capacità tecniche degli antichi Greci. Tutti i poligoni regolari, dal triangolo all´ennagono, potevano essere costruiti con riga e compasso tranne quello con sette lati. Un esercizio che si è dimostrato scientificamente impossibile solo 2000 anni dopo.
Ma quando si va a scavare nella storia più antica della matematica si trovano altre curiose testimonianze. Nel papiro egizio Rhind che risale al 1900 avanti Cristo c´è una filastrocca che racconta di sette gatti che cacciano sette topi che hanno mangiato sette sacchi di chicchi di grano con cui si sarebbero coltivati sette campi...
Newton, facendo esperimenti col prisma, isolò nello spettro della luce sette colori, come se fosse una scala musicale. Nell´artista inevitabilmente tutte queste associazioni creano stimoli per provocare infinite suggestioni.
Repubblica Roma 29.12.07
Maurizio Pollini. La grande musica come un racconto lungo nove serate
Parla il grande pianista all’Auditorium dal 5 gennaio con le sue "Prospettive", incontri fra artisti
di Leonetta Bentivoglio
Maurizio Pollini torna a Roma in gennaio per un progetto che riflette in pieno, nel rigore e nell´originalità delle scelte, la sua peculiare fisionomia di musicista. Quest´anti-divo adorato dal pubblico, e teso alla ricerca di una perfezione ideale, ha mostrato spesso, negli ultimi anni, il bisogno di delineare programmi rivelatori e sorprendenti, costruiti sul confronto tra musiche diverse e autori storicamente lontani. Reti di accostamenti trasversali «all´interno di quel gigantesco contenitore di stili e pensiero compositivo che è la storia della musica, da guardare come un unico racconto, non uniforme ma organico», afferma.
Così nascono i "Progetti Pollini", testimonianze di una ricchezza linguistica che supera ripartizioni per epoche e specialismi, e capaci di stimolare il pubblico comunicandogli la sfaccettata intensità dell´esperienza musicale. Ora, col titolo di "Pollini Prospettive", e ancora su invito di Santa Cecilia all´Auditorium (che ospitò un "Progetto Pollini" nel 2003), il più esigente e atteso tra i pianisti dà il via a una nuova serie, con cinque programmi e nove serate, dal 5 al 29 gennaio, suonando tra l´altro per la prima volta con Antonio Pappano, direttore musicale dell´orchestra ceciliana, il primo e il secondo Concerto per pianoforte di Brahms.
«Queste "Prospettive" tracciano un percorso parallelo tra musica romantica e contemporanea», spiega. «Ci saranno Chopin, il Boulez della Seconda Sonata, Stockhausen e Schönberg eseguiti nella stessa sera del Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms, e ancora Maderna, Webern, Debussy, Nono...»
Luigi Nono sembra irrinunciabile nei suoi programmi.
«A Roma saranno eseguiti due suoi pezzi: ...sofferte onde serene..., che scrisse per me, e A floresta è jovem e cheja de vida, del periodo politico più acceso di Nono, dedicato al fronte di liberazione del Vietnam. Sempre attualissimo, perché da vivere e ascoltare come un manifesto contro ogni guerra».
Stockhausen è un altro dei compositori che esegue spesso.
«I suoi Klavierstücke sono tra le opere più notevoli scritte per pianoforte nella seconda metà del Novecento. In questa serie ci sarà una presenza forte di maestri della modernità più che di giovani compositori».
Pensa che oggi domini un pensiero musicale "debole"?
«No, sono convinto che ci siano giovani interessanti. Ma autori come Boulez, Nono e Stockhausen sono un riferimento obbligato per il progresso dell´ascolto e la comprensione della musica odierna. Certe composizioni sono state decisive per il rinnovarsi del linguaggio, e sono convinto che gli spettatori avvertano quanto siano necessarie e dense di ragioni critiche, anche se sembrano ostiche».
Lei dà l´immagine di un pianista che si è posto al servizio della musica, nell´estraneità a qualsiasi sfoggio di bravura.
«Ciò che conta è la capacità di trasmettere qualcosa del mondo di un compositore, e il viaggio di appropriazione dell´opera coinvolge la sensibilità dell´interprete, che serve l´autore in modo attivo e personale. Senza questo coinvolgimento, se non si sviluppano affinità, il nostro lavoro non ha senso».
Corriere della Sera 29.12.07
Il versante domestico del genio di Heidegger
di Armando Torno
Per il trentesimo della scomparsa di nonno Martin, la nipote Gertrud Heidegger ha raccolto — scegliendole e commentandole — le lettere che l'illustre filosofo scrisse alla moglie Elfride. Il melangolo, che tanti meriti ha in Italia per la diffusione degli scritti heideggeriani, pubblica la traduzione di tale epistolario sotto il titolo «Anima mia diletta!» (locuzione d'inizio di molte missive). Sono pagine che contengono diversi particolari della vita del pensatore. Si noti, per fare due esempi, che nel marzo 1933, dopo l'andata al potere di Hitler, Heidegger si reca da Jaspers (che aveva una moglie ebrea) e a Elfride racconta impressioni e l'avvenuto scambio di idee; nel 1939, «davanti alla sostanziale incertezza di un Occidente ovunque in armi», Heidegger scrive una frase impressionante: «Attualmente non si trova un punto fermo e quanto è stato finora è alla fine, anche se esteriormente i rapporti si conserveranno forse ancora a lungo».
Ma queste lettere restituiscono anche sentimenti, problemi e vicissitudini del filosofo che trovò sempre nella moglie un sostegno pratico e tentò di scrivere, senza riuscirvi, l'opera definitiva, lasciando ai posteri il compito di orientarsi verso un «altro inizio del pensiero » rispetto alla metafisica classica e moderna, ormai giunta al tramonto. Sappiamo infine dalla postfazione che Hermann, figlio legittimo di Martin e Elfride Heidegger, ebbe come padre naturale Friedel Caesar.
MARTIN HEIDEGGER, Anima mia diletta! Lettere alla moglie Elfride IL MELANGOLO PP. 383, e 28
Corriere della Sera Roma 29.12.07
Una mostra nello Studioangeletti sulla dimensione psichica dell'uomo
In viaggio sulla nave dei folli
Da Bacon a De Chirico, tante opere dai tratti visionari
di Valerio Magrelli
«Stultifera navis», ovvero «La nave dei folli» (in tedesco «Das Narrenschiff»), è il titolo di un libro che l'umanista tedesco Sebastian Brandt pubblicò nel 1494. Grazie a una équipe di illustratori scelti, fra cui Dürer, il testo fu arricchito da una serie di xilografie. Quanto al racconto, si tratta della storia di un gruppo di pazzi che, fra molte peripezie, si imbarca su una una nave per Narragonien, la terra promessa dei matti. Allo stesso periodo risale anche il capolavoro di Hyeronimus Bosch «La nave dei folli», un olio su tavola in cui viene ritratta una nave affollata che ha per nocchiere un suonatore di cornamusa, e per albero maestro, un albero della cuccagna.
Insomma, la bizzarra rappresentazione tardo-medievale era nota da secoli, ma a sottolinearne l'importanza è stato Michel Foucault. Il primo capitolo della sua «Storia della follia» spiega infatti che il potere espelleva i folli dalla città, per affidarli al controllo di marinai e battellieri.
Proprio in omaggio all'intuizione dello studioso francese, è stata inaugurata a Roma, presso lo Studioangeletti di via Gregoriana 5, l'esposizione «La nave dei folli », nata da un'idea di Cristiano Bernhard e Andrea Fogli. Partendo da una collezione di disegni e incisioni di artisti fra Otto e Novecento (e sotto la guida di un «capriccio » di Goya), l'allestimento verte su una genealogia di artisti dediti a scandagliare la dimensione psichica, con tratti potentemente visionari. Fra i 36 presenti, con Bellemer e Klinger, Ernst e Bacon, De Chirico e Licini, può essere curioso ricordare da un lato Giacometti, Kubin, Redon (che vedono tre loro mostre tuttora in corso a Parigi), dall'altro Eustachio, Gallo, Levini e Ontani (i cui lavori sono ospitati in questi giorni presso altrettante gallerie romane).
Molti i temi salienti, come quelli della vicinanza col mondo animale (come nella donna-elefante di Ziegler o nella maschera d'elefante di Cerone), o della suggestione esercitata da una sessualità violenta, spesso blasfema (dal «Pudore di Sodoma » di Rops, alla croce-escremento di Wols). Tuttavia, al di là della bellezza di molte opere (con le scoperte di nomi ancora poco noti quali Devriendt, Kraijer e Richar), il fascino di questo itinerario nella follia si deve all'intensità dell'effetto finale. L'osservatore, cioè, viene chiamato a una progressiva discesa nei paesaggi interiori. E allora si capisce l'ironico invito che Goya affida alle ombre dei suoi fantasmi: «Buon viaggio»!
il Riformista 29.12.07
L'obiettivo è fare le riforme di struttura
Guardando a Lombardi, Santi e Amendola
Dobbiamo basarci su un programma di rinnovamento
di Milziade Caprili
Caro direttore, alla domanda che tu poni con nettezza («Caro Fausto, è dirimente l'adesione al Pse»), Bertinotti risponderà, se vorrà, da par suo e non posso certo parlare io per lui. Posso dirti, però, che cosa penso e articolare il discorso su un tema a me caro, quello di "quale" cultura politica e di "quali" riferimenti ideali (e, appunto, internazionali) debba dotarsi il nuovo soggetto unitario e plurale della sinistra. Non prima, però, di rispondere alla questione dei riferimenti internazionali che tu poni. Sollevi un tema importante e che sarà decisivo, nei prossimi anni, tema che andrebbe ampliato a una riflessione, di respiro europeo, su cosa voglia dire, oggi, la parola "socialismo", ma per quanto riguarda Rifondazione (non Bertinotti), la risposta, almeno per l'oggi, non può che essere negativa. La scelta di Rifondazione è stata ed è, da tempo, netta: costruire una sinistra alternativa (anticapitalista, femminista, pacifista e verde) a sinistra del Pse. Continuiamo a pensare che ci sia bisogno, in Europa, di una tale sinistra, anche se non pensiamo affatto che debba, per forza, essere "nemica" del Pse. Anzi, può e deve allearsi al Pse, ove ve ne siano le condizioni. Il successo della Linke in Germania dimostra peraltro che è possibile non solo concepire una forza che stia a sinistra della Spd ma anche che questa può rappresentare, davanti all'elettorato e a pezzi importanti di classe dirigente, una possibilità diversa. Altra questione riguarda le altre forze che con noi stanno contribuendo a far nascere la "Sinistra l'Arcobaleno": alcune di esse, a partire da Sd, si richiamano esplicitamente al Pse, come pure ve ne sono alcune che, rispetto al tema della collocazione internazionale, sono forse indifferenti, come i Verdi. Nessun problema, comunque, a dialogare e allearci con forze che si richiamano al Pse, anzi: non possiamo prescindere dall'alleanza con esse, in Italia e fuori. Il problema è in quale direzione vanno le scelte politiche che si compiono: personalmente non avrei alcun problema a un richiamo esplicito, per quanto riguarda l'insieme delle forze della sinistra d'alternativa, al mondo e alle figure del lavoro. Del resto, sono certo che un "Partito del lavoro" avrebbe, in Italia, un significato ben diverso dalle politiche e dalle scelte perseguite, almeno negli ultimi decenni, dal Labour Party inglese. Come pure penso che il problema dei rapporti tra forze diverse (Pse e Sinistra europea, ma anche Verdi e altre forze autonome) ma nutrite da una comune matrice - antica o moderna - al campo socialista o al socialismo europeo, si porrà di certo, nei prossimi anni. E che non potremo, ripeto, che ridefinire cosa voglia dire socialismo.
Un soggetto unitario e plurale della sinistra, come quello che vogliamo costruire, non potrà del resto che alimentarsi di diverse culture: importante è infatti non da dove veniamo ma dove vogliamo andare, e molto di quello che vogliamo costruire sta - sperabilmente - fuori di noi: nei partiti "tradizionali" e, molto di più, nei concreti processi sociali che investono oggi la società, a partire - e drammaticamente - proprio dal mondo del lavoro. Insomma, il punto dirimente non è imbrigliare od omologare in un unico contenitore - interno o internazionale - le forze che lavorano a costruire la Sinistra arcobaleno ma stabilire quali politiche queste debbano perseguire. Io penso che siano soprattutto quelle del lavoro.
Anche e soprattutto per questo motivo, non ho alcun problema a trovare, in alcune figure del passato, affatto o non solo di cultura comunista, ma di matrice e cultura socialista, ottimi e validi riferimenti. Quella del socialista autonomista Riccardo Lombardi e di altri due importanti nomi - a mio parere innervati da identica tensione riformatrice - della sinistra italiana, Fernando Santi e Giorgio Amendola. Di Lombardi ritengo centrale la tensione ideale che - spiegava proprio in un dialogo con te, sul Riformista , Fausto Bertinotti - «pur nella sua coerenza acomunista, non ha mai rifiutato l'idea di una rottura del sistema capitalistico, anzi la cercava». L'autonomismo lombardiano era cioè molto diverso dal pensiero riformista autonomista classico del Psi, che accettava supinamente l'idea di un compromesso strategico con il capitalismo, portandolo a essere sempre subalterno a esso (e alla Dc). Non a caso, il vero cavallo di battaglia lombardiano è sempre stato quello delle "riforme di struttura", da interpretarsi «come una serie di duri colpi all'accumulazione capitalistica, e quindi al sistema». Si trattava, allora come oggi, di osare anche l'accusa di "neo-giacobinismo", nel preparare e avallare l'esperimento del centrosinistra, di cui Lombardi rifiutava nettamente l'annacquamento del programma. Di fronte all'idea, cioè, che bisognasse allearsi - allora con la Dc, oggi col Pd? - "solo" per salvare la democrazia, Lombardi rompe. E torna a investire sul partito, nella speranza (allora risultata vana, speriamo non lo sia oggi) di accumulare e far crescere le forze di una sinistra (il più possibile unita) per rilanciare in grande stile le "riforme di struttura". Anche dall'opposizione, se non si può dal governo. Su altrettanto grandi riforme, il governo Prodi e l'Unione si erano impegnate, ma oggi segnano il passo.
Di come vanno interpretate e vissute le riforme di strutture parlava così, se pur con robusto realismo, una eccezionale figura di sindacalista socialista unitario della Cgil, Fernando Santi, al XX congresso: «Noi non propugniamo la trasformazione totale e immediata della nostra struttura sociale, ci rendiamo conto che abbiamo la possibilità di risolvere soltanto i problemi che sono maturi in noi. Il che non voleva dire, per Santi - e non vuol dire per noi della sinistra oggi - che «non perdiamo il contatto con la realtà. Il vuoto massimalismo è il peggior nemico di ogni serio movimento operaio organizzato».
Nessun vano sogno neogiacobino, dunque, ma crudo realismo. Che a maggior ragione si imporrà oggi e domani di fronte alla possibilità che il nostro maggiore e principale alleato, il Pd, possa virare sempre più verso accordi neocentristi e neoconfidustriali. La sinistra d'alternativa deve riprendere e rilanciare, dunque, l'autonomia del suo progetto, deve vivere nello spazio grande e nel tempo lungo, per creare una grande forza europea del XXI secolo. Se tale è l'ambizione, tutto va ripensato, compreso l'essere o meno alleati del Pd, in chiave strategica. Ecco perché, come ha detto Bertinotti, «riconosco al Pd il diritto di trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione». Ciò non implica affatto che la scelta tattica e strategica della sinistra che ci stiamo impegnando a costruire debba, ineluttabilmente, essere quella di una sorta di auto-condanna all'opposizione e che tale forza non debba porsi, con intelligenza e serietà, il problema del governo. Anzi, tutt'altro. E qui sovviene la storia e la cultura politica del Pci, che non solo si è impiantato, in modo duraturo, nel profondo della società italiana, costruendo un vero partito di massa, ma non ha mai rifiutato "a prescindere" responsabilità di governo, né nel secondo dopoguerra né durante la solidarietà nazionale.
Una tensione nazionale e europea, riformista (nel miglior senso "socialdemocratico" del termine) e riformatrice, quella del Pci, presentissima già in tempi altrettanto lontani, nel sogno di un dirigente pienamente riformista, a mio parere, come Giorgio Amendola. Che già nel 1964 lanciava con coraggio l'idea di un "partito unico della classe operaia". Perché - scriveva su Rinascita in risposta a Norberto Bobbio - «in Italia l'unificazione non si può fare né su posizioni socialdemocratiche né su posizioni comuniste». «È sulla base di un programma politico di rinnovamento - continuava Amendola - che si dovrà formare il nuovo partito unico, aperto. Non un partito ideologicamente neutro - chiariva - ma nemmeno ideologicamente chiuso, un partito politicamente attivo, capace di convogliare attorno a un programma politico forze di diversa origine e ispirazione». Parole e concetti simili dovrebbero essere accolte e condivise da chi oggi lavora per la riuscita dell'attuale nostro progetto di unificazione di una sinistra socialista, comunista, pacifista, femminista e verde. È su questa base che mi voglio misurare nella costruzione di una nuova Sinistra che sappia interloquire - oggi dal governo, domani si vedrà - anche con i liberaldemocratici del Pd e di certo con forze di ambito socialista. In Italia come in Europa.
il manifesto 29.12.07
Al confessionale del partito
Le autorappresentazioni pubbliche dei militanti comunisti rilette nel volume «La fabbrica del passato» di Mauro Boarelli per Feltrinelli. Documenti importanti per comprendere la formazione dei quadri del Pci
di Cesare Bermani
Forse il più grande archivio della scrittura popolare esistente al mondo è quello delle autobiografie richieste dai partiti comunisti ai propri militanti sin dall'origine dell'Internazionale comunista.
Nel decennio successivo alla Liberazione anche il Partito comunista italiano richiedeva ai propri militanti la narrazione della propria autobiografia. Mauro Boarelli, nel suo La fabbrica del passato (Feltrinelli, pp. 288, euro 19) ha studiato i racconti stilati da 1024 militanti, prevalentemente bolognesi, conservati presso l'Istituto Gramsci dell'Emilia Romagna. Ne deriva un'antropologia dei militanti comunisti nel Pci stalinista di quel decennio. Queste autorappresentazioni - soprattutto quando venivano chieste oralmente alla Scuola centrale di partito di Bologna - si tramutavano in un esame di coscienza pubblico che si concludeva ritualmente con l'ammissione dei difetti da correggere, con il riconoscimento del partito come strumento fondamentale della propria motivazione politica e con l'impegno ad adoperarsi per la realizzazione dei buoni propositi dichiarati. A turno gli ascoltatori si trasformavano da inquisitori in inquisiti, in uno scambio di ruolo che abituava al controllo reciproco tra militanti, fondamento della pratica denominata «critica e autocritica», strumento che finiva per invadere anche la vita privata e che trovava sanzione nello statuto del partito.
A scuola dai gesuiti
Il metodo rivelava un inconfessato peso della religione cattolica sul nascente «partito nuovo» togliattiano e richiamava per analogia il perinde ac cadaver dei gesuiti. Afferma oggi uno dei militanti comunisti intervistato da Boarelli: «Io ho fatto una breve esperienza cattolica. Quindi ho frequentato i circoli cattolici, vedevo che c'era la tendenza a sentirsi sempre in colpa, cioè a ricercare fin nel profondo le più piccole colpe che tu potessi avere, le tue abitudini di vita o cose di questo genere, e io questo l'ho ritrovato nei corsi di partito. Allora mi sembrava una bella cosa. Mi sembrava intanto di liberarmi di scorie, di colpe. Poi il piacere di dire agli altri: "Guardate io sono un esempio per voi.perché a lavorare mi comporto così, perché nella vita mi comporto così, perché i comunisti devono essere così"».
Mario Spinella, che dirigeva la scuola di Bologna, scriveva nel 1948 su «Rinascita» che queste confessioni pubbliche «non avvenivano senza scosse, senza crisi. Non è raro vedere compagni che hanno dietro le spalle anni di vita illegale e di lotta partigiana, che hanno resistito senza battere ciglio alle torture della polizia, con le lagrime agli occhi per la raggiunta consapevolezza delle proprie deficienze di carattere». Solo sette anni dopo, sulla stessa rivista, Carlo Salinari avrebbe notato che in quell'articolo «sembrava che il principale compito della scuola di partito fosse di abituare gli allievi all'esercizio dell'autoflagellazione». E nell'estate dell'anno successivo lo stesso Spinella avrebbe ricordato «con raccapriccio l'esaltazione che gli venne fatto di compiere della pratica confessionale delle autobiografie pubbliche».
A Milano quando, nel 1957, un IX congresso del Pci milanese elesse una nuova segreteria, Armando Cossutta, Rossana Rossanda e Francesco Scotti, entrati nell'Ufficio Quadri, si trovarono di fronte a schedari da dove - scrive Rossanda - «vennero fuori pacchi di biografie con sfoghi di cuore e miserande confessioni di colpe personali (del tipo: ho tradito mia moglie)». Sicché Cossutta «propose di dare il tutto alle fiamme senza leggere. C'era qualosa di torbido in quel bisogno di aprirsi al dirigente come a un sacerdote.. Quegli schedari andarono distrutti».
Quelle autobiografie - ha ricordato Giuseppe Marino nel suo Autoritratto del Pci staliniano (Editori Riuniti, 1991) - potevano infatti servire all'occorrenza «per più puntuali indagini e accertamenti, relativi al carattere, alle capacità e al livello di cultura, persino alla moralità, alle abitudini e ai comportamenti nella vita privata» dei vari militanti, ma «non di rado si concretizzavano in vere e proprie note caratteristiche riservate, cioè precluse alla conoscenza dei rispettivi intestatari e conservate negli archivi delle Federazioni per l'uso discrezionale che avrebbero potuto farne i dirigenti di grado superiore», trasformandosi così in uno strumento di discriminazione all'interno del partito. Erano il sale dello stalinismo e la loro distruzione - avvenuta solo dopo il XX Congresso del Pcus (febbraio 1956) e l'VIII Congresso del Pci (giugno 1956) - sta a simboleggiare veramente la fine di un'epoca.
Però è una fortuna che non tutti abbiano preso la decisione dei tre dirigenti milanesi, perché comunque in quelle confessioni una generazione di comunisti ha raccontato se stessa, anche se accettando di sottoporsi a una «prassi pedagogica» che piacerebbe a tutti noi che non fosse mai esistita.
La biblioteca del militante
Quei materiali gettano una vivida luce sul modo di essere e sulla cultura di quella generazione di militanti comunisti. Per esempio, attraverso quelle autorappresentazioni, Boarelli ne ha potuto ricostruire le letture, i loro libri: Il tallone di ferro di Jack London, Furore di John Steinbeck, La madre di Maksim Gor'kij, Come fu temprato l'acciaio di Nikolaj Ostrovskij e Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'Urss, la Bibbia dello stalinismo supervisionata da Stalin stesso.
Questi libri vengono sottoposti a un'interessante analisi, che mette in luce come essi influenzassero non poco le stesse autorappresentazioni. Per esempio, nel romanzo di Ostrovskij, il protagonista dice alla donna che ama: «Sarei un cattivo marito se ti lasciassi credere che appartengo prima a te e poi al Partito. Io apparterrò prima al Partito e poi a te e agli altri parenti». E anche nelle autorappresentazioni sono frequenti affermazioni similari, per esempio: «Rispetto e voglio bene a mia moglie. Però al di sopra di tutto questo, il Partito».
Nelle autorappresentazioni Boarelli ha notato anche tracce di una dimensione religiosa, messianica e millenarista, che è pure ben presente nei libri di London e Gorkij, dove la similitudine con Cristo accomuna taluni loro personaggi e dove il movimento rivoluzionario che essi rappresentano ha un carattere religioso. Entrambi questi scrittori giungono infatti a identificare religione e socialismo, non poi così diversamente dall'evangelismo socialista di Camillo Prampolini, del quale ci sono in numerose autorappresentazioni vistose tracce.
Mi sono iscritto alla Fgci alla fine del 1955 e di quel partito stalinista ho conosciuto, per fortuna, soltanto i rantoli. Però nella mia biblioteca quei libri ci sono tutti, anche se ho subito avuto una netta ripulsa del manuale ispirato e in parte scritto da Stalin. Ricordo che Stefano Schiapparelli, già segretario della federazione del Pci di Novara, era solito ripetermi che un comunista doveva leggere non più di due libri e che uno dei due fosse la Storia del Partito comunista (b.) dell'URSS.
All'atto dell'iscrizione al partito gli dissi che l'avevo letta e che se, dopo averla letta, chiedevo ancora l'iscrizione dovevo proprio essere comunista.