venerdì 1 aprile 2011

l’Unità 1.4.11
Il segretario del Pd: l’8 aprile manifestazioni in quattro grandi città. Bindi: non penso all’Aventino
Allarme per l’informazione: «Il governo prepara una stretta», appello a Udc, Api, Fli e Idv

Bersani: «Faremo in battaglia in Parlamento e nelle piazze». E ai leader dell’opposizione dice: «Il governo prepara una stretta sull’informazione, vi invito ad un’azione comune per realizzare uno strumento di controllo».
di Maria Zegarelli


Una crisi politico-istituzionale come poche altre ce ne sono state prima, regole che saltano, il parlamento che si trasforma in un ring e volano giornali, insulti irripetibili, mentre ministri e onorevoli si esprimono neanche fossero espressione della peggiore feccia. Intanto il governo impone la prescrizione breve al parlamento per salvare il presidente del Consiglio dal processo Mills e prepara la stretta finale sull’informazione in vista delle elezioni amministrative di maggio e, soprattutto, delle elezioni politiche. E l’opposizione? «Chiedo all’opposizione unità e tenuta», invita il segretario Pd Pier Luigi Bersani che ieri ha inviato una lettera ai leader dei partiti di minoranza per affrontare quella che secondo l’ex ministro è una vera e propria emergenza democratica. Per Bersani si deve «realizzare uno strumento di controllo sull’equilibrio politico in particolare dei telegiornali e dei programmi di intrattenimento, per presidiare, in modo incisivo e tempestivo, questa delicatissima fase», perché «sembra evidente che il governo sta predisponendo un’ulteriore stretta sull’informazione, a partire dai telegiornali, così da oscurare le opposizione e da condizionare la fase politica e il prossimo appuntamento elettorale». A Casini, Bocchino, Rutelli e Di Pietro, Bersani propone «un’iniziativa comune, pur nel pieno riconoscimento delle differenze politiche», da delineare nel corso dell’incontro dei responsabili dell’informazione dei vari partiti in programma per il 7 aprile. Di Pietro si dice disposto, «l’opposizione mai è stata unita come in questo momento in Parlamento», dunque bene il comitato di controllo.
QUALE OPPOSIZIONE
Ma se l’opposizione in Aula marcia in un’unica direzione, nel Pd il dibattito sul come si deve procedere dentro e fuori il Parlamento è agitato. Aventino, dimissioni in blocco, oppure lotta dura e pura dai banchi di minoranza e nelle piazze?
Costretta Rosy Bindi a chiarire il senso delle sue parole: «Non ci sono
tentazioni “aventiniane” e il partito non è diviso, come qualche resoconto di stampa vorrebbe far credere. Non ho proposto di abbandonare il Parlamento. anche se andrebbe ricordato che in altre occasioni siamo usciti dalle aule senza che questo provocasse polemiche. Piuttosto ho sottolineato che di fronte a una situazione che non ha nulla di normale la nostra risposta deve altrettanto eccezionale». Secondo la presidente Pd serve un’azione forte concordata tra opposizioni e movimenti anche fuori dalle Camere, come manifestazioni in tutte le città. Massimo D’Alema smentisce la «lite» con Bindi, solo opinioni diverse, anche se «il rinvio del processo breve dimostra che era giusto stare in Aula». Bersani cerca di fare sintesi: «Il partito non deve mollare alcun presidio», in prima linea fuori e dentro il parlamento perché «gli aventini li abbiamo già visti...». Dai microfoni del Tg2, sottolineando come il tentato «blitz» della maggioranza sul processo breve sia fallito e annuncia che il Pd l'8 aprile parteciperà alle notti bianche per la scuola e la democrazia in 4 grandi città italiane.
Intanto Ignazio Marino propone le dimissioni in blocco di tutti i parlamentari per arrivare allo scioglimen-
to delle Camere, mentre per Franco Marini è «meglio lo scontro dentro il Parlamento», «un colle triste, l’Aventino», aggiunge, «e non porta nemmeno fortuna». Arturo Parisi incalza il segretario: «È d’accordo con Bindi che la “dittatura imposta dalla maggioranza” merita come risposta forte “un presidio permanente avanti a Montecitorio? Che l’astensione del Pd sul Federalismo regionale è stato un errore? Che la non partecipazione ai lavori parlamentari , può essere più diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela inutile?». Di parere opposto Paolo Gentiloni, Modem: «Noi dobbiamo fare le nostre battaglie in parlamento, al Pd non manca l’indignazione, manca l’alternativa». Intanto Beppe Fioroni fa sapere che non parteciperà al seminario del Pd sulla forma di partito.

Repubblica 1.4.11
Il centrosinistra protesterà a Montecitorio in occasione del voto sul processo breve e dell´udienza per il caso Ruby

Bersani: "Siamo riusciti a fermarli battaglia nelle piazze e in aula"
di Goffredo De Marchis

ROMA - «In piazza e in Parlamento», dice Pier Luigi Bersani. Opposizione ordinaria alla Camera e al Senato. "Straordinaria" con le mobilitazioni dei partiti e della società civile. «Saremo accanto a tutti i movimenti», annuncia il segretario del Pd. Senza abbandonare le aule parlamentari, senza rinunciare alla "guerriglia" sulle leggi, ai blitz dei voti in cui la maggioranza viene battuta, al ruolo di minoranza che combatte emendamento per emendamento. Bersani media sulla linea da seguire contro i colpi di coda di Berlusconi: il processo breve, i gestacci di La Russa, il caso Ruby. Per martedì e mercoledì prossimo - quando si voterà il conflitto di attribuzione sul processo Ruby, si voterà il processo breve e inizierà il processo Ruby a Milano - il Pd si sta organizzando per manifestare davanti a Montecitorio. Ma l´Aventino no. «Lo abbiamo già visto una volta...», commenta. E Dario Franceschini avverte: «Finché sarò io il capogruppo, non usciremo dall´aula». Massimo D´Alema sentenzia: «Si dimostra oggi che era giusto restare in aula, fare opposizione in Parlamento si è rilevato efficace».
Sono pezzi di un dibattito aperto nel Pd sulla strategia per contrastare il premier, «per comunicare meglio la nostra partita contro il Cavaliere», ha detto Rosy Bindi. La più esplicita nel dire che «la proposta non è l´Aventino». Ma a volte «la non partecipazione al voto è più chiara della partecipazione». E che l´abbandono dell´aula del resto non è una novità nella tattica parlamentare del Pd. «Va ricordato che è già successo senza che questo provocasse polemiche», sottolinea la Bindi. L´ultimo esempio è recentissimo, «quando i senatori democratici hanno lasciato il loro posto in occasione delle comunicazioni del ministro Frattini sulla casa di Montecarlo». La presidente del Pd trova una sponda forte in Ignazio Marino. «Aventino? No, molto di più: i deputati dell´opposizione si dimettano in massa». Ma queste voci di dissenso oltranzista non trovano terreno fertile nel Pd. Persino un gruppo di deputati vicini a Marino bacchettano la linea più dura: «Veniamo da due giorni vincenti. Abbiamo messo sotto il governo, lo abbiamo costretto al rinvio del processo breve. Così si fa opposizione in Parlamento, altre strada sono inconsistenti». Firmato: Concia, Meta, Gozi, Calipari e altri. La strada che viene definita "dipietrista" non piace neanche all´area di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Lo fa capire con grande chiarezza l´ex segretario del Pd: «Se esiste ancora il berlusconismo è anche colpa del centrosinistra incapace di costruire un´alternativa che vada oltre l´antiberlusconismo». Parole che certo non evocano piazze o presidi permanenti. Ma Arturo Parisi apprezza le parole nette di Bindi nell´intervista a Repubblica: «In gran parte non le condivido, ma evocano una condotta chiara. Cosa risponde Bersani?».
Bersani indica la via della «piazza e del Parlamento». «Dobbiamo stare in tutti e due i luoghi. Combatteremo alla Camera anche martedì sul conflitto di attribuzione per il processo Ruby. Prepariamo le notti bianche l´8 aprile su scuola e democrazia. A Napoli, Torino, Milano e Bologna». Così il Pd ricuce le divisioni. E Bersani spedisce una lettera a Casini e Di Pietro per un´azione comune della minoranza sui tg Rai: monitoraggio costante per denunciare omissioni e censure. La replica dell´Udc e dell´Idv è positiva. «Aderiamo», dice il centrista Roberto Rao. L´opposizione prova a marciare unita.

Corriere della Sera 1.4.11
Deriva pericolosa
di Michele Ainis


Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione. Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato. D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.

Corriere della Sera 1.4.11
Il Pd «di piazza» teme di perdere l’Udc
Casini resta lontano dai manifestanti. E sul caso Tedesco rischiano di esplodere le contraddizioni
di Maria Teresa Meli


ROMA— Ora che la maggioranza è stata bloccata alla Camera Massimo D’Alema può ben dire: avevo ragione io. «Si dimostra che era giusto restare in aula e fare opposizione» , afferma l’ex premier rispondendo implicitamente a Rosy Bindi e agli altri che avevano proposto l’Aventino. E Beppe Fioroni può prendersi lo sfizio di ironizzare sulla sua compagna di partito: «Non è ferrata in politica» . La stessa Bindi, annusata l’aria, ridimensiona le sue parole del giorno prima. E non solo è in Aula, ma presiede la seduta, non prima, però, di aver fatto la dura con un rappresentante del governo molto vicino a Berlusconi: «Cercate di darvi una regolata, sennò qui viene giù tutto» . Insomma, in questo giovedì in cui l'opposizione riesce a segnare un punto, l’ipotesi dell’Aventino scompare con rapidità, è un termine che nessuno vuole pronunciare più nel Pd, quasi fosse una parolaccia. Questo anche perché Giorgio Napolitano, che ieri ha convocato i capigruppo parlamentari, ha spiegato chiaramente che questo clima di rissa non può continuare a oltranza. Perciò i maggiorenti del Pd si danno un gran da fare a smussare e minimizzare. «Finché sarò io capogruppo non ci sarà nessun Aventino» , tuona Dario Franceschini. E quando Di Pietro annuncia che presenterà insieme al Partito democratico una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro della Giustizia Angelino Alfano, da largo del Nazareno smentiscono. «Non mi risulta un’iniziativa del genere» , taglia corto il responsabile del settore Andrea Orlando. Dunque nel Pd sembrano riconoscersi tutti nelle parole di D’Alema e del segretario Bersani. Spiega il primo: «Oggi più che mai l’opposizione deve presidiare il Parlamento» . Annuncia il secondo: «Staremo nelle Aule e in piazza. E l’otto aprile faremo in quattro città le notti bianche della democrazia» . Ma questo non può nascondere il fatto che nel Partito democratico si fronteggiano da sempre due linee. Quella movimentista alla Bindi, appunto, e quella, per così dire, riformista che vede uniti, per una volta tanto, D’Alema e Veltroni. Quest’ultimo non esita a dire che «se esiste ancora il berlusconismo è perché il centrosinistra non è riuscito a costruire un’alternativa che vada oltre l’antiberlusconismo» . L’atto d’accusa di Veltroni cade proprio nel giorno giusto, nel giorno in cui il Pd più che alla piazza e alla folla che tira le monetine sembra dar retta al presidente della Repubblica. Del resto, andare appresso al popolo viola e ai dipietristi rischiava di tracciare un solco invalicabile tra il Partito democratico e i centristi dell’opposizione. In queste due giornate convulse l’atteggiamento di Pier Ferdinando Casini è stato assai diverso da quello, tanto per fare un nome, di Rosy Bindi. Duro nelle parole, il leader dell’Udc non ha però lisciato il pelo ai manifestanti e ha evitato atteggiamenti da tribuno o incitamenti alla piazza. Perciò, per recuperare quel rapporto e per tenere unite il più possibile le forze che in Parlamento contrastano la maggioranza di centrodestra, Pier Luigi Bersani propone di istituire un Osservatorio comune, con lo scopo di «fronteggiare l’oscuramento delle opposizioni» da parte del fronte berlusconiano. Ma c’è anche un’altra ragione che spinge i dirigenti del Pd a non accelerare sulla strada che inevitabilmente li porterebbe nelle braccia del leader dell’Idv Antonio Di Pietro. Una ragione con un nome e un cognome: Alberto Tedesco. Martedì prossimo il Senato si dovrà pronunciare sulla sorte del parlamentare del Pd inquisito dalla magistratura pugliese e non tutti i «democrats» sono favorevoli a concedere l’autorizzazione. Non a caso Bersani ha dichiarato che «non c’è nessuna indicazione di partito su questa vicenda» . Spingere da una parte sul pedale del giustizialismo per Berlusconi e, dall’altra, su quello del garantismo per Tedesco, non sarebbe opportuno e finirebbe per ritorcersi contro il Pd.

l’Unità 1.4.11
La Ue contro il reato di immigrazione clandestina
La Corte europea pronta a dichiarare illegittima la norma Sassoli, Pd: «È inaccettabile per l’Europa». Il bluff del governo che chiede aiuto ma non attiva la protezione temporanea
di Marco Mongiello


Il Governo italiano se la prende con Bruxelles per l’emergenza immigrazione, ma non utilizza i fondi europei a disposizione e non chiede di attivare il meccanismo di redistribuzione dei rifugiati. La richiesta l’ha dovuta fare Malta mercoledì, smascherando il bluff italiano lo stesso giorno in cui il ministro Frattini accusava di inerzia l’Unione europea. Tra qualche settimana inoltre la Corte di giustizia europea probabilmente dichiarerà illegittime le norme italiane sul reato di clandestinità, perché incompatibili con la direttiva sui rimpatri, fatta proprio da Frattini quando era commissario Ue alla Giustizia. «Sarà smontato il pacchetto sicurezza leghista del 2009 e torneranno liberi, finalmente, i 3118 detenuti extracomunitari in carcere solo per aver messo piede nel nostro paese. Per l’Europa questo è inaccettabile», ha commentato il capodelegazione Pd David Sassoli. Quanto ai soldi «sono già disponibili», ha ribadito Michele Cercone, portavoce del commissario Ue per gli Affari interni Cecilia Malmstrom. «Sono circa 80 milioni di euro per il 2010 e il 2011» e l’Italia può «riorientare la spesa dei fondi Ue già assegnati nel 2011 per finanziarie le misure di emergenza». Non è una questione di soldi, aveva replicato Frattini mercoledì, ma di redistribuire gli immigrati tra i Paesi membri. Una direttiva europea del 2001 infatti prevede la possibilità di attivare un meccanismo di protezione temporanea per i rifugiati di conflitti armati, ma per utilizzarla bisogna avere l’accordo delle maggioranza qualificata degli Stati membri, e soprattutto poi bisogna garantire una protezione di un anno, estendibile a due, ai rifugiati che oggi l’Esecutivo leghista vuole respingere o mettere in galera per reato di clandestinità. Per questo i ministri italiani sbraitano da Roma ma stanno zitti quando vanno a Bruxelles. «A Roma è in corso una approfondita valutazione sull’opportunità di attivare o meno la direttiva euro-
pea sulla protezione temporanea ha spiegato l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue È possibile che le condizioni ci siano, ma al momento non ci sono ancora». In ogni caso ora che la questione è stata sollevata dal governo maltese i ministri degli Interni ne discuteranno nella riunione in programma a Lussemburgo l’11 aprile.
Il meccanismo di solidarietà «va attivato all’interno dei governi. L’Italia, anziché abbaiare contro l’Europa, si dia da fare», ha esortato il vicepresidente dell’Europarlamento Gianni Pittella (Pd). Comunque la direttiva europea sulla redistribuzione degli immigrati, oltre a prevedere il contributo volontario degli altri governi, si applica solo ai rifugiati, quelli che hanno diritto a chiedere asilo perché scappano da situazioni di conflitto. In realtà «la vasta maggioranza delle persone che arrivano a Lampedusa sono migranti economici» ha ricordato Cercone «e solo il 15-20% chiede asilo».

l’Unità 1.4.11
Intervista a Ali Errishi
«Il raìs è rimasto solo. Ha i giorni contati ma non andrà in esilio»
L’ex ministro passato con i ribelli: «Le dimissioni del collega degli Esteri sono il segno della fine Italia attenta, non ci sarà un raìs gendarme del mare»
di U.D.G.


Il regime di Muammar Gheddafi ha i giorni contati. Attorno a lui si sta creando il vuoto. La riprova sono le dimissioni di Mussa Kussa». A sostenerlo è l’ex ministro libico per l’Immigrazione, Ali Errishi che si dimise pochi giorni dopo lo scoppio della rivolta in Libia a metà febbraio. Le dimissioni del ministro degli Esteri libico, considerato fino a pochi giorni fa uno degli uomini più vicini al Raìs, sono un «segno di come i giorni del regime sono contati. È la fine, è un colpo per il regime e i suoi seguaci. Gheddafi non ha più nessuno. È solo con i suoi figli», sottolinea Errishi. Sulla possibilità che Gheddafi possa accettare l’esilio, l’ex ministro appare alquanto scettico: «Per come ho imparato a conoscerlo dice a l’Unità mi sento di escluderlo. (Gheddafi) è un uomo che ha mostrato che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi uccido”». E a quanti in Occidente sostengono che l’azione militare internazionale sia stata affrettata, Ali Errishi ribatte seccamente: «Semmai è vero il contrario: gli Stati Uniti rileva l’ex ministro sono stati lenti nel sostenere l’opposizione libica perdendo forse l’occasione per far cadere il regime».
Qual è il segno politico delle dimissioni del ministro degli Esteri libico Mussa Kussa? «È il segno, pesantissimo, del vuoto che si sta facendo attorno a Gheddafi e ai suoi figli.Èilsegnodicomei giorni del regime sono contati. E forse quei giorni sarebbero già finiti se la Comunità internazionale non avesse ritardato il sostegno militare all’opposizione libica».
Vorrei restare sulle dimissioni di Kussa. Già prima vi erano stati numerosi e importanti defezioni, tra cui la sua. Al di là dell’importanza del ruolo che ricopriva, c’è un aspetto che rende le dimissioni di Kussa particolarmente significative?
«Non si tratta solo delle dimissioni di un ministro. Kussa era uno dei consiglieri di cui Gheddafi si fidava di più, oltre che legatissimo ai servizi di intelligence. È la fine del regime, Il regno brutale è sul punto di concludersi».
Tra le ipotesi ventilate per una soluzione del conflitto, c’è l’esilio del Raìs. Alcuni Paesi africani, come l’Uganda, sembrano disposti a concedere asilo a Gheddafi. Qual è la sua idea in proposito?
«Se l’esilio servisse a salvare vite umane e a evitare altri spargimenti di sangue, sarebbe una soluzione accettabile, anche se il posto più consono per Gheddafi sarebbe l’aula di un tribunale internazionale in cui rispondere dei crimini commessi contro il popolo libico. Ma per come ho imparato a conoscerlo, non credo che Gheddafi accetterà questa via di uscita. Gheddafi è un uomo che ha mostrato che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi uccido”. Si tratta di un uomo arrogante, pieno di sé, convinto che tutto e tutti siano comprabili...Si tratta di vedere come reagirà nel momento in cui si renderà conto che per lui è davvero finita...».
Secondo Al Arabiya anche il capo dell'intelligence libica, Abu-Zayd Durda, avrebbe lasciato il Paese per rifugiarsi in Tunisia...
«Altri personaggi di primo piano dell’establishment “gheddafiano” seguiranno questa strada..». Quanto c’è di calcolo e quanto di ripensamento in queste defezioni? «Il punto di rottura si è avuto quando Gheddafi ha ordinato di aprire il fuoco contro il popolo che reclamava diritti e democrazia. Allora occorreva schierarsi: c’è chi ci ha messo più tempo, ma l’importante è che attorno a Gheddafi e ai suoi figli si crei il vuoto. Ognuno può portare la sua motivazione personale ma ciò che conta è condividere il progetto di abbattere il regime per realizzare uno Stato democratico, pluralista...».
C’è chi ventila una spaccatura in due della Libia: lo Stato di Cirenaica e quello di Tripolitania... «Non esiste. La Libia resterà uno Stato unico, con Tripoli come sua capitale. Sarà varata una nuova Costituzione e realizzate le condizioni per elezioni libere. La transizione è già iniziata».
Lei è stato il ministro dell’Immigrazione. Dalla Libia continuano a giungere a Lampedusa barconi pieni di uomini, donne, bambini...C’è chi sostiene che sia un’arma innescata da Gheddafi per punire l’Italia del suo «tradimento»...
«Non c’è solo questo. La Libia è un Paese di transito, che fino a poco tempo fa ha funzionato, bene o male, da “tappo” per il contenimento dell’immigrazione clandestina. Ora quel “tappo” è saltato. Tornare al passato non solo è ingiusto: è impossibile. Occorre ripensare dalle fondamenta una politica di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per far sì che si riducano il più possibile le ragioni guerre, ingiustizie, povertà che spingono milioni di persone a fuggire dai loro Paesi. La regolazione dei flussi migratori non può essere un fatto di polizia. Gheddafi era diventato una sorta di “gendarme” del Mediterraneo, e non è stato certo il solo a giovarsene.... Questo ruolo finisce con lui. Nella Libia del futuro non esisteranno più altri “Raìs-gendarmi”».

Corriere della Sera 1.4.11
Gelmini e gli insegnanti precari: «L’anno prossimo più assunzioni»
Il ministro vuole evitare i ricorsi. La decisione spetta a Tremonti
di Lorenzo Salvia


ROMA — L’apertura di un tavolo di confronto tra il ministero dell’Istruzione e quello dell’Economia per accelerare l’assunzione a tempo indeterminato degli insegnanti precari. A confermare la notizia è lo stesso ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, rispondendo a un’interrogazione alla Camera. A chiedere chiarimenti era stato il Partito democratico, dopo la sentenza del tribunale del lavoro di Genova che ha riconosciuto un risarcimento di mezzo milione di euro a quindici insegnanti precari. «Credo che responsabilmente, insieme con il sindacato e con tutte le forze politiche presenti in questo Palamento — ha detto il ministro — dovremo certamente accelerare le immissioni in ruolo possibili» e per questo «anticiperemo il numero delle assunzioni che saremo in grado di fare per il prossimo anno» . Un chiarimento importante, questo. Alcune assunzioni sono state fatte ogni anno ma senza coprire il numero dei pensionati e quindi facendo scendere l’organico complessivo visto il taglio di 135 mila posti deciso con la Finanziaria del 2008. Adesso il tentativo è ottenere qualche assunzione in più rispetto a quelle già programmate. Non è un cambio di linea ma il tentativo di mettere i conti pubblici al riparo da un possibile effetto a catena dopo la sentenza della settima scorsa. Il giudice di Genova ha stabilito che il ricorso al precariato viola una direttiva dell’Unione europea che obbliga gli Stati membri a limitare l’uso dei contratti a termine al massimo per tre anni. Se facessero ricorso tutti gli insegnanti nelle stesse condizioni di quelli di Genova, stimati in circa 65 mila, il costo per lo Stato sarebbe di 3 miliardi di euro. Da qui il tentativo di strappare qualche altra assunzione portato al «tavolo di confronto con il ministero dell’Economia» . Mettendo sul piatto quello che i tecnici del ministero hanno suggerito nei giorni scorsi, che sindacati ed opposizione dicono da mesi e che pure il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, pur non parlando del caso specifico della scuola, ha sostenuto qualche tempo fa: in alcuni casi l’assunzione a tempo indeterminato dei precari potrebbe far risparmiare lo Stato. Il «trucco» sarebbe quello di assumere i precari nei posti che già adesso occupano «stabilmente» , coprendo cioè quelle cattedre che non restano scoperte all’inizio dell’anno per le malattie lunghe o per le maternità ma per motivi che si conoscono già da prima, come i distacchi dei politici, dei sindacalisti, o per gli spezzoni di cattedra che non si incastrano fra loro. Sono tanti, quasi 50 mila l’anno e si aggiungerebbero ai 70 mila pensionamenti che dovrebbero arrivare nei prossimi tre anni come ricorda il deputato del Pd Antonino Russo che ha consegnato alla Gelmini una lettera firmata da 60 parlamentari di vari schieramenti per chiederle di investire della questione l’intero Parlamento. Ma l’accelerazione sulle assunzioni dei precari è solo una faccia della medaglia, per altro tutta da verificare nei prossimi mesi visto che l’ultima parola spetta come sempre a Giulio Tremonti. Gelmini ha confermato che presenterà appello contro la sentenza di Genova, ricordando che ci sono state anche sentenze di segno opposto a Viterbo, Venezia e Perugia. Mentre è ormai pronto un emendamento alla legge comunitaria per provare a confermare la specificità della scuola nell’uso dei contratti a termine anche rispetto alle norme comunitarie

Repubblica 1.4.11
Domenica prossima Matthew Fox affiggerà 95 punti contro la Chiesa di oggi
Il teologo scomodo e le sue tesi "luterane"
di Vito Mancuso


Era il 31 ottobre 1517 quando Lutero inchiodava sul portone della chiesa di Wittenberg le 95 tesi contro le indulgenze papali dando origine alla Riforma protestante. All´indomani dell´elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio il 19 aprile 2005, il teologo americano Matthew Fox inchiodava sul medesimo portone di Wittenberg altre 95 tesi contro il papato di oggi. E dopo Wittenberg, ora è la volta di Roma. Fox infatti si trova nella capitale per un dibattito con me (domenica alle 12) nel contesto della rassegna «Libri Come» attorno al suo libro In principio era la gioia (Fazi) a seguito del quale egli venne costretto a lasciare l´ordine domenicano dopo 34 anni di permanenza dietro pressione dell´allora cardinal Ratzinger in qualità di Prefetto della «Congregazione per la Dottrina della Fede», e a Roma, presso un´importante basilica, Fox ripeterà il simbolico gesto di Lutero. Ma c´è ancora bisogno di un gesto così e di altre 95 tesi?
Il luogo scelto da Fox è Santa Maria Maggiore (domenica alle 10), il cui arciprete è Bernard Francis Law, cardinale e già arcivescovo di Boston, rimosso nel 2002 per aver insabbiato numerosi casi di pedofilia e nominato nel 2004 da Giovanni Paolo II titolare dell´antica basilica romana, nonché membro attualmente di sette congregazioni vaticane. C´è ancora bisogno delle 95 tesi? Il lettore legga le tesi 8 e 68 e risponderà da sé. Qualche giorno fa in seguito al terremoto in Giappone un cattolico «doc» quale Roberto De Mattei (vicepresidente del Cnr!) dai microfoni di Radio Maria ha dichiarato che le catastrofi naturali sono un´esigenza della giustizia di Dio. C´è ancora bisogno delle 95 tesi? Il lettore legga le tesi 4 e 5 e risponderà da sé.
Dopo l´apertura di Benedetto XVI sull´uso dei preservativi nel libro-intervista Luce del mondo del novembre 2010 dove il papa li giudica un «primo atto di responsabilità», la Congregazione per la Dottrina della Fede si è affrettata a distanza di un mese (velocità supersonica per la curia romana) a pubblicare un documento per dire che non c´è nulla di nuovo e che i preservativi rimangono intrinsecamente cattivi come sono sempre stati. C´è ancora bisogno delle 95 tesi? Il lettore legga le tesi 70 e 71 e risponderà da sé. Gli esempi potrebbero continuare, ma il centro della questione è che il mondo manifesta a chi lo sa leggere un grande bisogno di spiritualità che l´offerta religiosa tradizionale non riesce talora neppure a comprendere. Matthew Fox non offre un nuovo vangelo né le sue 95 tesi pretendono di essere infallibili. È solo un onesto, attuale e simpatico tentativo di tornare a far capire alla coscienza contemporanea quali grandi ricchezze sono in gioco nella spiritualità. Il lettore legga la tesi 46 e vedrà da sé il dischiudersi di grandi orizzonti vitali.

Corriere della Sera 1.4.11
Stalin e gli ebrei. Storia di una ossessione
Sergio Romano risponde a Luciano Canfora


Mi pare di cogliere nella sua risposta a un lettore una lieve imprecisione. L’Urss non aveva solo «favorito la nascita» di Israele ma era stata determinante alle Nazioni Unite quando si votò nel novembre 1947 la Risoluzione 181. Si ebbero allora 33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti. Cinque dei 33 furono Urss, Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia e furono decisivi. Se fossero passati nel campo avverso (tale fu il Regno Unito), il risultato sarebbe stato di parità e Israele non sarebbe nato. «L’antisemitismo» , aveva detto Stalin in un suo intervento di qualche anno precedente, «è la più pericolosa eredità del cannibalismo» . Il libro di Mlecin «Perché Stalin creò Israele» (Sandro Teti Editore, con postfazione di Enrico Mentana e di Moni Ovadia) fa giustizia di molti luoghi comuni. Nel 1948 senza le armi cecoslovacche il neonato Israele sarebbe stato travolto dagli Stati arabi armati dagli Inglesi. Il deterioramento dei rapporti Urss-Israele avvenne negli anni seguenti fino all’insensato processo ai medici. Ma il vero mutamento di strategia non va riferito agli ultimi anni di Stalin bensì all’irresponsabile terzomondismo filoarabo di Krusciov e dei suoi successori.
Luciano Canfora, Bari

Caro Canfora, Ho sempre pensato che le nostre rispettive opinioni su Stalin fossero meno radicalmente diverse di quanto possa apparire a prima vista. Ammiro l’uomo che ha creato lo Stato sovietico, l’economia sovietica e vinto la Seconda guerra mondiale. Non è necessario essere comunisti per riconoscere che fu una personalità per molti aspetti ciclopica. Ma sulla sua diffidenza per gli ebrei e sulle ragioni per cui riconobbe lo Stato d’Israele non ho dubbi. Dei quattro Paesi dell’Europa centro-orientale che votarono con l’Urss, l’Ucraina e la Bielorussia erano soltanto una finzione giuridica, concordata a Yalta per strappare a Stalin un accordo sullo statuto dell’Onu; mentre la Cecoslovacchia e la Polonia erano ancora occupate dall’Armata Rossa. Stalin sostenne Israele perché la sua esistenza era un colpo all’impero britannico, ma l’entusiasmo con cui gli ebrei di Mosca accolsero Golda Meir, primo ambasciatore d’Israele in Unione Sovietica, insinuò nella sua mente patologicamente sospettosa la convinzione che gli ebrei sovietici avrebbero sempre avuto, nel loro cuore, una seconda patria. La pretestuosa campagna contro i medici ebrei, sospettati di complottare l’assassinio della dirigenza sovietica, fu la versione moderna dei processi in cui, nell’Europa medioevale, gli ebrei venivano accusati di omicidi rituali; e si sarebbe conclusa, probabilmente, con il trasferimento forzato di tutto l’ebraismo russo nelle pianure siberiane. Ma già negli anni precedenti, dopo la rottura con la Jugoslavia di Tito, Stalin aveva avviato un’operazione che si proponeva anzitutto di stroncare il contagio della eresia titina, ma anche di ridurre drasticamente la componente ebraica nelle dirigenze comuniste dei Paesi satelliti. Laszlo Rajk, ministro degli Esteri ungherese, processato nel 1949 e condannato a morte, era ebreo. Rudolf Slanskij, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, condannato a morte nel 1952, era ebreo come altri dieci dei 14 imputati della vicenda di cui fu protagonista. Nei giorni del processo, Rude Pravo, quotidiano del partito, definì il sionismo «nemico numero uno della classe operaia» . E durante il processo vi furono allusioni frequenti ai legami fra l’ebraismo e gli Stati Uniti a profitto dello Stato d’Israele. Più tardi l’antisionismo servì all’Urss per meglio conquistare l’amicizia dei Paesi arabi. Ma dalla fine degli anni Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta fu una delle personali ossessioni di Stalin.

Corriere della Sera 1.4.11
Simbolo e psiche per Mario Trevi
di Silvia Vegetti Finzi


Con la morte di Mario Trevi, nato ad Ancona nel 1924, scompare un grande maestro della psicologia italiana e junghiana in particolare. Laureato in Filosofia, aveva sostenuto il training didattico con Ernst Bernhard. Era stato tra i fondatori della Associazione italiana per lo studio della psicologia analitica (1960) e del Centro italiano per la psicologia analitica (1966). La sua opera fondamentale è Per uno junghismo critico (Bompiani, 1987). Il suo sguardo, critico e razionale, si è rivolto soprattutto contro una lettura naturalista ed essenzialista della teoria junghiana che, reificando i concetti, promuove inaccettabili atteggiamenti dogmatici o mistici. Di contro ha valorizzato gli spunti epistemologici di Jung, anticipatori dell’attuale epistemologia della complessità. Secondo Trevi la psicologia, intermedia tra natura e cultura, si colloca tra le discipline storiche ed ermeneutiche. L’ermeneutica, negando l’obbiettività dei fenomeni osservati, interroga innanzitutto l’uomo sulla sua condizione di interrogante. Quando noi comprendiamo qualche cosa siamo già compromessi da una precomprensione che è frutto della nostra epoca, della nostra educazione, della nostra particolare visione del mondo. La conoscenza umana deve accontentarsi di cogliere il probabile e il verosimile. La psicologia pertanto non sarà mai una teoria dell’uomo, un’antropologia perenne e assoluta, ma una proposta relativa, che vale in quel momento storico, in quelle circostanze. Attento ai fenomeni sociali, Trevi respinge però la pretesa di ricavare da Jung una precisa ipotesi sociologica, privilegiando piuttosto la dialettica tra il processo di individuazione e quello di socializzazione, tra l’inconscio individuale e l’inconscio collettivo. Solo la somma dei cambiamenti individuali, sostiene, può provocare cambiamenti sociali. «Non è il cosiddetto inconscio collettivo — scrive — l’apporto originale di Jung, bensì l’inconscio creativo» , vale a dire l’inconscio come sede dell’attività simbolica, sintesi degli opposti non contraddittori. Il simbolo è vivo finché è pregno di significato e rinvia a qualche cosa di ignoto. Mentre per Freud il simbolo media e riequilibra il rapporto tra inconscio e conscio, per Jung apre un campo di tensioni, di trasformazioni. È creativo nel senso che agisce verso un orizzonte irraggiungibile e si trasforma in mero segno una volta espresso il suo potenziale di senso. Il simbolo è una istanza operativa perché promuove lo sviluppo dell’uomo, in vista di quel processo di individuazione che sostituisce quello di guarigione. L’individuazione, che conduce dal Sé all’Io, dischiude la coscienza razionale dell’uomo. Il Sé contiene tutte le possibilità umane, mitologicamente rappresentate dalla divinità. In un primo movimento va superato per la costruzione dell’Io ma deve essere poi recuperato in quanto costituisce il luogo in cui si attiva la creatività, in cui nasce l’utopia. La realizzazione di sé comporta l’attivazione di entrambe le istanze in vista del raggiungimento dell’autenticità, di ciò che ciascuno è. Il privilegio concesso da Trevi agli aspetti creativi, fa sì che egli intenda i processi di conoscenza e di trasformazione della psiche, non come una tecnica, ma come un’arte, un esercizio inesauribile dell’interpretazione. Venuta meno la storica contrapposizione tra Freud e Jung, le varie «psicologie» sono tutte vere, purché coerenti con le loro premesse. Questa apertura «illuminista» ha costituito una grande opportunità per la cultura psicologica italiana, tanto nell’ambito teorico quanto in quello clinico.

Repubblica 1.4.11
L'analista, seguace critico di Jung, è morto ieri a Roma. Aveva 87 anniAddio a mario trevi Maestro dell´anima
Tra i suoi libri anche un dialogo col figlio Emanuele tra memoria, ironia e intimità


ROMA È morto all´alba di ieri Mario Trevi, il grande psicoanalista junghiano, uno studioso di prim´ordine, eppure tutt´altro che una celebrità, per quella sua inclinazione alla riservatezza che tanto strideva in un mondo affollato di presenzialisti. Terapeuta amatissimo, per indole e per scelta è stato un personaggio del tutto refrattario alle sirene mediatiche. "Vivi nascosto", era il frammento di Epicuro che ha seguito con rigore inflessibile. Ogni tanto cedeva alla richiesta di un´intervista: forse per una qualche civetteria, certamente per quella gentilezza che era un altro tratto dominante del suo stare al mondo. Era nato ad Ancona il 3 aprile del ´24, dopodomani avrebbe compiuto ottantasette anni.
Di controtendenza è stato lo junghismo che Trevi ha riproposto in una chiave brillante, innovativa, nel segno dell´originalità. Del resto, lui amava il maestro svizzero più empirico, critico, ermeneutico, probabilista - il teorico di quel "principio di individuazione" che tende a differenziare il singolo dagli stereotipi collettivi, a permettergli di adeguarsi ai valori culturali con un´impronta personale. Ha invece detestato lo stregone misticheggiante, il profeta oscuro che ha creduto di scoprire il fondo dell´anima. Trevi era tutt´altro che rapito dall´enfasi per l´inconscio collettivo o per gli archetipi - quelle enigmatiche immagini originarie espresse principalmente nei miti e nelle fiabe. Tanto meno lo incantavano certe forme di religiosità neopagana costruite intorno al concetto del "Sé", un´entità a cui assegnava lo stesso peso metafisico dell´anima platonico-cristiana. A questa corrente neojunghiana deteriore, disinvolta e accattivante nel suo confuso misticismo, Trevi è stato del tutto estraneo - anzi allergico.
Per averne un´idea, basta scorrere i titoli dei suoi libri più importanti (ma ogni suo lavoro, anche minore, era un´avventura del pensiero): da Metafore del simbolo a L´altra lettura di Jung usciti da Cortina, da Per uno junghismo critico (Bompiani) ai Saggi di critica neojunghiana (Feltrinelli). Sono studi rigorosissimi, specchi in cui rimane riflessa l´eleganza della sua mente - compresa l´introduzione a L´io e l´inconscio di Jung per Bollati Boringhieri - e dove si colgono nettamente le tracce dei suoi due maestri.
Il primo è stato un personaggio decisamente eccentrico, Ernst Bernhard, più guru che psicoterapeuta di una folta schiera di artisti e intellettuali come Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg... Di Bernhard, il medico tedesco ed ebreo che ha introdotto in Italia la psicologia analitica, Trevi è stato paziente e poi allievo fino al ´65, l´anno della scomparsa del brillante seguace di Jung. Il secondo maestro è stato invece indiretto, ma decisivo: si parla di Karl Jaspers, tra i grandi filosofi del secolo scorso, il geniale autore di quella Psicopatologia generale che ha voltato le spalle alla psichiatria organicistica.
«Ok, papà, inizia la tortura...»: un gioiellino a sé rimane quella conversazione - sul filo della memoria, dell´intimità, dell´ironia - con il figlio, lo scrittore Emanuele Trevi. In Invasioni controllate (Castelvecchi, 2007), lo studioso indulge alla tenerezza paterna, ma accentua la spregiudicatezza intellettuale. Qui il lettore meno interessato alla produzione saggistica potrà cogliere con facilità - e senz´altro con più emozione - la qualità anche umana di Mario Trevi. Quel suo sguardo aperto, tollerante, profondamente laico nei confronti del mondo e del sapere psicoanalitico, il rifiuto dei pensieri rigidi e immutabili, delle tante scuole e scuolette.
«Arrivato alla tua età, senti di aver raggiunto una qualche forma di saggezza?», gli chiede Emanuele. E lui: «Non penso di essere diventato né un saggio né un santo... Non è che ho una grande stima di me stesso». Arrivato alla sua età, era il successo letterario del figlio la soddisfazione più grande, la consolazione più intima. Era così dolce, nella voce e nel sorriso, quando notava: «Sono passato dalla fase in cui dicevano a Emanuele: ah, tu sei il figlio di Mario Trevi, alla fase in cui mi dicono: ah, lei è il padre di Emanuele Trevi... Che effetto mi fa? Mi fa l´effetto di scomparire, molto molto felicemente».
A dispetto dell´età, Trevi ha continuato a lavorare nel suo studio ai Parioli che in un certo senso gli somigliava per sobrietà: lì incontrava i pazienti, lì si appartava con i suoi pensieri. Ma il luogo che amava di più, forse era un altro: una casetta, una "capanna" di trentacinque metri quadri, che affaccia sul lago di Trevignano. Lì si occupava del giardino, e poi cucinava.
Alle 11.30 di questa mattina, presso la Facoltà valdese di Teologia (via Pietro Cossa, 42), Mario Trevi sarà commemorato nel modo in cui desiderava. Ci saranno un paio di letture dei suoi scritti, e poi la musica, l´adagio di un quartetto di Beethoven.
l’Unità 1.4.11
Il segretario del Pd: l’8 aprile manifestazioni in quattro grandi città. Bindi: non penso all’Aventino
Allarme per l’informazione: «Il governo prepara una stretta», appello a Udc, Api, Fli e Idv

Bersani: «Faremo in battaglia in Parlamento e nelle piazze». E ai leader dell’opposizione dice: «Il governo prepara una stretta sull’informazione, vi invito ad un’azione comune per realizzare uno strumento di controllo».
di Maria Zegarelli


Una crisi politico-istituzionale come poche altre ce ne sono state prima, regole che saltano, il parlamento che si trasforma in un ring e volano giornali, insulti irripetibili, mentre ministri e onorevoli si esprimono neanche fossero espressione della peggiore feccia. Intanto il governo impone la prescrizione breve al parlamento per salvare il presidente del Consiglio dal processo Mills e prepara la stretta finale sull’informazione in vista delle elezioni amministrative di maggio e, soprattutto, delle elezioni politiche. E l’opposizione? «Chiedo all’opposizione unità e tenuta», invita il segretario Pd Pier Luigi Bersani che ieri ha inviato una lettera ai leader dei partiti di minoranza per affrontare quella che secondo l’ex ministro è una vera e propria emergenza democratica. Per Bersani si deve «realizzare uno strumento di controllo sull’equilibrio politico in particolare dei telegiornali e dei programmi di intrattenimento, per presidiare, in modo incisivo e tempestivo, questa delicatissima fase», perché «sembra evidente che il governo sta predisponendo un’ulteriore stretta sull’informazione, a partire dai telegiornali, così da oscurare le opposizione e da condizionare la fase politica e il prossimo appuntamento elettorale». A Casini, Bocchino, Rutelli e Di Pietro, Bersani propone «un’iniziativa comune, pur nel pieno riconoscimento delle differenze politiche», da delineare nel corso dell’incontro dei responsabili dell’informazione dei vari partiti in programma per il 7 aprile. Di Pietro si dice disposto, «l’opposizione mai è stata unita come in questo momento in Parlamento», dunque bene il comitato di controllo.
QUALE OPPOSIZIONE
Ma se l’opposizione in Aula marcia in un’unica direzione, nel Pd il dibattito sul come si deve procedere dentro e fuori il Parlamento è agitato. Aventino, dimissioni in blocco, oppure lotta dura e pura dai banchi di minoranza e nelle piazze?
Costretta Rosy Bindi a chiarire il senso delle sue parole: «Non ci sono
tentazioni “aventiniane” e il partito non è diviso, come qualche resoconto di stampa vorrebbe far credere. Non ho proposto di abbandonare il Parlamento. anche se andrebbe ricordato che in altre occasioni siamo usciti dalle aule senza che questo provocasse polemiche. Piuttosto ho sottolineato che di fronte a una situazione che non ha nulla di normale la nostra risposta deve altrettanto eccezionale». Secondo la presidente Pd serve un’azione forte concordata tra opposizioni e movimenti anche fuori dalle Camere, come manifestazioni in tutte le città. Massimo D’Alema smentisce la «lite» con Bindi, solo opinioni diverse, anche se «il rinvio del processo breve dimostra che era giusto stare in Aula». Bersani cerca di fare sintesi: «Il partito non deve mollare alcun presidio», in prima linea fuori e dentro il parlamento perché «gli aventini li abbiamo già visti...». Dai microfoni del Tg2, sottolineando come il tentato «blitz» della maggioranza sul processo breve sia fallito e annuncia che il Pd l'8 aprile parteciperà alle notti bianche per la scuola e la democrazia in 4 grandi città italiane.
Intanto Ignazio Marino propone le dimissioni in blocco di tutti i parlamentari per arrivare allo scioglimen-
to delle Camere, mentre per Franco Marini è «meglio lo scontro dentro il Parlamento», «un colle triste, l’Aventino», aggiunge, «e non porta nemmeno fortuna». Arturo Parisi incalza il segretario: «È d’accordo con Bindi che la “dittatura imposta dalla maggioranza” merita come risposta forte “un presidio permanente avanti a Montecitorio? Che l’astensione del Pd sul Federalismo regionale è stato un errore? Che la non partecipazione ai lavori parlamentari , può essere più diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela inutile?». Di parere opposto Paolo Gentiloni, Modem: «Noi dobbiamo fare le nostre battaglie in parlamento, al Pd non manca l’indignazione, manca l’alternativa». Intanto Beppe Fioroni fa sapere che non parteciperà al seminario del Pd sulla forma di partito.

Repubblica 1.4.11
Il centrosinistra protesterà a Montecitorio in occasione del voto sul processo breve e dell´udienza per il caso Ruby
Bersani: "Siamo riusciti a fermarli battaglia nelle piazze e in aula"
di Goffredo De Marchis

ROMA - «In piazza e in Parlamento», dice Pier Luigi Bersani. Opposizione ordinaria alla Camera e al Senato. "Straordinaria" con le mobilitazioni dei partiti e della società civile. «Saremo accanto a tutti i movimenti», annuncia il segretario del Pd. Senza abbandonare le aule parlamentari, senza rinunciare alla "guerriglia" sulle leggi, ai blitz dei voti in cui la maggioranza viene battuta, al ruolo di minoranza che combatte emendamento per emendamento. Bersani media sulla linea da seguire contro i colpi di coda di Berlusconi: il processo breve, i gestacci di La Russa, il caso Ruby. Per martedì e mercoledì prossimo - quando si voterà il conflitto di attribuzione sul processo Ruby, si voterà il processo breve e inizierà il processo Ruby a Milano - il Pd si sta organizzando per manifestare davanti a Montecitorio. Ma l´Aventino no. «Lo abbiamo già visto una volta...», commenta. E Dario Franceschini avverte: «Finché sarò io il capogruppo, non usciremo dall´aula». Massimo D´Alema sentenzia: «Si dimostra oggi che era giusto restare in aula, fare opposizione in Parlamento si è rilevato efficace».
Sono pezzi di un dibattito aperto nel Pd sulla strategia per contrastare il premier, «per comunicare meglio la nostra partita contro il Cavaliere», ha detto Rosy Bindi. La più esplicita nel dire che «la proposta non è l´Aventino». Ma a volte «la non partecipazione al voto è più chiara della partecipazione». E che l´abbandono dell´aula del resto non è una novità nella tattica parlamentare del Pd. «Va ricordato che è già successo senza che questo provocasse polemiche», sottolinea la Bindi. L´ultimo esempio è recentissimo, «quando i senatori democratici hanno lasciato il loro posto in occasione delle comunicazioni del ministro Frattini sulla casa di Montecarlo». La presidente del Pd trova una sponda forte in Ignazio Marino. «Aventino? No, molto di più: i deputati dell´opposizione si dimettano in massa». Ma queste voci di dissenso oltranzista non trovano terreno fertile nel Pd. Persino un gruppo di deputati vicini a Marino bacchettano la linea più dura: «Veniamo da due giorni vincenti. Abbiamo messo sotto il governo, lo abbiamo costretto al rinvio del processo breve. Così si fa opposizione in Parlamento, altre strada sono inconsistenti». Firmato: Concia, Meta, Gozi, Calipari e altri. La strada che viene definita "dipietrista" non piace neanche all´area di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Lo fa capire con grande chiarezza l´ex segretario del Pd: «Se esiste ancora il berlusconismo è anche colpa del centrosinistra incapace di costruire un´alternativa che vada oltre l´antiberlusconismo». Parole che certo non evocano piazze o presidi permanenti. Ma Arturo Parisi apprezza le parole nette di Bindi nell´intervista a Repubblica: «In gran parte non le condivido, ma evocano una condotta chiara. Cosa risponde Bersani?».
Bersani indica la via della «piazza e del Parlamento». «Dobbiamo stare in tutti e due i luoghi. Combatteremo alla Camera anche martedì sul conflitto di attribuzione per il processo Ruby. Prepariamo le notti bianche l´8 aprile su scuola e democrazia. A Napoli, Torino, Milano e Bologna». Così il Pd ricuce le divisioni. E Bersani spedisce una lettera a Casini e Di Pietro per un´azione comune della minoranza sui tg Rai: monitoraggio costante per denunciare omissioni e censure. La replica dell´Udc e dell´Idv è positiva. «Aderiamo», dice il centrista Roberto Rao. L´opposizione prova a marciare unita.

Corriere della Sera 1.4.11
Deriva pericolosa
di Michele Ainis


Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione. Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato. D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.

Corriere della Sera 1.4.11
Il Pd «di piazza» teme di perdere l’Udc
Casini resta lontano dai manifestanti. E sul caso Tedesco rischiano di esplodere le contraddizioni
di Maria Teresa Meli


ROMA— Ora che la maggioranza è stata bloccata alla Camera Massimo D’Alema può ben dire: avevo ragione io. «Si dimostra che era giusto restare in aula e fare opposizione» , afferma l’ex premier rispondendo implicitamente a Rosy Bindi e agli altri che avevano proposto l’Aventino. E Beppe Fioroni può prendersi lo sfizio di ironizzare sulla sua compagna di partito: «Non è ferrata in politica» . La stessa Bindi, annusata l’aria, ridimensiona le sue parole del giorno prima. E non solo è in Aula, ma presiede la seduta, non prima, però, di aver fatto la dura con un rappresentante del governo molto vicino a Berlusconi: «Cercate di darvi una regolata, sennò qui viene giù tutto» . Insomma, in questo giovedì in cui l'opposizione riesce a segnare un punto, l’ipotesi dell’Aventino scompare con rapidità, è un termine che nessuno vuole pronunciare più nel Pd, quasi fosse una parolaccia. Questo anche perché Giorgio Napolitano, che ieri ha convocato i capigruppo parlamentari, ha spiegato chiaramente che questo clima di rissa non può continuare a oltranza. Perciò i maggiorenti del Pd si danno un gran da fare a smussare e minimizzare. «Finché sarò io capogruppo non ci sarà nessun Aventino» , tuona Dario Franceschini. E quando Di Pietro annuncia che presenterà insieme al Partito democratico una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro della Giustizia Angelino Alfano, da largo del Nazareno smentiscono. «Non mi risulta un’iniziativa del genere» , taglia corto il responsabile del settore Andrea Orlando. Dunque nel Pd sembrano riconoscersi tutti nelle parole di D’Alema e del segretario Bersani. Spiega il primo: «Oggi più che mai l’opposizione deve presidiare il Parlamento» . Annuncia il secondo: «Staremo nelle Aule e in piazza. E l’otto aprile faremo in quattro città le notti bianche della democrazia» . Ma questo non può nascondere il fatto che nel Partito democratico si fronteggiano da sempre due linee. Quella movimentista alla Bindi, appunto, e quella, per così dire, riformista che vede uniti, per una volta tanto, D’Alema e Veltroni. Quest’ultimo non esita a dire che «se esiste ancora il berlusconismo è perché il centrosinistra non è riuscito a costruire un’alternativa che vada oltre l’antiberlusconismo» . L’atto d’accusa di Veltroni cade proprio nel giorno giusto, nel giorno in cui il Pd più che alla piazza e alla folla che tira le monetine sembra dar retta al presidente della Repubblica. Del resto, andare appresso al popolo viola e ai dipietristi rischiava di tracciare un solco invalicabile tra il Partito democratico e i centristi dell’opposizione. In queste due giornate convulse l’atteggiamento di Pier Ferdinando Casini è stato assai diverso da quello, tanto per fare un nome, di Rosy Bindi. Duro nelle parole, il leader dell’Udc non ha però lisciato il pelo ai manifestanti e ha evitato atteggiamenti da tribuno o incitamenti alla piazza. Perciò, per recuperare quel rapporto e per tenere unite il più possibile le forze che in Parlamento contrastano la maggioranza di centrodestra, Pier Luigi Bersani propone di istituire un Osservatorio comune, con lo scopo di «fronteggiare l’oscuramento delle opposizioni» da parte del fronte berlusconiano. Ma c’è anche un’altra ragione che spinge i dirigenti del Pd a non accelerare sulla strada che inevitabilmente li porterebbe nelle braccia del leader dell’Idv Antonio Di Pietro. Una ragione con un nome e un cognome: Alberto Tedesco. Martedì prossimo il Senato si dovrà pronunciare sulla sorte del parlamentare del Pd inquisito dalla magistratura pugliese e non tutti i «democrats» sono favorevoli a concedere l’autorizzazione. Non a caso Bersani ha dichiarato che «non c’è nessuna indicazione di partito su questa vicenda» . Spingere da una parte sul pedale del giustizialismo per Berlusconi e, dall’altra, su quello del garantismo per Tedesco, non sarebbe opportuno e finirebbe per ritorcersi contro il Pd.

l’Unità 1.4.11
La Ue contro il reato di immigrazione clandestina
La Corte europea pronta a dichiarare illegittima la norma Sassoli, Pd: «È inaccettabile per l’Europa». Il bluff del governo che chiede aiuto ma non attiva la protezione temporanea
di Marco Mongiello


Il Governo italiano se la prende con Bruxelles per l’emergenza immigrazione, ma non utilizza i fondi europei a disposizione e non chiede di attivare il meccanismo di redistribuzione dei rifugiati. La richiesta l’ha dovuta fare Malta mercoledì, smascherando il bluff italiano lo stesso giorno in cui il ministro Frattini accusava di inerzia l’Unione europea. Tra qualche settimana inoltre la Corte di giustizia europea probabilmente dichiarerà illegittime le norme italiane sul reato di clandestinità, perché incompatibili con la direttiva sui rimpatri, fatta proprio da Frattini quando era commissario Ue alla Giustizia. «Sarà smontato il pacchetto sicurezza leghista del 2009 e torneranno liberi, finalmente, i 3118 detenuti extracomunitari in carcere solo per aver messo piede nel nostro paese. Per l’Europa questo è inaccettabile», ha commentato il capodelegazione Pd David Sassoli. Quanto ai soldi «sono già disponibili», ha ribadito Michele Cercone, portavoce del commissario Ue per gli Affari interni Cecilia Malmstrom. «Sono circa 80 milioni di euro per il 2010 e il 2011» e l’Italia può «riorientare la spesa dei fondi Ue già assegnati nel 2011 per finanziarie le misure di emergenza». Non è una questione di soldi, aveva replicato Frattini mercoledì, ma di redistribuire gli immigrati tra i Paesi membri. Una direttiva europea del 2001 infatti prevede la possibilità di attivare un meccanismo di protezione temporanea per i rifugiati di conflitti armati, ma per utilizzarla bisogna avere l’accordo delle maggioranza qualificata degli Stati membri, e soprattutto poi bisogna garantire una protezione di un anno, estendibile a due, ai rifugiati che oggi l’Esecutivo leghista vuole respingere o mettere in galera per reato di clandestinità. Per questo i ministri italiani sbraitano da Roma ma stanno zitti quando vanno a Bruxelles. «A Roma è in corso una approfondita valutazione sull’opportunità di attivare o meno la direttiva euro-
pea sulla protezione temporanea ha spiegato l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue È possibile che le condizioni ci siano, ma al momento non ci sono ancora». In ogni caso ora che la questione è stata sollevata dal governo maltese i ministri degli Interni ne discuteranno nella riunione in programma a Lussemburgo l’11 aprile.
Il meccanismo di solidarietà «va attivato all’interno dei governi. L’Italia, anziché abbaiare contro l’Europa, si dia da fare», ha esortato il vicepresidente dell’Europarlamento Gianni Pittella (Pd). Comunque la direttiva europea sulla redistribuzione degli immigrati, oltre a prevedere il contributo volontario degli altri governi, si applica solo ai rifugiati, quelli che hanno diritto a chiedere asilo perché scappano da situazioni di conflitto. In realtà «la vasta maggioranza delle persone che arrivano a Lampedusa sono migranti economici» ha ricordato Cercone «e solo il 15-20% chiede asilo».

l’Unità 1.4.11
Intervista a Ali Errishi
«Il raìs è rimasto solo. Ha i giorni contati ma non andrà in esilio»
L’ex ministro passato con i ribelli: «Le dimissioni del collega degli Esteri sono il segno della fine Italia attenta, non ci sarà un raìs gendarme del mare»
di U.D.G.


Il regime di Muammar Gheddafi ha i giorni contati. Attorno a lui si sta creando il vuoto. La riprova sono le dimissioni di Mussa Kussa». A sostenerlo è l’ex ministro libico per l’Immigrazione, Ali Errishi che si dimise pochi giorni dopo lo scoppio della rivolta in Libia a metà febbraio. Le dimissioni del ministro degli Esteri libico, considerato fino a pochi giorni fa uno degli uomini più vicini al Raìs, sono un «segno di come i giorni del regime sono contati. È la fine, è un colpo per il regime e i suoi seguaci. Gheddafi non ha più nessuno. È solo con i suoi figli», sottolinea Errishi. Sulla possibilità che Gheddafi possa accettare l’esilio, l’ex ministro appare alquanto scettico: «Per come ho imparato a conoscerlo dice a l’Unità mi sento di escluderlo. (Gheddafi) è un uomo che ha mostrato che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi uccido”». E a quanti in Occidente sostengono che l’azione militare internazionale sia stata affrettata, Ali Errishi ribatte seccamente: «Semmai è vero il contrario: gli Stati Uniti rileva l’ex ministro sono stati lenti nel sostenere l’opposizione libica perdendo forse l’occasione per far cadere il regime».
Qual è il segno politico delle dimissioni del ministro degli Esteri libico Mussa Kussa? «È il segno, pesantissimo, del vuoto che si sta facendo attorno a Gheddafi e ai suoi figli.Èilsegnodicomei giorni del regime sono contati. E forse quei giorni sarebbero già finiti se la Comunità internazionale non avesse ritardato il sostegno militare all’opposizione libica».
Vorrei restare sulle dimissioni di Kussa. Già prima vi erano stati numerosi e importanti defezioni, tra cui la sua. Al di là dell’importanza del ruolo che ricopriva, c’è un aspetto che rende le dimissioni di Kussa particolarmente significative?
«Non si tratta solo delle dimissioni di un ministro. Kussa era uno dei consiglieri di cui Gheddafi si fidava di più, oltre che legatissimo ai servizi di intelligence. È la fine del regime, Il regno brutale è sul punto di concludersi».
Tra le ipotesi ventilate per una soluzione del conflitto, c’è l’esilio del Raìs. Alcuni Paesi africani, come l’Uganda, sembrano disposti a concedere asilo a Gheddafi. Qual è la sua idea in proposito?
«Se l’esilio servisse a salvare vite umane e a evitare altri spargimenti di sangue, sarebbe una soluzione accettabile, anche se il posto più consono per Gheddafi sarebbe l’aula di un tribunale internazionale in cui rispondere dei crimini commessi contro il popolo libico. Ma per come ho imparato a conoscerlo, non credo che Gheddafi accetterà questa via di uscita. Gheddafi è un uomo che ha mostrato che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi uccido”. Si tratta di un uomo arrogante, pieno di sé, convinto che tutto e tutti siano comprabili...Si tratta di vedere come reagirà nel momento in cui si renderà conto che per lui è davvero finita...».
Secondo Al Arabiya anche il capo dell'intelligence libica, Abu-Zayd Durda, avrebbe lasciato il Paese per rifugiarsi in Tunisia...
«Altri personaggi di primo piano dell’establishment “gheddafiano” seguiranno questa strada..». Quanto c’è di calcolo e quanto di ripensamento in queste defezioni? «Il punto di rottura si è avuto quando Gheddafi ha ordinato di aprire il fuoco contro il popolo che reclamava diritti e democrazia. Allora occorreva schierarsi: c’è chi ci ha messo più tempo, ma l’importante è che attorno a Gheddafi e ai suoi figli si crei il vuoto. Ognuno può portare la sua motivazione personale ma ciò che conta è condividere il progetto di abbattere il regime per realizzare uno Stato democratico, pluralista...».
C’è chi ventila una spaccatura in due della Libia: lo Stato di Cirenaica e quello di Tripolitania... «Non esiste. La Libia resterà uno Stato unico, con Tripoli come sua capitale. Sarà varata una nuova Costituzione e realizzate le condizioni per elezioni libere. La transizione è già iniziata».
Lei è stato il ministro dell’Immigrazione. Dalla Libia continuano a giungere a Lampedusa barconi pieni di uomini, donne, bambini...C’è chi sostiene che sia un’arma innescata da Gheddafi per punire l’Italia del suo «tradimento»...
«Non c’è solo questo. La Libia è un Paese di transito, che fino a poco tempo fa ha funzionato, bene o male, da “tappo” per il contenimento dell’immigrazione clandestina. Ora quel “tappo” è saltato. Tornare al passato non solo è ingiusto: è impossibile. Occorre ripensare dalle fondamenta una politica di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per far sì che si riducano il più possibile le ragioni guerre, ingiustizie, povertà che spingono milioni di persone a fuggire dai loro Paesi. La regolazione dei flussi migratori non può essere un fatto di polizia. Gheddafi era diventato una sorta di “gendarme” del Mediterraneo, e non è stato certo il solo a giovarsene.... Questo ruolo finisce con lui. Nella Libia del futuro non esisteranno più altri “Raìs-gendarmi”».

Corriere della Sera 1.4.11
Gelmini e gli insegnanti precari: «L’anno prossimo più assunzioni»
Il ministro vuole evitare i ricorsi. La decisione spetta a Tremonti
di Lorenzo Salvia


ROMA — L’apertura di un tavolo di confronto tra il ministero dell’Istruzione e quello dell’Economia per accelerare l’assunzione a tempo indeterminato degli insegnanti precari. A confermare la notizia è lo stesso ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, rispondendo a un’interrogazione alla Camera. A chiedere chiarimenti era stato il Partito democratico, dopo la sentenza del tribunale del lavoro di Genova che ha riconosciuto un risarcimento di mezzo milione di euro a quindici insegnanti precari. «Credo che responsabilmente, insieme con il sindacato e con tutte le forze politiche presenti in questo Palamento — ha detto il ministro — dovremo certamente accelerare le immissioni in ruolo possibili» e per questo «anticiperemo il numero delle assunzioni che saremo in grado di fare per il prossimo anno» . Un chiarimento importante, questo. Alcune assunzioni sono state fatte ogni anno ma senza coprire il numero dei pensionati e quindi facendo scendere l’organico complessivo visto il taglio di 135 mila posti deciso con la Finanziaria del 2008. Adesso il tentativo è ottenere qualche assunzione in più rispetto a quelle già programmate. Non è un cambio di linea ma il tentativo di mettere i conti pubblici al riparo da un possibile effetto a catena dopo la sentenza della settima scorsa. Il giudice di Genova ha stabilito che il ricorso al precariato viola una direttiva dell’Unione europea che obbliga gli Stati membri a limitare l’uso dei contratti a termine al massimo per tre anni. Se facessero ricorso tutti gli insegnanti nelle stesse condizioni di quelli di Genova, stimati in circa 65 mila, il costo per lo Stato sarebbe di 3 miliardi di euro. Da qui il tentativo di strappare qualche altra assunzione portato al «tavolo di confronto con il ministero dell’Economia» . Mettendo sul piatto quello che i tecnici del ministero hanno suggerito nei giorni scorsi, che sindacati ed opposizione dicono da mesi e che pure il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, pur non parlando del caso specifico della scuola, ha sostenuto qualche tempo fa: in alcuni casi l’assunzione a tempo indeterminato dei precari potrebbe far risparmiare lo Stato. Il «trucco» sarebbe quello di assumere i precari nei posti che già adesso occupano «stabilmente» , coprendo cioè quelle cattedre che non restano scoperte all’inizio dell’anno per le malattie lunghe o per le maternità ma per motivi che si conoscono già da prima, come i distacchi dei politici, dei sindacalisti, o per gli spezzoni di cattedra che non si incastrano fra loro. Sono tanti, quasi 50 mila l’anno e si aggiungerebbero ai 70 mila pensionamenti che dovrebbero arrivare nei prossimi tre anni come ricorda il deputato del Pd Antonino Russo che ha consegnato alla Gelmini una lettera firmata da 60 parlamentari di vari schieramenti per chiederle di investire della questione l’intero Parlamento. Ma l’accelerazione sulle assunzioni dei precari è solo una faccia della medaglia, per altro tutta da verificare nei prossimi mesi visto che l’ultima parola spetta come sempre a Giulio Tremonti. Gelmini ha confermato che presenterà appello contro la sentenza di Genova, ricordando che ci sono state anche sentenze di segno opposto a Viterbo, Venezia e Perugia. Mentre è ormai pronto un emendamento alla legge comunitaria per provare a confermare la specificità della scuola nell’uso dei contratti a termine anche rispetto alle norme comunitarie.

Corriere della Sera 1.4.11
Stalin e gli ebrei. Storia di una ossessione
Sergio Romano risponde a Luciano Canfora


Mi pare di cogliere nella sua risposta a un lettore una lieve imprecisione. L’Urss non aveva solo «favorito la nascita» di Israele ma era stata determinante alle Nazioni Unite quando si votò nel novembre 1947 la Risoluzione 181. Si ebbero allora 33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti. Cinque dei 33 furono Urss, Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia e furono decisivi. Se fossero passati nel campo avverso (tale fu il Regno Unito), il risultato sarebbe stato di parità e Israele non sarebbe nato. «L’antisemitismo» , aveva detto Stalin in un suo intervento di qualche anno precedente, «è la più pericolosa eredità del cannibalismo» . Il libro di Mlecin «Perché Stalin creò Israele» (Sandro Teti Editore, con postfazione di Enrico Mentana e di Moni Ovadia) fa giustizia di molti luoghi comuni. Nel 1948 senza le armi cecoslovacche il neonato Israele sarebbe stato travolto dagli Stati arabi armati dagli Inglesi. Il deterioramento dei rapporti Urss-Israele avvenne negli anni seguenti fino all’insensato processo ai medici. Ma il vero mutamento di strategia non va riferito agli ultimi anni di Stalin bensì all’irresponsabile terzomondismo filoarabo di Krusciov e dei suoi successori.
Luciano Canfora, Bari

Caro Canfora, Ho sempre pensato che le nostre rispettive opinioni su Stalin fossero meno radicalmente diverse di quanto possa apparire a prima vista. Ammiro l’uomo che ha creato lo Stato sovietico, l’economia sovietica e vinto la Seconda guerra mondiale. Non è necessario essere comunisti per riconoscere che fu una personalità per molti aspetti ciclopica. Ma sulla sua diffidenza per gli ebrei e sulle ragioni per cui riconobbe lo Stato d’Israele non ho dubbi. Dei quattro Paesi dell’Europa centro-orientale che votarono con l’Urss, l’Ucraina e la Bielorussia erano soltanto una finzione giuridica, concordata a Yalta per strappare a Stalin un accordo sullo statuto dell’Onu; mentre la Cecoslovacchia e la Polonia erano ancora occupate dall’Armata Rossa. Stalin sostenne Israele perché la sua esistenza era un colpo all’impero britannico, ma l’entusiasmo con cui gli ebrei di Mosca accolsero Golda Meir, primo ambasciatore d’Israele in Unione Sovietica, insinuò nella sua mente patologicamente sospettosa la convinzione che gli ebrei sovietici avrebbero sempre avuto, nel loro cuore, una seconda patria. La pretestuosa campagna contro i medici ebrei, sospettati di complottare l’assassinio della dirigenza sovietica, fu la versione moderna dei processi in cui, nell’Europa medioevale, gli ebrei venivano accusati di omicidi rituali; e si sarebbe conclusa, probabilmente, con il trasferimento forzato di tutto l’ebraismo russo nelle pianure siberiane. Ma già negli anni precedenti, dopo la rottura con la Jugoslavia di Tito, Stalin aveva avviato un’operazione che si proponeva anzitutto di stroncare il contagio della eresia titina, ma anche di ridurre drasticamente la componente ebraica nelle dirigenze comuniste dei Paesi satelliti. Laszlo Rajk, ministro degli Esteri ungherese, processato nel 1949 e condannato a morte, era ebreo. Rudolf Slanskij, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, condannato a morte nel 1952, era ebreo come altri dieci dei 14 imputati della vicenda di cui fu protagonista. Nei giorni del processo, Rude Pravo, quotidiano del partito, definì il sionismo «nemico numero uno della classe operaia» . E durante il processo vi furono allusioni frequenti ai legami fra l’ebraismo e gli Stati Uniti a profitto dello Stato d’Israele. Più tardi l’antisionismo servì all’Urss per meglio conquistare l’amicizia dei Paesi arabi. Ma dalla fine degli anni Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta fu una delle personali ossessioni di Stalin.

Corriere della Sera 1.4.11
Simbolo e psiche per Mario Trevi
di Silvia Vegetti Finzi


Con la morte di Mario Trevi, nato ad Ancona nel 1924, scompare un grande maestro della psicologia italiana e junghiana in particolare. Laureato in Filosofia, aveva sostenuto il training didattico con Ernst Bernhard. Era stato tra i fondatori della Associazione italiana per lo studio della psicologia analitica (1960) e del Centro italiano per la psicologia analitica (1966). La sua opera fondamentale è Per uno junghismo critico (Bompiani, 1987). Il suo sguardo, critico e razionale, si è rivolto soprattutto contro una lettura naturalista ed essenzialista della teoria junghiana che, reificando i concetti, promuove inaccettabili atteggiamenti dogmatici o mistici. Di contro ha valorizzato gli spunti epistemologici di Jung, anticipatori dell’attuale epistemologia della complessità. Secondo Trevi la psicologia, intermedia tra natura e cultura, si colloca tra le discipline storiche ed ermeneutiche. L’ermeneutica, negando l’obbiettività dei fenomeni osservati, interroga innanzitutto l’uomo sulla sua condizione di interrogante. Quando noi comprendiamo qualche cosa siamo già compromessi da una precomprensione che è frutto della nostra epoca, della nostra educazione, della nostra particolare visione del mondo. La conoscenza umana deve accontentarsi di cogliere il probabile e il verosimile. La psicologia pertanto non sarà mai una teoria dell’uomo, un’antropologia perenne e assoluta, ma una proposta relativa, che vale in quel momento storico, in quelle circostanze. Attento ai fenomeni sociali, Trevi respinge però la pretesa di ricavare da Jung una precisa ipotesi sociologica, privilegiando piuttosto la dialettica tra il processo di individuazione e quello di socializzazione, tra l’inconscio individuale e l’inconscio collettivo. Solo la somma dei cambiamenti individuali, sostiene, può provocare cambiamenti sociali. «Non è il cosiddetto inconscio collettivo — scrive — l’apporto originale di Jung, bensì l’inconscio creativo» , vale a dire l’inconscio come sede dell’attività simbolica, sintesi degli opposti non contraddittori. Il simbolo è vivo finché è pregno di significato e rinvia a qualche cosa di ignoto. Mentre per Freud il simbolo media e riequilibra il rapporto tra inconscio e conscio, per Jung apre un campo di tensioni, di trasformazioni. È creativo nel senso che agisce verso un orizzonte irraggiungibile e si trasforma in mero segno una volta espresso il suo potenziale di senso. Il simbolo è una istanza operativa perché promuove lo sviluppo dell’uomo, in vista di quel processo di individuazione che sostituisce quello di guarigione. L’individuazione, che conduce dal Sé all’Io, dischiude la coscienza razionale dell’uomo. Il Sé contiene tutte le possibilità umane, mitologicamente rappresentate dalla divinità. In un primo movimento va superato per la costruzione dell’Io ma deve essere poi recuperato in quanto costituisce il luogo in cui si attiva la creatività, in cui nasce l’utopia. La realizzazione di sé comporta l’attivazione di entrambe le istanze in vista del raggiungimento dell’autenticità, di ciò che ciascuno è. Il privilegio concesso da Trevi agli aspetti creativi, fa sì che egli intenda i processi di conoscenza e di trasformazione della psiche, non come una tecnica, ma come un’arte, un esercizio inesauribile dell’interpretazione. Venuta meno la storica contrapposizione tra Freud e Jung, le varie «psicologie» sono tutte vere, purché coerenti con le loro premesse. Questa apertura «illuminista» ha costituito una grande opportunità per la cultura psicologica italiana, tanto nell’ambito teorico quanto in quello clinico.

Repubblica 1.4.11
L´analista, seguace critico di Jung, èmorto ieri a Roma. Aveva 87 anniAddio a mario trevi Maestro dell´anima
Tra i suoi libri anche un dialogo col figlio Emanuele tra memoria, ironia e intimità


ROMA È morto all´alba di ieri Mario Trevi, il grande psicoanalista junghiano, uno studioso di prim´ordine, eppure tutt´altro che una celebrità, per quella sua inclinazione alla riservatezza che tanto strideva in un mondo affollato di presenzialisti. Terapeuta amatissimo, per indole e per scelta è stato un personaggio del tutto refrattario alle sirene mediatiche. "Vivi nascosto", era il frammento di Epicuro che ha seguito con rigore inflessibile. Ogni tanto cedeva alla richiesta di un´intervista: forse per una qualche civetteria, certamente per quella gentilezza che era un altro tratto dominante del suo stare al mondo. Era nato ad Ancona il 3 aprile del ´24, dopodomani avrebbe compiuto ottantasette anni.
Di controtendenza è stato lo junghismo che Trevi ha riproposto in una chiave brillante, innovativa, nel segno dell´originalità. Del resto, lui amava il maestro svizzero più empirico, critico, ermeneutico, probabilista - il teorico di quel "principio di individuazione" che tende a differenziare il singolo dagli stereotipi collettivi, a permettergli di adeguarsi ai valori culturali con un´impronta personale. Ha invece detestato lo stregone misticheggiante, il profeta oscuro che ha creduto di scoprire il fondo dell´anima. Trevi era tutt´altro che rapito dall´enfasi per l´inconscio collettivo o per gli archetipi - quelle enigmatiche immagini originarie espresse principalmente nei miti e nelle fiabe. Tanto meno lo incantavano certe forme di religiosità neopagana costruite intorno al concetto del "Sé", un´entità a cui assegnava lo stesso peso metafisico dell´anima platonico-cristiana. A questa corrente neojunghiana deteriore, disinvolta e accattivante nel suo confuso misticismo, Trevi è stato del tutto estraneo - anzi allergico.
Per averne un´idea, basta scorrere i titoli dei suoi libri più importanti (ma ogni suo lavoro, anche minore, era un´avventura del pensiero): da Metafore del simbolo a L´altra lettura di Jung usciti da Cortina, da Per uno junghismo critico (Bompiani) ai Saggi di critica neojunghiana (Feltrinelli). Sono studi rigorosissimi, specchi in cui rimane riflessa l´eleganza della sua mente - compresa l´introduzione a L´io e l´inconscio di Jung per Bollati Boringhieri - e dove si colgono nettamente le tracce dei suoi due maestri.
Il primo è stato un personaggio decisamente eccentrico, Ernst Bernhard, più guru che psicoterapeuta di una folta schiera di artisti e intellettuali come Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg... Di Bernhard, il medico tedesco ed ebreo che ha introdotto in Italia la psicologia analitica, Trevi è stato paziente e poi allievo fino al ´65, l´anno della scomparsa del brillante seguace di Jung. Il secondo maestro è stato invece indiretto, ma decisivo: si parla di Karl Jaspers, tra i grandi filosofi del secolo scorso, il geniale autore di quella Psicopatologia generale che ha voltato le spalle alla psichiatria organicistica.
«Ok, papà, inizia la tortura...»: un gioiellino a sé rimane quella conversazione - sul filo della memoria, dell´intimità, dell´ironia - con il figlio, lo scrittore Emanuele Trevi. In Invasioni controllate (Castelvecchi, 2007), lo studioso indulge alla tenerezza paterna, ma accentua la spregiudicatezza intellettuale. Qui il lettore meno interessato alla produzione saggistica potrà cogliere con facilità - e senz´altro con più emozione - la qualità anche umana di Mario Trevi. Quel suo sguardo aperto, tollerante, profondamente laico nei confronti del mondo e del sapere psicoanalitico, il rifiuto dei pensieri rigidi e immutabili, delle tante scuole e scuolette.
«Arrivato alla tua età, senti di aver raggiunto una qualche forma di saggezza?», gli chiede Emanuele. E lui: «Non penso di essere diventato né un saggio né un santo... Non è che ho una grande stima di me stesso». Arrivato alla sua età, era il successo letterario del figlio la soddisfazione più grande, la consolazione più intima. Era così dolce, nella voce e nel sorriso, quando notava: «Sono passato dalla fase in cui dicevano a Emanuele: ah, tu sei il figlio di Mario Trevi, alla fase in cui mi dicono: ah, lei è il padre di Emanuele Trevi... Che effetto mi fa? Mi fa l´effetto di scomparire, molto molto felicemente».
A dispetto dell´età, Trevi ha continuato a lavorare nel suo studio ai Parioli che in un certo senso gli somigliava per sobrietà: lì incontrava i pazienti, lì si appartava con i suoi pensieri. Ma il luogo che amava di più, forse era un altro: una casetta, una "capanna" di trentacinque metri quadri, che affaccia sul lago di Trevignano. Lì si occupava del giardino, e poi cucinava.
Alle 11.30 di questa mattina, presso la Facoltà valdese di Teologia (via Pietro Cossa, 42), Mario Trevi sarà commemorato nel modo in cui desiderava. Ci saranno un paio di letture dei suoi scritti, e poi la musica, l´adagio di un quartetto di Beethoven.

giovedì 31 marzo 2011

La Stampa 31.3.11
Dante e la sua ombra
di Maurizio Cucchi


Guido Cavalcanti e Dante sono autori scrutati con passione e acribìa da sette secoli. Eppure continuano a invitarci a nuove indagini e approfondimenti. Lo vediamo nel ricco e complesso saggio di Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti in Dante (L’asino d’oro edizioni, pp. 230, 18), nel quale l’autrice compie un viaggio che parte dai poeti della Scuola siciliana, passando attraverso l’esperienza dei siculo-toscani, di Guinizzelli, senza dimenticare, sullo sfondo, i trovatori provenzali, per poi muoversi decisamente nei diversi passaggi di pensiero, vita e opera dei due grandi in questione. E producendo anche, in appendice, una sostanziosa antologia dei testi.
È il tema d’amore e della donna, il rapporto tra amore e conoscenza, nella varietà delle espressioni, a dominare la scena, mentre si andava «formando quella fitta rete di memorie intertestuali, echi, reminiscenze […], riapparizioni di temi, sintagmi, parole chiave […], che, tessuta di poeta in poeta, fu infine magistralmente rielaborata nel Canzoniere del Petrarca». È insomma il cammino che porta al crearsi di una tradizione che arriva fino a noi e che è quello della nostra grande poesia lirica. Una poesia che si nutre profondamente di pensiero, come vediamo nel fondersi di poesia e filosofia dei grandi autori del ’200.
E la figura della donna, della donna-angelo (che arriverà fino a Montale) è presente secondo diverse declinazioni dai siciliani a Dante, che ne farà infine un simbolo di mediazione tra uomo e Dio, mentre nell’altro grande, Guido Cavalcanti, l’amore è «passione che vive nell’oscurità, incomprensibile all’intelletto», che, come è detto in Donna me prega , «imaginar nol pote om che nol prova». Il sodalizio tra i due poeti durerà un decennio, tra il 1282 e il 1292, prima che i loro percorsi intellettuali prendano strade diverse. Quella, umanissima, di Cavalcanti senza il conforto di un’ideologia definitiva, quella di Dante nella grandiosa costruzione del poema divino. Con la presenza costante, in lui, dell’«ombra» del nobilissimo amico, come ci dice Noemi Ghetti nel suo coinvolgente libro.

l’Unità 31.3.11
Catastrofe morale
di Luigi Manconi


Tecnicamente parlando. Il discorso di Silvio Berlusconi nella piazza di Lampedusa è sotto il profilo linguistico e sotto quello semantico uno dei punti più bassi della retorica politica e della oratoria pubblica degli ultimi decenni. Lì il carisma berlusconiano si rivela per quello che è: a’ mossa del varietà napoletano tra le due guerre. Il che non significa, certo, che quel discorso risulti inefficace. Ma, al di là del successo immediato, le parole di Berlusconi, trascinano l’azione del Governo in una via senza uscita. E, infatti, il superamento dell’ostilità dei lampedusani non attenua di una virgola il bilancio davvero fallimentare registrato dall’esecutivo nelle ultime settimane. L’Italia appare ridotta ad appendice insignificante di strategie geopolitiche decise da altri, e a una mera “espressione geografica” nelle relazioni sovranazionali e nella sfera delle responsabilità politiche e morali alle quali aspira un paese che si vuole grande. Nessun ruolo nei confronti dei movimenti democratici del Nord Africa e degli assetti futuri del Mediterraneo e nessun programma credibile per le diverse emergenze umanitarie. Una politichetta miserabile e gretta, che limpidamente si esprime nel discorso di Berlusconi a Lampedusa: la galvanizzazione degli umori più bassi e la blandizie verso le pulsioni più oscure, l’intesa complice e l’ammiccamento ruffiano e la promessa mirabolante. Il modello è, platealmente l’animatore di un Club Med. Ma Berlusconi non evoca la spensieratezza smargiassa e vitalistica del Fiorello delle origini, bensì la più bolsa interpretazione di un copione improbabile, destinato all’Attor Giovane (che so? Un Massimo Ciavarro). Il Premier che compra casa in località Cala Francese recita torpidamente una parte che il pubblico già conosce, annoiando e annoiandosi (avete presente Ric e Gian al declino della loro carriera?). E, tuttavia, quelle parole di Berlusconi vanno messe in fila con quelle pronunciate in questi giorni dagli esponenti del centro destra.
Una sconfinata ignoranza su ciò di cui parlano (migranti e profughi), una irriducibile propensione alla minaccia e alla prepotenza, un linguaggio triviale e privo di qualunque relazione con la realtà, la grammatica, il diritto internazionale. In poche settimane è stato completato quel processo di stravolgimento in senso xenofobico del discorso pubblico avviato da tempo; è stata travolta l’interdizione morale e culturale che proteggeva lo straniero dalla nostra tentazione all’intolleranza e alla discriminazione; il vocabolario pubblico ha accolto, legittimato e riprodotto le parole della xenofobia, non per mediarle e controllarle, ma per usarle come altrettanti corpi contundenti. Finissimi scienziati della politica analizzano, compunti, il “foera di ball” di Umberto Bossi e ci spiegano come rappresenti la sintesi geniale di un grande disegno politico.
Sarà, ma è anche il segno di una catastrofe morale che non andrebbe blandita quasi fosse una manifestazione di innocente folclore. È, né più né meno, che una mascalzonata. E il fallimento del ministro dell’Interno Roberto Maroni e il ridicolo nel quale affonda il ministro degli Esteri Franco Frattini disegnano i tratti psicologici di un ceto politico che oscilla tra paranoia e aggressività. Questo per quanto riguarda la scena pubblica. Dietro, nel back stage dove provvisoriamente si trova, tra gli altri, il Parlamento della Repubblica viene approvata un’inversione dell’ordine del giorno, che anticipa il voto sul disegno di legge sui tempi dei processi. Gratta gratta, la roba è lì.

l’Unità 31.3.11
Dibattito infuocato, i democratici attaccano: «È il governo della menzogna»
Casini: «Usate il parlamento per placare le ossessioni del premier»
«È un abuso di potere» E il Pd porta la protesta in piazza
Dopo il blitz della maggioranza il Pd scende in piazza per manifestare contro l’ennesima legge ad personam. Bersani: «Questo è il governo della menzogna e della violenza parlamentare». Casini contro Alfano.
di S.C.


«È un abuso di potere della maggioranza». Dario Franceschini interviene in Aula per criticare il blitz della maggioranza sul processo breve. «Dov’è l’urgenza se non quella di fermare immediatamente il processo Mills che riguarda il presidente del Consiglio?». Il capogruppo del Pd alla Camera alza la voce man mano che dai banchi del centrodestra sale il brusio, fino ad urlare quando dice che questo provvedimento «ha come conseguenza immediata la prescrizione per migliaia di processi», che «un imputato di violenza carnale, se incensurato avrà la prescrizione breve grazie alla vostra norma» e che la Lega che tanto parla di sicurezza ai «popoli padani» quando si tratta di votare a favore di Berlusconi è pronta a servire fedelmente il premier senza pensare a rapine, furti, violenze. In Aula è già bagarre, ma Franceschini chiude con un affondo: «La visita di Berlusconi a Lampedusa non è per risolvere il problema di quell'isola, ma per coprire il processo breve». Partono i fischi dai banchi del centrodestra, mentre da quelli del centrosinistra parte un coro: «Vergogna, vergogna».
La seduta viene sospesa e alla riunione dei capigruppo l’opposizione ottiene un allungamento dei tempi di discussione: non più 13 ore ma 26. Ma il dibattito rimane contingentato e entro domani il processo breve otterrà il via libera. Tra le fila del Pd cresce il nervosismo, tanto che in Aula si accende un botta e risposta tra Rosy Bindi e Massimo D’Alema su quale debba essere la stretegia da seguire di fronte a quella che la presidente del Pd definisce la «dittatura della maggioranza». «Non possiamo continuare con strumenti ordinari a fronteggiare una situazione straordinaria», dice Bindi. «Non possiamo continuare a partecipare alla vita del Parlamento come se fosse una situazione normale». Non propone un Aventino vero e proprio, ma dice che un «segnale forte» i parlamentari dell’opposizione lo devono dare. Al che D’Alema: «Cosa vuoi che faccia? Gli vado a menare? Ecco, mi levo gli occhiali e se li toglie e vado». Ironia che non fa piacere a Bindi. Ma anche per Pier Luigi Bersani abbandonare l’Aula non sarebbe una buona mossa: «Con i numeri che hanno approvano quello che vogliono in un’ora». Il Pd, dice, deve rimanere al suo posto «e li faremo ballare». Anche contro il processo breve l’opposizione è compatta, compresa l’Udc che pure aveva dato disponibilità a discutere di riforma della giustizia. Dice Pierferdinado Casini rivolgendosi al Guardasigilli: «Ti eri impegnato a sgombrare il campo dalle leggi ad personam e invece ecco un provvedimento per placare le ossessioni giudiziarie premier».
GOVERNO DELLA VERGOGNA
Per il leader dei Democratici «questo è il governo della vergogna, della violenza parlamentare e della furbizia, perché per salvare uno solo butta a mare centinaia di processi». Bersani esce dalla Camera quando i manifestanti che già da un po’ sono arrivati a Montecitorio hanno aggirato come se niente fosse le transenne e stazionano a un paio di metri dall’ingresso. Pochi minuti prima sono stati contestati Ignazio La Russa, Daniela Santanchè e un gruppetto di leghisti usciti proprio per provocare una reazione. I poliziotti non riescono a far retrocedere la folla. Bersani si fa spazio tra i manifestanti e va a parlare sopra una scaletta dove sono le transenne, cercando così di far allontanare i contestatori dal portone di Montecitorio. «Stiamo combattendo in Parlamento e fuori contro questo colpo di mano della maggioranza e del governo. Abbiamo capito perché stamattina Berlusconi era a Lampedusa a promettere miracoli: per spostare i riflettori mentre qui si è comprato l’impunità con un colpo di mano».

l’Unità 31.3.11
Costituzione, addio «Si viola il principio costituzionale di eguaglianza»
Già oggi 150 mila processi evaporano «Sarà un disastro». Situazione drammatica a Roma
L’allarme dei magistrati: «Colpo mortale per la giustizia»
La reazione dei magistrati è stata immediata: «Così si uccide la giustizia». A rischio piccoli e grandi processi, come quello per i morti a Viareggio per l’esplosione del vagone del treno cisterna: furono 31 morti.
di Felice Diotallevi


ROMA L'Associazione nazionale magistrati contesta duramente la legge sulla prescrizione breve: «È un colpo mortale inferto al funzionamento della giustizia penale in Italia. Con la riforma oggi in discussione aumenterà a dismisura il numero di casi di denegata giustizia e di impunità per gli autori di gravi reati». «L' Europa si legge in una nota del sindacato delle toghe ci chiede invano da tempo interventi per assicurare un'effettiva ragionevole durata dei processi e di evitare che i processi si concludano con la prescrizione. La prescrizione breve non riduce la durata dei processi, ma è un incentivo per gli imputati a cercare di far durare più a lungo il processo».
L’allarme dei magistrati è circostanziato da fatti e numeri che il governo finge di non sapere. «Oggi, dopo la riforma del 2005, sono già circa 150mila l'anno prosegue il comunicato i processi che si chiudono con la prescrizione, senza un accertamento della responsabilità dell'imputato e senza una risposta di giustizia alle istanze di chi ha subito un danno dal reato. La prescrizione breve contrasta con le previsioni delle convenzioni internazionali in materia di lotta alla corruzione sottoscritte e ratificate dall'Italia». A giudizio dell'Anm «la prescrizione breve per gli incensurati viola il principio costituzionale di eguaglianza. I cittadini italiani chiedono un processo che si svolga in tempi ragionevoli, ma anche efficacia ed effettività delle decisioni e non vogliono l'impunità dei responsabili dei reati».
FUORI STRUPATORI E RAPINATORI Anche la corrente di sinistra della magistratura, Md, non si sottrae al commento: «Quella sulla prescrizione breve è una norma che invita l'imputato potente a esercitare ogni forma di ostruzionismo per non arrivare alla decisione del processo;per questo motivo la prescrizione breve si muove in direzione
ostinata e contraria rispetto al processo europeo».Magistratura democratica, replica così alle affermazioni del presidente del Consiglio sul provvedimento. «È un qualcosa di tecnicamente incomprensibile e di sostanzialmente iniquo», dice il presidente, il gip di Palermo Piergiorgio Morosini. La questione ha subito avuto anche un ricasco nel territorio. L’opposizione ha messo il dito particolarmente sulla questione romana, dato lo stato della procura della Capi-
tale. Sia il “reggente” del Pd regionale, Vannino Chiti che il consigliere comunale Dario Nanni notano come «la prescrizione abbreviata, favorirà anche gli autori di reati gravi, come stupri, aggressioni, rapine e rapimenti. Molti delinquenti, autori di efferati delitti, di cui numerosi registrati a Roma negli ultimi mesi, potranno non essere giudicati in quanto beneficiari di questo provvedimento».
A livello nazionale, il parlamentari Andrea Marcucci e Raffaella Mariani mettono in evidenza come «la prescrizione sarà a beneficio degli incensurati, che potranno essere esclusi dai dibattimenti. Una situazione che riguarda i 38 indagati, tra cui l'ad di Fs Mauro Moretti, per la strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno del 2009».

il Fatto 31.3.11
Vogliono una giustizia malata
di Gian Carlo Caselli


LInefficienza efficiente. Non è un trucco verbale (tipo “processo breve” e altre simili amenità) escogitato per puntellare obiettivi impresentabili. È la chiave di lettura dello stato della giustizia italiana: un malato-cronico, che agonizza da anni, con una folla di medici intorno al suo capezzale, ma nessuna cura adeguata. Nei paesi a noi vicini le cose vanno decisamente meglio. Dovendo escludere l’ipotesi fantasiosa di una damnatio Italiae o di una combinazione astrale mefitica, è impresa davvero ardua spiegare perché soltanto da noi si debba tollerare una situazione di sostanziale denegata giustizia, senza che si faccia nulla o quasi per rimediare allo sfascio. Ci sono riforme a costo zero che produrrebbero immediatamente effetti positivi di grande spessore. Per esempio la revisione della “geografia giudiziaria”, cioè della distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio nazionale. Una distribuzione   da rottamare, perché pensata quando invece delle auto e dei treni c’erano le diligenze e spostarsi da Pinerolo o Ivrea a Torino era un’impresa complicata.
UNA NUOVA “geografia giudiziaria” consentirebbe di abolire un consistente “pacchetto” di Tribunali oggi inutili, con conseguente recupero di un bel po’ di magistrati e di personale amministrativo da dirottare verso le sedi bisognose di rinforzi. Un’altra riforma a costo zero si potrebbe realizzare intervenendo sulle procedure, oggi afflitte da un bizantinismo barocco che allunga i tempi del processo all’infinito. Per esempio abolendo l’appello, così da recuperare – di nuovo – un imponente numero di magistrati e ausiliari concentrandoli sul primo grado di giudizio, in modo da potenziarlo e abbreviarne i tempi; – prevedendo nel contempo rigorosi filtri che impediscano ricorsi pretestuosi o meramente di-latori   in Cassazione capaci di inflazionare il sistema fino alla paralisi. La giustizia italiana, dunque, è un malato grave ma curabile. Nessuno però vuol davvero curarlo. Perché?
Perché l’obiettivo vero della maggioranza politica contingente è aggredire l’indipendenza della magistratura. Ed ecco appunto l’inefficienza efficiente. Se la giustizia non funziona, sarà più facile attaccare i giudici. Chi vorrà mobilitarsi in difesa della indipendenza dell’ordine giudiziario, se persiste la vergogna di un servizio dovuto che invece non c’è? Se va bene, qualche gruppo ancora sensibile ai   valori della Costituzione. Ma i più ragioneranno in termini pragmatici: fatemi prima funzionare il servizio che pago come contribuente;- solo dopo, semmai, si potrà parlare anche di indipendenza dei giudici! Dunque, l’inefficienza del servizio giudiziario risulta funzionale all’efficienza delle strategie di attentato all’indipendenza della magistratura. E l’inefficienza è   tanto più efficiente quando più si strilla (il massacro mediatico è incessante) che i magistrati sono gli unici che se sbagliano non pagano. Semplificazione idiota e falsa (smontata anche sulle pagine del “Fatto” da un recente intervento di Bruno Tinti), ma comoda e suggestiva.
TRACCIATO lo scenario di fondo della inefficienza-efficiente, si delinea con maggior evidenza anche la strategia binaria dell’attuale maggioranza: risolvere i problemi giudiziari del premier e umiliare la magistratura. Da un lato leggine con effetti “ad personam” (processo breve, prescrizione breve: tutto breve! Come se bastasse, alla moda di Pangloss, aggirare la realtà con qualche artifizio verbale per risolvere i problemi...) e dall’altro riforme “epocali” della giustizia, che in realtà con la giustizia c’entrano come i cavoli a merenda. Alla giustizia italiana che sta affogando nella palude   della inefficienza, la sedicente riforma “epocale” non offre neppure un salvagente sgonfio. Si propone unicamente di bastonare i magistrati che già stanno annaspando con l’acqua alla gola, affondandone definitivamente autonomia e indipendenza, con grande sollievo di tutti coloro che temono come la peste i controlli sull’uso illegale del potere.
Completa il quadro l’assordante propaganda (organizzata scientificamente, senza risparmiare né uomini, né mezzi, né argomenti fasulli) sulla irresponsabilità della magistratura a fronte di colpe   ed errori che si dipingono come imperdonabili, confondendo disinvolta-mente il presunto errore con la fisiologica legittimità di opzioni interpretative diverse, tutte consentite all’interno del perimetro di legge: per cui è incivile classificare come   “errore” (ricollegandovi la possibilità di intimidazioni o rappresaglie contro il magistrato) la semplice scelta di un’opzione, sol perché essa non conviene a tizio o caio ovvero non corrisponde alle sue aspettative. Possiamo però aggiungere al quadro fin qui disegnato una pennellata finale che riguarda l’opposizione. Serpeggia tra le sue file una rassegnata disponibilità ad abbracciare temi cari all’antagonista, quasi una voglia – talora – di appiattirsi sullo pseudo garantismo berlusconiano, che non è veicolo di uguaglianza ma strumento di privilegio e discriminazione, perciò non vero garantismo ma ipocrisia. Per l’opposizione questa scelta comporta una sostanziale rinunzia alla propria identità. E certamente non è un buon segno – per la democrazia – che la dialettica politico-culturale sui temi della giustizia si riduca a melassa che tutto omogeneizza e confonde.

il Fatto 31.3.11
Governo e Pdl, per B. sondaggi da naufragio
Il premier è al 22%, il partito al 30
Il Coille: sfiducia da tensioni istituzionali
di Chiara Paolin


Invincibile, ma non per sempre. I sondaggi, un tempo tanto amati, cominciano a raccontare un momento di inedita difficoltà per Silvio Berlusconi. L’ultimo studio è dell’Osservatorio Politico Nazionale Lorien, specializzato in analisi sociali e politiche. Tra il 21 e il 23 marzo un campione di mille cittadini rappresentativi della popolazione italiana è stato intervistato col classico metodo Cati sull’impatto delle tematiche più urgenti: come incidono Libia, Giappone e riforma della Giustizia sulla credibilità dell’esecutivo? Ha ragione Giorgio Napolitano quando dice, come ieri in un messaggio inviato al Consiglio nazionale forense, che “le tensioni istituzionali alimentano la sfiducia dei cittadini”? Spiega il ricercatore Felice Meoli: “Abbiamo analizzato le tendenze dallo scorso dicembre a oggi, ed è chiaro il calo dei consensi per tutte le voci considerate: presidente del Consiglio, governo,   Pdl”. Il giudizio più pesante riguarda il premier, che dal 27,7% del 9 dicembre è sceso al 22,5 della fiducia. Male anche il Pdl, che passa dal 27,7% al 23,8, peggio se la cava il governo che partiva dal 24,2% e plana al 21,9.
UN QUADRO grigio, che rivede in negativo le stime di altri istituti. “Effettivamente il dato è pesante – ragiona Renato Mannheimer di Ispo –, però anche a me risulta un calo costante della fiducia nel premier. L’ultima rilevazione risale a qualche settimana fa, quando viaggiava intorno   al 30%”. Risultato poco esaltante visto che il 13 gennaio lo stesso Ispo la quotava al 38%. “Non saprei dire se siamo davanti a uno scossone più serio dei precedenti – conclude Mannheimer –, anche perché in Italia capitano momenti di crollo improvvisi. Imprevedibili per definizione, così come le loro conseguenze”.
LA RETROMARCIA sul nucleare (propagandato strumento di rilancio del sistema industriale) e sulla Libia (con relative implicazioni su economia e immigrazione) ha portato un senso di delusione anche nell’elettorato di destra. Sarà forse per questo che Alessandra Ghisleri, la sondaggista preferita di Berlusconi, tace ormai dai primi di gennaio: lontani i tempi del consenso al 60%. “Il momento è difficile, ma ricordiamoci che l’elettorato berlusconiano è tifoso, non ideologico. Se mi piace una squadra, la scelgo anche quando va in serie B – sottolinea Antonio Noto di Ipr Marketing –. Eppure   i numeri contano: sei mesi fa la sinistra stava cinque punti sotto la destra, oggi sono appaiate al 40%. Alle ultime elezioni il Pdl veleggiava al 37%, ora siamo al 30 scarso”. I sondaggi dicono infatti che la coalizione del centrosinistra potrebbe prevalere se si votasse oggi: “In teoria sì – precisa Nando Pagnoncelli –, ma non mancano i problemi nel-l’opposizione: divisioni interne, un’agenda mediatica che annulla ogni iniziativa, scarsa capacità costruttiva nel superare quell’antiberlusconismo che ha polarizzato la politica e allontanato il 40% degli aventi diritto dalle urne”. E il Pdl? “Il vero limite che   sta evidenziando Berlusconi è il mancato governo del fare - aggiunge Pagnoncelli -. Più che Ruby o Gheddafi conterà Napoli o L’Aquila”. Tenta una sintesi Nicola Piepoli: “Il premier è in crisi, ma non sappiamo se e quando   si voterà. Certo l’età avanza anche per lui, e gli ultimi mesi sono stati straordinariamente logoranti. Una sequenza incredibile di guai ed emergenze che metterebbe a dura prova chiunque”. Silvio forever, o forse.

il Fatto 31.3.11
La ricetta di Ignazio Marino
“Dimettiamoci tutti in blocco”


“Ho assistito a scene che non vedevo dai tempi di Mani pulite. C’è in giro una forte esasperazione che chiede iniziative straordinarie di opposizione”. Dopo il blitz parlamentare della maggioranza sul cosiddetto processo breve, l’onorevole Ignazio Marino, già candidato alla segreteria del Pd alle ultime primarie, si presenta al presidio di fronte a Montecitorio e comunica ai manifestanti la sua ricetta: “Dimettiamoci tutti”.
Onorevole, siamo a questo punto?
Siamo in una situazione drammatica, c’è un governo irresponsabile che si rende responsabile di atti difficili perfino da commentare. A Lampedusa ci sono migliaia di persone in fuga in condizioni di assoluta assenza di rispetto della dignità umana, c’è una comunità locale che sta soffrendo per un’ondata migratoria che non può sopportare. Ho letto il rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità sulla situazione nell’Isola e c’è da rabbrividire. E il nostro premier cosa fa? Sfrutta la situazione per tentare di nascondere all’opinione pubblica l’unica cosa che davvero gli interessa, la salvezza dai processi. E per proteggerlo dalla procura di Milano la maggioranza non esita a mandare   in fumo centinaia di processi. Sarà interessante spiegarlo agli elettori della Lega quando un incensurato sotto processo, che so, per una rapina in villa a Vicenza o una violenza sessuale a Bergamo, godrà dei benefici del loro processo breve e le vittime non riusciranno ad avere giustizia. 
Le dimissioni dell’opposizione avrebbero senso soltanto se unanimi… Ci crede davvero?
Le persone sono esasperate, lo vedo ogni giorno con i miei occhi. Oggi (ieri, ndr) ho assistito a scene che non ricordavo dai tempi di Mani pulite, perfino il lancio delle monetine. E il presidente del Consiglio disprezza il Parlamento, tanto che non ritiene di doversi presentare nemmeno in caso di guerra. Siamo ancora qui ad aspettare che venga a riferire sulla situazione in Libia. Se tutte le opposizioni si dimettessero si creerebbero le condizioni per sciogliere le camere e tornare alle elezioni.
È sicuro?
Beh, credo che un Parlamento composto soltanto da esponenti di Lega e Pdl sarebbe sostanzialmente illegittimo.
Ma se Rosy Bindi e D’Alema hanno litigato perfino sull’opportunità di lasciare o meno l’aula al momento del voto, come pensa di convincere tutta l’opposizione, anche l’Udc, a dimettersi?
Spero che di questo si discuta seriamente. C’è bisogno di un’azione estrema, ovviamente non violenta, ma estrema. Ce lo chiedono i nostri elettori, con forza. 

Corriere della Sera 31.3.11
«Aventino» o no, i due fronti pd nella sfida tra Bindi e D’Alema
di Maria Teresa Meli


Massimo D’Alema nella parte di Massimo D’Alema e Rosy Bindi nella parte di Rosy Bindi: lo spettacolo è assicurato. La vicepresidente della Camera in mattinata arringa i deputati del Pd nell’emiciclo: «Quello che sta succedendo è tremendo e quindi noi dobbiamo dare una risposta straordinaria, dobbiamo uscire dall’Aula, dobbiamo combattere» . D’Alema che la sta ascoltando la guarda ironico e le chiede gelido: «Che vuoi che faccia? Mi tolgo gli occhiali e vado a menare quelli del centrodestra?» . Il presidente del Copasir fa seguire un sorriso alla sua replica. Ma non si tratta certo di un sorriso di simpatia. L’alterco prosegue per una manciata di secondi, poi tra i due cala il silenzio. Bindi si rivolge altrove, cercando interlocutori più disponibili ad ascoltare la sua chiamata alle armi. È una scena che fotografa le divisioni che attraversano il Partito democratico in questo momento. Di fronte all’offensiva della maggioranza sulla giustizia c’è chi, come la vicepresidente della Camera, vorrebbe l’Aventino e chi, come D’Alema, ritiene invece che un partito che si candida a governare il Paese debba avere senso di responsabilità e delle istituzioni. Nel primo schieramento si ritrova Ignazio Marino: «Dimettiamoci tutti» , propone il senatore-chirurgo. Per la linea dura, sebbene non aventiniana, anche Dario Franceschini, che ha alzato le barricate del Pd proponendo il sit-in davanti a Montecitorio. E infatti anche il capogruppo, oltre a Bindi, suscita qualche perplessità tra molti deputati pd. Tant’è vero che la maggior parte dei veltroniani, a cominciare dal loro leader, non partecipano alla manifestazione davanti alla Camera. Non lo fa Paolo Gentiloni. E nemmeno Beppe Fioroni, che, parlando con alcuni compagni di partito, osserva: «Era l’occasione giusta: Di Pietro non c’era, si poteva far capire alla maggioranza come e perché siamo contrari alle loro forzature senza suscitare tutto questo caos» . Ma è soprattutto Bindi a essere guardata con più di un sospetto. «È sempre in cerca di visibilità» , commenta Veltroni rivolgendosi a un gruppetto di fedelissimi. E l’intervista rilasciata dalla vicepresidente della Camera a Vanity Fair rinfocola i sospetti. Rosy Bindi infatti rivela che prenderebbe in considerazione una sua candidatura alla premiership del centrosinistra se il suo partito fosse d’accordo. Però non è solo la vicepresidente della Camera a sognare azioni clamorose per inasprire la battaglia contro Berlusconi. C’è voglia di opposizione dura e pura tra gli elettori del Pd. Pier Luigi Bersani che lo sa non sposa la linea di Bindi ma nello stesso tempo non la demonizza. «Certamente — spiega il segretario — non si può sempre abbandonare l’Aula. Con i numeri di oggi (ieri per chi legge, ndr) loro ci avrebbero messo un’ora ad approvare tutto quello che volevano. Se noi ce ne andiamo il rischio è che alla fine l’abbia sempre vinta lui, Berlusconi. Ciò detto, è chiaro che ci vuole una risposta straordinaria: io comprendo quelli che la chiedono, capisco i motivi che li spingono. Del resto, avevo detto già tempo fa che il tramonto del berlusconismo avrebbe prodotto eventi tremendi e pericolosi, perciò è ovvio che dobbiamo reagire. Adesso vedremo i modi: per ora niente Aventino, ma di sicuro li faremo ballare» .

Repubblica 31.3.11
Rosy Bindi riveste i panni della "pasionaria": "Avevo difeso l´astensione sul federalismo regionale, adesso dico che è stato un errore"
"Dobbiamo abbandonare il Parlamento ormai è una dittatura della maggioranza"
Basta concessioni a Berlusconi altrimenti non comunichiamo alla gente la nostra battaglia contro il premier
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Mai più una settimana tranquilla in Parlamento. Mai più una qualsiasi forma di collaborazione con la maggioranza. Avevo difeso l´astensione del Pd sul federalismo regionale. Adesso dico: è stato un errore. Un errore grave, un lusso che non possiamo permetterci. Basta concessioni a Berlusconi. Altrimenti non comunichiamo alla gente la nostra battaglia contro il premier». Rosy Bindi torna a vestire i panni della pasionaria. La sua è una furia calma, lucida. Molto determinata. La proposta dell´Aventino, che ieri mattina ha provocato una lite tra lei e D´Alema e che è stata smorzata da Bersani, resta una soluzione, forse la strada maestra. «Io dico che ci vuole una strategia coordinata e programmata di iniziative. In Parlamento e fuori dal Parlamento. Un´organizzazione scientifica della nostra opposizione. Il momento è tale che non possiamo rispondere con i mezzi ordinari a una situazione straordinaria». La Bindi è appena tornata a Montecitorio dopo aver calmato i manifestanti davanti alla Camera.
Il segretario del Pd respinge l´idea di uscire dall´aula, dell´Aventino parlamentare.
«Dobbiamo decidere insieme qual è la soluzione migliore. Ma insisto: la non partecipazione può essere più chiara, più diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela inutile».
Eppure avete mandato sotto il governo appena qualche ora fa.
«È vero. Lo abbiamo fatto altre volte se è per questo. Ma succede su provvedimenti poco rilevanti, allora sì. Poi quando si parla delle leggi che interessano Berlusconi, delle norme ad personam si presenta in aula Frattini invece di occuparsi della guerra in Libia. Il ministro dell´Economia dimentica la crisi e viene qui a votare un inversione dell´ordine del giorno. Perché? Perché riguarda il premier, l´impunità a vita del premier».
A quale reazione straordinaria pensa?
«Non tocca a me dirlo. So però che non è possibile continuare così. Abbiamo bisogno di organizzare scientificamente la vita parlamentare e le iniziative nel Paese. In un modo diverso. Ci sono dei momenti straordinari. Noi viviamo in uno di questi. Se non facciamo niente di nuovo, un gesto di rottura contro l´imperatore, un salto vero, anche il processo breve sarà presto derubricato, metabolizzato, dimenticato. Come è successo per altri provvedimenti vergognosi».
Possibile che non abbia un´idea su come mettere in pratica questo salto di qualità? Si può pensare alle dimissioni sue e di tutti i parlamentari del Pd che hanno ruoli istituzionali?
«Dobbiamo parlarne insieme. Poi agire. L´ho detto anche a Bersani. Prima di tutto sono d´accordo con il presidio permanente davanti a Montecitorio. La dittatura della maggioranza merita una risposta forte. Non c´è più rispetto per le regole e non c´è rispetto nemmeno per la realtà visto che il Parlamento si accinge a votare un testo che dice: sì, Ruby è la nipote di Mubarak».
Cosa ha detto a Bersani?
«Che in mezzo a questi passaggi incredibili, dal caso Ruby al processo breve, il Parlamento non può essere un Parlamento con settimane ordinarie. Dove tutto è tranquillo, tutto fila liscio. Ho difeso proprio su Repubblica l´astensione del Pd sul federalismo regionale. Continuo a pensare che nel merito abbiamo fatto bene. Però ci ho ripensato. Oggi dico che astenerci è stato un errore. Se ci fosse stato il federalismo in ballo Bossi avrebbe fatto un casino, si sarebbe messo di traverso sul processo breve».
A brigante brigante e mezzo?
«Non dico questo. Dico che dobbiamo infilarci nel gioco del ricattato e del ricattatore. Vogliamo mettere in fila gli strappi di questa maggioranza? Il consiglio dei ministri ha impedito al Tesoro di costituirsi parte civile per l´evasione fiscale di Mediatrade. Il 5 aprile si vota sul conflitto di attribuzione: sarà un altro atto di disonore per la Camera. La situazione è insostenibile».
Quando lei ha proposto l´uscita dall´aula, D´Alema ha risposto scherzando: "Che faccio, vado a menarli?". E avete litigato.
«Ma sono sicura che anche D´Alema pensa a una risposta straordinaria. Ha fatto una battuta. Secondo me non è il momento delle battute».
E le iniziative fuori dal Parlamento?
«Siamo passati dal milione di donne in piazza al silenzio. Non deve più accadere».

l’Unità 31.3.11
La carta dell’esilio Roma insiste sul suo piano e lavora su Ciad, Nigeria ed Uganda
La controffensiva Il Colonnello riprende il controllo dei siti petroliferi di Ras Lanuf e Brega
Armi ai ribelli, no dell’Italia Sale la tensione con la Francia
Divisi sull’esilio. Divisi sulle armi ai ribelli. A favore del riarmo Francia e Gran Bretagna, possibilista Obama. L’Italia scettica. Nel frattempo, le forze «lealiste» riconquistano posizioni. E gli insorti retrocedono.
di Umberto De Giovannangeli


Dall’esilio garantito alle armi ai ribelli. Un nuovo fronte divide l’Europa sullo scenario libico. E l’Italia è nel «mirino»: di Parigi, di Londra, del «governo» di Bengasi. Lo scontro con la Francia si i alimenta di giorno in giorno di nuovi argomenti: «È uno degli aspetti gravi di mancanza di solidarietà da parte francese e di mancanza totale dell'Euro-
pa...», tuona il ministro degli Esteri Franco Frattini, rispondendo al Tg2 ad una domanda sul fatto che a Ventimiglia alla frontiera francese gli immigrati vengono rimandati indietro.
I PAESI AFRICANI
Ciad, Niger, Uganda. Sono questi i tre Paesi africani su cui l’Italia punta per realizzare il «piano A», quello su cui Roma punta per uscire vincente dalla partita libica: l’esilio di Muammar Gheddafi. Da Londra, è uscita la line del «né aderire né sabotare». Se crede, Roma vada avanti. Così è. Indiscrezioni confermate dall’emittente televisiva pan-araba Al Jazira, parlano di un incontro in Tunisia tra il ministro degli esteri libico Mussa Kussa e «delegati italiani» per trattare una «agevole via di uscita del
Raìs». Nè aderire né sabotare. Non è ancora arrivato il momento per avviare un «formale negoziato» con Gheddafi in modo da gestire la fine del suo regime: così il presidente americano, Barack Obama, intervistato dalla Cbs. «La cerchia attorno a Gheddafi sottolinea Obama ha capito di avere i giorni contati. Tuttavia non è detto che il Colonnello ne sia consapevole, per cui penso sia troppo presto per noi dare il via a un negoziato formale. Gheddafi sa esattamente cosa fare per porre fine ai bombardamenti costanti contro di lui. A un certo punto potrebbe cambiare posizione e cominciare a studiare come negoziare la sua uscita di scena. Tuttavia ha concluso l’inquilino della Casa Bianca non credo che siamo ancora a quel punto». «La
soluzione ideale non è mandare in esilio Gheddafi ma portarlo a processo», ribadisce a l’Unità Guma el Gamaty, membro del Consiglio nazionale di transizione libico. «I crimini commessi contro il popolo libico aggiunge non possono essere dimenticati».
FRONTE ARMATO
Altro contenzioso: armare o no il fronte anti-Gheddafi. Nella riunione di Londra, il ministro degli Esteri francese Alain Juppé ha dichiarato che il suo Paese era pronto a discutere con i suoi alleati di un aiuto militare ai ribelli, pur riconoscendo che questo non è previsto dalle risoluzioni Onu. Di fronte al Parlamento, il primo ministro britannico David Cameron ha affermato ieri che il suo Paese «non esclude» di fornire armi ai ribelli, anche se nessuna decisione in questo senso è stata ancora presa. Neanche Barack Obama lo esclude ma precisa che è in corso una valutazione sul rapporto di forze tra i ribelli e il regime di Gheddafi per arrivare a una decisione. Alla domanda sull'eventualità che gli Stati Uniti possano garantire assistenza militare diretta ai rivoltosi, Obama ha risposto: «Non lo escludo, ma non dico neanche che lo faremo. Stiamo valutando cosa faranno le forze di Gheddafi». «Una delle questioni a cui stiamo cercando di dare risposta ha aggiunto Obama nell'intervista all'Nbc, alla Abc, alla Cbs Newsè se le forze di Gheddafi sono state sufficientemente indebolite, perché allora non sarebbe necessario armare i ribelli». «Ma al momento non lo escludiamo», ha ribadito. L’Italia la pensa diversamente.
«Armare i ribelli sarebbe una misura controversa, una misura estrema e certamente dividerebbe la Comunità internazionale», sostiene il portavoce della Farnesina Maurizio Massari, intervenendo a Radioanch' io. Secondo Massari «non è affatto detto» che armare i ribelli sia «la soluzione ideale per fermare i massacri della popolazione civile: bisognerà pensarci molto bene, stare attenti». La nostra posizione ha proseguito è «usiamo gli strumenti a disposizione, la “no fly zone” e i corridoi umanitari per risolvere la situazione sul terreno» Ma sul terreno la situazione vede di nuovo avanzare le forze fedeli a Gheddafi e gli insorti in ritirata. Le milizie del Raìs hanno riconquistato il sito petrolifero di Ras Lanuf, costringendo gli insorti ad abbandonare le postazioni e fuggire ad est, Ripresa dai «lealisti» anche Brega, altro importante terminal petrolifero, e prim’ancora la cittadina di Uqaylah. In seguito ad attacchi di forze fedeli al Colonnello che hanno innescato un ritirata disordinata dei ribelli, migliaia di civili sono fuggiti da Ajdabiya per dirigersi verso Bengasi, la roccaforte dei rivoltosi. Raid aerei della coalizione internazionale colpiscono postazioni «lealiste» a 10 chilometri da Ajdabiya. I missili degli aerei alleati sono accolti da urla di giubilo da parte degli insorti. La guerra continua. Chi esilia chi?

La Stampa 31.3.11
“Senza missili anticarro gli insorti non possono scacciare il Colonnello”
L’analista White: “C’è il rischio che gli armamenti finiscano nelle mani dei terroristi islamici. Ma oggi è il male minore”
di M. Mo.


È ora di armare i ribelli». Jeffrey White, ex capo delle analisi militari della «Defence Intelligence Agency» per Medio Oriente e Nord Africa, non ha dubbi «sull’urgenza della decisione».
Perché bisogna dare le armi ai ribelli libici?
«Il conflitto in Libia sin dall’inizio è stato combattuto soprattutto da forze terrestri. Gheddafi ha usato pochi aerei per lanciare qualche bomba e mettere molta paura ai ribelli, ma la sua forza reale sono i reparti blindati. I ribelli non possono battersi senza avere le armi adatte a tale conflitto».
Di quali armi hanno bisogno?
«Servono soprattutto i missili anticarro, adatti a perforare le blindature dei tank come anche dei mezzi per il trasporto truppe».
Ciò significa però anche fornire l’addestramento necessario...
«Esatto. Non sono armi sofisticate ma l’addestramento serve. Bastano poche settimane e ne sono state già perse troppe».
Ma addestrarli significa mandare in Libia truppe di terra...
«Bisognerà mandare dei piccoli contingenti di truppe speciali per un periodo breve. Dare solo i missili antitank è inutile».
Come spiega le resistenze americane ed europee a far arrivare le armi a Bengasi?
«Con due motivi. Il primo è il timore che queste armi finiscano nelle mani di gruppi fuori controllo, tipo i terroristi in Medio Oriente. L’altro è che i ribelli sono un’entità poco nota, con una struttura di comando incerta».
Sono timori che impediranno alla Casa Bianca di dare l’assenso?
«Credo che, dopo qualche esitazione, Obama accetterà di far avere i missili antitank ai ribelli. Anche perché non sono armi antiaeree simili ai missili Stinger che vennero dati ai mujaheddin afghani per combattere contro i sovietici. Le armi anticarro sono già piuttosto diffuse fra i gruppi di guerriglieri. Ma i ribelli libici non le possiedono».
Se Washington continua a esitare, Parigi potrebbe decidere di iniziare da sola le forniture di armi...
«Se avvenisse non mi sorprenderebbe. Sin dall’inizio della crisi la Francia è stata in prima fila e vuole continuare a rimanerci».
Quale scenario militare prevede se i ribelli dovessero rimanere senza armi anticarro?
«Vi sarebbe uno stallo, con la Cirenaica in mano ai ribelli e la Tripolitania saldamente sotto il controllo di Gheddafi. Potrebbe durare a lungo. Non credo che il raiss come leader possa riuscire a restare in sella, ma i contingenti che possiede, con l’ossatura di reparti blindati bene addestrati, gli possono consentire di bloccare i ribelli, puntando a sopravvivere grazie alla scelta della coalizione di non inviare truppe di terra. L’unica maniera per superare il rischio di stallo è armare i ribelli».
Sperando che le armi non finiscano a cellule jihadiste...
«Il rischio c’è. Ma non armare i ribelli comporta rischi maggiori».

l’Unità 31.3.11
Immigrazione e bufale di governo
di Pietro Soldini, responsabile immigrazione Cgil


Ancora una volta il governo italiano e il ministro dell’Interno, ci costringono alla vergogna per come stanno gestendo la situazione degli arrivi a Lampedusa, mancava solo lo show di Berlusconi. Gli sbarchi a Lampedusa erano assolutamente
prevedibili e invece il ministro Maroni non li ha voluti prevedere perché impegnato a propagandare la “Missione compiuta” del suo ministero di azzeramento degli sbarchi, di chiusura del centro di Lampedusa in seguito all’accordo italo-libico. Una posizione propagandistica che gli avvenimenti della Libia e più in generale del Nord Africa hanno clamorosamente smentito. Peraltro nel periodo in cui l’accordo italo-libico “ha funzionato” circa 50.000 profughi sono sbarcati in Grecia, anch’essa frontiera europea. Altri centinaia di migliaia si sono ammassati in Libia, e non sappiamo quanti di loro sono morti in mare e nel deserto. Comunque mentre noi gridiamo all’invasione, oltre 300.000 persone hanno lasciato la Libia dal confine tunisino ed egiziano.
Gli immigrati che arrivano a Lampedusa sono “persone” e come tali vanno accolti e assistiti. L’ipotesi di un loro rimpatrio non potrà che avvenire con i tempi e le procedure previste dalla Direttiva Europea n. 115 con la collaborazione degli interessati e dei loro paesi d’origine. Ogni altra ipotesi agitata dal ministro Maroni, come quella dei “rimpatri forzosi”, è assolutamente impraticabile.
La protezione umanitaria, per quelli che sono arrivati e che potrebbero arrivare (50.000?) spalmata su tutto il territorio, non potrebbe certo essere considerata insopportabile. È insopportabile lasciarli ammassati a Lampedusa, senza assistenza e quasi senza cibo, compresi i minori. È evidente che il Governo non vuole affrontare e risolvere l’emergenza, ma vuole coltivarla. È falso affermare che l’Italia sia la in Europa a farsi carico dei rifugiati: in Italia abbiamo 55.000 contro i 600.000 della Germania, 300.000 in Francia, 200.000 nel Regno Unito. In quanto alle risorse l’Italia, per l’accoglienza e l’integrazione spende quasi zero del proprio bilancio e ciò che spendiamo proviene dal fondo europeo (Fei circa 75 milioni).
Il governo ed il ministro Maroni si stanno assumendo una grave responsabilità per la situazione di caos a Lampedusa, per la violazione dei diritti umani, i disagi alla popolazione locale e la spregiudicata ed irresponsabile strumentalizzazione nei confronti dell'opinione pubblica.
Occorre un’operazione di verità perché gli immigrati, che arrivano sulle nostre coste, non sono colpevoli di nulla, né si può addossare la responsabilità all'Europa, alla sinistra, ai buonisti, e prendere atto del fallimento di questo governo.

il Fatto 31.3.11
Tedesco. Il Pd è diviso e spera nel Riesame
di Marco Palombi


“Il Pd valuterà, ma sulla richiesta di arresto per Alberto Tedesco avrà una posizione unitaria”. Il capogruppo democratico nella Giunta per le immunità del Senato, Francesco Sanna, è forse troppo ottimista. Intanto - stabilito che il PdL è orientato a votare no - la decisione è slittata almeno alla settimana prossima e nel centrosinistra più o meno tutti sperano che ci pensi il Tribunale del Riesame a toglierli d’impaccio annullando la custodia cautelare in carcere per il senatore ex Pd (ora nel gruppo Misto), già assessore alla Sanità di Nichi Vendola. La spaccatura nel gruppo democratico, comunque, permane ed è plasticamente rappresentata dai suoi vertici: favorevole all’arresto la capogruppo Anna Finocchiaro – che insieme a Francesco Boccia fu l’unica a criticare la scelta di far entrare Tedesco in Senato – fortemente contrario il suo vice Nicola Latorre, braccio destro di D’Alema ma soprattutto ras del Pd pugliese. Le divisioni dei vertici si riflettono anche nelle posizioni (finora informali) della Giunta: per il sì alle richieste del Tribunale sono schierati Sanna, Adamo e Casson, per il no Marinaro, Legnini, Mercatali e il “garantista” Follini. Agnostici, ad oggi, gli ex rutelliani Lusi e Leddi. Quanto al segretario Bersani non vuole ancora prendere una posizione ufficiale. La cosa non è semplice. Latorre si sta muovendo con decisione   perché sa bene che Tedesco – insieme al suo uomo in Giunta, che poi è una donna: la ex senatrice dell’Udeur Ida Maria Dentamaro - è uno dei cardini attorno a cui ruota l’accordo Pd-Vendola a Bari: il fu assessore non solo ha indicato il nome del suo successore, Tommaso Fiore, ma è stato anche uno dei grandi elettori del leader di SeL alle primarie e poi alle elezioni di un anno fa. “Quando sarà il momento Bersani si schiererà per l’arresto”, spiega una fonte vicina al segretario, “almeno spero”.

Corriere della Sera 31.3.11
Tutti di ruolo, nessuno inamovibile. Una proposta sul nodo dei precari
di Pietro Ichino


C aro Direttore, la direttiva europea numero 70 del 1999 vieta agli Stati membri di consentire che il contratto a termine sia utilizzato come strumento ordinario di assunzione dei lavoratori; e impone comunque la parità di trattamento fra assunti a termine e assunti a tempo indeterminato. In applicazione di questa direttiva, il Tribunale di Genova ha condannato lo Stato italiano, che pratica come normale l’assunzione a termine dei nuovi insegnanti nella scuola e attribuisce loro un trattamento nettamente inferiore rispetto a quelli di ruolo. Il rischio per le esauste casse dello Stato è elevatissimo, perché i lavoratori di serie B o di serie C nella scuola sono oltre 150 mila. Come se ne esce? Per ottemperare alla direttiva europea occorrerebbe stabilizzare tutti quanti. Questo, però, alle condizioni attuali è impossibile: non solo perché costerebbe troppo, ma anche perché il rapporto di impiego «di ruolo» è troppo rigido per potersi applicare a tutti. Quei 150 mila precari oggi portano — da soli — tutto il peso della flessibilità di cui il sistema scolastico ha bisogno. Governo e sindacati stanno studiando la possibilità di stabilizzarne soltanto una parte; ma anche questo non risolverebbe nulla, perché la discriminazione vietata dal diritto europeo resterebbe in vita nei confronti dei moltissimi che rimarrebbero fuori. C’è un modo solo per uscirne: ridefinire la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato per tutte le nuove assunzioni che avverranno d’ora in poi, in modo che essa possa applicarsi davvero a tutti, senza portare con sé costi eccessivi e in modo che la flessibilità necessaria sia ripartita in modo uguale su tutti: solo questo può evitare una grandine di ricorsi giudiziali destinati a moltiplicare per centomila gli effetti della sentenza di Genova. In altre parole: il vincolo posto dal diritto europeo ci obbliga — se vogliamo evitare la bancarotta dello Stato— a una riforma profonda del rapporto di impiego nella scuola, che superi l’attuale apartheid fra insegnanti di ruolo e insegnanti di serie B o C. D’ora in poi, tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile. E non è difficile prevedere che lo stesso discorso finirà per estendersi anche alle altre amministrazioni pubbliche, dove l’apartheid è ormai pratica largamente consolidata: si calcola che i «precari permanenti» nel comparto pubblico siano oltre 500 mila. La direttiva europea, del resto, è vincolante anche per il comparto privato. Lo stesso identico problema è dunque destinato a riproporsi anche nel settore editoriale, in quello delle case di cura, e in molti altri settori del nostro tessuto produttivo, dove è difficilissimo essere assunti con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e dove l’apartheid tra protetti e non protetti è la norma ormai da un quarto di secolo. Se la questione è dappertutto la stessa, anche la soluzione deve essere la stessa: un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi davvero a tutti i rapporti destinati a costituirsi da qui in avanti. Se, poi, con l’occasione, saremo capaci anche di semplificarlo, sarà tanto di guadagnato per tutti.

Repubblica 31.3.11
L´ultima beffa a scuola ora l´inglese lo insegna la maestra di matematica
La riforma Gelmini taglia 11mila docenti
di Corrado Zunino


In poche lezioni i docenti "generalisti" dovranno imparare la lingua
Critica anche la Cisl: "La qualità dell´offerta formativa si sta facendo scadente"

ROMA - L´inglese maccheronico avanza nelle scuole elementari italiane. L´ultima perla della riforma Gelmini, sottaciuta nei suoi effetti evidenti in questi giorni, è stata la cancellazione degli 11.200 maestri d´inglese - solo d´inglese - dalle primarie del paese. Dovranno riconvertirsi rapidamente, a partire dalla prima tranche (4.500 insegnanti), e diventare "generalisti", educare all´italiano, alla geometria, ai primi rudimenti di scienze. In questa scuola elementare, la scuola elementare che il mondo ci copiava e alla terza stagione di tagli imbarca acqua come una bagnarola, i maestri generalisti (di "area letteraria" e di "area matematica") dovranno invece imparare l´inglese, se già non lo sanno, e portarlo a un tale livello da poterlo insegnare ai nostri ragazzi tra i sei e i dieci anni.
L´infanzia, lo dice diversa letteratura scientifica, è l´età migliore per apprendere una lingua straniera e la conoscenza dell´inglese a livelli eccellenti è condizione indispensabile per trovare un lavoro di qualità nel mercato senza trincee. Di più, la prima delle tre "i" berlusconiane - l´inglese, appunto, che apriva le campagne elettorali dei Novanta basate poi su Internet e impresa - sotto il governo scolastico gelminiano è diventato un dialetto insegnato con la precarietà delle cose poco importanti.
Per fare lezioni d´inglese alle elementari basterà un corso triennale di 340 ore, cento ore l´anno di cui quaranta offerte su Internet. Con i rudimenti delle prime quaranta ore assorbiti la scorsa estate con un tutor, duemila maestre generaliste (le insegnanti donne sono maggioranza alle elementari) già balbettano in classe il loro "I´m the teacher" agli scolari di prima e seconda. «Nel corso delle tre ore serali ridiamo per non disperarci, gli strafalcioni sono esilaranti», racconta Maria Antonia, maestra italianista di Tempio Pausania. «Io non ho mai sfiorato un libro scritto in inglese, solo studi francesi, e oggi la mia pronuncia è uno strazio. A 44 anni sono dovuta partire dall´alfabeto, x, y, w, e dopo quattordici lezioni siamo alla descrizione di una persona, i sostantivi del vestire, gli aggettivi adatti. Ma che potremo insegnare ai nostri scolari? I miei figli sono iscritti alle elementari e le assicuro che sono loro, che hanno appreso la lingua da maestre specialiste, ad aiutarmi a fare i compiti a casa. I test su Internet sono finti: in molti chiedono a parenti e amici le risposte, poi le inviano in piattaforma. Tanto chi sarà bocciato alle prove di fine corso dovrà insegnare lo stesso l´inglese in classe».
Maestri di 50 anni buttati nella mischia, maestre costrette a recuperare baby sitter per la sera e comprarsi il computer. Sui test d´inglese è stata dura anche la Cisl scuola, spesso vicina al ministro Gelmini: «La qualità dell´offerta formativa si sta facendo scadente». A Caserta diversi docenti si sono rifiutati di continuare i corsi, a Pavia non si sa quando partiranno. Marianna Pirinu, insegnante d´inglese in Gallura, da 13 anni: «Ho una certificazione internazionale con test corretti a Cambridge, cinque anni con insegnante madrelingua e devo essere messa da parte perché il ministero ha deciso che chiunque può insegnare l´inglese».

Repubblica 31.3.11
"Poveri bambini, che danno per loro"


ROMA - Barbara G. ha 37 anni, insegna nell´Astigiano: italiano in quarta e quinta elementare, matematica in prima. Guadagna 1.200 euro il mese, paga l´affitto perché è di Novara e ogni lunedì deve raggiungere una scuola media di Asti per reimparare l´inglese.
«Poveri bambini, non riesco a farmene una ragione: dovranno subire questo strazio».
Quale strazio?
«Bisognerebbe aprire i corsi alle telecamere, al ministro Gelmini. Sentire insegnanti quarantenni che pronunciano come leggono, "and i go". Così, "and i go", subito ti fa ridere, poi ti fa salire la depressione».
Lei?
«Io sono la cocca del tutor, ho studiato inglese. Ma intorno a me è un delirio, la maggior parte è livello A0. A, b, c. Ecco, "ei", "bi", "si". Sembrano corsi per casalinghe annoiate e invece servono per affidarci la lingua straniera dei bambini fino a dieci anni, il futuro del paese. I dialoghi poi, quando proviamo i dialoghi, sono tutti da ascoltare... No, non è proponibile».
Ed è tutto gratis.
«Certo. Che vuole, che ci diano un bonus? 1.200 euro al mese devono restare. Anzi, abbiamo nuovi costi».
Quali?
«Io ho dovuto mettere la linea Adsl, sennò non entravo nella piattaforma dei test. Ci sono colleghe che si fanno sessanta chilometri andata e ritorno e nessuno rimborsa la benzina. Si sono inventati questa nuova modalità per mandare indietro la scuola e la fanno pagare ai maestri».
Tra un po´ arrivano should e would.
«Sarà una Waterloo, anche se la nostra tutor, una professoressa che insegna alle medie, è bravissima. La pronuncia, insisto, sulla soglia dei quarant´anni lì è davvero difficile migliorare. La lingua non sai mai dove puntarla».
Il 13 maggio l´esame finale con una commissione esterna.
«Dicono che saranno docenti di università. Tanto a settembre, comunque andrà, dovremo insegnare l´inglese».
(c.z.)

La Stampa 31.3.11
Kafka l’ultimo mistero è nascosto in un frigorifero
Sulle tracce dei leggendari taccuini scomparsi nella Germania nazista: la chiave per trovarli si trova in un appartamento di Tel Aviv abitato da un’anziana signora con un centinaio di gatti
di Fabio Sindici


LE CARTE Sequestrate dalla Gestapo a Dora Diamant, l’ultima passione dello scrittore
LA PISTA Nelle lettere tra la donna e l’esecutore testamentario Max Brod, finite in Israele

L’ ultimo processo di Kafka va in scena in questi giorni, nelle aule del tribunale di Tel Aviv, dove sono stati appena riesumati i «resti» letterari dell’inventore dell’angoscia contemporanea. Come in una trama dello scrittore di Praga, in questa storia s’incontrano schiere di avvocati, una casa quasi stregata abitata da un’anziana signora e da un centinaio di gatti -, lettere nascoste all’interno di un frigorifero, manoscritti sepolti nei caveau di alcune banche svizzere, squadre contrapposte di bibliofili, una cacciatrice di documenti che porta lo stesso cognome dell’ultima compagna dell’autore del Processo . In palio, quel che resta dell’eredità di Franz Kafka; e, forse, la chiave finale per capirne l’opera e la vita, che, per i critici e i biografi, conserva molte zone oscure.
«Siamo da anni sulle tracce di 20 taccuini e 35 lettere, che vennero sequestrati nel 1933 dalla Gestapo nell’appartamento di Dora Diamant. Si tratta delle ultime note scritte da Kafka, prima di morire nel 1924 nel sanatorio di Kierling. Potrebbe essere il suo testamento letterario. Sono le uniche carte che non sono passate al vaglio dell’amico Max Brod» racconta Kathi Diamant, direttrice del Kafka Project, organizzazione con base a San Diego, in California, nata con lo scopo di rintracciare scritti inediti e materiali biografici relativi al grande scrittore. Kathi ha lo stesso cognome della danzatrice Dora, con cui Franz Kafka sognava di emigrare a Gerusalemme e aprire un ristorante, ma non c’è nessuna parentela accertata. Di recente, sono stati ritrovati due diari di Dora, uno a Parigi, il secondo a Berlino. Mentre Kathi ha scoperto alcuni oggetti appartenuti a Kafka, tra cui una spazzola, in un kibbutz in Israele. Niente in confronto al tesoro letterario dei taccuini. Anche in senso economico. Basti pensare che il manoscritto del Processo è stato venduto alla biblioteca tedesca di Marbach per 2 milioni di dollari, nel 1988; e che la casa d’aste berlinese Stargardt il 20 aprile prossimo offrirà le lettere di Franz alla sorella Ottla con una base di 800 mila euro.
Per gli appassionati di Kafka, i taccuini sono una sorta di Santo Graal. Dora Diamant decise di conservarli, mentre distrusse il resto dei fogli riempiti dallo scrittore a Berlino nell’anno che passarono insieme. A differenza di Max Brod, amico ed esecutore testamentario, che non obbedì alla richiesta dello scrittore di bruciare tutte le sue carte, senza leggerle. «Le condizioni di salute, anche mentale, di Kafka non erano buone in quell’anno, ma se Dora ha deciso di salvare i taccuini ci deve essere qualcosa d’importante» dice convinta Kathi Diamant. «Dopo la guerra, Max Brod andò in Germania per recuperare le carte. Ma si trovavano oltre la Cortina di ferro, e gli archivi non permettevano indagini. Oggi si sono aperti degli spiragli. Ci sono buone probabilità che i taccuini siano in Polonia, ma la pista per individuarli è in una serie di lettere che Dora ha scritto a Max Brod e che solo pochissime persone hanno potuto vedere fino ad ora».
È qui che la storia ha una contorsione degna del miglior Kafka. Le lettere in questione fanno parte dell’eredità di Max Brod, contesa dalle sorelle Eva Hoffe e Ruth Wiesler da una parte e dallo Stato d’Israele dall’altra. L’archivio di Brod è il secondo tesoretto kafkiano, che aprirebbe la via al primo, quello dei taccuini. Come è noto, l’amico decise di salvare i romanzi e i racconti di Kafka, e riuscì a portarli in Palestina nel 1939, poco prima che si chiudessero i confini della Cecoslovacchia, occupata dai nazisti; quindi ne sorvegliò la pubblicazione, con la sollecitudine del «guardiano della legge» della celebre parabola contenuta nel Processo . Ma alcune carte scelse di non pubblicarle. Alla sua morte, passarono alla segretaria Esther Hoffe, e quindi alle figlie. È a questo punto, nel 2007, che s’inizia l’estenuante processo.
La Libreria Nazionale di Gerusalemme decide di contestare la donazione dell’archivio alla Hoffe, sulla base della volontà espressa da Brod, che avrebbe voluto il suo archivio in un’istituzione israeliana. Intanto le sorelle avevano disseminato le carte in dieci cassette di sicurezza tra Zurigo e Israele. Altre sono rimaste in un appartamento, in via Spinoza, in una zona residenziale di Tel Aviv, che Eva divide con un numero variabile e considerevole di gatti, e dal quale parla solo con i suoi avvocati. Le poche notizie che trapelano sembrano segreti bisbigliati attraverso serrature chiuse. Ambigue come le misteriose comunicazioni dei signori del Castello all’agrimensore K. «Ho saputo che ci sono fogli nascosti sotto il letto, e che le lettere di Dora a Brod sono stipate nel frigorifero» sostiene Kathi Diamant. La sensazione è che i protagonisti di questa storia si siano adeguati il più possibile per somigliare ai personaggi di un racconto di Kafka. «I manoscritti esercitano uno strano magnetismo» suggerisce la studiosa.
La corte israeliana, la scorsa estate, ha ordinato l’apertura dei caveau e l’inventario dei documenti, inclusi quelli nell’appartamento, tra le grida di dolore di Eva Hoffe. Pochi giorni fa, il team di esperti del tribunale ha pubblicato un primo resoconto del materiale esaminato. Tra gli autografi kafkiani ci sono le bozze del racconto Preparativi di nozze in campagna , frammenti che sembrano inediti, forse le idee per una storia, lettere, un quaderno di esercizi in lingua ebraica. E poi il diario di Brod, mai pubblicato. «Tra gli esperti del tribunale non ci sono veri studiosi di Kafka, in grado di capire cosa sia inedito o se un frammento rimandi a una scoperta» denuncia Kathi Diamant. Non è neppure chiaro se nel rapporto siano compresi anche i documenti dell’appartamento di via Spinoza, tra cui le famose lettere di Dora.
I detective legali cercano prove che avvalorino la tesi della donazione alla due sorelle, o al contrario, della volontà di Brod di lasciare le sue carte allo Stato d’Israele. I segugi letterari esaminano indizi per decifrare i labirinti kafkiani. «Dei tre capolavori di Kafka, Il castello eAmerica sono incompiuti. E c’è chi sostiene che anche Il processo manchi della conclusione voluta dal suo autore» ribadisce Kathi Diamant. La soluzione si sposta da una carta all’altra, da una banca svizzera a un archivio in Slesia. «La strada per la sentenza è ancora lunga» ha detto uno degli avvocati. «Forse i taccuini sono la risposta finale, oppure contengono solo un altro enigma» dice la Diamant. È singolare, una beffa o una maledizione, che la verità su Kafka voglia sfuggire al suo ultimo processo.

La Stampa 31.3.11
La battaglia legale
di F. S.


Ha anche un lato politico la battaglia legale sulle carte di Kafka? Quando il manoscritto del Processo venne venduto da Esther Hoffe all’archivio di letteratura tedesca di Marbach, lo scrittore americano Philip Roth commentò che era un esempio di «maledetta ironia kafkiana» che i suoi scritti finissero in Germania, quando le sorelle di Kafka erano morte nei campi di concentramento nazisti. Proprio Marbach ha fatto un’offerta segreta (a quanto si sa milionaria) sull’archivio di Max Brod, disputato ora in un’aula di tribunale israeliana. Se la corte dovesse dare ragione alle eredi di Esther, è lì che andrebbero probabilmente i fogli inediti, assieme agli originali di storie pubblicate. Altrimenti, alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Dietro le due possibili destinazioni, due diverse interpretazioni critiche e politiche di Kafka: come scrittore europeo da una parte, come autore erede dell’ebraismo e attivista sionista dall’altra. Con la possibilità di trovare, tra le righe inesplorate, un Kafka incandescente, politicamente scorretto, che fa un po’ paura a tutti.

Corriere della Sera 31.3.11
L’etica di Ingrao, pacifista un po’ guerriero
di Paolo Franchi


«S iate gentili con la mia vecchiaia» , risponde Pietro Ingrao (novantasei anni ieri: auguri di cuore) a Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, concludendo la conversazione che Aliberti ha appena pubblicato con il titolo: Indignarsi non basta. È una pacata esortazione a tenere fermo il senso del limite. Ma i vecchi combattenti non sono, politicamente parlando, gentili: mettono, quando pensano che occorra, i piedi nel piatto; e, se vogliono lasciarci un messaggio, pretendono che sia il loro, non quello che gli altri gli attribuiscono. E Ingrao, che pure alla prosa preferisce la poesia, che tuttora individua nella rivendicazione della «fecondità del dubbio» il suo personale «apporto al pensiero e all’agire politico» , e che tiene a dichiarare di non essere mai stato «un uomo della regola» , stavolta alla regola non sfugge. A modo suo, certo, e con il suo particolarissimo linguaggio, i piedi nel piatto li mette. Eccome. Indignez-vous, indignatevi, esorta Stephane Hessel, protagonista della Resistenza francese, novant’anni o giù di lì pure lui, in un libretto che in Francia ha fatto furore e l’editore torinese Add ha appena tradotto in italiano. Ingrao non ne è affatto convinto. L’indignazione è sacrosanta, ci mancherebbe, ma non può diventare un mestiere, o un abito mentale. Anche lui, ventenne, si indignò, il 17 luglio 1936, quando Francisco Franco, varcato lo stretto di Gibilterra, sbarcò in Spagna. Ma da lì, spiega, cominciò il suo percorso politico. Perché, appunto, indignarsi non basta: «Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva. Poi la puoi chiamare movimento o partito o in altro modo» . Lui, Ingrao, che la chiamò partito, o meglio: Partito comunista italiano, sa benissimo che ormai «la domanda di liberazione dai partiti non solo è diffusa, ma... è diventata un potente elemento della stessa azione politica» . Sa pure, però, che «la decadenza della forma partito e il suo pervertirsi hanno agito, restringendone drasticamente i margini, sulla capacità di dialogo e di ascolto, sul confronto tra culture, sulla possibilità di influenza reciproca, sulla trasparenza nei rapporti tra governanti e governati: insomma, sulla formazione dello spirito pubblico» . E soprattutto sa anche che «una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all’affarismo politico» (l’indignazione e la denuncia in servizio permanente effettivo, cioè) per condivisibili che possano essere, non solo non bastano, ma non fanno vedere, e in qualche modo occultano, «le trasformazioni persino violente che hanno subito i luoghi del vivere civile, le fabbriche, gli uffici e le scuole, le metropoli e le loro periferie, i modi della mobilità e della comunicazione» . Indignazione, moralismo politico? Con tutti i suoi novantasei anni, Ingrao (come sostiene più nel dettaglio in un’intervista rilasciata a Bruno Gravagnuolo per l’Unità) si metterebbe da domani al lavoro per costruire un soggetto comune, plurale e unitario insieme, della sinistra, «fatto di posizioni più moderate e più radicali» , ma pure un’intesa con il centro, perché «Bersani, Vendola e gli altri più a sinistra da soli non possono farcela» , a «dividere il blocco sociale dell’avversario e a costruirne uno proprio, vincente» . Sono, a guardar bene, parole antiche: probabilmente è per via della desolazione politica di questi tempi che sembrano nuovi, e controcorrente. Ancor più controcorrente, almeno rispetto al cliché che gli è stato incollato, suonano le affermazioni di Pietro Ingrao sulla pace e sulla guerra. Hessel si dichiara per la non violenza assoluta, il vecchio comunista (seppur lodatore del dubbio metodico) Ingrao, che pure si richiama rigorosamente all’articolo 11 della Costituzione, proprio no. È contro la guerra, certo, ed è anche agghiacciato dal fatto che la guerra sia entrata a far parte della nostra vita quotidiana come qualcosa di normale. Ma, spiega, «non sono mai stato per il pacifismo integrale. Sono stato e resto persuaso che l’azione armata del nemico costringe a rispondere con le armi» , dice a Boccia e a Olivetti. «La non violenza, intesa nel suo significato più diretto, quale netto rifiuto di ricorrere alle armi, non è presente nella mia esperienza politica, e non l’ho mai teorizzata» . Non è solo un tributo di onestà alla cultura politica e alla tradizione da cui viene. Sull’Unità, con l’intervistatore che vuol sapere della Libia, va molto oltre: «Mi chiedi di Gheddafi? Posso dirti: è un mascalzone. E perciò un modo per far fronte a uno come lui si doveva pur trovare, con tutti i dubbi sui rischi imperiali euroccidentali che un intervento del genere può provocare» in quell’area. Parafrasando Nanni Moretti: se si trattava di «dire qualcosa di sinistra» a nipoti e pronipoti, il vecchio Pietro ha trovato il modo di farlo.

il Riformista 31.3.11
96 anni di passione
Per Ingrao «indignarsi non basta»

qui
http://www.scribd.com/doc/51961557

Corriere della Sera 31.3.11
L’immaginazione è la via della pace
di Guido Ceronetti


P er la prima volta Israele non è al centro di un sanguinoso, immutabile garbuglio mediterraneo. Questo terribile privilegio gli è stato tolto dalle rivoluzioni politiche islamiche e dalla guerra civile libica tentata di mondializzarsi. Non gli è mancato il funesto copione che ha saziato: missili da Gaza — attentato interno — rappresaglia immediata — pace senza più ipotesi, ma questo non ha scalfito la sua parte d’ombra: è inutile strage. A Israele quelle figure di rovesciati e di rotolanti garantivano un certo respiro e poteva tenerli tutti sotto tiro. Di colpo, la solitudine assoluta, accresciuta dal timore che l’ombrello americano sulla sua testa abbia cessato i suoi scatti automatici. Non del tutto, s’intende; tuttavia basta poco al più inquietante dei pensieri: si aprirà in tempo? L’osservatore che mediti su questo, ormai uscito dall’uovo, scontro di civiltà, sicuramente destinato a comunicarci altri sconcertanti messaggi, vedrà con più tormentosa evidenza quanto lontano sia Israele dal fare realmente parte di quella porzione di mondo che gli è inevitabile crocevia destinale. Israele è carne nostra. Questo è certissimo. Carne nostra perché Occidente, democrazia e diritti dell’uomo, nostra perché l’irriducibile Diaspora ha bardato con sella da elefante il mondo romano di una ontologia antigreca che si è universalizzata in voragini di rottami del pensiero religioso; e umanamente nostra perché una sorprendente massima di Emil Cioran, del dopo Shoah, dice che «una città senza ebrei è una città morta» . Carne d’Europa, dunque, nel bene e nel male. Marco Pannella fece venire all’Europa dei lunghi brividi quando propose, durante una trance, che Israele facesse parte dell’Unione Europea! Era la proposta di una eutanasia e non delle più miti: li conteresti, in Europa, quelli che vorrebbero Israele nell’Unione, roba da scongiuri. Tuttavia Pannella parlava da lucido folle puro: perché, questo figlio carnale, non prenderselo in casa e mai più staccarsene? L’Europa, è talmente chiaro, è disperatamente aggavignata alla sua raggiunta pax perpetua e Israele è perpetuo Marte. Nell’Unione che vuole un futuro alla Marcegaglia, Israele piomberebbe con la sua coda di cometa, che non gli permette di avvolgersi e sparire in un simile, identico futuro. Queste sono nazioni di pensionati, non di samurai. E anche Israele lo sarebbe, se non fosse sospesa sulla sua testa e non fosse polvere della propria cometa, la visione di Gog e Magog del trentottesimo di Ezechiele. L’europeo, i piedi nei suoi due bagni, le mani nei suoi carrelli pieni, non sa niente di Gog e Magog ma istintivamente dice: alla larga! L’unione con l’Europa ci fu, per chi la ricorda, con la Guerra dei sei giorni; nelle strade si raccoglieva il sangue per i feriti di Israele; poi fu sempre più marcato lo scollamento e Israele parve non essere altro che il cuore battente di quella assurda cosa che ancora viene chiamata «il problema mediorientale» . Al Cairo, Obama sfilò Israele dalla sua centralità ombelicale: la centralità vera è passata (forse da allora) all’identità musulmana-africana e musulmana d’Oriente in un violento, implacabile rimescolamento. Israele, coi suoi occhi a migliaia di Mossad, è rimasto passivo a guardare, perplesso e di malumore. E qualcosa è accaduto: il suo rientro in Europa. Non l’Unione: Europa come mater, identità paleoeuropea, divano freudiano — rientro nella casa dell’esilio, per diritto di appartenenza. Se l’enorme movimento rivoluzionario in corso non si fermerà a questi pochi esiti nelle nazioni islamiche e la stolida via, turata a ogni immaginazione, dell’odio meccanico per Israele venisse ripresa dai successori, non saprei prevedere niente di buono per tutti loro e per noi. Ma un Israele decentrato e in penombra suturerebbe molte ferite. Riformarsi, anche per Israele, può essere imperativo. Serve più la forza dell’immaginazione e l’invenzione di altre paci seguirebbe, che la forza di un esercito ultrapotente. Il suo rischio premente muto è la riperdita di patria, di identità patria e religiosa, in un Oriente islamico in convulsioni crescenti, metà Africa e metà Asia nel turbine. E nella sua casa madre europea non ci sono idee; in quella americana stanno sempre venendo. Molte cose e non dipendenti dai governi (vedi Qohélet 9,11) si celano nel silenzio di Israele.

Corriere della Sera 31.3.11
Odilon Redon
In quello spazio tra veglia e sonno il suo «io» diviso incontrò Freud
Così esplora la mente tenendo ben salda la bussola della coscienza
di Silvia Vegetti Finzi


Scrive Odilon Redon nel 1898, quando è già un pittore famoso: «Tutto si crea per la sottomissione docile alla venuta dell’inconscio» . La data coincide con la pubblicazione della «Interpretazione dei sogni» , che Freud volle datare 1900 per sottolinearne il significato inaugurale. Entrambi, seguendo i labirinti del sogno, dischiudono all’investigazione uno spazio intermedio tra veglia e sonno, ragione e passione, giorno e notte, senza tuttavia smarrirsi nei suoi meandri. Pur affidandosi alla deriva delle libere associazioni, l’artista e lo psicoanalista tengono ben saldi la bussola della coscienza e gli strumenti della competenza. Sin dall’inizio Redon, soprannominato il Principe dei sogni, abbandona la luce vibrante dell’impressionismo, la natura dispiegata alla ricezione dei sensi, in auge in quel momento, per calarsi nelle tenebre impersonali delle fantasie e dei sogni che animano l’inconscio. Benché costituisca un enigma per i contemporanei, Redon non sarà mai un personaggio emarginato, un artista maledetto. Lo salvaguardano una vasta cultura, una straordinaria versatilità tecnica, l’intima adesione alla morale tradizionale, nonché una solida appartenenza borghese. I contenuti della sua arte sono visionari, ma il linguaggio è classico, talora straniante, ironico e dissacrante. L’intento non è di suggestionare, ma di predisporre a pensare. Le fonti d’ispirazione sono innumerevoli: la storia dell’arte, la letteratura, l’evoluzionismo scientifico, la botanica, l’entomologia, la mitologia europea e indiana, il misticismo e l’esoterismo. Da qualunque parte giungano, le immagini che lo colpiscono vengono estrapolate dal contesto, spezzate e gettate nel crogiuolo onirico da dove riemergono assemblate dalla stravagante a-logica dei sogni, che ignora il tempo, lo spazio, il principio di non contraddizione. Eppure nell’indeterminazione fluttuante della sua pittura si scorgono alcune, significative linee evolutive. La prima conduce dal nero ai colori. Gli anni 80 sono contraddistinti dai Noirs e da soggetti drammatici come «La paura» , «La battaglia delle ossa» , «Nel sogno» , «Ragno» , «Pegaso prigioniero» , «La Nuit» e dall’incontro con le opere oniriche di Goya, Poe, Flaubert. Successivamente, però, con «Occhi chiusi» del 1890, la sua tavolozza si arricchisce di un’ampia gamma di tinte, la pennellata si fa luminosa, plastica e vibrante come se avesse ritrovato entro di sé il mondo esterno. Per una ulteriore metamorfosi, il suo processo creativo ascende dall’infimo al sublime, dalle creature primitive e grottesche, come i ragni con teste umane, alla bellezza ideale, ispirata dall’arte italiana delle origini, culminante in un profilo neutro, dipinto in blu cobalto su sfondo d’oro. Quell’idolo immobile, astratto e impersonale, conclude una faustiana «discesa all’inferno» con l’idea platonica del bello, cui Redon ha votato la vita e la ricerca, come rivela nell’autobiografia «À Soi-même» . Dall’archeologia di un immaginario caotico e frammentato, Redon, ormai vecchio, porta alla luce una piccola cosa, una conchiglia che lo connette a Mallarmé, il poeta a lui più caro. Entrambi scorgono, in quel guscio cavo, un simbolo del grembo materno. Nel suo vuoto risuona, come la voce del mare, il desiderio inconscio, reso dal divieto dell’incesto tanto impossibile quanto insistente. È significativo che Redon non volle mai esporre quel quadro, come se appartenesse alla sua più segreta intimità. Infine, nell’ultimo autoritratto del 1910, Redon, che ha attraversato l’immaginario apocalittico del Romanticismo conservando la fiducia nella ragione illuminista, ricompone nel suo volto l’ambiguità, l’ambivalenza, le contraddizioni dell’esistenza. La parte destra, in piena luce, scruta lo spettatore mentre quella sinistra, oscurata dall’ombra, sfuma nell’indeterminato. L’Io diviso che costituisce la nostra identità, suggerisce Redon, deve e può essere ricomposto dal soggetto che si «disegna» secondo un desiderio, conscio e inconscio, che ne delinea le possibilità e i limiti.

Terra 31.3.11
L’antiletteratura di Nori
di Orietta Possanza

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