Liberazione, 02.11.05
L’emendamento alla Finanziaria sulle gravidanze a pagamento
“Evita-aborto”: le donne ds in rivolta contro Livia Turco
di Castalda Musacchio
«Parlate con la Turco». Risposte piuttosto stizzite all’ultima conferenza programmatica Ds. La Quercia è andata in fibrillazione. Quell’emendamento “evita aborto” a firma Bindi, Turco, Fioroni,nonvapropriogiù.L’aria si taglia con il coltello. E a sentire le deputate, non solo della minoranza diessina, quel testo – dicono tutte arrivato a “sorpresa” sul tavolo della commissione – rischia di far esplodere un “caso” e non da poco tra le donne della Quercia. «E diciamola tutta - replica una deputata che non vuole essere citata - non ci trova affatto d’accordo». La netta sensazione è che il dito sia puntato: e contro quella gestione un po’ “autodafé” che Livia Turco ha fatto propria e su temi dirimenti come la tutela della maternità e quella delle donne. n definitiva è un emendamento che ha spiazzato proprio tutte le donne di casa Ds e in tutti i sensi. Le critiche giungono da tutte le parti sia da destra sia da sinistra. «Nessuna polemica - precisa subito Katia Zanotti - ma lo debbo dire avrei preferito una discussione sincera e aperta su un tema come la tutela della maternità su cui non si possono attuare scelte autonome. E’ pur vero che manca una sede di discussione ma davvero questo emendamento è calato dall’alto e senza preavviso. Questa proposta comunque non mi trova assolutamente d’accordo». E i motivi sono molteplici. tutti ben definiti: «Stiamo andando in giro ad attaccare una finanziaria che prevede a sostegno delle famiglie solo dei bonus. E questa proposta a mio parere è persino peggiore dei bonus. Innanzitutto - precisa – partiamo dal linguaggio del testo. In un certo senso è raccapricciante. E’ stato utilizzato un lessico sbagliato colpevolizzante nei confronti della donna. E il punto politico, cui non si può proprio venire meno, è che non si può presentare una proposta decontestualizzandola dal contesto e dalla polemica antiaborista e oscurantista che è in corso ». Il centrosinistra - aggiunge - aveva già fatto delle politiche sugli assegni di maternità sulle quali si poteva procedere. E questo intervento non ha affatto quel carattere di strutturalità cui hanno fatto cenno sia Rosi Bindi sia Livia Turco. «L’Unione - continua - dovrebbe dare un segnale molto netto e poco ambiguo per il sostegno delle famiglie e questo non può che stare nella espansione della rete dei servizi, perché la monetizzazione - lo abbiamo detto noi – è esclusione e sostanzialmente non tutela le donne in quanto tali anche quelle che desiderano fare un figlio e hanno ostacoli per farlo. Comunque – conclude - per quanto mi riguarda se mi presentano un emendamento di questo tipo non sono in condizione di votarlo. Su questi temi è necessario aprire un dibattito, che vi sia all’interno del nostro partito una seria discussione che non può essere lasciata all’autonomia di qualcuno». Sarebbe meglio dire di qualcuna. Ora per la verità a sentire altre voci pare proprio che in commissione si sia compiuto un vero “blitz” e da parte di Rosi Bindi. «Io - dice ancora un’altra deputata - so che la Bindi ha telefonato alla Turco chiedendole di firmare questo emendamento. E lei l’ha fatto». Gettando tutte nel panico. Colleghe di “linea” o meno. Grazia Labate per esempio è della maggioranza Ds. La sua è una posizione limpida e priva di voglia di polemica. «Per quanto mi riguarda - spiega – io quell’emendamento non l’ho firmato anche perché avevo proposto altri emendamenti che ritengo vanno nel senso discusso all’interno dei tavoli del centrosinistra. Del resto – spiega - la posizione dell’Unione su questo è piuttosto chiara: pensiamo sia indispensabile per esempio dare piena attuazione al primo articolo della legge 194 potenziando la rete dei consultori sul territorio. Ad oggi ve ne sono appena 0,8 ogni ventimila abitanti. Personalmente ho presentato un emendamento pensando di collegarci a quella norma che prevede di diminuire del 10% gli emolumenti dei parlamentari, e con questi fondi andare a finanziare la rete dei servizi sul territorio. E comunque - precisa alla fine - di questo emendamento nessuno di noi ne sapeva nulla. E nessuno ma proprio nessuno ne ha parlato prima». «Un emendamento - sostiene ancora Gloria Buffo - che non mi convince affatto». E a chiedere ora con forza che si ritiri è la Cgil o meglio le donne della Cgil. «Eviteremo volentieri - precisano Marigia Maulucci e Morena Piccinini - che si desse ulteriore spazio a coloro che stanno attaccando i consultori e la 194. Al contrario, questi attacchi andrebbero contrastati e su tutti fronti». Vallo a dire alla Turco però. La stessa Barbara Pollastrini, “intima” della ex ministra, tace. “No comment” sulla questione ma la polemica è esplosa. E a questo punto si potrebbe proprio ricorrere a un vecchio slogan: “Giù le mani dal corpo delle donne”.
Liberazione, 02.11.05
Il tesoriere della Quercia propone candidature a pagamento. Roba da ricchi...
Dimmi, compagno, cosa vendi?
«Un seggio a Montecitorio, 60.000 euro»
di Rina Gagliardi
Una proposta indecente. Non trovo altro aggettivo per definire l’idea del tesoriere diessino Sposetti che ha fatto sua una pratica del resto tipicamente berlusconiana e ha proposto, appunto, di regolamentare per via pecuniaria le candidature del postUlivo al prossimo Parlamento. In sintesi: giacchè la nuova legge elettorale prevede liste bloccate e ridimensiona la necessità di una costosa campagna elettorale personale, i nuovi o vecchi “candidati sicuri” dovranno preventivamente versare nelle casse del partito la bellezza di sessantamila euro. Un anticipo sui loro futuri emolumenti, dice Sposetti. Un acquisto in contanti, in denaro sonante, di un seggio parlamentare, diciamo noi. Grazie al quale, la Quercia contribuisce ad avviare una nuova fase della democrazia: la rappresentanza censitaria. E’ pur vero che anche l’Assemblea Costituente stabilì, nei dintorni dell’89 (1789) il suffragio universale (maschile) proprio sulla base del censo (il marco d’argento fiscale era la condizione per diventare elettori). Ma è anche vero che dalla rivoluzione francese sono passati più di duecento anni – e in mezzo aveva preso piede una concezione, chiamiamola così, un po’ più avanzata dei meccanismi attraverso i quali si esercita la “sovranità popolare”. Che cosa rischia, ora, di accadere? Intanto, si produrrà nei fatti una selezione dei candidati eccellenti (per intenderci: quelli che si presenteranno nelle circoscrizioni dell’”Italia rossa”, Toscana, Umbria, Emilia) interamente a svantaggio di quei (pochi?) per i quali sborsare di botto 120 milioni di vecchie lire è un problema. E’ chiaro di chi stiamo parlando: degli operai, dei disoccupati, dei giovani precari, degli insegnanti e dei maestri elementari, dei borsisti a contratto, delle commesse, insomma, di quel pezzo (grande) di classi subalterne che – solo in teoria, certo – la sinistra, anche la sinistra liberale, dichiara di voler rappresentare. Naturalmente, una rappresentanza non è, in sé e necessariamente, una rappresentanza sociale diretta – lo sappiamo anche noi, Sposetti. Ma non vi sfugga il salto di qualità formale, cioè sostanziale, che ora si sta per produrre: soltanto da un certo livello di reddito in su, si può entrare a far parte degli eletti. Da una certa soglia di reddito in giù, all’opposto, si è tagliati fuori in via programmatica e “definitiva”. Non è, nient’affatto, un passaggio indolore. Noi sappiamo bene quanto questa società sia nutrita di disuguaglianze e di discriminazioni reali: ma se venisse eliminato l’articolo 3 della Costituizione, se in una nuova - e riformista – formulazione, si scrivesse che i cittadini sono “diseguali” davanti alla legge, con molte distinzioni di “sesso, razza, religione, opinione”, e “reddito”, non faremmo tutti un salto sulla sedia? Nel suo piccolo, Sposetti ha operato una revisione delle regole della rappresentanza mica da ridere. C’è dietro una visione neooligarchica – e neoscambista - della politica. E un rischio serio di regressione democratica – almeno di ciò che noi intendiamo per democrazia repubblicana, sancita dalla nostra carta costituzionale. Senza contare che, se questa sciagurata prospettiva dovesse avere corso, non potremmo non assistere a un rigoglioso “mercato delle vacche”, pardon delle circoscrizioni elettorali con annessi seggi e marchi, pardon euro, più o meno d’argento. Quando si dovrà stabilire – solo per fare il primo esempio che capita – a chi tocca il pregiatissimo territorio di Siena, che elegge con certezza quasi matematica un folto numero di parlamentari ulivisti, ci saranno trattative cruente tra Dl e Ds, tra prodiani e rutelliani, tra aree e controaree. Ma se alla fine prevalesse il criterio neocensitario, perché escludere un’asta? Chi offre di più, va a farsi eleggere a San Quirico d’Orcia. Chi offre di meno, viene sbattuto in Sicilia. Una fiction improbabile? Ma di sicuro, dalle parti di Forza Italia, succederà – sta quasi già succedendo. E ahimè, se il centrodestra diventa un modello da copiare sulle forme del far politica, non si può escludere nulla, nemmeno a sinistra. Sembra perfino superfluo far notare che, per questa via, il disastro in cui oggi consiste la politica non può che ulteriormente aggravarsi. Il problema, grave, dei costi della politica (affrontato da Cesare Salvi in un libro appena uscito) viene così “risolto” con cinismo quasi ammirevole: enfatizzando uno stile già assai diffuso, anzi dando ad esso la dignità di un nuovo statuto formale. La gente fa cose da pazzi per diventare parlamentare? S’indebita, si corrompe, si lega a lobbies oscure, svuota le tasche di chiunque, pur di avere uno scranno a Montecitorio? Invece di cominciare ad affrontare davvero il problema, si decide, più o meno, di “lecitizzare” quel comportamento: se vuoi far politico a livello istituzionale, se vuoi diventare un rappresentante del popolo, devi pagare. Devi ricompensare il tuo “committente”: cioè quel partito che dispone del potere concreto di farti diventare deputato e con il quale realizzi anche un patto mercantile – uno scambio in piena regola. I partiti, quel potere, ce l’hanno sempre avuto, s’intende (solo i cultori religiosi del maggioritario hanno spacciato il sistema come “più vicino” al popolo, come se i candidati del collegio uninominale fossero decisi dalla “società civile” e non dai palazzi) - ora, semplicemente, hanno un piccolo potere in più, visto che hanno inventato un meccanismo psedudoproporzionale senza nemmeno una preferenza – una preferenza piccola così per una o uno che ti è un po’ più più simpatico. Così, il cerchio oligarchico si chiude, a perfezione: c’è un ceto garantito, che prende tutte le decisioni, fin le più minute, e non vuole nessun ostacolo concreto, od umano, sulla loro strada. Ora c’’è un “salario d’ingresso” in questo stesso ceto, che coopta i nuovi membri del club sulla base dell’antico criterio del censo. Naturalmente, sul campo c’è anche una vittima: la politica.
Liberazione, 02.11.05
Scienza araba, le radici della cultura europea
Dalla matematica alla medicina, dall’astromomia alla farmacopea: una mostra a Parigi racconta, attraverso manoscritti ed oggetti vari, i secoli d’oro tra l’VIII e il XV. Fino al 19 marzo presso l’Istituto del mondo arabo
di Monia Cappuccini
Durante le faticose trattative per buttar giù la liberal-liberista Costituzione europea, da parte del Vaticano e delle sue dependance romane, Montecitorio e Palazzo Madama, si fece pressione perché venisse inserito un richiamo alle radici cristiane dell’Europa. Fortunatamente la richiesta fu respinta (anche se ciò non è servito a evitare la bocciatura dei cittadini francesi). D’altra parte, perché le radici cristiane e non quelle, per esempio, greche? Ricordiamo che fino a pochi anni fa i medici giuravano su Apollo medico, e che la Bibbia cristiana è comunque composta anche da un Vecchio testamento di origine ebraica. A studiare la storia, non ci si può non rendere conto della natura necessariamente “meticcia” della cultura. E ancora di più in uno spazio come quello europeo, dove periodicamente si assiste a maldestri e funesti tentativi di ritrovare una purezza biologica e culturale. La ricerca di un mito delle origini, che inevitabilmente si scontra con un realtà sfumata, “sporca”, fatta di contaminazione e diversità, di radici che vanno ben oltre la superficiale e artificiosa unità che la Chiesa o vari nazionalismi vorrebbero. Non fa eccezione la scienza, che per quanto abbia avuto nell’Occidente europeo uno sviluppo vorticoso, ha un pedigree che la porta molto lontano, temporalmente e geograficamente. Risalendo all’indietro è inevitabile fermarsi sulle sponde meridionali del Mediterraneo e da lì andare da un lato verso la Spagna, dall’altro verso oriente, fino all’India e la Cina. Cioè, è inevitabile incontrare la scienza araba, cui in questi giorni è dedicata una bella mostra all’Institute du Monde Arabe di Parigi (www.imarabe. org), aperta fino al 19 marzo 2006. L'âge d'or de la science araberacconta del grande periodo di sviluppo conosciuto dalla cultura araba tra l’- VIII e il XV secolo. Le dinastie che regnarono sull’impero arabo ebbero in effetti un importante ruolo di mecenati, permettendo
la creazione di una cultura araba originale che ha raccolto eredità molto antiche. Nell’ottavo secolo, il califfo al-Mansûr riunì attorno a sé studiosi di ogni provenienza e confessione religiosa, allo scopo di accrescere il proprio prestigio e della corte, appena stabilitasi a Baghdad. Nel secolo successivo, proprio a Baghdad, al-Ma'mûm fece costruire la celebre Casa della Saggezza, che riuniva scienziati e umanisti, dediti non solo alla ricerca ma anche alla traduzione e alla conservazione dell’immenso patrimonio culturale che ebbero a disposizione. Un patrimonio che proveniva da tradizioni millenarie, come quelle cinesi, indiane, babilonesi, o che stavano scomparendo a seguito del crollo dell’impero romano, come il sapere greco. L’enorme estensione geografica e una lingua comune favorirono così lo sviluppo di una sapienza composita e capace di assimilare conoscenze preesistenti. Ad esempio, in ambito matematico si adottò - con qualche modifica - il sistema numerico indiano (decimale e posizionale), introdotto dal matematico Al-Khwârismî, dal cui nome deriva il termine “algoritmo”, il quale scrisse nel IX secolo il “Libro sul calcolo indiano”, poi tradotto in latino tre secoli dopo. Vennero riprese tecniche di calcolo assire, mentre furono tradotti e aggiornati gli “Elementi di Euclide”, compendio del sapere geometricomatematico greco. Grazie ai contatti con la Cina vennero poi adottati innovazioni importanti per la produzione della carta, che permisero quindi un’ampia diffusione delle nuove traduzioni di queste opere, rendendole disponibili per un’élite culturaleche andava dalla Cina fino alla Spagna. Fu grazie a questo intenso lavorio che si preservò e trasmise il sapere antico, giunto infine del tardo Medioevo che aveva perso le tracce di molte opere e conoscenze. Tuttavia, la scienza araba non ebbe solo un ruolo di trasmissione, sterile pur se importante. La riorganizzazione del sapere precedente fu infatti accompagnata da innovazioni tecnologiche e scientifiche notevoli. E’ l’esempio della medicina: i trattati ippocratici vennero tradotti e commentati da grandi autori, ma insieme alla revisione dei testi antichi fu scoperta la circolazione polmonare. Così per il “De materia medica” di Dioscoride, grande farmacopea ellenica che fu arricchito dalle grandi conoscenze chimiche sviluppate in India e in Cina, oltre che dagli Arabi stessi. E poi fu sviluppata l’arte sanitaria, con la creazione dei primi ospedali. Lo stesso processo si è ripetuto per tutte le discipline, con l’astronomia che ha avuto un’enorme influenza fino all’Europa del Seicento. Le opere di Tolomeo vengono prima tradotte e riviste in arabo e poi tra il XII e il XIII secolo vengono volte in latino e in ebraico, diffondendosi in tutto il bacino mediterraneo, e portando con sé le grandi innovazioni tecnologiche: l’astrolabio soprattutto, strumento di origine greca ma perfezionato dagli Arabi. La passione per l’osservazione celeste fu d’altra parte uno dei prodotti della religione, che pretende un orientamento preciso nella costruzione degli edifici e delle preghiere quotidiane: sapere dove si trova La Mecca non rappresentava quindi solo un problema scientifico. Va inoltre sottolineato il fatto che alcune opere arabe non furono conosciute in Europa fino all’Ottocento, ma rappresentano delle punte molto avanzate del sapere: come sottolineano i curatori della mostra, «il sapere universale è anche arabo». Concluso il giro nelle sale dell’esposizione, che raccolgono manoscritti, modelli di macchine idrauliche, astrolabi, attrezzi medici, strumenti musicali, provenienti da molte collezioni, rimane un interrogativo: quali le cause del declino della scienza araba a partire dal XV secolo? E’ una questione che mette insieme scienza, cultura in generale, società e politica. Le crociate, le invasioni mongole, l’espulsione degli Arabi e degli Ebrei dalla Spagna e poi la presa di potere turca, hanno eroso la base socioculturale su cui era stata costruita la fioritura scientifica precedente. A dimostrare che la scienza dipende crucialmente dalla società che la circonda. Sul lungo periodo, senza la presenza di un sistema di ampio respiro capace di sostenere la ricerca, questa è destinata al declino. Viceversa, un alto livello scientifico e tecnologico non garantisce lo sviluppo futuro. E’ un circolo chiuso da cui non si può uscire, e che deve essere sempre tenuto presente, al di là delle miopie necessarie dell’agire politico. Piuttosto “terrorista”, sarebbe utile studiare la storia e favorire l’incontro tra culture, scambiando saperi e arricchendosi reciprocamente. Inviare eserciti e imporre modelli sociali e culturali, non potrà che rivelarsi una strategia sbagliata.
il manifesto, 01.12.0.5
A che serve
Ida Dominijanni
O sotto accusa o sotto tutela, grazie al centrodestra e al centrosinistra uniti nella rincorsa al cardinal Ruini le donne italiane vengono retrocesse dal discorso politico allo statuto di soggetti minori, deboli e potenzialmente criminali. La realtà per fortuna è cosa diversa dal discorso, ma il discorso produce effetti di realtà e dunque questa retrocessione va presa sul serio, contrastata e rispedita ai mittenti e, ahinoi, alle mittenti. Quando nelle stesse ore alla camera la mano destra dà il primo via all'indagine sull'applicazione della 194 e la mano sinistra propone un assegno di sostegno alla gravidanza; e tutte e due, la mano destra e la mano sinistra, giurano di agire «per aiutare le donne», c'è una sola risposta possibile a tutte e due ed è «no, grazie». L'indagine sulla 194, brillante idea del neoeletto segretario dell'Udc che altra via non aveva per accedere agli onori della cronaca, non servirà a sapere nulla che già non si sappia sull'applicazione della legge (peraltro già annualmente monitorata dal ministero della sanità), ma serve a rimettere le donne sul banco degli imputati, supportando istituzionalmente la campagna di criminalizzazione dell'aborto che imperversa su media potenti e meno potenti. L'assegno di sostegno alla gravidanza non servirà a estendere un diritto alle lavoratrici precarie (perché Livia Turco e Rosi Bindi non si stendono sul tavolo programmatico di Romano Prodi per imporgli l'impegno all'abrogazione della legge 30?), serve a consentire al ministro Storace di dare a entrambe, Livia Turco e Rosi Bindi, il benvenuto nel fronte della «prevenzione» dell'aborto. Tutt'e due, indagine e assegno, servono a rafforzare il messaggio che da ogni parte risuona, che le donne non sono soggetti sovrani ma oggetto di cura statale e curiale. Siamo nelle loro mani, e in che mani.
Le stesse mani che in parlamento si rinviano da uno schieramento all'altro la palla delle quote rosa, ripetendo all'infinito una pantomima ipocrita e ineffettuale che non servirà a candidare più donne, serve a strumentalizzarle a fini di schermaglia politica e ad alimentare un'immagine di miseria femminile che ricade in primo luogo sulle parlamentari stesse, di destra e di sinistra parimenti. Le stesse mani che si rincorrono e si stringono per entrare nelle grazie non dei cattolici ma delle gerarchie vaticane, e prontamente rispondono agli ordini di Ruini quali che siano. Il cardinale ricorda che la vita è un dono di Dio di cui la donna è puro contenitore e veicolo, e il giorno dopo partono l'indagine sulla 194 e l'assegno per la gravidanza: mai si ricorda tanta solerzia nella politica italiana.
Il discorso della politica istituzionale sulle donne da molto tempo non dice e probabilmente non ha mai detto granché sulla realtà delle donne. Ma dice molto sulla realtà della politica istituzionale: de vobis, non de nobis fabula narratur. A sostegno dell'assegno di gravidanza Rosi Bindi ha sostenuto ieri che è un'anticipazione della prossima politica di governo del centrosinistra. Il buongiorno si vede dal mattino: se questo è il mattino, sarà buio a mezzogiorno.
il manifesto, 01.12.05
Ruini
La parola assente
Roberta Carlini
Invito all'astensione sulla fecondazione assistita, no alla salva-Previti, no alla clonazione, sì alle radici cristiane nella costituzione dell'Europa, no ai Pacs, no alla sperimentazione della pillola abortiva negli ospedali pubblici italiani, critiche alla devolution, perplessità sulla nuova legge elettorale, no ai matrimoni misti, critiche ai tagli della finanziaria alla cooperazione, sì ai volontari nei consultori, stop all'uso di droghe e alcolici e alle sfide in auto. L'infaticabile cardinal Ruini, dopo aver preso in soli undici mesi tutte le posizioni appena riportate - oltre a quelle che riguardano gli interna corporis della chiesa: la malattia del vecchio papa, la sua morte, i pellegrini, il conclave, il nuovo papa, la beatificazione del «santo subito», il nuovo catechismo, l'eliminazione del limbo etc. etc. -, all'inizio del dodicesimo mese ha fatto sapere: non tacerò. Rivendicando il diritto della Chiesa cattolica di dire la sua sui temi «della vita e della famiglia». E chi glielo nega? L'onda lunga del successo mediatico della morte di Wojtyla non si è ancora abbassata, mentre la fame di voti e la malriposta speranza che vescovi e parroci ne gestiscano a pacchi garantisce la simpatia o l'acquiescenza di quasi tutto il mondo dei partiti (nel quale però l'unica novità, la Rosa nel pugno, si è creata non a caso proprio attorno alla difesa di un grumo di laicità residua). Nessuno nega a Ruini il diritto di dire la sua opinione e la sua verità, semmai troppo pochi sono coloro che gli contrappongono il diritto e il dovere di dire le proprie opinioni e posizioni, anche se non hanno il marchio della verità rivelata - e tanti quelli che gli corrono dietro ansimando, come i portatori della misera proposta di una paghetta mensile «anti-aborto».
C'è una cosa però su cui Ruini non ha ancora parlato. Una cosa che da ieri è legge dello stato: l'esenzione dall'obbligo di pagare l'Ici per i beni immobili della Chiesa e degli enti ecclesiastici adibiti a scopi non di culto. Alberghi, centri sportivi, ostelli, edifici adibili ad attività ricreative: anche posti in cui si paga per entrare, e dai quali i pii istituti ricevono compensi. Su questi suoli e immobili non si pagherà il balzello che pagano tutti i proprietari italiani. Il risparmio per la Chiesa cattolica sarà di 300 milioni, secondo le prime stime: un terzo dell'intero gettito dell'otto per mille, che fu introdotto con grandi discussioni pubbliche e sul quale almeno i cittadini italiani hanno una piccola possibilità di scelta, con la firma nella dichiarazione dei redditi. Su questo dono piovuto dal cielo il cardinal Ruini tace. Peccato. Potrebbe spiegare perché è giusto non pagare le tasse su quegli immobili, e visto che c'è anche come i comuni potranno tappare il «buco» che si apre nelle loro casse. Potrebbe risalire a San Tommaso oppure a Milton Friedman, illuminare ed esaltare lo scopo collettivo del «meno tasse, più Chiesa». Oppure, e più sinceramente, potrebbe dirci almeno: grazie.
il manifesto, 01.12.05
chiesa
I vescovi: «Nessun silenzio». E parlano a tutto campo
C'è di tutto di più nel documento conclusivo dei lavori della 50esima Assemblea generale della Cei. I vescovi, che si sono riuniti ad Assisi dal 14 al 18 novembre, non si limitano a difendere il loro diritto ad intervenire sui temi legati al rispetto della vita umana, ma lanciano affondi a destra e a manca su legge elettorale, riforme istituzionali, finanziaria. «In merito al dibattito in atto sul tema della laicità e sul rapporto tra Stato e Chiesa», spiega il documento, i vescovi sono in sintonia con quanto detto da Ratzinger in Parlamento, in occasione del terzo anniversario della visita di Giovanni Paolo II. E' necessaria «una `laicità positiva' che abbia come riferimento i diritti fondamentali dell'uomo, compreso quello della libertà religiosa». Quindi i vescovi promettono «da parte della Chiesa l'impegno aperto e concreto a favore della persona umana», che non rappresenta «una violazione della laicità della nostra Repubblica, ma piuttosto un contributo, offerto alla libertà di ciascuno, per il suo bene autentico». D'altronde: «Una Chiesa che tacesse su questi temi, per salvaguardare i propri pur legittimi interessi istituzionali, non farebbe invero molto onore né a se stessa né all'Italia». Iniziano poi le preoccupazioni su tutto il resto: la Finanziaria perché toglie fondi «alle fasce più povere e alla cooperazione internazionale». Il Mezzogiorno, con una richiesta di maggiori infrastrutture e di un deciso impegno contro la mafia. Ma anche le riforme. I presuli si dicono preoccupati dai «toni duri» che stanno caratterizzando la scena politica e le «forti polemiche che stanno accompagnando la nuova legge elettorale e la riforma della seconda parte della Carta costituzionale, che richiederà un ricorso a referendum popolare confermativo».
Corriere della Sera, 01.12.05
Uno studio di psicologi dell'Università del Wisconsin
Usa, solo le segretarie possono essere sexy
Le donne in carriera che mettono in mostra il loro fascino suscitano diffidenza. Le loro sottoposte no
NEW YORK - Sharon Stone di Basic Instinct; Demi Moore in Rivelazioni; Reese Witherspoon nel più recente «Una bionda in carriera», che sfida le apparenze sexy per sfondare prima ad Harvard e poi come avvocato di grido? Semplici prodotti della fiction Hollywoodiana in un Paese – l’America – dove nella realtà le donne dotate di sex-appeal faticano a far carriera perché non vengono prese sul serio. Lo rivela uno studio guidato da Peter Glick, docente di psicologia alla Lawrence University del Wisconsin, e pubblicato nell’ultimo numero della rivista Psychology of Women Quarterly. «Una donna manager la cui apparenza nel corso dello studio sottolineava il desiderio di apparire sexy ha sollecitato emozioni meno positive, reazioni più negative e percezioni di minor competenza su una scala soggettiva», spiega Glick, «nonché di minor intelligenza su una scala oggettiva».
DOPPIO PARAMETRO - Ottantacinque anni dopo l’introduzione del voto alle donne e quarantuno dalla creazione della legge sulle Pari Opportunità, l’America continua insomma a trattare i sessi con un doppio parametro, conferendo agli uomini prerogative off limit per le donne. Che possono essere anche molto più competenti dei colleghi maschi e sapere tutto del lavoro che svolgono ma, se indossano un abbigliamento provocante, non vengono rispettate e spesso sono giudicate poco abili nelle loro mansioni.
LE DIFFERENZE TRA DONNE IN CARRIERA E SEGRETARIE - Ancora più sconcertante il risvolto della medaglia cui è pervenuta la giuria di uomini e donne che hanno partecipato all'esperimento del Wisconsin: se a presentarsi in ufficio con abiti osé che ne esaltano le forme femminili sono le segretarie, nessuno trova nulla da ridire. «L’effetto negativo si limita alle donne ai vertici della scala aziendale», spiega il prof Glick, «il look sexy ha provocato sentimenti di ostilità e una valutazione di scarsa intelligenza solo nei confronti delle executive, non delle loro subordinate».
Corriere della Sera, 01.12.05
Benedetto XVI in occasione della giornata mondiale di lotta al virus
Il Papa: «Contro l'Aids serve la castità»
Il Pontefice ha ricordato le strategie di prevenzione basate su «continenza e promozione della fedeltà nel matrimonio»
CITTA' DEL VATICANO - Il Papa, in occasione della Giornata mondiale di lotta contro l'Aids, ha voluto ricordare che funzionano bene le strategie per la prevenzione basate «sulla continenza, la promozione della fedeltà nel matrimonio, l'importanza della vita familiare, l'educazione, l'assistenza ai poveri». Incontrando la nuova ambasciatrice del Sudafrica presso la Santa Sede, Benedetto XVI ha voluto rivendicare il contributo della Chiesa Cattolica nella battaglia contro il terribile virus. Ed ha sottolineato la necessità di una strategia basata su più elementi, compreso la castità. «In questo contesto - ha spiegato - la Chiesa Cattolica offre la sua cooperazione ovunque possa dare assistenza».
UN DOVERE L'ACCOGLIENZA DEI RIFUGIATI - Il Papa inoltre ha parlato del drammatico problema dei rifugiati, ricordando alla ambasciatrice che l'accoglienza di quanti fuggono da «povertà, tensioni politiche e violenza» è un dovere delle nazioni ed è «segno di una società autenticamente civile». «La politica del Sudafrica nell'accettare gli altri - ha sorrolineato - è stata esemplare per l'intera regione». Da Papa Ratzinger infine anche un incoraggiamento al Governo di Pretoria affinchè si impegni a «promuovere la dignità dell'essere umano dal concepimento alla morte».
Corriere della Sera, 01.12.05
Proposta di modifica alla Finanziaria firmata da Ds e Margherita
L'Unione: un assegno per non abortire
Duecentocinquanta euro alle donne in gravidanza, a partire dal sesto mese, con un reddito basso. Sì di Storace. No dei Verdi
ROMA - Un assegno mensile di 250 euro per le donne in gravidanza, a partire dal sesto mese, con un reddito familiare non superiore a 40mila euro annui. È la proposta di modifica alla Finanziaria presentata da Ds (Livia Turco) e Margherita (Giuseppe Fioroni, Rosi Bindi) che, nel dettaglio, è rivolta sia alle cittadine italiane che a quelle comunitarie ed extracomunitarie «in possesso di regolare permesso di soggiorno che si trovino nella condizione di disoccupazione, non iscritte alle liste di collocamento, interessate dalle tipologie contrattuali» della legge Biagi.
Per le ragazze madri «in presenza di gravi condizioni di disagio sociale ed economico e comunque con un reddito non superiore a 25mila euro annui» l'emendamento prevede «un assegno di 350 euro mensili e a partire dal terzo mese di gravidanza». Sará uno o più decreti emanati dal ministero del Welfare (entro 60 giorni dall'approvazione) di concerto con l'Economia e con la Conferenza delle Regioni e autonomie liocali a fissare le modalitá di riconoscimento dei requisiti e di erogazione dell'assegno.
LE REAZIONI - «Se l'opposizione evolve a me non fa che piacere». Il ministro della Salute, Francesco Storace, commenta così la proposta dei Ds-Dl di inserire in Finanziaria un contributo per le donne in stato di gravidanza che prevede un assegno per scongiurare l'aborto. Nettamente contraria Luana Zanella, deputata Verde della commissione Affari Sociali, che dice: «Quella dei Ds e della Margherita mi pare una iniziativa strumentale». Secondo Zanella, «le politiche di sostegno a favore della maternità sono sacrosante e vanno realizzate attraverso finanziamenti agli Enti locali e al Fondo Sociale, entrambi taglieggiati dal governo di destra. L’emendamento in questione, invece, presta il fianco alla demagogia politica di Storace e del rinato fronte anti-aborto: mi pare - conclude - piuttosto un autogol».
Liberazione, 01.12.05
Bindi e Turco arruolate nel partito di Ruini: soldi per finanziare la gravidanza
di Angela Azzaro
Ieri alla Camera è stata fatta una proposta che richiama le politiche familiste del periodo fascista. Non l’ha avanzata la Cei dei Vescovi, né la Casa delle libertà. Ma i Democratici di sinistra e la Margherita: Livia Turco (Ds), Rosy Bindi e Giuseppe Fioroni (Margherita) hanno presentato un emendamento alla Finanziaria che prevede l’ennesimo assegno, questa volta per le donne durante la gravidanza. E’ stato definito «evita-aborto». La proposta in sintesi è questa: duecentocinquanta euro, a partire dal sesto mese, per coloro che non hanno un reddito superiore ai 40mila euro o sono disoccupate. Trecentocinquanta euro per le «ragazze madri» a partire dal terzo mese. Un’elemosina, una mancia, che viene sospesa appena il figlio o la figlia viene al mondo. Una misura non per consentire alle donne di scegliere liberamente, ma per dissuaderle. Per tentare di metterle sotto tutela. Soprattutto un regalo all’ideologia della Chiesa. Il tentativo da parte dei Ds e della Margherita di accreditarsi presso la Santa Sede, sostenendo col denaro la sua campagna anti-abortista. Non a caso il ministro della Salute, Francesco Storace, plaude all’iniziativa con toni - supponiamo - sarcastici: «Se l’opposizione evolve, a me non fa che piacere». Ma che cosa è accaduto perché si arrivasse a questo punto? Bisogna essere realiste e riconoscere che la Chiesa ha fatto e sta facendo scuola anche nel centrosinistra. La proposta Turco-Bindi è in linea con Ruini, ne assume i dettami, se ne fa portavoce. Supera a destra, non a sinistra, l’assegno della Casa delle libertà per i bambini già nati. L’assegno per non abortire vuole far politica strumentalizzando il corpo della donna, la sua vita, nel momento più delicato, più esposto. E’ umiliante che donne delle istituzioni ritengano duecentocinquanta euro (o trecentocinquanta) la misura di una scelta. E’ umiliante ritenere che la scelta di una donna, giovane o meno giovane, dipenda da un assegno e non da un incontro - complesso - tra desideri e bisogni, tra aspirazioni personali, contesto sociale, immaginario collettivo. La politica in questo caso deve fare un passo indietro, deve garantire la possibilità di decidere liberamente, non può invece dettare norme, indurre comportamenti. Avrebbero fatto meglio le due parlamentari e il loro collega dell’Unione a battersi per i consultori, per dire una parola chiara in difesa della salute psicofisica delle donne. Di fronte all’attacco che ogni giorno viene portato avanti dalla Chiesa e dal suo partito trasversale c’è bisogno di altrettanta radicalità in nome della difesa della legge per l’interruzione di gravidanza e di tutti i sostegni che quella normativa prevede. La coalizione che si candida a governare in alternativa alla destra è a un bivio: continuare a farsi del male e inseguire la Casa delle libertà sul suo terreno o costruire una reale alternativa. La proposta Turco-Bindi interpreta nel peggiore dei modi la deriva fondamentalista della destra, si rende complice di un attacco alle donne che non può lasciare indifferenti. Nessuna, nessuno. L’autodeterminazione delle donne rimanda, ieri come oggi, al Paese che vogliamo costruire, al livello di civiltà che consideriamo necessario. Non è un fatto secondario. E’ il cuore della politica. E’, dovrebbe essere, il cuore delle scelte che l’Unione si appresta a fare. O si affronta questo nodo o sarà una lunga stagione di conflitti. Le donne, come hanno detto martedì sera a Milano, non ci stanno. Durante una riunione alla Camera del lavoro sono arrivate in mille. Si sono autoconvocate. Qualche mail, una risposta straordinaria per dire che si ribellano, che faranno pesare la loro presenza sulla scena della politica. E chiamano le altre donne per una manifestazione nazionale, il 14 gennaio a Milano. Ora la parola passa a loro. Passa a tutte noi. Non possiamo più stare a guardare. La proposta Turco-Bindi dimostra che non c’è da stare tranquille, che anche con l’Unione l’orizzonte di senso è ancora da costruire. E’ arrivato il momento di rimboccarsi le maniche. La mobilitazione deve crescere, l’Unione, la politica, devono stare a sentire.
Liberazione, 01.12.05
E da destra parte l’attacco alla 194. Sì all’indagine conoscitiva sulla legge. Le opposizioni contrarie ma è polemica sull’emendamento a firma Bindi, Turco e Fioroni
Dall’Ulivo l’“evita-aborto”.
Il Prc: «Sconcertante»
di Castalda Musacchio
Storace si dice d’accordo (il che è tutto dire, ndr). Dopo aver imposto di inserire i volontari (del movimento per la vita) nei consultori - «altrimenti interverrà lo Stato» - ieri ha plaudito e anche con una certa soddisfazione all’ultima “trovata” dell’Ulivo: l’emendamento “evita-aborto”. Ora, a dirla tutta, pare che ieri in commissione affari sociali più di qualcuno, anzi qualcuna, tra i banchi delle opposizioni sia sobbalzata sulla sedia quando sul tavolo è giunta quella modifica da inserire in finanziaria a firma Rosy Bindi, Livia Turco e Giuseppe Fioroni. E abbia anche esclamato: «E’ davvero troppo, non bastano Ruini e quelli dell’Udc ora ci mettiamo pure a fare la guerra tra noi», ma sta di fatto che più o meno è andata così. Del resto in commissione ieri si sono verificati due fatti gravissimi. Da un lato a spron battuto la maggioranza ha pensato bene di far varare – senza l’appoggio dell’opposizione - un’indagine conoscitiva sulla legge 194. Dall’altra - e, questa volta, è inevitabile aggiungere un po’ a “sorpresa” - è giunta la proposta dei Ds e della Margherita: una modifica da inserire nella finanziaria. Vediamo di che si tratta. Si intitola, o meglio è stato subito soprannominato, emendamento “evitaaborto”. Il perché è presto detto. Si tratta in sostanza di un testo che prevede varie forme di assegno a sostegno della gravidanza. Per la precisione due: per le “ragazze madri” - così è scritto - con un reddito non superiore a 25mila euro annui e che intendano portare a termine la gravidanza l’assegno è di 350 euro mensili dal terzo mese al momento del parto. Di 250 dal sesto mese in poi in favore - e ancora questo è il linguaggio usato nell’emendamento - «in favore delle donne cittadine italiane, comunitarie ed extracomunitarie, in possesso di regolare permesso di soggiorno che si trovino in condizioni di disoccupazione, non iscritte alle liste di collocamento (le normali casalinghe ndr)» o che abbiano - ma la cosa non è del tutto secondaria a ben vedere in una chiara lettura politica - uno dei nuovi contratti di lavoro previsti dalla legge Biagi. La condizione è che non abbiano un reddito familiare superiore a 40mila euro. «Personalmente? – commenta Tiziana Valpiana (Prc) - Personalmente sono indignata e anche sconcertata. Abbiamo condotto insieme alle altre colleghe una battaglia durissima contro l’attacco alla legge 194 abbandonando l’aula al momento del voto su quest’indagine conoscitiva che la maggioranza vuole fare a tutti i costi e in meno di 15 giorni, dato che prima dell’epifania non potrà partire. Ma questo testo, tra l’altro già discusso al tavolo dell’Unione sul Welfare, lo considero davvero offensivo nei confronti delle donne stesse e on riesco inoltre a concepire il fatto che vi sia all’interno delle opposizioni chi pensi di dover rincorrere e a tutti i costi il dettato dei vescovi mettendo da parte la tutela e la dignità delle donne stesse. Non possiamo che essere contrarie alla proposta dei Ds e della Margherita». I motivi? Quest’emendamento - spiega Valpiana - presta inevitabilmente il fianco alla demagogia e al rinato fronte antiaborto. «Come Rifondazione - precisa – non abbiamo proprio nulla da rimproverarci sul fronte delle politiche di sostegno alle donne in gravidanza. Per esempio abbiamo suggerito non solo di dare forza alla rete dei servizi sociali ma anche alla tutela delle donne proponendo quella che io stessa chiamai “il salario sociale del bebé” che non ha nulla a che fare con questo testo “evita aborto”. La mia proposta consisteva in un assegno da versare al neonato, sì proprio a lui, speso da chi effettivamente si occupa del bambino vale a dire la madre o i genitori e che versa in condizioni di disagio sociale. Ma non si può, non possiamo accettare di essere d’accordo con chi vuole tutelare solo le donne che intendano portare a termine la gravidanza. Questa è una scelta che spetta solo ed esclusivamente alla donna stessa. Sulla violazione di temi come la libertà e l’autodeterminazione della donna non possiamo assolutamente essere d’accordo con le colleghe del centrosinistra ». «Per me – aggiunge Elettra Deiana (Prc) - si tratta di un’iniziativa davvero molto grave. Che nasce da una cultura che considera le donne prive della dimensione della responsabilità. L’idea stessa che la gravidanza venga quasi considerata come merce di scambio che non attenga alla libera autodeterminazione della donna grida allo scandalo. Ritengo sia davvero necessario - conclude - affrontare al più presto una ampia discussione su questi temi». Sulla proposta è stato “da destra” il ministro Giovanardi a polemizzare con Bindi. «Quella dell’Ulivo - ha detto Giovanardi - è solo una variazione sul tema, una proposta mascherata sul bonus bebé presentato dalla maggioranza». «La nostra - replica l’esponente Dl - è una misura strutturale non una lotteria una-tantum sulla nascita di un figlio». Ma la vera impressione, come dichiara alla fine anche la deputata “Verde” Luana Zanella, è che questa volta le colleghe del centrosinistra «abbiano solo fatto un autogol». E che autogol.
Liberazione, 01.12.05
Riflessioni sugli attacchi teo-con a Ru 486, legge sull’aborto, embrioni-persona. Il 14 gennaio manifestazione nazionale
Milano, mille donne (e uomini) si incontrano per difendere la libertà di scelta femminile
Emanuela Cirant
Non c’è una sedia libera nella sala della Camera del lavoro di Milano. Tutto lo spazio è affollato, palco compreso. Più di mille donne, con una discreta presenza maschile, si sono raccolte qui per affermare la volontà politica di difendere la libertà femminile. Se il referendum sulla procreazione assistita aveva ottenuto risposte freddine e indifferenza, tutto quel che è avvenuto dopo e che ci sta travolgendo ha forse colmato la misura e dato la spinta necessaria per riprendersi lo spazio pubblico. Gli ostacoli posti all’introduzione della pillola abortiva Ru486, gli attacchi alla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, le esternazioni di Storace sui consultori, la proposta di destinare ingenti somme di denaro pubblico al Movimento per la vita, l’adottabilità degli embrioni congelati -che ne ribadisce così la personalità giuridicasono alcuni dei fatti più clamorosi che fanno dire alle donne qui riunite di trovarsi di fronte ad un’offensiva guerresca. Si parla da subito di una manifestazione nazionale. A Milano o Roma? L’assemblea risponde: Milano! Da anni le politiche sulla famiglia e sulla sanità realizzate dal governo Formigoni applicano il manifesto teo-con che si sta imponendo a livello nazionale. La data? Il 14 gennaio. E’ differente che i soldi siano destinati al Movimento per la vita, che appresta funerali pubblici di feti abortiti, oppure a progetti di donne per donne che subiscono violenza, ad iniziative che trasmettono la memoria storica delle lotte femminili, agli spazi di autogestione. Ma come difendere la libertà se le donne per prime non la ricercano nelle relazioni quotidiane, con i compagni di vita, di partito, di gruppo, coi colleghi di lavoro, e se al tempo stesso non si chiede responsabilità maschile nella procreazione e nella paternità? Sì alla manifestazione, perché dà forza, visibilità, aggregazione. Diamoci al tempo stesso il coraggio di aprire il conflitto, non con gli uomini in senso astratto, ma con un modello di sessualità maschile scomodo ormai anche per molti uomini, come mostra il dibattito sulla violenza ospitato dalle pagine di questo giornale. Difendere la 194 significa chiederne l’applicazione ma anche attivare capillarmente iniziative di confronto sui modi in cui si vive la sessualità. L’assemblea organizzata in Statale da un gruppo di studenti nella stessa giornata del 29 ha mostrato proprio la difficoltà e allo stesso tempo il bisogno delle giovani generazioni di confrontarsi su ciò che riguarda sessualità e relazioni. Sono portate in questa assemblea le proposte del comitato per laicità e autodeterminazione Facciamo Breccia, che su queste due parole d’ordine propone iniziative locali (10 dicembre) e una mobilitazione nazionale. Un altro gruppo, opponendosi alla decisione di conferire l’Ambrogino d’oro a Oriana Fallaci, sta organizzando per il 7 gennaio un’iniziativa al teatro Dal Verme, dove si leggeranno testi di altre culture per indicare che Milano è multiculturale. La maternità consapevole si difende anche denunciando che la legge 194 ha portato, negli anni, alla diminuzione degli aborti tra le italiane, mentre tra le donne straniere è in aumento. In assemblea si propone anche la costituzione di un Osservatorio sulla salute delle donne, per realizzare un’inchiesta (stato dei servizi, leggi che li regolamentano, stanziamento fondi) e rafforzare la rete (operatrici, utenti, donne delle istituzione e della società civile) per essere presenti nei consultori nei reparti ginecologia prima che si imponga il Movimento per la vita. La miccia si è accesa. Ora sta lasciarla spegnere e trasformarla in un fuoco dilagante. La prossima riunione di coordinamento è prevista per il 15 dicembre. Per aggiornamenti, cercate sul sito www. usciamodalsilenzio.org.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
lunedì 28 novembre 2005
sinistra: ieri al Teatro Colosseo
Aprilenline.info 29.11.05
Primo passo verso la Sinistra Europea lanciata da Bertinotti
Rifondazione. A Roma si riunisce la Sinistra europea: "No al partito democratico, si al nuovo soggetto politico radicale"
E’ stata l’occasione per dare visibilità e gambe all’idea lanciata da Fausto Bertinotti al comitato politico di Rifondazione Comunista dello scorso fine settimana. Creare in Italia la “sezione” della Sinistra europea, il partito continentale che riunisce le forze comuniste e socialiste di sinistra dell’UE. L’assemblea di “Sinistra romana”, ieri al Teatro Colosseo, con lo stesso Bertinotti e Pietro Folena, ha raccolto l’appello lanciato dal segretario di Rifondazione per “riorganizzare la sinistra di alternativa” quella, spiega Bertinotti “che intende porre di nuovo il tema della trasformazione della società”. L’occasione è stata data dall’uscita dei fondatori dell’associazione romana dai Ds. Pino Galeotta (consigliere comunale), Alessandro Cardulli (presidente della direzione regionale della Quercia) ed altri dirigenti e militanti del correntone diessino hanno lasciato il partito di Fassino per quello bertinottiano. “Non aderiamo a Rifondazione in quanto tale” – hanno spiegato – “ma al progetto lanciato dal lader del Prc” per la creazione della “sezione italiana della Sinistra europea” nella quale confluiranno, oltre a Rifondazione stessa, diverse realtà associative e di movimento sorte in questi anni intorno al partito e quelle nuove, come “Sinistra romana”, nate dalle costole del correntone, che si sono riunite principalmente nella rete “Uniti a sinistra” fondata dagli ex diessini Pietro Folena e Antonello Falomi, dall’ex verde Francesco Martone e da molti sindacalisti di primo piano della Cgil.
“Per la prima volta dopo la Bolognina – ha sottolineato Bertinotti - stiamo invertendo la tendenza alla diaspora e alla divisione, stiamo unendo a sinistra. E' un nostro merito contribuire a questa inversione di tendenza”. Bertinotti ha descritto il nuovo soggetto politico che vuole costruire insieme a movimenti, comitati e organizzazioni politiche come “Uniti a Sinistra” e “Sinistra Romana”, come un “soggetto unitario e plurale di sinistra alternativa, un luogo comune che non ha la presunzione di cancellare le differenze che rappresentano una grande ricchezza della sinistra”.
Il segretario di Rifondazione ha poi sottolineato che le componenti che entreranno a far parte del nuovo soggetto politico avranno pari dignità perché indipendentemente da dove si viene “è importante la strada su cui si va e la direzione, cioè il tentativo di arginare la deriva moderata della sinistra italiana. Veniamo da strade diverse ma e' ora di farle incontrare”.
Infine il segretario di Rifondazione ha aspramente criticato Piero Fassino per l’ “apertura” alla costruzione del ponte di Messina: “Non si può dire che il ponte se lo fa Berlusconi fa schifo, ma se lo facciamo noi va bene”, ha concluso.
altrove...
il manifesto 29.11.05
Politica o quasi
All'inizio della fine
Ida Dominijanni
Nello scorso settembre l'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, organizzò un seminario intitolato «Politica e pratiche politiche. All'origine della questione morale», che rilanciava la questione del rapporto fra politica e pratica politica, già messa a tema nei mesi precedenti da alcuni editoriali di Critica marxista. L'ultimo numero della rivista pubblica adesso, precedute da un editoriale di Aldo Tortorella sulla sempre più accentuata separatezza e autoreferenzialità del ceto politico italiano, alcune relazioni a quel seminario, di Giacomo Marramao, Gianni Ferrara, Maria Luisa Boccia, Enrico Melchionda. La prima e la terza in particolare mi sembrano da segnalare per alcuni tratti che le accomunano. Il primo è il legame che stabiliscono fra crisi politica e crisi culturale della sinistra - o meglio, per dirla con Marramao, fra la crisi e la «deculturalizzazione» della politica. Il secondo è la capacità di leggere alcune dinamiche della crisi italiana con le lenti di alcuni classici - da Max Weber a Gramsci a Simone Weil e Hannah Arendt - , sottraendole così alla riduzione a fenomeni di breve periodo o dell'ultim'ora cui tende il chiacchiericcio politologico sulla transizione infinita. Il terzo è il legame fra politica, forme di vita e pratiche politiche che entrambi mettono al centro del discorso, e il rilievo che di conseguenza assumono, in una prospettiva di valutazione storica che abbraccia ormai più di un trentennio, il pensiero-pratica della differenza sessuale e il suo impatto, diretto o indiretto, sulla crisi e le trasformazioni della politica. Punto di partenza è una diagnosi netta sullo stato di degrado in cui versa nell'Italia di oggi non solo la politica istituzionale, ma anche la vita civile: siamo fuori, e per fortuna, dalla retorica della contrapposizione fra una politica ammalata e una società civile che scoppia di salute. Tuttavia la responsabilità prima è della politica, e in specie, secondo Marramao, di quella tendenza della sinistra post-Pci a deculturalizzare la politica, così screditandola e rendendola una faccenda da ceto separato preoccupato soprattutto della propria autoriproduzione. Max Weber, con le sue due famose conferenze del 1918 sulla politica e la scienza come professione-vocazione, e Gramsci, con le note dei Quaderni sugli intellettuali e sul «moderno Principe», tornano utili da un lato per ripristinare il nesso fra lavoro intellettuale e pratica politica, conoscenza e potenza, azione trasformatrice e general intellect, specialismi e competenza politica. Dall'altro per ricondurre l'origine della «questione morale» italiana a dinamiche di lungo periodo, aggravate dalle ma non riducibili alle nefandezze craxian-berlusconiane: alla perdita di vocazione della professione politica, sì che a destra e a sinistra aumentano, secondo una distinzione weberiana, quelli che vivono di politica rispetto a quelli che vivono per la politica; e al fallimento di quella funzione di riforma intellettuale e morale del «moderno Principe» gramsciano, che doveva consistere nel promuovere l'«accumulazione etica originaria» in altri paesi aiutata dall'imperativo protestante ma mancata nell'ingresso dell'Italia nella modernità. Per ragioni storiche e interne alla sua stessa storia, dunque, la sinistra emersa dalle ceneri del Pci non può chiamarsi fuori dalla crisi della politica, ma ne è parte centrale e cruciale.
L'analisi dell'oggi non può perciò saltare quello snodo cardinale che fu, già negli anni Settanta, la crisi della forma-partito. Lì ritorna infatti Maria Luisa Boccia, anche lei a partire, sulla scia di Gramsci, del frammento hegeliano su politica e destino riletto da Mario Tronti e di Simone Weil, dal nesso fra politica e vita: la forma-partito regge finché realizza quel nesso, crolla quando lo perde o lo costringe in una organizzazione automatizzata e svuotata di passione, giacché, come Gramsci stesso segnalava, la passione politica organizzata deve diventare razionalità, ma la razionalità dev'essere a sua volta continuamente nutrita e «superata» da una passione che la eccede. Quando questo circolo si spezza, il Pci finisce. Ma non di sole dinamiche interne: potente fattore di crisi è la scommessa femminista «di dare stabilità, continuità, forma all'agire singolare e plurale senza costruire un'organizzazione» e puntando sull'invenzione di nuove pratiche basate sul rapporto fra vita e politica. Fattore di crisi, e apertura di un'altra prospettiva: per Marramao, la «frattura longitudinale» introdotta dal femminismo della differenza è imprescindibile perché «insegnandoci a distinguere fra sfera pubblica e dimernsione statuale ci ha indicato le vie di una politica diversa», che passa per quella pluralità di esperienze, pratiche e soggetti neutralizzati dalla logica della politica tradizionale. Anche se, sottolinea Boccia, il rischio del riconoscimento della rivoluzione della differenza è sempre lo stesso, ossia che se ne assumano alcuni contenuti prescindendo dalle sue pratiche. E tornando a separare la parola e la cosa, il discorso e l'esperienza, la politica e la pratica politica.
boh!?
Apcom 29.11.05
Vaticano
Preti gay. Capezzone: violenza ideologica
"Siamo all'inquisizione, rogo di campo de' Fiori ancora acceso"
Città del Vaticano, 29 nov. (Apcom) - "Rischia di passare sotto silenzio una scelta che lascia letteralmente increduli per la carica di violenza ideologica, da inquisizione, che l'ha determinata". Così il segretario dei Radicali italiani, Daniele Capezzone, commenta il documento, reso pubblico oggi dal Vaticano, che vieta agli omosessuali l'ingresso nei seminari.
"Siamo dinanzi ad un atto letteralmente anticristiano, crudele, senza carità", aggiunge Capezzone. "Lascio da parte l'"accertamento" delle "tendenze": non voglio neppure immaginare come avverrà - aggiunge in una nota - e mi limito a pensare al dramma di chi è in cerca di Cristo, e vorrebbe servirlo anche nella forma sacerdotale, e si vede invece sottoposto a un simile tribunale delle coscienze".
"Voglio invece solo sottolineare, per oggi, la cosa che mi pare più infame. Si lascia intendere, da parte vaticana - prosegue il segretario dei Radicali - che questa sarebbe una prima risposta ai casi di violenza contro i minori di cui si sono resi responsabili alcuni ecclesiastici. E quindi si stabilisce un nesso, un legame di causa ed effetto, tra l'omosessualità e la violenza contro i bambini o i ragazzi. Ripeto: c'è da rimanere increduli. Mi auguro che, in primo luogo nella comunità dei credenti, si levino voci contro questo autentico scempio. Ma intanto, pur con "tecnologie" diverse - conclude - il rogo di Campo de' Fiori è ancora acceso".
per la prima volta in Italia
Il Messaggero 29.11.05
Condannato lo psichiatra dell'assassino
BOLOGNA - Il delitto era avvenuto la mattina del 24 maggio 2000 in una comunità psichiatrica nei pressi di Imola: Giovanni Musiani, che soffriva di schizofrenia, uccise a coltellate Ateo Cardelli. A cinque anni dall'omicidio, e dopo che lo stesso assassino è deceduto nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, è arrivata la sentenza con la quale per la prima volta in Italia, è stato condannato il medico che lo aveva in cura. Lo psichiatra Euro Pozzi è stato condannato a quattro mesi di reclusione (pena sospesa) e alla provvisionale di 120.000 euro ai parenti dell’operatore dell'Albatros di Imola. Mai fino ad ora un medico era stato ritenuto responsabile della condotta giudiziaria di un proprio paziente.
«Sconcerto di fronte alle nuove inaspettate responsabilità per i medici che la sentenza induce, come se un barista fosse condannato perchè un suo cliente poi fa un incidente stradale» è il commento di Michele Ugliola, vicepresidente della Frer, la Federazione degli ordini dei medici. Soddisfatto l’avvocato della famiglia Cardelli, Massimo Jasonni, che ha espresso soddisfazione perchè «il medico sottovalutò la gravità patologica di Musiani, diminuendo anche la terapia farmacologica. Il giudice ha accolto le nostre tesi».
Ugliola invece esprime sconcerto: «Pozzi dunque ha armato la mano dell'omicida per via di un inadeguato trattamento psichiatrico».
retina
ricevuto da Silvia Branzi
Repubblica 29.11.05
Mostra una marcata diversità da individuo a individuo, fino al
40%, nella parte dell'occhio che ha il compito di percepire i colori
Foto svela i segreti della retina, mai un'immagine così da vicino
Ma tutti li vediamo allo stesso modo. È il cervello che compensa
di Luigi Bignami
MILANO - Per la prima volta è stata realizzata un'immagine della retina di una persona vivente con particolari mai rivelati sinora. Sorpresa tra gli scienziati: non si attendevano di avere di fronte un simile quadro di una parte così fondamentale del nostro occhio, che ha il compito primario di percepire i colori. Fino ad ora gli studiosi non immaginavano affatto che le migliaia di cellule responsabili nel rilevare i colori nella parte più profonda dell'occhio, fossero così diverse da individuo ad individuo. Tutti gli uomini infatti, ad eccezione di chi ha problemi di visione, vedono i colori nello stesso modo.
Ma in cosa consiste questa differenza? La retina è un tessuto nervoso contenuto all'interno dell'occhio che serve a registrare le immagini che saranno poi inviate al cervello. L'immagine viene catturata da particolari cellule nervose chiamate fotorecettori. Questi sono di due tipi: i coni e i bastoncelli. I coni sono cellule nervose che funzionano in condizioni di piena illuminazione e il loro compito è quello di produrre immagini molto dettagliate e a colori. I bastoncelli, invece, sono responsabili della visione notturna o comunque in condizioni di scarsa illuminazione. Lo strato dei fotorecettori si trova nella parte più profonda della retina e appoggia su uno strato detto epitelio pigmentato. In media ogni persona possiede 7 milioni di coni in una retina, il 64% dei quali sono rossi, il 32% verdi e il 2% blu, i colori che servono per raccogliere la luce dell'intero spettro luminoso. Questo almeno è quanto pensavano gli scienziati prima di aver visto questa straordinaria immagine.
Ma le immagini catturare dal Center for Visual Science della University of Rochester (Usa), pubblicate su Journal of Neuroscience sono molto diverse e per questo molto sorprendenti. Le fotografie della retina infatti, mostrano che da persona a persona c'è una differenza nel numero dei coni dei vari colori che giunge addirittura al 40%. Spiega Joseph Carrol, uno dei ricercatori della University of Rochester: "In un primo momento ci siamo chiesti se in conseguenza a questa variabilità le persone vedessero i colori in modo differente. Ma non è così. Allora si deduce che il cervello interviene in modo diverso in ciascun individuo nel compensare il numero dei coni al fine di offrire ad ogni persona la visione dei medesimi colori". Ora bisognerà capire come fanno diversi cervelli a lavorare per dare ad ogni individuo la medesima tonalità di colore o al più una piccola differenza.
I ricercatori sono riusciti in questi intento utilizzando 'ottiche adattative' che correggono nelle macchine fotografiche usate i difetti presenti nell'occhio così da ottenere immagini ad altissima risoluzione. "Le ottiche adattative sono utilizzate dagli astronomi che vogliono osservare oggetti molto lontani e che appaiono sfuocati dopo che la loro luce ha attraversato l'atmosfera", spiega David Williams, direttore del Center for Visual Science.
La tecnica verrà ora utilizzata per studiare le malattie che colpiscono la retina, le cui ricerche erano fino ad ora ostacolate proprio dall'impossibilità di avere una visione precisa della parte più profonda dell'occhio.
violenze sulle donne
Corriere della Sera 29.11.05
Duecento milioni di donne «sparite»
Un rapporto denuncia gli orrori del genocidio nascosto
Alessandra Farkas
NEW YORK - E' stato ribattezzato «The Hidden Gendercide» , il genocidio nascosto delle donne ed è lo sterminio di massa più spaventoso e drammatico della storia: più micidiale, per numero di vittime, sia dell'Olocausto ebraico, sia di tutte le guerre e i conflitti armati del XX secolo - secondo gli storici il periodo più cruento della storia umana - messi insieme.
Ad occuparsi, per la prima volta, del problema è il Centro per il controllo democratico delle Forze armate (Dcaf) di Ginevra, una fondazione internazionale che si batte da anni per un mondo più sicuro. «La comunità internazionale sta assistendo inerte al massacro di Eva», punta il dito il Dcaf in un rapporto di 335 pagine intitolato «Donne in un mondo insicuro». Mentre tra il 1992 e il 2003 il numero di conflitti armati «gravi» (con più di mille morti in battaglia) sono scesi dell'80%, la guerra quotidiana delle donne si è fatta ovunque più cruenta e mortale.
DESAPARECIDAS - Le statistiche parlano chiaro: circa 200 milioni di donne, ragazze e bambine sono «demograficamente scomparse». Un eufemismo che nasconde uno dei più scioccanti crimini contro l'umanità: la sistematica eliminazione delle femmine, solo in quanto tali, vittime di omicidi, fame, povertà e discriminazioni di ogni tipo. L'inoppugnabile «soluzione finale», per molte, inizia già prima di nascere. «Almeno 60 milioni di bambine sono state "cancellate" in seguito ad infanticidi o aborti selettivi di feti femmine, resi possibili dai progressi tecnologici», spiega Amartya Sen, premio Nobel per l'Economia 1998 e uno degli studiosi interpellati dal rapporto, che si avvale delle statistiche delle maggiori organizzazioni internazionali, dall'Onu all'Oms.
In Paesi quali Cina, Corea del Sud, India e Nord Africa le pratiche anti-bambine sono all'ordine del giorno. Tanto che nell'ultimo censimento cinese il rapporto maschio-femmina era di 119 a 100, mentre le normali percentuali biologiche sono di 103 bambini ogni 100 bimbe. Lo stesso avviene in India, dove il commissario del censimento stima che «parecchi milioni di feti» sono stati abortiti negli ultimi due decenni «in quanto di sesso sbagliato».
VIOLENZA - Ma la «condanna in base al sesso» prosegue anche dopo la pubertà. Ogni anno 3 milioni di donne e ragazze sono uccise perché femmine. Ovvero più dei 2.8 milioni di individui stroncati dall'Aids e dei 1,2 milioni falciati dalla malaria. Per non parlare delle 5 mila donne che ogni anno muoiono bruciate in «incidenti di cucina» provocati dalla famiglia dello sposo, quando la dote è giudicata «insufficiente». Dalla Cambogia agli Usa e dalla Thailandia alla Svizzera, la violenza domestica resta, in assoluto, la più diffusa. Tanto che dal 40% al 70% delle donne assassinate intorno al mondo sono vittime di mariti e fidanzati. La maglia nera appartiene ai paesi islamici. Il 47% delle donne uccise in Egitto sono eliminate da un parente dopo uno stupro che «infanga la reputazione della famiglia». E in Pakistan almeno tre donne vengono freddate ogni giorno in «omicidi d'onore» che restano impuniti al 100% perché, come denuncia l'attivista Nahida Mahbooba Elahi, «la polizia li giudica affari privati e si rifiuta regolarmente di perseguirli».
STUPRI E SALUTE - Nel 2005 la violenza sessuale contro le donne continua ad affliggere una donna su cinque, e non solo nei Paesi in via di sviluppo, portando il totale delle donne violentate ad oltre 700 milioni; 25 milioni delle quali solo negli Stati Uniti. Un netto peggioramento si è registrato anche nel commercio illegale di «schiave del sesso» che oggi affligge tra i 700 mila e i 2 milioni di donne e ragazze, vendute ogni anno attraverso i confini internazionali. Un incremento del 50% rispetto a cinque anni fa. Nonostante le tante crociate internazionali, in aumento un po' ovunque sono anche i casi di mutilazione genitale: 6 mila al giorno (oltre 2 milioni l'anno per un totale di 130 milioni nel mondo). E nei Paesi dove solo i maschi hanno un adeguato accesso alla sanità, sono 600 mila le donne che muoiono durante il parto: una cifra uguale al genocidio del Rwanda nel ’94, ma ripetuta anno dopo anno.
Secondo il Dcaf questo quadro sconcertante è strettamente legato alla mancanza di potere politico-economico «rosa» in un mondo dove le donne costituiscono oltre i due terzi dei 2.5 miliardi di persone costrette a vivere con meno di 2 dollari al giorno, nonché il 66% degli analfabeti. Dove nonostante le battaglie decennali del femminismo hanno in mano soltanto l'1% delle terre del pianeta, il 14% dei seggi parlamentari e il 7% dei ministeri di governo.
Corriere della Sera 29.11.05
senza diritti
Noi discutiamo di quote rosa e la strage si compie in silenzio
Dacia Maraini
Centinaia di migliaia di donne non rispondono all'appello demografico, secondo le ultime ricerche dell'Onu. Si calcola che siano oltre 600.000 i feti femminili uccisi prima che vengano al mondo nei Paesi dove la nascita di una femmina comporta spese considerate inutili. Altre bambine muoiono per mancanza di cibo. In molte famiglie poverissime, che cercano di sopravvivere, quando si trova qualcosa da mangiare, si dà la precedenza ai figli maschi. Il risultato è che sono molte di più le bambine dei bambini a morire di fame ogni anno. Perfino le cure mediche vengono dedicate prima ai figli maschi, considerati più utili per il futuro delle famiglie. Ragazze nell'età della pubertà vengono uccise per delitti di onore, o di dote. Il paradosso è che tutto questo non lo denuncia un portavoce del femminismo europeo, ma niente di meno che il Geneva Centre for the Democratic Control of the Armed Forces. Dopo avere constatato che le grandi guerre sono diminuite del 40% dal 1992 al 2003. La domanda è: possiamo dire che la diminuzione delle guerre abbia reso il mondo più sicuro per tutti? In parte sì, è la risposta del Dcaf. Ma non per le donne che vedono aumentare ogni anno il livello di schiavitù e di violenza.
Oggi sappiamo, attraverso gli strumenti di rilevazione di dati sempre più sofisticati ed estesi, che ogni anno fra un milione e mezzo e tre milioni di donne e ragazzine vengono torturate e uccise per «gender based violence», ovvero «violenze di genere». Non viene perdonato loro di essere nate femmine, diverse, dotate di una sessualità propria, di un bisogno di indipendenza che evidentemente fa paura. «Donne fra i 15 e 44 anni hanno molto più probabilità di essere uccise o deturpate, che di morire di Aids, di incidente di auto, di malaria o di guerra». Parole del Dcaf, riportate dall'Economist del 26 novembre.
Noi discutiamo sulle quote rosa, chiusi come siamo in un giardino privilegiato che è l'Europa. Senza pensare che il giardino sta per essere devastato dalle conseguenze della globalizzazione. E non si tratta solo di nuove e vecchie discriminazioni, ma di assassinio rituale delle donne da parte di culture ancora fortemente patriarcali che non vogliono nemmeno sentire parlare di diritti delle donne, di qualsiasi tipo.
Il timore è che, cacciata dalla porta, la guerra fra i sessi rientri dalla finestra, funestando la convivenza fra uomini e donne. Di fronte agli integralismi che premono da ogni parte, invece di rinforzarci nelle nostre conquiste di democrazia e parità, molti cedono alla tentazione di rispondere ad un fanatismo con un altro, ad una repressione con un'altra. Il mercato che si fa del corpo femminile per alcuni sarebbe una risposta di libertà, ma rischia di essere solo una provocazione inutile e controproducente. La libertà non consiste nell'accettazione di quel linguaggio della seduzione di cui si fa bella la pubblicità, ma nel riconoscere la dignità della persona femminile, dotata di un pensiero prima ancora che di un corpo disponibile e muto.
Emanuele Severino
Corriere della Sera 29.11.05
Il Concordato? Anticostituzionale
di Emanuele Severino
Buon lavoro il Concilio Vaticano II, seguito da altri documenti. Il buon lavoro starebbe andando però in malora per la tendenza della Chiesa a influire, invece che sulle coscienze, sugli apparati politici; e per la loro tendenza a ottenere l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche. Un processo, questo, che travolgerebbe il Concordato, «corrodendone le basi di legittimità». Cinque anni fa avevo sostenuto sul Corriere che, per quanto riguarda il Concordato, quel buon lavoro non c’era, perché ancora oggi è il Concordato a essere ambiguo, ed è questa ambiguità a corroderne le basi di legittimità - in modo ben più grave degli inconvenienti giustamente indicati da Zagrebelsky. Richiamo l’argomentazione che allora avevo sviluppato (e ora riportata nel mio libro Nascere , Rizzoli, 2005).
L’art. 7 della Costituzione dice che i rapporti tra Stato e Chiesa «sono regolati dai Patti Lateranensi» del ’29 e che «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Nell’84 Stato italiano e Chiesa hanno modificato i Patti del ’29, ma - ecco il punto - in modo così profondo da distruggerne il contenuto essenziale. Dirò subito perché. Ma intanto è chiaro che se nell’84 il contenuto dei Patti è stato distrutto, allora è stato distrutto anche l’articolo 7 della Costituzione, per il quale i rapporti tra Stato e Chiesa sono, appunto, «regolati dai Patti Lateranensi».
Perché, dunque, affermo che nell’84 il loro contenuto è stato distrutto? La sostanza dei Patti era costituita dal duplice principio che la religione cattolica «è la sola religione dello Stato» e che «l’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede», cioè l’esistenza di uno Stato pontificio. Ma la cosiddetta «revisione» dei Patti, dell’84, dichiara che non è più in vigore il principio della religione cattolica «come sola religione dello Stato italiano». Non è cosa da poco. Non si tratta di una semplice «modificazione» dei Patti: viene abbattuto uno dei due pilastri che li sorreggono: l’Italia non è più uno Stato cattolico. Pertanto i Patti non solo vacillano, ma crollano, non ci sono più. E invece il testo della nostra Costituzione continua, imperterrito, ad affermare che i rapporti tra Stato e Chiesa «sono regolati dai Patti Lateranensi», ossia da ciò che con la «revisione» dell’84 è stato buttato fuori dalla porta. Se si volesse tenere in casa tale revisione, bisognerebbe dire che il testo della Costituzione afferma il falso.
Si aggiunga che, poiché nell’84 non c’è stata «modificazione» ma annullamento dei Patti, nell’84 è stata fatta valere impropriamente, e dunque contraddittoriamente, anche la norma costituzionale sopra riportata per la quale «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale» (cioè non richiedono la modifica del testo costituzionale). Non essendosi infatti trattato, nell’84, di semplici «modificazioni», ma di distruzione dell’essenza dei Patti, ne risulta infatti che tale distruzione richiede un procedimento di revisione costituzionale. Ma questo procedimento non è mai stato effettuato: la distruzione dei Patti è stata camuffata e fatta passare come loro semplice «revisione» o «modificazione».
L’ambiguità dell’attuale rapporto tra Stato e Chiesa è una vera e propria contraddizione. È cioè contraddittoria l’attuale convivenza tra art. 7 della Costituzione e «revisione» dell’84. Se la Costituzione è la legge suprema che giudica della legittimità o meno delle altre leggi, la «revisione» dell’84 è anticostituzionale. La riforma del Concordato si impone non perché sia richiesta da qualche schieramento politico, ma perché la forma attuale del Concordato è contraddittoria e quindi è priva di legittimità.
Per la Chiesa non è conveniente, oggi, approfittare esplicitamente di questa conclusione (per la quale essa potrebbe sostenere che, dopotutto, non è così chiaro, giuridicamente, che l’Italia non sia più uno Stato cattolico). La Chiesa preferisce giustificare la propria presenza nella società italiana col principio che una società non può vivere prescindendo dai valori cristiani - il principio, espresso da Tommaso d’Aquino, dell’armonia tra ragione e fede e pertanto tra Stato e Chiesa.
Secondo tale principio tutte queste dimensioni sono autonome, purché ragione e Stato non siano in contrasto con la fede e la Chiesa. Una precisazione quest’ultima che, certo, distrugge la conclamata autonomia della ragione e dello Stato, ma che si presenta in un contesto che consente di mascherare dignitosamente questa distruzione.
Tempo fa, l’allora cardinale Ratzinger sostenne la tesi non tomistica che la ragione non può con i soli propri mezzi dimostrare l’esistenza di Dio. Una tesi che non mascherava adeguatamente la convinzione che uno Stato e una ragione che vogliano essere autonomi rispetto al cristianesimo sono un fallimento. È sintomatico che proprio in questi giorni il Pontefice abbia invece di nuovo additato la concezione tomistica come la vera soluzione del problema del rapporto tra fede e ragione, tra Chiesa e Stato. È più adatta a mascherare la tesi che ogni voce del mondo debba adeguarsi a quella della Chiesa.
lacrime di coccodrillo: cattolici e depressione
ricevuto da Franco Pantalei
Repubblica 28.11.05
L'Associazione dei docenti cattolici lancia l'allarme: "Poche ancora le diagnosi corrette". Anna Oliverio Ferraris: "Aiutiamoli a non sentirsi inadeguati"
Allarme depressione tra i giovani: "800mila, e in costante aumento"
di Tullia Fabiani
Che stress. Che ansia. Che depressione. I ragazzi usano spesso certe esclamazioni, in molti casi come un intercalare, in altri come reale espressione di malessere. Anche se il "male di vivere" che può colpire gli adolescenti non sempre è dichiarato a voce alta. Tanto da passare inosservato. In Italia sono almeno 800 mila i giovani depressi: manifestano intenzioni di suicidio e soffrono di disturbi della personalità, di tipo ansioso o maniaco-depressivo. E il fenomeno sembra essere in aumento. A lanciare l'allarme è l'Associazione dei docenti cattolici, preoccupata per gli effetti che le pressioni sociali o i problemi familiari possono provocare sui ragazzi. "Gli ultimi dati forniti dagli istituti di psichiatria - spiega il professor Alberto Giannino, presidente dell'Associazione - indicano un forte aumento della depressione fra i giovani: l'8% dei giovani soffre di nevrosi d'ansia e il 5% di depressioni gravemente limitanti. Inoltre per sette ragazzi su cento, che hanno oggi fra i 18 e i 24 anni, la malattia è cominciata prima della maggiore età". Lo stress da competizione, i ritmi di crescita accelerati, la solitudine, gli ambienti relazionali più complessi, le minori occasioni di gioco: sono tutti sintomi che intaccano la vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti e che, secondo i docenti, finiscono per avere pesanti ripercussioni sulla loro salute mentale.
"Questa sofferenza - commenta Giannino - non sempre è colta dalla famiglia, anzi ci risulta che spesso venga nascosta e non curata per vergogna o pregiudizio. Anche per questo probabilmente sono ancora pochi i casi che vengono diagnosticati in modo corretto e ancora meno quelli trattati correttamente. Dal manifestarsi dell'ansia alla cura del giovane sofferente passa molto, troppo tempo. In media da nove mesi a cinque anni, con un 30% di pazienti che non riceve cure adeguate e un 40% che non assume alcuna terapia". E ciò non fa che aggravare la malattia.
Del resto per i genitori come per i docenti è difficile fare una diagnosi chiara e precoce perché i sintomi di una depressione adolescenziale sono atipici o vengono facilmente mascherati da problemi fisici o da altre condizioni in apparenza completamente estranee a questo tipo di patologia. Ad esempio i disordini alimentari (anoressia e bulimia), il desiderio di dormire continuamente, l'insonnia, i dolori cronici, le cefalee e i disturbi gastro-intestinali possono nascondere una causa più profonda. Come pure l'abuso d'alcol e di droghe leggere. O i problemi di concentrazione e l'iperattività. Ma in particolare nella diagnosi sembra fondamentale la giusta valutazione degli umori. "Uno dei motivi per cui non si riconosce la depressione - precisa il professor Mario Di Pietro psicoterapeuta e autore di numerose ricerche sulla prevenzione del disagio giovanile - è perché si associa il problema a un umore triste (presente negli adulti) mentre nei ragazzi il malessere si manifesta soprattutto con un umore collerico e irritabile e il forte calo di interesse per attività che prima li coinvolgevano".
I comportamenti anomali, l'ostilità, l'aggressività possono dunque essere avvisaglie da non sottovalutare e da prevenire, secondo Di Pietro, con screening scolastici e programmi di educazione socio-affettiva; necessari anche per distinguere i casi di depressione, da altri particolari stati d'animo pure fisiologici negli adolescenti. Ed evitare eccessi di allarmismo. "In generale c'è un abbassamento della soglia dello stress negli adolescenti di oggi, dovuto probabilmente alle troppe ore passate davanti alla tv - commenta la professoressa Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell'età evolutiva -. I ragazzi sono bersagliati da messaggi che li condizionano e li spingono al consumo e alla percezione di nuovi bisogni. Ci si sente inadeguati se non si è uguali al modello rappresentato".
Che possono fare allora la famiglia e la scuola? "Dovrebbero rendere i ragazzi più consapevoli della realtà di questi due mondi e della loro differenza - risponde la Ferraris - aiutarli a separare la vita reale da quella virtuale della tv con i suoi personaggi". Ma la prevenzione passa anche attraverso l'attivazione di una rete complessiva che riguardi le strutture sociali e quelle propriamente scolastiche. "In ogni scuola - ricorda Giannino - c'è una Commissione Salute e una nuova figura di docente della Funzione strumentale per la salute. Ed è importante che queste realtà lavorino per attivare tutti gli strumenti di prevenzione e cura della patologia depressiva. Serve perciò una maggiore collaborazione con le Asl e con lo sportello psicologico". Perché in questi posti, quando serve, i ragazzi trovino l'aiuto di cui hanno bisogno.
aborto
l'Unità 29.11.05
Il padre della Ru486: «Io e Ratzinger»
Sonia Renzini
Sostiene l'efficacia della Ru486 e la legittimità del suo uso. Il padre della pillola abortiva e membro dell'Accademia delle scienze di Francia Etienne Baulieu, ieri a Pisa al forum organizzato dall'Università, dall'azienda ospedaliera, dalla Asl 5 e dalla Regione Toscana, difende la scelta di milioni di donne che in tutto il mondo usano il farmaco. Negli Stati Uniti, in Cina, in Israele e in Europa. Con l'eccezione dell'Italia dove il suo uso ha riportato il dibattito sull'aborto indietro di 50 anni, riesumando toni e anatemi da Santa Inquisizione. «Le controversie sulla pillola hanno influito in modo immorale sul suo utilizzo in Italia - dice - ci sono milioni di donne che se ne servono e l'esperienza è molto positiva ovunque, l'uso del farmaco non cambia la condotta morale delle donne». Non la pensa così la Chiesa cattolica che molto prima delle cronache degli ultimi mesi spiegò a Baulieu la sua posizione. Papa Benedetto XVI era ancora il cardinale Ratzinger e la pillola abortiva non era diventata un caso nazionale. «Sono più di 15 anni che parliamo con il Vaticano della Ru486 - ricorda Baulieu- ma il dialogo non ha ancora fatto passi avanti perché dalla Santa Sede c'è sempre stato detto che la vita va salvaguardata fin dal primo istante». Ma alla morale cattolica il professor Baulieu oppone la morale dei medici: «I medici sono tenuti a far soffrire i pazienti il meno possibile e non è morale che si impedisca l'utilizzo dei farmaci che migliorano la salute della donna». E le morti sospette negli Stati Uniti? «Tutto è dovuto a un dosaggio insufficiente di Ru486 che è stato compensato con prostaglandine per via vaginale, cosa che non è mai stata fatta in Europa». Eppure l'Italia è l'unico paese europeo che non può disporre del prodotto. «Sono stupito che una nazione come l'Italia, con una scuola di medicina così eccellente, sia l'unico paese in Europa a non disporre del prodotto». Una circostanza che per il presidente dell'associazione radicale Libera Pisa Marco Cecchi la dice lunga sull'influenza della Chiesa nel nostro paese: «I motivi della mancata registrazione del farmaco non hanno nulla a che vedere con i rischi presunti per la salute della donna, ma piuttosto con le pressioni della Chiesa cattolica». Qualcosa potrebbe cambiare. La Excelgin fa sapere che intende registrare il farmaco in Italia. Fino ad allora la strada possibile per acquisire il farmaco rimane quella adottata dalla Asl 5 di Pisa per l'ospedale Lotti di Pontedera dove negli ultimi 20 giorni sono arrivate cento telefonate per informazioni sulla Ru486. E da dove sono partite 25 richieste nominali di acquisizione del farmaco e sono stati eseguiti 9 interventi farmacologici. 4 non sono avvenuti per decorrenza dei termini e 1 per rinuncia. Le telefonate per avere informazioni invece incalzano a ritmo frenetico.
«la verità vi prego sull'amore»...
Il Messaggero 29.11.05
Le neutrofine accendono la passione, che presto si esaurisce
L’amore? Dura un anno
di Alberto Oliverio
SULL’amore sono stati versati fiumi d'inchiostro, ne hanno parlato poeti e filosofi ma ora l'ultima parola proviene dai neuroscienziati che, più prosaicamente, hanno voluto guardare all'interno del cervello degli innamorati. E' quanto ha fatto l'équipe di Pierluigi Politi all'Università di Pavia che ha studiato la “chimica cerebrale” dell'amore, o almeno delle prime fasi dell'innamoramento, quando ci si sente presi come non mai dalla passione e si prova una specie di turbinio che investe cuore e psiche. Questo “turbinio”, secondo i ricercatori di Pavia, si rispecchia nella produzione di alcune molecole, le neurotrofine, tra cui il Nerve Growth Factor scoperto da Rita Levi Montalcini. Queste molecole sono una spia importante delle alterazioni cui va incontro il cervello di un innamorato.
Intendiamoci, che l'amore si traducesse in alterazioni del sistema nervoso lo si sapeva da tempo. Ci rendiamo conto di essere innamorati, soprattutto quando siamo in giovane età, in quanto il nostro sistema nervoso vegetativo, il cui controllo sfugge alla nostra volontà, si attiva e comunica al corpo che la sua mente è in preda alla passione: così il cuore batte più velocemente, il respiro cambia ritmo, l'umore si modifica e la parola si fa esitante, al punto che secondo William Shakespeare «il vero amore non sa parlare». D'altronde, se la fisiologia del nostro corpo non fosse alterata dall'amore, questa passione sarebbe ben più lieve ed eterea, un “fatto di testa” meno coinvolgente e totalizzante. Da poco tempo sappiamo anche che il fuoco della passione amorosa trova un suo combustibile in un mediatore nervoso, la dopamina, che contribuisce, insieme agli ormoni, a stimolare il desiderio e ad avvertirci che questo è stato soddisfatto: quando ovviamente si avvera questa eventualità, quando la dimensione eterea dell'amore trapassa in quella più concreta del sesso. E sappiamo anche che, quando si fa sesso, si verificano altre alterazioni della chimica cerebrale, ad esempio viene liberata l'ossitocina, un ormone che favorisce l'attaccamento con un'altra persona: se vogliamo, l'ossitocina è una piccola trappola per tramutare la sessualità in qualcosa di più duraturo, in un rapporto affettivo.
Ma quanto dura l'amore? Se lo chiede in una sua ben nota canzone Lucio Dalla ma se lo sono anche chiesti, forse più prosaicamente, i ricercatori di Pavia. La loro risposta è che se le neurotrofine sono un indicatore di una passione amorosa recente, la loro alterazione è di breve durata: poco più o poco meno di un anno quando la chimica cerebrale è simile a quella delle coppie ormai stabili e tanto peggio! dei single. Dunque il turbinio dell'amore romantico è passeggero: probabilmente vorremmo che la nostra passione durasse più a lungo, ma alle neurotrofine non si comanda...
solo una questione di tossicologia...
Corriere della Sera 29.11.05
Van Gogh, il giallo della malattia
Adriana Bazzi
Com’è bello il giallo, scriveva Vincent Van Gogh verso il 1880. Ad Arles la sua camera era completamente dipinta di giallo. E negli ultimi quadri, come «La sedia con pipa», predominava questo colore. La sua non era una semplice predilezione: il celebre pittore olandese «vedeva giallo» perché era intossicato dal liquore d’assenzio. E dalla digitale, un farmaco che assumeva per curare l’epilessia. Medicine, droghe, malattie hanno sempre condizionato la creatività degli artisti e oggi gli strumenti della chimica di laboratorio e della scienza medica permettono di capire meglio questo complesso rapporto. L’assenzio contiene un composto chimico, chiamato tujone, della famiglia dei terpeni, che in quantità eccessive è tossico per il sistema nervoso e provoca xantopsia, appunto la visione gialla degli oggetti bianchi e violetta di quelli scuri. A questo si aggiungeva l’inalazione di vapori di canfora (un altro terpene) che l’artista teneva nel suo cuscino convinto che lo aiutasse a vincere l’insonnia. Oggi i segreti dell’assenzio sono stati svelati dalla biochimica: il tujone blocca un recettore cerebrale per una sostanza conosciuta come acido gamma-aminobutirrico A e il risultato è un’anomala attivazione del cervello. La tossicità della digitale, invece, si manifesta direttamente sulla retina dove danneggia un enzima indispensabile per il funzionamento dei bastoncelli, le cellule retiniche deputate alla visione dei colori. Van Gogh è uno dei tanti nomi di una lista di artisti compilata da Paul Wolfe, direttore del Dipartimento di patologia e di medicina di laboratorio all’Università della California di San Diego, e appena pubblicata su Archives of pathology. Benvenuto Cellini, per esempio, uno dei più grandi scultori di tutti i tempi, aveva la sifilide, ma rifiutava di curarsi con il mercurio perché lo riteneva tossico. Un giorno stette malissimo, ma si riprese e miracolosamente la sua sifilide migliorò. Alcuni malfattori avevano tentato di ucciderlo aggiungendo mercurio alla salsa di un’insalata. Oggi l’avvelenamento sarebbe stato scoperto grazie all’identificazione del metallo nelle urine con la spettrometria. Ma Cellini aveva già capito tutto: la famosissima scultura di bronzo «Perseo con la testa di Medusa» poggia su un piedestallo dove è raffigurato Mercurio accanto alla Venere dalle molte mammelle, dea dell’amore e della bellezza, ma anche delle malattie veneree. Così Cellini ha voluto rappresentare la causa e la cura della sua malattia.
Anche Michelangelo proiettava i molti disturbi che lo affliggevano nelle sue opere. Soffriva di depressione o meglio di sindrome maniaco-depressiva e il volto di Jeremiah, una delle oltre quattrocento figure che affrescano la volta della Cappella Sistina, è il ritratto della malinconia. L’epidemiologia e la genetica ci dicono oggi che la sindrome maniaco-depressiva e la creatività sono correlate tant’è vero che tendono a manifestarsi nella stessa famiglia e la farmacologia ha trovato il farmaco che a Michelangelo mancava per curare la sua malattia: il carbonato di litio. La moderna chimica di laboratorio avrebbe anche scoperto che la gotta di cui soffriva Michelangelo era provocata da un’intossicazione da piombo. Ossessionato dal suo lavoro, l’artista si alimentava per giorni con solo pane e vino. Ma il vino a quell’epoca era conservato in contenitori di terracotta rivestiti di piombo e gli acidi della bevanda, come l’acido tartarico, sono ottimi solventi per questo metallo. Quest’ultimo è tossico per il rene e inibisce l’eliminazione di acido urico che aumenta così nel sangue e si deposita nelle articolazioni provocando la gotta. Il famosissimo «L’urlo» del pittore norvegese Edvard Munch potrebbe sì essere stato ispirato dagli effetti di un’esplosione vulcanica nell’isola di Krakatoa, proiettati nel cielo della Norvegia, ma potrebbe essere interpretato diversamente. Secondo Wolf è la rappresentazione dello stato psicotico del pittore o forse della sorella Laura che soffriva di schizofrenia. La psichiatria moderna ha trovato che molti disturbi psichiatrici hanno radici genetiche che spiegano il perché possono colpire membri di una stessa famiglia. Il compositore Louis Hector Berlioz fumava oppio per stimolare la creatività, ma anche per alleviare i suoi frequenti mal di denti. E la sua sinfonia più famosa, «La Sinfonia fantastica», rimanda alle esperienze di un giovane musicista, presumibilmente l’autore, sopravvissuto a un’overdose di oppio. O secondo un’altra ipotesi, deciso a uccidersi con questa droga.
staminali
Tempo Medico 29.11.05
Il modello asiatico per la ricerca
Nasce a Seul una fondazione per le cellule staminali
di Donatella Poretti - Tempo Medico n. 803
Il 19 ottobre 2005 è stata battezzata a Seul la Fondazione mondiale per le cellule staminali. Fornirà un servizio di clonazione su misura per il paziente, creando coltivazioni cellulari embrionali da utilizzare per la ricerca e per le future terapie. In particolare, la Banca mondiale delle staminali rappresenterà il cuore di un consorzio che include alcuni tra i principali centri attivi del settore, tra cui strutture negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
I laboratori avranno la capacità di generare fino a 100 linee cellulari all'anno, ma le richieste hanno da subito sommerso il centro e mandato in tilt il sito internet (www.worldstemcellhub.org). "Abbiamo già ricevuto 9.500 richieste, al di là di ogni nostra capacità" ha detto il portavoce della Fondazione Lim Jong-Pil. Per il momento saranno presi in considerazione solo casi di trattamento del morbo di Parkinson e delle lesioni della colonna vertebrale.
La Corea del Sud ha destinato alla Fondazione un finanziamento pubblico di "soli" 24 milioni di euro. Poca cosa se paragonati ai 3 miliardi di dollari della California, ma con la differenza in quest'ultimo caso che i fondi potranno essere distribuiti e utilizzati solo dopo aver superato una serie di ostacoli e ricorsi legali frapposti da chi si oppone a queste ricerche.
Un modello, quello asiatico, che si muove con tempi velocissimi. Nel febbraio 2004 Hwang Woo-Suk, il professore dell'Università nazionale di Seul che sarà il direttore della Fondazione, annunciò la prima clonazione terapeutica e a un anno di distanza la Corea aveva una legge che regolamentava gli esperimenti. La Gran Bretagna ha dovuto attendere tre anni dalla legge perché fosse concessa la prima autorizzazione all'International Centre for Life di Newcastle. Gli Stati Uniti, con le limitazioni dei finanziamenti federali, sono rallentati da veti politici e freni economici e restano alla finestra a guardare come l'area della biotecnologia venga dominata dall'Asia. Da Singapore, che dà vita a Biopolis, luogo ideale per la ricerca, alla Cina che avanza in maniera poco appariscente, alla Corea del Sud che apre i propri laboratori agli altri ricercatori, investe politicamente e si schiera per la scienza.
Bertolucci
Panorama 28.11.05
Bertolucci: dopo il '68 narro dei tupamaros
di Manuela Grassi
Il suo prossimo film racconterà l'assalto dei guerriglieri peruviani all'ambasciata giapponese nel '96. Il grande regista parla di periferie parigine, intellettuali, poesia e psicoanalisi. E di cinema italiano: quello di Crialese, Garrone, Sorrentino, Moretti...
Bernardo Bertolucci, regista di film molto amati e qualche volta molto odiati, è cresciuto respirando poesia. I versi del padre Attilio gli restituivano rivestito di sogno il microcosmo in cui viveva: la gramigna che bruciava nei campi, la nebbia fra le gaggie, i ragazzi smemorati intorno a un fuoco, le ginestre «grame e splendenti» sulle pendici dell'Appennino. «Per non far trascolorare quel mondo, per fermare la sparizione di quei valori», il 27 novembre a Parma, città d'origine della famiglia, verrà consegnato il premio internazionale di poesia intitolato al padre.
Nella sua silenziosa casa romana Bernardo si muove impugnando due lunghi e sottili bastoni. Gli servono per camminare dopo una faticosa riabilitazione: «Sono molto in voga tra gli anglosassoni perché invitano a una corretta postura. La chiamano nordic walking» sorride. La sua fama internazionale non ha soffocato le radici parmensi, amate, rifiutate e di nuovo apprezzate, quelle di cui la sua vena si alimenta per raccontare il Novecento emiliano ma anche L'ultimo imperatore di Cina, i sognatori sessantottardi di Parigi, o i tupamaros del prossimo film.
Dopo i ragazzi del '68 i tupamaros?
La settimana scorsa ho finito la prima versione della sceneggiatura. È tratto da un romanzo americano che si intitola Belcanto, di Ann Patchett. In Usa è stato un grande successo, più di 1 milione di copie (in Italia è edito da Neri Pozza, ndr). Come sempre quando un mio film è tratto da un libro c'è una grande libertà di reinterpretare. Insomma, di ritrovare l'occasione, come fosse la prima volta.
Che storia racconta?
La storia di Belcanto è ispirata a un fatto di cronaca. Anni fa la residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima venne invasa dai tupamaros durante una grande festa con ospiti importanti, musica, abiti da sera, smoking. I guerriglieri cercavano il presidente Alberto Fujimori, che non c'era, e rimasero bloccati con una cinquantina di ostaggi per più di tre mesi. È interessante, nel romanzo, quello che accade tra gli ostaggi e i rapitori, dopo un po' non si distinguono più gli uni dagli altri. L'atmosfera ricorda un po' L'angelo sterminatore di Luis Buñuel. Alla fine le forze speciali fecero irruzione e uccisero in blocco il commando.
Lei ha detto che il cinema parla sempre del presente...
Questo film parlerà della differenza che c'è tra quello che accade oggi e ciò che è accaduto pochissimo tempo fa. L'episodio a cui mi ispiro avvenne tra la fine del 1996 e l'aprile del 1997, eppure c'è una distanza enorme. Penso che i tupamaros fossero più guerriglieri che terroristi. Ma non voglio dire di più.
C'è una grande differenza anche tra la rivolta degli anni Sessanta, Settanta e quella esplosa oggi nella banlieue francese.
Quello del 1968 era un movimento borghese e piccolo borghese, con una testa, un'avanguardia che prendeva decisioni, mentre questo movimento mi dà una sensazione di pura spontaneità, non esiste un'élite che guida i ragazzi della banlieue. Sa qual è l'etimologia di banlieue? Lieu, luogo; banni, bandito, escluso. I «banlieusard» vengono da un luogo per definizione stessa emarginato. Quello che li fa infuriare è questa finta identità francese: sono nati in Francia, hanno passaporto francese, hanno studiato lì e alla fine non sono veramente francesi perché non trovano lavoro. Per loro la nazionalità è una pura illusione.
Non le piacerebbe come soggetto?
È un film che hanno fatto, e continuano a fare, i francesi. L'odio di Mathieu Kassovitz era qualcosa di abbastanza profetico, come a volte il cinema sa essere. Le scene di caccia in La regle du jeu di Jean Renoir, un film del 1939, erano una profezia sulla tragedia che stava per esplodere in Europa. Il cinema, proprio per il suo carattere visionario, ha questa capacità di guardare avanti.
Dei cineasti italiani lei parla poco. Si riferisce a volte con affetto a Marco Bellocchio, divergenze a parte, ma non cita altri. E Nanni Moretti? E Marco Tullio Giordana?
Non è così, probabilmente sono ormai così defilato, proprio perché non sopportavo più questo soffoco, che non mi capita di entrare nel merito. Oggi c'è un cinema italiano che fa finalmente respirare: Respiro, per l'appunto, di Emanuele Crialese, L'imbalsamatore di Matteo Garrone, e poi Paolo Sorrentino, Pappi Corsicato. Qualche Giordana... Moretti è un caso a sé, ha fatto un suo percorso molto speciale.
A quale «soffoco» allude?
Gli anni della corruzione hanno innescato un processo di soffocamento, è stato il momento in cui l'incubo di Pier Paolo Pasolini si è materializzato.
Il 27 novembre, a Parma, il video dello spettacolo diretto da suo fratello Giuseppe e recitato da Fabrizio Gifuni «Na specie de cadavere lunghissimo» ricorderà Pier Paolo Pasolini. Che cosa l'ha colpita di più delle commemorazioni a trent'anni dalla morte?
La cosa che mi colpisce di più, dal giorno della sua morte, il 2 novembre 1975, è l'incredibile presenza della sua assenza: c'è un buco, una ferita in nessun modo rimarginata. Nella musica generale manca quella voce. Negli ultimi tempi c'è stata in molti la tentazione di buttare via il Pasolini poeta e di salvare il regista. Operazione miserella. Il fatto che fosse un poeta civile, attento alle ideologie politiche, non vuol dire che non è stato un grande poeta. Dove ritrovare quella febbrile intensità? I suoi film sono bellissimi, le odi straordinarie. Nel periodo in cui girava Salò, collaborava al Corriere della sera, ha avuto una visione implacabile di quello che sarebbe accaduto nel nostro Paese.
Qualche giovane si chiede se Pasolini oggi avrebbe capito i leghisti...
Avrebbe parlato di sottocultura, un vocabolo che usava spesso.
Lei esordì come poeta, poi passò al cinema come assistente di Pasolini in «Accattone». Che cosa le ha insegnato?
Lasciai la poesia perché mio padre era più bravo di me. Per un certo momento non sopportai più neppure la parola poetico, che lui usava moltissimo. Poi arrivò Pasolini: anche lui diceva sempre «poetico/a», era un modo per tagliare corto, se una cosa era poetica, voleva dire che andava bene. Allora io ero molto preso dalla Nouvelle vague e da Jean-Luc Godard, quello era il cinema che sognavo di fare un giorno, di sperimentazione, di rischio. Con Pier Paolo è stato come vedere la nascita del cinema, come essere accanto a David Griffith, un primo film che sentivo essere già un classico.
Il suo cinema è molto vicino alla psicoanalisi.
A Londra la British Psychoanalitic Society mi ha appena dato una honorary fellowship. Non è mai stata conferita a un non psicoanalista. La motivazione era che i miei film sono molto vicini alla lezione freudiana. Li ho fatti ridere dicendo: «Credevo mi aveste dato questa onorificenza in quanto unico sopravvissuto di quella che Freud chiamava analisi interminabile». Quella che dura tutta la vita. Io infatti ho cominciato a 28 anni e a 64 non ho ancora smesso. In Italia l'anno prossimo mi daranno il premio Cesare Musatti, il patriarca.
C'è anche Woody Allen.
Sì, ma lui ha il dente avvelenato, gli analisti li tratta male.
Lei ha una moglie inglese, Clare Peploe, e vive spesso a Londra.
Londra è una città con una offerta culturale che è quasi uno spreco. Ma negli ultimi tempi Roma ha cominciato a scuotersi dal torpore millenario.
Parla bene di Walter Veltroni perché da ragazzo fu l'unico a difendere «Novecento»?
Non era solo, c'era un gruppetto. E c'erano altri che difesero il povero Novecento, massacrato dai vecchi comunisti, condannato senza possibilità di redenzione, da Gian Carlo Pajetta, Giorgio Amendola, perché veniva a rompere le scatole in un momento in cui si parlava di compromesso storico, perché aveva un'aria in qualche modo estremistica. E poi Veltroni tra tutti i politici è quello che si interessa più di cinema, ne scrive addirittura.
Che cos'era Parma per suo padre?
C'era un microcosmo di cui era il monarca assoluto, fatto da borghi come Baccanelli, Casarola e da Parma, con qualche blitz fuori, a Roma, considerata luogo d'esilio. Aveva creato intorno a Parma, che chiamava «la petite capitale d'autrefois», a queste case, un'aura molto speciale. Aveva recuperato tutto quello che c'è di straordinario nel passato della nostra città, dagli scalpellini del Battistero, tra i quali l'Antelami, ai sublimi Correggio e Parmigianino, per poi arrivare all'impronta francese di Maria Luigia, una traccia questa, rimasta anche nel dialetto. Era così forte il suo attaccamento a quei luoghi, che quando mi sono trovato a passare di là meno frequentemente, ho avuto la sensazione che fossero frutto di un suo sogno, che stava un poco svanendo. Perciò quando il critico Paolo Lagazzi ha proposto a me e Giuseppe di creare una fondazione e un premio, ci è parsa un'ottima idea.
Ha senso oggi la condizione dell'intellettuale?
L'intellettuale è spesso contro tutto per mestiere, ma è anche quello che meglio capisce che cosa vuol dire la conservazione in senso positivo, la conservazione della memoria.
Lei è snob?
La parola mi fa subito venire in mente una cosa ridicola «La signorina snob», grande invenzione di Franca Valeri... Esistono persone che sono più vicine a espressioni di grande sofisticazione, sottigliezza. Io non mi sento affatto snob. Mi sento che ho un bisogno terribile di fare un film, sapere che ci sono ancora.
Le Scienze, 28.11.2005
Le conseguenze biologiche di un'infanzia trascurata
L'isolamento sociale può influenzare direttamente la neurobiologia di un bambino
L'assenza di una figura affettiva che si prenda cura del bambino nei primissimi anni di vita può influenzare la normale attività di due ormoni - la vasopressina e l'ossitocina - che svolgono un ruolo essenziale nella capacità di formare legami sociali sani e nell'intimità emozionale.
La scoperta, annunciata da psicologi dell'Università del Wisconsin di Madison in un articolo pubblicato online sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", dimostra per la prima volta che trascurare e isolare socialmente un bambino può influire direttamente sulla sua neurobiologia, in modo da influenzarne potenzialmente il comportamento emotivo.
"La questione di come i bambini regolano le emozioni e formano i legami sociali - spiega lo psicologo Seth Pollack, uno degli autori dello studio - non è mai stata affrontata in maniera esauriente dalle neuroscienze. Ma il nostro studio rivela un'associazione fra i comportamenti emozionali complessi e lo sviluppo del cervello". "Abbiamo studiato in maniera più meccanicistica - aggiunge Alison Wismer Fries, l'autore principale - un aspetto dello sviluppo infantile che finora era stato analizzato soltanto in maniera descrittiva".
La ricerca giunge in un momento in cui le famiglie dei paesi sviluppati stanno ricorrendo sempre di più alle adozioni internazionali. Ma gli orfanotrofi nelle nazioni in via di sviluppo sono spesso affollati, e molti bambini adottati hanno trascorso i primi anni di vita in questi istituti senza il contatto emotivo e fisico così fondamentale per lo sviluppo sociale.
Fries e colleghi hanno lavorato con 18 bambini di quattro anni che avevano vissuto in orfanotrofi in Russia e in Romania prima di essere adottati da famiglie dell'area di Milwaukee, negli Stati Uniti. Nonostante adesso i bambini vivano in case stabili - alcuni da più di tre anni - essi manifestano ancora alcuni dei comportamenti che i ricercatori hanno associato con la trascuratezza nei primi anni di vita. Lo studio si è basato su una tecnica sviluppata dall'endocrinologo Toni Ziegler per determinare i livelli di vasopressina e ossitocina attraverso l'analisi delle urine. La procedura è meno invasiva degli attuali metodi di analisi del sangue o del fluido cerebrospinale, e potrebbe un giorno trovare applicazioni in diverse aree della ricerca sui bambini, per esempio nel campo dell'autismo.
I risultati finali mostrano che il contatto fisico con le madri fa salire i livelli di ossitocina nei bambini vissuti da sempre in famiglia, mentre questi livelli rimangono gli stessi nei bambini con un'infanzia trascurata. Questo potrebbe spiegare alcune delle difficoltà che essi incontrano nel formare relazioni stabili.
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Liberazione, 27.11.05
Di che parliamo? Dell’abolizione dell’ordine presente delle cose...
Rina Gagliardi
Potrebbe finalmente nascere, a tempi brevi, un nuovo soggetto politico, che raccolga il bisogno diffuso di sinistra alternativa? Una forza capace di coniugare la pratica della trasformazione sociale (dell’anticapitalismo) con l’innovazione della cultura politica? Questa è la proposta che ieri Fausto Bertinotti ha avanzato al Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista e che, con ragionevole certezza, sarà oggi fatta propria dallo stesso Cpn. Un fatto nuovo, e politicamente rilevante, ben oltre la scadenza delle prossime elezioni. Un fatto che potrebbe rimettere in moto gli equilibri attuali della sinistra italiana - e non solo.
Sia chiaro. Non siamo ad una proposta di ordinaria routine, o alla necessaria, tante volte auspicata, “accelerazione di volontà politica”. Siamo, come ha detto con chiarezza il segretario del Prc, alla fase conclusiva di un percorso incominciato anni fa: siamo oltre, cioè, “il tempo della ricerca e della sperimentazione”. Entro una stagione definita – la primavera del prossimo anno - la nuova soggettività politica dovrà prender forma concreta e avviare l’“avventura della nascita”. Rifondazione comunista ne sarà parte co-stitutiva e co-protagonista, insieme a coloro che ne vorranno far parte, nell’arcipelago attuale della sinistra critica, dei movimenti, del sindacalismo di lotta, dell’intellettualità singola od organizzata. A nessuno si chiede come condizione preventiva il proprio scioglimento, a tutti si domanda invece l’impegno ad andare oltre quella pur essenziale convergenza programmaticache, finora, ha caratterizzato tante iniziative e tante battaglie della sinistra alternativa. Insomma, nascere è difficile, ma è ormai necessario - proprio per crescere, trasformarsi, trasformare.
Ma quali sono le caratteristiche peculiari, le grandi discriminanti, della forza alla quale si propone di dar vita? Il rifiuto della guerra e la scelta strategica della pace, certo. L’antiliberismo e l’anticapitalismo, cioè il superamento della logica dell’impresa e del mercato, certo. Ma, come si è potuto constatare nel corso di questi anni, e di tante pregevoli esperienze, questi pur essenziali riferimenti non bastano nè a far scattare un processo politico concreto nè a consolidarlo. Serve, allora, una novità di orizzonte - che è l’Europa, il teatro reale, oggi, anzi il teatro minimo della politica. E serve, ancora, un’intenzione comune - che è un’idea, un bisogno, di nuova politica, che ha al suo centro la partecipazione, l’autodeterminazione soggettiva, la sfida alla logica “mortifera” dei Palazzi autoreferenziali e della logica riproduttiva dei ceti dirigenti. Senza l’assunzione di questa sfida, in buona sostanza, la sinistra alternativa rischia di rimanere o un’esigenza astratta, o un’istanza politicista (che poi non a caso partorisce solo ipotesi di cartelli elettorali, mischiati ad una buona dose di cinismo e perfino di opportunismo).
Da qui, l’ipotesi di costruire una “sezione italiana” del Partito della sinistra europea, che in un anno e mezzo ha raccolto speranze e successi crescenti - non solo in Francia e in Germania, ma in tutto il vecchio continente, con un pluralismo mai banale, se così si può dire, che va da forze storiche rinnovate, come il Partito comunista francese, al britannico “Respect”, appena arrivato.
Da qui, l’assunzione dell’esperienza delle primarie, il solo vero “fatto nuovo” che l’opposizione sociale e politica abbia saputo (o dovuto) mettere in atto - per cominciare a spezzare, in positivo, le gabbie oligarchiche e restituire al popolo il diritto di dire la sua. Insomma. Nascere è necessario, ma per nascere bisogna proprio essere nuovi - ci si perdoni la tautologia, che tale non è. E’ pur vero che si può anche nascere ripetendo tutti gli errori del passato, tutti i vizi peggiori del ’900, tutte le tentazioni della “politica” professionale: in questo caso, però, il destino pressoché certo è quello di diventare una forza di complemento - marginale, testimoniale, inessenziale. Ma la sinistra alternativa - nella fase storica in cui il modo di produzione capitalistico incontra i suoi limiti insormontabili e il socialismo, la marxiana “abolizione dell’ordine presente delle cose” si ripropone nella sua piena attualità - merita ben altra sorte. Ben altra nascita.
Liberazione, 27.11.05
Il presidente Cei conclude un congresso sulla fertilità secondo la morale cattolica.
Ad organizzare l’incontro, inclusa la sessione “pastorale”, anche due università pubbliche
Il “metodo naturale” di Ruini, niente Pacs
Fulvio Fania
Ruini contro il riconoscimento delle coppie di fatto, la fecondazione assistita, la contraccezione e la clonazione; Ruini che assieme ad un «impegno pastorale» su questi argomenti, chiede «interventi sul piano politico», ricordando il discorso di Wojtyla al Parlamento italiano. E’ accaduto ieri all’Università Cattolica, nella stessa aula in cui il giorno prima aveva parlato Benedetto XVI.
E tutto nel nome dei coniugi Billings. I due anziani sposi sono ricercatori dell’università di Melbourne e hanno dedicato una vita a indagare i segni della fertilità femminile nell’arduo tentativo di far quadrare il cerchio tra il Magistero cattolico che vieta pillole, spirali e preservativi e la ragion pratica di non mettere al mondo un figlio ad ogni rapporto d’amore, pur rigorosamente coniugale. Metodo naturale, insomma, confidando in Dio prima ancora che nella scienza. Evelin e John Billings, che hanno dato il nome ad un sistema basato sull’esame empirico dei “segni” sul corpo femminile, sembrano entusiasti dell’intervento del cardinal
Ruini. John lo definisce addirittura il miglior discorso ascoltato nella sua lunga esistenza. Ma che cosa ci fanno i Billings a Roma? Hanno ricevuto una laurea honoris causa dall’Università di Tor Vergata, che non è un ateneo pontificio bensì pubblico.
Così Ruini può legittimamente osservare che l’alto riconoscimento dimostra la «rilevanza scientifica» del metodo naturale. Sebbene all’osservatore laico risulti assai difficile comprendere perché mai non sia contraccettivo far l’amore col calcolo regolatore e lo sia invece l’assunzione di un farmaco, dall’enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI (1968) in poi i teologi morali ci vedono una grande differenza. Resta il fatto che un’università pubblica ha premiato i Billings, i quali polemizzano aspramente con l’uso del preservativo anche come protezione dall’Aids. I meriti scientifici vanno comunque valutati dagli esperti. C’è però dell’altro. Il convegno internazionale concluso da Ruini “Scienza ed etica per una procreazione responsabile”, con al centro i “metodi naturali” e l’etica cattolica, è stato organizzato dall’Università del Sacro Cuore e dal Campus biomedico di Roma, creazione dell’Opus Dei, insieme a due università pubbliche - Tor Vergata e “La Sapienza” - col patrocinio dei ministeri della sanità e della ricerca. Tutto compreso, sessioni scientifiche e seduta “etico-pastorale” con l’intervento del presidente della Cei. Il cardinale ribatte i suoi chiodi: «C’è una diffusa tendenza - osserva - a depotenziare il valore dell’istituto del matrimonio assimilando ad esso altri tipi di unioni e convivenze». In questo modo, secondo il porporato, anche la vita coniugale viene declassata a semplice «convenzione». Gli rispondono a stretto giro di posta il cattolico Castagnetti e Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay. «E’ normale che la Chiesa confermi la sua linea - afferma il primo - ma la politica deve tener conto di altre forme di convivenza in cui ci sono diritti da proteggere ». Grillini aggiunge: «Norme inclusive hanno effetti positivi sulla società e nell’esperienza smentiscono Ruini, il quale prima o poi dovrà accettare l’idea di un pluralismo di forme familiari ». Il cardinale non tratta soltanto di Pacs. Polemizza con la «cosiddetta liberazione sessuale», ribadisce il rifiuto della fecondazione assistita, paventa che la clonazione riduca l’uomo a «cavia» e che l’umanità, impadronitasi della «mappatura del menoma », smarrisca quella «dell’essere umano». Su quest’ultima preoccupazione Ruini incrocia anche una parte del pensiero laico. Su questo, ad esempio, il verde Cento gli dà ragione.
Ma lo scopo principale dell’intervento ruiniano è orientare gli scienziati, un fronte meno appariscente di quello politico ma essenziale nell’offensiva culturale della Chiesa di Ratzinger. Il quale, ieri sera durante i Vespri per l’inizio d’Avvento nella basilica di San Pietro, ha usato una di quelle espressioni che fanno la gioia dei teologi. Ha detto infatti che Dio ci segue «come un padre e una madre», ha parlato cioè di «maternità» di Dio. Antica questione, tra gli altri ne trattò Wojtyla in un’udienza del gennaio 1999.
Liberazione, 27.11.05
Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista
Roma, 26 - 27 novembre 2005
La relazione di Fausto Bertinotti
Lo sciopero generale del 25 novembre ha visto un successo e una partecipazione enormi, addirittura superiore alle attese che pure erano già particolarmente ottimistiche. Il mondo del lavoro esprime una capacità di mobilitazione importante. La circostanza che questo elemento sia così scarsamente considerato, anche nella comunicazione di massa, è certamente segnale di una contraddizione tra un sentire diffuso dentro il corpo sociale profondo del Paese e parte consistente anche dell’intellettualità democratica. Fatto che è, al tempo stesso, conseguenza di un ciclo lungo e di un più breve momento. Il ciclo lungo è quello che ha lavorato, anche dentro componenti importanti delle sinistre, e che ha sostenuto l’esaurimento del conflitto di classe o la sua residualità (elemento esso stesso di una operazione culturale tesa a rendere invisibile il mondo del lavoro). Il riferimento
a breve è quello che coinvolge aree importanti dell’intellettualità progressista e componenti politiche significative dell’Unione che hanno rifiutato la centralità del conflitto di lavoro nell’opposizione al governo Berlusconi. Una opposizione che ha messo tra parentesi la questione sociale, come se quella del governo delle destre in Italia potesse essere ricondotta a patologia italiana in un contesto europeo fisiologicamente sano. Ma la questione di fondo, che la riuscita dello sciopero e delle manifestazioni mettono in evidenza, è il protagonismo del mondo del lavoro che si ripresenta con grande forza. Qui c’è l’occasione di un vero lavoro politico poiché, in questo protagonismo, si esprime una forza di mobilitazione e una disponibilità al conflitto fondamentali, specialmente in questa fase. Anche da qui, dobbiamo produrre un vero sforzo per accentuare l’impegno per la più grande riuscita dello sciopero e la manifestazione nazionale dei metalmeccanici, per il merito della loro vertenza contrattuale e per il ruolo che il sindacato dei metalmeccanici svolge dentro il conflitto sociale nel Paese. Il tema della democrazia dei lavoratori, infatti, è questione centrale, che, non a caso, assume un rilievo importante dentro il congresso della Cgil. Va riproposto con grande forza il tema della centralità del contratto nazionale di lavoro come punto di fondo del conflitto aperto con la Confindustria. Non è un caso che, da parte del padronato, venga riproposto uno scambio tra contratto e flessibilità, scambio inaccettabile in quanto, proprio la mano libera sulla flessibilità, che vuol dire fare regola dell’eccezione alle norme della contrattazione, equivarrebbe a una sorta di eutanasia del contratto nazionale.
La necessità dell’unificazione delle lotte
Insomma, il lavoro è questione centrale dell’alternativa alle destre. Una situazione, quindi, promettente dal lato della partecipazione e della capacità di mobilitazione che, però, dall’altra parte, mostra il lato della difficoltà nel versante dell’efficacia. Lavora a rendere difficile questo passaggio dalla mobilitazione all’ottenimento di risultati concreti, il carattere della crisi (la frantumazione
sociale, i processi di delocalizzazione, la generalizzazione della precarietà). Ma ci sono, evidenti, il riflesso dell’inadeguatezza delle politiche sindacali, specialmente nella ricaduta delle concrete piattaforme, e una difficoltà anche nostra a contribuire a costruire l’orizzonte per far uscire le lotte dalla separatezza. Il nostro impegno deve, quindi, vedere un salto di qualità. Innanzitutto nel sostegno alle lotte, un sostegno che deve essere non stanco e ripetitivo ma, ogni volta, reso cosciente e reindagato nella sua forza ed efficacia, per esempio nel rapporto tra le lotte e la capacità di essere incidenti sulle scelte del governo, a partire da quelle fondamentali come la legge finanziaria. Ma il punto di applicazione principale consiste nel riaprire e riannodare pazientemente circuiti di comunicazione. Un solo esempio. Nelle scuole e nelle università del Paese si sta svolgendo una stagione eccezionale di mobilitazione (gli studenti che invadono le piazze, gli insegnanti, i ricercatori e così via). Dello sciopero e della manifestazione dei metalmeccanici, della loro centralità, ho parlato in precedenza. Il fatto, però, è che queste lotte sono separate e questa è una debolezza da superare. Ecco, l’impegno di un lavoro politico: costruire ponti di relazioni tra le lotte, tessere un ordito, fare dell’inchiesta, non l’elemento di lavoro specifico di un settore di partito, ma la regola generale della nostra iniziativa. La grandi campagne sono occasioni straordinarie per costruire nessi, basti pensare, per fare un esempio, a quella contro la direttiva Bolkestein. Allo stesso modo, non solo cronologicamente, ma politicamente la manifestazione dei metalmeccanici del 2 dicembre e quella dei migranti del 3 si danno la mano. La condizione migrante esprime, infatti, una doppia sfida: sul terreno della valorizzazione del lavoro e su quella della chiusura securitaria.
Uguaglianza e democrazia
La rivolta nelle banlieues francesi non può non interrogarci a fondo sul tema della crisi sociale. Ritengo fuorviante la discussione se quella rivolta, in quelle forme, possa coinvolgere il nostro Paese. La domanda di fondo, invece è la seguente, ovvero se essa vada indagata come un caso a sé o, pur nella sua specificità, come espressione della crisi di civiltà che attraversa l’Europa. In questo senso, la discussione sull’intervento securitario, che si è acceso in alcune città del nostro Paese, mostra tutto il suo provincialismo.
Da parte nostra, un punto di applicazione deve consistere nel declinare una nuova stagione di ripresa del conflitto sociale, fondandola sulla connessione dell’idea dell’uguaglianza con quella della democrazia. Sul carattere comunitario delle lotte e delle vertenze territoriali abbiamo avviato una discussione. Questa modalità di organizzarsi delle comunità in quanto tali, l’espressione di una identità che si afferma nel vivo di una lotta, che abbiamo visto in particolare nel Sud del Paese, da Terlizzi, a Scanzano, a Melfi, si ripropone, oggi, con una forza straordinaria in Val di Susa. Questa lotta muove questioni di fondo che riguardano la politica delle infrastrutture, il complesso della logistica, il problema della salute. Ma c’è un punto che va ulteriormente sottolineato: è proprio il tema della democrazia e del rapporto tra i territori, le comunità, le scelte dei governi. Ciò che colpisce in maniera sconcertante è l’incapacità di ascolto che i poteri frappongono all’ascolto delle comunità, come se fossero elemento trascurabile della decisione. La lotta in Valle di Susa, come gli altri esempi prima ricordati, ha di fronte a sé una grande prospettiva ma anche rischi gravissimi. La sua sconfitta avrebbe conseguenze devastanti, non solo per le opere che si realizzerebbero ma per la rottura della coesione democratica che ne sarebbe conseguenza. Penso, quindi, che il nostro impegno debba continuare con grande vigore e energia ai fini di avviare canali di relazioni e il riconoscimento del diritto delle comunità locali a essere parte di una vera trattativa. Una iniziativa che serva a disarticolare il fronte favorevole all’opera anche sulla questione della necessità dell’ascolto delle popolazioni e dal punto di vista culturale. Come insegna una esperienza lunga e consolidata, che ha portato anche a interventi legislativi importanti, sul punto fondamentale della difesa della salute, il diritto della popolazione esposta a dover esprimere un parere vincolante è decisivo. Dobbiamo, quindi, vedere le motivazioni di fondo che stanno dietro a questo rifiuto pregiudiziale di un confronto con le popolazioni: sterilizzare il conflitto e marginalizzare le forze politiche, come il Prc, che se ne fanno carico.
Partire dai diritti e dai soggetti
Adeguatamente dobbiamo riconoscere la forza con la quale nuovi avversari cercano di far pesare i contenuti regressivi di un rigurgito fondamentalista. E’ questo il caso delle gerarchie vaticane che, spaventate dalla crisi prodotta dalla precarizzazione, che penetra fin dentro il vivente, prodotta dalle politiche neoliberiste, sembrano preferire il rifugio nella riproposizione di un integralismo che imponga una morale e un costume. Credo sbagliata una risposta simmetrica a questa offensiva: contrapporre l’anticlericalismo a un rinnovato clericalismo. Noi dobbiamo partire dai diritti e dai soggetti. L’intransigenza con la quale difendiamo la legge 194 trae da questo un punto di forza. Anzi, dobbiamo coniugare la difesa senza alcuna incertezza delle conquiste di civiltà degli scorsi anni, con l’estensione di nuovi diritti, dal riconoscimento dei Pacs a una serie di interventi antidiscriminatori nei confronti delle differenti scelte nella affettività e nella sessualità. Anche la discussione sulla Costituzione Europea, dopo il fallimento della Convenzione, sancita dai referendum popolari in Francia e Olanda, deve ripartire da qui: l’affermazione di nuovi diritti del lavoro, sociali e di cittadinanza.
Rilanciare l’iniziativa internazionale
Anche i punti di sofferenza internazionali, la lotta decisiva contro la guerra, non possono essere indagati secondo una ripetizione stanca di obiettivi che non colgono come la situazione vada modificandosi di fronte a noi. Ne cito due: l’Iraq e la Palestina. La guerra dimostra chiaramente il fallimento della strategia nordamericana. In Iraq cresce la forza dell’opposizione alla occupazione militare, segnalata anche dai sondaggi, da dove emerge che l’80% del popolo iracheno chiede la fine dell’occupazione militare. Negli Usa medesimi, il disagio e la critica alla guerra crescono. Ma è altrettanto evidente come la crisi non determini di per sé la fine dell’occupazione militare. Anzi, è aperto anche lo scenario opposto che prospetta un devastante ampliamento del teatro di guerra. In questo contesto, dobbiamo mettere il tema del ritiro delle truppe come elemento di vera discontinuità e come uscita dal sistema di guerra. Anche il rapporto Israele Palestina chiede di essere indagato dentro le novità che si sono prodotte. L’ispirazione di “Due Stati per Due Popoli” mantiene tutta intera la propria validità, così come è centrale il nostro sostegno ai palestinesi e alle ragioni della pace. La novità del ritiro da Gaza va posta non nelle conseguenze sul conflitto ma, invece, su quelle che investono Israele (la fine della strategia della “Grande Israele”) e la sua configurazione politica. La rottura nel Likud e le novità dentro il Labour parlano di queste ricadute che terremotano la situazione. Dentro questo nuovo quadro, dobbiamo riproporre la capacità di una forte iniziativa politica proponendo la trattativa, il negoziato come rottura del sistema di guerra. La sinistra critica, il Partito della Sinistra Europea in particolare, possono essere protagonisti di questa iniziativa. Il Partito della Sinistra Europea dimostra la sua forza e la sua capacità di rappresentare una novità importante nel panorama internazionale. Lo sguardo è sempre quello della centralità dei diritti del lavoro e delle persone e con questo spirito affrontiamo il viaggio che ci apprestiamo a compiere in Cina e che è un segno del rilievo assunto dalla Sinistra Europea. Il lavoro comune che ci ha proposto Chavez, per un incontro tra la Sinistra Europea e la sinistra latinoamericana sui temi di fondo del rifiuto della guerra e della globalizzazione neoliberista, rappresenta un punto di applicazione che riteniamo di grandissimo valore per le potenzialità che si possono esprimere ed attivare.
Il nostro programma
Il tema del rapporto tra il programma dell’Unione e il nostro programma va precisato. Il nostro programma lo possiamo ritrovare nelle elaborazioni più recenti, il programma presentato alle recenti elezioni europee e il profilo dell’impostazione che abbiamo presentato alle primarie. Proponiamo unaggiornamento di questo nostro programma, non come alternativo a quello dell’Unione ma che sia “oltre “ quello. Un “oltre” che va declinato in senso temporale (non solo un programma di legislatura ma un programma che guarda all’Italia dei prossimi 10-15 anni), un “oltre” che va declinato nel rapporto tra il programma di governo e il percorso di trasformazione, l’alternativa di società che è l’ispirazione della nostra iniziativa. Un nostro programma che vada nella direzione della costruzione del programma fondamentale. Un nostro programma nel senso, non solo di un programma di Rifondazione ma della sinistra di alternativa. Proponiamo, cioè, una precipitazione della costruzione della sinistra di alternativa, dentro il contesto della definizione del nostro programma.
Il programma dell’Unione
La discussione sul programma dell’Unione è entrata nella sua fase decisiva. I tavoli di discussione tematica stanno dando contributi, frutto di un lavoro importante. Un lavoro che le nostre compagne e i nostri compagni hanno attraversato con un impegno significativo che trova nelle acquisizioni raggiunte primi punti di vero avanzamento. Un miglioramento netto, su tanti punti generali e specifici, rispetto al dibattito pubblico in cui spesso l’Unione si dibatte. La nostra divisa, quella con la quale abbiamo affrontato questo lavoro, è stata non la caratterizzazione del Prc (non abbiamo bisogno di questo, lo faremo nel “nostro” programma come prima delineato) ma la ricerca dello spostamento a sinistra dell’asse programmatico dell’Unione. Proponiamo, dopo il seminario unitario degli inizi di dicembre, un punto di verifica seminariale dell’intero gruppo dirigente del Partito, un seminario congiunto con le realtà dell’associazionismo e dei movimenti che ci hanno chiesto questo rapporto come leva fondamentale per alimentare un rapporto vero con il Paese reale. Per questo non abbiamo intenzione di determinare elementi di centralizzazione del confronto ma di mantenerne il carattere decentrato e di coinvolgimento ampio dei soggetti. Accanto a elementi di importante avanzamento, registriamo una criticità di fondo che riguarda la politica macroeconomica e l’impianto complessivo della politica economica e sociale. Lo diciamo con grande chiarezza: la politica dei due tempi non è accettabile e non è proponibile, così come non è accettabile l’assolutizzazione del tema del risanamento e della riduzione del deficit come elemento sovraordinatore, specialmente nella prima fase del nuovo governo. Consideriamo questo, una sorta di boicottaggio dell’Unione. La prima fase del governo, infatti, deve caratterizzarsi sull’elemento della distribuzione del reddito (l’aumento delle retribuzioni reali per salari e pensioni e interventi diretti a colpire le rendite, l’evasione, la speculazione finanziaria). Anche l’intervento demolitorio delle principali norme varate dal governo Berlusconi, intervento che riproponiamo con forza, ha un senso in quanto è indirizzato lungo la linea di una acuta discontinuità sulle politiche macroeconomiche.
Una precipitazione nella costruzione della sinistra di alternativa
Il cuore della proposta politica che avanziamo, a nome della segreteria, a questo Cpn è la seguente: determinare una precipitazione nella costruzione della sinistra di alternativa. Il tempo dell’attesa e della discussione astratta è finito. Proponiamo quindi un salto: l’avvio di una fase per una prima configurazione della sinistra di alternativa attraverso una proposta compiuta in un tempo breve, concentrato e definito (due, tre mesi). Cosa non proponiamo? La federazione tra forze politiche, peggio che mai, una federazione tra forze politiche a fini elettorali, tale che, cambiando la legge elettorale, si modifica pure il carattere della proposta, come sta avvenendo per altri. Proponiamo, al contrario, di dare vita a una soggettività politica condivisa tra forze differenti, che si sono incontrate in questi anni in un comune percorso dentro i movimenti e, in questa fase recente, dentro il confronto delle primarie. Una aggregazione per la quale non è sufficiente un’intesa programmatica ma serve una cultura politica condivisa e che trova come riferimento l’irruzione dei movimenti e gli elementi di innovazione che Rifondazione ha contribuito a promuovere. Su questa base condivisa la sinistra critica può ridefinirsi in un rapporto di connessione stabile. I riferimenti per questa costruzione sono rappresentati dal Partito della Sinistra Europea e dalla straordinaria esperienza delle primarie. Sul successo del congresso di Atene della Sinistra Europea, abbiamo già parlato. Vorrei solo segnalare la crescita di consenso (basta vedere l’espansione della Linkspartei in Germania) e l’interesse che è segnalato anche dalla richiesta di nuovi ingressi (come è il caso della formazione britannica di Respect). Le primarie hanno rappresentato una vera occasione di partecipazione popolare, hanno attivato una ricchezza di esperienze il cui patrimonio non va disperso (comitati, laboratori territoriali, ecc.). Ciò che proponiamo, per dirla con una sintesi, è la costituzione di una Sezione italiana del Partito della Sinistra Europea nella quale il Partito della Rifondazione Comunista, soggettività (in quanto tali o nelle loro espressioni più rilevanti) che sono disponibili a questa esperienza, singole personalità che già hanno aderito alla Sinistra Europea o che intendano farlo, possano incontrarsi, darsi una configurazione e compiere un percorso comune che attraversi le scadenze elettorali, facendo di esse una tappa importante della costituzione e della visibilità di questa soggettività ma che sappia proiettare questo percorso oltre quelle scadenze. In questo senso, decidiamo una vera apertura delle nostre liste. Il segno dell’apertura delle liste non è per noi una novità, il punto però non è solo la consistenza di questa apertura ma il suo diverso carattere: essa non consiste nell’aggiungere agli eletti di Rifondazione una quota di indipendenti cui il Partito offre una possibilità, ma nell’essere quelle candidature espressioni delle soggettività e delle esperienze che, con Rifondazione Comunista, decidono di costituire una relazione stabile dentro il Partito della Sinistra Europea. Le elezioni politiche possono essere un momento catalizzatore di una prima fase di questo progetto che prende così una forma e una visibilità. Un confronto e una apertura che non mettano in discussione il carattere unitario dei gruppi parlamentari che andremo ad eleggere, così come il simbolo del Prc con il quale ci presenteremo al confronto elettorale.
horror!
Liberazione, 27.11.05
I troppi silenzi dietro l’aborto
Lea Melandri
Dell’aborto e delle questioni legate alla maternità - legge 194, pillola abortiva, consultori e movimento per la vita, adozione degli embrioni - parlano oggi all’impazzata le massime autorità della Chiesa, dello Stato, della medicina, della giurisprudenza, della cultura e dell’informazione. Tacciono le dirette interessate, le donne che si sono già trovate o che potrebbero trovarsi nella condizione di dover rinunciare a una maternità e quelle che, pur non avendo mai abortito o non avendo più questo problema, ritengono comunque di dover sostenere la scelta delle proprie simili. Più le voci si alzano, da destra e da sinistra, in nome di Dio o della laicità calpestata, per rispetto di una “natura” immodificabile o della libertà delle donne di disporre del proprio corpo, più si allarga la zona d’ombra e di silenzio in cui va a cadere un’esperienza di vita e di relazione tra gli esseri umani che non a caso suscita un interesse così esteso, un così impellente bisogno di definire limiti, concessioni e divieti. Nel momento in cui il loro corpo, e le traversie che l’accompagnano, diventa “pubblico”, le donne spariscono dalla scena, come se si fosse concluso un millenario esilio nell’unica ricomposizione prevista dalle polarizzazioni della storia, tra maschile e femminile, cultura e natura, privato e pubblico, ecc., e cioè l’assorbimento del “diverso”, dell’“anomalo”, del “minaccioso”, dentro l’orizzonte del sesso che ha imposto il suo dominio, e quindi il suo modello di civiltà.
Ma come capita quando si è troppo assuefatti al rumore, è il silenzio che finisce per sorprenderci e per farsi ascoltare. E allora viene immediata la domanda: perché le donne tacciono? Perché, anche quando parlano, è così impercettibile la consapevolezza che dovrebbe distinguerle dallo sguardo oggettivante con cui la scienza, la politica, la cultura in generale, hanno guardato alla loro vita, natura senza storia, umanità minore da sottomettere o da proteggere? Perché appaiono così lontane, perse nel mito di una stagione senza ritorno, le appassionate discussioni che portarono all’approvazione della Legge 194, le testimonianze di esperienze vissute, rese nei luoghi meno protetti dalla riservatezza, come le assemblee e le manifestazioni? Ma, soprattutto, per quale inspiegabile ottenebramento, o rimozione, si parla dell’aborto come se le donne si mettessero incinte da sole, e per leggerezza o sadismo decidessero poi di sgravarsi di quel peso? Che si chieda a gran voce la loro ribellione, come ha fatto qualche illustre ginecologo, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli.
Maternità e aborto sono, senza ombra di dubbio, legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa, contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di violenza materiale e psicologica che non accenna a diminuire neppure in presenza di culture altamente civilizzate.
Come scrisse Carla Lonzi, in uno dei brevi saggi di Rivolta femminile del 1971, «la donna gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento. L’uomo sa che il suo orgasmo nella vagina la donna lo accoglie più o meno coinvolta emotivamente e fisiologicamente, sa che in conseguenza di questo la donna può restare incinta…ugualmente l’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare feconda nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale».
Non ci sono anticoncezionali né politiche famigliari che riescano a impedire a un atto d’amore di trasformarsi nella realtà drammatica di una gravidanza non voluta. Se va salvaguardata la scelta della donna di poterla interrompere senza incorrere in sanzioni penali, non bisogna tuttavia dimenticare la limitatissima libertà che sembra ancora esserci nel rapporto più intimo tra i sessi, sia che essa derivi da antica soggezione, ignoranza del proprio piacere, esitazione a esigerlo da parte femminile, oppure da violenza sessuale manifesta da parte dell’uomo. Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione, il diritto a decidere su una vicenda che trasforma non solo il suo corpo, ma la sua vita intera, tanto più quanto più “naturale” si continua a ritenere la cura materna dei figli (oltre che di mariti, genitori, suoceri, ecc.), vuol dire mettere al centro della scena pubblica, dello Stato e delle sue leggi, i due protagonisti dell’origine, la madre e il figlio, e sfocare fino a farlo sparire in una nuova rimozione quel rapporto uomo-donna che i movimenti femministi del novecento hanno portato faticosamente alla coscienza storica. Ma significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno.
La svolta che le forze conservatrici, incoraggiate e sostenute, non solo nel nostro paese, dal rinnovato interessamento della Chiesa per questioni che spetterebbero allo Stato, persegue in modo esplicito la volontà di affermarsi sul terreno che la cultura laica ha esitato a far proprio, nonostante sia stata in tempi non lontani attraversata da movimenti che ne hanno fatto il centro delle loro pratiche politiche. Tra i “valori” su cui le destre, cattoliche e ateisticamente devote, intendono impostare la loro campagna elettorale, campeggia, come già si può vedere, il corpo femminile, il suo “naturale” destino di continuazione della specie, di negazione di sé per il bene dell’altro, di cerniera immobile tra la famiglia e la società, di urna domestica depositaria di tutte le virtù che vengono sistematicamente disattese dalla vita pubblica. Se ci fa orrore e ci riempie di indignazione che i più accesi sostenitori della guerra e della superiorità dell’Occidente siano anche gli zelanti San Cristoforo ansiosi di traghettare neonati fuori dalle infide acque materne, dobbiamo anche chiederci se, opposto e speculare a questo atteggiamento, non sia la difesa a oltranza della donna “vittima”, l’insistenza sulla figura materna e sull’aborto come “questione femminile”, anziché portare l’attenzione, come sarebbe logico, alla forma che ha preso storicamente il rapporto tra i sessi.
Aprilenline.info 29.11.05
Primo passo verso la Sinistra Europea lanciata da Bertinotti
Rifondazione. A Roma si riunisce la Sinistra europea: "No al partito democratico, si al nuovo soggetto politico radicale"
E’ stata l’occasione per dare visibilità e gambe all’idea lanciata da Fausto Bertinotti al comitato politico di Rifondazione Comunista dello scorso fine settimana. Creare in Italia la “sezione” della Sinistra europea, il partito continentale che riunisce le forze comuniste e socialiste di sinistra dell’UE. L’assemblea di “Sinistra romana”, ieri al Teatro Colosseo, con lo stesso Bertinotti e Pietro Folena, ha raccolto l’appello lanciato dal segretario di Rifondazione per “riorganizzare la sinistra di alternativa” quella, spiega Bertinotti “che intende porre di nuovo il tema della trasformazione della società”. L’occasione è stata data dall’uscita dei fondatori dell’associazione romana dai Ds. Pino Galeotta (consigliere comunale), Alessandro Cardulli (presidente della direzione regionale della Quercia) ed altri dirigenti e militanti del correntone diessino hanno lasciato il partito di Fassino per quello bertinottiano. “Non aderiamo a Rifondazione in quanto tale” – hanno spiegato – “ma al progetto lanciato dal lader del Prc” per la creazione della “sezione italiana della Sinistra europea” nella quale confluiranno, oltre a Rifondazione stessa, diverse realtà associative e di movimento sorte in questi anni intorno al partito e quelle nuove, come “Sinistra romana”, nate dalle costole del correntone, che si sono riunite principalmente nella rete “Uniti a sinistra” fondata dagli ex diessini Pietro Folena e Antonello Falomi, dall’ex verde Francesco Martone e da molti sindacalisti di primo piano della Cgil.
“Per la prima volta dopo la Bolognina – ha sottolineato Bertinotti - stiamo invertendo la tendenza alla diaspora e alla divisione, stiamo unendo a sinistra. E' un nostro merito contribuire a questa inversione di tendenza”. Bertinotti ha descritto il nuovo soggetto politico che vuole costruire insieme a movimenti, comitati e organizzazioni politiche come “Uniti a Sinistra” e “Sinistra Romana”, come un “soggetto unitario e plurale di sinistra alternativa, un luogo comune che non ha la presunzione di cancellare le differenze che rappresentano una grande ricchezza della sinistra”.
Il segretario di Rifondazione ha poi sottolineato che le componenti che entreranno a far parte del nuovo soggetto politico avranno pari dignità perché indipendentemente da dove si viene “è importante la strada su cui si va e la direzione, cioè il tentativo di arginare la deriva moderata della sinistra italiana. Veniamo da strade diverse ma e' ora di farle incontrare”.
Infine il segretario di Rifondazione ha aspramente criticato Piero Fassino per l’ “apertura” alla costruzione del ponte di Messina: “Non si può dire che il ponte se lo fa Berlusconi fa schifo, ma se lo facciamo noi va bene”, ha concluso.
altrove...
il manifesto 29.11.05
Politica o quasi
All'inizio della fine
Ida Dominijanni
Nello scorso settembre l'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, organizzò un seminario intitolato «Politica e pratiche politiche. All'origine della questione morale», che rilanciava la questione del rapporto fra politica e pratica politica, già messa a tema nei mesi precedenti da alcuni editoriali di Critica marxista. L'ultimo numero della rivista pubblica adesso, precedute da un editoriale di Aldo Tortorella sulla sempre più accentuata separatezza e autoreferenzialità del ceto politico italiano, alcune relazioni a quel seminario, di Giacomo Marramao, Gianni Ferrara, Maria Luisa Boccia, Enrico Melchionda. La prima e la terza in particolare mi sembrano da segnalare per alcuni tratti che le accomunano. Il primo è il legame che stabiliscono fra crisi politica e crisi culturale della sinistra - o meglio, per dirla con Marramao, fra la crisi e la «deculturalizzazione» della politica. Il secondo è la capacità di leggere alcune dinamiche della crisi italiana con le lenti di alcuni classici - da Max Weber a Gramsci a Simone Weil e Hannah Arendt - , sottraendole così alla riduzione a fenomeni di breve periodo o dell'ultim'ora cui tende il chiacchiericcio politologico sulla transizione infinita. Il terzo è il legame fra politica, forme di vita e pratiche politiche che entrambi mettono al centro del discorso, e il rilievo che di conseguenza assumono, in una prospettiva di valutazione storica che abbraccia ormai più di un trentennio, il pensiero-pratica della differenza sessuale e il suo impatto, diretto o indiretto, sulla crisi e le trasformazioni della politica. Punto di partenza è una diagnosi netta sullo stato di degrado in cui versa nell'Italia di oggi non solo la politica istituzionale, ma anche la vita civile: siamo fuori, e per fortuna, dalla retorica della contrapposizione fra una politica ammalata e una società civile che scoppia di salute. Tuttavia la responsabilità prima è della politica, e in specie, secondo Marramao, di quella tendenza della sinistra post-Pci a deculturalizzare la politica, così screditandola e rendendola una faccenda da ceto separato preoccupato soprattutto della propria autoriproduzione. Max Weber, con le sue due famose conferenze del 1918 sulla politica e la scienza come professione-vocazione, e Gramsci, con le note dei Quaderni sugli intellettuali e sul «moderno Principe», tornano utili da un lato per ripristinare il nesso fra lavoro intellettuale e pratica politica, conoscenza e potenza, azione trasformatrice e general intellect, specialismi e competenza politica. Dall'altro per ricondurre l'origine della «questione morale» italiana a dinamiche di lungo periodo, aggravate dalle ma non riducibili alle nefandezze craxian-berlusconiane: alla perdita di vocazione della professione politica, sì che a destra e a sinistra aumentano, secondo una distinzione weberiana, quelli che vivono di politica rispetto a quelli che vivono per la politica; e al fallimento di quella funzione di riforma intellettuale e morale del «moderno Principe» gramsciano, che doveva consistere nel promuovere l'«accumulazione etica originaria» in altri paesi aiutata dall'imperativo protestante ma mancata nell'ingresso dell'Italia nella modernità. Per ragioni storiche e interne alla sua stessa storia, dunque, la sinistra emersa dalle ceneri del Pci non può chiamarsi fuori dalla crisi della politica, ma ne è parte centrale e cruciale.
L'analisi dell'oggi non può perciò saltare quello snodo cardinale che fu, già negli anni Settanta, la crisi della forma-partito. Lì ritorna infatti Maria Luisa Boccia, anche lei a partire, sulla scia di Gramsci, del frammento hegeliano su politica e destino riletto da Mario Tronti e di Simone Weil, dal nesso fra politica e vita: la forma-partito regge finché realizza quel nesso, crolla quando lo perde o lo costringe in una organizzazione automatizzata e svuotata di passione, giacché, come Gramsci stesso segnalava, la passione politica organizzata deve diventare razionalità, ma la razionalità dev'essere a sua volta continuamente nutrita e «superata» da una passione che la eccede. Quando questo circolo si spezza, il Pci finisce. Ma non di sole dinamiche interne: potente fattore di crisi è la scommessa femminista «di dare stabilità, continuità, forma all'agire singolare e plurale senza costruire un'organizzazione» e puntando sull'invenzione di nuove pratiche basate sul rapporto fra vita e politica. Fattore di crisi, e apertura di un'altra prospettiva: per Marramao, la «frattura longitudinale» introdotta dal femminismo della differenza è imprescindibile perché «insegnandoci a distinguere fra sfera pubblica e dimernsione statuale ci ha indicato le vie di una politica diversa», che passa per quella pluralità di esperienze, pratiche e soggetti neutralizzati dalla logica della politica tradizionale. Anche se, sottolinea Boccia, il rischio del riconoscimento della rivoluzione della differenza è sempre lo stesso, ossia che se ne assumano alcuni contenuti prescindendo dalle sue pratiche. E tornando a separare la parola e la cosa, il discorso e l'esperienza, la politica e la pratica politica.
boh!?
Apcom 29.11.05
Vaticano
Preti gay. Capezzone: violenza ideologica
"Siamo all'inquisizione, rogo di campo de' Fiori ancora acceso"
Città del Vaticano, 29 nov. (Apcom) - "Rischia di passare sotto silenzio una scelta che lascia letteralmente increduli per la carica di violenza ideologica, da inquisizione, che l'ha determinata". Così il segretario dei Radicali italiani, Daniele Capezzone, commenta il documento, reso pubblico oggi dal Vaticano, che vieta agli omosessuali l'ingresso nei seminari.
"Siamo dinanzi ad un atto letteralmente anticristiano, crudele, senza carità", aggiunge Capezzone. "Lascio da parte l'"accertamento" delle "tendenze": non voglio neppure immaginare come avverrà - aggiunge in una nota - e mi limito a pensare al dramma di chi è in cerca di Cristo, e vorrebbe servirlo anche nella forma sacerdotale, e si vede invece sottoposto a un simile tribunale delle coscienze".
"Voglio invece solo sottolineare, per oggi, la cosa che mi pare più infame. Si lascia intendere, da parte vaticana - prosegue il segretario dei Radicali - che questa sarebbe una prima risposta ai casi di violenza contro i minori di cui si sono resi responsabili alcuni ecclesiastici. E quindi si stabilisce un nesso, un legame di causa ed effetto, tra l'omosessualità e la violenza contro i bambini o i ragazzi. Ripeto: c'è da rimanere increduli. Mi auguro che, in primo luogo nella comunità dei credenti, si levino voci contro questo autentico scempio. Ma intanto, pur con "tecnologie" diverse - conclude - il rogo di Campo de' Fiori è ancora acceso".
per la prima volta in Italia
Il Messaggero 29.11.05
Condannato lo psichiatra dell'assassino
BOLOGNA - Il delitto era avvenuto la mattina del 24 maggio 2000 in una comunità psichiatrica nei pressi di Imola: Giovanni Musiani, che soffriva di schizofrenia, uccise a coltellate Ateo Cardelli. A cinque anni dall'omicidio, e dopo che lo stesso assassino è deceduto nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, è arrivata la sentenza con la quale per la prima volta in Italia, è stato condannato il medico che lo aveva in cura. Lo psichiatra Euro Pozzi è stato condannato a quattro mesi di reclusione (pena sospesa) e alla provvisionale di 120.000 euro ai parenti dell’operatore dell'Albatros di Imola. Mai fino ad ora un medico era stato ritenuto responsabile della condotta giudiziaria di un proprio paziente.
«Sconcerto di fronte alle nuove inaspettate responsabilità per i medici che la sentenza induce, come se un barista fosse condannato perchè un suo cliente poi fa un incidente stradale» è il commento di Michele Ugliola, vicepresidente della Frer, la Federazione degli ordini dei medici. Soddisfatto l’avvocato della famiglia Cardelli, Massimo Jasonni, che ha espresso soddisfazione perchè «il medico sottovalutò la gravità patologica di Musiani, diminuendo anche la terapia farmacologica. Il giudice ha accolto le nostre tesi».
Ugliola invece esprime sconcerto: «Pozzi dunque ha armato la mano dell'omicida per via di un inadeguato trattamento psichiatrico».
retina
ricevuto da Silvia Branzi
Repubblica 29.11.05
Mostra una marcata diversità da individuo a individuo, fino al
40%, nella parte dell'occhio che ha il compito di percepire i colori
Foto svela i segreti della retina, mai un'immagine così da vicino
Ma tutti li vediamo allo stesso modo. È il cervello che compensa
di Luigi Bignami
MILANO - Per la prima volta è stata realizzata un'immagine della retina di una persona vivente con particolari mai rivelati sinora. Sorpresa tra gli scienziati: non si attendevano di avere di fronte un simile quadro di una parte così fondamentale del nostro occhio, che ha il compito primario di percepire i colori. Fino ad ora gli studiosi non immaginavano affatto che le migliaia di cellule responsabili nel rilevare i colori nella parte più profonda dell'occhio, fossero così diverse da individuo ad individuo. Tutti gli uomini infatti, ad eccezione di chi ha problemi di visione, vedono i colori nello stesso modo.
Ma in cosa consiste questa differenza? La retina è un tessuto nervoso contenuto all'interno dell'occhio che serve a registrare le immagini che saranno poi inviate al cervello. L'immagine viene catturata da particolari cellule nervose chiamate fotorecettori. Questi sono di due tipi: i coni e i bastoncelli. I coni sono cellule nervose che funzionano in condizioni di piena illuminazione e il loro compito è quello di produrre immagini molto dettagliate e a colori. I bastoncelli, invece, sono responsabili della visione notturna o comunque in condizioni di scarsa illuminazione. Lo strato dei fotorecettori si trova nella parte più profonda della retina e appoggia su uno strato detto epitelio pigmentato. In media ogni persona possiede 7 milioni di coni in una retina, il 64% dei quali sono rossi, il 32% verdi e il 2% blu, i colori che servono per raccogliere la luce dell'intero spettro luminoso. Questo almeno è quanto pensavano gli scienziati prima di aver visto questa straordinaria immagine.
Ma le immagini catturare dal Center for Visual Science della University of Rochester (Usa), pubblicate su Journal of Neuroscience sono molto diverse e per questo molto sorprendenti. Le fotografie della retina infatti, mostrano che da persona a persona c'è una differenza nel numero dei coni dei vari colori che giunge addirittura al 40%. Spiega Joseph Carrol, uno dei ricercatori della University of Rochester: "In un primo momento ci siamo chiesti se in conseguenza a questa variabilità le persone vedessero i colori in modo differente. Ma non è così. Allora si deduce che il cervello interviene in modo diverso in ciascun individuo nel compensare il numero dei coni al fine di offrire ad ogni persona la visione dei medesimi colori". Ora bisognerà capire come fanno diversi cervelli a lavorare per dare ad ogni individuo la medesima tonalità di colore o al più una piccola differenza.
I ricercatori sono riusciti in questi intento utilizzando 'ottiche adattative' che correggono nelle macchine fotografiche usate i difetti presenti nell'occhio così da ottenere immagini ad altissima risoluzione. "Le ottiche adattative sono utilizzate dagli astronomi che vogliono osservare oggetti molto lontani e che appaiono sfuocati dopo che la loro luce ha attraversato l'atmosfera", spiega David Williams, direttore del Center for Visual Science.
La tecnica verrà ora utilizzata per studiare le malattie che colpiscono la retina, le cui ricerche erano fino ad ora ostacolate proprio dall'impossibilità di avere una visione precisa della parte più profonda dell'occhio.
violenze sulle donne
Corriere della Sera 29.11.05
Duecento milioni di donne «sparite»
Un rapporto denuncia gli orrori del genocidio nascosto
Alessandra Farkas
NEW YORK - E' stato ribattezzato «The Hidden Gendercide» , il genocidio nascosto delle donne ed è lo sterminio di massa più spaventoso e drammatico della storia: più micidiale, per numero di vittime, sia dell'Olocausto ebraico, sia di tutte le guerre e i conflitti armati del XX secolo - secondo gli storici il periodo più cruento della storia umana - messi insieme.
Ad occuparsi, per la prima volta, del problema è il Centro per il controllo democratico delle Forze armate (Dcaf) di Ginevra, una fondazione internazionale che si batte da anni per un mondo più sicuro. «La comunità internazionale sta assistendo inerte al massacro di Eva», punta il dito il Dcaf in un rapporto di 335 pagine intitolato «Donne in un mondo insicuro». Mentre tra il 1992 e il 2003 il numero di conflitti armati «gravi» (con più di mille morti in battaglia) sono scesi dell'80%, la guerra quotidiana delle donne si è fatta ovunque più cruenta e mortale.
DESAPARECIDAS - Le statistiche parlano chiaro: circa 200 milioni di donne, ragazze e bambine sono «demograficamente scomparse». Un eufemismo che nasconde uno dei più scioccanti crimini contro l'umanità: la sistematica eliminazione delle femmine, solo in quanto tali, vittime di omicidi, fame, povertà e discriminazioni di ogni tipo. L'inoppugnabile «soluzione finale», per molte, inizia già prima di nascere. «Almeno 60 milioni di bambine sono state "cancellate" in seguito ad infanticidi o aborti selettivi di feti femmine, resi possibili dai progressi tecnologici», spiega Amartya Sen, premio Nobel per l'Economia 1998 e uno degli studiosi interpellati dal rapporto, che si avvale delle statistiche delle maggiori organizzazioni internazionali, dall'Onu all'Oms.
In Paesi quali Cina, Corea del Sud, India e Nord Africa le pratiche anti-bambine sono all'ordine del giorno. Tanto che nell'ultimo censimento cinese il rapporto maschio-femmina era di 119 a 100, mentre le normali percentuali biologiche sono di 103 bambini ogni 100 bimbe. Lo stesso avviene in India, dove il commissario del censimento stima che «parecchi milioni di feti» sono stati abortiti negli ultimi due decenni «in quanto di sesso sbagliato».
VIOLENZA - Ma la «condanna in base al sesso» prosegue anche dopo la pubertà. Ogni anno 3 milioni di donne e ragazze sono uccise perché femmine. Ovvero più dei 2.8 milioni di individui stroncati dall'Aids e dei 1,2 milioni falciati dalla malaria. Per non parlare delle 5 mila donne che ogni anno muoiono bruciate in «incidenti di cucina» provocati dalla famiglia dello sposo, quando la dote è giudicata «insufficiente». Dalla Cambogia agli Usa e dalla Thailandia alla Svizzera, la violenza domestica resta, in assoluto, la più diffusa. Tanto che dal 40% al 70% delle donne assassinate intorno al mondo sono vittime di mariti e fidanzati. La maglia nera appartiene ai paesi islamici. Il 47% delle donne uccise in Egitto sono eliminate da un parente dopo uno stupro che «infanga la reputazione della famiglia». E in Pakistan almeno tre donne vengono freddate ogni giorno in «omicidi d'onore» che restano impuniti al 100% perché, come denuncia l'attivista Nahida Mahbooba Elahi, «la polizia li giudica affari privati e si rifiuta regolarmente di perseguirli».
STUPRI E SALUTE - Nel 2005 la violenza sessuale contro le donne continua ad affliggere una donna su cinque, e non solo nei Paesi in via di sviluppo, portando il totale delle donne violentate ad oltre 700 milioni; 25 milioni delle quali solo negli Stati Uniti. Un netto peggioramento si è registrato anche nel commercio illegale di «schiave del sesso» che oggi affligge tra i 700 mila e i 2 milioni di donne e ragazze, vendute ogni anno attraverso i confini internazionali. Un incremento del 50% rispetto a cinque anni fa. Nonostante le tante crociate internazionali, in aumento un po' ovunque sono anche i casi di mutilazione genitale: 6 mila al giorno (oltre 2 milioni l'anno per un totale di 130 milioni nel mondo). E nei Paesi dove solo i maschi hanno un adeguato accesso alla sanità, sono 600 mila le donne che muoiono durante il parto: una cifra uguale al genocidio del Rwanda nel ’94, ma ripetuta anno dopo anno.
Secondo il Dcaf questo quadro sconcertante è strettamente legato alla mancanza di potere politico-economico «rosa» in un mondo dove le donne costituiscono oltre i due terzi dei 2.5 miliardi di persone costrette a vivere con meno di 2 dollari al giorno, nonché il 66% degli analfabeti. Dove nonostante le battaglie decennali del femminismo hanno in mano soltanto l'1% delle terre del pianeta, il 14% dei seggi parlamentari e il 7% dei ministeri di governo.
Corriere della Sera 29.11.05
senza diritti
Noi discutiamo di quote rosa e la strage si compie in silenzio
Dacia Maraini
Centinaia di migliaia di donne non rispondono all'appello demografico, secondo le ultime ricerche dell'Onu. Si calcola che siano oltre 600.000 i feti femminili uccisi prima che vengano al mondo nei Paesi dove la nascita di una femmina comporta spese considerate inutili. Altre bambine muoiono per mancanza di cibo. In molte famiglie poverissime, che cercano di sopravvivere, quando si trova qualcosa da mangiare, si dà la precedenza ai figli maschi. Il risultato è che sono molte di più le bambine dei bambini a morire di fame ogni anno. Perfino le cure mediche vengono dedicate prima ai figli maschi, considerati più utili per il futuro delle famiglie. Ragazze nell'età della pubertà vengono uccise per delitti di onore, o di dote. Il paradosso è che tutto questo non lo denuncia un portavoce del femminismo europeo, ma niente di meno che il Geneva Centre for the Democratic Control of the Armed Forces. Dopo avere constatato che le grandi guerre sono diminuite del 40% dal 1992 al 2003. La domanda è: possiamo dire che la diminuzione delle guerre abbia reso il mondo più sicuro per tutti? In parte sì, è la risposta del Dcaf. Ma non per le donne che vedono aumentare ogni anno il livello di schiavitù e di violenza.
Oggi sappiamo, attraverso gli strumenti di rilevazione di dati sempre più sofisticati ed estesi, che ogni anno fra un milione e mezzo e tre milioni di donne e ragazzine vengono torturate e uccise per «gender based violence», ovvero «violenze di genere». Non viene perdonato loro di essere nate femmine, diverse, dotate di una sessualità propria, di un bisogno di indipendenza che evidentemente fa paura. «Donne fra i 15 e 44 anni hanno molto più probabilità di essere uccise o deturpate, che di morire di Aids, di incidente di auto, di malaria o di guerra». Parole del Dcaf, riportate dall'Economist del 26 novembre.
Noi discutiamo sulle quote rosa, chiusi come siamo in un giardino privilegiato che è l'Europa. Senza pensare che il giardino sta per essere devastato dalle conseguenze della globalizzazione. E non si tratta solo di nuove e vecchie discriminazioni, ma di assassinio rituale delle donne da parte di culture ancora fortemente patriarcali che non vogliono nemmeno sentire parlare di diritti delle donne, di qualsiasi tipo.
Il timore è che, cacciata dalla porta, la guerra fra i sessi rientri dalla finestra, funestando la convivenza fra uomini e donne. Di fronte agli integralismi che premono da ogni parte, invece di rinforzarci nelle nostre conquiste di democrazia e parità, molti cedono alla tentazione di rispondere ad un fanatismo con un altro, ad una repressione con un'altra. Il mercato che si fa del corpo femminile per alcuni sarebbe una risposta di libertà, ma rischia di essere solo una provocazione inutile e controproducente. La libertà non consiste nell'accettazione di quel linguaggio della seduzione di cui si fa bella la pubblicità, ma nel riconoscere la dignità della persona femminile, dotata di un pensiero prima ancora che di un corpo disponibile e muto.
Emanuele Severino
Corriere della Sera 29.11.05
Il Concordato? Anticostituzionale
di Emanuele Severino
Buon lavoro il Concilio Vaticano II, seguito da altri documenti. Il buon lavoro starebbe andando però in malora per la tendenza della Chiesa a influire, invece che sulle coscienze, sugli apparati politici; e per la loro tendenza a ottenere l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche. Un processo, questo, che travolgerebbe il Concordato, «corrodendone le basi di legittimità». Cinque anni fa avevo sostenuto sul Corriere che, per quanto riguarda il Concordato, quel buon lavoro non c’era, perché ancora oggi è il Concordato a essere ambiguo, ed è questa ambiguità a corroderne le basi di legittimità - in modo ben più grave degli inconvenienti giustamente indicati da Zagrebelsky. Richiamo l’argomentazione che allora avevo sviluppato (e ora riportata nel mio libro Nascere , Rizzoli, 2005).
L’art. 7 della Costituzione dice che i rapporti tra Stato e Chiesa «sono regolati dai Patti Lateranensi» del ’29 e che «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Nell’84 Stato italiano e Chiesa hanno modificato i Patti del ’29, ma - ecco il punto - in modo così profondo da distruggerne il contenuto essenziale. Dirò subito perché. Ma intanto è chiaro che se nell’84 il contenuto dei Patti è stato distrutto, allora è stato distrutto anche l’articolo 7 della Costituzione, per il quale i rapporti tra Stato e Chiesa sono, appunto, «regolati dai Patti Lateranensi».
Perché, dunque, affermo che nell’84 il loro contenuto è stato distrutto? La sostanza dei Patti era costituita dal duplice principio che la religione cattolica «è la sola religione dello Stato» e che «l’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede», cioè l’esistenza di uno Stato pontificio. Ma la cosiddetta «revisione» dei Patti, dell’84, dichiara che non è più in vigore il principio della religione cattolica «come sola religione dello Stato italiano». Non è cosa da poco. Non si tratta di una semplice «modificazione» dei Patti: viene abbattuto uno dei due pilastri che li sorreggono: l’Italia non è più uno Stato cattolico. Pertanto i Patti non solo vacillano, ma crollano, non ci sono più. E invece il testo della nostra Costituzione continua, imperterrito, ad affermare che i rapporti tra Stato e Chiesa «sono regolati dai Patti Lateranensi», ossia da ciò che con la «revisione» dell’84 è stato buttato fuori dalla porta. Se si volesse tenere in casa tale revisione, bisognerebbe dire che il testo della Costituzione afferma il falso.
Si aggiunga che, poiché nell’84 non c’è stata «modificazione» ma annullamento dei Patti, nell’84 è stata fatta valere impropriamente, e dunque contraddittoriamente, anche la norma costituzionale sopra riportata per la quale «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale» (cioè non richiedono la modifica del testo costituzionale). Non essendosi infatti trattato, nell’84, di semplici «modificazioni», ma di distruzione dell’essenza dei Patti, ne risulta infatti che tale distruzione richiede un procedimento di revisione costituzionale. Ma questo procedimento non è mai stato effettuato: la distruzione dei Patti è stata camuffata e fatta passare come loro semplice «revisione» o «modificazione».
L’ambiguità dell’attuale rapporto tra Stato e Chiesa è una vera e propria contraddizione. È cioè contraddittoria l’attuale convivenza tra art. 7 della Costituzione e «revisione» dell’84. Se la Costituzione è la legge suprema che giudica della legittimità o meno delle altre leggi, la «revisione» dell’84 è anticostituzionale. La riforma del Concordato si impone non perché sia richiesta da qualche schieramento politico, ma perché la forma attuale del Concordato è contraddittoria e quindi è priva di legittimità.
Per la Chiesa non è conveniente, oggi, approfittare esplicitamente di questa conclusione (per la quale essa potrebbe sostenere che, dopotutto, non è così chiaro, giuridicamente, che l’Italia non sia più uno Stato cattolico). La Chiesa preferisce giustificare la propria presenza nella società italiana col principio che una società non può vivere prescindendo dai valori cristiani - il principio, espresso da Tommaso d’Aquino, dell’armonia tra ragione e fede e pertanto tra Stato e Chiesa.
Secondo tale principio tutte queste dimensioni sono autonome, purché ragione e Stato non siano in contrasto con la fede e la Chiesa. Una precisazione quest’ultima che, certo, distrugge la conclamata autonomia della ragione e dello Stato, ma che si presenta in un contesto che consente di mascherare dignitosamente questa distruzione.
Tempo fa, l’allora cardinale Ratzinger sostenne la tesi non tomistica che la ragione non può con i soli propri mezzi dimostrare l’esistenza di Dio. Una tesi che non mascherava adeguatamente la convinzione che uno Stato e una ragione che vogliano essere autonomi rispetto al cristianesimo sono un fallimento. È sintomatico che proprio in questi giorni il Pontefice abbia invece di nuovo additato la concezione tomistica come la vera soluzione del problema del rapporto tra fede e ragione, tra Chiesa e Stato. È più adatta a mascherare la tesi che ogni voce del mondo debba adeguarsi a quella della Chiesa.
lacrime di coccodrillo: cattolici e depressione
ricevuto da Franco Pantalei
Repubblica 28.11.05
L'Associazione dei docenti cattolici lancia l'allarme: "Poche ancora le diagnosi corrette". Anna Oliverio Ferraris: "Aiutiamoli a non sentirsi inadeguati"
Allarme depressione tra i giovani: "800mila, e in costante aumento"
di Tullia Fabiani
Che stress. Che ansia. Che depressione. I ragazzi usano spesso certe esclamazioni, in molti casi come un intercalare, in altri come reale espressione di malessere. Anche se il "male di vivere" che può colpire gli adolescenti non sempre è dichiarato a voce alta. Tanto da passare inosservato. In Italia sono almeno 800 mila i giovani depressi: manifestano intenzioni di suicidio e soffrono di disturbi della personalità, di tipo ansioso o maniaco-depressivo. E il fenomeno sembra essere in aumento. A lanciare l'allarme è l'Associazione dei docenti cattolici, preoccupata per gli effetti che le pressioni sociali o i problemi familiari possono provocare sui ragazzi. "Gli ultimi dati forniti dagli istituti di psichiatria - spiega il professor Alberto Giannino, presidente dell'Associazione - indicano un forte aumento della depressione fra i giovani: l'8% dei giovani soffre di nevrosi d'ansia e il 5% di depressioni gravemente limitanti. Inoltre per sette ragazzi su cento, che hanno oggi fra i 18 e i 24 anni, la malattia è cominciata prima della maggiore età". Lo stress da competizione, i ritmi di crescita accelerati, la solitudine, gli ambienti relazionali più complessi, le minori occasioni di gioco: sono tutti sintomi che intaccano la vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti e che, secondo i docenti, finiscono per avere pesanti ripercussioni sulla loro salute mentale.
"Questa sofferenza - commenta Giannino - non sempre è colta dalla famiglia, anzi ci risulta che spesso venga nascosta e non curata per vergogna o pregiudizio. Anche per questo probabilmente sono ancora pochi i casi che vengono diagnosticati in modo corretto e ancora meno quelli trattati correttamente. Dal manifestarsi dell'ansia alla cura del giovane sofferente passa molto, troppo tempo. In media da nove mesi a cinque anni, con un 30% di pazienti che non riceve cure adeguate e un 40% che non assume alcuna terapia". E ciò non fa che aggravare la malattia.
Del resto per i genitori come per i docenti è difficile fare una diagnosi chiara e precoce perché i sintomi di una depressione adolescenziale sono atipici o vengono facilmente mascherati da problemi fisici o da altre condizioni in apparenza completamente estranee a questo tipo di patologia. Ad esempio i disordini alimentari (anoressia e bulimia), il desiderio di dormire continuamente, l'insonnia, i dolori cronici, le cefalee e i disturbi gastro-intestinali possono nascondere una causa più profonda. Come pure l'abuso d'alcol e di droghe leggere. O i problemi di concentrazione e l'iperattività. Ma in particolare nella diagnosi sembra fondamentale la giusta valutazione degli umori. "Uno dei motivi per cui non si riconosce la depressione - precisa il professor Mario Di Pietro psicoterapeuta e autore di numerose ricerche sulla prevenzione del disagio giovanile - è perché si associa il problema a un umore triste (presente negli adulti) mentre nei ragazzi il malessere si manifesta soprattutto con un umore collerico e irritabile e il forte calo di interesse per attività che prima li coinvolgevano".
I comportamenti anomali, l'ostilità, l'aggressività possono dunque essere avvisaglie da non sottovalutare e da prevenire, secondo Di Pietro, con screening scolastici e programmi di educazione socio-affettiva; necessari anche per distinguere i casi di depressione, da altri particolari stati d'animo pure fisiologici negli adolescenti. Ed evitare eccessi di allarmismo. "In generale c'è un abbassamento della soglia dello stress negli adolescenti di oggi, dovuto probabilmente alle troppe ore passate davanti alla tv - commenta la professoressa Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell'età evolutiva -. I ragazzi sono bersagliati da messaggi che li condizionano e li spingono al consumo e alla percezione di nuovi bisogni. Ci si sente inadeguati se non si è uguali al modello rappresentato".
Che possono fare allora la famiglia e la scuola? "Dovrebbero rendere i ragazzi più consapevoli della realtà di questi due mondi e della loro differenza - risponde la Ferraris - aiutarli a separare la vita reale da quella virtuale della tv con i suoi personaggi". Ma la prevenzione passa anche attraverso l'attivazione di una rete complessiva che riguardi le strutture sociali e quelle propriamente scolastiche. "In ogni scuola - ricorda Giannino - c'è una Commissione Salute e una nuova figura di docente della Funzione strumentale per la salute. Ed è importante che queste realtà lavorino per attivare tutti gli strumenti di prevenzione e cura della patologia depressiva. Serve perciò una maggiore collaborazione con le Asl e con lo sportello psicologico". Perché in questi posti, quando serve, i ragazzi trovino l'aiuto di cui hanno bisogno.
aborto
l'Unità 29.11.05
Il padre della Ru486: «Io e Ratzinger»
Sonia Renzini
Sostiene l'efficacia della Ru486 e la legittimità del suo uso. Il padre della pillola abortiva e membro dell'Accademia delle scienze di Francia Etienne Baulieu, ieri a Pisa al forum organizzato dall'Università, dall'azienda ospedaliera, dalla Asl 5 e dalla Regione Toscana, difende la scelta di milioni di donne che in tutto il mondo usano il farmaco. Negli Stati Uniti, in Cina, in Israele e in Europa. Con l'eccezione dell'Italia dove il suo uso ha riportato il dibattito sull'aborto indietro di 50 anni, riesumando toni e anatemi da Santa Inquisizione. «Le controversie sulla pillola hanno influito in modo immorale sul suo utilizzo in Italia - dice - ci sono milioni di donne che se ne servono e l'esperienza è molto positiva ovunque, l'uso del farmaco non cambia la condotta morale delle donne». Non la pensa così la Chiesa cattolica che molto prima delle cronache degli ultimi mesi spiegò a Baulieu la sua posizione. Papa Benedetto XVI era ancora il cardinale Ratzinger e la pillola abortiva non era diventata un caso nazionale. «Sono più di 15 anni che parliamo con il Vaticano della Ru486 - ricorda Baulieu- ma il dialogo non ha ancora fatto passi avanti perché dalla Santa Sede c'è sempre stato detto che la vita va salvaguardata fin dal primo istante». Ma alla morale cattolica il professor Baulieu oppone la morale dei medici: «I medici sono tenuti a far soffrire i pazienti il meno possibile e non è morale che si impedisca l'utilizzo dei farmaci che migliorano la salute della donna». E le morti sospette negli Stati Uniti? «Tutto è dovuto a un dosaggio insufficiente di Ru486 che è stato compensato con prostaglandine per via vaginale, cosa che non è mai stata fatta in Europa». Eppure l'Italia è l'unico paese europeo che non può disporre del prodotto. «Sono stupito che una nazione come l'Italia, con una scuola di medicina così eccellente, sia l'unico paese in Europa a non disporre del prodotto». Una circostanza che per il presidente dell'associazione radicale Libera Pisa Marco Cecchi la dice lunga sull'influenza della Chiesa nel nostro paese: «I motivi della mancata registrazione del farmaco non hanno nulla a che vedere con i rischi presunti per la salute della donna, ma piuttosto con le pressioni della Chiesa cattolica». Qualcosa potrebbe cambiare. La Excelgin fa sapere che intende registrare il farmaco in Italia. Fino ad allora la strada possibile per acquisire il farmaco rimane quella adottata dalla Asl 5 di Pisa per l'ospedale Lotti di Pontedera dove negli ultimi 20 giorni sono arrivate cento telefonate per informazioni sulla Ru486. E da dove sono partite 25 richieste nominali di acquisizione del farmaco e sono stati eseguiti 9 interventi farmacologici. 4 non sono avvenuti per decorrenza dei termini e 1 per rinuncia. Le telefonate per avere informazioni invece incalzano a ritmo frenetico.
«la verità vi prego sull'amore»...
Il Messaggero 29.11.05
Le neutrofine accendono la passione, che presto si esaurisce
L’amore? Dura un anno
di Alberto Oliverio
SULL’amore sono stati versati fiumi d'inchiostro, ne hanno parlato poeti e filosofi ma ora l'ultima parola proviene dai neuroscienziati che, più prosaicamente, hanno voluto guardare all'interno del cervello degli innamorati. E' quanto ha fatto l'équipe di Pierluigi Politi all'Università di Pavia che ha studiato la “chimica cerebrale” dell'amore, o almeno delle prime fasi dell'innamoramento, quando ci si sente presi come non mai dalla passione e si prova una specie di turbinio che investe cuore e psiche. Questo “turbinio”, secondo i ricercatori di Pavia, si rispecchia nella produzione di alcune molecole, le neurotrofine, tra cui il Nerve Growth Factor scoperto da Rita Levi Montalcini. Queste molecole sono una spia importante delle alterazioni cui va incontro il cervello di un innamorato.
Intendiamoci, che l'amore si traducesse in alterazioni del sistema nervoso lo si sapeva da tempo. Ci rendiamo conto di essere innamorati, soprattutto quando siamo in giovane età, in quanto il nostro sistema nervoso vegetativo, il cui controllo sfugge alla nostra volontà, si attiva e comunica al corpo che la sua mente è in preda alla passione: così il cuore batte più velocemente, il respiro cambia ritmo, l'umore si modifica e la parola si fa esitante, al punto che secondo William Shakespeare «il vero amore non sa parlare». D'altronde, se la fisiologia del nostro corpo non fosse alterata dall'amore, questa passione sarebbe ben più lieve ed eterea, un “fatto di testa” meno coinvolgente e totalizzante. Da poco tempo sappiamo anche che il fuoco della passione amorosa trova un suo combustibile in un mediatore nervoso, la dopamina, che contribuisce, insieme agli ormoni, a stimolare il desiderio e ad avvertirci che questo è stato soddisfatto: quando ovviamente si avvera questa eventualità, quando la dimensione eterea dell'amore trapassa in quella più concreta del sesso. E sappiamo anche che, quando si fa sesso, si verificano altre alterazioni della chimica cerebrale, ad esempio viene liberata l'ossitocina, un ormone che favorisce l'attaccamento con un'altra persona: se vogliamo, l'ossitocina è una piccola trappola per tramutare la sessualità in qualcosa di più duraturo, in un rapporto affettivo.
Ma quanto dura l'amore? Se lo chiede in una sua ben nota canzone Lucio Dalla ma se lo sono anche chiesti, forse più prosaicamente, i ricercatori di Pavia. La loro risposta è che se le neurotrofine sono un indicatore di una passione amorosa recente, la loro alterazione è di breve durata: poco più o poco meno di un anno quando la chimica cerebrale è simile a quella delle coppie ormai stabili e tanto peggio! dei single. Dunque il turbinio dell'amore romantico è passeggero: probabilmente vorremmo che la nostra passione durasse più a lungo, ma alle neurotrofine non si comanda...
solo una questione di tossicologia...
Corriere della Sera 29.11.05
Van Gogh, il giallo della malattia
Adriana Bazzi
Com’è bello il giallo, scriveva Vincent Van Gogh verso il 1880. Ad Arles la sua camera era completamente dipinta di giallo. E negli ultimi quadri, come «La sedia con pipa», predominava questo colore. La sua non era una semplice predilezione: il celebre pittore olandese «vedeva giallo» perché era intossicato dal liquore d’assenzio. E dalla digitale, un farmaco che assumeva per curare l’epilessia. Medicine, droghe, malattie hanno sempre condizionato la creatività degli artisti e oggi gli strumenti della chimica di laboratorio e della scienza medica permettono di capire meglio questo complesso rapporto. L’assenzio contiene un composto chimico, chiamato tujone, della famiglia dei terpeni, che in quantità eccessive è tossico per il sistema nervoso e provoca xantopsia, appunto la visione gialla degli oggetti bianchi e violetta di quelli scuri. A questo si aggiungeva l’inalazione di vapori di canfora (un altro terpene) che l’artista teneva nel suo cuscino convinto che lo aiutasse a vincere l’insonnia. Oggi i segreti dell’assenzio sono stati svelati dalla biochimica: il tujone blocca un recettore cerebrale per una sostanza conosciuta come acido gamma-aminobutirrico A e il risultato è un’anomala attivazione del cervello. La tossicità della digitale, invece, si manifesta direttamente sulla retina dove danneggia un enzima indispensabile per il funzionamento dei bastoncelli, le cellule retiniche deputate alla visione dei colori. Van Gogh è uno dei tanti nomi di una lista di artisti compilata da Paul Wolfe, direttore del Dipartimento di patologia e di medicina di laboratorio all’Università della California di San Diego, e appena pubblicata su Archives of pathology. Benvenuto Cellini, per esempio, uno dei più grandi scultori di tutti i tempi, aveva la sifilide, ma rifiutava di curarsi con il mercurio perché lo riteneva tossico. Un giorno stette malissimo, ma si riprese e miracolosamente la sua sifilide migliorò. Alcuni malfattori avevano tentato di ucciderlo aggiungendo mercurio alla salsa di un’insalata. Oggi l’avvelenamento sarebbe stato scoperto grazie all’identificazione del metallo nelle urine con la spettrometria. Ma Cellini aveva già capito tutto: la famosissima scultura di bronzo «Perseo con la testa di Medusa» poggia su un piedestallo dove è raffigurato Mercurio accanto alla Venere dalle molte mammelle, dea dell’amore e della bellezza, ma anche delle malattie veneree. Così Cellini ha voluto rappresentare la causa e la cura della sua malattia.
Anche Michelangelo proiettava i molti disturbi che lo affliggevano nelle sue opere. Soffriva di depressione o meglio di sindrome maniaco-depressiva e il volto di Jeremiah, una delle oltre quattrocento figure che affrescano la volta della Cappella Sistina, è il ritratto della malinconia. L’epidemiologia e la genetica ci dicono oggi che la sindrome maniaco-depressiva e la creatività sono correlate tant’è vero che tendono a manifestarsi nella stessa famiglia e la farmacologia ha trovato il farmaco che a Michelangelo mancava per curare la sua malattia: il carbonato di litio. La moderna chimica di laboratorio avrebbe anche scoperto che la gotta di cui soffriva Michelangelo era provocata da un’intossicazione da piombo. Ossessionato dal suo lavoro, l’artista si alimentava per giorni con solo pane e vino. Ma il vino a quell’epoca era conservato in contenitori di terracotta rivestiti di piombo e gli acidi della bevanda, come l’acido tartarico, sono ottimi solventi per questo metallo. Quest’ultimo è tossico per il rene e inibisce l’eliminazione di acido urico che aumenta così nel sangue e si deposita nelle articolazioni provocando la gotta. Il famosissimo «L’urlo» del pittore norvegese Edvard Munch potrebbe sì essere stato ispirato dagli effetti di un’esplosione vulcanica nell’isola di Krakatoa, proiettati nel cielo della Norvegia, ma potrebbe essere interpretato diversamente. Secondo Wolf è la rappresentazione dello stato psicotico del pittore o forse della sorella Laura che soffriva di schizofrenia. La psichiatria moderna ha trovato che molti disturbi psichiatrici hanno radici genetiche che spiegano il perché possono colpire membri di una stessa famiglia. Il compositore Louis Hector Berlioz fumava oppio per stimolare la creatività, ma anche per alleviare i suoi frequenti mal di denti. E la sua sinfonia più famosa, «La Sinfonia fantastica», rimanda alle esperienze di un giovane musicista, presumibilmente l’autore, sopravvissuto a un’overdose di oppio. O secondo un’altra ipotesi, deciso a uccidersi con questa droga.
staminali
Tempo Medico 29.11.05
Il modello asiatico per la ricerca
Nasce a Seul una fondazione per le cellule staminali
di Donatella Poretti - Tempo Medico n. 803
Il 19 ottobre 2005 è stata battezzata a Seul la Fondazione mondiale per le cellule staminali. Fornirà un servizio di clonazione su misura per il paziente, creando coltivazioni cellulari embrionali da utilizzare per la ricerca e per le future terapie. In particolare, la Banca mondiale delle staminali rappresenterà il cuore di un consorzio che include alcuni tra i principali centri attivi del settore, tra cui strutture negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
I laboratori avranno la capacità di generare fino a 100 linee cellulari all'anno, ma le richieste hanno da subito sommerso il centro e mandato in tilt il sito internet (www.worldstemcellhub.org). "Abbiamo già ricevuto 9.500 richieste, al di là di ogni nostra capacità" ha detto il portavoce della Fondazione Lim Jong-Pil. Per il momento saranno presi in considerazione solo casi di trattamento del morbo di Parkinson e delle lesioni della colonna vertebrale.
La Corea del Sud ha destinato alla Fondazione un finanziamento pubblico di "soli" 24 milioni di euro. Poca cosa se paragonati ai 3 miliardi di dollari della California, ma con la differenza in quest'ultimo caso che i fondi potranno essere distribuiti e utilizzati solo dopo aver superato una serie di ostacoli e ricorsi legali frapposti da chi si oppone a queste ricerche.
Un modello, quello asiatico, che si muove con tempi velocissimi. Nel febbraio 2004 Hwang Woo-Suk, il professore dell'Università nazionale di Seul che sarà il direttore della Fondazione, annunciò la prima clonazione terapeutica e a un anno di distanza la Corea aveva una legge che regolamentava gli esperimenti. La Gran Bretagna ha dovuto attendere tre anni dalla legge perché fosse concessa la prima autorizzazione all'International Centre for Life di Newcastle. Gli Stati Uniti, con le limitazioni dei finanziamenti federali, sono rallentati da veti politici e freni economici e restano alla finestra a guardare come l'area della biotecnologia venga dominata dall'Asia. Da Singapore, che dà vita a Biopolis, luogo ideale per la ricerca, alla Cina che avanza in maniera poco appariscente, alla Corea del Sud che apre i propri laboratori agli altri ricercatori, investe politicamente e si schiera per la scienza.
Bertolucci
Panorama 28.11.05
Bertolucci: dopo il '68 narro dei tupamaros
di Manuela Grassi
Il suo prossimo film racconterà l'assalto dei guerriglieri peruviani all'ambasciata giapponese nel '96. Il grande regista parla di periferie parigine, intellettuali, poesia e psicoanalisi. E di cinema italiano: quello di Crialese, Garrone, Sorrentino, Moretti...
Bernardo Bertolucci, regista di film molto amati e qualche volta molto odiati, è cresciuto respirando poesia. I versi del padre Attilio gli restituivano rivestito di sogno il microcosmo in cui viveva: la gramigna che bruciava nei campi, la nebbia fra le gaggie, i ragazzi smemorati intorno a un fuoco, le ginestre «grame e splendenti» sulle pendici dell'Appennino. «Per non far trascolorare quel mondo, per fermare la sparizione di quei valori», il 27 novembre a Parma, città d'origine della famiglia, verrà consegnato il premio internazionale di poesia intitolato al padre.
Nella sua silenziosa casa romana Bernardo si muove impugnando due lunghi e sottili bastoni. Gli servono per camminare dopo una faticosa riabilitazione: «Sono molto in voga tra gli anglosassoni perché invitano a una corretta postura. La chiamano nordic walking» sorride. La sua fama internazionale non ha soffocato le radici parmensi, amate, rifiutate e di nuovo apprezzate, quelle di cui la sua vena si alimenta per raccontare il Novecento emiliano ma anche L'ultimo imperatore di Cina, i sognatori sessantottardi di Parigi, o i tupamaros del prossimo film.
Dopo i ragazzi del '68 i tupamaros?
La settimana scorsa ho finito la prima versione della sceneggiatura. È tratto da un romanzo americano che si intitola Belcanto, di Ann Patchett. In Usa è stato un grande successo, più di 1 milione di copie (in Italia è edito da Neri Pozza, ndr). Come sempre quando un mio film è tratto da un libro c'è una grande libertà di reinterpretare. Insomma, di ritrovare l'occasione, come fosse la prima volta.
Che storia racconta?
La storia di Belcanto è ispirata a un fatto di cronaca. Anni fa la residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima venne invasa dai tupamaros durante una grande festa con ospiti importanti, musica, abiti da sera, smoking. I guerriglieri cercavano il presidente Alberto Fujimori, che non c'era, e rimasero bloccati con una cinquantina di ostaggi per più di tre mesi. È interessante, nel romanzo, quello che accade tra gli ostaggi e i rapitori, dopo un po' non si distinguono più gli uni dagli altri. L'atmosfera ricorda un po' L'angelo sterminatore di Luis Buñuel. Alla fine le forze speciali fecero irruzione e uccisero in blocco il commando.
Lei ha detto che il cinema parla sempre del presente...
Questo film parlerà della differenza che c'è tra quello che accade oggi e ciò che è accaduto pochissimo tempo fa. L'episodio a cui mi ispiro avvenne tra la fine del 1996 e l'aprile del 1997, eppure c'è una distanza enorme. Penso che i tupamaros fossero più guerriglieri che terroristi. Ma non voglio dire di più.
C'è una grande differenza anche tra la rivolta degli anni Sessanta, Settanta e quella esplosa oggi nella banlieue francese.
Quello del 1968 era un movimento borghese e piccolo borghese, con una testa, un'avanguardia che prendeva decisioni, mentre questo movimento mi dà una sensazione di pura spontaneità, non esiste un'élite che guida i ragazzi della banlieue. Sa qual è l'etimologia di banlieue? Lieu, luogo; banni, bandito, escluso. I «banlieusard» vengono da un luogo per definizione stessa emarginato. Quello che li fa infuriare è questa finta identità francese: sono nati in Francia, hanno passaporto francese, hanno studiato lì e alla fine non sono veramente francesi perché non trovano lavoro. Per loro la nazionalità è una pura illusione.
Non le piacerebbe come soggetto?
È un film che hanno fatto, e continuano a fare, i francesi. L'odio di Mathieu Kassovitz era qualcosa di abbastanza profetico, come a volte il cinema sa essere. Le scene di caccia in La regle du jeu di Jean Renoir, un film del 1939, erano una profezia sulla tragedia che stava per esplodere in Europa. Il cinema, proprio per il suo carattere visionario, ha questa capacità di guardare avanti.
Dei cineasti italiani lei parla poco. Si riferisce a volte con affetto a Marco Bellocchio, divergenze a parte, ma non cita altri. E Nanni Moretti? E Marco Tullio Giordana?
Non è così, probabilmente sono ormai così defilato, proprio perché non sopportavo più questo soffoco, che non mi capita di entrare nel merito. Oggi c'è un cinema italiano che fa finalmente respirare: Respiro, per l'appunto, di Emanuele Crialese, L'imbalsamatore di Matteo Garrone, e poi Paolo Sorrentino, Pappi Corsicato. Qualche Giordana... Moretti è un caso a sé, ha fatto un suo percorso molto speciale.
A quale «soffoco» allude?
Gli anni della corruzione hanno innescato un processo di soffocamento, è stato il momento in cui l'incubo di Pier Paolo Pasolini si è materializzato.
Il 27 novembre, a Parma, il video dello spettacolo diretto da suo fratello Giuseppe e recitato da Fabrizio Gifuni «Na specie de cadavere lunghissimo» ricorderà Pier Paolo Pasolini. Che cosa l'ha colpita di più delle commemorazioni a trent'anni dalla morte?
La cosa che mi colpisce di più, dal giorno della sua morte, il 2 novembre 1975, è l'incredibile presenza della sua assenza: c'è un buco, una ferita in nessun modo rimarginata. Nella musica generale manca quella voce. Negli ultimi tempi c'è stata in molti la tentazione di buttare via il Pasolini poeta e di salvare il regista. Operazione miserella. Il fatto che fosse un poeta civile, attento alle ideologie politiche, non vuol dire che non è stato un grande poeta. Dove ritrovare quella febbrile intensità? I suoi film sono bellissimi, le odi straordinarie. Nel periodo in cui girava Salò, collaborava al Corriere della sera, ha avuto una visione implacabile di quello che sarebbe accaduto nel nostro Paese.
Qualche giovane si chiede se Pasolini oggi avrebbe capito i leghisti...
Avrebbe parlato di sottocultura, un vocabolo che usava spesso.
Lei esordì come poeta, poi passò al cinema come assistente di Pasolini in «Accattone». Che cosa le ha insegnato?
Lasciai la poesia perché mio padre era più bravo di me. Per un certo momento non sopportai più neppure la parola poetico, che lui usava moltissimo. Poi arrivò Pasolini: anche lui diceva sempre «poetico/a», era un modo per tagliare corto, se una cosa era poetica, voleva dire che andava bene. Allora io ero molto preso dalla Nouvelle vague e da Jean-Luc Godard, quello era il cinema che sognavo di fare un giorno, di sperimentazione, di rischio. Con Pier Paolo è stato come vedere la nascita del cinema, come essere accanto a David Griffith, un primo film che sentivo essere già un classico.
Il suo cinema è molto vicino alla psicoanalisi.
A Londra la British Psychoanalitic Society mi ha appena dato una honorary fellowship. Non è mai stata conferita a un non psicoanalista. La motivazione era che i miei film sono molto vicini alla lezione freudiana. Li ho fatti ridere dicendo: «Credevo mi aveste dato questa onorificenza in quanto unico sopravvissuto di quella che Freud chiamava analisi interminabile». Quella che dura tutta la vita. Io infatti ho cominciato a 28 anni e a 64 non ho ancora smesso. In Italia l'anno prossimo mi daranno il premio Cesare Musatti, il patriarca.
C'è anche Woody Allen.
Sì, ma lui ha il dente avvelenato, gli analisti li tratta male.
Lei ha una moglie inglese, Clare Peploe, e vive spesso a Londra.
Londra è una città con una offerta culturale che è quasi uno spreco. Ma negli ultimi tempi Roma ha cominciato a scuotersi dal torpore millenario.
Parla bene di Walter Veltroni perché da ragazzo fu l'unico a difendere «Novecento»?
Non era solo, c'era un gruppetto. E c'erano altri che difesero il povero Novecento, massacrato dai vecchi comunisti, condannato senza possibilità di redenzione, da Gian Carlo Pajetta, Giorgio Amendola, perché veniva a rompere le scatole in un momento in cui si parlava di compromesso storico, perché aveva un'aria in qualche modo estremistica. E poi Veltroni tra tutti i politici è quello che si interessa più di cinema, ne scrive addirittura.
Che cos'era Parma per suo padre?
C'era un microcosmo di cui era il monarca assoluto, fatto da borghi come Baccanelli, Casarola e da Parma, con qualche blitz fuori, a Roma, considerata luogo d'esilio. Aveva creato intorno a Parma, che chiamava «la petite capitale d'autrefois», a queste case, un'aura molto speciale. Aveva recuperato tutto quello che c'è di straordinario nel passato della nostra città, dagli scalpellini del Battistero, tra i quali l'Antelami, ai sublimi Correggio e Parmigianino, per poi arrivare all'impronta francese di Maria Luigia, una traccia questa, rimasta anche nel dialetto. Era così forte il suo attaccamento a quei luoghi, che quando mi sono trovato a passare di là meno frequentemente, ho avuto la sensazione che fossero frutto di un suo sogno, che stava un poco svanendo. Perciò quando il critico Paolo Lagazzi ha proposto a me e Giuseppe di creare una fondazione e un premio, ci è parsa un'ottima idea.
Ha senso oggi la condizione dell'intellettuale?
L'intellettuale è spesso contro tutto per mestiere, ma è anche quello che meglio capisce che cosa vuol dire la conservazione in senso positivo, la conservazione della memoria.
Lei è snob?
La parola mi fa subito venire in mente una cosa ridicola «La signorina snob», grande invenzione di Franca Valeri... Esistono persone che sono più vicine a espressioni di grande sofisticazione, sottigliezza. Io non mi sento affatto snob. Mi sento che ho un bisogno terribile di fare un film, sapere che ci sono ancora.
Le Scienze, 28.11.2005
Le conseguenze biologiche di un'infanzia trascurata
L'isolamento sociale può influenzare direttamente la neurobiologia di un bambino
L'assenza di una figura affettiva che si prenda cura del bambino nei primissimi anni di vita può influenzare la normale attività di due ormoni - la vasopressina e l'ossitocina - che svolgono un ruolo essenziale nella capacità di formare legami sociali sani e nell'intimità emozionale.
La scoperta, annunciata da psicologi dell'Università del Wisconsin di Madison in un articolo pubblicato online sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", dimostra per la prima volta che trascurare e isolare socialmente un bambino può influire direttamente sulla sua neurobiologia, in modo da influenzarne potenzialmente il comportamento emotivo.
"La questione di come i bambini regolano le emozioni e formano i legami sociali - spiega lo psicologo Seth Pollack, uno degli autori dello studio - non è mai stata affrontata in maniera esauriente dalle neuroscienze. Ma il nostro studio rivela un'associazione fra i comportamenti emozionali complessi e lo sviluppo del cervello". "Abbiamo studiato in maniera più meccanicistica - aggiunge Alison Wismer Fries, l'autore principale - un aspetto dello sviluppo infantile che finora era stato analizzato soltanto in maniera descrittiva".
La ricerca giunge in un momento in cui le famiglie dei paesi sviluppati stanno ricorrendo sempre di più alle adozioni internazionali. Ma gli orfanotrofi nelle nazioni in via di sviluppo sono spesso affollati, e molti bambini adottati hanno trascorso i primi anni di vita in questi istituti senza il contatto emotivo e fisico così fondamentale per lo sviluppo sociale.
Fries e colleghi hanno lavorato con 18 bambini di quattro anni che avevano vissuto in orfanotrofi in Russia e in Romania prima di essere adottati da famiglie dell'area di Milwaukee, negli Stati Uniti. Nonostante adesso i bambini vivano in case stabili - alcuni da più di tre anni - essi manifestano ancora alcuni dei comportamenti che i ricercatori hanno associato con la trascuratezza nei primi anni di vita. Lo studio si è basato su una tecnica sviluppata dall'endocrinologo Toni Ziegler per determinare i livelli di vasopressina e ossitocina attraverso l'analisi delle urine. La procedura è meno invasiva degli attuali metodi di analisi del sangue o del fluido cerebrospinale, e potrebbe un giorno trovare applicazioni in diverse aree della ricerca sui bambini, per esempio nel campo dell'autismo.
I risultati finali mostrano che il contatto fisico con le madri fa salire i livelli di ossitocina nei bambini vissuti da sempre in famiglia, mentre questi livelli rimangono gli stessi nei bambini con un'infanzia trascurata. Questo potrebbe spiegare alcune delle difficoltà che essi incontrano nel formare relazioni stabili.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.
Liberazione, 27.11.05
Di che parliamo? Dell’abolizione dell’ordine presente delle cose...
Rina Gagliardi
Potrebbe finalmente nascere, a tempi brevi, un nuovo soggetto politico, che raccolga il bisogno diffuso di sinistra alternativa? Una forza capace di coniugare la pratica della trasformazione sociale (dell’anticapitalismo) con l’innovazione della cultura politica? Questa è la proposta che ieri Fausto Bertinotti ha avanzato al Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista e che, con ragionevole certezza, sarà oggi fatta propria dallo stesso Cpn. Un fatto nuovo, e politicamente rilevante, ben oltre la scadenza delle prossime elezioni. Un fatto che potrebbe rimettere in moto gli equilibri attuali della sinistra italiana - e non solo.
Sia chiaro. Non siamo ad una proposta di ordinaria routine, o alla necessaria, tante volte auspicata, “accelerazione di volontà politica”. Siamo, come ha detto con chiarezza il segretario del Prc, alla fase conclusiva di un percorso incominciato anni fa: siamo oltre, cioè, “il tempo della ricerca e della sperimentazione”. Entro una stagione definita – la primavera del prossimo anno - la nuova soggettività politica dovrà prender forma concreta e avviare l’“avventura della nascita”. Rifondazione comunista ne sarà parte co-stitutiva e co-protagonista, insieme a coloro che ne vorranno far parte, nell’arcipelago attuale della sinistra critica, dei movimenti, del sindacalismo di lotta, dell’intellettualità singola od organizzata. A nessuno si chiede come condizione preventiva il proprio scioglimento, a tutti si domanda invece l’impegno ad andare oltre quella pur essenziale convergenza programmaticache, finora, ha caratterizzato tante iniziative e tante battaglie della sinistra alternativa. Insomma, nascere è difficile, ma è ormai necessario - proprio per crescere, trasformarsi, trasformare.
Ma quali sono le caratteristiche peculiari, le grandi discriminanti, della forza alla quale si propone di dar vita? Il rifiuto della guerra e la scelta strategica della pace, certo. L’antiliberismo e l’anticapitalismo, cioè il superamento della logica dell’impresa e del mercato, certo. Ma, come si è potuto constatare nel corso di questi anni, e di tante pregevoli esperienze, questi pur essenziali riferimenti non bastano nè a far scattare un processo politico concreto nè a consolidarlo. Serve, allora, una novità di orizzonte - che è l’Europa, il teatro reale, oggi, anzi il teatro minimo della politica. E serve, ancora, un’intenzione comune - che è un’idea, un bisogno, di nuova politica, che ha al suo centro la partecipazione, l’autodeterminazione soggettiva, la sfida alla logica “mortifera” dei Palazzi autoreferenziali e della logica riproduttiva dei ceti dirigenti. Senza l’assunzione di questa sfida, in buona sostanza, la sinistra alternativa rischia di rimanere o un’esigenza astratta, o un’istanza politicista (che poi non a caso partorisce solo ipotesi di cartelli elettorali, mischiati ad una buona dose di cinismo e perfino di opportunismo).
Da qui, l’ipotesi di costruire una “sezione italiana” del Partito della sinistra europea, che in un anno e mezzo ha raccolto speranze e successi crescenti - non solo in Francia e in Germania, ma in tutto il vecchio continente, con un pluralismo mai banale, se così si può dire, che va da forze storiche rinnovate, come il Partito comunista francese, al britannico “Respect”, appena arrivato.
Da qui, l’assunzione dell’esperienza delle primarie, il solo vero “fatto nuovo” che l’opposizione sociale e politica abbia saputo (o dovuto) mettere in atto - per cominciare a spezzare, in positivo, le gabbie oligarchiche e restituire al popolo il diritto di dire la sua. Insomma. Nascere è necessario, ma per nascere bisogna proprio essere nuovi - ci si perdoni la tautologia, che tale non è. E’ pur vero che si può anche nascere ripetendo tutti gli errori del passato, tutti i vizi peggiori del ’900, tutte le tentazioni della “politica” professionale: in questo caso, però, il destino pressoché certo è quello di diventare una forza di complemento - marginale, testimoniale, inessenziale. Ma la sinistra alternativa - nella fase storica in cui il modo di produzione capitalistico incontra i suoi limiti insormontabili e il socialismo, la marxiana “abolizione dell’ordine presente delle cose” si ripropone nella sua piena attualità - merita ben altra sorte. Ben altra nascita.
Liberazione, 27.11.05
Il presidente Cei conclude un congresso sulla fertilità secondo la morale cattolica.
Ad organizzare l’incontro, inclusa la sessione “pastorale”, anche due università pubbliche
Il “metodo naturale” di Ruini, niente Pacs
Fulvio Fania
Ruini contro il riconoscimento delle coppie di fatto, la fecondazione assistita, la contraccezione e la clonazione; Ruini che assieme ad un «impegno pastorale» su questi argomenti, chiede «interventi sul piano politico», ricordando il discorso di Wojtyla al Parlamento italiano. E’ accaduto ieri all’Università Cattolica, nella stessa aula in cui il giorno prima aveva parlato Benedetto XVI.
E tutto nel nome dei coniugi Billings. I due anziani sposi sono ricercatori dell’università di Melbourne e hanno dedicato una vita a indagare i segni della fertilità femminile nell’arduo tentativo di far quadrare il cerchio tra il Magistero cattolico che vieta pillole, spirali e preservativi e la ragion pratica di non mettere al mondo un figlio ad ogni rapporto d’amore, pur rigorosamente coniugale. Metodo naturale, insomma, confidando in Dio prima ancora che nella scienza. Evelin e John Billings, che hanno dato il nome ad un sistema basato sull’esame empirico dei “segni” sul corpo femminile, sembrano entusiasti dell’intervento del cardinal
Ruini. John lo definisce addirittura il miglior discorso ascoltato nella sua lunga esistenza. Ma che cosa ci fanno i Billings a Roma? Hanno ricevuto una laurea honoris causa dall’Università di Tor Vergata, che non è un ateneo pontificio bensì pubblico.
Così Ruini può legittimamente osservare che l’alto riconoscimento dimostra la «rilevanza scientifica» del metodo naturale. Sebbene all’osservatore laico risulti assai difficile comprendere perché mai non sia contraccettivo far l’amore col calcolo regolatore e lo sia invece l’assunzione di un farmaco, dall’enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI (1968) in poi i teologi morali ci vedono una grande differenza. Resta il fatto che un’università pubblica ha premiato i Billings, i quali polemizzano aspramente con l’uso del preservativo anche come protezione dall’Aids. I meriti scientifici vanno comunque valutati dagli esperti. C’è però dell’altro. Il convegno internazionale concluso da Ruini “Scienza ed etica per una procreazione responsabile”, con al centro i “metodi naturali” e l’etica cattolica, è stato organizzato dall’Università del Sacro Cuore e dal Campus biomedico di Roma, creazione dell’Opus Dei, insieme a due università pubbliche - Tor Vergata e “La Sapienza” - col patrocinio dei ministeri della sanità e della ricerca. Tutto compreso, sessioni scientifiche e seduta “etico-pastorale” con l’intervento del presidente della Cei. Il cardinale ribatte i suoi chiodi: «C’è una diffusa tendenza - osserva - a depotenziare il valore dell’istituto del matrimonio assimilando ad esso altri tipi di unioni e convivenze». In questo modo, secondo il porporato, anche la vita coniugale viene declassata a semplice «convenzione». Gli rispondono a stretto giro di posta il cattolico Castagnetti e Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay. «E’ normale che la Chiesa confermi la sua linea - afferma il primo - ma la politica deve tener conto di altre forme di convivenza in cui ci sono diritti da proteggere ». Grillini aggiunge: «Norme inclusive hanno effetti positivi sulla società e nell’esperienza smentiscono Ruini, il quale prima o poi dovrà accettare l’idea di un pluralismo di forme familiari ». Il cardinale non tratta soltanto di Pacs. Polemizza con la «cosiddetta liberazione sessuale», ribadisce il rifiuto della fecondazione assistita, paventa che la clonazione riduca l’uomo a «cavia» e che l’umanità, impadronitasi della «mappatura del menoma », smarrisca quella «dell’essere umano». Su quest’ultima preoccupazione Ruini incrocia anche una parte del pensiero laico. Su questo, ad esempio, il verde Cento gli dà ragione.
Ma lo scopo principale dell’intervento ruiniano è orientare gli scienziati, un fronte meno appariscente di quello politico ma essenziale nell’offensiva culturale della Chiesa di Ratzinger. Il quale, ieri sera durante i Vespri per l’inizio d’Avvento nella basilica di San Pietro, ha usato una di quelle espressioni che fanno la gioia dei teologi. Ha detto infatti che Dio ci segue «come un padre e una madre», ha parlato cioè di «maternità» di Dio. Antica questione, tra gli altri ne trattò Wojtyla in un’udienza del gennaio 1999.
Liberazione, 27.11.05
Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista
Roma, 26 - 27 novembre 2005
La relazione di Fausto Bertinotti
Lo sciopero generale del 25 novembre ha visto un successo e una partecipazione enormi, addirittura superiore alle attese che pure erano già particolarmente ottimistiche. Il mondo del lavoro esprime una capacità di mobilitazione importante. La circostanza che questo elemento sia così scarsamente considerato, anche nella comunicazione di massa, è certamente segnale di una contraddizione tra un sentire diffuso dentro il corpo sociale profondo del Paese e parte consistente anche dell’intellettualità democratica. Fatto che è, al tempo stesso, conseguenza di un ciclo lungo e di un più breve momento. Il ciclo lungo è quello che ha lavorato, anche dentro componenti importanti delle sinistre, e che ha sostenuto l’esaurimento del conflitto di classe o la sua residualità (elemento esso stesso di una operazione culturale tesa a rendere invisibile il mondo del lavoro). Il riferimento
a breve è quello che coinvolge aree importanti dell’intellettualità progressista e componenti politiche significative dell’Unione che hanno rifiutato la centralità del conflitto di lavoro nell’opposizione al governo Berlusconi. Una opposizione che ha messo tra parentesi la questione sociale, come se quella del governo delle destre in Italia potesse essere ricondotta a patologia italiana in un contesto europeo fisiologicamente sano. Ma la questione di fondo, che la riuscita dello sciopero e delle manifestazioni mettono in evidenza, è il protagonismo del mondo del lavoro che si ripresenta con grande forza. Qui c’è l’occasione di un vero lavoro politico poiché, in questo protagonismo, si esprime una forza di mobilitazione e una disponibilità al conflitto fondamentali, specialmente in questa fase. Anche da qui, dobbiamo produrre un vero sforzo per accentuare l’impegno per la più grande riuscita dello sciopero e la manifestazione nazionale dei metalmeccanici, per il merito della loro vertenza contrattuale e per il ruolo che il sindacato dei metalmeccanici svolge dentro il conflitto sociale nel Paese. Il tema della democrazia dei lavoratori, infatti, è questione centrale, che, non a caso, assume un rilievo importante dentro il congresso della Cgil. Va riproposto con grande forza il tema della centralità del contratto nazionale di lavoro come punto di fondo del conflitto aperto con la Confindustria. Non è un caso che, da parte del padronato, venga riproposto uno scambio tra contratto e flessibilità, scambio inaccettabile in quanto, proprio la mano libera sulla flessibilità, che vuol dire fare regola dell’eccezione alle norme della contrattazione, equivarrebbe a una sorta di eutanasia del contratto nazionale.
La necessità dell’unificazione delle lotte
Insomma, il lavoro è questione centrale dell’alternativa alle destre. Una situazione, quindi, promettente dal lato della partecipazione e della capacità di mobilitazione che, però, dall’altra parte, mostra il lato della difficoltà nel versante dell’efficacia. Lavora a rendere difficile questo passaggio dalla mobilitazione all’ottenimento di risultati concreti, il carattere della crisi (la frantumazione
sociale, i processi di delocalizzazione, la generalizzazione della precarietà). Ma ci sono, evidenti, il riflesso dell’inadeguatezza delle politiche sindacali, specialmente nella ricaduta delle concrete piattaforme, e una difficoltà anche nostra a contribuire a costruire l’orizzonte per far uscire le lotte dalla separatezza. Il nostro impegno deve, quindi, vedere un salto di qualità. Innanzitutto nel sostegno alle lotte, un sostegno che deve essere non stanco e ripetitivo ma, ogni volta, reso cosciente e reindagato nella sua forza ed efficacia, per esempio nel rapporto tra le lotte e la capacità di essere incidenti sulle scelte del governo, a partire da quelle fondamentali come la legge finanziaria. Ma il punto di applicazione principale consiste nel riaprire e riannodare pazientemente circuiti di comunicazione. Un solo esempio. Nelle scuole e nelle università del Paese si sta svolgendo una stagione eccezionale di mobilitazione (gli studenti che invadono le piazze, gli insegnanti, i ricercatori e così via). Dello sciopero e della manifestazione dei metalmeccanici, della loro centralità, ho parlato in precedenza. Il fatto, però, è che queste lotte sono separate e questa è una debolezza da superare. Ecco, l’impegno di un lavoro politico: costruire ponti di relazioni tra le lotte, tessere un ordito, fare dell’inchiesta, non l’elemento di lavoro specifico di un settore di partito, ma la regola generale della nostra iniziativa. La grandi campagne sono occasioni straordinarie per costruire nessi, basti pensare, per fare un esempio, a quella contro la direttiva Bolkestein. Allo stesso modo, non solo cronologicamente, ma politicamente la manifestazione dei metalmeccanici del 2 dicembre e quella dei migranti del 3 si danno la mano. La condizione migrante esprime, infatti, una doppia sfida: sul terreno della valorizzazione del lavoro e su quella della chiusura securitaria.
Uguaglianza e democrazia
La rivolta nelle banlieues francesi non può non interrogarci a fondo sul tema della crisi sociale. Ritengo fuorviante la discussione se quella rivolta, in quelle forme, possa coinvolgere il nostro Paese. La domanda di fondo, invece è la seguente, ovvero se essa vada indagata come un caso a sé o, pur nella sua specificità, come espressione della crisi di civiltà che attraversa l’Europa. In questo senso, la discussione sull’intervento securitario, che si è acceso in alcune città del nostro Paese, mostra tutto il suo provincialismo.
Da parte nostra, un punto di applicazione deve consistere nel declinare una nuova stagione di ripresa del conflitto sociale, fondandola sulla connessione dell’idea dell’uguaglianza con quella della democrazia. Sul carattere comunitario delle lotte e delle vertenze territoriali abbiamo avviato una discussione. Questa modalità di organizzarsi delle comunità in quanto tali, l’espressione di una identità che si afferma nel vivo di una lotta, che abbiamo visto in particolare nel Sud del Paese, da Terlizzi, a Scanzano, a Melfi, si ripropone, oggi, con una forza straordinaria in Val di Susa. Questa lotta muove questioni di fondo che riguardano la politica delle infrastrutture, il complesso della logistica, il problema della salute. Ma c’è un punto che va ulteriormente sottolineato: è proprio il tema della democrazia e del rapporto tra i territori, le comunità, le scelte dei governi. Ciò che colpisce in maniera sconcertante è l’incapacità di ascolto che i poteri frappongono all’ascolto delle comunità, come se fossero elemento trascurabile della decisione. La lotta in Valle di Susa, come gli altri esempi prima ricordati, ha di fronte a sé una grande prospettiva ma anche rischi gravissimi. La sua sconfitta avrebbe conseguenze devastanti, non solo per le opere che si realizzerebbero ma per la rottura della coesione democratica che ne sarebbe conseguenza. Penso, quindi, che il nostro impegno debba continuare con grande vigore e energia ai fini di avviare canali di relazioni e il riconoscimento del diritto delle comunità locali a essere parte di una vera trattativa. Una iniziativa che serva a disarticolare il fronte favorevole all’opera anche sulla questione della necessità dell’ascolto delle popolazioni e dal punto di vista culturale. Come insegna una esperienza lunga e consolidata, che ha portato anche a interventi legislativi importanti, sul punto fondamentale della difesa della salute, il diritto della popolazione esposta a dover esprimere un parere vincolante è decisivo. Dobbiamo, quindi, vedere le motivazioni di fondo che stanno dietro a questo rifiuto pregiudiziale di un confronto con le popolazioni: sterilizzare il conflitto e marginalizzare le forze politiche, come il Prc, che se ne fanno carico.
Partire dai diritti e dai soggetti
Adeguatamente dobbiamo riconoscere la forza con la quale nuovi avversari cercano di far pesare i contenuti regressivi di un rigurgito fondamentalista. E’ questo il caso delle gerarchie vaticane che, spaventate dalla crisi prodotta dalla precarizzazione, che penetra fin dentro il vivente, prodotta dalle politiche neoliberiste, sembrano preferire il rifugio nella riproposizione di un integralismo che imponga una morale e un costume. Credo sbagliata una risposta simmetrica a questa offensiva: contrapporre l’anticlericalismo a un rinnovato clericalismo. Noi dobbiamo partire dai diritti e dai soggetti. L’intransigenza con la quale difendiamo la legge 194 trae da questo un punto di forza. Anzi, dobbiamo coniugare la difesa senza alcuna incertezza delle conquiste di civiltà degli scorsi anni, con l’estensione di nuovi diritti, dal riconoscimento dei Pacs a una serie di interventi antidiscriminatori nei confronti delle differenti scelte nella affettività e nella sessualità. Anche la discussione sulla Costituzione Europea, dopo il fallimento della Convenzione, sancita dai referendum popolari in Francia e Olanda, deve ripartire da qui: l’affermazione di nuovi diritti del lavoro, sociali e di cittadinanza.
Rilanciare l’iniziativa internazionale
Anche i punti di sofferenza internazionali, la lotta decisiva contro la guerra, non possono essere indagati secondo una ripetizione stanca di obiettivi che non colgono come la situazione vada modificandosi di fronte a noi. Ne cito due: l’Iraq e la Palestina. La guerra dimostra chiaramente il fallimento della strategia nordamericana. In Iraq cresce la forza dell’opposizione alla occupazione militare, segnalata anche dai sondaggi, da dove emerge che l’80% del popolo iracheno chiede la fine dell’occupazione militare. Negli Usa medesimi, il disagio e la critica alla guerra crescono. Ma è altrettanto evidente come la crisi non determini di per sé la fine dell’occupazione militare. Anzi, è aperto anche lo scenario opposto che prospetta un devastante ampliamento del teatro di guerra. In questo contesto, dobbiamo mettere il tema del ritiro delle truppe come elemento di vera discontinuità e come uscita dal sistema di guerra. Anche il rapporto Israele Palestina chiede di essere indagato dentro le novità che si sono prodotte. L’ispirazione di “Due Stati per Due Popoli” mantiene tutta intera la propria validità, così come è centrale il nostro sostegno ai palestinesi e alle ragioni della pace. La novità del ritiro da Gaza va posta non nelle conseguenze sul conflitto ma, invece, su quelle che investono Israele (la fine della strategia della “Grande Israele”) e la sua configurazione politica. La rottura nel Likud e le novità dentro il Labour parlano di queste ricadute che terremotano la situazione. Dentro questo nuovo quadro, dobbiamo riproporre la capacità di una forte iniziativa politica proponendo la trattativa, il negoziato come rottura del sistema di guerra. La sinistra critica, il Partito della Sinistra Europea in particolare, possono essere protagonisti di questa iniziativa. Il Partito della Sinistra Europea dimostra la sua forza e la sua capacità di rappresentare una novità importante nel panorama internazionale. Lo sguardo è sempre quello della centralità dei diritti del lavoro e delle persone e con questo spirito affrontiamo il viaggio che ci apprestiamo a compiere in Cina e che è un segno del rilievo assunto dalla Sinistra Europea. Il lavoro comune che ci ha proposto Chavez, per un incontro tra la Sinistra Europea e la sinistra latinoamericana sui temi di fondo del rifiuto della guerra e della globalizzazione neoliberista, rappresenta un punto di applicazione che riteniamo di grandissimo valore per le potenzialità che si possono esprimere ed attivare.
Il nostro programma
Il tema del rapporto tra il programma dell’Unione e il nostro programma va precisato. Il nostro programma lo possiamo ritrovare nelle elaborazioni più recenti, il programma presentato alle recenti elezioni europee e il profilo dell’impostazione che abbiamo presentato alle primarie. Proponiamo unaggiornamento di questo nostro programma, non come alternativo a quello dell’Unione ma che sia “oltre “ quello. Un “oltre” che va declinato in senso temporale (non solo un programma di legislatura ma un programma che guarda all’Italia dei prossimi 10-15 anni), un “oltre” che va declinato nel rapporto tra il programma di governo e il percorso di trasformazione, l’alternativa di società che è l’ispirazione della nostra iniziativa. Un nostro programma che vada nella direzione della costruzione del programma fondamentale. Un nostro programma nel senso, non solo di un programma di Rifondazione ma della sinistra di alternativa. Proponiamo, cioè, una precipitazione della costruzione della sinistra di alternativa, dentro il contesto della definizione del nostro programma.
Il programma dell’Unione
La discussione sul programma dell’Unione è entrata nella sua fase decisiva. I tavoli di discussione tematica stanno dando contributi, frutto di un lavoro importante. Un lavoro che le nostre compagne e i nostri compagni hanno attraversato con un impegno significativo che trova nelle acquisizioni raggiunte primi punti di vero avanzamento. Un miglioramento netto, su tanti punti generali e specifici, rispetto al dibattito pubblico in cui spesso l’Unione si dibatte. La nostra divisa, quella con la quale abbiamo affrontato questo lavoro, è stata non la caratterizzazione del Prc (non abbiamo bisogno di questo, lo faremo nel “nostro” programma come prima delineato) ma la ricerca dello spostamento a sinistra dell’asse programmatico dell’Unione. Proponiamo, dopo il seminario unitario degli inizi di dicembre, un punto di verifica seminariale dell’intero gruppo dirigente del Partito, un seminario congiunto con le realtà dell’associazionismo e dei movimenti che ci hanno chiesto questo rapporto come leva fondamentale per alimentare un rapporto vero con il Paese reale. Per questo non abbiamo intenzione di determinare elementi di centralizzazione del confronto ma di mantenerne il carattere decentrato e di coinvolgimento ampio dei soggetti. Accanto a elementi di importante avanzamento, registriamo una criticità di fondo che riguarda la politica macroeconomica e l’impianto complessivo della politica economica e sociale. Lo diciamo con grande chiarezza: la politica dei due tempi non è accettabile e non è proponibile, così come non è accettabile l’assolutizzazione del tema del risanamento e della riduzione del deficit come elemento sovraordinatore, specialmente nella prima fase del nuovo governo. Consideriamo questo, una sorta di boicottaggio dell’Unione. La prima fase del governo, infatti, deve caratterizzarsi sull’elemento della distribuzione del reddito (l’aumento delle retribuzioni reali per salari e pensioni e interventi diretti a colpire le rendite, l’evasione, la speculazione finanziaria). Anche l’intervento demolitorio delle principali norme varate dal governo Berlusconi, intervento che riproponiamo con forza, ha un senso in quanto è indirizzato lungo la linea di una acuta discontinuità sulle politiche macroeconomiche.
Una precipitazione nella costruzione della sinistra di alternativa
Il cuore della proposta politica che avanziamo, a nome della segreteria, a questo Cpn è la seguente: determinare una precipitazione nella costruzione della sinistra di alternativa. Il tempo dell’attesa e della discussione astratta è finito. Proponiamo quindi un salto: l’avvio di una fase per una prima configurazione della sinistra di alternativa attraverso una proposta compiuta in un tempo breve, concentrato e definito (due, tre mesi). Cosa non proponiamo? La federazione tra forze politiche, peggio che mai, una federazione tra forze politiche a fini elettorali, tale che, cambiando la legge elettorale, si modifica pure il carattere della proposta, come sta avvenendo per altri. Proponiamo, al contrario, di dare vita a una soggettività politica condivisa tra forze differenti, che si sono incontrate in questi anni in un comune percorso dentro i movimenti e, in questa fase recente, dentro il confronto delle primarie. Una aggregazione per la quale non è sufficiente un’intesa programmatica ma serve una cultura politica condivisa e che trova come riferimento l’irruzione dei movimenti e gli elementi di innovazione che Rifondazione ha contribuito a promuovere. Su questa base condivisa la sinistra critica può ridefinirsi in un rapporto di connessione stabile. I riferimenti per questa costruzione sono rappresentati dal Partito della Sinistra Europea e dalla straordinaria esperienza delle primarie. Sul successo del congresso di Atene della Sinistra Europea, abbiamo già parlato. Vorrei solo segnalare la crescita di consenso (basta vedere l’espansione della Linkspartei in Germania) e l’interesse che è segnalato anche dalla richiesta di nuovi ingressi (come è il caso della formazione britannica di Respect). Le primarie hanno rappresentato una vera occasione di partecipazione popolare, hanno attivato una ricchezza di esperienze il cui patrimonio non va disperso (comitati, laboratori territoriali, ecc.). Ciò che proponiamo, per dirla con una sintesi, è la costituzione di una Sezione italiana del Partito della Sinistra Europea nella quale il Partito della Rifondazione Comunista, soggettività (in quanto tali o nelle loro espressioni più rilevanti) che sono disponibili a questa esperienza, singole personalità che già hanno aderito alla Sinistra Europea o che intendano farlo, possano incontrarsi, darsi una configurazione e compiere un percorso comune che attraversi le scadenze elettorali, facendo di esse una tappa importante della costituzione e della visibilità di questa soggettività ma che sappia proiettare questo percorso oltre quelle scadenze. In questo senso, decidiamo una vera apertura delle nostre liste. Il segno dell’apertura delle liste non è per noi una novità, il punto però non è solo la consistenza di questa apertura ma il suo diverso carattere: essa non consiste nell’aggiungere agli eletti di Rifondazione una quota di indipendenti cui il Partito offre una possibilità, ma nell’essere quelle candidature espressioni delle soggettività e delle esperienze che, con Rifondazione Comunista, decidono di costituire una relazione stabile dentro il Partito della Sinistra Europea. Le elezioni politiche possono essere un momento catalizzatore di una prima fase di questo progetto che prende così una forma e una visibilità. Un confronto e una apertura che non mettano in discussione il carattere unitario dei gruppi parlamentari che andremo ad eleggere, così come il simbolo del Prc con il quale ci presenteremo al confronto elettorale.
horror!
Liberazione, 27.11.05
I troppi silenzi dietro l’aborto
Lea Melandri
Dell’aborto e delle questioni legate alla maternità - legge 194, pillola abortiva, consultori e movimento per la vita, adozione degli embrioni - parlano oggi all’impazzata le massime autorità della Chiesa, dello Stato, della medicina, della giurisprudenza, della cultura e dell’informazione. Tacciono le dirette interessate, le donne che si sono già trovate o che potrebbero trovarsi nella condizione di dover rinunciare a una maternità e quelle che, pur non avendo mai abortito o non avendo più questo problema, ritengono comunque di dover sostenere la scelta delle proprie simili. Più le voci si alzano, da destra e da sinistra, in nome di Dio o della laicità calpestata, per rispetto di una “natura” immodificabile o della libertà delle donne di disporre del proprio corpo, più si allarga la zona d’ombra e di silenzio in cui va a cadere un’esperienza di vita e di relazione tra gli esseri umani che non a caso suscita un interesse così esteso, un così impellente bisogno di definire limiti, concessioni e divieti. Nel momento in cui il loro corpo, e le traversie che l’accompagnano, diventa “pubblico”, le donne spariscono dalla scena, come se si fosse concluso un millenario esilio nell’unica ricomposizione prevista dalle polarizzazioni della storia, tra maschile e femminile, cultura e natura, privato e pubblico, ecc., e cioè l’assorbimento del “diverso”, dell’“anomalo”, del “minaccioso”, dentro l’orizzonte del sesso che ha imposto il suo dominio, e quindi il suo modello di civiltà.
Ma come capita quando si è troppo assuefatti al rumore, è il silenzio che finisce per sorprenderci e per farsi ascoltare. E allora viene immediata la domanda: perché le donne tacciono? Perché, anche quando parlano, è così impercettibile la consapevolezza che dovrebbe distinguerle dallo sguardo oggettivante con cui la scienza, la politica, la cultura in generale, hanno guardato alla loro vita, natura senza storia, umanità minore da sottomettere o da proteggere? Perché appaiono così lontane, perse nel mito di una stagione senza ritorno, le appassionate discussioni che portarono all’approvazione della Legge 194, le testimonianze di esperienze vissute, rese nei luoghi meno protetti dalla riservatezza, come le assemblee e le manifestazioni? Ma, soprattutto, per quale inspiegabile ottenebramento, o rimozione, si parla dell’aborto come se le donne si mettessero incinte da sole, e per leggerezza o sadismo decidessero poi di sgravarsi di quel peso? Che si chieda a gran voce la loro ribellione, come ha fatto qualche illustre ginecologo, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli.
Maternità e aborto sono, senza ombra di dubbio, legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa, contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di violenza materiale e psicologica che non accenna a diminuire neppure in presenza di culture altamente civilizzate.
Come scrisse Carla Lonzi, in uno dei brevi saggi di Rivolta femminile del 1971, «la donna gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento. L’uomo sa che il suo orgasmo nella vagina la donna lo accoglie più o meno coinvolta emotivamente e fisiologicamente, sa che in conseguenza di questo la donna può restare incinta…ugualmente l’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare feconda nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale».
Non ci sono anticoncezionali né politiche famigliari che riescano a impedire a un atto d’amore di trasformarsi nella realtà drammatica di una gravidanza non voluta. Se va salvaguardata la scelta della donna di poterla interrompere senza incorrere in sanzioni penali, non bisogna tuttavia dimenticare la limitatissima libertà che sembra ancora esserci nel rapporto più intimo tra i sessi, sia che essa derivi da antica soggezione, ignoranza del proprio piacere, esitazione a esigerlo da parte femminile, oppure da violenza sessuale manifesta da parte dell’uomo. Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione, il diritto a decidere su una vicenda che trasforma non solo il suo corpo, ma la sua vita intera, tanto più quanto più “naturale” si continua a ritenere la cura materna dei figli (oltre che di mariti, genitori, suoceri, ecc.), vuol dire mettere al centro della scena pubblica, dello Stato e delle sue leggi, i due protagonisti dell’origine, la madre e il figlio, e sfocare fino a farlo sparire in una nuova rimozione quel rapporto uomo-donna che i movimenti femministi del novecento hanno portato faticosamente alla coscienza storica. Ma significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno.
La svolta che le forze conservatrici, incoraggiate e sostenute, non solo nel nostro paese, dal rinnovato interessamento della Chiesa per questioni che spetterebbero allo Stato, persegue in modo esplicito la volontà di affermarsi sul terreno che la cultura laica ha esitato a far proprio, nonostante sia stata in tempi non lontani attraversata da movimenti che ne hanno fatto il centro delle loro pratiche politiche. Tra i “valori” su cui le destre, cattoliche e ateisticamente devote, intendono impostare la loro campagna elettorale, campeggia, come già si può vedere, il corpo femminile, il suo “naturale” destino di continuazione della specie, di negazione di sé per il bene dell’altro, di cerniera immobile tra la famiglia e la società, di urna domestica depositaria di tutte le virtù che vengono sistematicamente disattese dalla vita pubblica. Se ci fa orrore e ci riempie di indignazione che i più accesi sostenitori della guerra e della superiorità dell’Occidente siano anche gli zelanti San Cristoforo ansiosi di traghettare neonati fuori dalle infide acque materne, dobbiamo anche chiederci se, opposto e speculare a questo atteggiamento, non sia la difesa a oltranza della donna “vittima”, l’insistenza sulla figura materna e sull’aborto come “questione femminile”, anziché portare l’attenzione, come sarebbe logico, alla forma che ha preso storicamente il rapporto tra i sessi.