venerdì 11 novembre 2005

la disperazione di un vecchio "nuovo filosofo", allievo di Sartre:
Corriere della Sera 11.11.05
E’ solo nichilismo, non un’Intifada alla francese
di Bernard-Henri Lévy

Nulla fermerà il movimento. Non dico che non si fermerà, è evidente. Ma dico che nessun gesto, nessuna idea, nessuna politica a breve o a lungo termine avranno più, come per incanto, il prodigioso potere di interrompere una spirale che probabilmente dovrà andare fino in fondo alla sua logica. Fisica dei corpi. Nera energia dell'odio puro. Turbine nichilista di una violenza senza significato, senza progetto, e che s'inebria del proprio spettacolo diffuso, di città in città, dalle televisioni, anch'esse affascinate. No, non si tratta di guerra. Contrariamente a quello di cui vorrebbero convincerci coloro che, in questo paese, hanno interesse al discorso della guerra (per intenderci: l'estrema destra, l'estrema sinistra, i fondamentalisti islamici), non si tratta, grazie al cielo, di un'Intifada alla francese. Ma sicuramente di un processo inedito. Di un gruppo in fusione nel senso quasi sartriano. Di nuovo genere, con cellulari, scambio di sms, unità mobili, movimenti browniani di una collera che, quando avrà finito di prendere di mira le scuole del quartiere, quando avrà incendiato o tentato d'incendiare fino all'ultimo edificio rappresentativo della Francia e dello stato di diritto, se la prenderà con il vicino, con l'amico, con se stesso; alla fine, sarà l'automobile del loro padre che i vandali andranno a cercare per darla alle fiamme. Tutto questo finirà, quindi. A un certo punto per forza finirà. Ma prima bisognerà che questo telethon della rabbia, questa danza suicida e senza memoria, questa fusione di disperazione e barbarie, vadano fino in fondo alla loro ebbrezza e al loro godimento autistico. Allora, non c'è niente da fare? Dire che il movimento andrà fino in fondo significa che dobbiamo incrociare le braccia e aspettare? Certo che no. Senza parlare dell'inevitabile rimessa in questione di tutta la nostra politica per le città, senza parlare del famoso «modello francese d'integrazione» di cui eravamo tanto fieri e che sta andando in frantumi, è chiaro che lo Stato repubblicano ha compiti urgenti, immediati, a cominciare da quelli di polizia, cioè di protezione di beni e persone. Compiti che, fra parentesi, fino al momento in cui scrivo queste righe, sta adempiendo meno male di quanto dicano coloro che vogliono sempre impartire lezioni. E' vero che ci sono stati dérapages verbali (karcher , teppa e così via, altre parole di odio di cui sarebbe onorevole scusarsi); e inammissibili abusi (come la granata lacrimogena nella moschea di Clichy-sous-Bois, che avrei voluto sollevasse altrettanto scandalo della profanazione di una chiesa o di una sinagoga). Ma da qui a mettere sullo stesso piano poliziotti e fautori di disordini, a dire che la polizia francese di oggi sarebbe talmente lepenizzata che tre giovani di Clichy-sous-Bois hanno preferito il rischio d'essere fulminati a quello di cadere nelle sue mani, c'è un salto che non farò. Dopotutto, anche nel 1968 c'era la psicosi della carica-della-polizia-alla-quale-bisognava-sfuggire. Non eravamo giovani disoccupati figli d'immigrati, ma studenti, letterati, scienziati e vivevamo nella stessa illusione che, per non cadere nelle grinfie degli abominevoli agenti di polizia, fosse meglio annegare come nel 1968 lo studente Gilles Tautin, a Flins, piuttosto che rinchiudersi nella cabina di un generatore. Allora basta con lo stupido «Crs SS»! Basta con la demagogia e le polemiche da politicanti! La situazione è già abbastanza drammatica così e non c'è bisogno di aggiungere piccole risse di apparato e personali. Tanto più che la vera posta in gioco, per ora, è quella della mediazione e della parola. Oh! Non la parola politica nel senso stretto. Non quei Consigli dei ministri eccezionali di cui si compiacciono i commentatori (come se il solo fatto che alcuni ministri si incontrano e si parlano fosse un evento colossale!). No, l'altra parola. La parola che attendono quei giovani desiderosi di non essere più trattati come figli d'immigrati, mentre sono semplicemente francesi. La parola che dirà uguaglianza, citoyenneté , considerazione e, come dicono loro, rispetto, non rancore e sfiducia. Che saprà dire, in un soffio unanime, il lutto di Zyed e Bouna, i giovani arsi vivi nel trasformatore di Clichy-sous-Bois e quello di Jean-Claude Irvoas, l'impiegato picchiato a morte davanti alla moglie e alla figlia, perché fotografava un lampione. Chi saprà far ascoltare questa parola? Chi saprà trovare, in pochi giorni, le parole di concordia che ognuno spera di udire da vent'anni? I sindaci delle banlieues ? I dirigenti delle associazioni, così crudelmente privati di mezzi? Un uomo politico, non importa se di destra o di sinistra, ma più ispirato del Capo dello Stato nel suo breve intervento domenica scorsa, dopo il Consiglio di sicurezza interna? E' questa la domanda. E' questa la condizione affinché, nei territori perduti della Repubblica, si riannodi qualcosa che assomiglierà, un giorno, a un legame sociale. Altrimenti, l'alternativa è chiara. Ne abbiamo avuto un assaggio negli ultimi giorni e, per un paese laico, sarebbe la confessione di un definitivo fallimento: trasferire ai responsabili delle moschee il compito di mantenere l'ordine e predicare la pace. (traduzione di Daniela Maggioni)

...e quella di Lea Melandri
Liberazione, 11/11/05
Il circolo degli uomini
(sa della sua prepotenza, ma...)
Le riflessioni di alcuni maschi sulla violenza maschile
Lea Melandri

Nel libro L'ultimo paradosso (Einaudi 1986), presentato come "un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell'esistenza", Alberto Asor Rosa scrive: "Uomini. Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola -non importa se rotonda o quadrata- impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incutere timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti solamente perché c'è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo, alla nostra dignità: al nostro essere-per-sé, custodito da un simulacro d'acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni: e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo di piacere e di dar piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell'ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura".
Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata…e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia - non appena sguardo con sguardo di nuovo s'incatena, subito il desiderio di libertà, l'ansia di gioia ci abbandonano -, e scopriamo che non potremo mai lasciarli… L'unico passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo della maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno".
Ho ripensato a questo frammento e al destino del libro che lo contiene - giudicato dagli intellettuali più vicini all'autore come meritevole di restare in solaio, dove sembra effettivamente rimasto -, dopo aver letto su Liberazione il punto di vista di dieci uomini sul tema "Maschi, perché uccidete le donne? " (6/7 novembre 2005). Mi soffermo su due aspetti, che non finiscono di sorprendermi: la potenza - o prepotenza - che conserva tutt'ora la "neutralità", l'abitudine dell'uomo di pensarsi e di parlare come prototipo unico della specie umana; e, per un altro verso, la repentinità con cui essa può eclissarsi, come se avesse in effetti la leggerezza di una maschera che si può mettere e togliere a volontà. Negli scritti pubblicati dal giornale, l'idea di un dominio maschile che attraversa da sempre la sfera privata e pubblica, la consapevolezza delle forme più o meno violente con cui si è imposto il patriarcato, appaiono come verità incontestabili, dati della propria esperienza e della propria formazione culturale, analisi che sembrano essere state presenti da sempre, sia pure in modo diverso, nell'impegno politico di ognuno.
Se le donne hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, "prendere coscienza" di un'oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d'amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?
Le donne sembra che stentino a "sapere" quanto è profonda l'espropriazione che hanno subito, quanto siano ancora lontane dalla percezione di sé come individualità intere, corpo e pensiero, quanto siano propense ad accontentarsi di una emancipazione che le porta sulla scena del mondo con le stesse attribuzioni per cui ne sono state allontanate: corpo, sessualità, maternità. Anche sulla violenza che subiscono quotidianamente, e che risulta essere ancora la causa prima della loro morte, cala spesso l'invisibilità, frutto di paure, intimidazioni, così come di desideri e fantasie amorose mal riposte. Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che "sappiano" e che sia proprio l'evidenza del privilegio toccato loro storicamente e diventato "destino", copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.
La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l'immagine della sua "virilità" pubblica dalla posizione di figlio, fratello, padre, marito, amante.
Ma tutto ciò che scorre innominato sotto la storia rischia di diventare col tempo la galassia che la conduce a sua insaputa, che la ricopre via via di macerie e la tiene con lo sguardo rivolto all'indietro, cosicché la speranza finisce per confondersi con la nostalgia, e il corpo femminile, su cui ancora si pretende di esercitare un possesso indiscusso, diventa, immaginariamente, la terra feconda, incontaminata, di rinascite a venire.
Lo spazio che si è aperto su Liberazione, interrogando uomini e donne sul destino che li ha confusi e contrapposti, si spera che da piccolo rigagnolo di riflessioni inedite diventi un fiume capace di dare nuova linfa alla politica e di allargarne gli argini, prima che lo facciano distruttivamente il mercato, le guerre o il fanatismo religioso.


a proposito di marxismo:
Liberazione 11.11.05
l libro di Cristina Corradi segna la rinascita in Italia dell'interesse e degli studi sul filosofo tedesco
La storia dei marxismi continua, più vivace e più fertile
Alfonso Gianni
(Anticipiamo l'articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista "Alternative")

Tuffarsi nella lettura del libro di Cristina Corradi, "Storia dei marxismi in Italia" (Manifestolibri, Roma, 2005, pagg. 438, 30 euro), non è un'impresa da compiere a cuor leggero, richiede pazienza e passione, ma ne vale proprio la pena. Siamo di fronte infatti ad un libro di straordinaria erudizione - se si può usare ancora questo termine che alcuni autori considerano invece sminuente della propria creatività - che ci accompagna in una rilettura delle complesse vicende teoriche dei marxismi italiani lungo l'intero Novecento. Un'opera che ci dà il segno inequivocabile della ripresa (si può dire della rinascita?) dell'interesse e degli studi marxisti nel nostro paese, dopo una grande e grigia parentesi durata quasi trent'anni. Un ottimo segnale dunque, da giudicare positivamente, direi persino al di là e oltre i meriti specifici di questa opera che comunque sono molti e su cui vorrei brevemente condurre qualche considerazione tutt'altro che esaustiva, anzi dichiaratamente parziale.
Naturalmente rinuncio in partenza (come invece dovrebbe fare un buon recensore, ma tale non sono) a qualunque tentativo di riassumere la narrazione dell'autrice. Ricordo solamente, per invogliare i futuri lettori, che il volume si articola in tre parti. La prima, che secondo l'autrice dovrebbe svolgere semplicemente una funzione introduttiva, ma in realtà ci dice molto di più, muove da Labriola per giungere a Gramsci, e naturalmente ci racconta della pesante influenza crociana sulla lettura italiana del marxismo, nonché delle influenze di Sorel, di Gentile e di Mondolfo. In particolare le pagine su quest'ultimo conferiscono a questa parte un tratto di stimolante originalità interpretativa, che meriterebbe approfondimenti ben maggiori anche rispetto ad un'opera già così corposa.
Comincia qui a delinearsi una delle chiavi di lettura che l'autrice utilizza per percorrere l'intera vicenda intellettuale che connota il modo con cui il marxismo si è diffuso ed è stato accolto nel nostro paese. Come è stato osservato anche da Roberto Finelli nel dibattito attorno a questo libro - al quale ha partecipato anche chi scrive - tenutosi alla recente Festa nazionale di Liberazione, da qui parte quella lettura del marxismo senza "Il Capitale" (e naturalmente a maggior ragione senza i Grundrisse) che caratterizzerà la storia dei marxismi italiani, in particolare per una prima parte abbondante del secolo.
I marxismi in Italia si snodano lungo un percorso stretto dall'idealismo crociano e dal positivismo di molteplici ascendenze. La conoscenza dell'opera fondamentale di Gramsci, raccolta nei "Quaderni del carcere", che, seppure giungendo tardi, modificherà sensibilmente e positivamente la lettura del marxismo, non poteva certo invertire da sola questa tendenza, data anche «l'oggettiva difficoltà di dedicarsi allo studio del Capitale» da parte di Gramsci stesso.
Questo vizio d'origine, questa pesante tara, non abbandonerà più i marxismi italiani, evidenziando, rispetto ad altre esperienze di pensiero in altri paesi e in altre tradizioni, un'endemica carenza della critica dell'economia politica, che neppure la potente riflessione dell'istituto Gramsci e del Cespe lungo tutti gli anni Sessanta sul capitalismo italiano, europeo e mondiale riuscirà a eliminare.
Con la seconda e la terza parte il lettore è invece condotto in un viaggio tra i marxismi contemporanei, che si snoda attraverso diversi autori e pensatori quali Della Volpe, Banfi, Luporini, Colletti, Rossi, Panzieri, Togliatti, Tronti, Timpanaro, Napoleoni, Negri, Cacciari, Preve, Losurdo, La Grassa, Turchetto, Bellofiore, Finelli, per citare i principali.
La storia dei marxismi è costruita quindi attraverso l'analisi della produzione teorica dei suoi protagonisti. Verso tutti l'autrice mostra un grande rispetto e, pur destinando ad essi pesi diversi nella trattazione, frutto di inclinazioni e sensibilità proprie, rifugge da qualunque pretesa di ergersi a giudice dei valori in campo. Questo è un pregio specifico di questo libro, tanto più importante quanto infrequente nel panorama della saggistica contemporanea spesso e volentieri contrassegnata da sanguinose, quanto inutili e sterili, "guerre di religione". E' un pregio che l'autrice difende lungo tutte le oltre quattrocento pagine con grande rigore e coerenza, anche al prezzo di qualche timidezza che, almeno per chi scrive, può perfino apparire eccessiva.
E' forse il caso delle pagine dedicate a Napoleoni, del quale si sarebbe potuta sottolineare ed esplicitare ancora di più l'importanza e la singolarità nel quadro dei marxismi contemporanei, tanto più che nel dibattito sopra ricordato dello stesso avviso si è dichiarata l'autrice stessa.
La considerazione qui svolta ci porta direttamente a sottolineare un altro dei meriti principali di questo libro, che viene dichiarato e annunciato dal suo stesso titolo. Bisogna dire che si tratta di una scelta coraggiosa. Qui si parla di marxismi e non del marxismo. Finalmente si rompe la presunta unità sacrale del marxismo, per cui la sua storia sarebbe fatta solo di successive implementazioni o deviazioni. Si accetta una pluralità di teorie, aventi tutte un ceppo comune, ma senza pretendere di tracciare il fatidico filo rosso. Questa concezione non può non piacere particolarmente a chi, come chi scrive, ritiene oggi necessario promuovere sul terreno culturale un ritorno a Marx, ad un Marx non mutilato di nessuna sua parte. E questo ritorno non può compiersi se non "distinguendo" da Marx e "mettendo da parte", senza ovviamente né negarli né liquidarli, i marxismi successivi.
L'autrice riesce a compiere questa scelta anche grazie ad un'opportuna contestualizzazione dei diversi marxismi. Non siamo certo di fronte ad una storia "sociale" dei marxismi, questa resta pienamente una storia delle teorie, ma del loro evolversi si coglie sempre un nesso dialetticamente causale con la realtà sociale ed economica e con il contesto politico e culturale.
Centrale, nella narrazione dell'autrice, è la svolta degli anni Settanta. Lì molti elementi che avevano caratterizzato le precedenti letture del marxismo entrano in crisi e ciò avviene mentre nel mondo maturano quegli elementi che determinano la moderna globalizzazione capitalistica, dal superamento del paradigma produttivo del fordismo-taylorismo alla crisi dello stato sociale, dal crollo dei vecchi istituti che in qualche modo governavano la finanza mondiale alla riduzione e alla modificazione dei poteri dello stato-nazione, per non parlare dell'evidenziarsi di un rapido sfaldamento dei regimi del "socialismo reale".
In questo quadro le esistenti letture del marxismo patiscono una crisi che si articola essenzialmente attorno a tre grandi nodi teorici, ancora oggi al centro della riflessione attuale: il problema della trasformazione del valore in prezzi, acuito dalla conoscenza dell'opera sraffiana; la questione della teoria dell'estinzione dello stato; il tema della dialettica. Come si vede un problema eminentemente di teoria economica, un secondo di teoria politica, un terzo di filosofia.
Non tutti i marxismi successivi, quelli che animano il dibattito attuale, sono incastonabili solo entro il tentativo di soluzione di questi tre problemi, basta pensare a come l'irrompere dei movimenti su scala mondiale, in particolare all'inizio del nuovo secolo, abbia sensibilmente modificato l'ordine e il peso delle tematiche su cui verte la riflessione teorica. Né si può dimenticare quanto è maturato nell'incontro, sempre difficile, tra i marxismi e il pensiero che muove dalla differenza di genere, o tra i primi e quello che insiste sulla difesa dell'ambiente, della natura, del vivente non umano.
Ma queste nuove dimensioni non possono che essere soltanto accennate dall'autrice. Mi riferisco in particolare alle pagine che essa dedica alla individuazione delle caratteristiche della globalizzazione capitalistica, alla critica delle teorie sulla fine del lavoro, alle diverse posizioni sul delinearsi di un mondo dominato da un impero e sulla crisi dello stato-nazione, alla individuazione del postmoderno come approfondimento del rapporto capitalistico di produzione e della diffusione dell'astratto «sia nel mondo della produzione che in quello del consumo, sia nell'agire interindividuale che nello spazio intrapsichico», per usare le parole di Roberto Finelli.
La storia dei marxismi continua e libri come questo, facendoci conoscere il pensiero fin qui accumulato nelle sue diverse accezioni e senza mutilazioni, aiutano a renderla ancora più vivace e fertile. Infatti, come diceva il grande matematico e filosofo francese Renè Thom «il nemico del vero non è il falso, ma l'insignificante».

Liberazione 11.11.05
Marc Augé: «I giovani delle banlieue rivendicano il loro essere francesi»
Intervista all'"antropologo del quotidiano", autore di "Nonluoghi" e "Un etnologo nel metrò" che, analizzando il malessere della cité, avverte: «Siamo di fronte ad una ribellione, non ad una rivoluzione. Ma gli incidenti segnalano un problema vero»
Monia Cappuccini

"Antropologo del quotidiano" ed "etnologo del metrò", Marc Augé è senza dubbio tra gli intellettuali francesi più affermati e più noti al pubblico internazionale. Africanista di formazione ha studiato per anni le popolazioni dell'Alto Volta e della Costa d'Avorio, svolgendo importanti ricerche sui sistemi di potere, sulle religioni tradizionali e sul profetismo. A partire dagli anni Ottanta si è poi dedicato all'osservazione della pluralità dei mondi contemporanei, rivolgendo il suo sguardo di antropologo ai problemi delle società complesse, alla dimensione rituale del quotidiano e alla modernità. Lungo questa prospettiva ha elaborato nuovi modi di intendere le relazioni tra dimensione spaziale e appartenenza ai luoghi, e a metà degli anni Novanta proprio le sue teorie sull'urbanità e sui nonluoghi hanno dato il via ad una prolifica riflessione sociologica. Più di recente si è occupato dei modi di produzione della memoria culturale e del senso del tempo nella società contemporanea, caratterizzata dall'assottigliarsi dell'orizzonte del passato e dal "paradosso delle rovine".
Attualmente Directeur d'études presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, Marc Augé sta girando in questi giorni l'Italia per presentare il suo ultimo libro La madre di Arthur (Bollati Boringhieri, pp 142, euro 15,00). Non un saggio ma un romanzo, un lavoro che però non si pone in contraddizione con i suoi precedenti perché, come spiega lo stesso Augé: «Quando si studiano i fatti sociali si indaga sulle soggettività individuali, mentre il romanzo costituisce un esercizio inverso: si immaginano delle individualità per suggerire qualcosa di più vasto». Ma è chiaramente dalla situazione francese e dalla rivolta nelle banlieue delle ultime settimane, che muove l'incontro con l'intellettuale transalpino.

Alla luce delle sue teorie sull'urbanità e sui nonluoghi, come valuta quanto sta accadendo nelle periferie francesi e i motivi che hanno innescato la rivolta di questi giorni? Cosa dobbiamo aspettarci ora?
E' difficile rispondere in poche parole ad una domanda così complessa. Posso dire però che per questi giovani che oggi manifestano con violenza la banlieue non è un nonluogo, bensì il loro luogo. Il posto dove vivono, dove comunicano con il loro linguaggio, con il loro modo di essere e di vestirsi. Ma la banlieue è vissuta anche come un luogo di chiusura, e le strade per uscirne non sono sufficientemente aperte. Ciò che questi giovani rivendicano è sentirsi francesi, e che anche la Francia finalmente li consideri tali, poiché la maggior parte di loro incontrano molte difficoltà ad inserirsi nella vita professionale e sociale in generale. Hanno l'impressione di fare parte della Francia senza esserne però parte; non è la banlieue ma la Francia intera ad essere percepita da loro come un nonluogo.

E' evidente che è in atto un conflitto: nei confronti di un'esclusione sociale e del luogo dove vivono questi giovani. Ma anche nei confronti della famiglia e della tradizione. E' un conflitto che segue perciò diverse direzioni, può spiegarcene la natura?
Sicuramente sussistono tutte queste dimensioni. Il conflitto principale ha origine nel gap tra la prima generazione di immigrati e la seconda generazione francese. Non sono tra coloro che affermano che il modello francese è fallito, perché in realtà ritengo non sia mai stato veramente applicato. Credo che gli sforzi della Francia siano stati insufficienti per quel che riguarda l'alfabetizzazione, l'istruzione e l'integrazione. Si è quindi verificata una rottura tra la prima generazione dei genitori e la seconda formata da questi ragazzi, che hanno frequentato la scuola e che hanno elaborato una cultura propria, che poi è quella della cité di periferia e della città in cui sono nati e cresciuti.

In un'intervista lei ha affermato che «la violenza è all'origine della ristrutturazione urbana». Abbiamo visto questi ragazzi distruggere cose, se la prendono con le persone, spesso i loro vicini di casa che difendono la propria macchina da tentativi di incendio. Non praticano la protesta con "l'assalto alla Bastiglia", per intenderci. Come la violenza della ristrutturazione è stata perpetrata nella banlieue e come la stessa è stata poi rielaborata da chi vive in quelle zone?
Siamo di fronte ad una ribellione non ad una rivoluzione. Certo ci si chiede perché vengano bruciate le scuole, la macchina del vicino, le case, i supermercati, che naturalmente rappresentano dei simboli. Più della violenza come atto di distruzione è significativo il gesto della violenza in senso assoluto, che è un modo per attirare l'attenzione. Un altro aspetto da non sottovalutare è che oggi viviamo nella società dell'immagine, e questi ragazzi hanno l'illusione di esistere solo se entrano nello schermo. Da questo punto di vista esiste una specie di competizione fra le diverse zone urbane; facendo salire il livello di scontro più degli altri le periferie sono in concorrenza per arrivare in tv. Viviamo in un mondo in cui bisogna passare dall'altra parte dello schermo per esistere, ed è ciò che i giovani delle banlieue stanno facendo. Diventa anche un messaggio che parla alla e della nostra società del consumo, caratterizzata dal culto dell'immagine.

Nell'interpretazione della contemporaneità lei ha parlato di surmodernità come di una nuova sensibilità culturale che vede l'individuo e la sua libertà agire in un clima caratterizzato dall'eccesso. Può essere un concetto applicabile a questa situazione o questa situazione può considerarsi una diretta conseguenza di tutto ciò?
Non esiste un concetto in grado di definire ciò che si sta verificando in questi giorni, e che altro non è che una somma di frustrazioni di varia natura. In un certo senso però questa crisi può risultare positiva, perché è il segnale che è tempo di agire e che bisogna fare qualcosa. Segnali tra l'altro già verificatisi nel passato, perché non è la prima volta che vengono bruciate le macchine per strada. Solo che oggi la situazione ha raggiunto un livello molto più vasto in termini di contagio.

Come si può intervenire? La linea dura del governo può rivelarsi efficace?
Non so se definirla propriamente una linea dura. Ovvio che il governo deve intervenire e trovare una soluzione nell'immediato, ed è costretto a escogitare un linguaggio che invochi la sicurezza, altrimenti è l'estrema destra a prendere la parola, cosa che è già successo nel passato. Interpreto questa agitazione come un grido, e forse questa crisi risulterà utile. Dipenderà dal fatto se il messaggio della rivolta nelle banlieue sarà realmente recepito. Penso che la Francia e il mondo intero necessitino di una rivoluzione dell'educazione e dell'istruzione. E' ciò che ripetiamo spesso: esiste un enorme divario non solo tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ma anche fra chi ha la possibilità di accedere ad un sapere e chi invece non ce l'ha. Questa è la posta in gioco di cui dobbiamo prendere coscienza, altrimenti continueranno a generasi altre violenze.

Liberazione 11.11.05
La "guerra" del giudice Tosti contro il crocefisso

Il 18 novembre presso il Tribunale dell'Aquila, inizia l'udienza nella quale il magistrato Luigi Tosti dovrà sedere dietro la sbarra come imputato. E' dal 9 maggio che il giudice si rifiuta di tenere le udienze nel Tribunale di Camerino (Macerata) perché l'Amministrazione Giudiziaria omette di rimuovere dalle aule pubbliche il crocifisso e non autorizza il giudice Tosti a esporre i propri simboli.

giovedì 10 novembre 2005

Yahoo!salute 10.11.05
Questione di cervello se donne e uomini hanno diverso senso dell’umorismo
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

È un fatto di cervello se donne e uomini hanno un diverso senso dell’umorismo. Lei è più analitica nei confronti di battute o sketch ma allo stesso tempo più sorpresa e appagata da esse, infatti attiva molto più di lui parti del cervello per l’elaborazione del linguaggio e la memoria, nonché quelle che generano appagamento da nuove esperienze. È quanto dimostrato da studi compiuti su volontari alla Stanford University School of Medicine coordinati da Allan Reiss, professore di Psichiatria e Scienze del Comportamento e direttore del Center for Interdisciplinary Brain Sciences Research.
La notizia, che è stata pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences, potrebbe aiutare a far luce su patologie come depressione e cataplessia (arresto dei movimenti muscolari senza perdita di coscienza). Studi passati avevano già dimostrato differenze di genere nell’uso e nell’apprezzamento dell’umorismo e nel significato e nella funzione della risata. Ma finora nessuna ricerca aveva evidenziato differenze nelle risposte del cervello allo humor. I ricercatori hanno dunque coinvolto 20 adulti sani (10 uomini, 10 donne) mostrando loro 70 cartoons in bianco e nero. Gli psichiatri hanno chiesto loro di valutare da uno a 10 quanto fossero buffe le scenette. Durante lo “spettacolo” i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale dei volontari con la risonanza magnetica funzionale per immagini.
Analizzando i dati, i ricercatori hanno scoperto che gli uomini e le donne condividono quasi tutte le strutture nervose che si accendono in risposta all’umorismo, soprattutto circuiti connessi con l’elaborazione del linguaggio nella corteccia prefrontale sinistra; ma i ricercatori hanno rilevato che il cervello della donna, a parità di voto dato allo sketch, si accende più intensamente di quello maschile. Nelle donne, inoltre, si accende intensamente anche il nucleo accumbens, parte dei centri del piacere e dell’appagamento, come se le donne non fossero necessariamente consapevoli che i cartoons avrebbero provocato loro piacere.
I ricercatori hanno anche svelato che, più buffo è valutato il cartone animato o la vignetta, maggiore è l’intensità con cui si accendono i centri del piacere nelle donne, mentre la stessa cosa non è vera per gli uomini. Le implicazioni di questa scoperta vanno ben al di là dello studio delle reazioni all’umorismo: se studi successivi dovessero mostrare che i centri del piacere e altre regioni del cervello femminile sono più sensibili a stimoli emozionali, inclusi quelli negativi, questo potrebbe contribuire a spiegare perché la depressione colpisce il doppio delle donne rispetto agli uomini, potenzialmente portando alla scoperta di nuove terapie.
I risultati dello studio hanno potenziali implicazioni anche per coloro che soffrono di cataplessia, condizione nella quale perdita improvvisa del controllo motorio è indotta da emozioni forti, come anche la reazione allo humor. Infine in uno studio che esce contemporaneamente sullo stesso numero di PNAS a firma degli stessi autori insieme a psichiatri dello University College di Londra, i ricercatori hanno trovato che tratti caratteriali come l’essere estroversi o introversi influenzano il modo in cui il cervello elabora stimoli umoristici.

Fonte: Resii AL et al. Individual differences in humor appreciation: personality predicts activity in reward and emotional regions associated with humor. Proceedings of the National Academy of Sciences 2005.

Ilgiornale.it 10.11.05
«Su Internet il boom della psicologia fai-da-te»
Si moltiplicano i siti, l’allarme degli specialisti: «Sovente vengono chiesti soldi e in cambio si danno consigli da posta del cuore»
di Enza Cusmai


Si può guarire dall'ansia e dalla depressione con un dialogo a distanza? Con una consulenza terapeutica fatta solo di parole? Senza guardarsi in faccia, senza un contatto fisico? Molti la pensano così visto che i siti su Internet dedicati alla psicoterapia proliferano. E gli psicologi sono sempre più allarmati per il fenomeno delle consulenze in psicoterapia via web. «Un fenomeno - sottolinea il presidente dell'Ordine degli psicologi del Lazio, Emanuele Morozzo Della Rocca che solleva forti preoccupazioni -, direi un allarme, per il rischio di abusi sia sul piano economico, le persone pagano con la carta di credito questo tipo di servizi, sia sul piano della salute psicologica».
Le critiche si basano su dati concreti. In una ricerca molto accurata, sono stati esaminati un centinaio di siti che forniscono servizi di consulenza psicologico e/o psicoterapeutico. Nelle richieste inviate con posta elettronica si legge di tutto e di più. Qualche assaggio.
Scrive Sara, 19 anni. «Il mio problema riguarda la voglia di non vivere.
Vorrei autodistruggermi, lentamente, oppure di colpo, suicidandomi. Vorrei sapere: sto diventando pazza?». Risposta: «Capisco il tuo stato d'animo ma non ho i mezzi per rispondere alla tua domanda. Ma da quello che dici non mi sembra che tu possa essere pazza ma depressa. Davvero è così inutile vivere? Hai pensato ad altre soluzioni? Pensaci e sono sicuro che una via d'uscita ci sarà». Firmato: Auguri.
La consulenza si esprime via e-mail, sottoforma di chat o anche con la webcam. Ed è proposta come una sorta di «posta del cuore»

Staibene.it 10.11.05
Per superare lo stress ci vuole più… 'cervello'

Lo dimostrano i risultati di uno studio statunitense
C’è chi lo sopporta meglio e chi invece ne è sopraffatto. Ma perché non tutti reagiscono allo stesso modo di fronte allo stress?
La spiegazione arriva dagli scienziati del Massachusetts General Hospital, secondo i quali le persone più abili a superare un evento traumatico avrebbero più sviluppata un’area cerebrale denominata “corteccia ventromediale prefrontale”. Chi, al contrario, ha questa zona più sottile, fa più fatica a lasciarsi alle spalle i fatti spiacevoli della vita e rivive in continui flashback l’episodio che lo ha segnato, con spiacevoli conseguenze come insonnia e depressione.
Una ricerca ha sottoposto 14 volontari a una serie di mini-traumi (tra cui scosse elettriche inoffensive, ma fastidiose), per valutare il livello di stress prodotto attraverso la quantità di sudore comparsa sul palmo delle mani. Ebbene, i volontari che mostravano livelli minori di stress tendevano ad avere una corteccia ventromediale prefrontale più spessa. “I dati indicano che dimensioni maggiori di quest'area del cervello - ha spiegato Mohamed Millad del team di esperti Usa - hanno un ruolo protettivo contro lo stress, ma serviranno ulteriori studi per chiarire altri fattori correlati, per esempio il ruolo della genetica o dell'ambiente”.

lescienze.it 10.11.05
Gambe senza riposo e disturbi psichiatrici
C'è un legame fra la salute mentale e la RLS

Gli adulti che soffrono della sindrome delle gambe senza riposo (restless legs syndrome, o RLS), una condizione debilitante piuttosto comune, possono risentirne a livello fisico, mentale e sociale. In uno studio presentato al CHEST 2005, l'annuale convegno scientifico dell'American College of Chest Physicians (ACCP), negli adulti a rischio di RLS è stata riscontrata una maggior probabilità di soffrire di ulteriori disturbi fisici e psichiatrici, compresi depressione e ansia. Inoltre questi pazienti tenderebbero ad essere sovrappeso, disoccupati e fumatori.
"C'è una forte associazione fra la RLS e diversi problemi fisici e mentali", spiega Barbara A. Phillips dell'Università del Kentucky, principale autrice dello studio. "È possibile che la RLS provochi sbalzi e disturbi dell'umore, o anche che i medicamenti usati per trattare questi disturbi causino la RLS. Inoltre, i comportamenti che costituiscono fattori di rischio per la RLS, come il fumo, l'obesità e uno stile di vita sedentario, sono maggiormente prevalenti negli individui con malattie psichiatriche".
"La sindrome delle gambe senza riposo - aggiunge W. Michael Alberts, presidente dell'ACCP - può avere un impatto significativo sulla qualità della vita di una persona, con effetti negativi che si ripercuotono sulle situazioni personali e lavorative di tutti i giorni. È dunque importante determinare la causa primaria della sindrome per procedere con il trattamento più efficace".

Yahoo!salute 9.11.05
Malattie mentali: solo disturbi organici?
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

La psichiatria dovrebbe essere considerata come una branca delle neuroscienze, in particolare un aspetto clinico di questa nuova disciplina. L’avvento della genomica e la maggior comprensione del funzionamento del cervello sta infatti modificando il modo di concepire il disturbo psichiatrico: alcuni dei disturbi sono stati correlati a delle disfunzioni organiche e come tali devono essere trattati.
Insel con il suo intervento sul Journal of the American Medical Association sostiene che si dovrebbero considerare i disturbi mentali come dovuti quasi esclusivamente a cause organiche. Questa interpretazione imporrebbe di considerare la malattia mentale alla stessa stregua del cancro, delle malattie cardiovascolari e, probabilmente, spogliarla dello stigma.
Sarebbe un modo di inquadrare un disturbo che fa paura. “Cercare i meccanismi molecolari e i geni che stanno alla base della depressione, per esempio, non è sostanzialmente diverso dallo stabilire come la dieta possa incidere sul rischio di sviluppare un cancro”, ha continuato Insel.
La posizione assunta da Insel potrebbe essere contestata da chi crede, e non sono in pochi, che le malattie mentali (anche quando sono collegate ad una concausa organica) non possono essere trattate come tutte le altre malattie. L’importanza delle esperienze personali, del contesto sociale, della storia personale concorrono alla creazione della psiche e anche di alcuni disturbi e potrebbe essere riduttivo porre troppo l’accento sull’aspetto organico della malattia mentale.

Fonte: Insel T et al. Psychiatry as a clinical neuroscience discipline. JAMA 2005;294:2221-4.

Yahoo!salute 8.11.05
Churchill, la depressione e il mare
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Il più recente fascicolo degli Archives of General Psychiatry dà notizia della depressione grave in cui Winston Churchill incorse alla fine della Seconda Guerra, e del modo in cui la risolse.
Che legame c'è, se c'è, tra mare, arte e depressione? La storia riportata offre più di uno spunto per riflettere sulla loro correlazione.
Winston era stato un bambino poco amato, nato prematuro, cresciuto dalla nonna e di salute cagionevole. Trascorre dunque un’infanzia difficile che non dimenticherà mai. Forza di volontà e carattere gli resero tuttavia possibile una carriera politica rapida e vincente nelle fila dei conservatori. Una prima crisi depressiva la ebbe quando venne rimosso dalla carica di Primo Lord dell’Ammiragliato, dopo la sconfitta di Gallipoli, nel maggio del 1915. Poi, per tutta la vita, fu incline ad immalinconirsi, al punto da non sopportare di sostare sul marciapiedi di una stazione nell’imminenza del passaggio di un treno: “L’azione di un secondo potrebbe scrivere la parola fine a tutto. Bastano poche gocce di disperazione”, scrisse.
Nell’estate del 1945, dopo un’altra sconfitta, stavolta elettorale, che gli valse la mancata riconferma a Primo Ministro, Churchill affittò una villa sul Lago di Como, dove prese a dipingere. Quadri di paesaggio, nei quali trovò rapidamente un sollievo crescente alle proprie angosce. La risoluzione dell’ansia viene anche favorita dai bagni al lago. Il suo attendente racconta che un giorno, d’improvviso, Churchill decise di andare a fare il bagno: salito a cavallo ancora in veste da camera e calcandosi un panama in testa, corse fino alle rive. Dopo di che, il problema fu farlo uscire dall’acqua, anche per la sua mole. Se ne beava, e quando si decise a venir fuori l’attendente dovette spingerlo da dietro, mentre un altro militare lo tirava dagli scogli, per vincere il peso e la risacca.
In settembre, si trasferisce al mare in Liguria, continuando a dipingere: e adesso i suoi quadri sono pieni di scogli, di pini, di mare e di onde. Il cocktail pittura-mare strappa Churchill dalla depressione che ancora una volta gli aveva invaso la vita. Agli inizi di ottobre è già a Londra, pronto a dar battaglia.

Fonte: Harris JC. The Mediterranean at Genoa. Arch Gen Psychiatry 2005;62:1181.

Le Scienze 08.11.2005

Le scimmie e la matematica
Effettuando confronti numerici esibiscono una congruità semantica

Le scimmie hanno una percezione semantica dei numeri simile a quella degli esseri umani e indipendente dal linguaggio. Lo hanno scoperto alcuni neuroscienziati cognitivi della Duke University, secondo i quali il meccanismo neurale alla base della percezione numerica sarebbe evolutivamente innato.
Jessica Cantlon ed Elizabeth Brannon hanno descritto il proprio studio con i macachi in un articolo pubblicato sull'edizione online della rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences". Nei loro esperimento, i ricercatori hanno cercato di determinare se le scimmie esibissero un fenomeno chiamato "congruità semantica" quando effettuano confronti numerici.
"Quando gli esseri umani adulti devono fare un confronto, per esempio fra le dimensioni di due animali, - spiega Brannon - chiedersi quale dei due è più grande oppure quale è più piccolo sono due cose diverse. Un uomo, infatti, fa prima a dire che la formica è più piccola anziché dire che il topo è più grande. Se invece i due animali sono entrambi grandi, come una mucca e un elefante, l'uomo è più veloce a dire che l'elefante è più grande anziché dire che la mucca è più piccola. Questa 'congruità semantica' vale per ogni tipo di confronto, anche fra numeri o fra distanze. Sembrerebbe un effetto interamente linguistico, cioè dipendente dal linguaggio. Noi abbiamo cercato di capire se fosse presente anche nelle scimmie, che non sono dotate di parola".
Cantlon e Brannon hanno mostrato ai macachi due serie di punti posizionati a caso sullo schermo di un computer. Le scimmie sono state addestrate a scegliere il numero di punti più grande quando il fondo dello schermo era blu, e il numero più piccolo quando il fondo era rosso. Come ricompensa, gli animali ricevevano una bevanda dolce per ogni risposta corretta.
"I risultati - afferma Cantlon - rivelano un notevole effetto di congruità semantica. Per esempio, quando le coppie di numeri erano piccole, come 2 e 3, le scimmie erano molto più rapide se dovevano scegliere la quantità minore. Siamo rimasti colpiti dall'elevato livello di precisione raggiunto dagli animali a compiere questa difficile discriminazione". La scoperta rappresenta un'ulteriore prova della fondamentale similarità nel pensiero numerico degli uomini e dei primati non umani.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.

Corriere della Sera, 10.11.05
“… che gli uomini non remino contro”
Verso l'elezione in Liberia della prima donna presidente dell'Africa
Weah sconfitto dal primo presidente donna
I risultati non sono ancora ufficiali, ma Ellen Johnson-Sirleaf sta superando di 13 punti l'ex stella del Milan

MONROVIA - Il primo presidente donna dell’Africa è stato eletto in Liberia e prenderà le sue funzioni in gennaio. I risultati non sono ancora ufficiali, anzi sono solo parziali, ma ad oltre metà dello spoglio dei voti la sessantatreenne Ellen Johnson-Sirleaf, economista laureata ad Harvard, sta superando di almeno 13 punti percentuali il suo antagonista, l’ex stella del calcio George Weah. Un divario difficile da colmare.
La Commissione elettorale organizzata dalle Nazioni Unite, gli osservatori internazionali (anche dell’Unione Africana) e le Organizzazioni non governative che hanno monitorato il voto in tutto il Paese, hanno già fatto sapere che la competizione elettorale è stata corretta e regolare. Ma Weah non è d’accordo. In un estremo tentativo di rientrare in gioco gli uomini dell’ex calciatore hanno accusato la presidente della commissione elettorale, la signora Frances Johnson-Morris, di aver fatto dichiarazioni lesive dell’onorabilità del loro candidato e l’hanno invitata a dimettersi. Lei ha reagito duramente sostenendo che la delegittimazione del processo elettorale favorisce soltanto chi vuole la guerra. E loro – parlando chiaramente di brogli - hanno rincarato: «Produrremo un rapporto sulle frodi che abbiamo subito».
Ieri sera, proprio mentre i risultati apparivano già chiari, hanno organizzato una conferenza stampa dove sono stati mostrati pacchetti di schede elettorali già votate con il nome della signora Johnson-Sirleaf. Davanti alla sede del Congress fod Democratic Change (CDC, il partito di Weah) si sono radunati un paio di centinaia di ragazzi – soprattutto ex combattenti della guerra civile - che urlavano slogan a favore del campione: «Senza il nostro presidente, ci sarà ancora guerra», «Brogli, brogli, avete vinto con i brogli». Il quartier generale è stato circondato dalla polizia delle Nazioni Unite e verso mezzanotte la protesta è rientrata. Ora si spera che i delusi e gli sconfitti non pensino di scatenare di nuovo una guerra civile. La presenza di 15 mila caschi blu, comunque, dovrebbe essere un bel deterrente. In queste condizioni, comunque, un loro ritiro è impensabile: potrebbe significare un ritorno al caos bellico.

il manifesto 10.11.05
Ville lumiére
«C'è un muro tra Parigi e la banlieue»
Parla lo storico Jean Chesnaux: la rivolta delle periferie è il fallimento del modello francese di integrazione. Più che il '68 o Weimar, essa ricorda le sommosse dei neri negli Stati uniti
Anna Maria Merlo

PARIGI - L'ampiezza delle rivolte dei giovani delle banlieues francesi di questi giorni hanno già trasformato questa fiammata di violenze in un fatto storico. Anche se è presto per valutarne il peso e le conseguenze, chiediamo allo storico Jean Chesneaux di inquadrare la situazione attuale in una prospettiva storica.
Professore, stiamo assistendo a un nuovo '68, come dicono alcuni, oppure piuttosto agli ultimi momenti di Weimar?
Diffido dei riferimenti storici: la storia non si ripete e ogni crisi importante è sovradeterminata, come direbbe Althusser, quindi singolare. Il `68 è stato un avvenimento singolare: un attacco frontale contro l'ordine stabilito da parte di strati sociali e di una generazione che in grosso beneficiavano di questo stesso ordine, ma volevano altro, di più. Oggi la situazione è completamente diversa. Il movimento in corso è alimentato dagli strati più sfavoriti e da una generazione senza speranze. Tuttavia, c'è un carattere comune con il maggio `68: entrambi i movimenti non rientrano nelle categorie politiche razionali. Gli avvenimenti del 27 ottobre 2005 sfuggono all'analisi politica classica, nessun partito li sostiene. Si situano all'esterno dei processi politici classici, come il maggio `68. La prova è che, oggi come allora, i media e i politici non sembrano capire nulla di quello che succede. Maggio francese o Weimar? Il maggio `68 era un movimento di iniziativa dinamica, di forze sociali all'attacco dell'ordine stabilito. Weimar è invece un movimento di difesa disperata dell'ordine borghese tradizionale. La monarchia era finita, l'autorità dell'esercito senza più credibilità, ma la società borghese si appropria disperatamente dell'ordine bismarckiano. Un ordine che era minacciato da forze sconosciute e imprevedibili, da cui è venuto fuori il fascismo, il nazismo. Weimar è un riferimento più angosciante del `68, perché nel Maggio c'era slancio, attivismo, gioia di vivere, mentre Weimar difende un regime minacciato di morte e che finirà per morire.
Ma come a Weimar c'è il rischio della morte di un ordine sociale in agonia?
Se oggi in Francia l'ordine non viene ristabilito, in condizioni accettabili sia per i giovani che per la cittadinanza repubblicana - cioè nel rispetto dei valori repubblicani - si può temere che il degrado della situazione nelle banlieues porti alla presa del potere da parte di elementi che approfittano dell'imperizia dell'Ump, dei chiracchiani, per stabilire un ordine nuovo, che non avrà certo nulla in comune con il nazismo, ma che merita di essere messo in parallelo con Weimar: cioè sarà il crollo della V Repubblica. E' un riferimento inquietante che fa riflettere sulla gravità della situazione.
Ci sono altri riferimenti storici possibili?
Se bisogna cercare dei precedenti non è certo dal lato dei sollevamenti operai, né il `68, ma nei movimenti di disperazione dei neri negli Usa negli anni `65-'70. Watts, Detroit: è il solo movimento precedente di autodistruzione, di protesta senza prospettive e senza speranza. Quartieri interi bruciati, distruggere per distruggere. Le forze sociali del movimento attuale sono senza prospettive, senza idee direttrici. Possiamo cercare un'analisi sociologica. Le strutture più gravemente prese di mira sono quelle dell'ordine, dell'apparato della società: scuole, Posta, trasporti, evidentemente la polizia e i commissariati. Dall'altro ci sono i simboli del consumo, i supermercati. Ma sarebbe superficiale leggere questo movimento come rivolto contro le strutture di ordine e il consumo, perché sarebbe cercare qualcosa che non esiste, una razionalità che non c'è.
Allora è più adatta un'analisi di psicologia sociale?
Bisogna difatti parlare di richiamo del vuoto, di pulsione del nulla, di abisso. Le analisi marxiste rifiutano questa dimensione, che sfugge alla ricerca della razionalità. Noi siamo figli di Descartes, di Newton, di Leibniz: a un problema vogliamo trovare una soluzione. Ma qui non c'è soluzione. C'è una pulsione di distruzione che si ferma alle vicinanze, sono le auto dei poveri che vengono bruciate, le imprese locali, così compromettono il loro avvenire e la vittima principale è lo spazio sociale di prossimità. Non bisogna quindi, secondo me, cercare una razionalità in un movimento che è fondamentalmente espressione di pulsioni irrazionali. Questo ci riporta a Weimar, alle folle che aspettavano Hitler, alcuni psichiatri dicono che la Germania ha "desiderato" Hitler, nel senso freudiano del termine. Naturalmente è un'irrazionalità diversa dal nazismo, non siamo alla stessa epoca, le condizioni non sono le stesse, la tecnologia non è la stessa, bisogna considerare il ruolo dei telefonini, della tv, che ha il dovere di mostrare le immagini delle distruzioni, ma al tempo stesso queste immagini sono malsane.
Villepin dice che la Francia non è un paese come gli altri. Ma questi incendi non segnano il fallimento del modello francese di integrazione, sulla carta non comunitaristico?
E' il fallimento completo, anche se altrove le cose non vanno meglio. Siamo al grado zero dell'integrazione, all'avvenire zero, non c'è lavoro, non c'è promozione sociale. Siamo anche al rispetto zero. A Parigi le fortificazioni sono state abolite nel 1924. Non bisogna dimenticare che Parigi era una piazza militare. Ma queste fortificazioni sussistono, c'è un muro morale tra Parigi e la banlieue. Anche nel più modesto arrondissement parigino c'è una fierezza culturale, un'arte di vivere che, a parte alcune rare eccezioni, non esiste in banlieue, luogo "bandito", come dice il nome. E' la V Repubblica che ha rotto le relazioni tra Parigi e la sua periferia. Prima della V Repubblica esisteva il Dipartimento della Senna, che risaliva alla Rivoluzione. L'architetto Paul Chemetov dice che con la V Repubblica Parigi ha dato congedo alla sua banlieue, come si licenzia una cameriera. Non ci sono più le fortificazioni, ma il périphérique è una barriera psicologica e culturale, non solo urbanistica.

il manifesto 10.11.05
Una rivolta figlia del liberismo economico
Agostino Petrillo

Sono passati quattordici anni dalla "intifada delle banlieues" del '91, ma i problemi sono ancora tutti lì, semmai amplificati dal contesto attuale, come timidamente suggeriva Alain Touraine nell'intervista riportata da Repubblica giovedì scorso. Il fatto che la terza generazione degli immigrati francesi appaia ancora più smarrita ed emarginata delle precedenti non deve stupire. Le immagini che in questi giorni tornano sono quelle consuete: gli scontri, le macchine bruciate, i pattuglioni che rastrellano i quartieri "nemici". Ci parlano di un'inquietudine di vecchia data, del dilagare di una enorme rabbia e del cronicizzarsi di una condizione urbana segnata da una crescente divisione sociale e dalla povertà. Il monito è chiaro: non si può pensare che le popolazioni penalizzate e marginalizzate nell'Europa attuale se ne staranno buone per sempre, confinate negli spazi che sono stati loro riservati. Ed è quantomeno miope, se non addirittura criminale, attribuire i disordini attuali prevalentemente ad un problema di identità culturale o religiosa. La "violenza" è frutto di una lunga esasperazione. Quanto avviene in questi giorni a Parigi è da un lato la logica conclusione di una lunga serie di promesse non mantenute, dall'altro il risultato dell'impossibilità di governare con criteri "tradizionali" una situazione che è oggettivamente anomala. Lo dimostra il fatto che per tutto il decennio appena trascorso episodi analoghi si sono susseguiti senza soluzione di continuità facendo parlare alcuni commentatori di una sorta di "guerra civile strisciante". A questi giovani era stato detto che per raggiungere l'uguaglianza dovevano solo diventare francesi. Apprendere usi e costumi, frequentare le scuole, conseguire un titolo di studio, padroneggiare la lingua. Poi ci sarebbe stata la contropartita, un trattamento paritario, e sarebbero stati inseriti come e meglio dei loro padri. La prospettiva era quella di approdare almeno ad una condizione media, se non al benessere.
In realtà quello che è stato offerto loro sono stati soltanto posti di lavoro di scarto e una casa negli squallidi palazzoni dei Grands ensembles. Per questo la questione sociale che trova una sua clamorosa espressione nei conflitti che scuotono la banlieue c'entra poco con il "terrorismo" o con "l'islamismo di ritorno" dei giovanissimi. I "barboni" integralisti sono lì a guardare, pronti magari a reclutare quanti usciranno massacrati dai commissariati, ma non rappresentano certo il motore della rivolta. Il nodo della questione risiede nei processi economici che producono disuguaglianza, nella disoccupazione e nella precarizzazione del lavoro, in un quadro generale reso ancora più aspro dalla crescente discriminazione etnica e socio-spaziale, che fa sì che nuove frontiere interne si creino nelle città.
Tanto più grave è la situazione in cittadine come Clichy, epicentro della rivolta, vero e proprio ghetto di quasi 30.000 abitanti, da cui i ceti medi sono progressivamente fuggiti, in cui il 50% degli abitanti ha meno di 25 anni e il tasso di disoccupazione raggiunge il 25%. Ebbene proprio in centri come questi, in cui la situazione era precariamente tenuta insieme da reti di volontariato e di associazionismo, gli aiuti statali sono negli ultimi anni progressivamente diminuiti, mentre la promessa di abbattere i vecchi palazzoni per creare insediamenti più umani è rimasta per lo più sulla carta. Se il fallimento della politica della casa per i migranti è uno degli aspetti non appariscenti, ma sostanziali della crisi, è anche inutile continuare ad illudersi che nell'andamento attuale dell'economia vi sia qualcosa di "naturale", e che si tratti solo di "gestirne" le conseguenze. Sotto questo profilo il fatto che vinca la linea Sarkozy o quella de Villepin è scarsamente rilevante, se non per quanto riguarda lo scontro politico tra i due. Il fatto che si affermi la maniera dura, la "tolleranza zero", o che prevalga l'orientamento ad un "contenimento soft" nel ricondurre i marginali alla ragione, non scalfisce in alcun modo la loro condizione.
Esiste oggi in Europa una grande ipocrisia, che ricopre la questione dell'ineguaglianza, che nega che l'insicurezza sociale sia il risultato di mutamenti strutturali intervenuti, che si appella a sempre più esili confini di legalità stabilite in altre epoche storiche per difendere privilegi ed ingiustizie. In questo senso ricondurre strumentalmente quanto avviene al "terrorismo" potrebbe essere un errore fatale, se non addirittura l'espressione di una falsa coscienza in cerca di facili autoassoluzioni.
Certo i fuochi della banlieue sembrano ancora dire solo un no inarticolato, alzare un grido di protesta senza prospettive. Ma chi saprà ascoltare le parole di questa rivolta? Se l'unico modo di affrontare i problemi che essa pone sul tappeto sarà quello di imporre forme più rigide di controllo poliziesco del territorio e di compartimentazione degli spazi, allora vuol veramente dire che dobbiamo prepararci al peggio. Per le città europee, in mancanza di coraggiosi ed energici interventi riformatori, si prospetta un'epoca selvaggia.

il manifesto 10.11.05
Cofferati, sgombero morbido contro il Prc
I container saranno pronti entro il 20 novembre. Rifondazione: «Trovare una soluzione per tutti»
Sara Menafra

I container dove saranno spostati...
(...)
Ieri, a ventiquattrore dall'ennesima riunione di giunta, il Prc ha spiegato che nel testo finale che nelle prossime settimane passerà dalla giunta al consiglio dovranno essere fissati alcuni «diritti inalienabili esigibili da tutti». E Cofferati ha fatto sapere che tra una settimana presenterà la sua risposta con un testo scritto.
(...)
Rifondazione, che guida la protesta tra qualche difficoltà interna, ha deciso di proporre un testo che fissa alcuni punti in modo chiaro. L'ultimo di questi, e forse il più impegnativo, tocca proprio il tema dei diritti da garantire a immigrati, clandestini o meno. Nella versione del testo proposta dal Prc le politiche di inclusione e di accoglienza «dovranno fondarsi sul riconoscimento della persona come portatrice di pari diritti e doveri e di opportunità di accesso ai servizi». Di distinzione tra chi ha il permesso di soggiorno e chi no - elemento portante del testo presentato dal sindaco Cofferati - in quel testo non c'è traccia.
(...)
Alla prova dei fatti, però, la mediazione su cui si lavora in questi giorni rischia di cedere. «Il documento, se davvero la mediazione ci sarà - dice il segretario di Rifondazione comunista, Tiziano Loreti - deve essere anche un testo in cui si fissano le regole per il futuro. E noi pensiamo che quando lo sgombero delle baracche sul Lungoreno sarà completato, bisognerà trovare una soluzione per tutti e tutte quelli che oggi ci vivono. E per tutti intendo nuclei familiari e singoli, lavoratori in nero clandestini come pure le persone con un permesso di soggiorno regolare»...

il manifesto 10.11.05
Scienza/ «La filosofia alla base del biotech è obsoleta»
Per Capanna (Cdg) il futuro geneticamente modificato ha presupposti ottocenteschi
Luca Fazio

«Visto che roba tosta?». Mario Capanna, presidente del Consiglio dei diritti genetici, non sta più nella pelle e usa un'espressione colorita per magnificare la tre giorni di convegno su Scienza e società che comincia oggi a Lastra a Signa (Firenze).
Si parte con un workshop su determinismo e riduzionismo. Non è volare troppo alto, con tutti i problemi che ci sono sul piatto, dagli ogm agli interessi del biotech, al virus H5N1...?
Quello che ci proponiamo di dimostrare è che il metodo e la filosofia che reggono il discorso delle biotecnologie non è il non plus ultra della modernità, anzi, sono entrambi tributari di un determinismo che ne inficia i risultati. Del resto il dogma centrale dei biologi molecolari è crollato con la scoperta del genoma umano, ciò che dimostra, per esempio, che gli organismi geneticamente modificati nelle piante non hanno una trasmissibilità sicura.
Chi mette in discussione i dogmi della scienza viene accusato di essere retrogrado e non progressista.
E' vero il contrario. Oggi le biotecnologie sono portatrici di una impostazione obsoleta che richiama il meccanicismo di fine Ottocento: si stanno spendendo milardi di dollari per un apparato di ricerca che è già vecchio. E' questa idea di scienza che rappresenta una fase decisamente superata. Il Consiglio dei Diritti Genetici in Italia è l'unica autorità scientifica davvero indipendente, noi siamo proiettati verso il futuro.
Quali risposte è chiamata a dare la politica?
Il problema della governance è centrale. Noi abbiamo a che fare con una svolta inedita dello sviluppo umano. Di fronte a questa autentica rivoluzione che va molto al di là della scienza oggi non vi è alcun controllo democratico ed è assolutamente necessario dotarsi di strumenti per governare questi processi, non possiamo lasciare la ricerca in mano ai privati. E il nostro paese in Europa è il fanalino di coda.
Siete preoccupati per il fatto che il ministro nero/verde Alemanno potrebbe avere i mesi contati? Cosa chiederete al governo dell'Unione, se verrà?
Vorrei dare per scontato che un governo di centrosinistra non si faccia scavalcare a sinistra dal ministro Alemanno. Come minimo il futuro governo dovrebbe tenere ben saldo il principio di precauzione, approfittando del fatto che l'Italia ha una posizione di avanguardia a livello europeo: quattordici regioni italiane si sono già dichiarate ogm-free e non per caso siamo ospiti della regione Toscana. Al futuro governo chiederemo anche di esercitare una pressione sull'Europa, è un fatto che i cittadini europei al 70% sono contrari agli ogm.
Sabato interverrà anche Giuliano Amato, dubito che potrete incontrarvi su questo terreno, quanto a Prodi sarà dura iscriverlo al partito anti-ogm.
Recentemente Prodi si è detto disposto a un confronto nazionale su questi temi, sono anni che noi stiamo proponendo un dibattito che coinvolga tutta la società.
Non trovi che nell'ultimo anno sia un po' calata la tensione sugli ogm?
A livello superficiale, o mediatico, potrebbe sembrare così. Ma è il contrario. Oltre alle quattordici regioni ci sono già tremila comuni che si sono dichiarati ogm-free, significa che il livello di conoscenza ormai si è consolidato capillarmente. Inoltre, proprio la vicinanza delle elezioni, considerando che ci sono associazioni come Coldiretti e Cia che non intendono utilizzare semi gm, ci permetteranno di riportare all'ordine del giorno la questione delle biotecnologie. Il punto è: diteci come la pensate e poi andremo a votare.

martedì 8 novembre 2005

Corriere della Sera 8.11.05
Un nuovo Concordato
Il 40% è favorevole

di Renato Mannheimer

Più del 40 per cento degli italiani giudica quantomeno «opportuna» una revisione del Concordato, l’accordo siglato tra lo Stato italiano e la Santa Sede. I numeri del sondaggio dicono che tra gli elettori del centrosinistra i «revisionisti» superano la maggioranza assoluta. Tra i sostenitori del centrodestra sono invece uno su tre.
La questione è delicatissima. Non a caso buona parte dei politici preferisce non parlarne. E, spesso, coloro che lo fanno la prospettano (giustamente) con grande cautela. Ma l'idea che si possa/debba rivedere (o abolire) il concordato è relativamente diffusa nell'elettorato italiano. In una minoranza, certo: ma numericamente assai consistente. Più del 40% ritiene infatti che una revisione dell'accordo siglato a suo tempo tra lo Stato italiano e la Chiesa sia quantomeno «opportuna». E più di un italiano su cinque si spinge ad affermare che si tratterebbe di un provvedimento «molto opportuno». C'è, come sempre accade, una differenza di opinioni tra l'elettorato di centrodestra e quello di centrosinistra. Quest'ultimo è sostanzialmente più favorevole alla modifica (o alla abolizione) del concordato: tra chi vota per i partiti dell'opposizione questa opinione supera, seppur di poco, il 50%. Viceversa, tra i votanti per la CdL la maggioranza relativa sostiene che una revisione sia poco opportuna. Ma, anche in quest'ambito, grossomodo uno su tre (con una particolare accentuazione tra gli elettori della Lega, ove superano il 40%) si dichiara viceversa a favore. In realtà, com'era forse prevedibile, la diversità di atteggiamento non dipende tanto dalla forza politica di appartenenza, quanto dall'esistenza di un riferimento più o meno stretto al cattolicesimo. Si sa che la presenza dei cattolici è «trasversale» tra i diversi partiti. Si definisce religioso/praticante grossomodo un terzo dell'elettorato di FI, di An, della Margherita. E più di un quinto di quello della Lega, dei DS, di Rifondazione.
L'orientamento favorevole alla revisione (o alla abolizione) del concordato è registrabile nella maggioranza assoluta di quanti - indipendentemente dall'orientamento politico - dichiarano di non andare "mai" alle funzioni religiose. Tra chi, viceversa, afferma di frequentare, anche raramente, la Chiesa, risulta maggioritaria l'opinione opposta. Con una intensità crescente al crescere della assiduità nella pratica religiosa. Il 70% del segmento che afferma di recarsi in Chiesa «una o più volte alla settimana» è contrario a rivedere il concordato. Ma, persino tra costoro, più del 25% vorrebbe comunque un ripensamento al riguardo.
E' un'altra conferma della misura in cui questo tema provoca fratture - anche profonde - all'interno di tutti i partiti, a destra come a sinistra. E che, per questo motivo, è considerato dirompente. Troppo per poter essere affrontato in questo momento.

Corriere della Sera 8.11.05
«Ho visto il fosforo bianco incenerire Falluja»
Michele Farina


«A Falluja ho visto corpi bruciati di donne e bambini. Il fosforo bianco esplode a forma di nuvola. Chi si trova nel raggio di 150 metri non ha scampo». Jeff Englehart è un ex marine, un veterano dell’Iraq che nel novembre 2004 assistette agli ultimi due giorni dell’offensiva Usa nella roccaforte della guerriglia sunnita. Un marine contro la guerra, un blogger autore di un diario online (www.ftssoldier.blogspot.com) e uno dei testimoni chiave di «Falluja, la strage nascosta», il documentario di 22 minuti realizzato da Sigfrido Ranucci per RaiNews 24 . L’impiego del fosforo bianco a Falluja fu confermato dal Pentagono il 27 gennaio 2005. Giornalisti di diverse testate al seguito dei 12 mila soldati videro quelle nuvole bianche che, come disse una fotografa del New York Times, «rischiavano di colpire gli stessi marines». «Servono solo a illuminare le postazioni nemiche - spiegò il ministero della Difesa -, e non sono armi illegali». Sulla carta, un proiettile al «white phosphorus» a questo servirebbe, a illuminare un chilometro quadrato per due minuti con una potenza di «un milione di candele». Sulla carne, invece, il Willy Pete (come è chiamato per via delle iniziali) è devastante: «Brucia i corpi - racconta l’ex marine Jeff, già intervistato da Diario alcuni mesi fa -. Li scioglie fino alle ossa, lasciando intatti i vestiti». Un’arma «da usare sul campo di battaglia, non in una città abitata».
Falluja era abitata. Non tutti i civili seguirono l’ordine di evacuazione. Gli americani non hanno mai parlato di vittime civili ma di «1.600 combattenti nemici uccisi» e di «51 soldati Usa».
Organizzazioni non governative fanno partire il bilancio da 800 morti, tra cui donne e bambini. Il documentario di Rainews 24 , sostiene Sigfrido Ranucci, «è la prova che gli Usa hanno usato il fosforo bianco non solo per illuminare la città, ma per distruggerla».
«La strage nascosta» mostra i volti di un orrore senza nome. Il biologo Mohammed Tareq al Deraji, 33 anni, direttore del Centro Studi per i diritti umani e la democrazia di Falluja, denuncia l’uso del fosforo bianco, che ambiguamente i tecnici non mettono tra le «armi chimiche» ma tra quelle «incendiarie». Al Deraji è lo stesso che fornì al Diario alcuni video e circa 400 foto di cadaveri, scattate dopo l’offensiva, anche se allora non puntò molto il dito su Willy Pete. Giuliana Sgrena invece nel documentario racconta: «Avevo raccolto testimonianze sull’uso del fosforo e del napalm da alcuni profughi di Falluja, li avrei dovuti incontrare il giorno in cui mi hanno rapita».
Nel 1985 fu provato l’uso del fosforo bianco (fornito da Washington) contro civili in Salvador. Nel 1945, cinquantamila abitanti di Amburgo morirono bruciati da quella sostanza incolore, che sa di aglio e serve pure a creare barriere di fumo. Si deposita sulla pelle e non va via. Gli abitanti di Amburgo cercarono rifugio nei laghi. Uscendo dall’acqua, al contatto con l’ossigeno il fosforo riprendeva a bruciare. A spolparli. Quanti sono morti a Falluja nello stesso modo?

Asca 7.11.05
Francia: la ribellione anticipata di una generazione sull'Italia
L'opinione di Franco Cacciari

(ASCA) - ''Soltanto la prevenzione evita il rischio di future situazioni esplosive''. Lo ha detto il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, commentando con i giornalisti la rivolta di giovani immigrati in Francia. Il sindaco ha premesso che la situazione storico-sociale della Francia ''non puo' essere rapportata a quella dell'Italia di oggi, ma che la anticipa di una generazione: i protagonisti della ribellione appartengono alla seconda generazione degli immigrati, e quindi sono francesi a pieno titolo ma che vivono in condizioni di palese ineguaglianza''. Secondo Cacciari, ''quanto accade oggi in Francia e' gia' accaduto nei grandi ghetti delle metropoli degli Stati Uniti d'America, e sicuramente accadra' anche in Italia, se non si sapranno cogliere la strutturalita' e la epocalita' del problema della immigrazione e non si sapra' dare risposta con serie politiche di accoglienza e di integrazione e con politiche di cooperazione con i Paesi di provenienza''. I Comuni - ha detto Cacciari - devono avere la possibilita' di affrontare in modo serio e decente il problema della immigrazione, specialmente nel settore di piu' immediata competenza, quello dei nomadi: ''devono avere fondi adeguati, la possibilita' di una speciale attenzione a queste persone nella politica della casa e della residenza, la possibilita' di attivare una politica di formazione e di scolarita'; altrimenti, rimane la strada della ghettizzazione, al momento la piu' semplice, in realta' quella che a distanza crea disastri. Occorre invece una strategia a lungo termine e con stanziamenti adeguati, che deve essere concertata a livello europeo: siamo di fronte a un cambio d'epoca che non puo' essere affrontato nei ristretti ambiti dei singoli Paesi, ma a livello europeo, perche' e' l'Europa, e non un singolo Paese europeo, la terra cui gli immigrati anelano e in cui arrivano''.

l'Unità 8.11.05
Il premier parla in tv: via libera ai prefetti
«No all’esercito, sì ai riservisti»
Il 71% dei francesi boccia il governo
g.m.

Stamane il consiglio dei ministri, presieduto da Jacques Chirac, darà il via libera ai prefetti: potranno decretare il coprifuoco nelle zone di loro competenza qualora ritengano che la situazione dell'ordine pubblico lo richieda. L'ha annunciato ieri sera il primo ministro Dominique de Villepin. Non è previsto invece l'impiego dell'esercito, come da più parti si era chiesto: «Non siamo a questo punto», ha detto de Villepin.
Il ristabilimento della legalità rimane dunque il primo obiettivo del governo francese al dodicesimo giorno di disordini incontrollati. Per raggiungerlo non esita a ricorrere ad una misura eccezionale come il coprifuoco, per quanto affidato alla polizia e ai gendarmi e non ai militari. De Villepin, che ha parlato a lungo sulla prima rete (Tf 1) al tg delle 20, ha voluto che il primo messaggio fosse chiaro: «Le violenze sono inaccettabili e imperdonabili». Ha ribadito l'indicazione data agli uffici giudiziari di procedere per direttissima contro i fermati, che sono ormai più di mille. Ha confermato il rafforzamento degli effettivi di polizia: 1500 riservisti richiamati in questi giorni hanno portato a quasi diecimila gli uomini impegnati sul terreno.
Ma de Villepin non poteva limitarsi ad un bollettino di guerra. Al suo governo era stata chiesta chiarezza sulla morte dei due ragazzini a Clichy-sous-Bois, il dramma che è all'origine di quanto sta accadendo: «Ho ricevuto i loro genitori, gli ho garantito la massima trasparenza. Non erano inseguiti dalla polizia, ed in ogni caso saranno informati di ogni sviluppo dell'inchiesta». Al governo era stato chiesto anche, da parte degli esponenti della comunità musulmana della Seine-Saint-Denis, di scusarsi per il lancio di una granata lacrimogena dentro una moschea gremita di fedeli intenti alla preghiera, un fatto che era stato vissuto da molti come «sacrilego». De Villepin si è scusato, assicurando che «in alcun momento la moschea era stata presa di mira», ed esprimendo il suo «rammarico» davanti all'emozione che l'accaduto aveva suscitato.
Dal primo ministro si aspettavano ieri impegni precisi per migliorare le condizioni delle banlieues. Il governo di destra, per esempio, era stato accusato di aver cancellato o diminuito i finanziamenti all'associazionismo presente nelle periferie. De Villepin si è cosparso il capo di cenere: «È vero, ma adesso li ristabiliremo. Le associazioni avranno di nuovo i contributi che gli erano stati tolti». Ha poi annunciato una specie di riforma nel senso del decentramento: «I sindaci, che sono sul terreno e ne conoscono i bisogni, avranno molti più poteri». Ha definito l'educazione come «prima priorità»: «Oggi ci sono 150mila giovani che escono dalla scuola prima del tempo, senza diploma. Sono quindi in rottura con la scuola e con la società. Faremo in modo di reintrodurre la possibilità dell'apprendistato a 14 anni, per coloro che trovano particolari difficoltà nel percorso scolastico».
Ha promesso la moltiplicazione delle borse di studio e degli internati, dove oggi sono pochissimi i figli dell'immigrazione. Infine ha assicurato che il suo governo farà, fin da subito, uno «sforzo eccezionale» per l'occupazione nelle periferie, introducendo nuovi contratti-formazione e dando una corsìa preferenziale ai candidati al lavoro provenienti da quelle zone.
La performance televisiva del primo ministro è stata senz'altro di buon livello. Quanto all'efficacia, è lecito nutrire dubbi: la distanza tra de Villepin e i giovani in rivolta è siderale e non poteva essere certo colmata da un'intervista. È importante però che il messaggio politico del governo venga da lui, e non da Nicolas Sarkozy, l'uomo del quale i rivoltosi continuano a chiedere la testa. Tra i francesi, secondo un sondaggio commissionato da Yahoo e Liberation, c’è una certa sfiducia nell’esecutivo: il 71% pensa che il governo nelle periferie stia «andando nella direzione sbagliata», mentre solo il 20% si dice favorevole alle scelte fatte nelle banlieue.

aprileonline.info 8.11.05
I dieci giorni che hanno sconvolto la Francia
La rivolta delle ''banlieues'' ha radici politiche, a cui si accompagnano voglia di comunicare e contagio imitativo. Tra gli obiettivi, le dimissioni del ministro dell'interno Sarkozy
di Rino Genovese e Federica Montevecchi, da Parigi

Non si può comprendere ciò che avviene nelle banlieues francesi – una rivolta che lambisce ormai il centro di Parigi e si va estendendo a tutto il paese – se non si parte dalla specifica situazione francese, se non si conosce quello che sta avvenendo da anni: controlli di polizia mirati su chi ha la pelle nera o un aspetto anche soltanto vagamente maghrebino, in una maniera vissuta come una vera e propria persecuzione. Né si può spiegare ogni cosa con la semplice delinquenza: l’argomento delle “bande criminali”, che pure ci sono, non spiega l’estendersi di una rivolta che dura da più di dieci giorni.
Tutto ha inizio con il successo di Le Pen alle presidenziali del 2002. Per la prima volta il candidato dell’estrema destra razzista arriva al ballottaggio, superando, sia pure di poco, il candidato socialista Lionel Jospin, penalizzato dalla divisione della sinistra al primo turno. Da quel momento la politica della destra al governo – in particolare quella del ministro dell’interno Sarkozy, ambizioso aspirante all’eredità di Chirac – è stata tesa quasi unicamente a dare una risposta al bisogno d’ordine proveniente dall’elettorato di destra, al fine di recuperare i voti di Le Pen.
C’è dunque un aspetto politico oggettivo. Alla rabbia dei giovani dei sobborghi nei confronti della polizia, da tempo scatenata, si sono aggiunte le provocazioni verbali di Sarkozy che ha soffiato sul fuoco. Il bersaglio ora è lui, c’è poco da fare. La violenza di questi giorni non è politicamente organizzata – almeno, non nel modo dell’organizzazione politica tradizionale, con un coordinamento o qualcosa di simile –, ma ha un obiettivo politico, ed è organizzata nel senso in cui è organizzata la comunicazione sociale.
Cosa vogliamo dire con questo? Si deve condannare la violenza, ma non si deve dimenticare che essa (perfino nella forma della guerra e del terrorismo) è diventata uno dei principali mezzi di comunicazione della comunicazione contemporanea. La violenza serve a comunicare. Se si è esclusi dalla televisione, per esempio, o se la televisione presenta la realtà dei sobborghi in una maniera ritenuta falsa da quelli che ci vivono, si incendiano le automobili, appunto per vedere divampare gli incendi in televisione e inviare un messaggio. Il fatto riprovevole che ciò possa procurare la morte di qualche malcapitato è visto come un “effetto collaterale” da chi comunica con la violenza. C’è inoltre una tendenza all’emulazione all’interno dei gruppi, che è un aspetto non secondario della comunicazione: se nel quartiere vicino hanno bruciato cinquanta automobili, noi ne bruceremo cinquantuno. Chi studia i fenomeni sociali conosce bene questi aspetti mimetici, che configurano una sorta di "potlach" neotribale al tempo stesso arcaico e moderno.
A questioni del genere bisognerebbe rispondere con la politica nel senso più autentico, ossia con quella forma di comunicazione che evita la violenza e organizza la democrazia. Non si tratta nemmeno soltanto delle politiche sociali, che pure sono importanti; si tratterebbe di organizzare la protesta dal basso in forme non violente. Ma oggi chi va a sporcarsi le mani con il lavoro politico nelle periferie? Nessuno. Addirittura i socialisti francesi (che pure hanno criticato il governo, ad esempio, per avere pressoché liquidato la polizia “di prossimità” capace di dialogare nei quartieri a favore dei semplici corpi repressivi) non hanno fino a questo momento – a differenza dei Verdi e del Pcf – chiesto le dimissioni di Sarkozy. Non intendono fornire ragioni alla rivolta. Eppure se la rivolta “vincesse”, se Sarkozy fosse costretto ad andarsene, non sarebbe un vantaggio per la sinistra e la democrazia francesi?

ilcassetto.it
http://www.ilcassetto.it/notizia.php?tid=313
Oltre le sbarre
Condannati…. all’altro mondo. Storie, persone e numeri dalle carceri italiane
di Pino Di Maula

Si dice recupero, ma s’intende qualcos’altro. Che fa più male dell’indifferenza. Si dice che all’“Osteria della Colonna” succeda di tutto. Ma avviene dentro “li cancelli” dei 207 stabilimenti balneari, gli “Hotel Centograte”. Quelli “ duri” (d)a morire.
Festeggiava la sua nascita, il 5 ottobre, Patrick. Ma non la trovava. Nonostante la torta. Era recluso da otto mesi al Bassone. Gliene restavano da scontare 15. Troppi, per chi (forse per un’ “immagine” già lesa dalla droga) non si adatta alla vita di “Casanza” come “nu guaglione ‘e malavita”. In quei casi si chiude gli occhi per (farsi) sparire. Non ci vuole molto con le bombolette del gas offerte in cella. Dell’episodio (il quarto nella stessa prigione “modello” dalla primavera dello scorso anno), reso pubblico a fine mese, si sta occupando la Procura della Repubblica. Si dice così. Perché è quel prevede la legge. E un po’, forse, anche per confondere il nome delle cose affinché quella vita spezzata non abbia più titolo (come chi muore in ambulanza) neanche per incrementare il drammatico bilancio dei suicidi. E il ministro Castelli potrà così dormire sonni tranquilli avendo di che celebrarsi quando bisticcia con Luigi Manconi sul numero esatto (sono 52 o 60, 65?) delle persone che, nel ’94, hanno preferito l’altro mondo alle patrie galere. Si dice così.
Servirebbe un “Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale''.Ma per ora siamo solo alla proposta di legge (bipartisan). A sette anni di distanza dalla prima bozza, approda adesso alla Camera. Prova a rimediare qualche Comune.
Capaci d’intendere e volere, suicidarsi
‘Ah! Ecco il sole, esso viene a visitare la mia solitudine’ scrivevano, nel 1888, i detenuti sulle pareti (Palinsesti dal carcere di Cesare Lombroso). Non sarà quel che pensano oggi i loro sventurati colleghi quando, superato lo scalino di Regina Coeli, incontrano Manconi, ma qualche beneficio (nonostante Castelli durante la rivolta a Rebibbia, l’estate scorsa, gli abbia impedito di entrare nel carcere) deve aver pur prodotto questo inedito difensore civico per i carcerati. In fondo è stato nominato dal Comune di Roma proprio per migliorare le loro condizioni. E in effetti «lì – attesta il suo collega, direttore dell’associazione “A Buon Diritto”, Andrea Boraschi – le cose vanno meglio». Ne è convinto anche Massimo Ponti, da tredici anni psicoterapeuta presso l’ufficio “Nuovi giunti” del carcere giudiziario (in attesa di giudizio) capitolino: «Al clima militare di cinque o sei anni fa – dichiara lo psicologo – è subentrata la voglia di capire per fare, insieme, meglio». Tutto bene dunque? «Lo spirito collaborativo del direttore con guardie, medici, infermieri è un progresso notevole, ma – commenta Ponti - anche se non ci sono più modi arroganti, il clima di per sé resta violento». In che senso? «Nella sezione dove tutti parlano ad alta voce – riferisce l’analista - rimbomba tutto». La frase fa un certo effetto evocando suoni che possono far impazzire, quando non entri che sei già malato. «Il nostro compito – dichiara lo psicoterapeuta - è proprio quello di “slatentizzare” eventuali dimensioni psicopatologiche latenti». Ponti deve insomma capire quali nuovi “ospiti” capaci, apparentemente, d’intendere e volere, potrebbero farsi (o far) del male.
In quei casi, quando il disturbo non è grave, si prescrivono medicinali per rendere sopportabile l’insopportabile, altrimenti c’è il trasferimento presso gli ospedali giudiziari. Sempre che, come è accaduto in passato, per qualche ritardo dovuto a crudeli cavilli burocratici, il malcapitato non decida di farla finita prima.
Per comprendere, però, fino in fondo il dramma, si dice, bisogna “passarci” . E Sergio Segio ci è passato, eccome. C’è stato un tempo per la lotta armata e un altro per la ricerca. Se nel 1982 per aprire le prigioni usava far brillare venti chili di esplosivo (causando la morte di un passante di 64 anni), oggi per “liberare” i detenuti usa l’arma della critica (cui segue la forte critica delle armi). E della verità. Col metodo di pensiero cambia anche l’identità. E arrivano nuove realizzazioni. Come “comandante Sirio” di “Prima Linea” ha scontato 22 anni, mentre in qualità di volontario, nel 2003, gli è stato conferito il premio internazionale all’impegno sociale “Rosario Livatino”. Trasformazioni, più che mai, rivoluzionarie. Ma non finisce qui: «Dallo scorso 12 settembre – rivendica Segio - è in atto una mobilitazione sui problemi del carcere, nata da un mio appello e da un digiuno a staffetta che ha coinvolto centinaia di persone, associazioni, sindacalisti, volontari».
Di-mostrare l’evoluzione del dramma è compito però del sociologo. Ecco allora il linguaggio tecnico che mette il numero al fianco della parola “detenuto” (dove il termine “persona” perde, incomprensibilmente, facoltà di esistere). Nel 2002 e nel 2003, oltre il 60 per cento dei detenuti si è ucciso entro il primo anno. L’obiettivo dello studio di “A Buon Diritto” (e di altre associazioni come Antigone che dal 2006 produrrà un nuovo quadrimestrale diretto da Claudio Sarzotti) si allarga per misurare ancor più a fondo il fenomeno. Si scopre perciò che il 53.9 per cento dei suicidi avviene nei primi sei mesi di reclusione. Mentre, al 30 aprile del 2005, risultano sufficienti solo tre giorni per “stroncare” quattro persone. Verrebbe da puntare il dito contro i reparti “Nuovi giunti”. In realtà, denuncia Boraschi, ce ne sono solo 16 su 207 carceri. Manca il personale, dunque, «specie – avverte Segio – sul fronte educativo». Questa la mappa dell’inadeguatezza: «1.223 assistenti sociali rispetto ai 1.630 previsti dalla pianta organica (1 ogni 48 detenuti), 551 educatori anziché 1.376 (uno ogni 107 detenuti), e 400 psicologi con una media di sole due ore per istituto (uno ogni 148 detenuti)». Dati che condannano (qui non serve il tribunale) senza appello. Come quando, ma questa non è una novità, all’atto medico si sostituisce l’assistenza religiosa. Col risultato che, paradossalmente lo schizoide criminale, “benedetto” da qualche frate, appare miracolosamente come un angelo (sul modello di Angelo Izzo per intendersi), libero quindi di volar via. E di massacrare altre donne. Meglio sarebbe, forse, allora aumentare i camici bianchi (nonché il loro bagaglio teorico) a scapito, per una volta, delle tonache.
Un Sistema (quasi) fuorilegge
Solo che questa, si dice, è un’altra storia. Che, in effetti, riguarda poco la maggior parte di donne e uomini che subiscono disagi disumani. Da cancellare secondo il regolamento carcerario entrato in vigore il 20 settembre 2000. «I cinque anni previsti per l'applicazione sono scaduti dunque, denuncia l'associazione 'Antigone', il sistema penitenziario è di fatto “fuorilegge”». Del tutto regolari non devono essere, stando a fonti anonime, neanche quei secondini particolarmente “riverenti”, nel cuneese, con i familiari dei boss.
Ma un problema per volta. C’è soprattutto quello grave del passaggio del servizio sanitario penitenziario in quello nazionale. Disposto da una legge nel 1999, ma tuttora inattuato, osserva Segio che descrive così gli effetti: «Il 57,5 per cento delle carceri si sono registrati casi di Tbc e nel 66 per cento di scabbia; che il 7,5 per cento dei detenuti è sieropositivo, il 38 per cento positivo al test per l’epatite C e il 50 per cento a quello dell’epatite B». Non deve stupire perciò se «nel 2004 – continua l’animatore di SocietàInformazione (www.dirittiglobali.it) - ci sono stati 1.110 tentati suicidi, 6.450 scioperi della fame e 4.850 episodi di autolesionismo. E – sottolinea con preoccupazione – anche otto secondini si sono tolti la vita».
Ma il carcere serve davvero? «In realtà, aggrava i problemi che pretende di voler risolvere. Esattamente come fa la guerra», tuona Segio che precisa:«Il numero delle persone sottoposte a misure penali è lievitato enormemente: 55mila mediamente presenti in carcere in un qualsiasi giorno dell’anno più i 30mila in affidamento sociale, più 14mila in detenzione domiciliare, più 75mila in attesa di misura alternativa, ai sensi della legge Simeone-Saraceni: totale quasi 175mila persone!! Grandi numeri e anche grande business, non a caso questo governo ha cercato di spostare imponenti risorse sull’edilizia penitenziaria». E qui il pensiero non può che volgere verso Castelli impegnato a recuperare qualche decina di milioni nella Finanziaria per ristrutturare bracci inutilizzati.
Il 31 agosto 2005, notano le associazioni di settore, si contavano 59.649 detenuti a fronte di una capienza di 42.959 posti», un record assoluto dal dopoguerra. Sarà per effetto dell’istinto primario caro a Scalfari Eco (di) Ruini (vedi dibattito Igrao/Melandrisu Liberazione), con cui nascerebbero i bambini pronti, se non si assoggettano alle tavole della legge, rispettivamente razionale o religiosa, ad azzannare il prossimo. Sarà. Sta di fatto che c’è una gran ressa dentro “li cancelli”. Che non sono quelli di Ostia lido dove i romani vanno a prendere la tintarella. Questo è un altro mondo, impossibile spesso da vivere. «Il carcere, dice Segio, lungi dal prevenire il crimine, ha effetti criminogeni. Non è la cura, ma semmai la malattia». La prova viene esibita con la percentuale dei suicidi: tanto più alta, 17 volte superiore alla società esterna, quanto più sono affollati i penitenziari.
Nel 2002 il 93 per cento dei casi di suicidio si verifica in carceri affollate (che costituiscono circa il 72 per cento del totale); nel 2003 questa percentuale risulta appena ridotta (90,8 per cento).
Hanno meno di 24 anni, per lo più condanne brevi ma imprigionati dalla paura di non farcela. Morti, a volte (nel 33 per cento dei casi nel 2003, nel 19,1 per cento nel 2002,), annunciate. E nulla (o poco) è stato fatto per impedirlo. Sempre a carico dello Stato. Più giù. Oltre lo scantinato dell’inferno, vagano suicidi “senza biografia”. Quelli che risultano cioè solo dalle statistiche del Dipartimento amministrativo penitenziario, come fa sapere Boraschi: «Nel 2003 sono ben 20 su 65 senza considerare due messi in atto da minori». Di queste decessi non c’è traccia sulla stampa. «Dipende - ipotizza il sociologo - da un progressivo ridursi dell’interesse per le condizioni di vita nelle carceri». Il fatto non fa notizia «anche perché – conclude Boraschi - le fonti agevolano il disinteresse rendendosi quanto mai “opache”». Ma poi, in fondo, come lamenta Segio, si tratta solo di un grande contenitore di poveri. Serve solo a nasconderli alla vista e alla coscienza della società civile». Diventa così chiaro a tutti perché si dice istituto di recupero, ma s’intende “prigione”. E’ più facile, annullare.

quelli di Cassano...
Il Messaggero 7.11.05

Contro la depressione, corsi per i gruppi di “auto-aiuto”

ROMA Sono sempre più diffusi in Italia i gruppi di auto-aiuto per combattere ansia e depressione, Incontri, gratuiti, settimanali tra pazienti, ex pazienti e volontari che coordinano le sedute. In questi giorni la Fondazione Idea (Istituto per la ricerca e la prevenzione di ansia e depressione) sta "arruolando" i coordinatori dei gruppi per Roma e far partire l'iniziativa con la Regione.

Corriere della Sera, 7.11.05
Uno studio pubblicato su «Time»
Ambiziosi si nasce. Il successo è nei geni
La voglia di emergere dipende al 50% dai cromosomi.
Alessandra Farkas

NEW YORK —Perché alcuni individui riescono a sfondare e altri no? Come si spiega che, nella stessa famiglia, un fratello diventi presidente (Bill Clinton) e l'altro un drogato (Roger Clinton)? E perché ad arrivare al successo sono talvolta i poveri — Oprah Winfrey, Jennifer Lopez — altre la middle class — Tom Cruise, Britney Spears — e altre ancora i ricchissimi: Donald Trump, Paris Hilton, George Bush? «L'ambizione viene dai geni, responsabili al 50% del nostro desiderio e capacità di sfondare» replica il settimanale americano Time che dedica il suo ultimo numero ai «Segreti dell'ambizione», un tema che appassiona e divide l'America dell'èra post-Enron, quasi a cercare una giustificazione scientifica dietro la brama sfrenata che ha spedito in carcere alcuni dei Ceo più ambiziosi e corrotti del Paese.
Gregg e Drew Shipp, due identici gemelli 36enni di Chicago, sono, a detta di Time, la prova vivente di questa tesi. Figli di un ricchissimo — e assai ambizioso — magnate dei profumi, avrebbero benissimo potuto vivere di rendita tutta la vita. E invece hanno deciso di buttarsi nel business, aprendo una delle catene di palestre di lusso più redditizie di Chicago. «Siamo ambiziosi a un livello maniacale» spiegano Gregg e Drew. Il merito, o la colpa, è del loro Dna. «Il livello di motivazione e di ambizione dei loro rispettivi profili combacia al 50% nei nostri studi di laboratorio» spiega Dean Hamer, un genetista del National Cancer Institute, «è una cifra altissima, un metro di valutazione straordinario della teoria sull'ereditarietà».
Alla Washington University i ricercatori hanno fotografato invece il cervello degli studenti per investigarne il livello di persistenza: la capacità di rimanere focalizzati su una data mansione, fino al suo compimento, considerata il motore cruciale dell'ambizione. Spiega lo psichiatra Robert Cloninger, direttore dello studio: «Gli individui col livello di persistenza più alto hanno tutti il lobo inferiore del cervello, adibito alle emozioni e alle abitudini, più sviluppato». E a sostenere la supremazia dei geni è anche uno studio di Wim Vijverberg, docente di economia alla Texas University, insieme a Erik Plug, economista della Amsterdam University. «Fattori quali la famiglia e le condizioni socio-ambientali influenzano solo al 25% il profitto scolastico degli studenti» affermano i due ricercatori. Ma contro questa tesi — che secondo il Times di Londra mira a eliminare i sussidi governativi ai bambini più poveri — si scaglia l'antropologo della New York University, Marcelo Suarez-Orozco, che ha condotto uno studio su quattrocento famiglie di poverissimi emigranti provenienti da Africa, Caraibi, America Latina e Asia, dal quale emerge che «laddove la società offre opportunità l'ambizione e il successo sono alla portata di tutti».

ANSA, 7.11.05
Dalla nascita il bebé cattura i nostri sguardi

ROMA - Sin dai primissimi giorni di vita il neonato vi guarda ed è capace di agganciare lo sguardo altrui 'rapendo' le pupille di chi ha di fronte.
Riportata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, la scoperta, di psicologi e pediatri italiani, indica che il neonato ha possibilità di interazione e comunicazione di sguardi sin dalla nascita ed è pronto da subito ad accogliere tutti gli stimoli che gli vengono trasmessi.
A spiegarlo Dino Faraguna, Direttore Dipartimento Materno Infantile dell'Unità Pediatrica, Ospedale di Monfalcone, Gorizia, che ha partecipato allo studio diretto dalla psicologa Teresa Farroni del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova e in collaborazione con il Birkbeck College
Incrociare lo sguardo con gli altri è la forma più potente di comunicazione fra gli esseri umani, spiega la Farroni. Numerose ricerche hanno dimostrato che lo sguardo è importante da subito, provando per esempio che i bambini già a tre mesi sorridono meno quando un adulto sposta lo sguardo da loro, inoltre che mamma e neonato si guardano negli occhi nel momento dell'allattamento.
Questa nuova ricerca, finanziata dal Welcome Trust e dal Medical Research Council di Londra e dall'Università di Padova, conferma quanto importante sia il contatto oculare diretto per una buona relazione madre/bambino anche a pochissimi giorni dalla nascita.
Infatti gli esperti hanno 'spiato' lo sguardo di 105 neonati di 2-3 giorni di vita (72 nell'Ospedale di Monfalcone) con una videocamera mentre i piccoli guardavano immagini al computer del volto di donna, foto vere e stilizzate e variamente illuminate in modo che in alcune immagini il volto aveva le pupille visibili, in altre no, con l'illuminazione proveniente dall'alto o dal basso. La telecamera seguiva gli occhi del neonato e registrava i tempi di fissazione dello sguardo in risposta ai diversi stimoli. I risultati dimostrano chiaramente che anche nei primissimi giorni di vita i neonati si orientano e guardano di piu' il volto che si rivolge loro attraverso il contatto oculare e se la luce proviene naturalmente dall'alto come quella solare.
L'agganciamento dello sguardo, dunque, dipende fortemente dagli occhi del volto che il neonato ha di fronte e da come questi sono illuminati, spiega la psicologa.
''La capacità così precoce di fissare lo sguardo - dichiara Faraguna - rappresenta un presupposto fondamentale per il successivo sviluppo della capacità degli individui di comunicare tra loro''.
Inoltre, aggiunge il pediatra, questo lavoro solleva nuove domande sulle origini del 'cervello sociale' negli esseri umani ed in che modo possa essere acquisito attraverso la nostra esperienza di interazione con gli altri.
In altri termini questa ricerca dimostra che il neonato, viene al mondo con un 'cervello sociale', quindi è già pronto ad accogliere tutti gli stimoli, quindi le interazioni e le esperienze col mondo esterno sono formative e lasciano un segno profondo da subito.

ANSA, 7.11.05
Cervello: un occhio della mente sede della coscienza visiva

ROMA - L'occhio della mente, che ci rende coscienti di ciò che scivola sotto ai nostri occhi, si trova in una regione circoscritta della corteccia occipitale o visiva, alla base della testa.
E' quanto riportato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences da esperti del Dartmouth College, da anni alla ricerca della sede nervosa della coscienza visiva.
La sede dell'elaborazione nervosa degli stimoli visivi è la corteccia occipitale, alla base della testa, detta anche corteccia visiva. Questa si mette in funzione ogni qual volta riceve, attraverso la retina, stimoli dai nostri occhi. Ciò avviene sempre quando abbiamo qualcosa davanti, anche se quel qualcosa non raggiunge la nostra percezione cosciente, rimanendo, di fatto, 'invisibile'.
Ma finora restavano oscuri i centri del cervello che trasformano gli stimoli visivi in esperienza cosciente, ovvero gli 'occhi della mente'.
Il nuovo studio, ha spiegato Peter Tse coordinatore degli esperimenti, ha scoperto che essi si collocano nel lobo occipitale in una zona confinata oltre l'area 'V2', che insieme alla 'V1' forma le aree visive primarie che ricevono gli stimoli retinici in maniera diretta e li smistano ad aree limitrofe.
Per una localizzazione così precisa dell'occhio della mente gli esperti si sono serviti di esperimenti 'trucco', detti di mascheramento dell'oggetto.
Essi consistono nel rendere un oggetto 'invisibile', anche se gli occhi lo vedono. Un oggetto che appaia velocemente su uno schermo, svanisce se lo si affianca improvvisamente ad una serie di altri oggetti che compaiono in rapida successione. L'oggetto c'è ancora ma noi non ne abbiamo coscienza visiva, non ce ne rendiamo conto.
Gli esperti hanno pensato che fotografando l'attività cerebrale nel momento in cui un oggetto percepito svanisce, si puo' vedere dove si trova la sede della esperienza cosciente.
Quindi gli esperti hanno chiesto a un gruppo di individui di guardare gli oggetti su uno schermo mentre l'attività del loro cervello veniva ripresa con la risonanza magnetica funzionale per immagini.
Gli esperti hanno registrato un calo signficativo di attività nell'area oltre la V2 del lobo occipitale nel momento in cui l'oggetto diventa 'invisibile'.
Le altre aree della corteccia visiva rimangono invariabilmente accese fin quando i volontari osservano lo schermo. L'unico cambiamento di attività neurale è circoscritto a quell'area che a un certo punto smette di funzionare in concomitanza con l'oggetto che svanisce.
Poiché quest'area si spegne proprio quando gli individui perdono coscienza dell'oggetto, ha spiegato Tse, essa non può che essere l'occhio della mente.
Questi risultati, ha concluso l'esperto, potrebbero portare avanzamenti nella comprensione delle interazioni tra cervello e occhio, mediante l'identificazione delle basi neurali dell'esperienza cosciente, importante in molti ambiti di medicina, neurologia, psicologia.

Corriere della Sera 7.11.05
Era il suo maestro di grammatica e latino tra i 12 e i 14 anni
Machiavelli molestato da piccolo da un prete
L'ha scoperto lo storico americano William Connell in una lettera del 16 gennaio 1515
Alessandra Farkas


NEW YORK – «Da piccolo Niccolò Machiavelli fu molestato per anni da un prete, Ser Paolo Sasso, che era anche il suo maestro di grammatica e latino». L’inedita scoperta (illustrata in esclusiva mondiale al Corriere online) viene da William J. Connell, docente di storia alla Seton Hall University, nonché uno dei più illustri studiosi americani di Rinascimento italiano.
«Che Machiavelli fosse bisessuale era già noto, grazie agli studi realizzati anni fa dal prof. Mario Martelli, dell’Università di Firenze», racconta Connell, autore dell’ultima edizione in inglese del «Principe», pubblicata a gennaio in Usa – «ma dopo aver riletto con attenzione la corrispondenza tra Machiavelli e Francesco Vettori, suo amico d’infanzia, posso dichiarare senza ombre di dubbio che il giovane Macchiavelli fu molestato dal suo prete-maestro. E che questo abuso spiega l’ostilità da lui nutrita fino all’ultimo nei confronti della Chiesa cattolica».
«Nella lettera in questione, del 16 gennaio 1515, Vettori parla dei genitori ben intenzionati e di un maestro depravato del suo amico», racconta al Corriere Connell, «spiegando che dietro all’amore di Machiavelli per gli uomini c’è una gioventù trascorsa con un maestro che ha avuto la “comodità farne a suo modo” con il giovane Machiavelli. Introducendolo anche ai poeti osceni: “gli lascia leggere qualcosa da fare risentire un morto», scrive Vettori.
A che età è avvenuta la molestia?
Dai 12 ai 14 anni, il periodo in cui seguiva le lezioni di Ser Paolo Sasso.
Ci sono altri passi che possono lasciare presumere una molestia?
Non mi risulta. Anche a quei tempi non si parlava apertamente di queste cose. Infatti nella lettera Vettori comunica che preferisce parlarne di persona e non per iscritto: «vorrei poter scrivere molte cose, le quale conosco non potersi commettere alle lettere».
Com’era vista, allora, la molestia sessuale nei confronti di minori?
Era un peccato, ma c’era una forte sottocultura di pedofili e omosessuali che si frequentavano nella Firenze bene di allora, descritta da un bellissimo libro di Michael Rocke.
L’omosessualità era un tabù?
Esisteva una certa flessibilità. Fra i giovani nobili fiorentini c’era una pratica, cui Vettori si riferisce nella lettera quando dice, «Tutti facciamo così, et errano in questo, più quelli a’ quali pare essere ordinati: e però non è da meravigliarsi ch’e nostri giovani sieno tanto lascivi quanto sono, perché questo procede dalla pessima educatione». Alcuni anni dopo questa lettera, arriva a Firenze il frate dominicano Girolamo Savonarola, che predica accesamente contro la sodomia ed è attaccato da Machiavelli come ipocrita, bugiardo e falso profeta.
Com’era punito il pedofilo a quei tempi?
Un sodomita, se scoperto, veniva punito con una multa, oppure portato in processione attraverso la città, con la gente che gli gettava addosso fango, infliggendogli punizioni corporali. Ma allora c’era una differenza tra ruolo attivo e passivo, e la sodomia coinvolgeva anche le donne, spesso prostitute, che venivano processate per questo «crimine».
Quali altri passi si riferiscono all’omosessualità di Machiavelli?
Verso la fine della lettera, Vettori scrive che “ciò che gli uomini dichiarano con la bocca è lontano da quello che hanno nel cuore”. Nel senso che con la bocca dicono, “sono un uomo virile e forte”, ma poi nel cuore possono anche amare altri uomini.
E quando dice “Ah Coridon, Coridon”, che vuol dire?
Si riferisce a un personaggio della poesia classica. Coridon è un giovane pastore, oggetto dell’amore di un uomo. Si tratta della poesia greca classica, dove il tema dell’omosessualità è chiaro, e si tratta dello stesso tipo di poesia che il maestro fece leggere al giovane Machiavelli.
«Quae te dementia cepit», scrive Vettori. In che senso?
Quale infamia ti ha preso, quale follia. Qui credo stia citando Virgilio o Orazio. E quando parla di “foia” si riferisce al desiderio sessuale smodato del suo amico.
Perché parla della figura della madre?
È ironico, e un po’ triste. Questa madre di Machiavelli, che crea un giovane così bello, ma facendolo attraente lo rende anche oggetto dei desideri degli uomini.
Perché Vettori attacca la «pessima educazione»?
Si riferisce all’usanza di mandare i ragazzi da pedagoghi e maestri che si rivelano cattivi. Si lamenta perché l’educazione non è più quella di una volta che rendeva i ragazzi onesti e virtuosi. Alla fine della lettera scrive che anche se lui e Machiavelli sono invecchiati, hanno ancora i costumi cattivi imparati da giovani, nel senso che hanno un’attrazione per gli uomini e non c’è rimedio.
Come mai c’è voluto così tanto per interpretare in modo veritiero questa lettera?
Per secoli scrittori e studiosi hanno voluto creare un proprio Machiavelli, e questo ha reso più difficile trovare la verità storica. Il massimo biografo del Machiavelli, il marchese fiorentino Roberto Ridolfi, ha pubblicato la sua biografia negli anni Quaranta. La sua opera era un tentativo di salvare Machiavelli sia dal fascismo, perché Mussolini creò un suo Machiavelli, sia dal comunismo, perché anche Gramsci aveva distorto le idee dello scrittore. Il Machiavelli del Ridolfi era un cattolico, che avevi dubbi ma che all’ultimo momento si confessò e si convertì, e la biografia è scritta in modo apologetico per difendere Machiavelli contro le accuse di essere stato anti-cristiano. Oggi invece il consenso tra gli scrittori è che Machiavelli fosse anti-cristiano e bisessuale.
Secondo i canoni d’oggi, Machiavelli era di destra o di sinistra?
Direi di sinistra, soprattutto perché era laico, repubblicano e contro la Chiesa, e poi vedeva un certo ruolo per il popolo nella politica. Ma è curioso che tutti i politici, di destra e di sinistra, cerchino di appropriarsene. Anche Berlusconi e Craxi hanno scritto prefazioni al «Principe»: è una tradizione antica che dimostra quanto le sue idee continuino ad avere un ruolo enorme nella politica italiana e del mondo. Non riesco a pensare a nessuno di più influente.

CONNELL: CHI È - William Connell occupa la cattedra per gli studi italiani nella Seton Hall University (South Orange, New Jersey, Usa). Nato a New York nel 1958, si è laureato in storia antica a Yale nel 1980 e nel 1989 gli è stato conferito il dottorato in storia italiana nella University of California-Berkeley. In Italia ha pubblicato «La città dei crucci: fazioni e clientele in uno stato repubblicano del '400» e ha curato il volume «Lo stato territoriale fiorentino, sec. XIV-XV: ricerche, confronti, linguaggi». Nel gennaio 2005 è uscita una sua traduzione inglese con commento del «Principe» di Niccolò Machiavelli, mentre è di prossima uscita «Sacrilegio e ridenzione a Firenze nel Rinascimento». A dicembre terrà la conferenza a Urbino «Tra creazione del mondo e invenzione delle cose: il "De rerum inventoribus" di Polidoro Virgili».

una segnalazione di Roberto Martina
Repubblica 5.11.05
Su "Science" le ultime scoperte sulla mente. Fino alla pubertà le aree che governano il lunguaggio sono duttili e l'apprendimento più facile
Parlare? Un istinto già nei neonati
"Nel cervello umano una predisposizione innata alla grammatica"
Elena Dusi

ROMA - L´uomo e il suo linguaggio: una cosa sola. Un "centro della grammatica" nell´area frontale sinistra del cervello umano - e solo nel nostro - sovrintende all´apprendimento di un idioma, qualunque esso sia, e controlla anche la comunicazione per gesti. «Un bambino impara qualsiasi linguaggio senza l´ausilio del pensiero analitico e senza bisogno di istruzioni grammaticali esplicite» scrive Kuniyoshi Sakai, dell´università di Tokyo, in un numero speciale di "Science" dedicato allo sviluppo del cervello.
«Non c´è bisogno di scuole per imparare a parlare - sostiene Sakai - almeno fino a quando non si chiude il cosiddetto periodo finestra, tra i dodici e i tredici anni di età». Se nei più piccoli l´apprendimento di un linguaggio segue la via "innata", quando si cerca di imparare un nuovo idioma dopo la chiusura del periodo finestra diventano necessari libri e maestri. Poco prima della pubertà infatti il centro della grammatica cessa di essere plastico e malleabile. Occorre fare ricorso ad aree del cervello diverse, molto più numerose, che del "pensiero analitico" e delle "istruzioni grammaticali esplicite" non possono fare a meno. Lo studio di Sakai segna un punto a favore del linguista Noam Chomsky, secondo cui tutti gli uomini del pianeta seguono le regole di una "grammatica universale". Un codice identico nei meccanismi fondamentali e diverso solo nelle declinazioni specifiche. Dalle teorie di Chomsky aveva preso le mosse Steven Pinker, lo psicologo dell´università di Harvard autore del libro "L´istinto del linguaggio".
Ma parlare è veramente un istinto? «L´uomo ha una predisposizione innata all´acquisizione di una grammatica» conferma Stefano Cappa, neuropsicologo dell´università San Raffaele di Milano. «Il nostro cervello dispone di un meccanismo che gli permette di imparare una lingua in maniera naturale. Analogamente, in maniera del tutto naturale eseguiamo calcoli numerici, ci muoviamo o percepiamo gli oggetti e ci rappresentiamo il mondo».
Già a poche settimane di vita, prima ancora di iniziare a parlare, un bambino sa distinguere le parole che ascolta e acquisisce i primi rudimenti della lingua madre. «L´apprendimento nei più piccoli avviene in maniera rapidissima e inconsapevole. Man mano che si cresce il cervello perde plasticità. Imparare una lingua da adulti non darà mai gli stessi risultati dell´idioma appreso da bambini» spiega Cappa. Come se, esaurito il binario della "lingua innata", rimanesse aperto solo il canale degli "esercizi di grammatica". Anche per i bambini alle prese con la lingua madre, esistono però funzioni che non possono essere acquisite seguendo il binario "espresso". Scrittura e lettura hanno bisogno di un apprendimento a sé, che non può avvenire se non sui banchi di scuola o sui libri di grammatica. «Il linguaggio parlato è universale - conferma Cappa - mentre quello scritto è del tutto assente in alcune culture».
Gli studi recenti su neuroscienze e linguaggio sembrano dare ragione alla teoria del comunicare come funzione innata nell´uomo. Nel 2003 uno studio del San Raffaele aveva messo in evidenza che il cervello di ribella di fronte a forme linguistiche "impossibili". Esistono regole che confliggono con la cosiddetta "grammatica universale", davanti alle quali le aree cerebrali deputate al linguaggio iniziano a stridere. Un anno prima, nel 2002 un gruppo di ricerca anglo-tedesco era riuscito a individuare il cosiddetto "gene del linguaggio". Foxp2 è un frammento di Dna che distingue uomini e scimpanzè, e che ha subito una mutazione proprio nel momento in cui la nostra specie ha imparato a parlare.

una segnalazione di Franco Pantalei
Repubblica 3.11.05
Psicoweb
Uso inadeguato della Rete da parte degli psicologi: immagine distorta. Ricerca dell'Ordine del Lazio
di Giovanna Filosa

La ricerca nasce dall'esigenza di creare un sistema permanente di classificazione e valutazione dei siti web che offrono servizi di natura psicologica attivi sulla rete nazionale al fine di vigilare e monitorare la fornitura di servizi in rete per evitare abusi della professione e tutelare un'utenza che non sempre possiede gli strumenti adatti per valutare la qualità del servizio proposto. Inoltre impostare un servizio di consulenza nei confronti di coloro che intendono promuovere la propria attività sul web.
Realizzata nel 2004, è stata condotta tramite una griglia di lettura che si è ispirata in parte al metodo ARPA (Analisi delle Reti della Pubblica Amministrazione), in parte al Codice di Condotta relativo all'utilizzo di tecnologie per la comunicazione a distanza nell'attività professionale degli psicologi, emanato dall'Ordine degli Psicologi del Lazio.
Risultati
Sono stati individuati risultati in merito a 4 principali aree tematiche:
1) UTILIZZO
È emersa una estrema varietà di siti che rende impossibile identificare uno standard comune. All'interno di tale varietà si identificano alcune tipologie di siti ricorrenti.
a) Il sito come "biglietto da visita" usato con finalità di marketing per psicologi e psicoterapeuti che lavorano in forma privata e individuale.
b) Il sito come "mini portale" che offre molteplici servizi: attività, eventi, notizie e informazioni varie riferite all'organizzazione e/o associazioni che se ne fa promotrice.
c) Il sito come "vetrina" che espone vari prodotti psicologici (libri, articoli scientifici, abstract, proposte didattico/formative) promossi da organizzazioni e/o associazioni varie
d) Rubriche di psicologia all'interno di portali più ampi o di siti che non si occupano specificamente di psicologia.
In sintesi, emerge un uso non adeguato delle potenzialità del web (per esempio come efficace strumento di raccolta dati a scopo di ricerca), usato prevalentemente come veicolo pubblicitario.
2) Immagine
72 siti su 100 presentano una rubrica del tipo "chi siamo" con la descrizione di scopi, finalità del sito e organizzazione di riferimento. Solo però in metà dei siti è ravvisabile un referente o titolare unico. In generale, la varietà e la mancanza di una progettualità organica e riconoscibile nei siti in rete trasmette un'immagine di spontaneità e di improvvisazione.
3) Mezzo tecnico
L'analisi ha rilevato una mediocre competenza tecnico-informatica, a cui si potrebbe porre rimedio con corsi di formazione ad hoc sull'utilizzo efficace delle nuove tecnologie e del web.
4) Quale offerta
Consulenza psicologica e/o psicoterapeutica è proposto con una certa frequenza (39% dei siti analizzati), in via riservata (26% dei casi) tramite posta elettronica privata, in chat o pubblicamente nel 18% dei casi. Tali servizi, se non correttamente erogati, possono risultare lesivi dell'immagine della professione psicologica. La consulenza, soprattutto quella di tipo clinico, è proposta infatti troppo spesso sotto forma di "consiglio" e sostegno generico nei confronti del disagio e di svariate problematiche presentate dagli utenti. Nonsempre viene rispettato l'art. 1 del Codice di Condotta che sconsiglia fortemente l'utilizzo di tecnologie elettroniche per la comunicazione a distanza nell'attività di psicoterapia. Anche se la terapia viene spesso mascherata da counseling, l'analisi delle risposte fornite al disagio degli utenti nel corso della consulenza effettuata sul web conferma la sostanziale inadeguatezza del setting psicoterapeutico a distanza nella risoluzione o nella corretta impostazione di questo tipo di problemi.
specifica che si tratta di un «movimento liberale in politica e in religione che coinvolse molte parti d'Europa nel XIX secolo» che si opponeva ad «ogni forma dogmatica di cristianità, sostenendo che l'ordine stabilito delle questioni ecclesiastiche fosse solo un baluardo della reazione politica e della tirannia». Il termine stesso nasce con tutta probabilità in Francia, nel 1852, e diventa di uso corrente verso il 1859, nel contesto del caso Mortara, la storia di un bambino di famiglia ebrea bolognese che fu battezzato di nascosto da una domestica, e sottratto ai genitori per essere educato nella religione cattolica. Quando pensiamo all'anticlericalismo, del resto, vengono spontaneamente alla mente immagini ottocentesche e del primo Novecento, e fra tutte la più emblematica, in Italia, è quella dei cortei per ricordare la morte di Giordano Bruno. Ottavia Niccoli spiega invece che le radici storiche dell'anticlericalismo sono italiane e risalgono al Rinascimento. Sulla base di un ricco repertorio di documenti storici tratti sia dalla letteratura colta, sia da quella popolare, la studiosa mette bene in rilievo che la mentalità anticlericale nacque come reazione alla spudorata corruzione delle corti dei papi del Cinquecento, in particolare Alessandro VI (il padre del celebre Cesare Borgia, il Valentino, che Machiavelli immortalò nel Principe), Giulio II e Leone X.A Giulio II è infatti dedicato uno dei testi più tipici dell'anticlericalismo del Rinascimento, il dialogo Iulius exclusus e coelis, in cui si narra di come Pietro cacciò dalla porta del paradiso il papa che si era presentato con una magnifica corona e un mantello che copriva la corazza insanguinata. Questo testo, come tanti altri documenti che Niccoli cita, mettono in luce che il carattere proprio e distintivo dell'anticlericalismo è lo sdegno che provano i veri religiosi nei confronti dei prelati, di alto e basso rango, che offendono la vera fede con la loro lussuria, avarizia e ambizione. Il grande Erasmo, negli Adagia, ne ha sintetizzato lo spirito in modo eloquente: «Che c'entra la mitra con l'elmo? Che c'entra il pallio episcopale con la corazza di Marte? Che c'entrano le benedizioni coi cannoni? Che ci sta a fare il clementissimo pastore fra briganti armati? Che c'entra il sacerdozio con la guerra? Che bisogno ha di sfasciare piazzeforti con le catapulte chi detiene le chiavi del regno dei cieli?». L'anticlericalismo è un aspetto importante della identità culturale italiana, così come lo è il clericalismo, ovvero l'atteggiamento di totale ubbidienza alla Chiesa cattolica. Nacque dall'interno del mondo religioso, non dal versante degli atei, che più che indignarsi della malignità dei preti ne ridevano. Fu soprattutto la reazione di chi aspirava ad una religiosità cristiana vera e sincera, e voleva che la Chiesa operasse in modo coerente rispetto all'insegnamento di Cristo. Fuori d'Italia, l'anticlericalismo trovò la sua logica conclusione nella Riforma. In Italia visse come esigenza di riforma interna della Chiesa o come beffa popolare, satira, ironia graffiante, ma impotente. La storia che Ottavia Niccoli ha ricostruito invita a riflettere sulla questione religiosa in Italia e a riprendere i vecchi ma non invecchiati studi di Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cent'anni, e di Federico Chabod, in particolare le pagine sull' Idea di Roma nella storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. La figura dell'anticlericale appare oggi lontana, più materia di rievocazione storica che ideale etico e politico. Probabilmente essa ha esaurito la sua ragion d'essere con la fine del potere temporale della Chiesa. Viva e attuale è invece l'esigenza profonda di una religione autentica, lontana dal potere politico, senza sfarzo, fatta di vera carità, che l'anticlericalismo nelle sue forme più mature, ha espresso.

* Psicologa