sabato 18 ottobre 2008



Repubblica 18.10.08
Scuola, la protesta riempie le piazze mezzo milione contro la Gelmini
In 350mila solo a Roma. Contestazione a sorpresa sotto il ministero
di Marina Cavallieri


ROMA - Sotto un ombrellino zuppo color arcobaleno un bambino di otto anni grida serissimo e senza timidezze: «Giù le mani dalla scuola». È uno dei tanti baby-difensori dell´istruzione pubblica arrivato, con mamma e maestre al seguito, nel corteo che ieri ha attraversato la città. Il popolo della scuola è sceso in piazza, compatto come mai, incredibilmente unito. Sono trecentocinquantamila. Forse di più. Marciano indifferenti alla pioggia che scende fitta, legati dagli stessi bisogni più che dalle bandiere.
È un venerdì duro di protesta e lo sciopero nazionale indetto dai sindacati autonomi riunisce migliaia di persone ma non tutte con la stessa divisa. Partono puntuali da piazza della Repubblica, ma è un corteo senza sorrisi e senza folclore, «incazzato», non ci sono balli e canti a rallegrare, come non c´è la sinistra radicale e chic che a volte s´incontra. È un corteo pacifico che non intende però fare sconti. Ci sono gli operai di Pomigliano, i vigili del fuoco con la divisa, quelli con lo striscione «Ridateci il ministero della sanità» ma sono i rappresentanti della scuola i più numerosi. Sono qui contro «un attacco a tutto campo» e per arginare «una distrazione collettiva» che consente di mandare alla deriva la scuola pubblica. Sfilano oggi e minacciano di farlo ancora perché questa battaglia «si vince ora o si perde per sempre». Ed è qui, nelle strade dense di folla, che circola palpabile una preoccupazione profonda, si diffonde pericolosa una nuova paura.
Ecco una maestra di Monterotondo, si chiama Gigliola: «Stanno distruggendo la scuola, non è un problema di grembiulini, sono trent´anni che insegno, sono stata maestra unica ma lavorare con altri colleghi è stato solo bello e utile. Ora con questi tagli avremo classi sempre più numerose e sarà più difficile seguire i bambini». Ecco un gruppo di genitori con i figli che indossano una maglia «Gelmini non fa rima con bambini». «Non siamo cobas», dicono, «non facciamo politica attiva, andremo anche al corteo del 30 ottobre. Quello che accade oggi è una lenta deriva perché non è che le cose cambino tutte insieme, però un decreto oggi, uno domani, accadrà che un giorno ci si sveglierà con la scuola pubblica che non c´è più». Ecco una maestra, una mamma e un bidello, vengono dalla periferia romana: «Io solo sono cobas», dice l´insegnante, «una grande trasformazione è in atto: con la legge 133 si decide che l´orario sarà di 24 ore, si torna alla scuola del passato e sarà una scuola di élite. Con le classi sempre più affollate, andranno avanti solo quelli che hanno le famiglie dietro che li possono seguire ed aiutare».
Quando il corteo arriva a piazza San Giovanni la coda è ancora a piazza Esedra, gli organizzatori - Cobas e Rdb - gridano soddisfatti: «In questa piazza negli ultimi anni ridotta a spettacolo ci siamo ripresi lo sciopero». Lentamente arrivano tutti, è un popolo distante e incompatibile con il mondo dei Berlusconi, dei Tremonti, delle Gelmini: «Con i ricchi statalisti con i poveri liberisti», scandiscono. Un operaio di colore che viene dal Madagascar ripete: «Sono preoccupato, sono in Italia da 14 anni, i miei figli sono nati qui, a scuola vanno bene ma temo che i più piccoli incontreranno solo ostacoli, è un governo razzista».
«I numeri di questa protesta sono indubbiamente enormi», dice Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas della scuola. «Uno straordinario successo, ma è soprattutto una grande mobilitazione popolare perché le cifre dello sciopero sono superiori alle nostre forze. Quello che ha spinto tanta gente a venire è aver constatato come il governo quando vuole può intervenire. È stato così con l´Alitalia, con le banche, solo per la scuola non ci sono soldi».
Alla fine uno spezzone del corteo di soli studenti si dirige sotto il ministero di viale Trastevere dove rimarrà sorvegliato dalla polizia, controllato da elicotteri. Ma lo sciopero ha attraversato tutta l´Italia, cinquecentomila complessivamente i lavoratori che hanno manifestato, creando disagi nella sanità e soprattutto nei trasporti. Mentre in molti atenei, da Milano, a Genova, a Ferrara, sono continuate le mobilitazioni. È solo l´inizio, dicono.

l’Unità 18.10.08
Scuola: 350mila no. Gelmini: non capisco
Scuola di classe, trecentocinquantamila no
Maestre, prof, studenti medi e universitari al corteo di Roma contro la riforma Gelmini: «È solo l’inizio»
di Maristella Iervasi


Un fiume. Secondo gli organizzatori almeno 350mila persone sono sfilate a Roma contro la scuola del governo Berlusconi. In piazza c’erano insegnanti e universitari, bambini delle materne e genitori per lo sciopero generale indetto dai Cobas e da Rdb. Ma si è manifestato anche in altre città mentre proseguono le occupazioni delle scuole e degli atenei. Il ministro Gelmini ha confessato di non capire i motivi della protesta, mentre il Capo dello Stato ha dichiarato: «Ma non bisogna dire solo no e farsi prendere dalla paura». E intanto sei regioni faranno ricorso alla Corte Costituzionale per illegittimità della riforma.

C’ERA UN POMPIERE sulla barella con accanto Brunetta che succhia l’ultima goccia di sangue al moribondo. C’era l’ambulanza di San Precario arrivata dall’Abruzzo con dentro i Co.co.co. delle Usl. C’erano le bandiere rosse dei Cobas, che hanno indetto lo sciopero nazionale. Ma sopra tutti c’erano loro: gli anti-Gelmini. Tantissimi bambini con le loro mamme e maestre, prof e studenti medi, universitari e ricercatori di tutti gli Atenei. Con i loro cori, striscioni e proteste hanno oscurato il sindacato autonomo. E sotto la pioggia battente di Roma hanno dato vita ad un corteo rumoroso e colorato, sfilando in 350mila fino a piazza San Giovanni. Ma all’improvviso, mentre Piero Bernocchi dei Cobas dal camion-palco «brindava» al successo della manifestazione, gli studenti più grandi si dileguono. Per poi ripartire al grido di «Roma libera» alla «presa» del ministero dell’Istruzione.
«Mariastella stiamo arrivando...», urla al megafono Carlo della facoltà di Lettere de La Sapienza. «Corteo auto-organizzato - è l’invito -. Chiediamo che non ci siano bandiere di nessun tipo. Solo la nostra voce e i nostri striscioni». E i pochi carabinieri che sono in fondo a via Labicana, fanno fatica a contenere i 50mila ragazzi. I liceali e gli universitari accettano di concordare il percorso che porta dalla Gelmini, ma giunti sul Lungotevere sfondano il cordone delle forze dell’ordine e di corsa attraversano il ponte prima dell’Isola Tiberina. «Occupiamo il ministero! Gelmini, veniamo da te. Dimissioni!». E lo spauracchio fa sì che la difesa di Trastevere «indossi» gli scudi e i manganelli. «Finanzieri, poliziotti... dovete essere dalla nostra parte, anche voi avete dei bambini, anche per voi ci sono tagli. Il nemico è lì, nel ministero, non siamo noi», urlano i ragazzi. Poi a turno prendono la parola con il megafono: «Volevano impedircelo perchè Roma è solo comando e sicurezza. Invece no - dice Bruno di Ingegneria - in questa città c’è gioia, indignazione e rabbia. La legge 133 non siamo disposti a mandarla giù. Per Gelmini e Berlusconi siamo solo una minoranza rissosa? Ma siamo noi il paese reale. Non vogliamo fare atti di vandalismo, vogliamo solo giustizia». La parola passa a Michela, precaria: «Sdraiamoci a terra e restiamo uniti. L’Italia siamo noi e faremo un casino... ». Poi è la volta di un insegnante di scuola media: «Nel 1985 ero all’università. Mi sono fatto la Pantera - spiega - ma un movimento di protesta studentesca come questo non l’ho mai visto... è la prima volta nella storia che tutte le scuole dalle materne all’università sono compatte». Le mani del movimento anti-Gelmini si alzano all’unisono e un solo coro intona a ripetizione: «Noi la crisi non la vogliamo. Noi la crisi non la paghiamo». E oltre alla Gelmini anche Brunetta finisce sotto tiro: «Renato, Renato, questo decreto va ritirato...».
Solo alle 16 il movimento si scioglie. «Torniamo alle nostre facoltà e riuniamoci in assemblea - ma questa protesta non è che l’inizio». Così laddove non sono ancora partite le occupazioni il calendario prevede: lunedì azioni di lotta; martedì assedio al Senato accademico...
Tutta Roma parla solo del movimento anti-Gelmini. Chi non è uscito dalle scuole si affaccia dalle finestre per applaudire i manifestanti (liceo scientifico Newton di via dell’Olmata). E chi ha una telecamera in casa riprende dai palazzi la protesta dei bambini dell’elementare e lancia caramelle sugli ombrelli (via Cavour e via Merulana). Anna, 10 anni, della «Principe di Piemonte», è con la sua maestra e due compagne di classe. Non ha il grembiule ma un cartello: «Non vogliamo tornare a una scuola di classe. Il meglio per pochi, gli avanzi alle masse». Riferimento chiaro alla mozione leghista sulle classi per gli immigrati. E Antonio Nocchetti, della onlus «Tuttiascuola» non nasconde un timore: che si possa arrivare ad una nuova ghettizzazione, ai mini-manicomi in cui infilare gli studenti con disabilità. Così i genitori esorcizzano la preoccupazione portando in spalla nel corteo una grande gabbia blu, con dentro una sedia a rotelle.

l’Unità 18.10.08
Marcella, la prof: «Oggi dovevo essere qui»
54 anni, una vita alle elementari: «La politica
non c’entra, tolgono il futuro ai nostri ragazzi»
di Federica Fantozzi


L’UNICO striscione che non sanguina è il suo: «Gelmini risplendi di luce propria? Ai posteri l’ardua sentenza». Se non si scioglie sotto la pioggia, è merito del ferro da stiro passato sui colori acrilici. Destinati agli alunni, ma, come per risme di carta, scotch e
pennarelli, non c’è peculato: «Se tieni al lavoro che fai, ti metti le mani in tasca e compri i materiali che non ci sono».
Marcella Patassa insegna italiano e storia alla primaria Giuseppe Verdi di Santa Maria delle Mole, Castelli Romani. Una scuola normale, non di trincea: 280 bambini, 14 classi da 16 a 25, due stranieri ognuna, 33 docenti, palestra e cortile di cemento, la richiesta al Comune di un pezzo di giardino per giocare.
Una maestra normale: 54 anni, piccola e bruna, pantaloni gessati e golfino sotto il k-way, occhiali dalla montatura trasparente. Davanti ha la pensione tra 6 anni, alle spalle 32 di insegnamento tra ruolo e fuori ruolo. A Lavinio, ad Ariccia, a Cava dei Selci, alle scuole serali, un anno dalle suore oblate. Nell’82 è stata quel maestro unico che ora tornerà: «Ma sono altri tempi. Prima si trattava di leggere, scrivere e far di conto». Gli ex allievi le scrivono, ma il vicolo della nostalgia è cieco: «La società è più veloce, pressante. I bimbi hanno difficoltà a mantenere l’attenzione. Quando le mamme non lavoravano il doposcuola era un’opzione, ora il tempo pieno è una benedizione».
Alla scuola «G.Verdi» si fanno 40 ore con due insegnanti, più inglese e religione. La retta costa 86 euro a trimestre; la mensa 2,75 dal primo al dolce. Si pagano a parte il pulmino e la «prescuola» mattino o sera. Santa Maria è un paese di pendolari, la scelta obbligata per figli di operai, artigiani, professionisti.
Marcella non ha tessere di partito, vorrebbe prendere «un pezzetto dall’uno e dall’altro», non ha protestato contro Moratti e Fioroni, diffida degli «estremisti». Quando i ragazzi fradici urlano al ministro «vaffanculo» e «buttana», sussulta: «A volte ti riducono in un modo...». Si è chiesta se scendere in piazza, si è risposta che lì i greci discutevano tutto ed era una democrazia. In gruppo hanno preso il treno per Termini: «La G. Verdi ha chiuso i battenti per un giorno».
Per 1600 euro, la sua giornata comprende sveglia alle 7, colazione, tragitto da Due Santi, la frazione di campagna in cui abita, lezione, rientro, pranzo, faccende di casa, correzione dei compiti dalle 16 alle 20, cena. Fannulloni? Ore vuote? Sogghigna: «No, usate per progetti. Gite, cura dell’ambiente, educazione al gusto. Con i bambini non puoi correre, devi ascoltarli». C’è il giornalino con le pagine «accade nel mondo» e «accade a scuola» e il concorso di poesie. Marcella lo accantona: «Non sarà più possibile. I tagli significano, semplicemente, nozionismo anziché creatività. Ci sarà un impoverimento didattico, culturale, umano». Il maestro unico del nuovo millennio segnerà la fine del rapporto uno a uno: «Impossibile con 30 ragazzi».
Nubile, sei nipoti tra 15 e trent’anni, scarpina fino a San Giovanni pensando ai precari senza futuro. Non alle sue incertezze: se i suoi 19 allievi finiranno accorpati, se rimarrà di serie A o B, se finirà in un ministero. Non teme il grembiule né i voti, ma strutture fatiscenti e aule-ripostiglio: «Non c’è la metratura, nessun edificio è a norma». Il peggio? «Le classi differenziali è razzismo». Quell’argomento è miele, i colleghi accorrono, negano rallentamenti: «In un mese uno straniero impara l’italiano e un italiano che c’è chi lascia gli affetti per mangiare». I timori di Veronesi? «Un bravo scrittore ma non un genitore illuminato».
Si pensa alla bimba rumena che non spiccicava una parola e la classe l’ha aiutata con le immagini, e se l’è cavata alla grande. O al bulgaro, figlio di ragazza madre, che in aula non studiava ma aveva amici. Ai casi «problematici» con handicap o genitori separati.
Intorno, corrono piccole sagome: giusto portare i bimbi ai cortei? «Devono sapere cosa accade intorno, se non troppo piccini». In classe lo spiega? «Parlo poco, insegno che ogni messaggio va letto tra le righe». Cosa le mancherà di più? «Gli insegnanti di Frosinone e della Calabria, con le graduatorie provinciali - dice Marcella che è umbra di Sellano - Sono bravissimi».
Dopo una vita defilata usa parole come «lotta» e «crollo» perché vede a rischio la sua missione: «Forse fa comodo il popolo ignorante». A chi dice che non cambierà niente? «Cambierà tutto. Non più la Carta ma la legge del più forte. Non la giustizia sociale ma la selezione naturale». A chi dice: ho studiato nel pubblico ma non ci manderei mio figlio? «Sbaglia. Uscito dalla scuola pubblica suo figlio non avrà paura del mondo. Non si può vivere in una bolla di cristallo».

l’Unità 18.10.08
Gelmini sul decreto: «La sinistra difende una scuola indifendibile»


È FIRMATO «Mariastella Gelmini - gruppo di lavoro» l’opuscolo di 5 pagine, dal titolo «istruzione», che i collaboratori del ministro hanno distribuito ai senatori del Pdl e della Lega nord nell’incontro con la titolare del dicastero di viale Trastevere, che si è svolto mercoledì scorso a Palazzo Madama. tema della riunione, ovviamente, la riforma della scuola.Tre titoli per una sorta di promemoria dedicato alla contestata riforma: «La scuola del centrodestra», «Tagli? no, lotta agli sprechi per riqualificare la scuola italiana», «la sinistra difende lo status quo».
- La scuola del centrodestra. Qui vengono spiegate le ragioni delle scelte contenute nel decreto all’esame del Senato. si parte dal ritorno al grembiule che trova le sue motivazioni nel «risparmio per le famiglie, eguaglianza di tutti i bambini a scuola, fine della corsa alle griffe». C’è poi il 5 in condotta, necessario per «un ritorno al rispetto dell’istituzione scolastica contro i fenomeni del bullismo». sei sono invece le ragioni del ritorno al maestro unico: «al bambino serve un punto di riferimento unico; in tutti i paesi d’europa c’è il maestro unico; aumentare il numero di maestre per bambino è servito ai sindacati per aumentare posti di lavoro proprio quando diminuiva il numero dei bambini; al maestro sarà affiancato l’insegnante di inglese e di religione; con il maestro unico l’italia era terza nelle classifiche Ocse, con più maestri è scesa all’ottavo posto; ridurre il numero dei maestri per bambino consente di aumentare il tempo pieno del 50%». e questo perchè «ci sono più insegnanti per il tempo pieno».
sulla scelta di un ritorno ai voti si dice: «Si torna alla chiarezza contro i giudizi spesso incomprensibili. un 4 è un 4. un 7 è un 7». Breve accenno agli stranieri: «sarà possibile frequentare dei corsi di italiano pomeridiani per gli stranieri». Infine, «più poteri ai presidi nel reclutamento dei docenti» e «non si toccano gli insegnanti di sostegno e le scuole di montagna».
- tagli? no, lotta agli sprechi nessun taglio ma lotta agli sprechi perché «il 97% del bilancio del ministero va per pagare stipendi; in italia ci sono più bidelli che carabinieri; più di 10 mila classi con meno di 10 alunni; 1.350.000 dipendenti sono troppi; in una scuola serale di Mestre ci sono 11 insegnanti e nessun iscritto; a Como una classe elementare ha 9 maestre». Dunque, l’obiettivo è avere «meno professori ma più pagati con premi di produttività fino a 7000 euro annui; più soldi per innovazione e formazione; premiare studenti e professori migliori; più libertà nel reclutamento dei docenti».
- la sinistra difende lo status quo. Parole d’ordine nette nel capitolo dedicato alla sinistra: «la sinistra e i sindacati difendono l’indifendibile: una delle scuole peggiori d’Europa; è finita un’epoca. Col governo Berlusconi la scuola non sarà più un ammortizzatore sociale e uno stipendificio. I sondaggi dimostrano che gli italiani apprezzano le iniziative del governo sulla scuola; la sinistra ha creato questa scuola: 14 euro lordi l’ora per un insegnante, quasi come un collaboratore domestico».

Repubblica 18.10.08
Gli studenti invadono viale Trastevere, la Gelmini si rifugia all´Eur
Il ministro dribbla il corteo "Proprio non li capisco ma ormai sono abituata"
Mi piace Paola Cortellesi quando mi imita in tv, rivedo le sue gag anche tre o quattro volte
di Mario Reggio


ROMA - Per Mariastella Gelmini è stata un giornata davvero particolare. Venerdì 17 novembre 2008 verrà ricordato per molto tempo ancora. Eppure il ministro della Pubblica Istruzione non sembra scomporsi. «Davvero non comprendo le ragioni della protesta - commenta stupita - e sono sempre più convinta che molti di coloro che scendono in piazza in realtà non abbiano letto il decreto, non capisco come mai si occupino le università e si facciano manifestazioni nella scuola superiore, che sono ambiti marginalmente toccati dal provvedimento».
Una giornata particolare, apparentemente normale. Sveglia alle 7, colazione, poi dalla suo appartamento di Roma l´intervista telefonica alla trasmissione di Maurizio Belpietro su Canale 5. Di chi è la colpa della bagarre che attraversa scuole e università? «La sinistra sta dicendo alle famiglie che scomparirà il tempo pieno e che addirittura verranno meno gli insegnanti di inglese e informatica. È una grande bugia - continua Mariastella Gelmini - sia i docenti aggiuntivi che il tempo pieno verranno potenziati».
Il tempo stringe per il ministro, per le 10 e un quarto è convocato il Consiglio dei ministri. L´Audi grigio metallizzata che l´attende sotto casa parte di gran carriera e punta su Palazzo Chigi. All´ordine del giorno i prezzi dei materiali di costruzione, l´autotrasporto e la proroga degli sfratti. A mezzogiorno i ministri vengono messi in libertà. Mariastella Gelmini, nel bel mezzo di una Roma paralizzata dallo sciopero dei Cobas e dal traffico impazzito, riesce a raggiungere lo stesso il ministero dell´Università all´Eur. Poco dopo l´una i primi studenti delle superiori che hanno abbandonato il corteo che affolla piazza San Giovanni arrivano sotto il ministero in viale Trastevere. Carabinieri e poliziotti non tentano di bloccare il corteo, che non è autorizzato, lo scortano con discrezione. Le migliaia di studenti non sanno che Gelmini non è passata di là ieri mattina e che ha preferito puntare direttamente sull´Eur.
Ma cosa passa per la testa del ministro mentre nelle strade della capitale e di altre città il suo cognome è issato sui cartelli, dipinto sugli striscioni e oggetto di slogan non proprio lusinghieri? «Ho vissuto la giornata con grande serenità, ho visto le foto ed i filmati della manifestazione su Repubblica.it. Alcune davvero divertenti. Le proteste? Ormai sono abituata, tutti i giorni c´è qualcuno che protesta sotto il ministero - commenta Mariastella Gelmini - mi piace molto Paola Cortellesi quando mi imita in tv, è davvero brava e rivedo le sue gag anche tre o quattro volte». Il ministro consuma un frugale pasto al ministero dell´Università: un tramezzino accompagnato da un succo d´arancia, poi un lungo summit con i direttori generali dell´università. Chissà quali sorprese ci aspettano nel prossimo futuro. E l´assist del presidente Napolitano? «Non commenterò mai le sue affermazioni e poi non ho alcuna intenzione di tirarlo per la giacchetta».

l’Unità 18.10.08
In piazza per la scuola pubblica
Stamani cortei degli studenti in varie città toscane. A Firenze attese 10mila persone
A Pisa lezioni in Piazza dei Miracoli e gli iscritti di matematica chiedono l’elemosina
di Maria Vittoria Giannotti e Silvia Casagrande


AL LICEO CASTELNUOVO i ragazzi hanno
deciso di interrogare i giornalisti: «Ma perché
per fare un titolo a effetto scrivete che siamo tutti dei vandali?»

La protesta del mondo della scuola contro le norme Gelmini-Tremonti, che tagliano fondi, classi e insegnanti all’istruzione pubblica (dalle elementari fino all’università) continua. Questa mattina a Firenze, con partenza da piazza San Marco alle 10, si terrà nelle vie del centro una manifestazione degli studenti con un corteo per le vie del centro e conclusione in Santa Croce. Gli organizzatori si aspettano migliaia di persone. Dalla Questura è stata prevista la presenza di almeno 10mila studenti. Cortei e sit-in sono annunciati anche in altre città toscane. A Sesto Fiorentino si svolgerà un’altra manifestazione con la annunciata partecipazione di circa 1500 studenti che percorreranno le strade del comune per poi raggiungere piazza Vittorio Veneto. Sempre a Sesto, nel pomeriggio si terrà un’altra manifestazione con corteo, promossa dai genitori del 1° circolo didattico delle scuole locali, per la quale è annunciata l'adesione di circa 500 persone.
Corteo anche nelle strade di Empoli per tutti gli studenti delle scuole superiori, accompagnati da genitori, docenti e personale non docente. Appuntamento alle 10 in piazza dei Leoni e ritrovo finale in piazza della Vittoria.
Ma le manifestazioni di oggi potrebbero segnare la fine dell’occupazione in molti istituti superiori. Gli alunni del Dante hanno già fatto sapere che lunedì torneranno sui banchi: «Abbiamo raggiunto gli scopi della nostra protesta - spiegano -, che era tesa a informare la cittadinanza sugli effetti che la riforma avrà sulla scuola pubblica».
Più incerti sul futuro delle loro occupazioni la maggior parte degli altri istituti, che aspettano di prendere una decisione comune nel corso di un’assemblea che si svolgerà oggi al termine della manifestazione. Una delle proposte è di prolungare l’interruzione della didattica fino a martedì, giorno in cui la legge 137 verrà discussa al Senato. Ma, «anche se in altre forme, la nostra lotta continuerà», assicurano gli studenti. Proseguono invece le mobilitazioni degli universitari. A Pisa ieri hanno fatto lezione in piazza dei Miracoli davanti a gruppi di turisti un po’ disorientati. Mentre a Firenze studenti del dipartimento di Matematica hanno trascorso parte del pomeriggio a chiedere l’elemosina agli automobilisti fermi davanti ai semafori vicini alla loro facoltà fra piazza Dalmazia e viale Morgagni. «Un gesto provocatorio - spiegano - per dimostrare come si possono finanziare gli atenei italiani». In tutto però hanno raccolto solo un paio di euro.
Più degli automobilisti fa la Regione che, tramite l’assessore all’istruzione Simoncini, ha deciso di dare “prestiti fiduciari”, fino a 4 mila euro l’anno, agli studenti universitari che frequentano con profitto gli atenei toscani ma che non hanno i requisiti per accedere alle borse di studio.
Allo scientifico Castelnuovo invece è andata in scena una conferenza stampa al contrario. Con gli studenti che hanno intervistato alcuni giornalisti per chiedere spiegazioni a chi, pur di avere un titolo accattivante, li descrive come «vandali», ma soprattutto per far sentire la loro voce. La voce priva di filtri degli studenti, occupa anche le pagine del giornalino autoprodotto «Il Controinformatore» e in questi giorni stanno anche raccogliendo firme per indire un referendum abrogativo.

Repubblica 18.10.08
"Mamma, vieni in corteo con me"
Scuola, oggi genitori, figli e prof sfileranno uniti in centro
La manifestazione partirà alle 9.30 da piazza San Marco: l´arrivo in Santa Croce
di Laura Montanari


Gli striscioni sono già pronti, gli inviti li hanno «spediti» nei giorni scorsi: «Mamme e prof venite con noi a manifestare per difendere la scuola pubblica». E´ un grido d´aiuto, mille mani che chiedono. Generazioni che di solito si scontrano, saldate per un giorno in strada, questo è il desiderio dei ragazzi del coordinamento che in questa settimana hanno occupato licei e istituti medi superiori. Un fronte comune, in marcia insieme, «senza sigle di partito», dietro i cartelli contro la legge 133, la Finanziaria (decreto 137) e contro il maestro unico, le classi più numerose e i tagli alle scuole e le economie in genere a spese dell´istruzione. Un gruppo di mamme «pre-occupate» ha già annunciato di aderire all´appello dei figli e che stamani ci sfileranno con loro.
La questura ha stimato che al corteo degli studenti medi potrebbero partecipare anche più di diecimila persone. E´ la terza manifestazione su scuola-università che si svolge in meno di una settimana. L´appuntamento è per le ore 9 in piazza San Marco, ore 9,30 partenza della manifestazione che taglierà le strade del centro storico, passerà da via Martelli e via Cavour, piazza Duomo, via del Proconsolo, per approdare poi in piazza Santa Croce. Da lunedì quelli delle medie superiori torneranno in aula a far lezione, quelli dell´università ancora no. Cortei e studenti in piazza oggi sono previsti anche a Sesto Fiorentino e a Empoli. «Ma non finisce qui - racconta uno studente del Galileo - il 21 ci sarà la manifestazione regionale e il 30 ottobre quella nazionale a Roma». Ieri mattina in piazza d´Azeglio il collettivo Ztl ha organizzato un incontro fra bambini delle materne e delle elementari, genitori e ragazzi delle scuole occupate. Mentre i bambini giocavano con i colori su grandi fogli preparati dalle ragazze del Michelangelo, gli universitari hanno raccolto le firme dei genitori per una petizione contro la legge 133 e contro il decreto Gelmini. Intanto al liceo scientifico Castelnuovo gli studenti hanno convocato una conferenza stampa al contrario, in cui i ragazzi hanno intervistato i giornalisti. Fra le domande anche: «Quando le nostre occupazioni sono diventate una notizia?», «Perché vi interessate ad aspetti marginali della nostra lotta come quello che ci diciamo in Facebook o come organizziamo le collette per finanziare le occupazioni?».
Questa mattina, al Ginori Conti, ore 9,30 gli allievi che occupano l´istituto di via del Ghirlandaio 52 hanno organizzato un incontro con la parlamentare afghana Joya Malalay impegnata in progetti per l´istruzione femminile, la sanità e alcune iniziative di alfabetizzazione. Sul fronte accademico, a Pisa continuano oggi le lezioni in piazza. Ieri intanto un gruppo di studenti universitari del polo occupato di Matematica ha trascorso alcune ore nel pomeriggio a chiedere simbolicamente l´elemosina agli automobilisti fermi davanti ai semafori vicini alla loro facoltà, in viale Morgagni e in piazza Dalmazia. Un gesto provocatorio, hanno spiegato, per dimostrare come verranno finanziati gli atenei italiani. Agli automobilisti sono stati consegnati volantini in cui si spiegano le ragioni della protesta. Magra però la raccolta dei soldi: due euro in tutto.

Corriere della Sera 18.10.08
Scuola, cortei e blocchi Gelmini: non li capisco
«Non hanno letto il decreto». Classi ponte, critiche dall'Ue
Il commissario europeo Spidla: difficile accettare classi separate, ma le scelte spettano ai singoli Stati
di Enrico Marro


In piazza
Migliaia di persone hanno manifestato ieri in molte città italiane contro le politiche del governo Berlusconi sulla scuola, il pubblico impiego e il precariato. A destra, il corteo degli studenti di Milano.
Nello sciopero organizzato a Roma dai sindacati di base hanno sfilato circa 500 mila persone tra insegnanti della scuola pubblica, genitori, bambini e lavoratori.

ROMA — Mezzi pubblici a singhiozzo nelle grandi città. Numerose scuole chiuse mentre aumentano gli istituti e le Università occupate. Disagi anche negli altri servizi pubblici. Traffico in tilt a Roma e Milano per le manifestazioni di studenti e lavoratori. Il sindacalismo di base (Cobas, Cub e Sdl) canta vittoria: parla di massiccia adesione allo sciopero generale di ieri e di milioni di persone in piazza. Al di là della solita tendenza degli organizzatori a gonfiare i numeri, è certo che sinistra antagonista, sindacati di base e movimento studentesco hanno prodotto una vistosa giornata di protesta. Contro la riforma scuola, primo bersaglio la ministra Mariastella Gelmini, accusata di tagliare fondi e occupazione nella scuola. E contro il governo: oltre a Silvio Berlusconi, i più bersagliati da slogan e attacchi sono stati i ministri Renato Brunetta e Giulio Tremonti. A Roma la manifestazione si è conclusa a piazza San Giovanni, la storica piazza del sindacato.
Nel corteo c'era di tutto. In maggioranza insegnanti della scuola dell'obbligo e studenti. Soddisfatto per questo Piero Bernocchi, leader dei Cobas. Molti i bambini delle elementari, anche a Milano. A Roma tanti indossavano una maglietta verde con lo slogan: «Il futuro dei bambini non è la Gelmini». Un ragazzino portato per mano dal papà aveva addirittura un cartello con la scritta a pennarello: «La Gelmini mangia i bambini. Mattia». Come già in passato il centrodestra polemizza. «È sbagliato strumentalizzare i bambini portandoli nei cortei: è una cosa gravissima, e chi lo fa è un cattivo genitore», dice Maurizio Gasparri, capogruppo dei senatori del Pdl. Sotto una pioggia battente, un corteo di giovani è andato anche davanti al ministero dell'Istruzione, a Trastevere. Secondo Gelmini «la sinistra sta facendo una campagna di disinformazione » e molti dei manifestanti, «di cui non capisco le ragioni, in realtà non hanno letto il provvedimento».
La ministra difende i suoi provvedimenti, dal maestro unico alle classi differenziate per gli immigrati: «È una questione didattica, il razzismo non c'entra», dice, mentre proprio ieri è arrivata una stoccata dal commissario europeo per gli Affari sociali, Vladimir Spidla, per il quale si tratta invece di ipotesi «difficilmente accettabili anche se l'Ue non può farci nulla perché in materia di scuola ogni singolo Stato dell'Unione è sovrano».
Dal palco di San Giovanni improvvisato su un autocarro hanno parlato, oltre ai leader dei tre sindacati, studenti, insegnanti, precari e dipendenti pubblici, che lamentano i tagli alle voci accessorie dello stipendio, la riduzione del salario nei giorni di malattia, il mancato rinnovo dei contratti. In piazza anche un gruppetto di anarchici e qualche decina di militanti dei Carc dietro lo striscione «Contro il governo terrorista» che scandivano lo slogan: «Berlusconi e Gelmini farete la fine di Mussolini». Alcuni giovani hanno scritto sulle vetrine di una banca con le bombolette spray: «La crisi ve la pagate voi». Molti gli attacchi al governo per aver soccorso la finanza in crisi invece di aumentare i salari. Concetti rilanciati anche dal leader di Rifondazione, Paolo Ferrero, che ha partecipato alla manifestazione e da Giorgio Cremaschi della Cgil, che ha aderito anche lui «a titolo personale».
Manifestazioni ci sono state anche a Firenze, Bologna, Genova, Venezia, Napoli, Palermo. Contro la Gelmini si scaglia anche il ministro ombra dell'Istruzione, Pina Picierno, a proposito dell'annunciata presenza della stessa Gelmini alla riunione domani del Parlamento leghista del Nord: «Che ne pensa il ministro Meloni (An) del comportamento della Gelmini?», chiede Picierno, appellandosi al valore dell'unità nazionale, bandiera di An. Infine, sei regioni (Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Marche, Puglia e Sardegna) hanno deciso di ricorrere alla Corte Costituzionale contro le norme della Finanziaria che riguardano la scuola.

Corriere della Sera 18.10.08
Dibattito Il Secolo d'Italia: non regaliamo i giovani alla sinistra come nel '68. Gasparri: proteste a base di menzogne, non vanno sostenute
Destra divisa sulla contestazione
di L. Sal.


ROMA — Ridotta all'osso la questione suona così: la protesta studentesca di questi giorni è di destra o di sinistra? Slogan contro il governo Berlusconi, striscioni contro la Gelmini, bandiere rosse a profusione: non ci dovrebbero essere dubbi. E invece qualche dubbio lo mette in prima pagina il Secolo d'Italia, il quotidiano di An che spesso, per amor di polemica, prova a remare controcorrente. Scrive il direttore responsabile Luciano Lanna: «Non demonizziamo gli studenti e non regaliamoli a Veltroni e Ferrero». Azzardando anche un paragone con il movimento di 40 anni fa: «C'è chi demonizza i ragazzi, si rinchiude a riccio davanti alle loro aspettative. Come i benpensanti e i superficiali fecero alla vigilia del '68, spingendo a sinistra tutta una generazione ». Quasi un'evocazione di quella foto degli scontri di Valle Giulia che, vicino ai celerini, vede anche un pezzo della destra giovanile (furono poi allontanati dal movimento quando Giorgio Almirante e Giulio Caradonna guidarono la liberazione della Sapienza dagli occupanti). In questi giorni Azione giovani non partecipa alla protesta: «Niente occupazioni e cortei — dice il presidente di Azione universitaria Giovanni Donzelli — perché sono politicizzati.
Ma così l'università non funziona e se le soluzioni non arriveranno non avremmo problemi ad esprimere il nostro dissenso, anche contro questo governo». «Il problema — dice Maurizio Gasparri — non è regalare la piazza alla sinistra: alla base di questa protesta ci sono menzogne». D'accordo il ministro della Gioventù Giorgia Meloni: «Può essere una mia distrazione ma finora non ho visto una proposta degli studenti».

Repubblica 18.10.08
Le università italiane a caccia di studenti cinesi


ROMA - Viene inaugurato oggi a Pechino il Padiglione Italia che accoglie le maggiori università italiane presso il China Education Expo, la principale manifestazione dedicata alla formazione in Cina promossa dal ministero dell´Istruzione cinese e sponsorizzata dal Ceaie, l´associazione per gli scambi accademici internazionali. L´evento si tiene all´interno del China World Trade Center. Qui il Padiglione Italia ospiterà una serie di seminari, presentazioni, incontri con gli studenti cinesi con l´obiettivo di far conoscere le offerte formative del nostro sistema universitario.
Il Padiglione Italia è stato organizzato nell´ambito del Progetto Unitalia, la prima iniziativa per favorire la collaborazione tra istituzioni universitarie italiane e cinesi promossa dalla Fondazione Italia Cina, presieduta da Cesare Romiti, e cofinanziata dalla Fondazione Cariplo. L´obiettivo del progetto Unitalia è quello di attrarre studenti cinesi nel nostro paese attraverso la promozione delle diverse opportunità che vengono offerte dal sistema universitario italiano, attraverso la diffusione della lingua e della cultura italiana negli atenei cinesi, con la promozione della formazione universitaria e post-universitaria e con l´accoglienza degli studenti cinesi nelle nostre università. Aumentando la loro presenza nel nostro paese, il progetto vuole contribuire a migliorare le relazioni tra Italia e Cina in modo da poter superare le attuali incomprensioni culturali e linguistiche fra i due paesi. Dopo Pechino, il 25 e il 26 ottobre le università italiane che partecipano al progetto avranno all´interno del Padiglione Italia un´altra vetrina nell´ambito del salone di Shanghai.
(p.co.)

Repubblica 18.10.08
I silenzi della socialdemocrazia
di Massimo L. Salvadori


Nell´ultimo quarto di secolo la macina della storia, che ha preso a girare sempre più veloce, è passata in successione sopra i corpi degli ultimi imperi, quello sovietico e quello americano, cancellando l´uno e riducendo a mal partito l´altro. Ma ciò che è notevole è che tanto il crollo del comunismo sovietico quanto la crisi attuale del primato americano (che è ben possibile sia senza ritorno) sono stati preceduti dal manifestarsi delle più grandi ambizioni di «rinascita» e «rigenerazione», dalla promessa, con toni quasi millenaristici, di «nuove leadership» per il mondo. In un certo senso, naturalmente con tutta la differenza che vi è tra chi finisce in un crollo e chi in una crisi profonda, i governi di Gorbaciov e di Bush il Giovane si presentano come due «vite parallele». Il primo fece un immenso rumore con la sua perestroika e la sua glasnost; il secondo propagandando l´esportazione pacificatrice e unificatrice della democrazia, la guerra agli Stati canaglia e l´estensione globale del libero mercato inteso alla maniera neoconservatrice. Al primo è toccato di assistere al rapido e totale disfacimento dell´Unione Sovietica nel giro di pochi anni e al secondo di vedere l´esportazione della democrazia incagliarsi sugli scogli, il libero mercato comandato dalle oligarchie finanziare provocare una crisi economica devastante, il sogno della supremazia americana fermato dal sorgere di due grandi potenze asiatiche e dal ricostituirsi della potenza russa. La storia dunque è corsa veloce, ed ha anche rovesciato le carte sul tavolo.
Ma in quest´ultimo quarto di secolo non vi sono state soltanto le vicende del comunismo sovietico e del neoconservatorismo americano piombato nel discredito dopo aver agitato la bandiera della democrazia e del benessere universali, bensì anche quella della socialdemocrazia in primo luogo europea. Negli anni tra il 1917 e i primi anni ‘30, passando attraverso la crisi economica del 1929, la socialdemocrazia, influenzata dalle correnti del liberalismo progressista, assunse i tratti che ne avrebbero segnato robustamente il volto per circa il mezzo secolo seguente. Difese contro gli opposti totalitarismi fascista e comunista e le forze conservatrici e autoritarie le istituzioni democratiche parlamentari; fu forza trainante, poggiando anzitutto sui lavoratori di fabbrica e sui sindacati, del sistema del Welfare eretto a tutela degli strati sociali più deboli; si fece fautrice dell´intervento pubblico regolatore nell´economia e patrocinò una strategia di nazionalizzazioni; ebbe, insomma, quel grande ruolo che indusse in proposito a parlare di «secolo socialdemocratico». Sennonché questo ruolo venne messo in crescente affanno dall´assalto neoconservatore e neoliberista iniziato dalla Thatcher nel 1979, madre della grande ondata della deregulation destinata a diffondersi e a dominare fino a ieri.
La socialdemocrazia si proclamò nel 1989 vincitrice all´interno della sinistra internazionale del duro confronto-scontro con il comunismo. Ma quando avrebbe dovuto coglierne i frutti, questa vittoria le si andò svuotando tra le mani in un quadro in cui sempre più il movimento operaio cessava di essere tale. L´ancoraggio tradizionale alla classe operaia si indebolì infatti rapidamente con le trasformazioni dell´economia che assottigliavano le file delle tute blu, i sindacati andarono perdendo a loro volta il vigore di un tempo, il New Labour di Blair costituì con i suoi intenti di innovazione una presa coscienza dei mutamenti della società ma anche la testimonianza delle crescenti difficoltà del socialismo europeo di resistere all´urto del neoliberismo e all´attacco al Welfare. Sicché al crollo sovietico, al fallimento del disegno di Bush, è andato accompagnandosi l´affanno via via più forte della socialdemocrazia, che non è riuscita a diventare il solido punto di riferimento delle schiere di un lavoro dipendente frammentato, impoverito dal dominio delle oligarchie finanziarie e industriali in costante arricchimento, afflitto dal crescere di rapporti precari, minacciato dal deterioramento delle protezioni costruite in passato dalla rete della sicurezza sociale.
Ci si sarebbe potuti aspettare che, all´erompere della presente enorme caduta del neoliberismo e della grande crisi finanziaria, l´Internazionale socialista e il Partito socialista europeo facessero sentire la loro voce. Invece un silenzio assordante, sul cui significato occorre ragionare. Il leader laburista Brown, lui è sì salito alla ribalta nel brutto frangente del disastro finanziario, ma come capo del governo britannico. In passato, i partiti della sinistra di tutte le correnti producevano progetti, avanzavano programmi e seguivano strategie, le quali, buone o meno buone che fossero, erano testimonianza di una presenza vitale. Ora che i comunisti sono stati ridotti al nulla, salvo residue vociferazioni, i partiti socialisti sembrano chiusi ciascuno nei propri ristretti ambiti nazionali, come entità materiali incapaci di assumere un´iniziativa culturale e politica che parli davvero alla gente sconcertata, la quale si interroga inquieta su un futuro incerto e a cui la socialdemocrazia non pare capace di offrire soluzioni.
Il periodo storico iniziato con il crollo sovietico sta ora chiudendosi con lo scacco delle già trionfanti ricette del capitalismo patrocinato dalla scuola di Chicago. Ma va chiudendosi - e spetta ora al socialismo europeo dare una prova sicura positiva o negativa - anche con la dimostrazione dell´impotenza della socialdemocrazia, preludio di svuotamento e persino di insignificanza? Se così fosse, da dove verrà una nuova politica e chi fornirà le guide future della società? Forse tutta la gravità della situazione attuale sta proprio nell´impossibilità di dare risposta a questo interrogativo. È di per sé amaro essere nel pieno dell´affondamento di una formula di gestione dell´economia, eppure ancora più amaro è dover domandarsi pieni di dubbio se a guidare la nave nella tempesta vi saranno timonieri capaci di tenere la rotta e chi mai potranno essere.

Repubblica 18.10.08
Cosa sognano gli italiani
di Vera Schiavazzi


I più precisi li trasferiscono dal piccolo registratore al ciomputer, per conservare le parole del paziente: un sogno raccontato può essere molto diverso da uno scritto. Qualcuno conserva gli appunti mattutini del sofgnatore, qualcun altro si limita a riempire con la matita piccole schede che poi finiscono in uno schedario come quello delle vecchie biblioteche. Ma alla fine tutti vanno afinire nel Registro dei Sogni, la materia prima sulla quale generazioni e generazioni di psicoanalisti hanno studiato e si sono formati, che ogni associazione, ogni “scuola” terapeutica continua a custodire e ad accumulare nei suoi archivi e che ciascun didatta utilizza con i suoi allievi. Siamo andati a sfogliare questi registri: non è come leggere una ricerca dell’Istat ma certo dà qualche indizio sull’umore diurno e notturno degli italiani
Cambiano ma soprattutto si complicano e si arricchiscono di nuovi oggetti i sogni degli italiani. Si scopre così che ai vecchi perfino rassicuranti simboli, come il bosco, il labirinto, gli animali, il mare o il volo, se ne sono aggiunti altri che pongono a chi li interpreta per professione nuove domande.Una classifica provvisoria vede al primo posto il telefonino e subito dopo lo "straniero", seguiti dalle grandi catastrofi naturali e da strumenti e situazioni legati alla carriera e allo stress che ne deriva. Ma ci sono anche la maternità (o l´impossibilità di raggiungerla), e l´ossessione della bellezza, lo sport e i suoi campioni, meglio se non troppo irraggiungibili: sognare di guidare la moto come Casey Stoner è più facile che identificarsi con Valentino Rossi. Alcune situazioni oniriche resistono a qualsiasi innovazione: è il caso degli animali, selvaggi o domestici, che secondo la paura o l´empatia che suscitano nel sogno testimoniano il nostro rapporto col lato oscuro e irrazionale della personalità. Resistono acqua e volo, altri due luoghi tipici della rappresentazione dell´inconscio, ma la perdita di sé in luoghi un tempo classici come il bosco diventa più sfumata, a mano a mano che sul lettino si sdraiano persone che ormai di rado passeggiano in campagna. Siepi e giardini perdono quota, salgono l´ufficio, le circostanze mondane, le fotografie, soprattutto quelle scattate al cellulare, come nuova rappresentazione di sé. E mentre l´allattamento - un tempo sogno classico intrecciato alla vita amorosa e al rapporto con la madre - appare ormai raramente, la paura di perdere la battaglia contro l´orologio biologico trascina con sé nei sogni femminili medici e provette collegati alla fecondazione.
Così, anziché nella foresta, la manager torinese, cinquantenne affascinante e sicura di sé, colloca le sue paure in un prato di periferia: «Mi avevano scaricato lì, provavo a telefonare per chiedere di venirmi a prendere ma a ogni tasto del mio cellulare corrispondeva un altro numero, invisibile. Così sbagliavo sempre…». Il direttore di un ospedale napoletano invece unisce nuove abitudini e antichi miti: «Seguivo mio padre in mare su una piccola barca, ma arrivati a Gaeta lo perdevo di vista… Allora ho accostato la spiaggia per chiedere se mi facevano telefonare per sapere se c´era sempre e se stava bene». I nuovi sogni degli italiani accolgono fatti e oggetti d´uso quotidiano che non esistevano - almeno nell´inconscio - fino a pochi anni fa. Accade così, a distanza di 109 anni dalla prima edizione de "L´interpretazione dei sogni" di Sigmund Freud, e 80 anni dopo il seminario che Carl Gustav Jung dedicò allo stesso argomento, che gli psicoanalisti italiani - insieme ai colleghi del resto del mondo - siano costretti ad aggiornare registri e metodi di classificazione. E scoppia la pace (quella scientifica, almeno) tra le diverse scuole, unite dall´urgenza di definire parametri comuni: sono circa 1.000, oggi, gli psicoanalisti iscritti alle società più importanti ed accreditate a livello internazionale, ma a loro si unisce una galassia di terapeuti che non appartiene ad alcuna di queste "famiglie". Si discute, un po´ in tutta Europa, sul modo nel quale a situazioni oniriche moderne ma già note (l´auto che non parte, simbolo per eccellenza dell´impotenza ad agire) se ne intreccino altre per le quali l´interpretazione è ancora aperta: l´incubo di non poter avvisare i propri cari, ad esempio, non potrebbe testimoniare un bisogno di liberarci da legami soffocanti?
«Chi sogna è il regista, e fa il "casting" delle sue esperienze per poterle rielaborare», spiega Anna Ferruta, milanese, segretaria scientifica della Società psicanalitica italiana, analista e didatta freudiana. «Così, il telefonino rappresenta una volontà di comunicare, di stabilire relazioni, che però non sempre riesce a diventare reale». Come è successo a M., quarantenne, che ha sognato di essere intento a "trafficare" col cellulare proprio mentre accanto a lui, in strada, passava un gruppetto di ragazze che lo apprezzavano: «Mica male quel tipo». Peccato che sia stato proprio l´amato-odiato cellulare a impedire a M. di cogliere l´occasione: «Quando ho sollevato la testa dallo schermo loro erano già andate via». Una giovane psicologa con inclinazioni artistiche, invece, usa il telefonino per rimediare ad un incubo ‘classico´: scoprirsi nuda a una festa dove tutti sono invece eleganti e formali. «Trovavo nel cellulare una mia bella foto dove indossavo bellissimi vestiti e giravo tra i tavoli per mostrarla a tutti», ha raccontato. Commenta la terapeuta Maria Rita Beccari, didatta della Sipr (la Società italiana di psicoterapia relazionale): «Il telefonino ti "veste" e ti rende disinvolta. Ma i problemi relazionali sono quelli antichi, in questo caso la relazione con la madre e il bisogno di cominciare a differenziarsi da lei».
Nei sogni dei giovanissimi, il mondo virtuale e quello reale si intrecciano in un linguaggio spesso incomprensibile agli adulti: E., 15 anni, trasforma così il Virgilio della Divina Commedia nella Virgin protagonista dei suoi manga preferiti, contando sul fatto che «la professoressa non se ne accorgerà mai». Commenta Nadia Neri, didatta junghiana dell´Aipa: «Può sembrare un piccolo lapsus, invece è un´importante trasposizione. In questi anni abbiamo corso il forte rischio di dare meno importanza ai sogni, i pazienti stessi credono di sognare di meno. Ma è un errore, perché per scegliere terapie più veloci si rinuncia a andare in profondità».
«C´era un dogma intoccabile per gli psicoanalisti classici, ma ci stiamo ripensando - spiega Stefano Bolognini, psichiatra, psicoanalista e membro autorevole della Spi, la Società psicoanalitica italiana che raccoglie i seguaci di Freud - Credevamo che il sogno fosse sempre e comunque dettato da un desiderio inconscio, ora pensiamo invece che si tratti anche del modo di rielaborare traumi che nella vita reale la persona non è riuscita ad accettare. Come sognare di essere coinvolti da grandi fenomeni naturali visti in televisione, lo scioglimento dei ghiacciai o le terribili alluvioni di altri continenti, spesso sta a significare che qualche evento affettivo imprevisto ci sta travolgendo e abbiamo paura di non riuscire a gestirlo». Quanto al telefonino, «è l´antidoto che usiamo per combattere la nostra ansia da separazione, convinti come siamo che possa evitarcela in tutti i casi e in tutti i tipi di relazione. Sognare di non riuscire ad usarlo testimonia quasi certamente una difficoltà di comunicazione in campo affettivo».
Dal fronte junghiano, Antonio Vitolo - presidente dell´Aipa (l´Associazione italiana di psicologia analitica), racconta che «sogni e mondo esterno sembrano essere in una relazione sempre più stretta». I nuovi sogni sono, anche, "politici": «Quando il livello cosciente della società si abbassa e si percepisce un´involuzione autoritaria, i sogni compensano i traumi quotidiani collegati all´intolleranza o all´odio. Così lo straniero, riconoscibile nel sogno dal colore della pelle simboleggia l´aspirazione al cambiamento, come è accaduto a un paziente preoccupato di non riuscire a capirsi con tre donne dai diversi colori, che però nel sogno lo hanno subito rassicurato, "parliamo tutti la stessa lingua"». Augusto Romano, il più celebre tra gli junghiani torinesi, sottolinea il significato difensivo di strumenti come cellulare e i-pod già durante la vita diurna e cosciente: «Viviamo isolati dalle cuffie, in un mondo senza padri e senza regole dove qualsiasi conflitto o sofferenza viene considerato patologico. Al posto delle signore isteriche studiate da Freud, noi vediamo soprattutto uomini e donne malati di narcisismo: spesso sono bravi manager, donne con obiettivi di carriera altissimi, anche più ambiziosi di quelli dei loro colleghi, ma del tutto centrati su di sé e privi di capacità affettive. Per queste persone è fondamentale impedire all´altro di "entrare" nella loro sfera intima, e a questo scopo le tecnologie sono utilissime». Ma il sogno di non riuscire a usare il cellulare può simboleggiare anche «la non volontà di comunicare con qualcuno, magari con la propria moglie o famiglia, o al contrario - quando ad esempio è l´amante la persona che non si riesce a chiamare - il groviglio di senso di colpa e di conflitto che emerge dal nostro inconscio e che durante il giorno forse non riusciamo a vedere con chiarezza». Perfino l´auto sognata cambia, e oggi appare soprattutto un guscio protettivo: «Come il collega - racconta Romano - che in sogno ha visto me, suo supervisore, mentre sotto le finestre di casa mi accanivo a smontare gli sportelli della sua macchina. Interrogato, mi ha sentito con orrore rispondergli che stavo smontando i suoi meccanismi di difesa».

Repubblica 18.10.08
Lo strano gioco degli opposti
di Marino Niola


Il telefonino, le email, l´Ipod. La tecnologia domina il nuovo mondo onirico degli italiani. Che, accanto ai più classici bosco e labirinto, la notte immaginano nuovi oggetti-simbolo. Come lo tsunami e gli stranieri. Ecco quanto emerge dai Registri delle grandi scuole psicoanalitiche. Che abbiamo sfogliato
Sono circa 1.000 gli psicoanalisti iscritti alle società più importanti e accreditate
Alcune situazioni resistono a qualsiasi innovazione: è il caso degli animali

Il cellulare, il lavoro, la bellezza, gli stranieri, l´automobile, lo tsunami. Sono questi i sogni e gli incubi degli Italiani. I sintomi del cambiamento epocale che attraversiamo. E che ci attraversa. Così profondamente da ridisegnare la mappa delle nostre fantasie, dei nostri desideri, delle nostre ansie. I sogni sono sempre uno specchio fedele - anche se enigmatico, grottesco, rovesciato - che riflette la parte più segreta di noi, facendo affiorare quei sentimenti e quei pensieri che non riusciamo a dire e che traduciamo in simboli. Questo nuovo quadro onirico del Bel Paese somiglia maledettamente a un rapporto Istat. Le grandi questioni del presente, l´insicurezza, l´immigrazione, la tecnologia, l´ecologia, ci sono tutte. Ma il loro significato è diverso. Spesso opposto. Come se quel che pensiamo di giorno fosse contraddetto da quel che sogniamo di notte.
Così quegli stranieri che alimentano le nostre paure e fanno crescere la quota pro capite di insicurezza, sulla scena onirica diventano un simbolo positivo. Incarnando una sana istanza di cambiamento, un desiderio di novità, una irresistibile attrazione verso una contaminazione che di giorno temiamo tanto.
Lo sconosciuto di fuori rivela così lo sconosciuto che abbiamo dentro, il nostro lato oscuro. Come diceva il grande poeta Edmond Jabès, lo straniero si trova soprattutto in fondo a noi stessi ma noi esitiamo a mostrare il fondo. Riusciamo a farlo solo col favore della notte.
E anche la tecnologia, che alla luce del sole trasformiamo in feticcio, in oggetto di culto, nel sogno si rovescia nel proprio contrario. Serve a difenderci dai rapporti con gli altri. Gli strumenti del comunicare diventano gli interruttori della comunicazione. Così l´I-pod ci appare come una invisibile e provvidenziale pellicola isolante, una barriera trasparente, impalpabile quanto inviolabile. Mentre il cellulare più che a chiamare serve a tenerci fuori campo, a rendere il nostro io non al momento raggiungibile.
E l´auto, da ecomostro diurno, drago che vomita smog, nelle nostre visioni notturne si tramuta in guscio protettivo. Intercapedine fra noi e la dura realtà. Alcova, scrigno, fortezza, tank. E soprattutto scafandro dal quale guardare il mondo e guardarsi dagli altri, come palombari impauriti.
Al riparo dalle onde anomale alimentate dall´oceano tempestoso del presente che sconvolgono la tranquillità del nostro orizzonte quotidiano. Non a caso lo tsunami è un simbolo ricorrente nei sogni e negli incubi contemporanei. Una parola nuova che è entrata nel nostro vocabolario e nel nostro immaginario con la violenza imprevedibile di uno schiaffo della natura, o con la dismisura inarrestabile di un crack finanziario. Di un terremoto delle borse che stravolge le nostre esistenze, come uno di quei cataclismi che fanno tanta paura. Per quello che sono e per quello che significano. Per gli uomini di oggi come per quelli di ieri. Che affidano al linguaggio dei sogni il compito di dare volto alle paure, alle speranze, alle inquietudini, ai desideri. Un volto nuovo e antico al tempo stesso. Soprattutto nei momenti di crisi, di mutamento sociale, di smarrimento collettivo. Come se ad ogni grande tornante della storia l´immaginario voltasse pagina. E il processore che comanda i sogni si resettasse. Traducendo in figure condivise e comprensibili i cambiamenti del comune sentire. Oggi come ieri dunque i libri dei sogni si aggiornano. Anche se certi simboli restano, con una capacità di riadattamento che buca le pareti del tempo, le passa letteralmente da parte a parte. Lo dimostra il più antico libro dei sogni di tutto l´Occidente, l´Onirocritica di Artemidoro, scritta nel secondo secolo dopo Cristo, quasi due millenni prima dell´Interpretazione dei sogni di Freud. Allora come al tempo del grande Sigmund, e come adesso, si era in un momento di crisi mondiale, di spinte e controspinte della storia. Gli uomini vissuti tra Antonino Pio e Marco Aurelio, che proprio come noi vivevano la crisi dell´impero, facevano sogni che assomigliano ai nostri e, quel che è sorprendente, ricorrendo agli stessi simboli. Anche per loro il comunicare era un problema tant´è che Ermes, dio degli scambi e della comunicazione affollava i loro incubi. E, proprio come per noi, la forza scatenata della natura significava inquietudine, insicurezza e addirittura imminente disoccupazione. In effetti i sogni non sono che segni. Basta saperli illuminare. O meglio basta lasciarsi illuminare da loro, da queste fantasie che sembrano chimere. Ma in realtà sono l´ombra della nostra saggezza. Quella che riconosce tutto a occhi chiusi.

Repubblica 18.10.08
L’uomo cantava come un fringuello
La nascita del linguaggio
di Robert C. Berwick


Pubblichiamo l´intervento "I canti dell´Eden e il linguaggio dei geni" che Robert C. Berwick, membro del Mit di Boston terrà oggi alle 21 a "BergamoScienza" nell´ Auditorium; la rassegna, arrivata alla VI edizione, alla quale hanno partecipato tra gli altri Marcello Coradini, Vincenzo Balzani, Luciano Maiani, Mark Clampin, John Banville, Leslie Robertson, si conclude domani con James Turrel che parlerà di "Scienza e Arte" nel Centro Congressi.

Era un´abilità usata nel corteggiamento e avrebbe poi influenzato la parola
Per Darwin i nostri avi utilizzavano la voce per produrre cadenze musicali ovvero un canto

Come si è evoluto il linguaggio umano? Dare risposta a questa domanda è un´ardua impresa. Sin dai tempi di Darwin, i teorici dell´evoluzionismo hanno fatto ricorso ad un parallelismo per dare una spiegazione dei fatti. A cosa può essere paragonato il linguaggio? Nessuna altra specie animale è dotata di linguaggio, malgrado il tentativo fatto dai film di Walt Disney. Altre specie animali ricorrono a sistemi di comunicazione diversi dal linguaggio umano. Il linguaggio può essere utilizzato per comunicare, proprio come ogni altro aspetto del nostro agire: lo stile nel vestire, la gestualità e via dicendo. Tuttavia, l´uso del linguaggio ha, per lo più, una connotazione «interna», ovvero è al servizio del nostro pensiero. E´ alquanto difficile, infatti, trattenersi dal parlare tra sé e sé in ogni momento di veglia e, persino, di sonno. Solo gli esseri umani possono fare con le parole cose stupefacenti: «Cosa quasi inconcepibile, la pistola che ora fissava era impugnata da un enorme albino dai lunghi capelli bianchi». Questo componimento non avrebbe mai potuto essere l´opera di primati intenti a battere sui tasti di una macchina da scrivere. E´ tratto da Il Codice da Vinci di Dan Brown. Se poi vogliamo definirlo un buon linguaggio, è un´altra storia.
E´ interessante notare come quanto scritto da Darwin più di cento anni fa sull´origine del linguaggio in L´origine dell´Uomo e la Selezione Sessuale sia corretto e confermato da due recentissime scoperte; la prima di carattere genetico condotta sull´uomo e sui fringuelli e la seconda, di carattere linguistico, attinente il linguaggio e il ritmo.
Darwin sosteneva che: «qualche antico progenitore dell´uomo. utilizzava la voce in larga misura per produrre vere e proprie cadenze musicali, ovvero un canto. Questa abilità, per lo più impiegata durante il corteggiamento, avrebbe influenzato il linguaggio... e il suo reiterato utilizzo avrebbe agito sul cervello... la formulazione di un pensiero lungo e complesso non può più prescindere dall´ausilio delle parole, siano essere pronunciate o taciute, proprio come una lunga equazione non può prescindere dall´utilizzo dei numeri». Come apparirà chiaro a tutti coloro che hanno una goccia di sangue italiano nelle vene, Darwin intendeva proporre l´idea che l´Opera stesse all´origine del linguaggio. Nell´Atto Primo darwiniano, le «cadenze musicali» attiravano la femmina verso il maschio. Quanto più piacevole il canto, quanto più numerosa la prole: il Bel Canto portava ad una migliore. ehm sapete cosa intendo! La «cadenza musicale» formava il sistema linguistico di «input e output», proprio come la stampante di un computer ci consente di visualizzare ciò che abbiamo scritto. Nel Secondo Atto darwiniano, questa «stampante del linguaggio» ha dato impeto allo «sviluppo del cervello» in relazione all´utilizzo delle parole per la formazione di «lunghe e complesse serie di pensieri».
Cosa possiede l´uomo che gli altri animali non hanno? Consideriamo un ingrediente come il controllo vocale, benché alcuni fringuelli siano degli eccellenti cantori. Un secondo ingrediente potrebbe essere l´intelligenza. Nuove evidenze suggeriscono che gli uccelli siano molto più intelligenti di quanto non si pensasse in passato. Un esempio, a tal riguardo, è quello della cornacchia nera che a Tokio porta le noci in corrispondenza degli incroci pedonali in attesa che il semaforo diventi «verde» e che le autovetture, schiacciandole, ne rompano il guscio.
Dopodiché, la cornacchia attende che il semaforo ritorni nuovamente «rosso» e che il traffico si fermi per raccogliere in tutta sicurezza i gustosi frutti. (Questa strategia non funziona ovunque, tutte le cornacchie che hanno provato ad imitare l´esempio a Napoli non sono sopravvissute). Dunque, gli uccelli possiedono il senso del ritmo. Gli uccelli sono intelligenti, ma non hanno il dono del linguaggio perché non dispongono di parole. Alcuni animali sono molto bravi ad assegnare nomi a determinati oggetti. Gli scimpanzé pigmei sono noti per questa abilità in quanto sono in grado di riconoscere svariate centinaia di simboli con diversi colori, forme e dimensioni proprio come i tasselli di un puzzle. Questi scimpanzé sanno assegnare nomi diversi ad oggetti diversi, proprio come noi ricorriamo a nomi diversi per identificare diversi tipi di pasta. Ma questi scimpanzé non sono dotati di linguaggio perché sono pressoché muti. Non possono cantare per salvare la loro anima. Quindi, gli uccelli sono dotati di quelle che Darwin chiamava «cadenze musicali», ma non di parole, mentre i nostri più vicini antenati possono assegnare nomi a oggetti e simboli, ma non possono cantare. Solo l´uomo possiede entrambe queste abilità, ovvero il canto e la parola. Il risultato? Il linguaggio umano.
Che entrino ora le recenti scoperte! In un modo o nell´altro, prendiamo le parole presenti nella nostra testa e le pronunciamo ad alta voce. Tuttavia, questa meccanica può incepparsi. Alcune persone, infatti, sono affette da disordini del linguaggio ereditari. Pertanto, sebbene riescano a comprendere alla perfezione una domanda come: «Dove abiti?», avranno difficoltà nel cercare di rispondere.
All´interno del loro DNA si è verificata una rottura. I ricercatori hanno riscontrato che un´anomalia genetica impedisce il normale sviluppo del cervello. Ciò danneggia il linguaggio in quanto i nervi che governano i muscoli deputati alla produzione della corretta sequenza fonica non espletano la proprio funzione. Il danno, in questo caso, non riguarda il sistema che funge da «collante» e che accorpa le parole nella nostra mente prima che esse vengano pronunciate, in altre parole il computer centrale, ma bensì la «stampante» del linguaggio. Esperimenti condotti sui fringuelli danno conferma di tutto ciò. Al termine dello scorso anno, gli scienziati sono riusciti a «simulare» in via sperimentale le problematiche dell´uomo sugli uccelli.
Per fare ciò, hanno inserito copie danneggiate di un gene chiave in uccelli neonati prima che imparassero a cantare, con l´intento di perturbare il loro canto, proprio come nell´uomo.
Il linguaggio umano è anch´esso dotato di ritmo, basti pensare alla cantilena che accompagna una strofa poetica come: «Non mi dire, in tristi cifre, che la vita è un sogno vuoto» (Longfellow) o dai toni più familiari: «Voi ch´ascoltate in rime sparse il suono/di quei sospiri ond´io nutriva ‘l core/in sul mio primo giovenile errore». Se analizziamo la purezza ritmica del testo poetico ecco che udiremo una serie di «accenti ritmici», uno per ciascuna sillaba. Analogamente, la parola «rima» è composta da due sillabe: ri-ma. Come si formano gli accenti ritmici? Ed ora entri la scoperta linguistica dell´MIT: tutti gli accenti ritmici delle lingue del mondo possono formarsi «incollando» le sillabe tra di loro in modo tale da formare nuove unità.
I fringuelli possiedono la medesima «struttura ritmica».
Proprio come quando battiamo il tempo con il piede a ritmo di musica, così l´uomo o gli uccelli parlano o cantano senza incespicare. Questa è l´origine del linguaggio. Tutti gli animali esposti ad un apprendimento vocale ricorrono a questo sistema per formare ritmi in assenza di parole, contrariamente a quello che fanno «discenti» privi di apprendimento vocale come gli scimpanzé. Gli scimpanzé possono fare ricorso alle parole, ma non hanno ritmo e non dispongono di un «collante». In assenza di quest´ultimo ingrediente, pertanto, non possono sviluppare il linguaggio in quanto incapaci di generare nuove frasi, o parti di esse, utilizzando frammenti di parole. Per generare un vero linguaggio occorrono parole, ritmo e un «collante». In questa prospettiva, la vera essenza della specie umana si è caratterizzata attraverso il canto e le parole, ovvero con l´Opera. Ma gli italiani lo sapevano già da tempo!

Repubblica 18.10.08
Nel nome di Piero Gobetti
Un pensiero che non muore
di Riccardo Di Donato


Nel luglio del 1999, le soffitte della casa londinese di Arnaldo Momigliano hanno restituito manoscritti e dattiloscritti di trenta interventi dello storico dell´antichità esule a Oxford, composti tra il 1941 e il 1945, per le trasmissioni di propaganda di Radio Londra, cui collaboravano gli esponenti del movimento antifascista Free Italy - Libera Italia, in cui erano attivi, tra gli altri, Umberto Calosso, Elio Nissim, Ruggero Orlando e i fratelli Paolo e Piero Treves.
Di questi trenta testi, tre soltanto erano noti, in quanto conservati negli Archivi della BBC, compresi nell´inventario reso pubblico nel 1976 e quindi pubblicati in Belfagor con il titolo Conversazioni sul nazismo, subito dopo la morte di Momigliano, alla fine del 1987.
I testi permettono di apprezzare un aspetto non conosciuto della personalità dello storico piemontese e ci fanno leggere in forma diretta l´espressione di quei pensieri sul presente, che andavano finora cercati in filigrana entro gli scritti di storia antica, in particolare in quelli composti nel medesimo periodo, pervenuti in modo frammentario e in massima parte concentrati intorno al tema del libro che Momigliano non arrivò a scrivere, negli anni dell´esilio, su Pace e libertà nel mondo antico.
L´insieme degli interventi a Radio Londra viene presentato per la prima volta nella celebrazione pisana del centenario dello storico, presso la Scuola Normale Superiore, come contributo alla comprensione della progressiva maturazione del suo pensiero sul presente e sul reale.
Qui si sceglie di pubblicare per intero il discorso letto a Radio Londra il 16 febbraio del 1943, nel giorno anniversario della morte di Piero Gobetti, di cui resta un dattiloscritto su carta velina, con due correzioni a mano dell´autore. Il testo contiene un richiamo alle emozioni vissute da Arnaldo Momigliano negli anni trascorsi come studente all´Università di Torino, accanto ai suoi compagni di studi tra cui furono subito il gobettiano Aldo Garosci e Aldo Bertini, già attivamente impegnati nella cospirazione antifascista, e poi Carlo Dionisotti, che dei sentimenti del giovane storico ha recato fino all´estremo convinta testimonianza.

Repubblica 18.10.08
Aspettando la rivoluzione liberale
di Arnaldo Momigliano


Il 16 febbraio 1926 moriva esule a Parigi Piero Gobetti appena venticinquenne. Qualche tempo prima, in un ordine che fu scoperto e pubblicato in fac-simile, Mussolini aveva ordinato alle autorità fasciste di Torino di «rendere la vita impossibile a Piero Gobetti». L´onore di un´attenzione da parte del Duce era meritato: Gobetti era non solo uno dei più vigorosi critici del Fascismo. Egli opponeva al Fascismo una fede positiva. Egli era un esempio di quella società morale e intellettuale che i gerarchi temono sopra ogni altra cosa.
Gobetti si era laureato in lettere alla Università di Torino. Aveva passione per la filosofia e la critica d´arte; e l´amore per il vecchio Piemonte dov´era nato assumeva in lui tono di rievocazione appassionata. Nessuno ha saputo più di Gobetti far rivivere quei Piemontesi del buon tempo antico, testardi e magnanimi, tra cui crescevano Alfieri, Massimo d´Azeglio, Cavour. Ma in Gobetti filosofia e amore per la tradizione, lungi dal farsi accademici, erano forze con cui egli cercava di intendere e di combattere quella grave crisi della vita italiana che si chiama Fascismo. Gobetti sapeva che il Fascismo non è un fenomeno superficiale della vita italiana, ma è anzi il risultato di talune insufficienze del Risorgimento. Il Risorgimento infatti diede una coscienza politica solo a una piccola minoranza: non educò alla libertà le masse. Perciò dopo la guerra del 1915-18, che aveva esaurito l´Italia, fu facile organizzare un triste carnevale reazionario e demagogico. Ma il rimedio contro il Fascismo può essere solo di completare e perfezionare il Risorgimento: conservare la tradizione del Risorgimento italiano e armonizzarla con le esigenze della vita economica moderna e con le rivendicazioni delle classi lavoratrici.
Per questo Gobetti soleva dire in una forma apparentemente paradossale che l´Italia non ha mai avuto, ma deve ancora avere un vero regime liberale, che l´Italia deve ancora fare la sua vera rivoluzione: la rivoluzione liberale. Rivoluzione liberale fu il motto di Gobetti - e Rivoluzione liberale fu il titolo del periodico che egli cominciò a pubblicare nel febbraio 1922. Chi è stato giovane vent´anni or sono ricorda la lieta sorpresa e l´entusiasmo suscitati dall´apparizione di questo giornale che parlava della tradizione liberale italiana con tanta novità e freschezza. Scriveva allora Gobetti: «L´abolizione della lotta politica nell´esaltata unanimità delle folle è un regresso evidente perché non si possono elaborare idee politiche quando gli uomini che le pensano sono soffocati. D´altra parte il fallimento desolante di tutti i partiti attuali sembra proporre con allarmante urgenza la necessità di rifarsi ai principii. La cultura politica e la lotta politica nel mondo moderno ha una sua premessa necessaria nella libertà». Nel 1924 Gobetti riassumeva le sue idee politiche con grande limpidezza e vigoria in un volume egualmente intitolato Rivoluzione liberale, che deve essere letto ancora oggi. Intanto egli approfondiva la storia del Risorgimento in alcuni studi raccolti nel volume Risorgimento senza eroi; sentiva il dovere di studiare la rivoluzione russa e i suoi presupposti nel volume Paradosso dello spirito russo e dava giustamente grande importanza ai problemi della scuola che il Fascismo stava per soffocare.
Il regime di terrore instaurato da Mussolini dopo l´assassinio Matteotti venne presto a troncare l´attività di Gobetti e la speranza che egli potesse sviluppare il suo movimento in un partito di giovani liberali italiani. Ma il valore del suo insegnamento non è perduto dopo circa vent´anni. Questi vent´anni sono stati di tragica decadenza per l´Italia e hanno confermato solo l´esattezza della diagnosi di Gobetti che bisogna attuare in pieno la rivoluzione liberale iniziata ma non compiuta del Risorgimento. Il problema allora posto da Gobetti di conciliare la libertà politica con il rinnovamento sociale è oggi non solo più un problema italiano, ma un problema mondiale; ed è interessante osservare come in Inghilterra oggi viene discusso su linee che sono molto affini a quelle di Gobetti. Perciò commemorare Gobetti non è solo rendere omaggio alla memoria di una delle più nobili delle giovani vite che il Fascismo ha stroncato. Commemorare Piero Gobetti è oggi ricordare ai giovani d´Italia che uno di loro vent´anni or sono trovò la risposta dei giovani alla falsa Giovinezza del Fascismo. L´insegnamento di Gobetti, italiano e liberale, non ha perso il suo valore ancora oggi.
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l’Unità 18.10.08
Il romanzo popolare del Pci nato a Trastevere
di Bruno Gravagnuolo


BIOGRAFIE La storia di una generazione divenuta comunista nel dopoguerra nel racconto di Renato Venditti, giornalista de l’Unità dal 1946 agli anni 80. Un racconto semplice e incisivo senza omissioni

In tempi in cui prendersela col Pci e aggredirne la memoria è divenuto un dovere di buona creanza - vedasi il trattamento che torna a riservargli Mirella Serri nel suo ultimo libro su Pannunzio e il suo mondo (I profeti disarmati, Il Corbaccio) - arriva la biografia di un giornalista de l’Unità a fare un po’ di pulizia. Senza oltranze. Con la modestia di un racconto semplice e popolare, niente affatto elusivo e a tratti toccante: Renato Venditti, La Cricca. Vita di famiglia nella dittatura (Nutrimenti, Roma, pagg. 189, euro 17).
Lo ha scritto un comunista romano, a lungo attivo in questo nostro giornale come giornalista parlamentare, e poi a Paese sera (oggi collabora con i locali del gruppo Espresso). E lo ha scritto col cuore e con la mente, come uno zibaldone autobiografico, intramezzato però dagli eventi storici che plamarono la sua vita e le sue scelte. Il delitto Matteotti, il fascismo nella capitale, la Resistenza a Roma, Togliatti, l’Ungheria, le spie dentro il Pci nel 1954 dopo la fuga di Seniga con la cassa e la lotta interna di Secchia, seguita dalla sua estromissione. Il libro oltre che vero e appassionante, è in certo senso una «fonte». Fonte orale, come fosse l’autointervista di chi fa un rendiconto ad alta voce, e rende onore a un mondo quasi scomparso. Tesimonianza a nome di quel mondo: il comunismo romano. Visto però non dall’alto, dalle scelte di vita di quegli antenati intellettuali famosi che ben conosciamo: i Bufalini, gli Ingrao, Giorgio e Pietro Amendola, Alicata, Natoli. Che pure in qualche modo, da chierici, seppero farsi popolo. No, stavolta lo sguardo viene da altrove. Da Trastevere, dalle sue botteghe artigiane. Insomma dal popolo della Roma democratica e antifascista che incontra via via il Pci togliattiano e si fonde con esso. Mescolandosi al contempo, ecco il dato straordinario, con quegli intellettuali che per altre strade arrivano in quello stesso Pci.
Ecco, la storia che Renato ci racconta - lo chiamiamo così senza conoscerlo come un fratello maggiore - viene dalle viuzze di Trastevere e da piazza in Piscinula. E da un librone polveroso che l’autore tira giù a fatica da un archivio militare, per ricostruire l’immagine di un padre falegname morto nel 1924 per i postumi della Grande Guerra a cui aveva partecipato da soldato. E spirato dopo aver nascosto, dietro una Madonna del letto, una fotografia di Matteotti. Che starà lì a fare da sentinella tra diverse generazioni di antifascisti. La prima, quella della famiglia abbruzzese dell’autore immigrata a Roma. E la seconda, quella maturata durante il regime sotto lo sguardo di Zio Alfredo, che diffidava i nipoti dal mostrarsi in camicia nera: «Nun ve fate vede vestiti da pupazzi...».
Dunque, negozi di barbiere, laboratori di tintoria, ragazzi tirati su con dignità e con vestiti rivoltati (ma a volte lo zio portava i ragazzi dal sarto). E grammofoni e radio da fissare assorti, quando cantava il Trio Lescano durante il ventennio. Ma poi, nel 1943 gli ebrei deporati al ghetto, come fratelli strappati dal cortile di casa, e la Resistenza, via Rasella, i volantini. E e qualche bomba mai esplosa, la pistola mai usata. Trepidando per quelli più grandi, che le bombe le mettevano davvero, a via Rasella, o all’Adriano (inesplose quelle contro Graziani). Insomma è la Roma popolare e democratica che si risveglia, vista dai ragazzi di Roma città aperta. Che prima che film neorealista di Rossellini, fu realtà neorealista, magari senza epica ma autentica. Lo «snodo» sono degli articoli battuti a macchina da Renato Venditti. E affissi su un menabò autoprodotto vicino all’Osteria del Comparone a Piazza in Piscinula, dove si dice che il Tevere arrivasse a fare da piscina per i bagni. Qualcuno li vede quegli articoli, e così Venditti si ritrova cronista all’Unità, in una con una vocazione di attore al Centro Sperimentale che il duro lavoro del giornale gli farà abbondonare (17 e poi 45mila lire al mese, questo eravamo!). Ma qui comincia un’altra storia.
La storia di Renato giornalista che s’affina, diventa «organico» tra lealtà e dubbi verso quel partitone che gli ha consentito di dare un senso alla sua saga familiare, coi suoi semplici principi di dignità e fraternità generosa, contro i prepotenti di ogni risma. Eccolo l’essere comunisti in Italia, a Roma: slargare la percezione del mondo, diventare cittadini, amare Di Vittorio e i suoi cafoni, assieme al cinema di Luchino Visconti. O a quello di Elio Petri, comunista indocile e «transfuga» senza tradire, amico di Venditti, come del resto Ugo Attardi, Trombadori, De Santis, Bentivegna, la Capponi Aggeo e Arminio Savioli (straordinari colleghi viventi). Tanta gente diversa, più o meno importante. A comporre l’affresco di quel quarto stato pensante, intellettuale e popolare, che fu il Pci, nato tra L’Ordine Nuovo di Torino e le botteghe di Trastevere, passando per i braccianti di Foggia. Tutto bello e magnifico? No, perché alla fine nel 1954 anche Venditti subisce senza saperlo l’inquisizione della spia Cicalini, che denuncia in segreto «La Cricca Venditti», in odore d’eresia (fratello e cognato di Renato lavoravano a l’Unità). E poi c’è l’Ungheria, il trauma al giornale e tante altre cose. Ma una cosa resta, tra luci e ombre, meschinità e atti coraggiosi. Resta la memoria di quel Pci che anche grazie a quelli come Renato e a l’Unità ci ha fatto più liberi e civili.

l’Unità 18.10.08
Il dramma di Eluana, la lezione della Corte
di Tania Groppi


La preoccupazione per la sorte di Eluana Englaro dopo i drammatici eventi degli ultimi giorni ha riportato al centro dell’attenzione il suo corpo conteso, facendo apparire sbiadite e remote le dispute giuridiche di cui è stato oggetto.
Ciò è certamente comprensibile. Tuttavia, non si può ignorare l’importanza della ordinanza emessa, qualche giorno or sono, dalla Corte costituzionale, chiamata anch’essa a pronunciarsi, dopo la Corte d’appello di Milano e la Corte di cassazione.
Le Corti costituzionali, e tra esse quella italiana, una delle più antiche ed autorevoli, sono organi all’antica. In un mondo in preda alla frenesia dell’effimero e al culto dell’apparire, si muovono caute con passi felpati, cercando di far parlare di sé il meno possibile. I giudici costituzionali rifuggono le interviste, i talk show, i titoli e finanche le lettere ai giornali. Essi parlano soltanto se interpellati, attraverso le loro pronunce, per di più ammantate dalla copertura della collegialità
A volte una tale riservatezza può far dubitare della loro capacità di comunicare e persino di mantenere un contatto con la realtà del proprio tempo. Ma questo silenzio è ben lontano dall’assenza. Esso è segno di una presenza vigile e tenace, che non alza la guardia quando si tratta di difendere la Costituzione.
Di ciò ci ha appena offerto un esempio la nostra Corte costituzionale, che nel breve volgere di un paio di mesi ha sgombrato il campo da uno dei più inquietanti atti con cui mai un parlamento si sia contrapposto al potere giudiziario: il conflitto sollevato da Camera e Senato a difesa, si è detto, della propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di cassazione aveva reputato legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
Un conflitto che ha fatto sgranare gli occhi ai costituzionalisti di tutto il mondo: mai, nella tensione che di sovente attraversa i rapporti tra potere politico e giudici, si era giunti al punto di negare al potere giudiziario la possibilità, in assenza di una legge, di decidere un caso applicando direttamente i principi costituzionali.
Ciò significa infatti negare l’essenza stessa della forma di Stato costituzionale. Nel quale il ruolo del giudice non è quello di mero applicatore della legge, come accadeva nello stato legislativo ottocentesco. Egli è chiamato a far valere a supremazia della Costituzione, nelle forme previste dall’ordinamento. Ciò che comporta, quando una legge da applicare non vi sia, il diretto richiamo ai principi costituzionali.
La Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità del ricorso, in camera di consiglio e con ordinanza, affermando che non vi è materia per un conflitto di attribuzione: la Cassazione non ha indebitamente legiferato, ma si è limitata a fare quel che spetta ad ogni giudice, ovvero decidere un caso concreto; e il parlamento si lamenta semplicemente del contenuto di questa pronuncia, che gli risulta sgradita. E’ sufficiente alla Corte richiamare la sua consolidata giurisprudenza, secondo la quale il conflitto di attribuzione «non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici». Ed è agevole concludere che «d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».
Al di là delle conseguenze sul drammatico caso di Eluana, ancora lontano dall’essere concluso (la Corte di cassazione si dovrà pronunciare di nuovo, ad inizio novembre), la sintetica e chiara ordinanza della Corte costituzionale assume suo malgrado una portata storica nella definizione dei rapporti tra i poteri. Altro che decisione pilatesca, come è stato incredibilmente e sfacciatamente commentato a caldo dagli esponenti politici della maggioranza. La Corte, affermando che, qualora il parlamento non legiferi su una materia, non può sollevare conflitto di attribuzione contro un giudice che applichi direttamente i principi costituzionali, riafferma l’essenza dello Stato costituzionale: ovvero la supremazia della costituzione e la sua capacità di pervadere ogni aspetto dell’ordinamento, senza la necessaria intermediazione del legislatore. Ci sembrava una ovvietà, insita già nella prima, celebre sentenza della Corte costituzionale, adottata più di 50 anni fa, ma evidentemente niente può essere dato per scontato nei tempi e nel clima politico in cui viviamo. Un clima nel quale diventa ancora più importante la difesa dell’indipendenza della Corte: l’ambiguità nella quale il Parlamento sta procedendo, dopo mesi e mesi di inadempienza, ad eleggere il quindicesimo giudice, non pare di buon auspicio per il futuro.

Corriere della Sera 18.10.08
La locandina della manifestazione del 25 ottobre
Il Pd, la foto e una folla senza volto


Non è il caso di farne un dramma. Può succedere.
Può succedere, vogliamo dire, che il Pd acquisti una foto per un manifesto in vista della manifestazione del 25 ottobre senza controllare al microscopio la folla che ritrae.
Può succedere pure che a controllare siano invece giornali di parte avversa, scoprendo, con grande gaudio, che la folla della foto non è fatta di militanti, ma di pellegrini convenuti in piazza San Pietro per rendere omaggio al Santo Padre, preti e monache ovviamente compresi. E può anche succedere — anzi, è inevitabile che succeda — che i suddetti quotidiani, per un paio di giorni, indossino i panni del gabibbo, e ci sguazzino. Di gaffes simili è lastricata, e non soltanto da noi, la vita politica: quasi mai i loro effetti superano le quarantott'ore.
Se ci torniamo su è perché questa gaffe, ci perdoni il responsabile della propaganda democratica Alberto Losacco, ha un sapore tutto particolare. Ci parla, cioè, di qualcosa di più interessante della lentezza dei riflessi politici di questo o quel dirigente del Pd che, preposto a vagliare delle foto per un manifesto, reputa da matti la sola idea di cercare di capire che cosa mai ritraggano. In fondo, devono aver pensato in via del Nazareno, visto che il 25 ottobre si tratta di portare in piazza un milione di persone o giù di lì, l'importante è che sul manifesto ci sia una bella folla compatta, una siepe fittissima di testoline. Una piazza è una piazza, una folla è una folla: a chi appartengano le testoline in questione, e dove e quando e perché si siano date convegno, in fondo, ma nemmeno tanto in fondo, non è poi così importante.
Fondamentale, semmai, è che non ci siano simboli, bandiere o cartelli, tutti destinati, inevitabilmente, a creare gratuiti imbarazzi. E, in questo senso, la foto di cui ci stiamo occupando va benissimo. Anzi, è perfetta. Forse unica nel suo genere.
Niente bandiere rosse o bianche che possano richiamare non diremo il Pci o la Dc, ma nemmeno, si parva licet, il Pds, i Ds, i popolari o la Margherita.
Niente simboli che possano ricordare i partiti grandi e piccini della disciolta Unione, compresi gli ex alleati della cosiddetta sinistra radicale. Niente cartelli che possano riportare alla memoria slogan del passato e meno recente, o far sospettare qualche recondita tentazione degli organizzatori di dar sfogo a pulsioni bassamente antiberlusconiane. Niente di niente. O meglio: testoline e solo testoline. E se qualche solerte redattore del Giornale individua, ingrandendo il tutto al microscopio, una certa qual sovrabbondanza di religiose e di religiose, poco male: se il 25 ottobre in piazza ce ne fosse anche solo la metà, per il Pd sarebbe una bella notizia, e per il centrodestra un motivo di preoccupazione.
Qualche motivo deve pure esserci, se si considera normale, quasi scontata, l'idea di affidare a una folla che (oltretutto a torto) si immagina rigorosamente anonima il compito di fungere da richiamo, su un manifesto, per convocare una folla di uomini e donne in carne ed ossa. E il primo motivo che viene in mente è che il Partito Democratico, un po' per scelta e un po' per necessità, è un partito che, faticando oltremisura a fare i conti con i molti passati che (a dire il vero sempre più stancamente) convivono al suo interno, preferisce glissare e, per quanto possibile, provarsi a resettarli, a rischio di rendere vago e indistinto anche il suo presente. Pure nella comunicazione.
Pure nella scelta della foto per un manifesto. L'obiezione è scontata.
Questa, si dirà, è la prima manifestazione nazionale del Pd, una grande manifestazione cui è affidato il compito di disegnare il profilo del nuovo partito, della qualità della sua opposizione oggi, delle sue ambizioni di governo domani: è naturale, quindi, che negli archivi non ci siano immagini particolarmente utili per anticiparne il messaggio. Può darsi.
Ma non è un buon motivo per farsi rifilare, nel frattempo, la foto di una folla «qualsiasi» pescata in una piazza altrui. E che piazza.

Corriere della Sera 18.10.08
Parla Morris Halle, l'ideatore della fonologia moderna che ha appena terminato un saggio con Nigel Fabb sull'universalità della lirica
Così funziona la mente dei poeti
Le strutture basilari della metrica sono comuni a tutte le lingue
di Massimo Piattelli Palmarini


Quando iniziai a studiare l'inglese a scuola, la professoressa ci disse che ogni parola dell'inglese ha la sua particolare pronuncia e che bisognava impararla parola per parola. C'era in questo una certa saggezza pratica, ma anche il riflesso di un antico modo di studiare la fonologia che Morris Halle e Noam Chomsky hanno sbaragliato nel 1968 con il loro monumentale saggio The Sound Pattern of English (ormai abbreviato da anni tra i linguisti con la sigla Spe). Non più regole e regolette, ma eleganti principi di livello molto astratto. Su questa base si è sviluppata la fonologia moderna. Si sono, infatti, scoperte delle scansioni mentali distinte, un po' come dei conta-secondi, attivi nella nostra mente, che ritmano in tempo reale un tic tac per le sillabe, uno per i fonemi, uno per la metrica, uno per i morfemi (in italiano, parti delle parole come «ndo», «ito», «ato» ecc). Come le pecorelle, questi suoni vanno a due a due o a tre a tre, a seconda della lingua. Poi questi gruppi sono a loro volta ulteriormente, mentalmente, raggruppati a due a due, o a tre a tre. Si noti, non a quattro a quattro o a cinque a cinque. In astratto la mente potrebbe fare anche questo, ma non lo può fare in concreto, non la mente umana così com'è costruita.
L'importanza di questo lavoro la lascio valutare da Marina Nespor, fonologa internazionalmente nota, docente all'Università di Milano Bicocca: «Quel libro, sul sistema che determina la forma sonora delle parole inglesi, ha più di ogni altro cambiato la concezione di come i suoni sono organizzati nelle lingue naturali». Di Morris Halle mi dice: «È a buon diritto considerato l'ideatore della fonologia moderna».
Prima di dare la parola allo stesso Halle, di cui mi professo discepolo e di cui mi onoro di essere amico, voglio riportare un consiglio che per anni dava ai migliori studenti di linguistica del Mit Samuel Jay Keyser, allora capo del dipartimento di cui Halle e Chomsky erano i membri più prominenti: «Cercate di essere come Morris». Halle, che fece assumere al Mit l'allora giovanissimo Chomsky, non si offendeva affatto quando Keyser poi aggiungeva: «Soprattutto non cercate di essere come Noam, perche nessuno può essere come Noam».
Con un ex allievo del Mit, Nigel Fabb, ora professore a Glasgow, Halle ha appena pubblicato alla Cambridge University Press un altro approfondito lavoro, Meter in Poetry,
sulla metrica nella poesia. Passando ad un attento setaccio poesie in ben 15 lingue, dall'italiano all'arabo, dall'inglese al greco, di poeti che spaziano da Dante a Montale, da Verlaine ad Aristofane, senza omettere i salmi dell'Antico Testamento, Halle e Fabb hanno messo in evidenza le strutture comuni, ciò che le poesie ci rivelano sull'organizzazione della mente umana. «In tutte le lingue e le culture — mi dice Halle — troviamo la poesia metricamente organizzata. E troviamo che ogni metrica è basata su gruppi di due o di tre sillabe, cioè in ciò che tradizionalmente si chiamano "piedi", con variazioni che vengono ampiamente sviluppate nel nostro libro. Semplificando un po', i piedi sono a loro volta raggruppati in coppie o in triplette, chiamate "metra" e questi di nuovo in coppie o triplette chiamate "cola"» (in italiano tradotto dalla Nespor come «diastichi»). In tanta uniformità, esistono anche vari gradi di libertà, e così le metriche variano nel tempo e nelle lingue. Halle mi spiega che, essenzialmente, oltre alla scelta tra gruppi di due e gruppi di tre, i gradi di libertà ulteriori sono di due tipi: il bordo ( edge) del verso dal quale far partire il raggruppamento (da destra o da sinistra) e la posizione di un elemento principale, la «testa», di nuovo dall'estremo destro o dall'estremo sinistro. In sostanza, ogni poeta, in ogni epoca ed in ogni lingua, ha cinque opzioni possibili per ogni unità, cinque per le sillabe, cinque per i piedi e così via per i metra e i cola. Qualche scoperta inattesa? «Sì, nella poesia delle lingue neo-latine (italiano, francese, spagnolo, portoghese) le sillabe sono sempre e solo raggruppate a due a due, partendo dal bordo destro del verso e la testa del piede è sempre a destra. In inglese, russo e tedesco, invece, si hanno più variazioni. Oltre alle coppie si hanno triplette, si parte anche da sinistra, oltre che da destra ». Molte interessanti similitudini sussistono tra l'organizzazione della metrica in poesia e il modo in cui le diverse lingue assegnano l'accento tonico. Di nuovo coppie e triplette e di nuovo «teste» posizionate verso destra o verso sinistra. Nessuna eccezione? Halle è molto fiero di aver trovato un'eccezione in alcuni salmi dell'Antico Testamento. «In essi si ha una conta diretta del numero di sillabe, non un raggruppamento in coppie o triplette. Il Salmo 137, per esempio, ha i seguenti numeri di versi: sette ripetuto cinque volte, poi cinque, sei, sette, otto, poi otto e cinque che si alternano quattro volte, poi in decrescendo otto, sette, sei, cinque, poi infine di nuovo sette ripetuto cinque volte. Ho pensato che questo corrispondesse a una struttura visiva, in particolare architettonica. E ho scoperto che il secondo Tempio di Gerusalemme, distrutto dai romani sotto Vespasiano, aveva due ali, un tetto, e un porticato con quattro colonne. La stessa struttura del salmo» (vedi figura).
Due domandine finali. Cosa ci insegna tutto questo sulla mente umana? «La capacità di raggruppare in coppie e triplette e poi, di nuovo, ricorsivamente, raggruppare il risultato in altre coppie o triplette è una proprietà universale della nostra mente. E così la capacità di designare elementi prominenti, le teste, e poi mantenere questa prominenza di nuovo ricorsivamente. Questa ricorsività è fondamentale anche in sintassi, come da anni sottolineato da Chomsky. Qualunque buona teoria della mente umana dovrà spiegare questi fatti». Trattare la poesia in questo modo non è un po' riduttivo? Halle risponde piuttosto seccato: «Quando Pitagora dimostrò il suo teorema non "ridusse" l'ipotenusa ai cateti, ma capì una proprietà vera dei triangoli rettangoli che nessuno aveva prima notato. Quando noi ora mostriamo che ogni metrica poetica consiste in questi raggruppamenti ripetuti in coppie o in triplette non "riduciamo" i versi a niente altro. Rendiamo esplicita una proprietà che era rimasta fino ad ora implicita».
Proprio da Halle ho imparato perché in inglese l'accento della parola comparable è sulla o, non sulla prima a, e di Arabic è sulla prima a, non sulla seconda, e perché noi italiani sbagliamo sempre, molto prevedibilmente, tanti accenti delle parole inglesi. Come per la poesia, il segreto sta nella sillabificazione e nel raggruppamento delle sillabe. Per questo la mia professoressa delle medie aveva torto come fonologa, ma ragione come praticona della lingua.

Le vendite del Capitale sono triplicate, ha annunciato alla Buchmesse Joern Schuetrumpf, direttore della casa editrice berlinese Karl-Dietz.
Repubblica 18.10.08
La Buchmesse si avvia alla conclusione: Marx si vende molto
E Günter grass critica la stampa


Il Nobel tedesco ha presentato ieri alla Fiera la seconda parte della sua autobiografia "Die Box" e ha raccontato che l´ha riscritta ascoltando le critiche dei figli

FRANCOFORTE. «Il crash americano è straordinario e tutt´altro che finito» scriveva Karl Marx al suo amico Friedrich Engels. «Quando i capitalisti scambiano solo denaro contro denaro le cose finiscono male». Era il 1857. Da allora è passato un po´ di tempo, ma opinionisti e accademici sembrano concordare oggi con lui. Il più classico dei classici tra i critici del capitalismo gode di un´inaspettata rinascita in Germania come guida per capire la crisi finanziaria globale. Le vendite del Capitale sono triplicate, ha annunciato alla Buchmesse Joern Schuetrumpf, direttore della casa editrice berlinese Karl-Dietz. Da 500 copie vendute l´anno scorso, il primo dei tre volumi del Capitale ha già venduto quest´anno 1500 copie. Perfino il nuovo vescovo di Monaco pubblica un libro dal titolo Marx e io. Il vescovo, che prima di arrivare a Monaco era - appunto! - a Treviri, è un omologo di Marx e scherza volentieri sul proprio nome. Professore di etica sociale, Reinhard Marx è noto per le sue prese di posizione politiche (in Germania molto meno consuete che in Italia da parte di un alto prelato): sulla guerra in Iraq, sulle riforme sociali, sulla globalizzazione.
Anche Günter Grass, che ieri era alla Buchmesse a presentare la seconda parte della sua autobiografia, Die Box, non ha risparmiato parole ironiche sull´improvviso «cambiamento di tono dei politici e dei giornali più conservatori, da Guido Westerwelle alla Frankfurter Allgemeine». Mai avevano criticato prima la politica di Bush, per anni hanno chiesto più deregulation e liberalizzazioni, ha detto, e all´improvviso sono diventati convinti sostenitori dell´intervento dello Stato. Su Die Box, Grass ha raccontato di aver scritto quattro o cinque versioni, accogliendo ogni volta le critiche dei figli (ne ha otto, da quattro madri diverse). L´ultima versione non è riuscita a eliminare completamente le loro riserve, ha ammesso: «alcuni borbottii sono rimasti, ma ne parliamo».
Quale è stato, ci si chiede come sempre in chiusura, il vero tema della Buchmesse - oltre a quello della Turchia, ospite d´onore, dominato dalle scrittrici, le più coraggiose nel denunciare il fanatismo e l´oppressione nella società anatolica. La crisi finanziaria? I libri elettronici? I giovani autori? L´applauso più sentito è andato a Roberto Saviano, al quale la Buchmesse ha assegnato, insieme a Matteo Garrone, il premio per il miglior film tratto da un libro. «E´ incredibile che in un paese europeo un autore rischi la vita per quel che scrive» ha commentato il telegiornale della ZDF.
Quanto alla crisi, gli editori alla Buchmesse non sembrano essere troppo preoccupati. L´esperienza dimostra, dicono, che quando le cose vanno male, si leggono più libri. La lettura rimane il divertimento più a buon mercato. L´anno scorso in Germania il fatturato delle case editrici è aumentato del 3,4 per cento. In Italia, tuttavia, i 24 milioni di lettori di libri sono diminuiti nel 2007 dell´uno per cento. Per oltre la metà degli italiani la lettura è un´attività sconosciuta e tra quanti leggono, solo il 46 per cento arriva ad aprire tre libri l´anno. Per promuovere la lettura dovrebbe nascere ora il Centro del libro: il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro, presente alla Fiera, ha promesso che il governo varerà entro l´anno il regolamento per attuarlo, e lo doterà di un fondo di 3 milioni di euro.
Il caso di Firmino, il topo che si salva mangiando i libri in biblioteca, edito in Italia da Einaudi e che ha già venduto 400.000 copie, è stato lodato alla Buchmesse come un caso particolare, perché era stato un editore spagnolo a scoprirlo quando ancora in America, pubblicato dalla piccola casa editrice Coffee House Press, vendeva poche copie e ne aveva acquistato i diritti internazionali poi rivenduti in tutto il mondo. Bompiani ha comprato uno dei libri di cui alla Fiera si parla come di un nuovo «giovane Holden»: Mathilda Savic dell´americano Victor Lodato, la storia di una ragazzina tredicenne che cerca gli amici della sorella maggiore morta; e ha comprato anche La Torre di Uwe Tellkamp, vincitore del Bücherpreis: un romanzo di mille pagine in cui si racconta la vita nella DDR di un gruppo di borghesi che abitavano nelle ville sulle colline di Dresda ignorando il regime. Tra i romanzi italiani venduti, oltre a Veronesi e De Carlo, anche Giovanni Maria Bellu. Mondadori ha comprato una storia al femminile, Losing Charlotte di Heather Clay; e per la saggistica un libro sull´architettura, Conversazioni con Frank O´Gehry e Le sette età di Roma di Robert Hughes.