sabato 12 gennaio 2008

l’Unità 12.1.08
Università La Sapienza. Benedetto XVI inaugura l’Anno accademico


Dopo la vibrata protesta del professor Marcello Cini, che ha raccolto le firme di molti docenti, il programma del Papa all’inaugurazione dell’anno accademico è stato modificato. Il 17 ottobre non farà più una lectio magistralis di teologia, materia espunta dalle università, ma una «riflessione» dopo la cerimonia annuale che vedrà protagonisti il segretario del Pd Veltroni e il ministro Mussi, che subito dopo usciranno dall’aula magna, A ricevere il Papa solo il rettore Guarini e uno studente e la diretta di RaiUno. L’università sarà massicciamente occupata da polizia e carabinieri.Non è la prima volta: Paolo VI venne alla Sapienza nel 64, Wojtyla nel '91. Giovanni Paolo II inaugurò l'anno accademico di Roma Tre nel 2002
Ma sale la protesta. Si mobilitano i collettivi studenteschi, che temono non a torto che il papa riproporrà la trista equazione pena di morte uguale aborto. La Rete per l’autoinformazione organoizza per martedì prossimo un’assemblea pubblica di discussione e propone «a tutta la società laica di venire a difendere simbolicamente la Minerva, la potenza dei saperi di parte e del conflitto». E «Facciamo Breccia» prepara un'ironica via crucis nella città universitaria puntando il dito contro l'omofobia e la misoginia della Chiesa.

l’Unità 12.1.08
Statuto e Codice etico, nel Pd sarà lotta all’ultima virgola
Si riuniscono le commissioni. Il tavolo gay proporrà una rappresentanza per le proprie istanze, così come avviene per le donne. Sarà accolta?
di Simone Collini


Statuto, Manifesto dei valori, Codice etico. Oggi si riuniscono le tre commissioni del Partito democratico e, a giudicare dall’aria che si respira il giorno della vigilia, la discussione non sarà un semplice pro forma. Soprattutto per quanto riguarda la carta che regola la vita del partito. E non è per quella che già è stata ribattezzata la «norma salva Prodi» - «la previsione secondo cui il segretario viene indicato come candidato del Pd alla carica del presidente del Consiglio diviene efficace a partire dalla XVI legislatura» - che al di là della sorpresa e delle letture dietrologiche fiorite ieri è stata inserita nella bozza di Statuto già a metà dicembre col consenso di tutti. Il punto è che su alcuni aspetti del documento che sarà discusso oggi ci sono delle posizioni che il presidente della commissione Salvatore Vassallo non esita a definire «non conciliabili». Espressione che non convince quanti puntano ad arrivare, nella votazione del testo il 2 febbraio, a un via libera unitario e poi, entro la fine del mese prossimo, a un’approvazione a larghissima maggioranza da parte dell’Assemblea costituente. Un obiettivo a cui puntano sia quanti sostengono la bozza messa a punto dal presidente Vassallo (come Walter Vitali, che non vede «posizioni inconciliabili» e piuttosto nota che «gli scogli fondamentali sono già stati superati») che quanti hanno presentato degli emendamenti per modificarla (come Maurizio Migliavacca e Nicodemo Oliverio).
Quale che sia l’esito finale della discussione, al momento sono quattro i punti su cui non è stato raggiunto l’accordo: se far partecipare alle primarie per eleggere il segretario chiunque si presenti il giorno delle elezioni (testo base) o se soltanto coloro che si sono iscritti almeno una settimana prima all’Albo dei sostenitori (emendamento Migliavacca-Oliverio); se far votare ai «sostenitori» (cioè elettori e simpatizzanti) tutti i candidati segretario che abbiano incassato almeno il 10% dei consensi tra gli «aderenti» (cioè gli iscritti) o se invece (emendamento) soltanto i due candidati più votati nella prima fase congressuale; se dar vita ad un’Assemblea nazionale in cui tutti i mille membri siano stati eletti in connessione col segretario o se (emendamento) riservare il 30% dei posti alla scelta delle regioni e il 10% ai parlamentari; se adottare o meno le primarie per la scelta dei candidati parlamentari.
Mentre nei giorni scorsi è sceso in campo il coordinatore della fase costituente Goffredo Bettini in difesa della bozza Vassallo e dell’ampio potere decisionale riservato ai «sostenitori», ieri è stato Pier Luigi Bersani a lanciare un messaggio in difesa degli emendamenti presentati. «Spero di sbagliarmi ma mi pare che emergano idee molto differenti sulla natura del nuovo partito», dice il ministro per lo Sviluppo economico. «Ognuno può comprendere che quello sulle regole è un tema dirimente sul quale non possiamo permetterci equivoci». E Bersani non nasconde di avere perplessità circa un’elezione in cui può partecipare chiunque, senza un filtro che eviti il rischio interferenze e inquinamenti. Così come non lo convince l’ipotesi di far correre nella sfida finale come candidati segretario tutti quelli che abbiano incassato il 10% dei consensi tra gli aderenti, perché secondo il ministro è più opportuno che la scelta conclusiva sia tra due o tre piattaforme politiche ben definite piuttosto che tra più proposte che rischiano di essere indistinguibili.
Ma non sarà solo in commissione Statuto che la discussione sarà serrata. Se nella bozza del Manifesto dei valori è stato inserito il «riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni», c’è chi, come la manager dell’Eni (e moglie dell’amministratore delegato di Unicredit) Sabina Ratti-Profumo, ha presentato un emendamento che chiede la cancellazione di questa parte. Altro nodo che dovrà affrontare la commissione Statuto e anche quella del Codice etico arriva dal Tavolo Lgbt (lesbiche, gay, bisex e transessuali), che propone di formalizzare una struttura che rappresenti le istanze dei loro sostenitori e aderenti, così come è prevista per le donne del Pd. Praticamente scontato il voto contrario delle componenti cattoliche del partito.

l’Unità 12.1.08
Quella «Legge Truffa» bocciata da Salvemini
di Bruno Gravagnuolo


INEDITI Nel 1954 verso la fine del centrismo degasperiano un giovane studioso scrive al grande antifascista e lo rimprovera di assecondare le tendenze liberticide per difendere la libertà. Ne nasce un confronto esemplare e ancora attuale

Ci voleva una buona dose di improntitudine, e di sventato coraggio giovanile, di là del rispetto dovuto, per strattonare così quel grand’uomo. Ma il giovane sventato si fece prendere sul serio. E il grand’uomo non solo rispose, ma addirittura lasciò intravedere qualche «crepa» nel suo pensiero. E fu indotto a chiarire, e a chiarirsi. Con la proverbiale onestà intellettuale che lo rese famoso. Il giovane sventato è Giuseppe Tamburanno, oggi Presidente della Fondazione Nenni, storico del socialismo e studioso di Gramsci, all’epoca militante di sinistra ed ex comunista precoce, che con la qualifica di avvocato - aveva studiato legge - si rivolge da Foggia al suo interlocutore. E il grande uomo è Gaetano Salvemini, antifascista leggendario, reduce da Harvard, storico insigne, e socialista in gioventù, maestro di Gobetti (lo abbiamo celebrato il 5 e il 7-9 2007 con un ritratto e col Dizionario delle Idee per «Le Chiavi del Tempo»).
Un carteggio sui generis, quello tra i due, avviato dal giovane allora sconosciuto e in cerca di «sponde» e maestri da interrogare, e da «strigliare». Proprio come sarebbe accaduto circa due anni dopo, sempre per iniziativa di Tamburrano, questa volta con Norberto Bobbio come destinatario. E a comporre una trama di relazioni destinate a durare e a essere poi pubblicate, come nel caso del carteggio con Bobbio dal 1956 al 2001, di cui già vi parlammo il 3 -11- 2007 su queste pagine: Norberto Bobbio, Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo (Editori Riuniti). Bene se con Bobbio i «temi» saranno dottrina dello stato, marxismo e libertà, stavolta l’innesco è più immediato. Sono la «liceità» e i «limiti» dell’anticomunismo che allora veniva praticato dalla Dc e dal suo centrismo in piena guerra fredda. In una con la discussione sulla cosidetta «legge truffa» (così la battezzo Pajetta), che avrebbe assegnato il 66% dei seggi alla lista capace di guadagnare il 50% dei voti più uno.
Attorno e dentro questi due argomenti, ve ne sono poi altri. L’importanza della Costituzione repubblicana; il nesso tra libertà formale e sostanziale, il totalitarismo, il clericalismo, la vera natura del Pci. E se sia lecito e giusto consentire ai «totalitari» di usufruire delle libertà che vorebbero abbattere. Temi vecchi e attuali, come si vede, non solo di dottrina, ma anche relative alle tecniche elettorali buone ad assicurare governabilità e alternanza.
Per questo, grazie alla cortesia di Tamburrano che ci ha «aperto» le sue carte, abbiamo voluto presentarvi questa discussione di allora. Pubblicando anche una parte delle due lettere, e scegliendone il «cuore»: democrazia e anticomunismo. Non solo perché il tutto ci pare esemplare di uno stile di confronto. Ma anche perché una qualche conclusione durevole quel confronto la raggiunse, e merita di essere «tesaurizzata». Dunque Tamburrano attacca: voi Professore in nome dell’anticomunismo lasciate che vengano perpetrate ingiustizie! Accettate discriminazioni verso il Pci e rischiate di fare come i liberali nel 1922: per combattere il sovversivismo e la dittatura appoggiate la soppressione della libertà. E il riferimento è alla Celere, a Scelba, alle minacce di mettere fuori legge il Pci, e a un’idea troppo angusta e formalista delle libertà. Non solo. Salvemini per Tamburanno sottovaluta il peso liberatorio della Costituzione repubblicana, e finisce per rimpiangere lo Satuto albertino, magari opportunamente ripulito dalle scorie della legislazione fascista.
E Salvemini? Pare scosso, ma non demorde da certe sue convinzioni. Meglio sarebbe stata, dice, una Costituente che varasse un corpo organico di leggi e non di princìpi (stante che da «anglofilo» egli preferiva il diritto consuetudinario e non codificato: il costume, l’etica civile). Quanto all’anticomunismo, precisa: sono antitotalitario. Nemico del totalitarismo clericale e del comunismo. Ma per ora, aggiunge, il primo mi lascia parlare, mentre il secondo mi toglierebbe la parola. Sicché: rinuncino i comunisti alla dittattura, e io mi schiererò con loro contro ogni oppressione. E nel frattempo? Nel frattempo per Salvemini, lotta distinta contro la Dc, almeno fino a completa revisione democratica del Pci. Ancora Salvemini puntualizza: giusto escludere il Pci da polizia e sicurezza. Ingiusto dalle altre professioni. E inoltre, dice Salvemini: mi batterò per l’eguaglianza vera e sostanziale, senza di cui non v’è libertà. Ma a condizione che non sia un pretesto per la minoranza per paralizzare la maggioranza e un giorno imporre la sua volontà totalitaria. Infine, la tecnica elettorale e la questione della «legge truffa». Qui Salvemini è un po’ contradditorio. All’inizio, sostiene: «criticai aspramente i minori per aver accettato un premio (di maggioranza) eccessivo». Un conto era un premio di 50 voti, che avrebbe «sempre reso il governo dipendente dai (partiti) minori», altro un premio di 80 voti con il quale la Dc «avrebbe potuto mettere alla porta i minori il giorno dopo le elezioni». Quando invece - prosegue Salvemini - il premio passò in Parlamento, scelsi «il male minore», perché avrebbe potuto avvantaggiare i «totalitari». Anche se capii che la Dc ne avrebbe infine abusato, e «riconobbi di aver errato»... Come che sia, continua Salvemini, «per fortuna» alle elezioni il premio non passò, e però la Camera rimane instabile e aperta alla scorrerie di chi spera di «arrivare al regime totalitario».
Insomma un bel duello, dove sotto i colpi del «provocatore» Tamburrano, il grande Salvemini mostra a tratti la corda. Pur restando ammirevole nel voler preservare l’equilibrio tra giustizia sociale e garanzie di libertà, tra espansione dei diritti ed efficienza di governo, nell’alternanza.
In realtà quel Pci, non era affatto una minaccia per la democrazia italiana, di cui altresì era stato «cofondatore». Benché fosse molto lontano dall’aver rimosso le sue ambiguità filosovietiche, e anche distante dall’aver teorizzato compiutamente «la via parlamentare e nazionale al socialismo nel pluralismo» (come avvenne solo a fine 1956, dopo l’appoggio ai «carri»). Ed erano i tempi in cui la polizia sparava sugli operai, la Fiat cacciava e schedava i sindacalisti, e Montanelli consigliava all’ambasciatrice Claire Bothe Luce di caldeggiare bastone e messa fuori legge, contro Pci e socialisti... Nondimeno Salvemini molti problemi li poneva: come si governa questo paese? Come si costituzionalizza l’opposizione? Come si diventa un paese normale senza manicheismi, senza clericalismi, senza massimalismi emergenziali, a destra e a sinistra? E c’è da notare un’altra cosa. Il grande storico intuiva che quel Pci poteva evolvere. Poteva abilitarsi prima o poi a mutarsi in forza di governo socialista e di sinistra (cominciò Nenni). E divenire alfine quel che in parte già era. Morì molto prima che questo avvenisse. E il modo in cui accadde, da laico e socialista qual era, non è detto che gli sarebbe piaciuto...

Repubblica 12.1.08
Alla Sapienza fronte anti-Ratzinger "Nemico di Galileo, qui non può parlare"
Dopo l´appello dei fisici gli studenti preparano la contestazione
di Anna Maria Liguori


Giovedì il Papa terrà un discorso all´inaugurazione dell´anno accademico
Annunciati sit-in. Il rettore: al di là delle opinioni, viene tra noi come messagero di pace

ROMA - «Benedetto XVI non deve entrare all´Università La Sapienza». Il vade retro viene da un nutrito gruppo di docenti e studenti dell´ateneo più antico d´Europa e apre un nuovo fronte laici-cattolici. Il rischio è che giovedì prossimo, quando è in programma un discorso del Papa - terzo pontefice in visita all´ateneo - vada in scena una clamorosa contestazione, un sit-in antipapalino all´ombra delle Minerva. La parola d´ordine è: «Non vogliamo Ratzinger nel tempio della conoscenza perché è troppo reazionario».
L´alzata di scudi laica era stata preannunciata giovedì da una lettera ai vertici dell´università che hanno invitato, il 17 gennaio, papa Ratzinger ad inaugurare l´anno accademico 2007-08, il 705° dalla fondazione. Sessantasette docenti, tra cui tutti i più noti fisici dell´ateneo, hanno firmato un appello (pubblicato scorso su Repubblica) perché "quell´invito sconcertante", così lo hanno definito, venga revocato. Il messaggio anti Ratzinger è stato spedito direttamente al rettore Renato Guarini: «Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso a Parma, Joseph Ratzinger ha rilanciato un´intollerabile affermazione di Feyerabend: "Il processo della Chiesa contro Galileo fu ragionevole e giusto"». Una frase che ha fatto sobbalzare il gruppo di scienziati che ora fa la fronda alla visita di Benedetto XVI. E che si dicono «indignati in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all´avanzamento e alla diffusione delle conoscenze. Quelle parole ci offendono e ci umiliano. E in nome della laicità della scienza auspichiamo che l´incongruo evento possa ancora essere annullato».
La risposta del rettore Guarini? Un invito alla tolleranza e nessuna marcia indietro. «Al di là delle divergenze di opinioni - dice - bisogna accogliere Benedetto XVI come un uomo di grande cultura e di profondo pensiero filosofico, come messaggero di pace e di quei valori etici che tutti condividiamo». Così la cerimonia è stata confermata, e sarà divisa in due parti: la lectio magistralis tenuta da Mario Caravale, docente di storia del diritto, che parlerà della pena di morte, poi gli interventi del ministro dell´Università Fabio Mussi e del sindaco di Roma Walter Veltroni. Poi il discorso di Benedetto XVI. Alla fine, tutti in cappella.
Ma la vigilia potrebbe diventare "pesante". Dopo i professori anche gli studenti promettono che non resteranno a guardare. Annunciano che faranno un sit-in contro «l´oscurantismo» di Benedetto XVI, terzo papa in visita alla Sapienza dopo Paolo VI nel 1964 e Giovanni Paolo II nel 1991. «Non capiamo per quale motivo il Papa debba prendere parte alla cerimonia» sottolinea Michele Iannuzzi della Rete per l´Autoformazione. E centinaia di studenti delle università romane già fanno sapere che nei prossimi giorni si daranno appuntamento sotto la statua della Minerva, simbolo del sapere e della conoscenza. Già mercoledì organizzeranno cortei, campagne di comunicazione e daranno vita a "gesti eclatanti" per coinvolgere il maggior numero di studenti in quella che vuole essere «una vera e propria lotta contro l´ingerenza del pontefice nelle istituzioni italiane».
Clima di mobilitazione anche tra i docenti. Andrea Frova, docente di Fisica generale, è tra coloro che hanno partecipato alla stesura della lettera: «L´invito è una scelta inopportuna e vergognosa e non è sufficiente che il Papa non tenga più la lectio magistralis, come avevano deciso all´inizio. È solo un maquillage fatto anche piuttosto male. Si tratta di un capo di stato straniero ed inoltre il capo della Chiesa cattolica. E noi che abbiamo dedicato tutta la vita alla scienza non ci sentiamo di ascoltare, a casa nostra, una voce autorevole che condanna di nuovo Galileo». Un altro dei firmatari più attivi è Carlo Cosmelli, docente di Fisica: «Le accuse anti-scienza che il Papa ha lanciato da cardinale le ha ribadite anche nella sua ultima enciclica. Lui è convinto che, quando la verità scientifica entra in contrasto con la verità rivelata, la prima deve fermarsi. Una cosa del genere in una comunità scientifica non può essere accettata».

Repubblica 12.1.08
Bersani: posizioni ancora molto distanti sullo statuto. Rutelli prepara un manifesto
Pd, oggi la conta su laicità e partito "fluido"


ROMA - È ancora aperta la battaglia nel Pd sullo Statuto. In vista del Commissione che si riunirà oggi a Roma, infatti, restano quattro i punti controversi. Insieme al nodo riguardante la «laicità» del partito. L´organismo presieduto da Salvatore Vassallo, che si riunirà a porte aperte, ha tempo ancora fino al 2 febbraio per mettere a punto un testo unitario. Superato lo scoglio del congresso, da convocare nell´ottobre del 2009, è stato lo stesso Vassallo - sostenuto dai veltroniani - a ricordare le questioni aperte. E che al momento scontano «posizioni non conciliabili». Si scontrano ancora i supporter del partito «liquido» contro quelli del partito «strutturato».
Il primo nodo riguarda allora i tempi entro cui consentire ai cittadini di registrarsi nell´albo dei sostenitori e quindi partecipare alle primarie. L´iscrizione, in sostanza, deve essere preventiva - come sostengono alcuni dei rappresentanti delle componenti interne come Migliavacca, Oliverio, Sanna e Brutti - o può avvenire anche la momento del voto? Poi si dovrà decidere sull´assemblea nazionale: composta solo dai membri eletti attraverso le primarie o anche attraverso le indicazioni dei parlamentari? Infine, la selezione dei candidati al parlamento. Ds, Popolari e area Letta propongono le primarie. Ma, precisa Vassallo, «attribuiscono l´elettorato attivo ai soli sostenitori già registrati nel relativo albo e limitano l´elettorato passivo ai soli candidati votati con maggioranza qualificata dei tre quinti dal coordinamento nazionale».
Nel frattempo è stata ufficializzata la cosiddetta "norma salva Prodi", quella secondo cui Veltroni può essere candidato a palazzo Chigi solo dalla prossima legislatura e che Prodi ricopre la carica di presidente del partito. Il confronto sullo statuto, quindi, agita non poco le acque del Pd. Anche in merito al tema della laicità del Pd. La commissione Valori ha preparato un testo in cui si afferma che «la laicità dello Stato e delle istituzioni è un valore essenziale», ma va riconosciuta «la rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni». Un´apertura che non piace alla bindiana Sabina Ratti-Profumo, moglie dell´Ad di Unicredito, che ha presentato un emendamento per cancellare questo riferimento. «Su tutto questo, - ha poi avvertito Pierluigi Bersani - non ci possono essere equivoci. Mi pare che emergano ancora idee molto differenti sulla natura del nuovo partito». E non è un caso che mercoledì scorso si siano incontrati i "rutelliani": i 13 big della componente annunciano il varo di un nuovo "manifesto dei coraggiosi" senza risparmiare critiche alla segreteria Pd.

Corriere della Sera 12.1.08
Il caso «L'obiettivo è evitare le liti». Ma l'assessore: rischiamo di tornare ai tempi di Rosa Louise Parks
«Scuolabus separati per bimbi rom»
In un quartiere romano il Prc fa asse con la Cdl: nessun imbarazzo
Il settimo municipio ha approvato la mozione presentata da Rifondazione con i voti di Sd e del Polo
di Paolo Brogi


Bimbi rom a scuola su uno scuolabus diverso da quello degli altri studenti.
È la richiesta contenuta in una mozione approvata dal consiglio di quartiere che sarà presentata all'assessore comunale all'Istruzione. Su richiesta dell'esponente di di Rifondazione comunista

ROMA — Apartheid su via Palmiro Togliatti? Ieri il consiglio del VII Municipio di Roma, uno dei caposaldi «rossi» della cintura a cavallo tra Prenestina e Casilina, ha approvato a maggioranza una mozione presentata da Rifondazione comunista (votata da Sinistra democratica, più tutto il centro destra, contrario il Pd) in cui si chiede all'assessore comunale alla scuola di valutare la richiesta di tornare a separare i bimbi rom dagli altri bimbi sugli scuolabus, richiesta avanzata da un gruppo di genitori mobilitati dopo un litigio avvenuto tra ragazzini.
Secca la replica dell'assessore Maria Coscia (Pd): «Sapevo che nel VII Municipio c'era stato qualche problema, ma pensavo che fosse stato governato. Nel senso di includere e non di escludere... Mica possiamo tornare ai tempi di Rosa Louise Parks...». Eppure da quel comprensorio di case popolari e di ex borgate che si chiamano Centocelle, Prenestino, Quarticciolo, Alessandrino o La Rustica, insomma la settima circoscrizione della città, rischia di spuntare all'alba del 2008 un po' grottescamente quell'autobus giallo del '55 a Montgomery. Epicentro è il 117 circolo didattico di Roma, alla Rustica.
Ad accendere la miccia nel parlamentino del VII retto da un presidente, Roberto Mastrantonio, unico rappresentante dei Comunisti Italiani tra i diciannove minisindaci di Roma, è stato Lucio Conte di Rifondazione Comunista. Più cautamente Mastrantonio si è tenuto alla larga dall'auletta al momento della votazione, comportamento adottato anche dalla consigliera verde Mariani. Presi in contropiede i rappresentanti del Pd, costretti poi in sei, i presenti al momento della votazione, a restare in minoranza. Due i punti messi nero su bianco: col primo si chiede di valutare la richiesta avanzata dai genitori di rivedere il sistema attuale di trasporto, il secondo suggerisce invece di contribuire a un migliore sostegno scolastico dentro la scuola per i bimbi rom.
«Premesso che durante il trasporto il comportamento vivace di alcuni bambini rom nei confronti degli altri bambini ha determinato le proteste dei loro genitori — recita la mozione approvata — e che anche la presenza sul pullman di due accompagnatori non ha fatto rientrare le preoccupazioni dei genitori che hanno chiesto di far portare a scuola i loro figli su un pullman senza la presenza dei bambini rom, visto che i genitori hanno chiesto che questa situazione venga rimossa e si torni alla situazione degli anni precedenti in cui si raggiungeva la scuola su pullman diversi... il Consiglio del Municipio VII chiede al Presidente di sottoporre all'assessore comunale alla scuola nell'ambito della prevista valutazione dello stato del progetto di trasporto scolastico la richiesta dei genitori del 117 circolo...». Seguono poi le richieste di un maggior sostegno scolastico all'insegna dei «diritti universali riconosciuti a tutti i bambini».
«Mozione imbarazzante? E perché mai...— reagisce il consigliere del Prc —. I problemi vanno affrontati, i cittadini sentiti. Oltre a quel litigio tra bambini qua si è messo in moto qualcosa di più. Così sono andato dal presidente e con lui ho concordato questa mozione...». Il capogruppo del Pd Marinucci allarga le braccia. Dice: «Se è per questo ha avuto anche l'adesione dei due di Sinistra Democratica. E poi si è sentita la capogruppo di An che diceva: "Ma perché non l'abbiamo proposta noi?". Qua, se non stiamo attenti, torniamo alle carrozze in treno per soli negri...». Il presidente Mastrantonio obietta. «Io sono per il mantenimento del servizio, certo, ma se si determinano condizioni di ingovernabilità che facciamo?».

Corriere della Sera 12.1.08
Una scoperta Usa aggiorna la teoria di un progresso lento e graduale
Oltre Darwin: ecco la prova dell'evoluzione accelerata
Individuata una nuova «esplosione» della vita
di Telmo Piovani


L'evoluzione è un processo lento e graduale come pensava Darwin oppure è talvolta punteggiata da accelerazioni improvvise come hanno ipotizzato Stephen J. Gould e Niles Eldredge? Per quattro quinti della sua storia la vita sulla Terra è stata rappresentata da organismi composti da una sola cellula. È soltanto a partire da poco più di mezzo miliardo di anni fa che gli oceani cominciano a brulicare di esseri più complessi, i pluricellulari.
Un team di ricercatori della Virginia State University, grazie a innovative tecniche di indagine quantitativa applicate ai caratteri morfologici, ha pubblicato sulla rivista Science
alcune conclusioni che, se confermate, potrebbero cambiare la nostra immagine degli abitanti degli oceani primordiali. Bing Shen, Lin Dong, Shuhai Xiao e Michael Kowalewski ritengono che i fossili di Ediacara, i più antichi pluricellulari conosciuti, presentino fin dai loro esordi il massimo di diversità di piani corporei, cioè di strutture morfologiche generali. Il «morfospazio» di Ediacara sembra nascere insomma in modo «esplosivo».
Gli scienziati hanno evidenziato un andamento in tre fasi, con nomi che sembrano evocare quelli di una saga nordica ma che in realtà corrispondono ai luoghi di ritrovamento dei fossili più rappresentativi. Nella prima, l'età di Avalon, che va da 575 a 565 milioni di anni fa, compare già l'intero spettro delle forme di Ediacara: è l'epoca del tutto subito. Nella seconda formazione, White Sea, la ricchezza di specie aumenta ma solo a partire da quel morfospazio iniziale già completo: è l'epoca delle variazioni sul tema. Nella terza, Nama, la ricchezza tassonomica diminuisce e l'enigmatico esperimento di Ediacara sfuma: è l'epoca del declino.
Se la separazione fra diversità tassonomica delle specie e disparità morfologica dei piani corporei è valida, significa che nei mari di Ediacara l'insieme delle forme possibili raggiunse il suo picco all'inizio, non alla fine.
La scoperta è resa più significativa dal fatto che si tratta di uno schema simile a quello di una seconda, e ben più nota, esplosione di vita pluricellulare, avvenuta 33 milioni di anni dopo, agli inizi del Cambriano. Non solo, le due rapide diversificazioni non sembrano legate l'una all'altra da un rapporto antenato- discendente, come se la vita avesse sperimentato strategie indipendenti. Gli organismi del Cambriano hanno infatti piani anatomici con soluzioni adattative molto diverse.
Charles Darwin, preoccupato, aveva definito l'esplosione del Cambriano «un mistero». Quella esuberanza iniziale dei pluricellulari e l'assenza di evidenze di una fase di preparazione mettevano in discussione la sua idea di un'evoluzione necessariamente lenta e uniforme. Come per molti evoluzionisti successivi, l'unica via di uscita gli sembrò quella di imputare la mancanza di gradualità alle imperfezioni della documentazione. In effetti queste scoperte illuminano piccoli frammenti di una storia durata centinaia di milioni di anni, come brandelli di un libro. Tuttavia, oggi sappiamo che le brusche accelerazioni evolutive sono fenomeni reali, innescati da cambiamenti ecologici su larga scala o da modificazioni nei sistemi di regolazione genetica dello sviluppo. Inoltre, quando usiamo l'aggettivo «esplosivo» su scala geologica intendiamo 10 milioni di anni per le faune di Avalon e 22 milioni di anni per quelle del Cambriano: nulla a che vedere con ciò che un essere umano può intendere per «rapido ». Se corroborato, il messaggio delle strane forme viventi di Avalon incrinerà la convinzione che il passato sia un lungo preludio del presente. Nelle occasioni cruciali l'evoluzione non sembra procedere per vie maestre, ma esplorando le possibilità contingenti che si presentano. Il tempo profondo è dunque pieno di ipotesi alternative che hanno fallito per ragioni non sempre connesse a una loro inadeguatezza.
La storia naturale è un processo imprevedibile e corale, dove succedono più cose di quante non ne avessimo immaginate. Scandagliando l'oceano di tempo che ci separa dai pionieri della vita pluricellulare non troviamo una linea solitaria di progresso, ma un susseguirsi di ritmi differenti di cambiamento e, soprattutto, una pluralità di soluzioni alternative. Nelle vie ingegnose dell'evoluzione, a volte così lente da sembrare immobili, a volte così rapide da sembrare istantanee, i perdenti spesso non erano poi così cattivi. Tre fasi
L'evento, in tre momenti, cominciò 575 milioni di anni fa: gli oceani furono popolati da esseri pluricellulari

Corriere della Sera 12.1.08
Anteprima Scienza e etica nel suo nuovo libro: il ruolo dei «geni architetti», che attivano alcuni «esecutori» e ne inibiscono altri
Boncinelli: ecco quando nasce la vita
Un processo di selezione e tagli. Dopo 14 giorni le cellule cominciano a diversificarsi
di Sandro Modeo


Lo sviluppo
Le sequenze che legano la formazione dell'individuo dall'oggettività del percorso fisiologico e biochimico fino all'emersione soggettiva dell'identità e del linguaggio

Nel volume Le forme della vita (ultima edizione Einaudi 2006), Edoardo Boncinelli ricostruiva l'origine e l'evoluzione della vita sulla terra, dagli esseri monocellulari di quattro miliardi di anni fa all'uomo. Oltre alla teoria darwiniana nell'insieme, spiegava in modo esemplare il processo-chiave della selezione naturale e la sua conferma più spettacolare, la replicazione genetica.
Il nuovo lavoro dello scienziato ( L'etica della vita. Siamo uomini o embrioni?, Rizzoli, pagine 190, e 12) è una lineare prosecuzione di quel racconto. Descrivendo infatti per dettagli spesso emozionanti e spiazzanti le sequenze che legano il formarsi dell'individuo dall'oggettività del percorso fisiologico e biochimico innescato dai gameti (la cellula-uovo e lo spermatozoo) fino all'emersione soggettiva del Sé e del linguaggio nel bambino, Boncinelli dimostra come ogni passaggio obbedisca in larga misura proprio alla selezione naturale e all'attivazione dei geni. L'elemento di profonda continuità — in questo viaggio dalla «terza» alla «prima» persona — è l'idea controintuitiva che il progressivo plasmarsi (la vera e propria «scultura») di un uomo o di una donna dipendano da un processo incessante e simultaneo di costruzione e distruzione (o, in certi frangenti, di eliminazione). Il che vale sia all'interno del ventre materno (nelle varie fasi dell'embrione e del feto) sia all'esterno, nelle fasi di apprendimento dopo la nascita.
All'interno del ventre materno, la cellula fecondata si articola in embrione proprio grazie all'attivarsi dei geni (ciascuno pronto a «rispondere » a situazioni contestuali specifiche, così come ogni anticorpo col «proprio» virus) e al loro funzionamento gerarchico. I geni «architetti », infatti (simili a quelli che Boncinelli ha studiato nel moscerino della frutta, responsabili della diversificazione tra testa, ala e addome) attivano certi geni «esecutori» e ne inibiscono altri, secondo un sincronismo di spazi e tempi attento a ogni dettaglio. Le cellule cominciano così a dividersi e moltiplicarsi (prima due, poi quattro, poi le otto della «morula », simile appunto a una mora), quindi a diversificarsi e specializzarsi (cellule del cuore, del cervello, della pelle), soprattutto a partire dalla «gastrulazione», cioè dopo il 14˚giorno, quando i vincoli biologici si concentrano su un solo embrione (eliminando la possibilità di uno sviluppo gemellare) e ne orientano la triplice simmetria (davanti/dietro, sopra/ sotto, destra/sinistra). Che la scultura proceda anche «per via di levare» lo si vede nell'esempio delle piccole mani: a un certo punto (a differenza che nei palmipedi, come le oche), nell'embrione umano le cellule della membrana palmare ricevono l'ordine di suicidarsi per «apoptòsi» (che in greco significa «caduta delle foglie») cesellando così la forma delle dita. È un esempio, per inciso, che evidenzia bene anche l'operare dell'evoluzione e della selezione.
Dopo aver descritto lo scremarsi progressivo di tutti gli elementi anatomici dell'embrione e del feto, con ulteriori saldature sia rispetto all'evoluzione (gli archi faringei come derivazione del sistema branchiale dei pesci), sia rispetto alla genetica (il gene regolatore OTX2 che incide sia sullo sviluppo della testa che nell'abbozzo cardiaco), Boncinelli si concentra sull'impatto dell'ambiente sul neonato e sul bambino, ovvero sul punto in cui la biologia vira in biografia. Anche qui sono molti i passaggi sorprendenti, come quello sul riconoscimento del viso della madre attraverso una messa a fuoco che passa per il «contorno » e l'attaccatura dei capelli. Ma su tutti (tornando di nuovo allo schema costruzione-eliminazione) impressiona l'acquisizione del linguaggio, perché il bambino procede per i primi 5 mesi a un ascolto indifferenziato del «flusso ininterrotto» di suoni circostanti (potenzialmente ricettivo, quindi, di qualsiasi idioma della terra) e poi discrimina, in rapporto al contesto e in particolare alla modulazione vocale della madre, precise aree fonetiche, scartando tutte le altre. L'approdo finale è una specifica «competenza prosodica» che gli permette di passare dalla lallazione («da da da, ba ba ba») alle prime unità semantiche e sintattiche.
Solo dopo averci accompagnato in questo viaggio — cioè dopo averci dato tutti gli elementi per ragionare senza filtri ideologici o emotivi — Boncinelli affronta da par suo i principali snodi di bioetica. Da un lato, con cautela e misura, prende posizione su tutto: tra le quattro opzioni sul «momento» che sancirebbe l'inizio di un individuo (il concepimento, la «gastrulazione», l'elettroencefalogramma attivo alla 23a settimana, la nascita), mostra per esempio di propendere per la seconda, peraltro sottoscritta dall'autorevole Commissione Warnock. Di conseguenza, non vede obiezioni né alla diagnosi pre-impianto né alla ricerca su cellule staminali embrionali (quali gli otto blastomeri della morula), cogliendo oltretutto una forte contraddizione negli oppositori, dato che l'efficacia terapeutica di tali cellule (nel rigenerare il pancreas di un diabetico, il fegato di un malato di cirrosi, il cuore di un infartuato, il sistema nervoso di un soggetto colpito da sindrome degenerativa) dipende dal loro carattere a-specifico, costitutivo di un «progetto» di embrione, non di un embrione.
Dall'altro lato, cerca di comprendere le ragioni degli oppositori stessi, esaminando le prospettive al di sopra di ogni possibile riserva etico-religiosa (come le staminali adulte, le totipotenti del liquido amniotico, l'impiego di un solo blastomero lasciando gli altri sette allo sviluppo), e sottoponendole, beninteso, allo stesso vaglio di quelle più discutibili e discusse.
Alieno anni-luce da ogni radicalismo (e dal diffuso anticlericalismo vuotamente sarcastico), Boncinelli sembra avere dei sussulti di insofferenza solo su certi pregiudizi, a cominciare da quelli sulla prosaicità del riduzionismo e sull'arroganza della scienza. Sono proprio libri come i suoi, del resto — e quest'ultimo in particolare — a mostrare quanto quei pregiudizi penalizzino soprattutto chi li nutre.

Corriere della Sera 12.1.08
Medioevo. Prosperi racconta le «confraternite di carità»
Condannati alla forca ma salvi nell'anima: storia delle Misericordie
di Cesare Segre


Alcuni manuali istruivano sul modo in cui comportarsi con i condannati: mescolavano insegnamenti dottrinali e suggerimenti psicologici

Sino a non molto tempo fa, l'impiccagione era considerata uno spettacolo, così come il rogo o la decapitazione. Avveniva, a un orario prefissato, in una piazza centrale, e il pubblico era indifferente alle sofferenze dei giustiziati; di solito anzi sottolineava rumorosamente il suo consenso, anche se ci furono pochi casi in cui parteggiò per i morituri. La scena iniziale di questa cerimonia s'è vista infinite volte nelle pitture o nei film: il condannato giunge in corteo, accompagnato dalle autorità religiose e civili, e affiancato da un frate che lo conforta o lo intontisce biascicando preghiere. Avvenuta l'esecuzione, il suo cadavere viene ancora vilipeso, esposto al pubblico ludibrio, o anche fatto a pezzi da un perito settore (ancora nel Settecento, Goethe assisté a una realizzazione di questo scempio). Si continuò in questo modo per secoli (e ancora si continua, in qualche parte del mondo). Ma vi furono anche mutamenti della procedura, segno di tempi un po' più umani. Uno di questi mutamenti è l'istituzione, nell'Italia del tardo Medioevo, delle «Misericordie», confraternite che tra le opere di carità curarono in particolare la preparazione e l'assistenza ai condannati. Questi volontari, laici, s'impegnarono a lenire le sofferenze di chi era sottoposto a giudizio, e ad assicurarne la sepoltura in terra consacrata: un impegno importante, dato che in precedenza il cadavere straziato veniva disperso o sepolto come quello d'un animale; ciò che costituiva, nella psicologia del tempo, un raddoppiamento della pena.
Su queste confraternite è ora uscito un massiccio volume, documento di un seminario di studio tenuto alla Scuola Normale di Pisa ( Misericordie. Conversioni sotto il patibolo tra Medioevo ed età moderna,
a cura e con introduzione di Adriano Prosperi). Come succede spesso nei lavori di Prosperi, il tema viene affrontato pure nei suoi aspetti dottrinali; e i molti collaboratori del volume, colleghi del curatore ma anche ricercatori e studenti, illuminano connessioni del tema con la storia religiosa, letteraria e artistica. Connessioni, in particolare, con la storia della letteratura e dell'arte, dato che in alcuni punti della procedura «laude» religiose vengono intonate o recitate, e a volte composte dai condannati stessi; e dato che tavolette dipinte (molte sono conservate), rappresentanti scene bibliche, o comunque sacre, venivano tenute davanti al volto del giustiziando e cercavano di concentrarlo su pensieri edificanti e distrarlo dal contesto dell'esecuzione in corso.
Sul piano dottrinale, è messo in rilievo il ricorso, funzionalizzato, alla distinzione tra corpo e anima, che permette di «giustificare» l'attuazione della pena anche dopo il pentimento o la conversione del condannato: il suo corpo paga i peccati di comportamento, mentre l'anima, purificata, può anche aspirare alla vita eterna. Sembra una sottigliezza ipocrita, eppure per secoli si era negato ai condannati, anche se confessi e pentiti, l'accesso alla comunione, così da condannarli automaticamente, perché perduranti in peccato mortale, all'inferno; invano il papa Celestino I, e altri dopo di lui, perorarono il loro diritto. Certo, questa dicotomia poteva avere talora aspetti quasi grotteschi, come nei casi in cui un condannato dava tali prove di pentimento e di spiritualità, da essere accompagnato al patibolo con la nomea di santo e il plauso della folla piangente. La distinzione tra corpo sottoposto a giudizio e anima liberata dalle sue colpe evidenzia la dialettica tra giustizia e misericordia, tra potere civile e autorità religiosa: quando, come spesso accadeva, il condannato riconosceva le sue colpe, la giustizia umana veniva legittimata da Dio per la bocca stessa del colpevole.
Naturalmente il libro illustra i procedimenti di persuasione e autoconvinzione mediante i quali il processo finiva per ottenere dal condannato l'accettazione della pena e il pentimento per il peccato, talora nemmeno commesso. E viene da pensare che, in tempi recenti, le vittime dei regimi comunisti riconoscevano anch'esse colpe che non avevano. Discutere sulla distinzione o l'identificazione di crimine e di peccato, di offesa alla società e di violazione dei comandamenti divini ci porta entro meandri mentali analoghi. Del resto, nei processi si cercava di conciliare la condanna capitale, decretata dal diritto romano e germanico, con il divieto di uccidere proclamato nella Bibbia (quinto comandamento).
Il volume di Prosperi contiene (pp. 323-479) due testi chiave, cui gli altri interventi si riferiscono di continuo. Il primo è il rendiconto sugli ultimi giorni di Pietro Paolo Boscoli, condannato a morte nel 1513 per aver congiurato contro i Medici di Firenze; il Boscoli, irreligioso e sostenitore del tirannicidio, giunge, con l'aiuto dell'amico Luca Della Robbia, alla confessione e al pentimento. Il secondo è un manuale quattrocentesco ad uso di una «Misericordia », nel quale s'istruiscono i confratelli sul modo in cui devono comportarsi con i condannati. Le istruzioni mescolano insegnamenti dottrinali e suggerimenti psicologici, onde ottenere la convinzione o, nel caso, sviare l'attenzione del condannato da ciò che potrebbe irritarlo o spaventarlo, sicché tutto il cerimoniale possa svolgersi senza intoppi. C'è un cinismo di fondo; ma è il cinismo di qualunque società sia pronta a sacrificare i singoli individui al desiderio di ordine.

il Riformista 12.1.08
Veltroni si sente la maggioranza in tasca
di Tommaso Labate


«Ho la maggioranza del partito». Sentendo l’eco del dibattito della commissione Statuto del Pd che avrà luogo stamattina, è altamente probabile che Walter Veltroni abbia gli elementi sufficienti per capire se l’idea che si è fatto nelle ultime quarantott’ore corrisponde al vero o è soltanto wishful thinking. Da due giorni a questa parte, cioè da quando sui giornali ha ripreso corpo il tema delle «correnti», il sindaco e i suoi stanno tentando il più possibile di allargare la base del consenso. L’obiettivo è scongiurare l’approvazione dell’emendamento allo Statuto firmato da dalemiani e mariniani, quello che prevede la registrazione «almeno una settimana prima» dei “sostenitori” che costituiranno - a tutti gli effetti - la platea dell’elettorato attivo del Pd. La regola d’ingaggio impartita dalla scuderia del Campidoglio è chiara: «È un tesseramento mascherato. Su questo dobbiamo combattere con la stessa forza che abbiamo opposto alla riforma elettorale tedesca».
Vista la delicatezza del punto in questione, i veltroniani si sono divisi in squadre secondo la vecchia regola del poliziotto cattivo e di quello buono. Goffredo Bettini sta tenendo i contatti con il fronte opposto (Nicola Latorre è l’interlocutore principale) e, insieme a un gruppetto di cui fa parte anche l’ex sindaco di Bologna Walter Vitali, insiste: «Vedrete che una mediazione riusciremo a trovarla». Il costituzionalista Salvatore Vassallo, in un impeto di realismo, ammette: «Su questo punto non sono possibili mediazioni. O è bianco o e nero. Per cui immagino che si andrà al voto nella riunione finale della Commissione, quella del 2 febbraio. Poi è logico che chi perde vorrà trascinare il dibattito all’assemblea costituente». Enrico Morando completa il discorso: «Ci sono compagni e amici che portano avanti un’idea completamente diversa dalla nostra. Posso sbagliare, ma sono convinto che lo spirito del 14 ottobre sarà maggioritario».
Il perché dell’ottimismo dei veltroniani si nasconde nel piano che un autorevole fedelissimo del sindaco riassume in poche parole: «Nella vecchia corrente dei popolari, non sono pochi quelli che stanno seguendo Franceschini e Soro sulla via di Walter». In questo senso, stando ai termometri di Campidoglio e dintorni, «la precisazione della Santa Sede su Roma, che ha assolto Veltroni, potrebbe diventare un fattore decisivo». C’è di più: stando ai contatti con l’ex segretario dei Ds, tra i fedelissimi di Veltroni non manca chi giura che «d’ora in poi Walter potrà contare sulla attiva collaborazione di Fassino».
Esagerati o meno che siano i pronostici sulla conversione “veltroniana” dell’inviato Ue in Birmania, i dalemiani tengono il punto e proiettano i loro sforzi sulla tornata di primarie per i coordinatori cittadini del Pd, che avrà luogo tra qualche settimana («Non facciamo liste. Solo candidature individuali», è l’imperativo diramato da Veltroni ai suoi). Parlando ieri a Napoli all’«Assemblea dei riformisti del Pd» (primo step del network nazionale dalemiano, che partirà dopo la definizione dello Statuto e sarà guidato da Pier Luigi Bersani), Latorre ha sottolineato: «Il problema non è solo votare ma anche discutere. Sarà un termine obsoleto ma ci vuole un congresso. E poi, il tema di come si organizza il pluralismo è centrale». Il vicepresidente dei senatori piddini, prima che la riunione di oggi abbia inizio, rimarcherà in un’intervista quello che Bersani ha sottolineato ieri. «Mi sembra di capire - sono state le parole del ministro dello Sviluppo economico - che siamo a un passaggio molto delicato. Anche se spero di sbagliarmi, mi pare che emergano ancora idee molto differenti sulla natura del nuovo partito. Ognuno può comprendere che quello sulle regole è un tema dirimente su cui non possiamo permetterci equivoci». Equivoci non ce ne saranno. Come non ci saranno vittorie per ko. Ma la vittoria ai punti non è mai stata così ambita.

il Riformista 12.1.08
Sui valori del Pd pesa l'effetto Al Gore
L'immagine da caricatura di una scienza amorale e fuori controllo
di Anna Meldolesi


Era inevitabile che il nodo della laicità dominasse il dibattito sulla Carta dei valori del Pd. Anche oggi, quando la commissione si riunirà per discutere la nuova bozza, l'attenzione sarà puntata sull'uso della parola famiglia (meglio al plurale) o sul riferimento alle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale (che va mantenuto). Ma il testo elaborato da Alfredo Reichlin e Mauro Ceruti è lungo e complesso - una specie di enciclica, ha ironizzato qualcuno - e sarebbe un peccato se il confronto si esaurisse qui. Ci sono altre questioni, anch'esse controverse e rilevanti per definire l'identità di un partito moderno, che non possono essere date per scontate. A partire dal rapporto tra scienza e ambientalismo.
È davvero necessario forzare i toni, ricalcando i cliché del catastrofismo ecologista, per affermare l'importanza delle politiche a tutela dell'ambiente? Gli estensori della Carta, evidentemente, ritengono di sì. Sarà colpa di certe vulgate giornalistiche, sarà l'effetto Al Gore, o forse un trucco retorico per enfatizzare la valenza salvifica del nuovo soggetto politico. Fatto sta che il paragrafo sullo stato di salute del pianeta fa impallidire i comunicati di Greenpeace. «Le questioni ambientali - si legge - impongono misure urgenti e cambiamenti profondi al modo di vivere, ma esigono prima di tutto la consapevolezza che l'attuale modello di sviluppo si è pericolosamente avvicinato a una soglia, oltre la quale verrebbe messa in questione la stessa esistenza dell'umanità. Si è aperto un dibattito di portata analoga a quello che impegnò le autorità politiche, morali e scientifiche del mondo intero quando si inaugurò l'era atomica». E ancora: «Il tempo si è fatto breve ed è già sotto i nostri occhi lo sconvolgimento di tutti gli equilibri ecologici, dal clima alle risorse energetiche, dall'acqua potabile alle fonti di alimentazione». Sarebbe stato più onesto dire che il riscaldamento globale è un problema che va affrontato con determinazione anche se i suoi effetti negativi si faranno sentire tra decenni; che le risorse idriche scarseggiano in alcune aree geografiche, ma invece di ridurre le docce come Fulco Pratesi potremmo aggiustare la rete idrica che perde gran parte dell'acqua per strada; che è necessario trovare soluzioni (anche tecnologiche) per contenere i prezzi dei generi alimentari e alleggerire l'impatto ambientale dell'agricoltura, visto che per qualche decennio la popolazione mondiale continuerà a crescere e l'alimentazione dei paesi in via di sviluppo si sta (finalmente) diversificando. Invece compaiono espressioni come «saccheggio delle risorse naturali» che sembrano uscite da un pamphlet di Vandana Shiva. E ci viene detto che «il Pd è consapevole che siamo arrivati al limite di uno sviluppo meramente quantitativo», come se dalla rivoluzione industriale in poi non fosse migliorata anche la qualità della vita.
Il problema è che questo paragrafo, per quanto delimitato, fa sorgere qualche dubbio sul reale significato di tutto il resto. Il primo passo per riconoscere la centralità della scienza, infatti, è non distorcere le conoscenze scientifiche nel momento in cui si elaborano delle analisi politiche. Se si fosse seguita questa strada, sarebbe stato più facile credere che il Pd è davvero consapevole del fatto che «il ritardo grave che l'Italia registra nel campo della conoscenza è l'ipoteca più grave che pesa sul nostro futuro». Fa ben sperare, comunque, la scelta dell'avverbio «fermamente» quando la Carta parla del sostegno alla libertà di ricerca scientifica. E suona bene anche che «per arrivare a risultati creativi e condivisi, la scienza non può che battere strade diverse e parallele» (il riferimento è alla contrapposizione tra staminali adulte ed embrionali?). Poi fatalmente arrivano i ragionamenti sugli «inediti interrogativi di natura etica relativi all'impatto ambientale delle innovazioni tecnologiche». Reichilin e Ceruti non citano il principio di precauzione (evviva), ma ci ricordano che «non tutto ciò che è realizzabile tecnicamente è eticamente accettabile né è sempre utile». Claudia Mancina, commentando la prima bozza sul Riformista , ha già criticato questa espressione di rito. Sarebbe stato bello se i democratici ci avessero stupito, andando oltre l'immagine caricaturale di una scienza amorale e priva di meccanismi di autocontrollo, ma non è accaduto. La Carta, quindi, sostiene la necessità di «intrecciare il valore della libertà della ricerca con il valore della responsabilità individuale e collettiva, che si trova ad affrontare, oltre alle questioni di ordine propriamente conoscitivo, anche questioni etiche, sociali, culturali». E suggerisce che questa conciliazione sia possibile ricorrendo «a un'ampia discussione sulle implicazioni future, i costi e le priorità delle ricerche scientifiche e tecnologiche, che coinvolga non solo gli esperti ma tutti i cittadini, secondo i criteri di pubblicità e trasparenza della democrazia cognitiva». Il che è un bene, perché nessuno intende invocare una tecnocrazia dei camici bianchi. Resta solo un dubbio: cosa si intende esattamente con il termine democrazia cognitiva? Gilberto Corbellini scrive su Darwin che per essere valido questo strumento dovrebbe essere assunto «nell'accezione tradizionale del pensiero liberal-democratico, cioè come formazione e istruzione continua dei cittadini per migliorare la razionalità delle scelte» altrimenti si rischia di scivolare verso lo stato etico. Noi più semplicemente ci limitiamo a notare che una rigorosa opera di informazione è il presupposto basilare per qualsiasi iniziativa di public engagement. Altrimenti si finisce per consegnare la scienza a una sorta di sondaggismo demagogico come quello dell'ormai dimissionato Mario Capanna. Vogliamo sperare davvero che i democratici abbiano ben chiara la differenza.

il Riformista lettere 12.1.08
la santa sede, il degrado della capitale e il verbo «strumentalizzare»

Caro direttore, tratto testualmente dal "Dizionario della lingua italiana" di Devoto e Oli. Strumentalizzare: 1) trascrivere per l'esecuzione strumentale brani musicali composti per sola voce; 2) fig. sfruttare a scopi ben determinati e particolari: s. un'amicizia; s. qualcuno, servirsene per scopi diversi da quelli che egli si presuppone [der. di "strumentale"]. Ieri la Santa Sede ha diramato una nota per dire che le parole del papa su Roma sono state strumentalizzate. Tenderei a escludere che Oltretevere abbiano voluto denunciare che qualcuno ha trascritto per l'esecuzione strumentale le parole di Benedetto XVI, composte per sola voce. Di conseguenza, vuol dire che qualcuno ha sfruttato a scopi ben determinati e particolari le parole del Pontefice. Oppure, qualcuno ha deciso di servirsene per scopi diversi da quelli che Ratzinger si presupponeva. E allora? C'è stato per caso un cambio di giudizio del Papa su Roma? Tutt'altro, per la Santa sede il degrado resta «gravissimo». Forse però la colpa non è di chi la governa, non è di Veltroni, "vittima" della strumentalizzazione. Se è così, invece che continuare nell'inutile esercizio del voto alle amministrative, perché - se vogliamo che la città non sia più preda del degrado - non ci raccogliamo tutti in preghiera?
Francesco De Paoli e-mail

il papa e Roma
Caro direttore, questi politici in ginocchio dal papa vanno a chiedere la benedizione come figli al padre per intercettare i voti cattolici. E il padre li bacchetta. Viene da dire: «Ben gli sta». Il problema non è il pontefice che fa il suo mestiere, ma i politici privi di schiena diritta. Se la reprimenda è del padre è uno "stimolo", se viene, per gli stessi problemi, dal centro destra è "politica di modesto livello". Non una parola da Veltroni sul Vaticano, padrone del 25 per cento del patrimonio immobiliare di Roma, che sta sfrattando dai propri palazzi, per affittarli ai ricchi, gli inquilini più poveri, scaricandoli al comune. Sempre più lontano il principio risorgimentale: "Libera Chiesa in libero Stato". Il pensiero va a Cavour e al grande sindaco laico di Roma Ernesto Nathan.
Ezio Pelino e-mail


Liberazione 11.1.08
La Chiesa (e non solo) equipara l'interruzione di gravidanza all'omicidio ma è soltanto una guerra moderna per mortificare la soggettività femminile
Moratoria aborto? Un attacco alla famiglia
di Enzo Mazzi, ex parroco dell'Isolotto di Firenze che oggi guida una comunità cattolica di base


«Le pubbliche amministrazioni non devono assecondare gli attacchi contro la famiglia fondata sul matrimonio»: è quanto ha detto ieri mattina Benedetto XVI nel discorso pronunciato in occasione dell'udienza concessa agli amministratori del comune di Roma, della Provincia e della Regione Lazio.

La credibilità delle parole dette si misura sempre sulla coerenza dei fatti. Il papa invita a non assecondare gli attacchi contro la famiglia mentre a sua volta non teme di assecondare e benedire l'orrida pratica repressiva verso la donna implicita nell'accostamento fra pena di morte e aborto.
Annullare la soggettività femminile, negarle fiducia nel momento più alto della propria identità e del proprio ruolo, deprimere il suo senso di responsabilità, considerare nemica della vita la madre costretta ad affrontare il dramma dell'aborto, non è forse un attacco frontale anche alla famiglia? E' distruttiva nei confronti della donna ma anche dei legami familiari la proposta di "moratoria" dell'aborto.
Si vede lontano un miglio che è una trovata furbesca, strumentale e provocatoria, distruttiva verso tutti i legami sociali. Non tende a favorire il dialogo ma a generare scontro. Impedisce qualsiasi confronto costruttivo sul tema dell'aborto, sui percorsi per ridurlo ulteriormente e sulle tecniche che lo rendano più rispettoso dell'integrità fisica e psichica della donna.
Chi ha un minimo di senso critico e anche chi ha una sensibilità educata dal Vangelo come può dialogare con chi bombarda quotidianamente le coscienze delle donne con messaggi terroristici, da tutte le tribune e usando tutti i mezzi fino ad accostare l'aborto alla pena capitale?
Come è possibile considerare interlocutore credibile e affidabile chi esaspera la drammaticità del mistero della procreazione e considera l'aborto peggio della guerra, degli stermini nazisti, delle stragi più sanguinarie, chi espone lapidi ai "bambini non nati" vittime dello sterminio abortista, chi s'intromette nel rapporto simbiotico gestante-embrione, separando il feto dal corpo della madre, contrapponendo due vite in totale simbiosi fino a farle divenire nemiche fra loro, portatrici di interessi personali e vitali opposti, chi obbliga i medici cattolici, gli infermieri e perfino i portantini, a fare obiezione di coscienza contro l'orrendo crimine, e non è solo un'obbligazione morale perché l'obiezione di coscienza è imposta con tutto il peso ricattatorio che ha il potere cattolico, chi demonizza infine tutti i metodi contraccettivi "innaturali" impedendo perfino che se ne parli nelle scuole e invitando i farmacisti a obiettare?
Come il Sabba fu lo strumento inquisitorio della caccia alle streghe così oggi si usa l'aborto per accendere nuovamente i roghi delle donne. Un passo avanti si è fatto: è sparito il rogo fisico. Ci si contenta di riproporre la condanna penale dell'aborto. Ma il risultato culturale e politico è sempre lo stesso: l'annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura.
Le persecuzioni delle streghe non furono un fenomeno medievale. Il culmine dei pogrom è tra il 1560 e il 1630, quindi all'inizio dell'epoca moderna. Gli ultimi processi contro le streghe ebbero luogo nel 1775 in Germania, nel 1782 in Svizzera e nel 1793 in Polonia.
Le "streghe" vennero lacerate tra la Chiesa, che voleva tener salda la "fede ormai impallidita" come bastione di resistenza, e la "ragione che stava fiorendo" e che portava al dominio sulla natura. La fede impallidita e la ragione fiorente, in feroce competizione per l'egemonia sul mondo nuovo che stava nascendo, si allearono per togliersi di mezzo la donna, radicale ostacolo alla cultura del dominio. I medici, ad esempio, contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del grado di tollerabilità delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro ma anche per strategia politica e di potere.
Il nuovo soggetto "illuminato" doveva costituirsi in opposizione alla natura interiore ed esteriore e non in sintonia con esse. L'immagine magica del mondo, che aveva potuto resistere nei secoli nonostante la cristianizzazione, venne eliminata all'irruzione del periodo manifatturiero, con il trionfo della scienza moderna sulla teologia.
Suo becchino fu però la chiesa, cosa che comportò l'assassinio delle donne, nel senso più vero dell'espressione. La cifra di un milione di roghi non è esagerata. Sia l'umanità medioevale che impallidiva e resisteva sia la "nuova" umanità dell'epoca industrializzata era maschile.
Scrive queste cose, ed è sintomatico, la teologa tedesca Hedwin Meyer Wilmes docente di teologia femminista all'università cattolica di Nimega (Olanda), sulla rivista teologica internazionale Concilium 1/98.
La competizione storica delineata sopra per l'egemonia sulla modernità prosegue oggi. Le modalità sono diverse, ma resta una competizione fra culture maschili che si alleano per togliersi di mezzo l'ostacolo comune e cioè la soggettività femminile.
Mi domando sempre come è possibile che un mondo cattolico centrato sul Vangelo possa ridursi a questo. Trovo una risposta nella mia esperienza di vita. Immaginate un giovane immaturo poco più che ventenne, vissuto ed educato nell'ambiente asettico del seminario, lontano dai problemi della vita, infilato improvvisamente in un confessionale, che si trova a decidere se assolvere o condannare una donna che gli confessa di voler abortire senza recedere o di averlo già fatto senza vero pentimento.
Se assolve la donna condanna se stesso perché gli hanno insegnato che non ci può essere pietà per il peccatore impenitente. Se nega l'assoluzione condanna ugualmente se stesso perché viene a trovarsi in contrasto col Gesù del Vangelo: "chi è senza peccato scagli la prima pietra, nessuno ti ha condannata, nemmeno io ti condanno". Quel prete o viene indotto a intraprendere un cammino di liberazione rispetto al lavaggio del cervello che ha ricevuto in seminario e rispetto alla omologazione teologica e pastorale o si chiude in un intristimento senza speranza che egli tenterà di razionalizzare scaricando il suo senso di colpa e la sua angoscia su chi ritiene, per lo più inconsciamente, la causa delle sue sofferenze, e in primo luogo la donna. Da qui la misoginia del clero ed anche la pedofilia. Mi spiego così, per diretta esperienza e non per sentito dire né per prevenzione ideologica, questo insistere del mondo ecclesiastico sulla colpevolizzazione femminile e questa grave sfiducia verso la donna considerata inaffidabile.
Forse l'esperienza traumatica del pretino immaturo a contatto con i drammi della vita può ritrovarsi anche nelle esperienze dei giovani medici formati al principio della salvezza ad ogni costo della vita in senso astratto con scarsa o nessuna considerazione per la soggettività dei viventi e in particolare per la donna alle prese con la complessità dei problemi procreativi. Evito di addentrarmi. Lo potrebbe fare qualcuno interno alla professione medica. E' una richiesta e un invito. La vita è un valore troppo grande per essere ancora rinchiusa nella gabbia della cultura patriarcale. La liberazione della cultura femminile è essenziale oggi per un superamento delle vecchie prigioni delle anime e dei corpi.

Liberazione 11.1.08
Aborto. Siamo sicuri che la negazione assoluta non sia un crimine di pace?
di Paolo Tranchina, psicoterapeuta di Psichiatria Democratica dirige i "Fogli di informazione" insieme ad Agostino Pirella, basagliano anch’esso


Caro direttore, mi stupisce l'accanimento della Chiesa sull'aborto, sulla negazione delle coppie di fatto e in generale sui problemi sessuali. A cosa possiamo attribuirlo? Innanzitutto al prevalere della prescrittività rispetto alla libertà. Sembra che il compito essenziale della Chesa sia il negare, non fare questo, non fare quello, un eterno ritorno alle tavole della legge, ortunatamente, oggi, senza inquisizione. Prevale cioè il negare sul permettere, il dire di no, l'obbligare, il coercire, l'imporre. La cosa non sarebbe di per sé grave, se non fosse accompagnata da un invasamento, dalla negazione di ogni dialogo, come se si parlasse in nome di un assoluto che si pretende di rappresentare, e che è, invece, semplice autoattribuzione di poteri. Ma chi ha il diritto di parlare in nome di Dio se Dio è di tutti e tutto ha creato? E perché Dio dovrebbe essere più interessato al sesso e al suo controllo, piuttosto che alle nefande conseguenze dell'organizzazione del lavoro, con le sue morti quotidiane e l' inquinamento che minaccia il mondo? Legiferare sul sesso è legiferare sull'origine della vita, è rapportarsi alla natura imponendo dove accettarla e dove correggerla, insomma, porsi fuori dalla storia, dal sociale, dall'evoluzione umana dei costumi. Questa passione, però, ha qualcosa di eccessivo, di insano e non può che rendere dubbiosi. Questo accanirsi sul vietare ogni violenza su un bambino non nato forse allude a un'altra violenza, di cui la Chiesa è impregnata, e che vorrebbe rimuovere. Parlo della continua violenza sui bambini da parte dei preti pedofili. Parliamo di aborto allora per non parlare di pedofilia. Parliamo di violenza presunta per non parlare di violenza reale. Parliamo di sesso per non parlare di ingiustizia sociale. In fondo credo che la repressione sessuale, la pretesa del controllo assoluto sugli istinti sia solo un espediente par far sentire tutti in colpa, uno strumento di controllo gravido di perniciose conseguenze psicologiche e sociali. Ma davvero il Papa crede che l'Aids si combatta con l'astinenza e la fedeltà coniugale? Ecco ancora il gusto della negazione assoluta che ritorna, cieco a tutte le sofferenze, morti che può provocare, ma cieco, anche, di fronte a qualsiasi, banale, senso comune. Siamo sicuri che la negazione del preservativo, e dell'aborto non si configuri come un crimine di pace? Lo strumento per far prosperare cento, mille sistemi di cura, assistenza, profumatamente sovvenzionati, invece di evitarli con adeguati mezzi di prevenzione?

il manifesto 12.1.08
Cina: 100 mila morti sul lavoro all'anno
Cifre ufficiali, per certi versi incomprensbili, sicuramente «ritoccate» al ribasso. Pechino dichiara 100 mila morti in «incidenti» nel 2007, il 10% in meno rispetto al 2006. Ma il risultato positivo non è «consolidato»


Quanti cinesi muiono ogni anno sul lavoro? In un paese dove i lavoratori migranti irregolari sono centinaia di milioni il numero esatto forse è ignoto persino alle autorità che, comunque, ci aggiungono del loro per smussare le cifre. Secondo quelle diffuse ieri a Pechino, nel 2007 i morti in «incidenti» sul lavoro sono stati 101.480, il 10% in meno rispetto all'anno precedente. Negli «incidenti» l'amministrazione statale per la sicurezza sul lavoro include anche quelli avvenuti sulle strade e sui treni. Si tratta solo dei cosiddetti infortuni in itinere, che giustamente vanno conteggiati come infortuni sul lavoro? O sono stati messe nello stesso mazzo anche le vittime degli scontri stradali e ferroviari per oscurare la quota degli omicidi bianchi? Il sito del governo cinese non scioglie il dubbio, anzi lo rafforza: consultandolo, si scopre che nel conto degli «incidenti» sono finite anche le 2.325 vittime di disastri «naturali» (inondazioni, frane e persino fulmini).
Anche il numero degli «incidenti» (506 mila, -19% rispetto al 2006, secondo l'agenzia governativa) risulta incongruo. Prendendolo per buono, ne consegue che (in Cina) ci vogliono cinque «incidenti» per fare una vittima. Incredibile, visto che ogni «incidente» in una miniera di carbone fa almeno qualche decina di morti.
Fatte tutte queste tare alle cifre, l'essenziale è il messaggio politico che Pechino ha voluto lanciare. In sintesi suona così: «Abbiamo fatto notevoli progressi per la sicurezza nei luoghi di lavoro, ma i risultati non sono consolidati. 100 mila morti restano un prezzo terribilmente alto per lo sviluppo economico e costituiscono un enorme problema sociale. Vanno potenziate le campagne di educazione e di promozione della sicurezza e incrementati i controlli». A proposito delle miniere di carbone (che ogni anno fanno 5 mila vittime "ufficiali"), il governo cinese afferma che in cinque anni ne sono state chiuse 11.155 (tutte però di piccole dimensioni) e che sono stati spesi 11 miliardi di dollari per migliorare la condizioni di sicurezza degli impianti. Anche qui va fatta una chiosa: molte delle miniere chiuse sono tornate in produzione o clandestinamente o, dopo una blanda ripulita, alla luce del sole.
Nelle «informazioni» fornite ieri da Pechino spiccano almeno tre mascoscopiche lacune. 1)Bocche cucite sugli infortuni mortali in edilizia (sicuramente alle stelle in un paese in continua costruzione). 2)Silenzio sull'incidenza degli infortuni mortali, il raporto tra numero delle vittime e numero dei lavoratori. In Cina e in India nel 2004 (fonte Ilo) l'incidenza era di 10 morti per 100mila lavoratori. Doppia rispetto ai paesi occidentali, ma inferiore a quella registrata nei paesi dell'ex impero societico (12) e nell'Africa sub sahariana (20). 3)Neppure un cenno ai morti per malattie professionali (l'amianto, che Pechino non ha messo al bando, sicuramente sta presentando il conto anche ai cinesi). m.ca

venerdì 11 gennaio 2008

Glaciale è il commento del presidente della Camera Bertinotti: «Se il pontefice parla di Roma, ne parla come un suo abitante. E va ascoltato come qualsiasi altro abitante».

Fausto Bertinotti, il presidente della Camera e "lider maximo" del Prc, dall´America latina dov´è in viaggio, lancia l´allarme anti-referendum: «L´esito del referendum sarebbe nocivo per il paese quanto l´attuale legge, il "porcellum". Sarebbe uno smacco se la riforma non fosse condivisa».

l’Unità 11.1.08
Le parole della laicità
di Adriano Guerra


Giancarlo Bosetti ha invitato su La Repubblica di lunedì scorso coloro che si occupano del dialogo fra non credenti e credenti a registrare gli orologi sul tempo presente lasciando da parte Togliatti e De Gasperi. Lo si può certo fare, a condizione però di mettere, dopo l’intervento del cardinale Bertone, qualche puntino sulle i. Perché il cardinale non ha dimenticato soltanto, come gli è stato ricordato, che negli anni di Togliatti, un dialogo fra comunisti e cattolici vi è stato effettivamente, ma che esso si è svolto in una prima fase, e a lungo, dopo il voto favorevole del Pci all’articolo 7, fra comunisti scomunicati e cattolici scomunicandi o scomunicati. C’è anche dell’altro. Il cardinale, infatti, mettendo al vivo vuoti di memoria ancora più gravi - perché quel che venivano ignorati erano qui, insieme alle motivazioni che hanno spinto i comunisti, soprattutto con Berlinguer, alla politica del dialogo, anche i mutamenti intervenuti nelle posizioni della Chiesa - ha colpito a fondo le basi stesse sulle quali, oggi come ieri, il dialogo può essere fondato.
Quelle basi che Giancarlo Bosetti ha riconosciuto valide affermando di far proprio il principio di «eguale rispetto» da parte dello Stato nei confronti delle varie posizioni religiose e anche nei confronti della non-religione. Il «non preferenzialismo» dunque, o anche, più semplicemente, la tolleranza: (è significativo che il Corriere parlando dell’ultimo libro di Papa Ratzinger abbia messo in rilievo il riferimento alla fede «universale ma non intollerante»). Qui c’è qualcosa del passato che va salvaguardato e per molti aspetti - anzi - recuperato. Penso ad esempio a Berlinguer che nella famosa risposta dell’ottobre 1977 al vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi ha parlato del Partito comunista italiano come di un partito «laico e democratico», e come tale «non teista, non ateista e non antiteista», impegnato a dar vita ad «uno Stato laico e democratico..., non teista, non ateista, non antiteista».
Un cittadino insomma può essere teista o ateo (e non vedo proprio perché Odifreddi non possa essere definito laico allo stesso titolo di Bosetti) ma lo Stato non può essere che «laico e democratico», e cioè di tutti: di coloro che pensano che il matrimonio sia un sacramento religioso ma anche degli altri. «Chi desidera sinceramente la ripresa, e la pratica effettiva di quella distinzione fondamentale tra cattolici in quanto appartenenti alla comunità ecclesiale e cattolici in quanto cittadini della repubblica - ha scritto ancora Berlinguer nei giorni del referendum sul divorzio - deve adoperarsi per dare scacco alle attuali scelte politiche dei dirigenti democristiani». Ma anche nel momento dello scontro - ha aggiunto - «la linea della collaborazione e dell’intesa coi movimenti politici e sociali dei cattolici» deve essere ribadita e riaffermata.
Questo è Berlinguer. Per quel che riguarda i cattolici mi limiterò a citare le parole - riprendendole dalla rubrica del Corriere di Sergio Romano - con le quali Alcide De Gasperi nel 1952 ha risposto a Pio XII che, ma invano, aveva esercitato pressioni sulla Dc per indurla a dar vita a Roma, contro la sinistra, ad una coalizione coi monarchici e i neofascisti. Per punire e umiliare il Presidente del Consiglio italiano, il papa gli aveva negato un’udienza in Vaticano. Ed ecco la risposta di De Gasperi: «Come cristiano accetto l’umiliazione benché non sappia come giustificarla; come Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento, e di cui non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento». Il Papa insomma era per De Gasperi oltre che il Capo della Chiesa cattolica anche il capo di uno Stato straniero. Di uno Stato che aveva tentato di ingerirsi nelle vicende italiane rendendo così inevitabile, in risposta, un vero e proprio atto diplomatico.
I comunisti, la Dc e il Vaticano di Pio XII. Ma poi anche la Chiesa che con altri papi imboccò la via del dialogo aprendosi al mondo moderno. Non solo operando dei distinguo fra le dottrine filosofiche e i movimenti storici reali ma affermando, come si può leggere nella Pacem in Terris, che «gli incontri e le intese nei vari settori dell’ordine temporale fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità e renderle omaggio».
Né si è trattato soltanto di parole perché, dopo avere conquistato l’assenso oltreché degli Stati Uniti anche - tramite Andreotti, secondo una testimonianza, un poco sibillina seppure del tutto verosimile, di quest’ultimo - del Vaticano, il Pci e la Dc hanno potuto stringere accordi per il governo del paese.
Certo guai a non vedere, pensando al passato, i segni pesanti di un secolo che non si può certo definire come «il secolo del dialogo». E anche a non vedere i limiti, di ieri ma anche di oggi della cultura di sinistra che, nello stesso momento in cui è chiamata a individuare soluzioni adeguate ai problemi aperti dagli spazi impressionanti ma anche, per certi versi agghiaccianti, conquistati e conquistabili dal progresso scientifico, deve fare i conti con la tante questioni irrisolte del passato (non è forse vero che anche oggi c’è a sinistra chi pensa ad esempio che «difendere la famiglia» significhi negare che anche la famiglia sia una costruzione della storia e nella storia, e che dunque vi possono essere, vi sono, tante e diverse «famiglie naturali», tutte da difendere?).
Tuttavia, se è giusto respingere, perché del tutto contrastante con la realtà, il modo curiosamente nostalgico col quale il cardinale Bertone ha parlato del dialogo avviato da comunisti e cattolici negli anni della guerra fredda, è bene anche ricordare che, e proprio sui temi della «modernità», da quel dialogo sono nate importanti leggi dello Stato. Leggi che vanno difese, contro un’offensiva diretta non solo, e non tanto, contro i non credenti e gli atei (che avranno tutte le colpe di questo mondo, non certo quella però di battersi perché le loro opinioni diventino leggi dello Stato) ma in primo luogo contro i cattolici democratici.
Cercando ad esempio di raggiungere uno per uno persino nelle aule parlamentari quei deputati cattolici che nei giorni del dibattito sui Dico avevano detto in sostanza, che essi avrebbero votato non già per imporre a tutti i cittadini, come legge dello Stato, i valori che condividevano con la Chiesa, ma, all’opposto, per permettere a tutti i cittadini di vedere rispettati dalle leggi dello Stato, i propri valori e la propria morale quando beninteso non vengano lesi valori e morale di altri.
Penso che la sinistra - quella, intendo, che si arricchisce nell’incontro con le altre culture senza perdere e senza rubare, rincorrendo il mito del «pensiero unico», autonomia e indipendenza - nel momento in cui è chiamata ormai quotidianamente a genufflettersi dovrebbe sostenere quei cattolici che guardano allo Stato come a un istituto che non può essere né teista, né ateista, né antiteista.

Repubblica 11.1.08
Il Pd e la laicità
di Piergiorgio Odifreddi


Caro direttore, diciamoci la verità: nei loro dibattiti i filosofi e i politici si comportano spesso come i marinai di una volta, che quando incontravano una balena le gettavano una botte vuota affinché, divertendocisi, essa evitasse di far violenza alla nave. Lo stratagemma fu usato scherzosamente da Jonathan Swift nella Storia di una botte, ma ora sembra essere stato riesumato seriamente dagli estensori del Manifesto dei Valori del Partito Democratico, che hanno gettato in mare una poetica e astratta discussione sulla laicità per evitare di affrontare il tema dei più prosaici e concreti rapporti fra Stato e Chiesa. Seguiamoli dunque su questo terreno, o su queste acque, senza dimenticare però che si sta parlando al sacrestano o alla perpetua affinché il prete intenda.
Per iniziare, prenderei le mosse dall´articolo di Giancarlo Bosetti «Ma laicità e ateismo pari non sono» su la Repubblica del 7 gennaio, che rispondeva al mio «Il Pd, la laicità e la vergogna» del 30 dicembre. Come già annuncia il titolo, Bosetti sostiene che «laicità e ateismo non sono affatto la stessa cosa», e ci mancherebbe che su questo non fossimo d´accordo! Se non altro perché, altrimenti, tanto varrebbe usare una sola parola invece che due.
Lui però pensa che io non condivida, e il suo equivoco nasce dalla mia affermazione che «laicità e ateismo costituiscono una sorta di nudità teologica». Ora, il fatto che le abbia accostate non significa che io non sappia distinguere in teoria, e non distingua in pratica, le due posizioni: tanto per essere precisi, per me ateismo significa non credere nel trascendente, cioè non avere una fede religiosa, e laicismo non mescolare il trascendente col contingente, e più specificamente la fede con la politica.
Naturalmente, si può avere una pratica religiosa senza avere una fede trascendente: l´esempio più tipico di «religione atea» è il buddismo, come il Dalai Lama ripete continuamente nei suoi libri e nei suoi discorsi, e ha ribadito pubblicamente, non più tardi del 16 dicembre scorso, in una sua conferenza a Torino. Altrettanto naturalmente, si può avere una fede trascendente senza permettere che essa interferisca con le proprie azioni contingenti: in fondo, la prima riguarda l´aldilà e le seconde l´aldiqua, e l´uno e l´altro possono benissimo essere tenuti separati, visto che lo sono.
Di cosa stiamo parlando, allora? Del fatto che quando da noi si dice religione, si intende il cattolicesimo: cioè, una fede in un dio trascendente incarnato e in una rivelazione mediata da una Chiesa. Dunque, una religione che per sua stessa natura non può essere non solo atea, ma neppure laica: e non può proprio perché la dottrina dell´incarnazione immette il trascendente nel contingente, e rende difficile separare i due ambiti dell´aldilà e dell´aldiqua, che diventano poi inseparabili quando la Chiesa stessa si configura come uno Stato a se stante. Il problema è dunque filosofico o teologico, prima e più ancora che politico: una sorta di contraddizione originale interna che rende sicuramente difficile, e forse impossibile, a un cattolico l´essere veramente laico.
Ma proprio per questo, la politica italiana deve tutelarsi dalle naturali tentazioni all´ingerenza dei cattolici individuali da un lato, e delle gerarchie ecclesiastiche dall´altro, sapendo già in anticipo che la natura della loro fede tenderà inevitabilmente a sconfinare dall´ambito religioso e teologico per invadere terreni che sono propriamente sociali e politici. Anzi, che tenderà a farlo con tanta più convinzione e forza, quanto più è forte e salda la fede: come nel caso dei cattolici che definiamo teodem, ma che se fossero islamici chiameremmo semplicemente fondamentalisti o taliban. L´ultima delle ingerenze ecclesiastiche, e più in generale religiose, in questioni sociali e politiche è la faccenda della moratoria sull´aborto proposta, in ordine di esternazione, dal cardinal Camillo Ruini, dal giornalista Giuliano Ferrara e dal papa Benedetto XVI. La seconda persona di questa improbabile trinità ha tirato in ballo pure me, chiamandomi «estremista dell´ateismo di Stato e difensore peloso di Bacone», nel suo editoriale «Fate l´amore, non l´aborto» su Panorama del 4 gennaio, benché io non abbia mai espresso pubblicamente alcuna posizione al riguardo. Colgo dunque l´occasione per farlo adesso, e per dire apertamente che l´intera faccenda suona estremamente pretestuosa, vista appunto con gli occhi di un laico.
Anzitutto, perché si potrebbe facilmente ribattere a Ferrara che sarebbe meglio dire «fate l´amore col preservativo o la pillola, e non farete l´aborto»: cosa alla quale si oppongono invece con ostinazione Ruini e Benedetto XVI, reiterando le disposizioni dell´enciclica Humanae Vitae che Paolo VI promulgò nel 1968, benché solo quattro (!) dei settantacinque membri della commissione di studio istituita da Giovanni XXIII, e da lui stesso confermata, avessero dato parere negativo agli anticoncezionali. Oggi, poi, con il flagello dell´Aids, chiunque istighi a non usare il preservativo nelle nazioni da esso infestate è difficilmente credibile in qualunque sua «difesa della vita dal concepimento alla morte».
Altrettanto facilmente si potrebbe ribattere a Ferrara che il motto suo e della sua parte politica è in realtà «fate la guerra, non l´aborto». E poiché la guerra è da sempre la maggiore responsabile delle morti procurate dall´uomo all´uomo, non è credibile chiunque sia contrario all´aborto ma favorevole ad essa: come coloro che, e non solo da destra, in questi anni hanno plaudito ai nostri interventi in Jugoslavia nel 1999, Afghanistan nel 2001 e Iraq nel 2003. Non parliamo poi di quelli che accettano la pena di morte: direttamente, come i fondamentalisti cristiani degli Stati Uniti, a partire dal presidente Bush, o indirettamente, nella forma della legittima difesa individuale o nazionale, come facciamo quasi tutti in Occidente.
Tutto questo per dire che un conto è il rispettabilissimo rifiuto buddista della violenza in tutte le sue manifestazioni, coniugato a una rispettabilissima difesa della sua vita in tutte le sue forme: da quelle attuali, umane e animali, a quelle potenziali. Un altro conto è invece il sospettosissimo rifiuto cattolico dell´aborto, unito alla sospettosissima accettazione, più o meno condizionale e selettiva, della legittima difesa e addirittura della pena di morte, come fa espressamente il nuovo Compendio del Catechismo agli articoli 467 e 469 (tra parentesi, il Vaticano ha abolito ufficialmente la pena di morte soltanto nel 1969).
E discussioni analoghe si potrebbero fare per tutti gli argomenti che stanno a cuore alla Chiesa, dal ruolo della famiglia tradizionale alla distribuzione delle risorse economiche: argomenti sui quali il papa non ha avuto pudore a strigliare, oggi stesso in Vaticano, gli amministratori della città e della provincia di Roma, e della regione Lazio. Ecco, se il Manifesto dei Valori del Partito Democratico, invece di ribadire nella sua ultima bozza «la rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni», proclamasse che i politici, in quanto tali, non devono inginocchiarsi di fronte al papa, né letteralmente né metaforicamente, farebbe qualcosa di meritorio non solo per la laicità, ma anche per l´indipendenza del nostro paese. In fondo, Zapatero fa già cosí: perché non dovremmo chiedere di farlo anche a Veltroni?

Repubblica 11.1.08
Quando il successo non basta
Mark Rothko e l‘arte di moda
di Alfred Jensen


Anticipazione/ Alfred Jensen anche lui pittore registrò e trascrisse una serie di conversazioni col grande artista
"La morte è assurda. Sembra infantile doverla affrontare, ma è sempre con noi"
"Qui a New York chiunque, una volta nella vita, diventa famoso, è capitato anche a me"

Un libro quasi rubato

Mark Rothko non sapeva che le sue parole sarebbero finite nero su bianco sopra un taccuino. Eppure fu così. Il collega Alfred Jensen, che frequentò spesso l´atelier newyorchese del grande maestro del colore, cominciò presto ad annotare le conversazioni avute con lui. Riflessioni sulla pittura classica, ma anche su Monet, Cézanne, Picasso, Mondrian, Matisse e sull´ambiente artistico contemporaneo che oggi vengono pubblicate da Donzelli in un piccolo libro. Conversazioni con Rothko (Donzelli, pagg. 112, euro 13) - di cui anticipiamo un capitolo - raccoglie il contenuto di tredici incontri avvenuti tra il 1953 e il 1956. Rothko è raccontato anche nei suoi stati d´animo, le passioni («mi attira l´idea dell´uomo del Rinascimento che identificava l´Io con l´universo»), i giudizi sui colleghi («Jackson Pollock quando è sobrio è una persona assai generosa ma può diventare pericoloso e aggressivo quando è ubriaco»). Quanto ad Alfred Jensen, scomparso nel 1981, non ha mai avuto la fortuna del suo compagno di riflessioni: «Non riesci ad esporre con le gallerie commerciali di New York perché sono tutte alla ricerca della stessa immediatezza tipica di de Kooning, Pollock e Kline», gli diceva Rothko.

7 dicembre 1955
Rothko oggi era in uno stato di prostrazione e anche io, essendomi raffreddato, non mi sentivo un granché.
Ho visitato il suo nuovo atelier per la prima volta. Poiché non aveva portato a termine alcun nuovo lavoro, abbiamo passato gran parte del tempo a ricapitolare.
Per citare Rothko: «Ebbene, Jensen, è da un po´ che ci frequentiamo. Sono interessato a sapere qualcosa riguardo alle lezioni di filosofia; in quanto artisti non possiamo comunque affidarci alle spiegazioni basate sulle corrispondenze. In quanto artista, sono interessato al tragico; la vita è tragica. Riguardo al libero arbitrio, cosa possiamo fare se non agire in conformità a quanto sentiamo più sicuro per noi? Ci comportiamo onestamente o viviamo per pagare il nostro debito. Ci sforziamo di fare agli altri quello che vorremo fosse fatto a noi, ma se l´altro non si comporta come facciamo noi nei suoi confronti non possiamo davvero condannarlo. Ammiriamo i gangster non perché non temono di essere cattivi ma perché hanno l´audacia di compiere qualsiasi azione di loro ufficio senza alcuno scrupolo riguardo alla propria incolumità. In questa vita ci troviamo in effetti in una situazione precaria, perché quello che desideravamo trent´anni fa in quanto progressisti è oggi realtà. Perché allora si dovrebbe desiderare quanto già possediamo e di cui ci rendiamo conto che, alla fine, possiamo fare a meno? Il mistero della vita è che non abbiamo alcuna risposta al riguardo e dobbiamo così riconoscere che il tragico ci accompagna dalla nascita alla morte. La morte stessa è assurda. Sembra veramente infantile doverla affrontare costantemente, ma è sempre con noi. E non possiamo rinnegare lei né le sue tragiche implicazioni.
«Mi sfugge quello che Ad Reinhardt e Ray Parker provano veramente per l´arte. Conosco Ad da molti anni. In verità, si è impossessato di molte mie nozioni estetiche e ha attinto a man bassa anche da Barney Newman. Newman ha fatto da padre ad Ad per anni, quando questi era letteralmente un poppante di Papà Newman. I ringraziamenti che abbiamo ottenuto al riguardo consistono in un attacco ingiurioso firmato dalla sua penna maligna che, in un articolo pubblicato sul College Art Journal, denuncia molti di noi. Per quanto mi riguarda, sono ormai abituato ad attacchi simili da parte di Ad così non li prendo troppo sul serio, ma Newman si è risentito e ha intentato una causa contro il Journal e contro Ad, citandoli per cento dollari di danni.
«Qui a New York quasi chiunque, una volta nella vita, diventa alla moda. Pochi anni fa ero io alla ribalta e, di conseguenza, tutti pensavano che fossi una persona autorevole, eppure con molti di noi questo apprezzamento ha vita breve. Oggi de Kooning è tenuto agli onori, forse con lui durerà di più. Nel caso di Avery, vi è un riconoscimento troppo superficiale del suo lavoro e questa è la tragedia di Milton, perché in questo modo viene isolato dalle sue stesse forze creative. Un´ammirazione fin troppo dozzinale indebolisce il suo lavoro. Ora, prendi uno come Earl Kerkam: non ha mai goduto del favore del pubblico, una situazione assurda e immeritata. Kerkam ha cambiato solo di recente, all´inizio dipingeva teste composte di frammenti che strutturava con grande abilità. Improvvisamente deve essersi detto: "Adesso dimostro a questi ragazzi Yin e Yang che, se lo desidero, sono capace anche di realizzare opere astratte", e guarda i fallimenti miserabili che il povero Earl ha realizzato quest´ultimo anno.
«Ho l´impressione che Sam Francis non abbia compreso Clyfford Still e che, per la stessa ragione, non abbia capito neanche il mio lavoro. In qualche modo si è riappropriato da entrambi del concetto di quadro ininterrotto ma, da quanto posso osservare, non lo sviluppa in nessuna direzione. Ogni porzione scorre sopra e al di là del piano pittorico, niente è ritenuto. Il moto trattenuto di Still all´interno del piano è invece tale da dar corpo al concetto, che si solidifica e resta sulla superficie del dipinto. Il processo creativo entra in crisi quando l´intensità dell´artista stesso si cristallizza in un´esperienza inequivocabile. In un dipinto di Sam Francis, la superficie appare come una tenda merlettata con nient´altro che una sottile e instabile traccia di colore, e questi colori non si richiamano l´un l´altro all´interno della composizione. Ora, simili dipinti li considero imitazioni illustrative. Non mi sembra che finora Sam Francis abbia apportato alcunché di nuovo né che il suo lavoro abbia a che vedere, da un punto di vista creativo, con il mio o con quello di Still. Di imitatori ne abbiamo in abbondanza, ma pochi sono in grado di comprendere realmente cosa abbiamo in mente. Ti prego di non riferire ad altri la mia posizione su Sam Francis, visto che in seguito potrei cambiare opinione.
«Ad ogni modo, quando osservo il tuo lavoro, Jensen, vi rintraccio ancora alcune qualità relazionali e corrispondenze sebbene, in un modo o nell´altro, sembrano attraversate da una crisi. Il tragico diventa manifesto nei tuoi dipinti e l´aspetto relazionale è assorbito dalla profondità del tuo messaggio specifico. Ho trovato la tua mostra eccellente.
«Vedi, Jensen, la situazione artistica sulla West Coast mi ha insegnato qualcosa. Da quelle parti gli artisti si accontentano della pittura di, poniamo, de Kooning, Pollock o Tomlin. Questa gente non ha intenzione di rifinire la sua visione e non vuole apprendere altro che il procedimento di realizzazione di un dipinto. Non è interessata a sviluppare una visione nuova ed è come se dicesse: "Non avvicinarti a noi con il tuo punto di vista individualistico o con l´intenzione di difendere la causa dell´arte". Sono perplesso e in difficoltà. Ignoro dove conduca tale compiacenza, né ho intenzione di prestarmi a tale attitudine stantia e disimpegnata. In altri termini, non voglio suonare la lira per gli altri ed essere poco più che un imbonitore».

Repubblica 11.1.08
Esce una raccolta di saggi sull'opera dell’analista cileno
Matte Blanco l'inconscio è infinito
di Luciana Sica


Per i curatori del libro, Alessandra Ginzburg e Riccardo Lombardi, le sue teorie non hanno ancora lo spazio che meritano nel pensiero psicoanalitico contemporaneo

Non ha ancora la collocazione che merita, nel pensiero psicoanalitico contemporaneo e nella clinica, Ignacio Matte Blanco - il grande analista cileno, romano d´adozione dal lontano aprile del 1966 al gennaio del ‘95, anno della sua scomparsa. Approdata ai territori della filosofia, soprattutto presocratica, e della logica matematica, la sua ricerca è considerata spesso troppo "difficile", sofisticata, astratta, eppure ha avuto straordinarie applicazioni: ad esempio, nel mondo della critica letteraria - da Orlando a Paduano, ad Agosti. Comunque sia, Matte Blanco rimarrà l´autore di due libri fondamentali usciti da Einaudi: il saggio sulla bi-logica L´inconscio come insiemi infiniti (1981) e Pensare sentire essere (1995). La lettura di queste opere restituisce pienamente la vertiginosa originalità di un modello di funzionamento della mente che l´analista sudamericano amava riassumere in una frase solo all´apparenza semplice: "L´inconscio: un infinito dentro di noi".
L´emozione come esperienza infinita (sottotitolo "Matte Blanco e la psicoanalisi contemporanea", FrancoAngeli, pagg. 311, euro 26,50): Alessandra Ginzburg e Riccardo Lombardi hanno curato una raccolta di saggi su quello che considerano - e che è, senza dubbio - un teorico estremamente innovativo e dalla singolare qualità umana. «Era la persona meno autoritaria, meno sgarbata, meno presuntuosa, meno di potere che si possa immaginare», così lo definiva - in un´intervista a Repubblica - Francesco Orlando che ora, in questo libro collettaneo, firma un saggio molto denso, "Le unità di un testo letterario e le classi di Matte Blanco" (tra i molti altri autori: Pietro Bria, James Grotstein, Antonio Di Benedetto, Salomon Resnik e Mauro Mancia, l´analista appassionato di neuroscienze scomparso l´estate scorsa).
La Ginzburg, come Lombardi, ha avuto un rapporto stretto con il maestro cileno, a lungo suo analista negli anni Settanta. È lei a parlare dell´infinitizzazione dei pensieri specifici che insorgono da ogni intensa esperienza emotiva, con tutta la refrattarietà ai canoni della "ragione" abituata a muoversi nei confini dello spazio e del tempo. Dice la Ginzburg: «Anche se restano dimensioni distinte, in Matte Blanco inconscio ed emozione sono in buona parte sovrapponibili, rovesciando i presupposti su cui il nostro pensiero è abituato a poggiare, primo fra tutti l´incompatibilità dei contrari. Se per Freud l´inconscio è innanzitutto rimosso, vietato dalle censure e dai conflitti, per Matte Blanco è invece simmetrico - con l´abolizione di ogni differenza tra le relazioni che diventano tutte ugualmente reversibili. Seguono le stesse regole di funzionamento dell´inconscio le esperienze che caratterizzano il versante conoscitivo dell´emozione».
Matte Blanco rivisita dunque il cuore del sistema freudiano, amplia notevolmente la nozione d´inconscio che non è più solo l´oscura cantina della nostra psiche - da illuminare con un sapiente lavoro di scavo e di ricostruzione di un passato remoto - e in più riscatta l´emozione spesso confinata nell´irrazionale. La sua concezione della bi-logica significa che abbiamo bisogno della ragione assolutista degli affetti quanto di quel pensiero razionale che Aristotele ha vincolato al principio di non contraddizione. L´inconscio come le emozioni diventa allora un sostegno strutturale della coscienza, e dello stesso pensiero logico. Ed è proprio dalla loro costante interazione che scongiuriamo il malessere mentale.
«Ciò che sappiamo - è ancora la Ginzburg a parlare - non corrisponde affatto, in moltissimi casi, a ciò che sentiamo. Eppure è proprio questo abisso apparentemente incolmabile a determinare la ricchezza dell´esperienza umana, è l´immersione in questa profondità a veicolare una molteplicità di diversi e nuovi significati per la nostra vita».
Non esita a definirla una rivoluzione concettuale, Riccardo Lombardi, allievo del maestro cileno, per molti anni in analisi con la moglie di Matte Blanco, Luciana Bon de Matte (a cui il libro è dedicato "con gratitudine"). Non a caso ha voluto intitolare "Il mio tempo verrà" il suo saggio di apertura, citando Gustav Mahler, le cui sinfonie hanno dovuto attendere cinquant´anni dalla morte del compositore viennese per essere riconosciute. Dice Lombardi: «L´opera di Matte Blanco avrà bisogno di tempo per essere pienamente assunta dal pensiero psicoanalitico ufficiale, appartiene ancora all´ambito dei cantieri sperimentali, anche se con un sempre maggior numero di laboratori in diversi luoghi del pianeta e da parte di analisti della più diversa estrazione».
La rivoluzione concettuale di Matte Blanco sta intanto nella messa in discussione del dominio della ragione: «È l´emozione a diventare la madre del pensiero, a generarlo e a sovrastarlo. In assenza di emozioni, il pensiero è sterile, controllante, una forma di razionalità che coglie solo la superficie della realtà interna. Del resto non siamo computer, siamo esseri biologici, "bi-logici": prima ancora che pensiero siamo carne, e molto spesso all´origine del pensiero c´è una turbolenza che nasce come disordine. È centrale quella sua idea dell´inconscio come struttura collegata al funzionamento delle emozioni: un connotato che lo rende presente e accessibile all´elaborazione cosciente e che appare costantemente in stanza d´analisi».
Con un certo sarcasmo, era Lacan a dire ai suoi allievi "voi siete lacaniani, io sono freudiano". Anche pensando a questa celebre boutade, viene da chiedersi se Matte Blanco rimanga o no un freudiano. Certamente l´analista cileno deve aver sofferto di una certa diffidenza nei suoi confronti, tanto da pensare alla creatività nella comunità psicoanalitica come a un pericolo mortale. La citazione è testuale: non una minaccia, ma proprio un pericolo mortale. «Senz´altro - dice Lombardi - Matte Blanco ha reinventato la rivoluzione di Freud, il suo modo di essere freudiano è stato quello di operare un deicidio, di uccidere il maestro per scoprirlo vivo dentro di sé. Era affascinato dall´aspetto contraddittorio e inafferrabile della ricerca freudiana, dalle aperture dialettiche di quel pensiero». Per la Ginzburg, «Matte Blanco è stato estremamente fedele al primo Freud, al grande pioniere dell´Interpretazione dei sogni. Ma quello che oggi importa - ed è questo anche il senso complessivo del nostro libro - è cogliere finalmente l´importanza del suo modello nell´applicazione clinica».

Corriere della Sera 11.1.08
Il «Manifesto dei valori» del Pd. Un tuffo nel passato
di Piero Ostellino


La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato.
Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili.
Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio
Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite.
«L'individuo, lasciato al suo isolamento — dice a questo punto il Manifesto del Pd — non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.

Corriere della Sera 11.1.08
L'impennata Nel 2006 sono aumentati quanto negli ultimi dieci anni messi insieme: quindicimila in più
Il business Gli studi legali fatturano da 500 milioni di euro al miliardo. Se si litiga, la spesa è senza tetto
Divorzi, l'anno dei record. Cresciuti del 25%. È allarme costi
di Alessandra Arachi


ROMA — C'è lo studio dove soltanto per sederti devi già staccare un assegno e scriverci sopra cifre a quattro zeri. E poi pregare. Sperare. Che la pagina triste del tuo matrimonio infranto non si trasformi in una sanguinosa guerra dei Roses: in questo caso aggiungere uno zero a quell'assegno sarebbe davvero un attimo. Perché ci sono studi legali dove sembra proprio che ci godano nel buttare benzina sui fuochi dei divorzi. Meglio: ci lucrano. Semplicemente.
È un business difficilmente quantificabile quello delle operazioni legali per lo scioglimento del vincolo del matrimonio. Perché è la causa stessa del divorzio che, di per sé, ha un valore indeterminabile (si dice proprio così in termini tecnici). Ma che sia un business è decisamente innegabile.
Stiamo parlando di un giro d'affari che ogni anno fattura dai 500 milioni al miliardo di euro, in media. E questo secondo una stima che forse è un po' approssimativa, ma sicuramente attendibile. O, magari, calcolata addirittura lievemente in difetto. Perlomeno a giudicare dal numero dei divorzi che in Italia non ha mai smesso di crescere. E che lo scorso anno ha raggiunto un picco davvero senza precedenti: oltre il 25% di divorzi in più, in soli dodici mesi. In numeri assoluti, soltanto dal 2005 al 2006 i divorzi sono aumentati tanto quanto negli ultimi dieci anni, più o meno. Oltre quindicimila in più, contro i ventimila del decennio.
Per capire, nei dettagli: dal 1995 al 2005 il numero dei divorzi in Italia è cresciuto sempre. In una lenta ma inesorabile progressione: due, tre, quattro, cinquemila unità in più da un anno all'altro. Erano poco più di 27 mila nel 1995, sono arrivati a poco più di 47 mila nel 2005. Fino all'ultimo boom: sono stati oltre 60 mila i divorzi nel 2006 (61.153, per la precisione, secondo le cifre del ministero della Giustizia). Ed ecco che i conti del giro d'affari sono fatti. Non presto, certo, bisogna prima ragionarci un poco su.
E dividere quindi i divorzi in due categorie: quelli congiunti e quelli giudiziali. Ovvero: quelli dove l'ex marito e la ex moglie sono d'accordo, in generale. E quelli dove, in un'iperbole senza fine, si può invece arrivare agli insulti, ai coltelli, agli investigatori, alle perizie, al Dna. Nel 2006 i divorzi giudiziali sono stati la metà di quelli congiunti (19 mila 659 contro 41 mila 494).
A tutto questo, poi, bisogna aggiungerci la straordinaria lentezza dei nostri tribunali che in materia di giustizia civile è davvero indescrivibile: ci vogliono oltre 670 giorni, in media, per concludere un divorzio giudiziale. E ben 130 persino per un divorzio congiunto, che non vorrebbe avere discussioni. Ma poi ci sono i picchi: si raggiungono tranquillamente anche i dieci o anche i quindici anni per mettere la parola fine su un pezzo di carta della nostra giustizia. Picchi che hanno spinto un magistrato come Francesco Greco, procuratore aggiunto di Milano, a sentenziare che in Italia si fa prima ad uccidere il coniuge piuttosto che a divorziare.
È un percorso lungo, conflittuale, decisamente faticoso. E, appunto, costoso. Soltanto se parliamo di divorzi congiunti ha un qualche senso tirar fuori un tariffario legale (quasi) ortodosso. E stabilire così una cifra minima ed una massima abbastanza quantificabile: si va dai 1000-2000 ai 10-15 mila euro. Ovviamente dipende dagli studi dove si decide di andare.
Come dire? Sono rari gli studi legali dove per un divorzio che vede i coniugi d'accordo
Tempi infiniti
La media per concludere un divorzio giudiziale è di 670 giorni. Se si trova un accordo, i giorni scendono a 130 Ma restano i «picchi» praticamente su ogni cosa (magari senza nemmeno la delicatissima questione relativa all'affidamento dei figli) si devono sborsare le cifre a quattro zeri. Ma ci sono. Sono gli stessi studi legali dove volano cifre leggendarie per scioglimenti di matrimoni che definire semplicemente conflittuali non può rendere l'idea, talvolta.
I divorzi conflittuali sono, per definizione legale, senza tetto. Perché infinite sono le variabili che legano l'assistito al proprio avvocato. Qualche volta l'assistenza del legale diventa anche giornaliera. O, magari, richiede interventi extra e di emergenza, come l'accompagnamento in un pronto soccorso o in un ospedale. Oppure stiamo parlando di casi di coppie che, oltre che unite in matrimonio, si erano unite anche in affari societari. E di avvocati che invece di placare e sedare, fomentano gli animi turbolenti degli ex mariti e delle ex mogli.
Maretta Scoca, legale matrimonialista, scuote la testa: «Non ha senso alimentare i conflitti. L'attività più importante di un avvocato che si occupa di temi delicati come le separazioni e i divorzi è proprio quella di cercare di tranquillizzare i due coniugi. Che quando arrivano al divorzio spesso hanno una conflittualità così forte da avere un serio bisogno dell'aiuto esterno per essere sedata e poter così raggiungere un accordo».
È sperimentato: la conflittualità fra moglie e marito non dipende dall'entità dei patrimoni. I due coniugi sono capaci di scannarsi alla stessa maniera per 50 euro come per 50 milioni. La differenza la farà soltanto la parcella finale dell'avvocato.
Dieci, quindici, venti, centomila e chissà più quanti euro: le cifre delle tariffe per un divorzio giudiziale (più o meno complicato) non hanno davvero tetto. E anche se sono pochi (e tutti molto famosi) gli studi legali dove soltanto per sedersi si deve staccare un assegno a quattro zeri, è anche frequente che in questi studi si arrivi a cumulare spese per tariffe che di zeri ne hanno dietro cinque.
Sembrano favole ma sono la triste e dura realtà: parcelle di divorzi che sono arrivate a centomila, duecentomila euro (il resto è alla vostra immaginazione) pagate senza battere ciglio. Fantomatiche come le somme sborsate dal coniuge agiato per raggiungere l'intesa economica.
In Italia non abbiamo mai raggiunto il picco americano del giocatore di basket Michael Jordan che per sciogliere il suo vincolo di matrimonio dalla moglie Juanita ha dovuto lasciare sul tavolo 150 milioni di euro (del resto questo è anche il divorzio più caro del mondo, secondo la classifica pubblicata dalla rivista Forbes). Da noi, però, ancora ci risuonano nelle orecchie le liti furibonde e le carte bollate del divorzio che vide contrapposti Giorgio Falck e Rosanna Schiaffino: il re dell'acciaio lasciò parecchio alla moglie per scrivere la parola fine al suo matrimonio. Oltre 4 miliardi di lire, l'attico di Milano, la casa di Cortina, la collezione di quadri, i mobili...

il Riformista 11.1.08
Riforme. Più vicino l'accordo tra Rifondazione e Pd
La legge elettorale divide la Cosa arcobaleno
Tensioni su capigruppo, simbolo e leadership
di Alessandro De Angelis


Uno spettro si è aggirato per il vertice di maggioranza di ieri: quello della legge elettorale. E con esso anche quello della Cosa rossa. Certo, la sinistra dell'Unione ha incassato da Prodi due impegni che ricalcano ciò che non da oggi sostiene Rifondazione: «Tutto ciò che sarà recuperato dall'evasione fiscale o da altre forme di extragettito dovrà essere indirizzato alla riduzione del carico fiscale dei lavoratori e delle famiglie». E ancora: «È difficile continuare con un sistema in cui lavoro e impresa sono tassati più delle rendite finanziarie», ha detto ieri il premier che ha proposto di uniformare le aliquote sulle rendite finanziare al 20 per cento». Praticamente musica per le orecchie della sinistra-sinistra. Fin qui tutto bene. È chiaro che ora si dovrà passare dal "che cosa" al "come" e che il cammino presenterà qualche ostacolo, ma, per la Cosa rossa, non è su questo fronte che si annidano i problemi. I quali hanno principalmente un nome: legge elettorale. Che il dossier stia diventando tra i più difficili da gestire lo mostra una palpabile tensione tra i quattro partiti che martedì incontreranno Prodi per consegnargli - formalmente - un documento in cui sono indicate le priorità di governo a partire dalle questioni economiche. Ma quella sarà l'occasione anche per un confronto sulla legge elettorale.
Il punto è che ad oggi non c'è nessuna possibile intesa sulla legge elettorale tra i partiti della sinistra arcobaleno, proprio nessuna. Rifondazione è pronta all'accordo col Pd di Veltroni a partire dalla bozza Bianco (vai alla voce: «premietto» di maggioranza in cambio del recupero nazionale resti). Verdi e Pdci non ci stanno: il Prc vuole fare un'alleanza con una legge che ci costringe a scioglierci, dicono, ormai neanche tanto a microfoni spenti. E chiedono asilo politico a Prodi. Conseguenza: la Cosa rossa è a rischio. Di qui, appunto una serie di tensioni che, ad oggi, paralizzano anche la discussione su una road map comune. Argomento gruppi parlamentari: l'accordo raggiunto prevede che nei momenti più significativi parli uno a nome di tutti, ma la discussione sui gruppi unici è ferma a causa dei veti incrociati. Non solo: il nome di Cesare Salvi, indicato anche da Rifondazione come capogruppo del futuro soggetto unitario, sarebbe stato bloccato dal veto di Verdi e Pdci. Argomento amministrative: la presentazione di un simbolo comune sta registrando più di una resistenza. Su tutte si profila il caso Roma dove, per ora, non c'è accordo sulla lista, e i Verdi sono sempre più intenzionati ad andare da soli. Per non parlare del simbolo, su cui la discussione è rimasta ferma al momento in cui fu definito un «segno grafico» e non un simbolo politico. Argomento leadership: le tensioni interne a Rifondazione complicano assai le cose in vista del prossimo congresso, che infatti è stato rimandato. Ferrero spinge per la federazione della sinistra perché vorrebbe fare il segretario di Rifondazione, Giordano è al bivio: se accelera sulla linea Bertinotti di fatto rinuncia alla leadership, ma se frena salta tutto. E Vendola? Un sondaggio del Sole-24Ore di qualche giorno fa che lo dava in calo di popolarità come presidente della sua Regione è diventato, dentro Rifondazione, una delle armi brandite da chi lavora contro l'ipotesi della sua leadership.
In questo quadro, è proprio la legge elettorale lo spartiacque della Cosa rossa. E non è un caso che ieri lo spettro che si aggirava nel vertice lo abbia materializzato, dall'America Latina, Fausto Bertinotti, che ha sbattuto il tema (e la politica) sul tavolo. Il presidente della Camera, parlando di quello che succederebbe in caso di referendum e di vittoria del sì l'ha messa giù dura: «Ne uscirebbe una legge che è il contrario di tutto ciò che le forze politiche impegnate nel dibattito sulla riforma elettorale hanno finora detto. Si potrebbero produrre una, due, tre, mille organizzazioni politiche in cui la frammentazione diventerebbe la regola e sarebbero incentivate rendite di posizione». E ha aggiunto: «Quell'esito sarebbe nocivo per la democrazia del paese quanto il sistema elettorale oggi in vigore. Il rischio è quello di una crisi comparabile con quella della Quarta Repubblica francese». Ma soprattutto ha affermato: «Le regole devono essere condivise, è uno smacco se non lo sono. Poi, siccome ci devono essere, qualche volta possono essere decise anche con maggioranze non esaltanti. Ma devono essere condivise in modo tale che la competizione avvenga senza che nessuno pensi che l'altro ha la volpe sotto l'ascella». Chiosano i suoi: per Bertinotti, ottenuti i correttivi minimi alla bozza Bianco, il testo si può votare anche col Pd e Forza Italia. E la Cosa rossa? Con chi ci sta.

il Riformista 11.1.08
Perché serve un nuovo patto tra laici e cattolici
di Claudia Mancina


A distanza di alcune settimane dal lancio dell’iniziativa detta di “moratoria dell’aborto”, vale forse la pena di interrogarsi sul suo sorprendente successo, che ha coinvolto perfino il papa, e che nel mondo laico suscita sconcerto, provocando divisioni, reazioni indispettite, chiusure difensive o aperture spregiudicate, che tutte testimoniano una certa difficoltà di risposta (con poche eccezioni, tra le quali l’articolo di Mariella Gramaglia su questo giornale).
La chiave di questo successo sta, a mio parere, proprio nella paradossalità del termine moratoria, applicato all’aborto. Perché, come molti hanno già detto, si può parlare di moratoria di un atto statale, ma non di una scelta individuale: a meno che si intenda proporre la sospensione della legge che ne regola l’attuazione. Giuliano Ferrara lo esclude, sostenendo invece di voler fare solo una battaglia culturale. Perché allora l’uso di quel termine? Con esso si ottengono due risultati: si afferma il collegamento con la pena di morte, trasmettendo in modo più efficace di qualunque discorso l’equiparazione tra l’aborto legale e l’uccisione legale; e si nega quello che finora è stato, nel mondo pro-choice, il marchio del progresso: l’aborto-conquista-di-civiltà diventa invece, come la pena di morte, qualcosa che la vera civiltà dei diritti umani deve superare. E infatti non a caso l’iniziativa ha il suo culmine nella richiesta di emendamento della Dichiarazione dei diritti dell’Onu. Una richiesta che ha poca possibilità di essere accolta, ma che serve a dare la misura della rottura culturale a cui aspira il direttore del Foglio.
Si tratta dunque di un rovesciamento del discorso, che per sua natura rende difficile la controargomentazione. Una provocazione così audace e così spiazzante non sembra avere lo scopo di discutere seriamente con chi dissente, ma quello di suscitare un diluvio di consensi. Ed è ciò che sta avvenendo; però Ferrara dovrebbe riflettere su quanto poco confronto di merito stia venendo fuori. Se davvero la sua volontà di discussione è sincera, dovrebbe chiedersi se non abbia dato alla discussione stessa dei confini troppo rigidi. Se infatti il dialogo deve partire dall’assunto che l’aborto è l’omicidio di un bambino, allora nessun dialogo è possibile. La clamorosa provocazione si rivelerebbe - e anche questo è un paradosso - un’occasione sprecata.
Forte ed evidente è invece la ricaduta politica della campagna del Foglio, soprattutto nel Partito democratico. Dove i laici troppo spesso tacciono, stretti dalla ragion politica che in questo momento determina il protagonismo dei cattolici integralisti; o talvolta anche esprimono una laicità difensiva e ideologica. Lo stesso Ferrara, e ieri Panebianco sul Corriere della sera, si sono chiesti se e come possano convivere nel Pd posizioni etiche radicalmente diverse. Apparentemente il problema non è nuovo. Già nei partiti tradizionali si riscontrava un pluralismo etico: la posizione del Pci sul divorzio o sull’aborto non era certo monolitica. Anche allora, come oggi, c’era una ampia maggioranza laica, e agguerrite minoranze religiose. Se oggi il Pd trova difficile definire una nuova sintesi sul tema della laicità, è perché problemi nuovi e nuove sensibilità agitano l’orizzonte; ma anche perché è cambiata la ragione d’essere politica della laicità. Questa per prima chiede una ridefinizione, meno ideologica e più dialogante con la coscienza religiosa, meno statalista e più liberale.
Non basta affermare la laicità dello Stato (che nessuno può mettere in discussione, a meno di cambiare la costituzione); si tratta di assumere la laicità come rispetto del pluralismo e della autonomia dei cittadini nelle scelte che riguardano la loro vita e la loro morte. Per quanto pluralista possa essere un partito, questo aggancio alla laicità non può non essere il suo terreno comune. Per garantire la libertà di tutti i suoi aderenti, ma soprattutto per garantire la sua funzione di rappresentanza di un paese che è anch’esso per primo segnato dal pluralismo etico.
Il Pd ha bisogno, per nascere, che laici e cattolici stringano un patto non solo di rispetto reciproco, ma di reciproco riconoscimento e di collaborazione. Questo patto deve consistere in una comune assunzione di laicità rinnovata: un esito che non è affatto fuori delle possibilità di questo partito. Del resto, i teodem si contano sulle dita di una mano. La loro sovraesposizione politica e mediatica è l’effetto perverso di un sistema politico malato e distorto, che fa sì che al Senato ci siano due voti di maggioranza. In un sistema politico sano, il loro dissenso sarebbe fisiologico, e potrebbe essere regolato pacificamente. E verrebbe meno la loro funesta capacità di ricatto sui cattolici laici.
Panebianco osserva poi che la vera difficoltà del Pd è quella di realizzare l’incontro tra la tradizione postcomunista e quella del cattolicesimo democratico, perché ambedue logorate e non più sufficienti a costituire la “ragione sociale” del partito. Che quindi dovrebbe cambiarla. Ma il progetto del Pd non è questo, sebbene così sia talvolta presentato, per una sorta di pigrizia mentale, dai suoi stessi dirigenti. Se quelle due tradizioni fossero ancora vive, non avrebbero bisogno di unirsi in un partito. Il progetto del Pd è invece quello di un partito del XXI secolo, un partito che nasce precisamente dalla presa d’atto che quelle due tradizioni politiche e culturali sono arrivate al capolinea. Non sappiamo se andrà in porto. Ma se ci riuscirà, sarà solo come un partito capace di disegnare una identità politica nuova, della quale sia parte essenziale una ridefinizione della laicità.

Liberazione 11.1.08
Riforma elettorale, Bertinotti chiede che sia condivisa. Martedì minivertice del centrosinistra


Invocata, sempre più autorevolmente invocata, ma sempre in salita. Naturalmente si parla di nuova legge elettorale. Che ci sia la necessità di una riforma, nessun dubbio. L'ha ricordato dal Sud America, anche il Presidente della Camera, Bertinotti. Che torna a sostenere la necessità che le nuove norme siano le più condivise possibili. «Siccome le regole ci devono essere qualche volta possono essere decise anche con maggioranze non esaltanti. Ma quando va così è uno smacco, perché le regole devono essere condivise in modo tale che poi la competizione avvenga senza che nessuno pensi che l'altro ha la volpe sotto l'ascella». Bisogna fare la riforma, insomma. Ma non è così semplice. Lo scenario cambia quasi ogni giorno. E ieri, è stato il giorno delle difficoltà. All'interno dei due schieramenti. Nel centrosinistra, innanzitutto. Dove lo Sdi, i verdi, il Pdci e Mastella - poco prima che iniziasse il vertice di maggioranza dedicato ai temi economici - hanno chiesto che si discutesse di riforma elettorale. Spiegando la loro opposizione al progetto contenuto nella "bozza Bianco". Lunghe trattative e alla fine s'è deciso che dell'argomento si discuterà in una apposita riunione. Si farà martedì mattina, col ministro Chiti (Prodi, che aveva accetttato di buon grado l'idea del vertice sul tema, ha spiegato che era meglio evitare la sua presenza, visto che si tratta di un argomento di stretta pertinenza parlamentare). La riunione si farà, dunque. Ma i mugugni restano. Anche perchè Veltroni ieri è stato piuttosto esplicito: «Ben vengano le riunioni nella maggioranza. Ma non possimo pensare di essere d'accordo su tutto. Anche perché non si può andare al confronto con l'opposizione con un testo blindato».
Musi lunghi anche fra le fila della destra. Ieri, in un dibattito, Fini ha spiegato che esistono differenze profonde fra la sua impostazione e quella di Berlusconi. «Noi siamo bipolari, ho la sensazione che Fi invece voglia archiviare questa tagione». E allora «se non c'è nella coalizione una posizione comune su questo, la coalizione è archiviata».

Liberazione 11.1.08
Pd, la riscossa dei laici parte dai diritti civili
L'appello di Pollastrini e Cuperlo: «Sarebbe sbagliato confonderli con i temi etici»
Finocchiaro: «La libertà di coscienza non sia un'interdizione perpetua dell'attività politica»
di Romina Velchi


Come sempre il troppo stroppia. E così, dopo un iniziale stordimento con conseguente afonia, seguito alla proposta-choc di Giuliano Ferrara di una moratoria sull'aborto, le anime laiche, ancorché cattoliche, del Pd hanno cominciato a muoversi. Anche perché la «provocazione giornalistica» del direttore del Foglio non è che l'ultima di una serie. Un'escalation che «inquieta» dentro il Pd, tanto che in molti si domandano come mai «dopo un anno e mezzo di legislatura non abbiamo portato a casa un solo risultato legislativo sul fronte dei diritti civili». Già, come mai?
Una risposta prova a darla l'appello «per un nuovo civismo» promosso da Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini, già sottoscritto da decine di esponenti democratici anche cattolici. «Il punto è che si scambia di frequente la richiesta di legittimi diritti civili per tematiche etiche. L'effetto è che l'estensione arbitraria (...) della sfera eticamente sensibile rende più confusa la discussione e la ricerca di un approdo condiviso anche dentro il centrosinistra». «Brutalmente - spiega Cuperlo - si tratta di dare alla libertà di coscienza quello che è della libertà di coscienza e alla politica quello che è della politica. La difficoltà non è nel trovare un equilibrio dentro il Pd, sono certo che si troverà, ma elaborare un'agenda condivisa, chiara, senza sovrapposizione di temi».
Il fatto è che anche nel dibattito sulla laicità non sono estranee le dinamiche interne al Pd, in queste ore in pieno travaglio per la nascita più o meno ufficiale delle correnti. E infatti, ecco che Peppino Caldarola nel suo blog prende di mira l'appello, chiedendo polemicamente «che senso ha questa differenziazione? Chi non sta con Cuperlo è forse meno laico? Ci sarebbe una corrente laica se invece di Walter a guidare il Pd ci fosse un altro, che magari è andato a celebrare a piazza san Pietro Escrivà de Balaguer?» (cioè D'Alema).
D'altra parte, non è ai tempi della giunta veltroniana che il comune di Roma ha respinto la proposta della sinistra di un registro delle unioni civili? Non per nulla, una dura presa di posizione viene anche da un'altra dalemiana di ferro, la presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro, la quale insiste che bisogna distinguere «tra diritti e temi eticamente sensibili. Soltanto così si potrà affermare che, ad esempio, quello delle coppie di fatto è un tema relativo ai diritti e non a ciò che è eticamente sensibile. La libertà di coscienza - aggiunge Finocchiaro - è addirittura fisiologica su alcuni temi, ma questo non può tradursi in una interdizione perpetua dell'attività politica. In parlamento non si sta da liberi pensatori e basta. Nel Pd si troveranno modi e forme per riflettere su questo - conclude la senatrice - Con un'unica avvertenza: non nutrire alcun complesso di inferiorità, come se i valori fossero tutti soltanto da una parte».
E' sicuramente veltroniano, invece, Giorgio Merlo, uno dei firmatari del "documento dei sessanta" sull'autonomia dei cattolici in politica, che l'altro giorno ha invitato i «cattolici democratici a uscire allo scoperto». Perché, dice, «la tradizione cattolico democratica continua ad essere il vero antidoto contro la deriva laicista da un lato e la tentazione integralista dall'altro». E per Francesco Garofani, che quel documento l'ha scritto, «la laicità deve essere considerata come una garanzia di libertà per tutti». Finora in ritirata («Siamo a disagio - ammette Garofani - di fronte a queste provocazioni giornalistiche. E' una questione di identità politica, non religiosa»), gli ex popolari hanno rotto gli indugi: avranno la loro corrente e apriranno pure una sede.
Correnti a parte, resta che esagerare non conviene. Lo hanno capito gli stessi teodem. Binetti, per esempio, si era schierata entusiasta con la mozione di Sandro Bondi (FI) per una revisione della 194, salvo poi tornare sui propri passi. Ci ha pensato l'accorto Enzo Carra a richiamare tutti all'ordine, in una riunione convocata per fare il punto. «Della mozione Bondi non ne abbiamo parlato, è prematuro. La nostra prima missione è svolgere bene il ruolo di parlamentari, perciò abbiamo fatto un'analisi politica della situazione a tutto campo. Quanto ai temi che ci sono cari, noi vogliamo aprire il dialogo, non chiuderlo». Così, paradossalmente, sono proprio i teodem a mettere un freno al "soldato" Ferrara: «E' un amico, ma serve moderazione». Dunque, meglio per ora non parlare di modifiche alla 194; casomai insistere perché sia «pienamente applicata».
I teodem fanno buon viso a cattivo gioco anche per quanto riguarda la carta dei valori del Pd, che sabato dovrebbe trovare la sua stesura definitiva. La bozza, frutto della mediazione tra Alfredo Reichlin e Mauro Cerruti, è pronta: vi si legge che «la laicità dello stato e delle sue istituzioni è un valore essenziale dell'impegno politico e sociale del Pd»; quanto alla religione è «un elemento vitale della democrazia», ma insieme con altre «esperienze culturali e spirituali». «Una buona base di partenza» è il freddo commento di Binetti, che avverte: i giochi sono ancora aperti.
Chi, comunque, è sicuro che si arriverà ad un equilibrio è il senatore cattolico, molto vicino a Veltroni, Giorgio Tonini. «Il passaggio sulla laicità nel manifesto è efficace e chiaro. E' un testo che aiuta a fare passi avanti». E tende una mano anche ai laici: l'appello «è un contributo importante, non ci vedo elementi di dissenso». Certo, ammette, «esiste un problema di linguaggio comune su questioni come queste», ma preferisce vedere il «lato buono» di tutta la polemica: «La 194 esce rafforzata, perché ora sono tutti d'accordo che non va modificata; la legge è attrezzata anche ad affrontare le novità delle scoperte scientifiche».
Tutto bene, dunque? Forse no, se una «provocazione giornalistica» ha creato tutto questo scompiglio in un partito, ancorché in formazione. «Non temo la mescolanza e neanche la fatica del dialogo - osserva infatti Cuperlo - Temo l'arretramento culturale. Se un esponente del mio partito dice che i gay vanno curati penso che si tratti di una boutade, ma è un segnale. Vuol dire che si sta abbassando la soglia anche nel pudore del dire».

il manifesto 11.1.08
Il Pd alla ricerca dell'accordo tra caste
di Marco Bascetta


Di ogni «manifesto dei valori» conviene sempre diffidare. Non solo e non tanto perchè sovente coincide con la penosa costruzione di identità fittizie, con la via burocratica all'istituzione di un preteso senso comune. Ma soprattutto perchè dietro la dilagante retorica dei valori si cela una meschina contrattazione politica, la definizione di equilibri e rapporti di forza, nonché il più spregiudicato gioco degli opportunismi e delle astuzie lessicali. In breve, ruvide questioni di potere. Di tutto questo la bozza presentata da Alfredo Reichlin e Mario Ceruti ai cento saggi incaricati di compilare il nuovo catechismo del Pd, è un esempio prezioso. Limitiamoci a esaminare un solo punto, quello che i cattolici (certi cattolici) celebrano come una luminosa vittoria sui troppo decisi sostenitori della laicità. Il passo in questione afferma che la laicità dello stato deve essere intesa «come rispetto e valorizzazione degli orientamenti culturali, e quindi come riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata delle religioni». In quel termine, «sfera pubblica» si annida l'inganno.
Che le religioni non costituiscano un fatto privato, una inclinazione della coscienza individuale, ma un legame sociale, un insieme di abitudini e pratiche collettive, una condivisione di sensibilità anche politiche, nessuna persona dotata di senno si sognerebbe di negarlo. Da sempre molte comunità religiose operano nella «sfera pubblica», in genere senza bisogno di alcuna «carta dei valori» e sovente in polemica con le rispettive gerarchie ecclesiatiche. Fatto sta che nella testa dei politici non esiste «sfera pubblica» che non sia statale e istituzionale, così come in quella delle gerarchie ecclesiastiche non esiste comunità religiosa che non si adegui pienamente alle direttive del vertice e ai suoi orientamenti politici. Dunque il passaggio della bozza di Reichlin e Ceruti andrebbe letto correttamente così : «riconoscimento della rilevanza nella sfera statale e non solo privata delle religioni». Decisamente suonerebbe assai più problematico per chi asserisca la laicità dello stato. Rivelando, inoltre, il carattere bassamente «politicante» del discorso sui cosìddetti valori. In buona sostanza un compromesso tra due «caste», un misurarsi e riconoscersi tra poteri costituiti, un concordato tra gerarchie all'interno di un partito. E che significa poi «riconoscimento della rilevanza nella sfera statale» se non il diritto a condizionare, con leggi e istituzioni, la condotta di tutti, credenti e non credenti?
Di questo dirigismo morale, assunto in pieno dal partito democratico, anche il passo che fa della famiglia «il primo luogo relazionale, affettivo e formativo dove si sviluppa l'identità, l'inserimento sociale e la dignità della persona» è un esempio inequivocabile. Oltre a togliere «dignità» alle molte diffuse situazioni affettive e relazionali diverse che popolano la «sfera pubblica» non statale, quel «primo luogo relazionale» significa in realtà l'unico luogo tutelato e promosso dallo stato, almeno in senso pieno. Ben consapevole di questo contesto, nel suo colloquio di ieri con Veltroni e Marrazzo, in particolare sul tema della famiglia, papa Ratzinger non teme di trattare le istituzioni, quelle locali nel caso specifico, come una sorta di braccio secolare della dottrina cattolica. I «valori» non contemplano le libere scelte di vita di tanti cittadini, ma solo l'equilibrio tra codici morali calati dall'alto e tra le filiere del potere che vi si richiamano. Non c'è da stupirsene. La chiesa, nella sua dottrina sociale, respinge senza mezzi termini il principio della sovranità popolare e la politica ne ha fatto un puro e semplice dispositivo di autoriproduzione, nonché un vuoto simulacro. Che sia questo il terreno comune, se non il «valore» condiviso?

il manifesto 11.1.08
L'unità della sinistra è l'unica via possibile
di Marcello Cini


Trovo poco soddisfacente la breve risposta che Valentino Parlato ha dato alle tre lettere di domenica scorsa (Roberto Pizzuti, Felice e Liliana Piersanti e Moreno Biagini) che - condividendo in tutto o in parte le critiche avanzate nelle ultime settimane alla linea del giornale da parte di Francesco Indovina, Luciana Castellina e Massimo Serafini - invitavano il manifesto con più o meno garbo, a smettere di «arricciare il naso» verso il tentativo in corso di costruzione di un soggetto unitario della sinistra, esortandolo a contribuire maggiormente al suo, indubbiamente molto problematico, successo. Dobbiamo «afferrare Proteo», ha risposto Valentino Parlato, non correre dietro a aggregazioni di vertice nella sfera della politica. Così formulato l'obiettivo appare suggestivo, anche se vago. Il sugo è tuttavia un altro: arrangiatevi - ha detto - noi manteniamo la nostra autonomia di «quotidiano comunista».
Cerco allora di spiegare perché considero questa strategia autolesionista e disperatamente perdente. Il nodo è secondo me, la riaffermazione dell'etichetta programmatica di «quotidiano comunista», che Marco D'Eramo con la sua garbata arguzia, qualche tempo fa equiparava a una «foglia di fico». Questa foglia, tuttavia non mi sembra nascondere sotto di sé, come di solito accade, qualcosa di vigoroso e vitale, ma soltanto una lapide funeraria. Una lapide che, come il giornale stesso con le sue figurine ha documentato, copre le tombe più svariate, da quelle dei più profondi pensatori e dei leader politici più carismatici e coraggiosi fino a quelle dei profeti più visionari e sanguinari della storia degli ultimi due secoli, ma che è di scarso aiuto nel cogliere l'essenza delle molteplici forme che Proteo sta assumendo all'inizio del XXI.
Abbandonare questa lapide per sostituirla con un richiamo ai valori di fondo che fin dalla Rivoluzione francese contrappongono la sinistra nelle sue variegate manifestazioni alla destra - anch'essa variegata ma saldamente tenuta insieme da un'ideologia storicamente arroccata sulla difesa dei privilegi e del potere delle classi dominanti - non sarebbe certo tradire la memoria dei padri fondatori del movimento operaio né quella dei milioni di donne e uomini che hanno sacrificato la vita in nome dei suoi ideali. Significherebbe al contrario presentarsi alle generazioni che del comunismo hanno solo sentito parlare come fonte di errori e di orrori, con parole che rappresentino i nuovi valori di una società capace di non farsi travolgere dalla mercificazione totale in ogni aspetto della vita individuale e collettiva, e di opporsi alle drammatiche conseguenze dell'assunzione del mercato come regolatore unico e supremo dello sviluppo globale.
Parlo, in estrema sintesi, del rifiuto della guerra e della violenza anche se giustificati come strumenti di emancipazione e di liberazione; dell'impegno nell'opera di salvataggio dell'ecosistema dal suo degrado irreversibile: dell'assunzione della diversità come ricchezza collettiva che deve accompagnarsi alla solidarietà con i poveri e i diseredati del mondo; del riconoscimento dei saperi e delle sensibilità femminili come componenti indispensabili per affrontare i problemi strettamente intrecciati dell'ipersviluppo e del sottosviluppo; del perseguimento della condivisione della conoscenza come bene comune da tutti fruibile; dell'affermazione dei diritti umani in generale e di quelli del lavoro in particolare nei confronti del capitale. Altri ancora se ne potrebbero aggiungere ma, a parte quest'ultimo, si tratta di valori sui quali la tradizione novecentesca del comunismo non ha molto da dire. Sia ben chiaro: non mi dissocio affatto dall'essermi identificato con essa nel contesto storico dei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, ma mi sembra indispensabile sottolinearne oggi i limiti alla luce delle svolte epocali che il capitalismo sta attraversando nel passaggio al nuovo secolo con il processo di globalizzazione.
L'attaccamento alla «denominazione di origine controllata» blocca dunque in partenza la stessa proposta, di Parlato, di «concentrarci sull'analisi dello stato di cose presente». Che analisi si può fare se non si sa dove si vuole andare e quali strumenti usare? L'attuale eclettismo del giornale sulle questioni che ho appena accennato (e mi riferisco in particolare alla questione ambientale), che ospita contributi di indubbio valore e interesse accanto a altri secondo me discutibili ma soprattutto incoerenti con i precedenti, non serve a fondare su basi più solide un processo futuro di unificazione della sinistra. Anzi, priva il faticoso e difficile cammino che questo processo ha oggi di fronte di un supporto autonomo che potrebbe giocare un ruolo importante. Come scrive Indovina nel suo allarmato appello di martedì ai quattro segretari della cosa che per ora si chiama «La Sinistra/l'Arcobaleno», non solo non c'è tempo, ma il tempo lavora contro. «La nuova formazione - aggiunge - ha bisogno di entusiasmo, di mobilitazione, di attenzione, non di sfilacciamento, di temporeggiamento. Questo lavora contro nella società e dentro ciascuno di noi».
Non capisco come voi del manifesto possiate non preoccuparvi della prospettiva possibile di un aborto della nuova formazione. Temo che se scomparirà la parola «sinistra» dal vocabolario politico italiano non sarà il vostro «quotidiano comunista» a tenere accesa quella fiammella che ha scaldato il cuore a me come a Valentino Parlato fin da quando avevamo vent'anni.