sabato 25 ottobre 2014

La Stampa 25.10.14
Prova di forza della Cgil, parte del Pd in piazza contro il suo governo
A Roma atteso un milione di persone. Ma i bersaniani non ci saranno
di Francesca Schianchi

qui

Repubblica 25.10.14
“Non è come il mio 2002 allora c’era Berlusconi oggi un nostro esecutivo”
di Roberto Mania


ROMA . Dodici anni fa Sergio Cofferati era il segretario generale della Cgil. Di quella Cgil che portò in piazza — si disse, esagerando molto — tre milioni di persone a difesa dell’articolo 18. Oggi Cofferati sostiene di non avere nostalgie. «Non le ho per carattere. Certo fu un giorno molto bello. Perché è bello quando tantissime persone partecipano a una stessa iniziativa. Ricordo quel 23 marzo 2002 di aver attraversato di prima mattina una Roma deserta. Arrivai al punto del concentramento e la prima persona che incontrai fu un prete che scese i gradini della chiesa, mi venne incontro, mi diede la mano e mi fece gli auguri. Iniziò così quella giornata ».
Domani (oggi per chi legge, ndr ) la Cgil torna in piazza da sola ancora per difendere l’articolo 18. Sono paragonabili le due giornate?
«No, non c’è alcun paragone possibile. Sono due cose diverse. Nel 2002 tantissime persone scesero in piazza per difendere i loro diritti dal tentativo di cancellarli da parte di un governo ostile alla gran parte di loro, visto che in stragrande maggioranza non avevano votato Berlusconi. Insomma difendevano un diritto da un governo avverso. Domani sarà l’esatto opposto. La ragione della mobilitazione è la stessa ma è fatta in larghissima prevalenza da cittadini che hanno votato per il centrosinistra. Manifestano contro un governo per il quale hanno votato».
Dunque ha ragione chi dice che si tratta di una manifestazione politica.
«È una cosa nuova. Personalmente non mi era mai capitato di promuovere o partecipare a una manifestazione oggettivamente rivolta contro il mio partito. Con un linguaggio antico si chiamerebbero “contraddizioni in seno al popolo”».
E come si risolvono queste contraddizioni?
«Si vivono, non si risolvono».
Nemmeno dando vita a un altro partito della sinistra?
«No. Sono contraddizioni che vanno vissute. Il sindacato ha messo in campo una sua iniziativa autonoma ma la contraddizione la vive chi partecipa alla manifestazione essendo perlopiù elettore del centrosinistra».
Implicitamente sta sostenendo che il governo Renzi non sia di centrosinistra?
«Penso che sia un governo di centrosinistra che produce politiche non condivisibili per una parte dei suoi elettori. Nei cambiamenti in corso mi pare che ci sia una novità non di poco conto. Mentre la rappresentanza politica si rarefà perché i partiti diventano più leggeri, liquidi addirittura, secondo alcuni, il ricorso alla piazza su grandi temi diventa quasi uno sbocco obbligato da parte di elettori che non hanno più luoghi e strumenti attraverso i quali esprimere le proprie opinioni ».
Vuol dire che senza i partitimassa rimane solo la piazza?
«La piazza diventa il luogo principale nel quale far vivere le proprie idee».
Ma così non c’è il rischio che la protesta non produca alcun effetto? Che diventi una mera valvola di sfogo?
«Non sarebbe niente di male o di preoccupante. Una manifestazione può anche determinare cambiamenti. In ogni caso il rischio è che uno schema di questo tipo incida nel rapporto tra i cittadini e la politica».
Con un ulteriore allontanamento dalla politica?
«Non tanto questo e non esattamente questo, per quanto il rischio di scoramento ci sia. Ciò che vedo è che senza più luoghi e soggetti della mediazione aumenti il conflitto. Più forti sono i sindacati, più il conflitto si riduce. Più un partito è radicato, più si gestisce il rapporto con gli elettori».
Nella “lettera appello” a favore della manifestazione della Cgil, di cui lei è primo firmatario si sostiene che sia a rischio la democrazia. Non le pare un’esagerazione?
«Non c’è scritto così. C’è scritto che l’indebolimento dei corpi intermedi, come i sindacati, riduce il tessuto connettivo della democrazia, prevalgono le corporazioni e cresce il conflitto».
Lei andrà anche alla Leopolda?
«No. Non credo sia quello il modello per discutere. Tra l’altro non si capisce chi lo promuove: una parte del partito? una parte del governo? entrambi? Se ci sono questioni da approfondire il partito deve farlo nel suo insieme».

Repubblica 25.10.14
La Cgil in piazza, il Pd si divide Il premier: “Corteo contro di me” Camusso: “Il governo ci ascolti”
Democratici spaccati tra Roma e la Leopolda. Il premier: “Io sento gli altri 60 milioni” Scontro tra la leader sindacale e Vendola: “Decidiamo noi se fare lo sciopero generale”
di Francesco Bei


ROMALa piazza della Cgil. Grande, imponente. San Giovanni piena: 150 mila arrivano da tutta Italia organizzati in treni, pullman, aerei. I romani non si conteranno. Ma c’è il rischio che quella di oggi, come ha scritto ieri il Foglio, finisca per essere una piazza oltre che «imponente» anche «impotente »? A sentire la sufficienza con cui ne parla il premier, sembrerebbe di sì: «Guardiamo a questi mondi con il massimo di rispetto — ha detto a La7 — , ma deve essere chiara una cosa: è finito il tempo in cui una manifestazione di piazza può bloccare il governo». Quanto al colore e al senso vero della manifestazione, Renzi non s’inganna: «È una piazza di protesta sindacale ma anche politica contro di me. La ascoltiamo, come ascoltiamo anche gli altri 60 milioni di italiani».
Il fatto è che a San Giovanni in questo 25 ottobre — per chi ama le coincidenze fatali, anniversario della presa del Palazzo d’Inverno da parte dei guardie rosse — ci sarà anche una parte del Pd. Minoritaria quanto si vuole, ma proprio nel giorno in cui a Firenze il segretario del partito chiama a raccolta i suoi seguaci alla Leopolda. Per quanto Renzi si sforzi di smentire il «ping-pong» fra le due agorà democratiche, la contrapposizione è nei fatti. E se non sarà una “scissione nel Pd», come pronosticava il Giornale berlusconiano, la lacerazione è fortissima. Scissione d’anime. Lo stesso Graziano Delrio, dopo aver avvertito che in parlamento si dovrà comunque votare il Jobs Act, ha ammesso che il suo cuore «è con chi sta in piazza». «La schizofrenia c’è — osserva Cesare Damiano, prima tessera Cgil nel 1970 — e riguarda un po’ tutti: noi che sosteniamo il governo ma andiamo in piazza e anche Renzi, che è segretario del partito e organizza una Leopolda che non è del partito. Adesso dobbiamo scontare questa separazione, lo dirà il tempo se ci saranno i termini per una ricomposizione ». Già, la «schizofrenia» di cui parla Damiano sarà la cifra della giornata. E se ne sono accorti gli oltre cinquecento delegati sindacali Fiom che hanno firmato un appello all’ex segretario Cgil Guglielmo Epifani, affinché «prenda una posizione netta sul Jobs Act e si smarchi dalla linea del suo partito» abbandonando il «basso profilo» assunto finora. Sono critiche dolorose, che spaccano un mondo. Del resto che oggi accadrà qualcosa di radicalmente nuovo sono in molti a vederlo. I primi a esserne consapevoli sono i renziani. Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, ieri alla Leopolda, non si nascondeva la portata “storica” della giornata: «È un passaggio che segna una svolta culturale del Pd nel rapporto con la Cgil». In fondo anche D’Alema e Cofferati duellarono a lungo, «ma facevano parte della stessa storia e della stessa generazione. Renzi invece è il segretario che sta trasformando il Pd da partito del lavoro a partito di tutti gli italiani».
La famosa cinghia di trasmissione insomma non solo si è rotta, ha cominciato a girare al contrario. Dunque sarà sciopero generale contro il governo di centrosinistra. Una cosa inaudita fino a qualche anno fa. Ieri lo ha anticipato Nichi Vendola, dando per certo l’annuncio dal palco. E beccandosi un rimbrotto dalla Camusso: «Fino a prova contraria la Cgil decide da sola. Non dobbiamo seguire nessuna affermazione del dibattito tra i partiti politici ». Eppure ci sono pochi dubbi che la mobilitazione sindacale si esaurisca oggi. Ma intanto sia Renzi che Camusso da domani potranno gridare vittoria. La leader Cgil per aver riempito la sua piazza di bandiere rosse. Il premier per andare avanti come se quella piazza fosse stata vuota.

il Fatto 25.10.14
Oggi a San Giovanni
Cgil, piazza rischiatutto La Rai: niente diretta tv
Viale Mazzini oscura il popolo Cgil (non accadde neppure con B.) Il premier: 60 milioni stanno a casa
di Salvatore Cannavò


CON L’APPUNTAMENTO DI SAN GIOVANNI SUSANNA CAMUSSO SI GIOCA UN BEL PEZZO DI CREDIBILITÀ, SUO E DEL MAGGIORE SINDACATO DEL PAESE

Noi la richiesta della diretta Tv l’abbiamo fatta, ci è stato detto di no”. La risposta della Cgil alla domanda se ci sarà copertura Rai alla manifestazione di oggi è molto diplomatica e formale. “Però ci sembra sia la prima volta nel caso delle grandi manifestazioni di piazza”. In effetti è così. Quando ci fu il Circo Massimo di Sergio Cofferati, la copertura fu molto ampia nonostante al governo ci fosse Silvio Berlusconi. Ancora domenica scorsa, la Rai ha garantito una diretta dalla Perugia-Assisi, che per dimensioni non può certo competere con piazza San Giovanni. Oggi, invece, la diretta sarà solo radiofonica mentre Rainews aprirà delle “finestre informative”.
SUL PIANO ISTITUZIONALE è una evidente forzatura (si pensi se l’avesse fatto il centrodestra). Sul piano politico è la conseguenza dello scontro diretto tra la Leopoloda e la Cgil. Scontro voluto soprattutto da Matteo Renzi che ha deciso scientemente di collocare la sua kermesse nel giorno scelto dal sindacato. “La nostra deve essere una piazza sindacale” ha spiegato ai suoi Susanna Camusso, consapevole che con oggi inizia una battaglia “che non sarà breve”. Il segretario generale si gioca molto, forse tutto. Ai leader sindacali succede sempre di affiancare la propria immagine a una piazza storica. Luciano Lama, oltre al 17 febbraio ‘77 alla Sapienza di Roma, rimane agganciato al 24 marzo del 1984, alla piazza contro l’accordo sulla scala mobile salutata dall’Unità con il celebre “Eccoci”. Il Circo Massimo del 23 marzo 2002 ricorda l’exploit di Sergio Cofferati nella battaglia contro la riforma dell’articolo 18.
Quella di oggi sarà la piazza di Susanna Camusso. Che sulla spallata al governo del Pd – e già questa affermazione sintetizza tutta la novità della situazione – si gioca una partita che riassumerà la sua segreteria. Se la Cgil dovesse fallire la sfida, al di là dei numeri di oggi che si annunciano comunque importanti, per il maggior sindacato italiano scatterà la “sindrome Scargill”. Il leader dei minatori inglesi ingaggiò anch’egli, all’inizio degli anni 80, un duro braccio di ferro con l’allora premier inglese Margareth Thatcher che puntava alla chiusura delle miniere pubbliche inglese. Vinse Thatcher e provocò una delle più grandi disfatte sindacali di fine ‘900 con una regressione che durò oltre dieci anni. Se invece oggi ci sarà una piazza tonica e combattiva e se la Cgil riuscirà a tenere il boccino di questa mobilitazione, allora il sindacato rientrerà in partita. “Quello che dirà se avremo vinto o perso la sfida della piazza” è il ragionamento fatto da Camusso “sarà l’allegria”. Nel sindacato scommettono molto sull’immagine che la piazza restituirà, sulla presenza dei giovani: “Da noi ci saranno centinaia di migliaia di persone, di là, in fondo, solo duemila politici”è una delle battute ricorrenti.
RENZI HA PREVENTIVATO questa situazione convocando Cgil, Cisl e Uil lunedì mattina e dicendosi “rispettoso” della piazza. Dichiarazioni di circostanza, perché è difficile che il Jobs Act, cioè la riforma del mercato del lavoro, già approvata con la fiducia al Senato possa essere modificata alla Camera. Il successo della piazza, però, non aprirà nuovi varchi solo alla Cgil ma anche al soggetto politico di riferimento: la minoranza Pd. I vari Cuperlo, Epifani, Bersani, Fassina - oggi in piazza, tranne l’ex segretario piacentino - sanno che la giornata offrirà loro lo spazio di una iniziativa politica. Tanto più se lunedì sera, il direttivo Cgil già convocato, proclamerà, come sembra certo, lo sciopero generale. A quel punto potrebbe aprirsi una fase nuova. Non tanto per la scelta di Renzi di aprire una trattativa ma perché si punterà a strappare risultati sulla legge di Stabilità. Lo si capisce dall’intervista concessa da Guglielmo Epifani a Repubblica. Dopo aver ribadito la propria presenza in piazza, l’ex segretario Pd conferma che presenterà degli emendamenti alla riforma dell’articolo 18 e precisa anche che “naturalmente non c’è solo il Jobs Act ma nella manifestazione ci sono temi che riguardano la legge di Stabilità”. Una dialettica, questa, che attraverserà anche la Cgil. Non è un caso se 500 delegati Rsu della Fiom abbiamo firmato un appello rivolto proprio a Epifani affinché marchi “un esplicito dissenso” sulla riforma del lavoro. Le partite sono quindi molte e sovrapposte tra loro. Da oggi ne inizia una nuova, quella decisiva per la Cgil di Susanna Camusso.

Corriere 25.10.14
Il premier alla Leopolda attacca la Cgil: non ci bloccano, quel tempo è finito
Lo scontro sulla manifestazione di oggi. «Nel 2011 capii che questo Paese era scalabile»
di Francesco Alberti


FIRENZE Si sono inventati perfino la parete antigufi. Una serie di poster dedicati alle previsioni clamorosamente smentite dalla storia: da quello sui Beatles («Non ci piace il loro sound e la musica con le chitarre è in declino» parole della Decca Recording Company quando nel 1962 rifiutò di metterli sotto contratto) a quello del direttore di giornale che licenziò Walt Disney («Manca d’immaginazione e non ha idee originali»). Storia di incompresi, che hanno poi fatto la storia. E naturalmente ogni riferimento alla cosiddetta «rivoluzione» renziana è assolutamente voluto.
La Leopolda numero 5, che si è aperta ieri sera nella ottocentesca ex stazione ferroviaria nella sua prima versione di governo (o di potere, come insinuano le solite malelingue), prima che «un’incubatrice di idee» o una sfilata di vip, vuole essere una risposta, e forte, alla piazza della Cgil che sfilerà oggi a Roma contro il Jobs Act. Matteo Renzi, sbarcato ieri sera a Firenze direttamente da Bruxelles, ha affrontato di petto la questione con toni volutamente duri: «La piazza della Cgil si caratterizza come protesta sindacale, ma anche politica contro di me e contro il mio governo». Chiaro lo schema messo in campo dal premier-segretario: loro e noi, due realtà distanti e diverse. «La Leopolda — ha proseguito — è un’altra cosa: qui non si protesta, ma si propone».
Le parole di Vendola, che si è augurato che la piazza romana sia l’antipasto di uno sciopero generale, sono la conferma — agli occhi del premier — della deriva sempre più politica che ha assunto la manifestazione di piazza San Giovanni. E allora, pur esprimendo «grande rispetto per la Camusso e la Cgil», il capo del governo ha affondato il colpo: «È finito il tempo in cui una manifestazione blocca il governo e il Paese. Così come ascoltiamo il milione di persone che saranno in piazza, così ascoltiamo anche i 60 milioni di italiani che non ci saranno».
È una Leopolda così, forse diversa da quella che sognava Renzi. Rottamato il rottamabile, ora il problema è portare il Paese fuori dalla secche. Lui fa professione di fede: «Eravamo un’allegra brigata di sognatori, ora siamo qui e non molliamo…». Volare alto è l’imperativo. Basta un’occhiata al palcoscenico in stile vintage — con tavoli da falegname, vecchie bici, tv anni 60, voliera e palloni — la cui ispirazione non è uno scantinato qualsiasi, ma il mitico garage di Steve Jobs e della sua Apple. Dal palco Renzi carica i suoi, anche se il pensiero resta fisso sulla Cgil: «Già nel 2010 c’era l’usanza, quando noi facevamo la Leopolda, di fare un evento di controprogrammazione. Quest’anno che siamo al vertice del Pd pensavamo non ci fosse nulla: e invece ecco la Cgil, che ringraziamo…». Quindi un pensiero per l’amico Civati, con il quale tutto ebbe inizio sotto queste volte: «Pippo, la Leopolda è comunque anche casa tua».
Per la verità, di tracce di Pd, nell’ex ferrovia, non se ne vede una neanche per sbaglio. «La verità — obietta Renzi — è che la nostra gente crede nella politica in modo diverso rispetto al passato». Sarà. L’unico collegamento con la tradizione del partito è la passione dei 500 volontari che tanto ricorda le mitiche «rezdore» delle Feste dell’Unità. Renzi ripercorre le 4 passate edizioni: «Quella del 2011 mi ha fatto capire che questo Paese era scalabile. Quella del 2012, perse le primarie, è stata una palata in faccia, ma salutare». Quindi un passaggio sul patto del Nazareno: «Lo difendo in tutte le salse: se avete dei dubbi sulla sua bontà, ricordate che Minzolini, Razzi e Scilipoti non l’hanno votato…».
Oggi sarà la giornata dei 100 tavoli. Renzi gigioneggia: «Un tempo venivo qui in bici, ora un po’ pomposamente dal vertice di Bruxelles: qualcosa la Leopolda ha davvero cambiato…».

il Fatto 25.10.14
“Niente potrà mandarci via”
Renzi alla Leopolda: “È finito il tempo in cui una manifestazione può cambiare il governo”
Dice di rispettare “Il milione che sarà lì ma anche i 60 che sono a casa”
di Wanda Marra


Se mi fossi dovuto impressionare per tutte le volte che qualcuno ha fatto qualcosa contro di me avrei fatto un altro mestiere”. Oggi la Cgil manifesta contro il governo, dunque contro di lui. E non è più ecumenico Matteo Renzi, ma sprezzante. Camicia azzurrina, compare in diretta al Tg de La7 di Mentana, poco dopo le 20. “Ho bisogno della Leopolda per tornare a respirare”, chiarisce. Peccato che appena arriva alla vecchia stazione industriale di Firenze, si vede solo dagli schermi tv. Matteo di governo. Per il Matteo di rottamazione, la Leopolda deve aspettare fino alle 21:20, quando lui sale sul palco. Divisa d’ordinanza, jeans e camicia bianca. “La sfida di questa Leopolda è una sfida difficilissima: il problema è considerare questa stazione non il punto d’arrivo. Ma il punto di partenza. Quando chiudiamo, chiudiamo con un elenco di cose da fare. Chi è fuori si aspetta che l’Italia si rimetta in moto”.
LA NARRAZIONE è chiara: loro il vecchio, lui il nuovo, loro la protesta, lui la proposta. Mica a caso le magliette in vendita a Firenze recitano la scritta “Gufi, no grazie”. È il leit motiv di questa Leopolda.
In diretta su La7 Renzi tradisce tutto il disinteresse, il fastidio, nei confronti dei sindacati. E di quelli del suo partito che oggi saranno in piazza. “Ho grande rispetto per la manifestazione della Cgil ma quella piazza è di protesta sindacale e politica e io la rispetto ma la Leopolda è un’altra cosa: non si protesta ma si propone”. Eccolo qua, che prova a marcare la differenza. “La Leopolda è una grande brigata di sognatori. Nessuno di noi avrebbe mai pensato di arrivare al governo del paese”. Licenza poetica: che lui studia da premier fin da piccolo lo sanno tutti quello che lo conoscono. Lo ammette dopo, intervenendo dal palco: “Alla Leopolda del 2011 capii che l’Italia era un paese scalabile ”. Attacca: “Rispetto un milione di persone che saranno in piazza”, ma soprattutto “i 60 milioni che saranno a casa”. Ecco il sindacato derubricato a minoranza. Ma soprattutto: “Sono totalmente determinato a ridare la speranza all’Italia. Tutto il resto lo lascio a loro. Ma sia chiaro: è finito il tempo in cui una manifestazione di piazza può cambiare il governo”. Fine. Poi la kermesse può cominciare. Renzi non ci può rinunciare. Ha bisogno di presentarsi ancora una volta come il rivoluzionario.
È lui che richiama le edizioni della rottamazione con video scelti. Il primo del 2010. “Prossima fermata Italia”, lui in maglioncino viola. Poi, il 2011, “Big Bang”, con i dinosauri sul palco, il 2012 “Viva l’Italia viva, il meglio deve ancora venire”. Quella delle primarie contro Bersani, “. E infine il 2014, “Diamo un nome al futuro”, la scalata al potere. Poi c’è adesso. “Il futuro è solo l’inizio”, lo slogan. Chiaro il gioco: un po’ di qua, un po’ di là. I pannelli giocano sulla “gufaggine”. Sulle affermazioni autorevoli poi smentite dalla storia. Ogni riferimento non è casuale: a tutti quelli che non capiscono, ai geni incompresi. Tipo lui, ovviamente. "Il cavallo è destinato a rimanere, mentre l’auto è solo una moda passeggera" è la frase attribuita all’allora presidente del Michigan Saving Banks, parlando a chi voleva investire nella Ford motors. per dire. Li ha fatti la Dot. media, un’impresa pubblicitaria privata tra gli altri di Matteo Spanò, amico d’infanzia di Matteo e scout.
L’ACCOSTAMENTO è con Steve Jobs, il grande genio visionario, quello partito da un garage. Garage a cui è ispirato il palco. Con la storia della Apple rimandata in un filmato. Slogan su slogan. “Credere in qualcosa la rende possibile” recita uno di Frank Lloyd Wright, che a Renzi dev’essere particolarmente caro. Nella narrazione a posteriori, Renzi ci riesce a infilare perfino il Patto del Nazareno: “Ne abbiamo parlato anche qui, di cambiare le regole con tutti”. D’altra parte, si aspettano a Firenze parlamentari di Forza Italia. E dei Cinque Stelle.
“Sono certo che non perderemo nella nostra azione di governo”, scandisce Renzi dal palco. Mentre dice: “.L’Italia siamo noi. Ma non siamo solo noi”. Forse anche per questo, si rincorrono ancora le voci che danno in arrivo Sergio Marchionne, nonostante le smentite ufficiali.

il Fatto 25.10.14
Kermesse e segreti
Costa 290 mila euro, privacy sulle donazioni
di Davide Vecchi


Luci, musica, video: gli effetti speciali della quinta Leopolda rappresentano la voce più cara della kermesse. Alle casse della fondazione costeranno 70 mila euro, Iva esclusa. Per rendere l’idea: più di tre volte l’affitto della stazione fiorentina che ammonta a 20 mila euro, sempre Iva esclusa, e il doppio del catering: 30 mila, al solito, più Iva. Catering che dovrebbe agevolmente ripagarsi da solo: affidato alla Gerist, solo ieri sera ha apparecchiato quasi 1500 coperti a 10 euro a testa minimo. Oggi si raddoppia, pranzo e cena. Sei milaeuro sono destinati per sedie e tavoli, altrettanti per la sicurezza e l’assicurazione contro eventuali infortuni. “Il totale dei preventivi a oggi, Iva esclusa, è di circa 290 mila euro. Dico circa perché ho ancora in corso le negoziazioni con alcuni fornitori”. Alberto Bianchi, contattato dal Fatto Quotidiano, gentilmente fornisce alcuni dati sui reali costi della quinta kermesse renziana, la prima governativa. Bianchi, oltre a essere l’avvocato del premier e del fidato Marco Carrai, nonché consigliere di Enel nominato dall’esecutivo made in Florence, è anche il tesoriere della fondazione Open. E lo è stato anche della Big Bang e, negli anni precedenti all’era della trasparenza arrivata nel 2012, della associazione Festina Lente che, insieme alla Link, dal 2007 in poi ha finanziato l’ascesa renziana.
A OGGI, DEI 3 MILIONI raccolti si conosce il nome di quanti hanno finanziato poco più della metà dell’importo. Sapere chi nello specifico pagherà la Leopolda è dunque impossibile. “Usiamo i fondi raccolti dalla Open”, spiega al Fatto l’avvocato Bianchi. E l’esborso sarà in parte coperto “con quanto viene donato in questi tre giorni anche attraverso Paypal”. E altre nuove possibili elargizioni dirette alla fondazione.
A oggi, tra i maggiori sponsor, figura David Serra che, assieme alla moglie Anna Barasi, ha versato complessivamente 175.000 euro dal 2012 a oggi. Serra, oltre a essere amico di Carrai, è soprattutto il finanziere del fondo Algebris, in cui la Fondazione cassa di Risparmio di Firenze ha investito 11 milioni di euro nel 2012 poi confermato nel 2013. L’ente Crt in quel periodo è presieduta da Jacopo Mazzei e tra i consiglieri annovera anche l’amico Carrai. Mazzei è consuocero di Paolo Scaroni: nel novembre 2012 sua figlia Violante si è sposata con Bruno Scaroni, figlio dell’allora amministratore delegato dell’Eni, in cui poi entrerà il fidato Marco Seracini. Anche Mazzei appare tra i finanziatori della fondazione Big bang, ma solo per il primo anno, con 10.000 euro. Tra i benefattori della Open figura anche Guido Ghisolfi, vicepresidente della Mossi&Ghisolfi di Tortona, contribuisce con 125.000 euro. Gli altri finanziatori sono meno generosi. Il munifico Alfredo Romeo, arrestato nel 2009 per turbativa d’asta, condannato in primo grado a tre anni per corruzione, e candidato dal governo Renzi per guidare l’agenzia per la riscossione dei tributi dello Stato, versa 60.000. Si dimostra generoso anche l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco, che con la moglie Marie Edmée Jacquelin versa 50.000 euro. Altri 20.000 arrivano da Simon Fiduciaria della famiglia di Franzo Grande Stevens. Dalla Karat Srl dei fratelli Bassilichi arrivano 25.000 euro. Poi c’è una sfilza di soggetti che hanno donato 10.000 euro ciascuno: Carlo Micheli, consigliere di Banca Leonardo e figlio del finanziere Francesco; la Eva Energie Spa dell’ex presidente dell’Enel Chicco Testa, la società israeliana Telit Communications di Oozi Cats; Fabrizio Landi, amministratore della società Esaote e dalla Sinefin del gruppo Giannanti di Pisa, nominato dal Governo nel cda di Finmeccanica. E molti altri. Secondo Sel, che ieri ha presentato una interrogazione ai ministri di Finanza, Interno e sviluppo economico ora che Renzi è premier potrebbe figurarsi qualche conflitto di interessi. Ma già la procura di Firenze a febbraio ha aperto un fascicolo sui finanziamenti a seguito di un’inchiesta realizzata dal Fatto proprio sui fondi.
Da allora, tra i finanziatori, si sono aggiunti molti parlamentari democratici folgorati sulla strada per Roma: 35. Dal tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, all’europarlamentare Simona Bonafè, poi il sindaco ereditiere di Firenze Dario Nardella, Matteo Biffoni, primo cittadino a Prato. Ancora: Ernesto Carbone, che a Roma guida una Smart del 2001 pagata un euro, ha versato alla fondazione Open 12.000 euro. David Ermini, Michele Anzaldi 10.400 ciascuno, mentre Luca Lotti e Dario Parrini hanno contribuito con 9600 euro a testa. C’è poi la Maria Elena Boschi che ha versato 8.800 euro. 6.800 invece li ha versati l’emergente Edoardo Fanucci che alla Leopolda si è conquistato un posto sul palco.

La Stampa 25.10.14
La metamorfosi della Leopolda che prova a non tradire se stessa
I rottamatori al governo radunati a Firenze, tra amarcord e nuove sfide
di Jacopo Iacoboni

qui

Repubblica 25.10.14
Gennaro Migliore
Il fuoriuscito di Sel che ha preferito Firenze “A San Giovanni potrei starci anche io ma in questa fase era giusto andare da Matteo”
di Tommaso Ciriaco


ROMA In linea d’aria piazza San Giovanni dista 231 chilometri dalla ex stazione Leopolda. Politicamente, molto di più. Gennaro Migliore, un passato tra Prc e Sel, un presente nel Pd, ha scelto la kermesse renziana. «Sì — risponde al telefono — sono a Firenze. Ma lascerei da parte visioni manichee, eviterei la contrapposizione. Semplicemente, ho già organizzato la “Fonderia delle idee” e lavoro per la moltiplicazione del dibattito politico» La provoco: preferisce Renzi alla piazza romana. La “sua” piazza, fino a ieri.
«Non mi provoca, perché per me quella piazza deve avere il massimo successo. Come Led abbiamo aderito, siamo convinti della necessità del dialogo con le ragioni dei lavoratori. È indispensabile nella dialettica democratica del Paese».
Resta la scelta: in queste ore lei è alla Leopolda.
«Io in quella piazza ci potrei stare, è possibile che ci stia prossimamente. In questa fase così delicata di transizione, di passaggio, era giusto essere qui alla Leopolda».
A Roma ci sarà la minoranza del Pd. Contro il premier.
«Per discrezione non entro in una dialettica stratificata nei mesi e negli anni, che precede il mio approdo nel Pd».
Per Renzi la protesta è sindacale, ma anche politica.
«Molto dipenderà dagli organizzatori. Una piazza sindacale è dei lavoratori e, come tale, è una ricchezza».
La piattaforma è molto dura con Palazzo Chigi.
«Credo sia giusto fare di tutto per ascoltare fino in fondo queste obiezioni, anche le più critiche, e poi decidere di procedere con le riforme. Per migliorare una delega troppo generica molto dipenderà dall’azione del Parlamento. Sull’articolo 18 il documento della direzione del Pd è importante. Le forze politiche e sociali si parlino, senza però rientrare nella dimensione concertativa ».
In piazza ci sarà Sel. Da loro ha ricevuto molte critiche.
«Si parli invece del merito e dei problemi del Paese. Io non polemizzo con gli ex compagni, comunque compagni di sinistra e della mia vita. Ma sui social ho ricevuto attacchi senza motivazioni, ridicoli. C’è chi mi augura addirittura la morte. Chi mi paragona a Razzi e Scilopoti? Una stronzata, una cosa vergognosa».

il Fatto 25.10.14
Lo sciopero Usb
Le adesioni arrivano a un milione

Sono un milione i lavoratori che ieri hanno aderito allo sciopero generale di 24 ore indetto dall’Usb (Unione sindacale di Base) contro “le politiche sul lavoro e sullo stato sociale del governo Renzi”. Alta l’adesione nel settore dei Trasporti. A Napoli città bloccata.

il Fatto 25.10.14
Distorsioni
Renzi e il mondo capovolto
di Giovanni Mazzetti


La capacità di distinguere quello che ciascun individuo pretende di essere e ciò che realmente rappresenta è uno dei segni della raggiunta maturità personale. Cercherò di spiegare perché Matteo Renzi ha una visione capovolta della sua stessa azione, con la conseguenza che questa produce e produrrà effetti opposti rispetto a quelli positivi da lui immaginati, finendo con l’inguaiare tutti noi. Un capovolgimento che è ben espresso anche dal tema della Leopolda che recita: “Il futuro è solo l’inizio”.
Cominciamo dall’esordio. Matteo Renzi ha presentato se stesso sulla scena nazionale come un “rottamatore”. Questa figura allegorica è stata mutuata da una pratica mercantile in vigore negli anni passati, grazie alla quale chi aveva un’auto malandata poteva rivolgersi ai rivenditori facendosela valutare per un certo ammontare, che veniva poi scalato dal prezzo d’acquisto di una nuova. Ne è in qualche modo scaturita la convinzione che il rottamare corrisponda a nient’altro che al sostituire un’auto vecchia con una nuova fiammante. Ma questo è l’effetto di una distorsione dell’esperienza. In realtà il rottamatore non è né il concessionario che attua l’operazione di compravendita, né il produttore dell’auto nuova che va a sostituire la vecchia. Il rottamato-re è colui che riceve il sottoprodotto dei comportamenti altrui, in quanto si limita a far rottami del veicolo scartato. Dalle sue mani escono, pertanto, cose che non hanno più alcuna utilità. Ora, è certo che Renzi fantasticava di essere in grado di mettere magicamente nelle mani della società le chiavi di un futuro nuovo fiammante, ma nella realtà, come dimostra il disastro della fuga in massa degli iscritti dal Pd, si è limitato a smantellare quel poco di un organismo sociale con qualche residua capacità orientativa, che cercava maldestramente di sopravvivere nella bufera.
RENZI, LUNGI dal convenire che la fuga in massa dei militanti costituisce un problema, ha sciorinato subito la “giustificazione”: sarà pure sparito qualche centinaio di migliaia di militanti del suo partito, ma sono stati guadagnati alla sua causa milioni di elettori! Questi rappresenterebbero la “macchina nuova” che lui consegnerebbe alla società. Ma solo degli ignoranti possono considerare gli elettori come un qualcosa di equivalente ai membri di un organismo sociale come un partito, anche se le sue radici storiche si stavano rinsecchendo.
La differenza che passa tra l’appartenenza a un organismo sociale come un partito e il votare qualcuno è, ai nostri giorni, la stessa che passa tra il convivere o lo sposarsi con una persona per costruire un progetto di vita e lo sfogarsi con una prostituta per un piacere occasionale. Pertanto, quando Renzi e i suoi seguaci vantano i risultati delle elezioni europee, e minimizzano gli effetti devastanti delle loro iniziative sull’organismo del partito, ogni persona dotata di discernimento percepisce il millanta-mento e rifiuta di accodarsi alla processione dei consenzienti. Un secondo indizio del procedere capovolto di Renzi sta nella sua presunzione di “sapere perfettamente (!) quello che c’è da fare”, cosicché non dovrebbe confrontarsi con un problema, bensì imporre una soluzione che gli è nota. Come molti “giovanotti” rampanti, Matteo Renzi pensa veramente che ciò che ha in mente abbia natura diversa dalle proposte e dagli interventi di quelli che l’hanno preceduto negli ultimi decenni. Ma come recita un antico detto francese “plus ça change, plus c’est la même chose”. Se conoscesse un po’ di storia, Renzi saprebbe che nel 1929 dopo il crollo di Borsa, il presidente Hoover negli Usa abbatté le imposte per ridare fiato agli investimenti privati, ma non ottenne alcun effetto pratico; così come nel 1975 il premier Wilson in Inghilterra fece la stessa cosa, finendo a sua volta in un cul de sac che lo costrinse alle dimissioni. D’altra parte, il tagliare le tasse era lo slogan preferito di Reagan, della Thatcher e poi di Berlusconi.
È superfluo elencare qui gli altri mille indizi che testimoniano del fatto che ciò che Renzi cerca di presentare come novità mai pensate sono in realtà ferri vecchi culturali. Ma uno di questi indizi è particolarmente chiarificatore. Dopo cento anni di dibattito sul problema, la Costituzione italiana, come quelle di altri paesi europei, ha riconosciuto nel 1948 che “il lavoro è un diritto”. Poiché la vita sociale è fondata sul lavoro deve essere garantita a tutti la certezza di poter lavorare. Ma Renzi non è convinto di tutto ciò e ha proclamato apertamente che “il lavoro non è un diritto, bensì un dovere”! Da questo punto di vista la Costituzione ha le idee ben più chiare di Renzi, visto che non scinde affatto (art. 4) il diritto dal dovere.
È INFATTI proprio perché la Repubblica è fondata sul lavoro, che da un lato riconosce ai cittadini un diritto al lavoro, dall’altro li chiama al dovere di svolgere un’attività che arricchisca materialmente e culturalmente la società. Che nessuno, nella direzione del Pd, sia scoppiato a ridere di fronte all’affermazione, la dice lunga sull’amnesia sociale che ha colpito quel partito. E il fatto che Renzi abbia riscosso un successo elettorale nonostante i discorsi che fa ci dice che la società tutta è stata colpita da una sorta di Alzheimer, che le ha fatto rimuovere la propria storia e la propria cultura, con la conseguenza di una disintegrazione della sua stessa identità.
Docente di Economia Politica.
Università della Calabria

il Fatto 25.10.14
Il giovane Cattaneo Parla l’ex sindaco di Pavia
“Berlusconi sosteneva Matteo già nel 2009”
di Emiliano Liuzzi


Non sbagliavano i giornali a chiamarmi il Renzi del centrodestra. Per tutta una lunga serie di motivi, ma anche perché io e Matteo Renzi siamo diventati sindaci insieme e con un programma simile. Tutto merito di Silvio Berlusconi, che aveva avuto l'occhio più lungo degli altri”. Parla Alessandro Cattaneo, già alla guida del Comune di Pavia, travolto alle ultime elezioni dal disastro del centrodestra. Il sindaco ragazzino di una città con un robusto passato.
Ma perché fa questo paragone con Renzi? Lui era centrosinistra, lei centrodestra, in un periodo storico senza larghe intese all'orizzonte.
Invece sbagliate.
Cioè? Vuol dire che Renzi e Berlusconi erano alleati dal 2009?
No. Ma posso raccontare un aneddoto che la dice lunga.
Su Renzi o Berlusconi?
Su tutti e due.
Allora vada pure: prediamo appunti.
Nel 2009 vengo chiamato ad Arcore. Mancava poco alle elezioni, io ero già indicato come candidato del Pdl. Sono cresciuto nel Pdl. Non sapevo neanche bene cosa volesse da me il presidente. Pensavo fosse incoraggiamento elettorale, il suo appoggio. Queste cose che allora esistevano.
E così non fu?
No, fu esattamente tutto questo. Con una cosa che aggiunse Berlusconi, di suo pugno. Un consiglio che doveva essere recepito come la strada da seguire per vincere. E il consiglio fu molto semplice.
Avanti, non ci tenga sulle spine...
Berlusconi disse: lei è una persona sulla quale contiamo, ha dimostrato capacità da tempo. È entrato nel partito quando era un ragazzino. Ma le do un consiglio da fratello maggiore che le parla?
Sì, lui. E mi spiega: noi abbiamo messo gli occhi su un ragazzo, uno molto sveglio. Credo che a Firenze abbia presentato un programma perfetto, non perderà. Sta conducendo una campagna elettorale ottima. Io le mando il programma di questo Renzi, lei lo segua e vedrà che abbiamo la vittoria assicurata.
L’antefatto dell'incontro tra Renzi e Berlusconi ad Arcore, quando poi Renzi ruppe con Civati.
Berlusconi aveva già messo gli occhi su questo Renzi. Io presi il consiglio per quello che era e cercai di propormi agli elettori con un programma simile, molto chiaro, spiegato per punti molto brevi.
I famosi cento punti di Renzi?
Proprio quelli.
E divennero i cento punti di Cattaneo?
Non identici, io feci la mia campagna elettorale e con le specificità che riguardavano Pavia. Ma seguii le indicazioni. E finì che sia io che Renzi vincemmo.
Era già partito unico?
No, non esiste neanche ora il partito unico.
Ma secondo lei Berlusconi e Renzi si erano già visti?
Non credo. Sicuramente Berlusconi, che ha occhio lungo e fiuto come nessun altro, si era accorto delle capacità comunicative di questo aspirante sindaco di Firenze.
Berlusconi però non gli mise un avversario pronto a giocarsela: il candidato era Giovanni Galli, ottimo portiere, in passato, nulla di più.
Da quello che ho capito io sapevano bene Berlusconi e i suoi che Firenze sarebbe stata una battaglia persa. E cercarono solo di limitare i danni. Il centrodestra a Firenze, nel 2009, non avrebbe mai vinto.
Ci fu secondo lei lo zampino di Verdini?
Verdini è fiorentino, ma non so se ci fu un suo intervento. Non credo. Ripeto, rimasi stupito dell’entusiasmo col quale Berlusconi parlava di questo Renzi, fino a quel giorno per me sconosciuto. Poi tornai a casa e trovai il fax che Berlusconi mi aveva promesso.
Di quale fax parla?
Il fax del programma elettorale di Renzi, dei cento punti. Devo averlo da qualche parte, in testa il numero del mittente, e la scritta villa San Martino, Arcore.
Lei lo sa di quei 100 punti Renzi ne ha realizzati tre?
Non è un problema mio. Io sono all’opposizione di Renzi.
Non sembra.
Io ero sindaco a Pavia. Renzi a Firenze. L’ho incontrato molto tempo dopo. Ma riconosco che quel programma aveva degli spunti ottimi.

La Stampa 25.10.14
Un deserto a sinistra di Matteo
di Giovanni De Luna


Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso
Forza Italia.
Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del «grande centro», ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico.
A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli Anni 80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.
A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una «narrazione» seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà. C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli Anni 70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia. Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività; e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità.
In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e poi ancora, forse a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il futuro.

Corriere 25.10.14
Partiti nature morte?
Il vuoto intorno al leader
di Ernesto Galli della Loggia

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Corriere 25.10.14
La naturale inerzia dell’autoritarismo
di Piero Ostellino


Dalla deriva autoritaria del renzismo al comando spunta ora — dopo l’assurda abolizione del Senato — l’idea del Partito della nazione, inquietante assonanza col nazionalsocialismo. I partiti, storici, che si confrontano in Parlamento, farebbero solo perdere tempo. Renzi non nasconde di pensarlo. Era anche l’opinione di Berlusconi, quand’era al governo e che ora coltiva per interposta persona sostenendo Renzi che, a sua volta, interpreta, «da sinistra» — dove tutto è, per definizione, lecito — il populismo berlusconiano fra gli applausi di una borghesia priva di cultura politica.
   Se, in politica, le parole sono pietre, ecco, allora, che sul futuro della nostra democrazia è stata già posta, con l’idea del Partito della nazione, una bella pietra. Non è ancora il caso di fasciarsi la testa. Ma, prima che sia troppo tardi, di discutere razionalmente l’andazzo, certamente è il caso. L’autoritarismo ha una sua naturale inerzia. Basta se ne metta in moto la prospettiva ed è fatta. Nel Novecento lo si è constatato sia in Italia sia in Germania. Oggi, al terzo capo di governo non eletto, gli italiani stanno entrando nell’ordine di idee che si possa rinunciare alle elezioni per scegliere i propri rappresentanti se al governo c’è chi si dà da fare. Renzi, col suo (apparente) attivismo, contribuisce a confermare l’opinione. La deriva autoritaria della quale è la causa e sarebbe, forse, anche la soluzione, nasce dalla repulsione per tutto quello che sono stati i partiti storici: ricettacolo di clientelismi, corporativismi, di corruzione. Che ci fosse bisogno di una riforma del sistema era evidente. Ma i partiti sono anche lo strumento della democrazia rappresentativa….Se si aboliscono quelli, si cancella anche la democrazia.
   Che ci sia una obiettiva esigenza di accelerare i processi legislativi è un fatto incontrovertibile, del quale sono prova le difficoltà che incontra il Parlamento persino a nominare due giudici costituzionali. Ma non sono giustificabili scorciatoie. Il Partito della nazione sarebbe, secondo di chi lo propone, il Partito di un capo di governo che soddisferebbe contemporaneamente l’aspirazione all’eguaglianza e il desiderio di ordine diffusi fra la gente. Ha scritto Tocqueville che molti amano la libertà, ma meno dell’eguaglianza. Da noi, la cultura di sinistra ha indotto molti a pensare «che se l’eguaglianza non la possono ottenere nella libertà, la vogliono anche nella schiavitù».

La Stampa 25.10.14
Braccio di ferro con la Merkel, Renzi: “Basta rigore”. Lei: “Temo un altro 2011”
Duello al vertice di Bruxelles: così impedite la crescita. Ma la cancelliera non molla
di Carlo Bertini

qui

Corriere 25.10.14
«Noi non dialoghiamo con i tweet»
Hollande si smarca da Renzi e abbassa i toni con Bruxelles


Il commissario europeo Jyrki Katainen ha inviato la lettera a entrambi i Paesi ma Italia e Francia hanno reagito in modo molto diverso. Se Matteo Renzi l’ha subito resa pubblica non nascondendo l’irritazione, François Hollande ha cercato di sminuire la sua portata: si è rifiutato di diffonderla sostenendo che era «una lettera molto banale, una semplice richiesta di informazioni». Non solo, con una battuta il presidente francese ha sottolineato la differenza di atteggiamento con il premier italiano: «Con la Commissione dialoghiamo per telefono, non ancora attraverso i tweet (riferimento a Renzi, ndr), e per via epistolare». Nel pomeriggio di ieri poi, quando il giornale online Mediapart ha reso pubblica la comunicazione di Katainen alla Francia, si è scoperto che i toni erano più o meno gli stessi: «Vorrei sapere come la Francia prevede di conformarsi ai suoi obblighi di politica budgetaria nel 2015», chiede Katainen. La risposta è che Parigi non prevede affatto di conformarsi, perché il rapporto tra deficit pubblico e Pil sarà ancora del 4,3 % nel 2015, invece del 3 % richiesto, e il suo deficit strutturale ridotto dello 0,2 invece dello 0,8 per cento. E questo nonostante i due anni di proroga già ottenuti nel 2013. Forse per questo il governo di Parigi non ha interesse ad alzare i toni. A un presunto asse Francia-Italia, tante volte evocato in questi mesi, Hollande sembra preferire l’eterno rapporto privilegiato con Berlino, dove ha mandato in missione i suoi ministri Michel Sapin (Finanze) ed Emmanuel Macron (Economia) pochi giorni prima del summit di Bruxelles. E anche quanto al ricalcolo dei fondi per il budget europeo, Francia e Italia si trovano su fronti opposti: Hollande appoggia Merkel (perché a Parigi tornerebbero indietro dei soldi), mentre Renzi sta con il premier britannico Cameron e dice no alla richiesta di ulteriori pagamenti.

il Fatto 25.10.14
Non scende dal Colle
Napolitano ci ripensa, non si dimitte più
di Fabrizio d’Esposito e Chiara Regini


NON SCENDE DAL COLLE NAPOLITANO CI RIPENSA: NON MI DIMETTO PIÙ
IL PRESIDENTE È CONVINTO DI ESSERE FONDAMENTALE NELLA GESTIONE DEI RAPPORTI INTERNAZIONALI: SOLTANTO L’ALTRO GIORNO HA DOVUTO SEDARE LA RABBIA DI BARROSO

Giorgio Napolitano non medita più di dimettersi tra dicembre e gennaio. Lo sentiva, lo sapeva, ma lo ha capito ancora una volta quando ha dovuto riprendere in mano il telefono per chiamare José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea e placare la sua furia sui conti pubblici italiani. Nonostante il protagonismo irruente di Matteo Renzi, nonostante la sua personale stanchezza, nonostante l’esasperazione sempre più evidente per l’inconcludenza di molti attori della politica, Giorgio Napolitano sente ancora “il dovere di restare”, come riferisce chi è abituato a frequentare il Quirinale. Ed è questa la principale notizia della settimana, al di là di Leopolde e piazze, e che è destinata a ridisegnare gli scenari politici tracciati sin dall’estate. Cioè: dimissioni di Napolitano con il nuovo anno ed elezione del suo successore da parte di questo Parlamento. A quel punto il nuovo capo dello Stato espressione del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi avrebbe anche potuto sciogliere le Camere, in base ai piani del premier e del Condannato. Adesso, invece, questo piano salta. Ecco, quindi, come va interpretata e tradotta quella frase messa come una pietra nel mezzo del discorso ai Cavalieri del lavoro, giovedì scorso al Quirinale: “Occorre varare, con passo celere e determinazione, cambiamenti essenziali. In questo senso continuerò a svolgere il mio ruolo di garante dell’unità nazionale, di tutore di regole che siano realmente tali e non paraventi tesi a difendere l’esistente. Continuerò a operare in questo senso nei limiti delle mie forze”. Un passaggio in cui il verbo “continuare” è ripetuto due volte e prevale sui “limiti delle mie forze”.
Le telefonate di Draghi e il “ruolo fondamentale”
È stata la spola fatta dalla legge di Stabilità tra Palazzo Chigi, la Ragioneria generale dello Stato, Bruxelles e il Quirinale che ha consolidato nel capo dello Stato l’idea che il suo ruolo è ancora centrale. Mario Draghi, quando vuole lumi, chiama lui. Di più: il credito che gli viene attribuito dalle cancellerie occidentali e dai vertici dell’Unione europea lo ha convinto che il suo ruolo è addirittura “fondamentale” in un momento di persistente crisi, economica e istituzionale. Di qui anche il sostegno fornito ieri a Renzi nella battaglia contro la linea tedesca, seguito al placet della manovra: “Ho letto la bozza del documento del Consiglio europeo e ho notato che il termine ‘austerity’ questa volta non compare: per evitare nuove polemiche qualcuno ha accettato di non menzionarlo, forse perché mosso da qualche complesso di colpa”. Napolitano la pensa così: sente tutta la “responsabilità” del suo ruolo e con questo senso di “responsabilità” gli attori della politica, dal primo all’ultimo, si dovranno realisticamente confrontare per altri mesi. Altro che derby democratico per la successione al Colle, tra Roberta Pinotti e Anna Finocchiaro.
La decisione estiva di andarsene a gennaio
La scelta di Re Giorgio maturata in questi giorni non è però stata facile. Perché le telefonate di Barroso e Draghi non sono un elisir che ringiovanisce. L’età (90 anni il prossimo 29 giugno 2015) e soprattutto la stanchezza restano. Appena tre mesi fa a luglio, Napolitano, parlando ai cronisti parlamentari per la cerimonia del Ventaglio accentuò proprio quest’aspetto: “Noto, d’altro lato, che si tende a omettere l’altra riserva da me più volte richiamata, quella relativa alla sostenibilità, dal punto di vista delle mie forze, di un pesante carico di doveri e funzioni. E quest’ultima è una valutazione che appartiene solo a me stesso, sulla base di dati obiettivi che hanno a che vedere con la mia età, a voi suppongo ben nota”. Chi lo conosce bene spiega infatti che il capo dello Stato avverte “il peso dell’impegno preso” sin da quando ha accettato il bis del mandato, un anno e mezzo fa. Disse di sì, assicurano gli amici, dando un dispiacere alla moglie che sperava finalmente in una vita più tranquilla, solo perché i partiti si impegnarono a fare le riforme. Lo giurarono e spergiurarono. Durante l’estate, dunque, al Quirinale si era anche ragionato sui tempi e a qualcuno non dispiaceva l’idea di un addio durante il messaggio di Capodanno, se ne erano valutati i pro e i contro.
I timori: “Se domani non mi dovessi alzare? ”
Tutte queste ipotesi sono state al momento archiviate. Non facilmente. I suoi amici si sono divisi. Da un lato chi ha sostenuto, in modo pessimista, che anche questo “sacrificio” rischia di essere inutile. E lo stesso presidente, ragionando, si sarebbe lasciato scappare una frase drammatica: “Cosa succederebbe se domani mattina non mi dovessi svegliare? ”. Dall’altro, invece, i fautori della “responsabilità”. Napolitano, alla fine, ha abbracciato questa linea. “Lasciare senza aver firmato né la nuova legge elettorale né la nuova Costituzione e con i conti in disordine, per lui a questo punto sarebbe una sconfitta” rivela chi gli ha parlato di recente. Il presidente vorrebbe riuscire a mettere il suo autografo almeno sotto la nuova legge elettorale. Vede il traguardo a un passo, perché l’Italicum poteva vedere la luce entro l’inverno, ma ogni volta si ricomincia daccapo. Ora di nuovo modifiche, balletti sui diversi modelli, aperture e chiusure. Un teatrino che sfinisce la pazienza di Napolitano e gli fa sembrare una chimera le dimissioni a compito concluso. Ma l’idea di lasciare senza una nuova legge elettorale, con un Senato che elegge il suo successore per l’ultima volta e un governo che chissà quanto dura gli appare sempre più come una prospettiva destabilizzante. Le urne saranno ancora il piano B di Renzi?

La Stampa 25.10.14
Gli assist del Colle al governo
di Luigi La Spina


C’è chi si stupisce per il linguaggio esplicito e per i toni persino ruvidi, insoliti nel lessico felpato di un presidente della Repubblica. E c’è chi giudica, con compiacimento o con rammarico, i due interventi di Napolitano, un giorno dopo l’altro, come quelli che in gergo calcistico si definirebbero formidabili assist al governo.
Segnali inequivocabili che tra il capo dello Stato e Renzi, dopo un periodo di rispettosa diffidenza reciproca, sia stata siglata un’alleanza di ferro.

Come al solito, nella politica italiana le cose sono un po’ più complesse di come possano apparire e le semplificazioni non aiutano a comprendere lo scenario che ci aspetta tra l’autunno e l’inizio del prossimo anno.
Sia la robusta intemerata contro «i vecchi assetti di potere», pronunciata nell’intervento di giovedì davanti ai cavalieri del lavoro, sia il «basta austerità» lanciato ieri ai vertici dell’Unione europea, in occasione dell’incontro con i giovani, marcano il doppio binario di impegno presidenziale, già annunciato nel discorso di Napolitano alle Camere, in occasione della sua seconda elezione al Quirinale. La sua permanenza nella più alta carica della Repubblica avrebbe avuto fine, disse allora il capo dello Stato, quando le indispensabili riforme sarebbero state talmente avviate in Parlamento da assicurare, all’Italia, l’uscita dall’emergenza finanziaria e, ai cittadini, istituzioni più funzionali.
Ecco perché i due messaggi presidenziali nascono dalla preoccupazione di Napolitano che non solo ci siano ritardi inaccettabili nel varo del piano di riforme promesso da Renzi, ma che l’UE non sia disposta a creare le condizioni perché il nostro Paese possa attendere con fiducia che i cambiamenti necessari abbiano il tempo di produrre i risultati sperati. Le resistenze «corporative e conservatrici», sul fronte interno, e le esitazioni sull’urgenza di una svolta espansiva nella politica economica europea potrebbero contribuire allo sbocco che il presidente della Repubblica considera più nefasto per il nostro Paese: una crisi di governo senza alternative alle elezioni anticipate.
L’ipotesi, al Quirinale, è valutata con seria costernazione per le assai prevedibili conseguenze: uno spread alle stelle, con un parallelo drammatico appesantimento del debito per il rialzo dei nostri interessi, gravi contraccolpi sulla Borsa e sulla già precaria situazione economica e, soprattutto, lo stop al cammino delle riforme, con la prospettiva di elezioni anticipate che, non mutando sostanzialmente la composizione del Parlamento, ribalterebbero sulla prossima legislatura gli stessi problemi che quella vigente non riesce a risolvere. È probabile, se questo scenario si dovesse davvero avverare, che Napolitano si rifiuterebbe di firmare lo scioglimento delle Camere e considererebbe conclusa la sua seconda esperienza al Quirinale, vista la clamorosa smentita alle garanzie che i partiti gli avevano assicurato per convincerlo a restare alla presidenza della Repubblica.
Non si può considerare Renzi, nell’ottica di Napolitano, alla stregua dei suoi predecessori, Monti e Letta, i cui governi si potevano definire «governi del presidente» e non è scoppiato alcun improvviso amore del capo dello Stato nei confronti del giovane leader dei democratici. Le leggi della politica italiana non ammettono sfumature sentimentali, ma seguono le ferree regole della necessità. Napolitano, da una parte, ammonisce le forze sociali a non difendere posizioni ormai insostenibili e quelle politiche a non ostacolare pregiudizialmente le proposte renziane. Ma, dall’altra, sollecita il presidente del Consiglio a non trascurare l’ascolto degli interlocutori, condizione indispensabile per dividere il fronte degli avversari e consentire un più rapido varo delle riforme.
Sulla politica italiana aleggia un sospetto, che non dovrebbe essere assente anche nei corridoi quirinalizi. Quello della grande tentazione di Renzi: di fronte alle rigidità dell’Europa e agli ostacoli che gli arrivano anche dal suo partito, il presidente del Consiglio potrebbe rovesciare il tavolo e lanciare un appello al Paese, una specie di referendum sul suo nome. In caso di vittoria anche in una consultazione nazionale, non solo con l’avallo del famoso 41 per cento ottenuto alle europee, con un gruppo ds alle Camere più compatto dietro di lui, potrebbe spazzare via qualunque resistenza alla sua azione. Per Renzi, una scommessa rischiosa, certamente, ma un azzardo che potrebbe sedurlo. Ma, per Napolitano, forse una scommessa che il Paese non si può permettere.

Corriere 25.10.14
I giudici: il legale di Riina può interrogare Napolitano
Stato-mafia, domande lecite anche sull’allerta attentati del 1993
Necessaria la disponibilità del presidente
di Gio. Bia.


ROMA L’udienza a porte chiuse del Quirinale diventa a porte blindate, sorde e silenziose, dal momento che a magistrati e avvocati ammessi sarà impedito di portare con sé personal computer, tablet, telefonini e ogni apparecchio adibito alla registrazione. La deposizione di Giorgio Napolitano al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, fissata per martedì alle 10, si allarga negli argomenti da trattare, ma si restringe nella comunicazione immediata di ciò che verrà detto, dopo che gli uffici della presidenza della Repubblica hanno comunicato le regole con cui si potrà seguire l’udienza: presenti solo le parti processuali, senza gli imputati, e nessun collegamento audio né video con l’esterno del palazzo che per qualche ora ospiterà la corte d’assise di Palermo. Solo a fine udienza — chissà quando, normalmente ci vogliono giorni d’attesa — sarà disponibile il verbale con le domande di giudici, accusa e difese, e le risposte del capo dello Stato.
La corte ieri ha deciso, dopo il deposito di nuovi atti tra cui l’informativa del Sismi su un ipotetico attentato allo stesso Napolitano nel 1993, di ampliare il tema della testimonianza. Si comincerà con la lettera inviata al presidente nel giugno 2012 da Loris D’Ambrosio, in cui l’allora consigliere giuridico esprimeva il timore (come «ipotesi, solo ipotesi») di «essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi» nel periodo fra il 1989 e il ‘93. Napolitano ha già fatto sapere di non sapere nulla di più delle poche parole scritte da D’Ambrosio (morto un mese dopo), ma molte domande cercheranno di scavare intorno a questo argomento. E chissà se la corte le riterrà ammissibili, visti i limiti imposti dalla recente sentenza della Consulta su prerogative presidenziali e immunità connesse.
Poi però si farà un salto indietro di vent’anni con i quesiti sulle minacce d’attentato riferite dal servizio segreto militare quando il capo dello Stato era presidente della Camera. I pubblici ministeri lo considerano un argomento collegato alla lettera di D’Ambrosio, poiché ricompreso nel periodo citato nella missiva, e dunque è prevedibile che chiedano lumi al testimone anche su questo punto. Poi si passerà al controesame delle parti civili e quindi dei difensori. L’avvocato Luca Cianferoni, che assiste Totò Riina, non solo potrà tornare sui temi evidenziati dall’accusa, ma ha chiesto alla corte di interrogare il presidente della Repubblica sui pericoli evidenziati dal Sismi nel ‘93 (sebbene lo stesso Servizio, nelle informative acquisite nel processo, abbia specificato lo «scarso coefficiente di affidabilità» dell’informatore, e il fatto che avesse indicato Spadolini e Napolitano come obiettivi solo a titolo «esemplificativo»).
La corte ha stabilito ieri che il difensore di Riina potrà porre quelle domande. Tuttavia il «capitolato di prova» della difesa, senza un accordo delle parti, potrebbe essere rinviato a un’udienza successiva. Inoltre nell’ordinanza con cui hanno ammesso le domande dell’avvocato Cianferoni, i giudici ricordano che la deposizione del capo dello Stato è legata alla sua «facoltà di revocare in qualunque momento la disponibilità a testimoniare», e in tal caso «la corte non potrà che prenderne atto». Per mancanza «di poteri coercitivi di sorta» nei confronti del presidente della Repubblica, e per via delle «prerogative costituzionali che in generale tutelano la persona che svolge detta funzione». Si prepara dunque un avvenimento storico, poiché senza precedenti nella storia giudiziaria, dove nulla o quasi può essere dato per scontato.

La Stampa 25.10.14
Il pullman per i Rom che divide la sinistra
Le cause da rimuovere
di Vladimiro Zagrebelsky


Il sindaco di Borgaro probabilmente non pensava di rischiare di passare alla storia come l’emulo di provincia del celebre governatore dell’Alabama, che, negli Anni 50 del secolo scorso, costringeva i cittadini afro-americani (negri, nel linguaggio dell’epoca) a non usare i sedili riservati ai bianchi negli autobus.
La signora Rosa Parks, stanca vi si sedette, rifiutò di alzarsi e venne arrestata; ne nacque la rivolta con il Montgomery Bus Boycott ed iniziò la vicenda conclusa dalla sentenza della Corte Suprema, che dichiarò incostituzionale quella discriminazione. Ma, né Borgaro né l’Italia sono l’Alabama degli Anni 50.
Il sindaco non è interessato al colore della pelle o all’appartenenza etnica dei passeggeri. Egli è invece preoccupato per la sicurezza e tranquillità dei viaggiatori e, senza vietare o imporre alcunché, propone di modificare il servizio di trasporto pubblico in modo da prevedere una linea di servizio a un campo nomadi. Così spera di ottenere che gli abitanti di quel campo si servano della nuova linea invece di quella utilizzata da coloro che vanno a destinazione oltre il campo. Nell’intenzione del sindaco si tratta di evitare che si ripetano frequenti episodi gravi in danno di passeggeri, derubati o aggrediti da individui, che sarebbero Rom abitanti in quel campo. Immagino, commentando ora l’iniziativa, che quella del sindaco sia mossa da fatti reali, che l’esasperazione dei viaggiatori sia vera e forte, e che il problema della loro sicurezza nasca effettivamente dal comportamento di appartenenti alla locale comunità Rom. E’ bene stare lontani dagli stereotipi negativi che accompagnano i Rom nell’opinione diffusa. Sono ancora nella memoria i recenti episodi di uno stupro inventato e attribuito agli abitanti di un campo di Rom, o la recente invenzione del rapimento di un bimbo attribuito ad alcuni Rom. Invenzioni, non a caso contro Rom. In altre circostanze la tensione con i Rom ha dato luogo, anche a Torino, ad episodi di violenza, che hanno assunto forme criminali a carattere razzistico. Ma gli stereotipi sono pericolosi in un doppio senso: da un lato portano a credere a ciò che non esiste, ma dall’altro spingono chi li rifiuta a negare le realtà che li hanno fatti crescere. Questa volta però il facile e pregiudiziale schieramento a fianco di una comunità tanto spesso discriminata ed emarginata mi sembra improprio o almeno avventato. È impossibile ignorare il problema: impossibile per chi vive quotidianamente la preoccupazione di dover prendere quell’autobus; impossibile anche per chi, vivendo altrove, per esempio nel bel centro di Torino, non è esposto a quella situazione e a quella tensione.
La prima domanda da porre, non al sindaco, ma al questore o al prefetto riguarda il compito primordiale dello Stato di assicurare la sicurezza delle persone. Come è possibile che si trascini una tale situazione, che spinge un sindaco ad immaginare un provvedimento come questo? La questione della sicurezza nei mezzi di trasporto pubblico, a certe ore della sera e in certi quartieri, non solo per i passeggeri, ma anche per autisti e controllori, è grave e non deve essere minimizzata come banale microcriminalità. Il problema non è solo torinese, né evidentemente riguarda specificamente i Rom; esso colpisce anche molte altre città. Lasciare un servizio pubblico in mano a prepotenti o delinquenti, chiunque essi siano, colpisce la fiducia che occorrerebbe avere nella capacità dello Stato di adempiere ai suoi doveri. Se la fiducia vien meno nel quotidiano della vita delle persone, non ne segue una passiva rassegnazione, ma arrivano le reazioni private: quelle per evitare le quali lo Stato è istituito. E quando si contrappongono comunità diverse, nasce il razzismo. Non basta deplorarlo e rifiutarlo. Occorre rimuovere le occasioni che lo sollecitano.
Vi è poi una seconda e complementare domanda. Se le aggressioni denunciate vengono sistematicamente da parte di persone appartenenti alla comunità Rom, perché questa stessa comunità non reagisce, isolando coloro che ne sfigurano l’immagine e la considerazione? Se la risposta fosse (o il silenzio significasse) che tutto sommato quei comportamenti non sono ritenuti inaccettabili o addirittura sono ammessi perché tradizionali, un problema gravissimo si porrebbe: quello dell’idoneità della comunità nel suo complesso a vivere integrata nel contesto di una società che ha regole essenziali da osservare. C’è da augurarsi che non si debba arrivare ad una simile conclusione, che drammaticamente colpirebbe allo stesso modo tutti gli appartenenti ad una intera comunità. Non solo ad essi, ma anche a coloro che sul terreno, con generosità e con difficoltà operano perché emarginazione e discriminazione siano rimosse, si chiede di non negare, né sottovalutare il problema.

Repubblica 25.10.14
Il Campidoglio. Credibilità
del sindaco a picco tra i cittadini. Il partito chiede aiuto a Renzi, che allarga le braccia: “Se avessi ridotto io Firenze così mi avrebbero cacciato a pedate”. E la ricandidatura del chirurgo è già esclusa
Un sondaggio amico boccia Marino Il Pd: molliamolo o faremo autogol
di Giovanna Vitale


Lo dice chiaro e tondo il segretario romano Cosentino: «Cambiare gli assessori è l’ultimo dei miei pensieri». Non è una balla. La strategia, adesso, è inchiodare Marino alle sue responsabilità; smontargli l’alibi che sono i democratici, affamati di posti e di poltrone, a impedirgli di lavorare; offrire al contrario l’immagine di un partito collaborativo per il bene della città. Anche a colpi di sondaggi. Che danno ragione a chi dice: «Marino non è all’altezza, deve farsi aiutare».

Che “qui Roma abbiamo un problema” i vertici del Nazareno lo sapevano già da un po’: il sondaggio choc commissionato dal Pd locale ne ha solo certificato l’ordine di grandezza. A poco più di un anno dal “cappotto” contro Alemanno (giugno 2013: finì 63 a 35 e 15 municipi a zero) appena 4 romani su 5 — secondo Swg — hanno fiducia nel sindaco Ignazio Marino, l’80% ne nutre poca o nessuna; mentre se si rivotasse oggi soltanto il 23% tornerebbe a scrivere il suo nome sulla scheda. La certificazione di una débâcle. Che, seppure inattesa nelle dimensioni, è stato il suo stesso partito a sollecitare, incassando una bocciatura senza precedenti. Alla domanda: “Che cosa funziona bene a Roma”, il 54%, dunque la stragrande maggioranza, risponde: «Nulla». Il sindaco- chirurgo protesta: «È noto che su trasporto pubblico, decoro urbano e rifiuti le cose non vanno, piuttosto ci sarebbe da chiedersi perché non si è intervenuti prima, nel 1968 o nel 1978».
Non è comunque per capriccio che da mesi i dem cittadini fanno pressing sul vicesegretario Lorenzo Guerini perché si studi insieme il modo di sfrattare dal Campidoglio il suo inquilino più illustre: «È un disastro — si ragiona — se continua così perderemo le elezioni per i prossimi 20 anni». Lo spettro si chiama Giorgia Meloni, la presidente di Fratelli d’Italia che, con un centrodestra ancora allo sbando ma che potrebbe ricompattarsi, rischia di bissare la storica vittoria di Alemanno. È anche per questo che le visite al Nazareno del segretario romano Lionello Cosentino e del vice Luciano Nobili si sono intensificate. La richiesta è sempre la stessa. Sottoposta, prima dell’estate, allo stesso Renzi. Che però, nonostante la scarsa empatia nei confronti di Marino, ha frenato: «Mi rendo conto che c’è un problema», ha ammesso il segretario-premier, «ma io, da ex sindaco, non posso certo intervenire per rispedirlo a casa prima della fine del mandato». Facendo intendere di portare pazienza, ché comunque di ricandidarlo proprio non se ne parla. D’altra parte cosa pensi il leader del chirurgo dem è cosa nota. «Ma come fate voi a vivere in una città con tutte queste buche?» è la battuta con cui lo ha liquidato parlando una decina di giorni fa con un parlamentare. «Se Firenze fosse stata ridotta così quando c’ero io, mi avrebbero cacciato via a pedate».
Segnato il destino di Marino, quel che resta da stabilire è come proseguire l’esperienza di governo in Campidoglio. Tutti ormai consapevoli del fatto che potrebbe pure non durare fino al 2018, ma finire prima: rimane solo da stabilire quando. I più avventurosi suggeriscono persino una data: primavera 2015, allorché si potrebbe votare anche per le Politiche in caso di fine anticipata della legislatura.
Il dilemma del Pd, adesso, è come gestire il presente e, soprattutto, il futuro prossimo. Se cioè spingere sull’acceleratore del rimpasto, per cercare di cambiare modulo di gioco e rafforzare la giunta, oppure utilizzare con Marino la stessa strategia messa in atto da Renzi con Letta prima di lanciare l’Opa su Palazzo Chigi. Ovvero: lasciare che il sindaco di Roma faccia tutto da solo, come finora ha sempre fatto; tranquillizzarlo sul sostegno ma senza farsi coinvolgere nell’indicazione dei nuovi assessori (qualora volesse cambiarli) né delle modalità per rilanciare se stesso e la sua squadra; separare i destini del partito da quelli dell’amministrazione, prendendosi la libertà di presentare proprie proposte alla città per costruire consenso e preparare l’alternativa.
Una strada, quest’ultima, giudicata di gran lunga migliore. Almeno fino a quando non si capirà cosa accadrà a livello nazionale: prima, non è prudente toccare niente. Dopo, a seconda se si tornerà a votare per le Politiche oppure no, si deciderà come aprire la crisi in Campidoglio. Ma sempre in stretto contatto con il Pd nazionale.

il Fatto 25.10.14
Il conformista
Bertinotti e Ravasi, incubo in sala d’aspetto
di Elisabetta Ambrosi


SONO LA SALETTA dell’aeroporto dove si sono consumati gli incontri tra Fausto Bertinotti e il cardinale Gianfranco Ravasi, autore della prefazione dell’ultimo libro-intervista dell’ex presidente della Camera, Sempre daccapo (Marcianum Press). È accaduto insomma che mio malgrado, tra annunci di partenze e arrivi, sia diventata anch’io un “Cortile dei Gentili”: quello spazio – ormai affollatissimo: dopo i papi e i direttori di giornali, tocca a cardinali ed ex segretari di sinistra – dove si incontrano credenti e non credenti. Io come la sala ristorante dell’Hotel Palma, dove si è svolta la cena del premio Capri San Michele durante la quale l’intervistatore di Bertinotti, Roberto Donadoni, grazie all’intervento della moglie Lella (“Fausto non dire no a questo simpatico sacerdote”), lo ha convinto a scrivere il libro. Che oltre a essere una perlustrazione altissima dei destini del movimento operaio, dell’individualismo cieco della società mercantilista globale e del rapporto tra Marx e Lenin e tra San Paolo e Cristo, è soprattutto uno scandagliamento morale dell’interiorità dell’intervistato, che risponde a domande di senso che “artigliano la sua coscienza” – come scrive Ravasi – trascendendo però “le stagioni politiche”. Peccato che io veda la gente che passa di qui: cittadini un tempo di sinistra ormai preoccupati soprattutto di sopravvivere (anche perché il vitalizio per pensare alle domande ultime non ce l’hanno). I quali se potessero, credetemi, accetterebbero senza fiatare il “capitalismo sfrenato” e il “rischioso post umanesimo” globalizzato, pur di riavere in cambio l’unico governo che forse ci avrebbe evitato di cadere nell’abisso in cui siamo.

Repubblica 25.10.14Kobane, nel borgo divenuto simbolo la battaglia che cambierà la guerraUn luogo modesto, isolato, perfino un po’ poetico se regnasse la pace È il teatro di scontri senza sosta, una sfida in cui gli Usa e gli Alleati hanno impegnato il prestigio. I curdi resistono, i jihadisti attaccano, i jet bombardano Se questo pugno di case cadesse l’America e la coalizione perderebbero la faccia. E un fremito percorrerebbe tutto il mondo musulmano
Fuoco e fiamme si alzano dagli edifici di Kobane, la città siriana dove infuriano i combattimenti tra miliziani del sedicente Stato islamico e curdi
di Bernardo Valli

URFA (CONFINE TRA TURCHIA E SIRIA) NON sembra una città siriana, pare piuttosto un borgo acquattato nell’Anatolia turca. Prima che il missile lanciato da un aereo invisibile esplodesse alle due del pomeriggio nel centro dell’abitato, coprendolo con un fumo accecante, il panorama era identico, calvo e ondulato, sui due versanti. Non c’era traccia di una frontiera, anche se sapevi che Kobane è subito oltre la linea di confine a fondo valle. Di solito nessun cartello o recinto segnala il passaggio, all’infuori di isolati posti di polizia. Adesso però è tutto più chiaro, brutale: raffiche e bombe formano un muro insuperabile. Il mio compagno di viaggio mi dà il binocolo e mi mostra, quando il fumo si dirada, la pista polverosa sulla quale passa ogni tanto un intrepido autista schiacciando l’acceleratore. È quello il confine? Potrei scendere a valle dalla collina su cui mi trovo e raggiungere in pochi minuti la linea ferroviaria. Quei binari mi sembrano la vera frontiera. In realtà sono le vestigia di una fallita idea di progresso. Li hanno posati dei pionieri tedeschi nei primi anni del Novecento con l’intenzione di unire Berlino a Bagdad. Sono la reliquia di una follia d’Oriente. Qui si sono accese tante fantasie occidentali; e si sono creati vasti cimiteri di progetti incompiuti e di imprese politiche fallite; Kobane è uno di questi.
Pensi a una tomba quando scopri col binocolo la sagoma di una chiesa armena cristiana abbandonata e trasformata in un bunker; o una moschea curda diroccata di cui non identifichi gli occupanti; o un edificio francese dell’epoca del protettorato traforato dai proiettili. I binari morti, sui quali riposano vagoni sventrati, imbottiti di schegge, sfiorano le prime case di Kobane. Se i soldati turchi mi consentissero di superarli sarei subito travolto dalla battaglia che impegna da più di un mese gli aggressori del califfato e i difensori curdi. Ma nessuno osa inoltrarsi troppo nella valle stretta per avvicinarsi al borgo che è come un bollente lago di pietre.
Qui, in bilico tra l’Anatolia sudorientale e la Siria settentrionale, un luogo modesto, isolato, persino un po’ poetico se regnasse la pace, è il teatro di una battaglia in cui il presidente degli Stati Uniti e i suoi ventidue non sempre fidati alleati hanno impegnato il prestigio. Gli sguardi del mondo sono puntati su un borgo vuotato dei suoi abitanti. Ne rimarrebbero un migliaio rintanati nelle case. Forse meno. Gli altri sono fuggiti in Turchia. I rifornimenti paracadutati dagli americani hanno attenuato negli ultimi giorni la fame e la sete. Le munizioni e le armi leggere hanno rincuorato i combattenti curdi. E se qualche lancio è finito per sbaglio in mano ai jihadisti non è cambiato molto. Attorno ai civili, i guerriglieri curdi, forse duemila, fanno da scudo, e si ammazzano ventiquattro ore su ventiquattro con quelli del califfato. Nessuno dei due campi ha finora prevalso. I curdi resistono, i jihadisti attaccano. E viceversa. Quartiere per quartiere. Casa per casa. Strada per strada.
Gli uni e gli altri aspettano rinforzi. I curdi contano sull’Esercito libero siriano, la formazione moderata, definita laica, che si batte al tempo stesso contro il regime di Damasco e contro gli islamisti. Si attendono quasi duemila uomini. Anzi millesettecento. Trecento in meno fanno la differenza. Ma per ora sono un miraggio. La strada è lunga e piena di imboscate tese dai jihadisti. Sarebbero in arrivo anche cento venti peshmerga, i curdi iracheni. Pare siano già in viaggio. I jihadisti ricevono invece rinforzi da Raqqa, la loro capitale, e da Mosul, seconda città dell’Iraq nelle loro mani. La battaglia si allarga. Per ora i jihadisti non ce l’hanno fatta a conquistare la città. Gli aerei di Barack Obama li hanno frenati. Quindi per ora il presidente americano ha salvato la faccia. La perderebbe, per un po’, se Kobane cadesse. Ha puntato molto su questo borgo. Se non riuscisse a salvarlo con i bombardamenti, i jihadisti trionferebbero. Per il peso che ha assunto la battaglia, l’intero mondo musulmano sarebbe percorso da un fremito. Un misto di orgoglio e di paura.
In questo trascurabile angolo del Levante dove arabi, curdi, turcomanni, armeni, cristiani d’Oriente e musulmani più o meno devoti hanno vissuto a lungo i loro drammi, senza mai attirare troppo l’attenzione del mondo, adesso si gioca una partita armata destinata ad avere un forte impatto psicologico su una guerra che si annuncia lunga e destinata a cambiare fronti e alleati. Il posto, Kobane, non ha un’importanza strategica di grande rilievo. Alcuni esperti esagerano. Ma il valore simbolico della battaglia in questa fase del conflitto è superiore a quello di altri fronti, senz’altro più decisivi in Iraq e nella stessa Siria. La coalizione che abbraccia la super potenza e i suoi alleati, dall’Australia al Canada, dall’America all’Europa, e naturalmente l’Arabia nel suo insieme, quella Saudita e gli Emirati, il Qatar e la Giordania, sia pur incerta, riluttante, cerca di salvare Kobane. Se non ci riuscisse, più che una sconfitta militare sarebbe un’umiliazione. Il morale ne risentirebbe. Sarebbe preoccupante se la super potenza aerea non riuscisse a disperdere una banda di fanatici al suolo, dotati di armi strappate ai soldati sbaragliati nella provincia di Anbar, nella città di Mosul, e in altre località irachene occupate, e gonfi di dollari grazie al contrabbando di petrolio estratto dai pozzi conquistati. Guerriglieri non certo privi d’audacia. Motivati. Accor- si dai paesi musulmani o dalle periferie musulmane d’Europa. Di fronte a questa internazionale islamica, i curdi, uomini e donne, difendono soprattutto la loro città, e con essa la vita. Ma sono diventati soprattutto un esempio della lotta all’irrazionale, e alla barbarie che l’accompagna. La posta in gioco è grande nella piccola Kobane. Per questo la battaglia conta.
Noi cronisti percorriamo puntuali i sessanta chilometri che separano la città turca di Urfa (o Sanhurfa) dalle colline in faccia a Kobane. E da quelle tribune naturali cerchiamo di scrutare quel che accade nelle strade strette del borgo in parte arrampicato su un’altura elegante, ben disegnata. Inseguiamo col binocolo un uomo o una donna col kalashnikov a tracolla o puntato contro un nemico che non vediamo; quindi non distinguiamo sempre il curdo dal jiha- dista; anche se quest’ultimo è spesso mascherato; e dall’intensità delle raffiche, dai ritmi dei mortai, cerchiano di intuire l’andamento dello scontro. Il ronzio insistente degli aerei annuncia un’esplosione e subito dopo segue il tuono e una colonna di fumo che si spande sulle case come una nebbia fitta. Ogni tanto c’è chi riesce a comunicare con l’interno tramite qualche satellitare. A volte sulla nostra collina arrivano dettagli sugli scontri in corso. Brevi testimonianze di donne curde che abbracciano il kalashnikov come gli uomini e suscitano ammirazione. Ma ci sono donne anche tra i combattenti del califfato. Ragazze di nemmeno vent’anni. Ci sono, pare, tunisini, algerini, sauditi, ed anche qualche occidentale convertito. Dai film propagandistici, che i jihadisti riescono a trasmettere, emergono volti scoperti, senza maschera, come se per orgoglio non ci si volesse nascondere.
Una decina d’anni fa Kobane contava circa cinquantamila abitanti. La popolazione si era sfoltita nella prima metà del Novecento con l’esodo degli armeni. I curdi restavano maggioritari lungo la frontiera turca. Sono circa due milioni nella Siria settentrionale. Dal dieci al quindici per cento sul piano nazionale. Nonostante il lungo contrasto con il regime di Damasco e la repressione subita nel 2004, hanno deciso di tenersi fuori dalla guerra civile per evitare di coabitare nell’opposizione con i Fratelli musulmani e di subire l’influenza turca. Erano soprattutto ansiosi di far avanzare i propri diritti, per quanto riguarda la lingua, la cultura, le tradizioni, ben distinte da quelle arabe. In seguito a un compromesso con Damasco, i curdi hanno ottenuto un ritiro parziale dell’ esercito siriano dalle loro regioni, benché non mancassero le manifestazioni contro il regime di Bashar al Assad. La popolazione ha cercato di sviluppare in particolare un sistema autonomo e subito si è scontrata con i gruppi jihadisti incompatibili con la moderata pratica musulmana locale. Il rapido e prepotente sviluppo del califfato ha poi condotto alla guerra aperta.

il Fatto 25.10.14
L’arte di servire il popolo cinese
Il regime ribadisce il diktat di Mao:
Gli intellettuali devono sostenere la linea del partito
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Servire il popolo e la causa socialista è un requisito del Partito comunista cinese ed è essenziale per lo sviluppo futuro dei settori culturali e artistici della nazione”. Sembrano parole di Mao Tsé-Tung il “Grande timoniere”. Ma si tratta di una frase estrapolata da uno dei più recenti discorsi del presidente Xi Jinping. Anzi, dello “zio Xi” come si è fatto chiamare dagli studenti. Alla vigilia del 4° plenum del Pcc, tutti hanno ripensato ai famosi Discorsi sulle arti e la letteratura di Mao a Yan'an. Era il 1942 e il padre-padrone della Repubblica popolare scaldava gli animi affermando che “la nostra arte e la nostra letteratura sono per le masse”. Un discorso che si è impresso nella memoria collettiva tanto che un paio d'anni fa, in occasione del 70esimo anniversario, cento artisti e letterati ne hanno ricopiato a mano i testi. Un lavoro da fini calligrafi che ha dato vita a un'edizione speciale di quelli che sono passati alla storia come i Discorsi di Yan'an. Il messaggio, allora come oggi, è chiaro: lo scopo primario dell'arte è quello di servire il partito e le sue priorità politiche. Ma 70 anni fa la Cina era un paese povero e ancora feudale. La Repubblica popolare di oggi, invece, è quella che ha inventato il socialismo alla cinese e che, attraverso un'apertura al mercato guidata dalle aziende di stato, gareggia con gli Usa per la supremazia economica. Le “masse” a cui si rivolge oggi Xi Jinping sono cittadini istruiti che si informano, consumano e viaggiano per il mondo. Gli artisti che il presidente chiama a farsi carico della rappresentazione dei valori socialisti e a non essere schiavi del mercato son cresciuti nell'ambiente meno ideologizzato che ha caratterizzato il ventennio guidato prima da Jiang Zemin e poi da Hu Jintao.
UN VENTENNIO cominciato con l'ingresso della Cina nel Wto e si è concluso con lo storico sorpasso degli abitanti delle città su quelli delle campagne. Anche il mercato dell'arte cinese è esploso. Oggi rappresenta un quarto di quello mondiale, valutato quasi 49 miliardi di euro. E i suoi esponenti esprimono insoddisfazione per la crescente forbice tra ricchi e poveri, la speculazione immobiliare, i disastri ambientali di trent'anni di crescita vertiginosa. Una presa di coscienza collettiva che il presidente Xi Jinping prova a cancellare portando avanti la visone del “rinascimento” cinese. Superando il concetto di leadership collettiva con quello dell’uomo forte, se stesso, Xi chiede alle masse di rispolverare i valori patriottici e la fierezza di uno Stato forte con una tradizione millenaria. Vuole promuovere l'unità nazionale e una sempre maggiore influenza cinese sul resto del mondo. Perciò non tollera il dissenso. Il Partito sotto Xi Jinping ha già rispolverato termini marxisti come dittatura democratica del proletariato, lotta di classe e linea di massa. Si serve del confucianesimo per legittimare il rispetto dell'autorità e, attraverso una lotta alla corruzione senza precedenti, si è liberato dei nemici politici contrari a un'ulteriore liberalizzazione del mercato.te queste ipotesi sono state al momento archiviate. Non facilmente. I suoi amici si sono divisi. Da un lato chi ha sostenuto, in modo pessimista, che anche questo “sacrificio” rischia di essere inutile. E lo stesso presidente, ragionando, si sarebbe lasciato scappare una frase drammatica: “Cosa succederebbe se domani mattina non mi dovessi svegliare?”. Dall’altro, invece, i fautori della “responsabilità”. Napolitano, alla fine, ha abbracciato questa linea. “Lasciare senza aver firmato né la nuova legge elettorale né la nuova Costituzione e con i conti in disordine, per lui a questo punto sarebbe una sconfitta” rivela chi gli ha parlato di recente. Il presidente vorrebbe riuscire a mettere il suo autografo almeno sotto la nuova legge elettorale. Vede il traguardo a un passo, perché l’Italicum poteva vedere la luce entro l’inverno, ma ogni volta si ricomincia daccapo. Ora di nuovo modifiche, balletti sui diversi modelli, aperture e chiusure. Un teatrino che sfinisce la pazienza di Napolitano e gli fa sembrare una chimera le dimissioni a compito concluso. Ma l’idea di lasciare senza una nuova legge elettorale, con un Senato che elegge il suo successore per l’ultima volta e un governo che chissà quanto dura gli appare sempre più come una prospettiva destabilizzante. Le urne saranno ancora il piano B di Renzi?

Repubblica 25.10.14
Legge shock sulla famiglia “Nascono troppi bambini terzogeniti in adozione”
Culle piene dopo la fine della politica del figlio unico Per arginare il fenomeno Pechino vara nuove misure restrittive
di Giampaolo Visetti


PECHINO I cinesi, prima di generare un figlio, devono fare i conti. Piccole cifre, ma le somme cambiano ad ogni generazione di leader. Sotto Mao, no limits: ogni coppia poteva mettere al mondo i figli che desiderava. Risultato: ogni anno i cinesi aumentavano di 30 milioni e in Cina viveva un quarto della popolazione mondiale. Corse ai ripari Deng Xiaoping con la legge del figlio unico: mai più di un bebè per ogni famiglia, pena l’arresto, o l’aborto forzato. Risultato: in 30 anni la Cina è diventata la nazione con il tasso di invecchiamento più veloce del pianeta. Nel 2015, per ogni under 20, ci saranno 5 over 60.
Il “contrordine compagni” alla fine dello scorso anno. Per scongiurare l’estinzione degli han , l’etnia maggioritaria nel paese, da gennaio i cinesi possono donare una sorella, o un fratello, al primogenito. Terzo cambio in tre generazioni: procreazione libera, figlio unico, doppia discendenza. Pochi mesi e siamo ora alla quarta variante. Resta la possibilità di avere due figli, dal 2020 si tornerà anzi alla piena libertà riproduttiva, ma dal terzo figlio in su la coppia sarà costretta a cedere l’ “esubero” a chi un erede non ce l’ha.
Questione, come sempre, di pianificazione familiare di Stato. Obiettivo: dissuadere i ricchi, che possono pagare salate multe, dall’infrangere subito la legge del doppio neonato. I casi sono già migliaia. Chi aveva violato la regola del figlio unico, appena la quota si è alzata ha ignorato anche il più blando divieto. Risultato: boom di famiglie con tre figli, sanati grazie all’ammenda. La nuova legge, spietata, cambia tutto. Un conto è allargare il nucleo famigliare a colpi di assegni. Altra cosa è vedersi privare del bambino in più attraverso un’adozione coatta.
I funzionari dell’Hebei, regione sperimentale del principio «non più di due», hanno giustificato l’esproprio con «ragioni di educazione». Nelle regioni agricole, i contadini sono sempre stati esclusi dal figlio unico. Lo stesso vale per le 56 minoranze etniche. Il problema, per il governo, è che milioni di bambini non sarebbero nelle condizioni di godere di tenore di vita e opportunità d’istruzione adeguati all’immagine della prossima prima economia del mondo. Dal terzo figlio in poi, le coppie cinesi precipiterebbero cioè nella povertà, vanificando l’imperativo del partito: aumentare classe media e consumi interni.
Troppe bocche da sfamare, secondo Pechino, producono anche un’altra emergenza: per mantenere famiglie numerose, entrambi i genitori devono lavorare, sono costretti ad emigrare nei distretti industriali e abbandonano bambini e anziani nei villaggi. Dopo il secondo figlio, assicura il dipartimento per il controllo delle nascite, o si è milionari, oppure esplode la famiglia. Non è ancora chiaro come “il figlio in più” verrà dato in adozione a coppie senza bambini, né quali sono i requisiti per godere di questo “diritto”. Ciò che è certo è che in Cina la procreazione rimane un affare di Stato.

Repubblica 25.10.14
“Una spia comunista” Così gli 007 inglesi pedinarono per decenni lo storico Hobsbawm
L’Mi5 seguì ossessivamente l’autore del “Secolo breve”. Pensava lavorasse per Mosca, ma si sbagliava
di Enrico Franceschini

LONDRA GLI mettevano i microfoni al telefono e nello studio. Gli leggevano la posta, che allora non era elettronica, ma di carta. Lo pedinavano per scoprire chi incontrava. Per decenni l’-Mi5, il controspionaggio del Regno Unito, spiò ossessivamente Eric Hobsbawm, forse il più noto storico britannico e un marxista convinto. Convinti che fosse o potesse essere al servizio di Mosca, i servizi segreti di Sua Maestà frugarono in ogni ripostiglio della sua vita privata, ma non trovarono mai prove che passasse informazioni all’Urss o tramasse per conto dell’internazionale comunista. Il “secolo breve”, titolo del famoso saggio di Hobsbawm sul Novecento, dovette sembrare molto più lungo agli 007 inglesi che cercavano di incastrarlo: una caccia meticolosa ma, oltre che infruttuosa, maledettamente noiosa. Gli unici “segreti” che vennero alla luce furono le difficoltà matrimoniali con la prima moglie, che non lo riteneva un compagno (in senso ideologico) abbastanza «fervente», e l’ospitalità data per una notte a un misterioso personaggio «dal naso adunco e in apparenza ebreo», annotò la spia di turno sul taccuino con spirito d’osservazione antisemita, rivelatosi in seguito un parente del tutto innocuo, lo “zio Harry”, che quella sera si era fermato da lui perché aveva bevuto un po’ troppo.
Ha dunque più i tratti della commedia che del thriller la montagna di rivelazioni ottenute dal Guardian e da altri quotidiani londinesi sull’attività di spionaggio ai danni dell’eminente storico scomparso nel 2012. Commedia sì, ma tuttavia degli orrori, rivelando a che punto arrivassero le paranoie occidentali al tempo della guerra fredda, uno specchio fedele — fortunatamente senza arrivare ai campi di prigionia del Gulag — di quello che sentiva e faceva sul versante opposto la superpotenza rossa. I documenti, otto cartelle piene zeppe di rapporti “top secret”, non soltanto su Hobswam ma pure su altri scrittori, artisti e intellettuali di sinistra dell’epoca, come Iris Murdoch, Christopher Hill e Mary Warnock, sono stati resi noti dai National Archives quasi senza censure: solo qualche riga è oscurata qui e là e un’unica cartella su di lui è stata “temporaneamente” trattenuta per motivi non meglio specificati. Il professore era diventato un numero per il controspionaggio: 211764. Gli agenti erano riusciti a nascondere cimici nei suoi telefoni e nelle sue stanze, gli aprivano tutta la corrispondenza privata (confiscando fino a 10 lettere al giorno e fotocopiandole prima di riconsegnargliele), seguivano i suoi movimenti.
Nato in Egitto e fuggito in Inghilterra dalla Germania nazista nel 1933 per non diventare vittima dell’Olocausto, Hobsbawm era iscritto al Cpgb, il partito comunista britannico, un’adesione che non rinnegò mai, fino alla morte, anche dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Era la sua militanza comunista a suscitare sospetti nell’Mi5, eppure l’unica scoperta “storica” dello spionaggio nei suoi confronti è che contestò così duramente la leadership del Cpgb da rischiare di essere espulso. A cominciare dal 1956, quando il controspionaggio venne a sapere che il professore, insieme alla scrittrice (in seguito premio Nobel per la letteratura) Doris Lessing, scrisse una lettera attaccando i leader del partito comunista britannico per il loro «acritico sostegno alle azioni sovietiche in Ungheria», ovvero alla sanguinosa invasione di Budapest che aprì la prima crepa nel fronte comunista in Europa. Quel sostegno, affermò Hobsbawm in un’assemblea del partito a King street, vicino a Covent Garden, era «il culmine di anni di distorsione di fatti», secondo quanto riferisce la registrazione del controspionaggio.
Le intercettazioni confermarono che Hobsbawm era amico di Alan Nunn May, un fisico britannico che aveva confessato di avere fatto la spia per la Russia, condannato per questo e rilasciato nel 1952. Ma tra lo storico e il fisico non saltarono mai fuori accordi per arruolare anche Hobsbawm al servizio di Mosca; né la Russia dimostrò mai alcun interesse a Hobsbawm. Insomma, l’Mi5 fece tanta fatica per niente. Due anni prima di morire, consapevole che esisteva un dossier su di lui negli archivi di stato, il professore chiese di poterlo vedere. Glielo negarono. Diventa di dominio pubblico soltanto ora, che il “secolo breve” è finito da un pezzo.

Corriere 25.10.14
Nei bunker segreti dove Mussolini cercava rifugio dai bombardamenti
Riaprono, dopo anni di restauro, i rifugi costruiti (dal 1940 al 1943) cinque metri sotto il parco di Villa Torlonia residenza privata del duce a Roma Un labirinto di scale, porte anti-gas e tunnel: una “messinscena sotterranea”
di Francesco Merlo


È LA Roma di cartapesta che ritorna sotto forma del bunker-patacca della famiglia Mussolini, una cantina sotto il lago di Villa Torlonia che oggi viene riaperta dal Comune e dalla Sovraintendenza con la stessa pompa magna di allora, la Cnn e Al Jazeera al posto dei carri armati di cartone. Dell’epoca rimangono lo scheletro di un ventilatore, la porta blindata, le piattine di legno che fissano al muro il fili elettrici e quel sapore di messinscena drammatizzata che Mussolini intuì non appena vide che avevano trasformato il lago in un acquitrino. Lo avevano insomma ”mimetizzato” con musco, fango e acqua per confondere i piloti degli aerei nemici, con il risultato di attirare le zanzare, allora portatrici di malaria.
Per anni, in quella cantina aveva respirato il vino cattivo del principe Torlonia, il famoso «fiele» dei cafoni di Silone, dentro le botti sistemate nelle celle laterali. Poi la cantina era stata abbandonata, deposito di cianfrusaglie e di roba vecchia, in disuso per chissà quanto tempo. Infine la blindarono (si fa per dire) nel 1940, con due porte di acciaio e un filtro antigas a manovella, per accontentare sbrigativamente il duce che aveva chiesto per la sua famiglia uno di quei rifugi «a prova di bomba» che impreziosivano l’Italia sottoterra dei gerarchi e dei patrizi, più status symbol che vera sicurezza.
Ebbene, ancora oggi si capisce subito la fragilità di questa stanza quadrata che rimane patacca anche nel florido mercato del feticismo storico. Vi si entra dal giardino di fronte al teatro che il Duce aveva adibito a cinema, «l’arma più forte dello Stato», e percorrendo un camminamento in discesa di circa venti metri sotto il lago, che riproduce la forma frastagliata di quello prosciugato del Fucino, si arriva appunto al rifugio di quasi ottanta metri quadri che nessuno si sarebbe permesso di chiamare con il nome albionico di bunker. E siamo già sotto il campo dei Tornei dove in braghe e canottiera il duce, allenandosi con il grande calciatore Eraldo Monzeglio, si era convertito al tennis che da «gioco per signorine inglesi» era diventato «un gioco magnifico per le camice nere».
Giù, l’ex cantina prendeva addirittura aria e luce da un pozzetto dentro al quale fu costruita, senza troppo senso, anche una scala a pioli di metallo. I vigili rivestirono il tutto con una piccola piramide di cemento armato che, fatta e rifatta, sta lì ancora adesso a testimoniare la bizzarria di questo rifugio-patacca nel quale, durante gli allarmi notturni, il duce e i suoi familiari neppure entravano. Aspettavano davanti all’ingresso il suono delle sirene che avvisava del cessato pericolo.
E però Mussolini non poteva accontentarsi di una cantina travestita da rifugio. Come Hitler, cercava il suo nido, il mondo fuori dal mondo, che è il sogno di tutti i potenti, l’impermeabile delle loro ossessioni, come il famoso cassetto destro della scrivania nella Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia dove teneva sotto chiave un fascio di biglietti di banca e una rivoltella carica.
Dunque arrabbiatissimo, il Duce chiese un vero rifugio. E questa volta i vigili del fuoco dedicarono quattro mesi di lavoro agli scantinati sotto il salone centrale della casa padronale che solo i familiari di Mussolini chiamavano “la Palazzina” e tutti gli altri “il Palazzo”, anticipando senza saperlo Pasolini.
Ieri pomeriggio vi siamo entrati. Non è un labirinto ma con tutti quei corridoi sembra una clinica o un ministero senza luce. E abbiamo finalmente sentito l’effetto bunker guardando il soffitto che fu rafforzato con centoventi centimetri di cemento armato. Avrebbe resistito, promisero al duce, anche a bombe di oltre una tonnellata. Già aperto al pubblico nel 2006, e subito richiuso chissà perché, è descritto in tutte le guide di Villa Torlonia ma oggi sarà di nuovo inaugurato insieme alla cantina-patacca dove la luce elettrica, che allora era a batteria, adesso arriva dall’edificio di fronte.
L’effetto è di nuovo rarefatto. Non la luce accecante di un rifugio, ma quella sfumata dei presepi. È stata riaperta anche la seconda uscita che fu scavata dalla parte opposta. Con meticolosità filologica, la Società Sotterranei di Roma di Lorenzo Grassi, un ex giornalista dell’ Adn Kronos che ha vinto l’appalto per il restauro, ha trovato pure un gabinetto, un telefono, e una brandina d’epoca. E davvero sembra una pulita scenografia da modesto teatrino di provincia, con le riproduzioni al posto degli originali. Con una speciale raffinatezza: qui siamo addirittura alla copia della copia visto che già l’originale era finto, un surrogato di bunker, come erano finti l’Impero e le parate militari, e com’era finta la serenità di quella famiglia-modello che nel pomeriggio si riuniva sotto la pianta di fico.
Mussolini, macho fascista, metteva in scena il piccolo mondo antico di Villa Torlonia in mezzo alla campagna romana. Solo qui “il duce” diventata “il presidente”, e donna Rachele fingeva di essere mamma e sposa felice. Persino Eraldo Pistoni, il figlio del custode, nel bel libro oggi introvabile Villa Torlonia e Mussolini finse di non sapere che quel focolare domestico era stato un inferno di tradimenti.
Da domani sarà possibile vistare tutti questi sotterranei fascisti di Villa Torlonia tranne quel budello che forse si apre — dicono — sotto la ghiaia e sbuca in via Nomentana, non per nascondersi ma per scappare, non per rifugiarsi ma per liberarsi. A chi ha visto la cupa perfezione della “Churchill War Room”, nel sottosuolo del Treasury Building di Londra, la sola suggestione storica che il falso bunker di Villa Torlonia risveglia è quella della povertà, senza neppure la dignità letteraria dell’intrigo, senza la grandezza del mistero dei Sotterranei del Vaticano. A Londra le stanze private del bunker di Churchill sono un vero Museo di guerra, funziona uno straordinario sistema multimediale e interattivo, ci sono ancora le mappe che disegnano le strategie, e persino gli odori sono gli stessi.
Fuori da questi modesti cunicoli invece la sola segnaletica è la parola “RIFUGIO”, scritta a stampatello, forse per non smarrirsi in ottanta metri quadrati. Alla fine mi torna in mente quel libro dolce e amaro di Cesare Marchi, Quando eravamo povera gente . Sono gli acquarelli vivi dell’Italia in bianco e nero, del latte razionato, delle dosi di farina, della borsa nera, dei traffici a metà tra pietà e cinismo, delle patacche come risorsa appunto.

La Stampa 25.10.14
Addio a Tullio Regge, genio della fisica
Lo studioso torinese, malato da tempo, si è spento ieri sera all’ospedale San Luigi di Orbassano. Aveva 83 anni. Fondamentali i suoi contributi nello studio della meccanica quantistica e sulla relatività.
di Piero Bianucci

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La Stampa 25.10.14
Il genio che rifece i calcoli a Einstein
Addio a 83 anni a un padre della fisica: commemorato anche all’inaugurazione del Festival della Scienza
di Gabriele Beccaria


Uomo di due mondi, cervello affacciato sugli universi paralleli della meccanica quantistica (che descrive l’immensamente piccolo) e della Relatività generale (che descrive l’immensamente grande): così ricorda Tullio Regge il fisico Antonio Masiero, vicepresidente dell’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Regge era uno dei grandi della scienza ed è scomparso a 83 anni, dopo una carriera di ricerca e insegnamento tra Princeton, Monaco e Torino, innumerevoli premi (come l’Einstein Award) e soprattutto un privilegio che è per pochi. Due teorie portano il suo nome: i «Poli di Regge» e il «Calcolo di Regge».
«La prima - spiega Masiero - descrive gli urti tra le particelle attraverso le interazioni nucleari forti: un problema complesso, oggi affrontato attraverso la cromodinamica quantistica, e per il quale Regge elaborò un metodo poi ripreso da Gabriele Veneziano, autore di un “Modello”, il quale, a sua volta, ha dato origine alla celebre Teoria della Stringhe, oggi la più avanzata per immaginare una visione unificata delle forze della Natura».
Regge, insomma, ha generato idee fertili che non hanno più smesso di sbocciare. Proprio come è avvenuto con l’altra sua conquista intellettuale, il «Calcolo»: «Che è quello che l’ha caratterizzato di più - aggiunge Masiero -. È un modo originale di affrontare il problema centrale della Relatività, cioè la soluzione dell’equazione di Einstein che descrive l’evoluzione dell’Universo e che nel 2015 compirà 100 anni».
Questo tipo di calcolo, «geometrico», era per Regge «sia uno strumento tecnico sia un approccio innovativo sulla gravità, attraverso quella che si chiama “discretizzazione”». Una logica visionaria, ripresa oggi da chi, attraverso la gravità quantistica, cerca il Graal della fisica, la conciliazione tra Relatività e meccanica quantistica.
La notizia della morte di Regge è un’ombra di dolore che ieri si è adagiata sul Festival della Scienza di Genova: a lui è stata dedicata la lezione inaugurale del Nobel Serge Haroche, che ha spiegato la bellezza e la necessità della ricerca di base (proprio quella in cui eccelleva il fisico nato a Bordo d’Ale, in provincia di Vercelli). «Era capace di straordinarie astrazioni e allo stesso tempo di un intenso coinvolgimento nella realtà», ha spiegato nel saluto introduttivo il presidente dell’Inrim, Massimo Inguscio.
E a molti, tra il pubblico, è venuto in mente l’uomo dei due mondi: se sapeva pensare come pochi per formule e teoremi, ha avuto il piglio dello scrittore (con best-seller come «Infinito»), la verve del polemista (con gli articoli su «La Stampa») e il coraggio dell’impegno politico (con il seggio di europarlamentare come indipendente del Pci). «Ha fatto capire a tutti la scienza, raccontandola - ha concluso Inguscio -. E ha svelato che anche quella più astratta può rivoluzionarci la vita».