sabato 9 gennaio 2016

Repubblica 9.1.16
Wenders, l’attimo tra due foto dove comincia il cinema
Torna “Una volta”, saggio per immagini del regista di “Alice nelle città” “Fissare il momento mi conforta di tutti i film che non ho fatto”
di Michele Smargiassi

Un film, dice Wim Wenders, qualsiasi film, comincia con il secondo fotogramma. Perché è solo quando due immagini dialogano che «inizia il montaggio e si muove una storia». Le fotografie dunque sono film potenziali, mai davvero iniziati: «Fare fotografie mi dà conforto per tutti i film che non ho fatto». Ma fermarsi qui darebbe l’idea che Wenders sia fotografo di risulta e consolazione. Tutt’altro.
Fra i tanti registi che hanno fatto foto (da Lattuada a Tarkovskij, da Kubrick a Kiarostami, da Tornatore a Van Sant), Wenders ha un pensiero compiuto sulla fotografia, e la sua è opera fotografica a pieno titolo, non hobby. Non da oggi, certo da molto prima di dedicare un film intero a un grande fotografo, Sebastião Salgado. Ottima idea quella di ripubblicare, più di vent’anni dopo, questo suo album- saggio, Una volta (Contrasto editore, 397 pagg., 24,90 euro), titolo che fa pensare all’è stato con cui Roland Barthes definì l’essenza del fotografico, ma in modo più splendidamente ambiguo, visto che (forse solo in italiano)
una volta si può intendere come nell’inizio delle favole, c’era una volta, scaturigine di tutte le storie; ma anche come nostalgia dell’irripetibile, una sola volta e mai più, l’immagine senza storia.
Anzi, a ben vedere, la poetica del fotografico sta alla radice del cinema di Wenders, tutt’altro che nascosta. L’irrequieto nomade di Alice nelle città scatta compulsivamente con una Polaroid nel tentativo di dare un senso al mondo, salvo poi imprecare: «Fare foto! Non viene mai quello che avevi visto!». Anche il regista di Il cielo sopra Berlino cominciò con la Polaroid e non per caso: è la fotografia che non si può manipolare (non è così vero…), quello che ti dà devi prenderlo o lasciarlo. E non puoi ripetere il ciak, perché la realtà intanto è cambiata: una volta, una volta sola. Vivere il momento, dice Wenders a Leonetta Bentivoglio nella bella intervista che apre il libro, questo solo i bambini e i fotografi lo sanno fare.
Come i grandi fotografi, Wenders lascia dunque il risultato alla fotocamera e si riserva la scelta dello sguardo. «La mia prima professione è quella di viaggiatore», e viaggiare fa rima con fotografare, da sempre. Portare a casa pezzi di mondo. Nelle foto di Wenders, se mettiamo da parte i ritratti (vivissimi, amicali) ai colleghi cineasti, c’è quasi sempre un solo attore, il paesaggio. Preferibilmente smisurato e deserto. Un po’ Bruce Chatwin un po’ Caspar David Friedrich: tra stupore e sublime.
Wenders sceglie, scatta e attende il «contraccolpo» della fotografia che magicamente registra «il suo oggetto e, dietro, il motivo per cui questo oggetto doveva essere fissato, mostra le cose e il desiderio di esse». E il desiderio di Wenders è che i paesaggi diventino storie: «alcuni le reclamano a gran voce». Ma questo accadrà solo a pochi di essi, nei suoi film. Le sue fotografie restano la traccia di un incontro irripetibile e senza seguito con un pezzo di mondo, un attimo di «ascolto del vedere».

Per questo Wenders scatta ancora in pellicola. Pubblicato nel ’93, Una volta annusa appena l’odore dell’incendio digitale. Ma sappiamo da interviste più recenti com’è andata. «Ho avuto fotocamere digitali, le ho regalate». I tecno-euforici miopi lo classificheranno come il solito passatista, e sbaglieranno. «Per me fotografare significa essere qui ed ora», ma «i fotografi digitali sono meno presenti quando scattano, perché pensano «be’, questo dettaglio, questo cielo li cambio poi con Photoshop». Ma per Wenders una fotografia è tale perché «tutto appare sempre e soltanto una volta, e di quell’una volta, la foto fa poi un sempre».
Repubblica 9.1.16
A Cambridge l’archivio di Schnitzler
LONDRA. L’Università di Cambridge sta digitalizzando l’archivio di Arthur Schnitzler, il grande scrittore austriaco (1862-1931) di Doppio sogno e La signorina Else. L’accademia britannica è ufficialmente proprietaria delle carte dell’autore che furono salvate dai nazisti e inviate in Gran Bretagna nel 1938. Dopo una disputa decennale con gli eredi, l’ultimo accordo prevede che l’Università di Cambridge consenta agli studiosi la consultazione delle 40 mila pagine di documenti che comprendono lettere di Freud.
Repubblica 9.1.16
Neil Gregor
“Bisogna leggere il Mein Kampf per disarmarlo”
Da ieri il manifesto di Hitler è nelle librerie tedesche in edizione critica e autorizzata. Con quali rischi? Parla Neil Gregor, uno dei massimi esperti mondiali di storia del nazismo
intervista di Enrico Franceschini

Studiarlo serve a capire non solo il meccanismo ideologico che portò al genocidio degli ebrei Ma anche la minaccia dei genocidi nel mondo contemporaneo dal Ruanda alla Cambogia

LONDRA «Era giusto proibire il libro di Hitler nel 1945, ma oggi la Germania fa bene a pubblicarlo, perché possa essere studiato, per capire ancora meglio come nacque il genocidio degli ebrei durante il nazismo e per mettere in guardia contro i genocidi del presente». Neil Gregor, docente di storia all’università di Southampton, uno dei più grandi studiosi al mondo del Terzo Reich, guarda cadere l’ultimo tabù della Germania. Ieri, per la prima volta dal 1945, è tornato nelle librerie tedesche il “Mein Kampf”: edizione critica di due volumi, duemila pagine, un apparato di note e commenti monumentale, curato dal team dello storico Christian Hartmann dell’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera.
Sono passati settant’anni dalla morte del Führer, novanta dalla prima edizione e appena sette giorni dalla scadenza dei diritti d’autore. Non è stata una sorpresa, ma vedere l’opera in vetrina dopo che per tutti questi anni il Land della Baviera ne aveva vietata la riedizione, è stato uno choc. A Monaco soprattutto, la città culla del movimento nazista, dove Hitler aveva scelto di avere la sua residenza e dove nel 1925 per i tipi dell’editore Franz Eher, era apparso con il titolo Una resa dei conti il primo volume dell’opera. Eppure l’interesse è stato tale da arrivare già ieri a 15mila ordini, 4mila in più della tiratura iniziale. Un successo di copie che sembra dar ragione agli editori.
Cosa pensa della pubblicazione del “Mein Kampf”, professor Gregor?
«Non penso che la Germania avesse molta scelta. Ritengo comunque che pubblicarlo sia stata la decisione giusta, per le ragioni che gli editori hanno anticipato da tempo, a cominciare dal fatto che il libro era disponibile comunque online a chiunque volesse leggerlo, per finire con il fatto che è passato molto tempo, la Germania è cambiata ed è comunque giusto potere studiare anche un testo simile per comprendere la storia del passato e i rischi del futuro».
Nel saggio “How to read Hitler” lei ha analizzato non solo gli argomenti, ma anche la lingua e la forma del “Main Kampf”. Siamo sicuri che non ci siano problemi a leggere oggi il Führer?
«Non credo. La Germania oggi è probabilmente la democrazia più stabile d’Europa. È inoltre un paese che ha ragionato a lungo sul proprio passato nazista, lo ha digerito con grande attenzione ed è consapevole di che cosa significa come retaggio storico e culturale. Il Mein Kampf è un esempio del retaggio del Terzo Reich, non differente da altri testi e manifestazioni politiche, artistiche, culturali di quel periodo che vanno egualmente analizzate».
Quale potrà essere la reazione dei circoli di estrema destra e filo-nazisti, in Germania e nel resto d’Europa?
«È vero che esistono gruppi di questo genere nella Germania odierna, come del resto ne esistono in Gran Bretagna, Italia e altri paesi del nostro continente. Ma è altrettanto vero che si muovono in una prospettiva differente rispetto al nazismo del Terzo Reich e alle idee propagate dal libro di Hitler. Sono gruppi anti- profughi, anti-immigrati, più concentrati sull’islamofobia che sull’antisemitismo, ben diversi dai predecessori ai quali si rifanno, seppure anch’essi pericolosi e da emarginare con fermezza. Il danno che possono fare relativamente alla pubblicazione del libro di Hitler, tuttavia, dovrebbe essere marginale, non mi aspetto che possa diventare la miccia di un risorgere del nazismo, con vecchi o nuovi slogan».
Andreas Wirsching, direttore dell’istituto che ha curato l’edizione, ha detto che questo lavoro «smaschera le informazioni false diffuse da Hitler, le sue bugie e rende riconoscibili tutte le mezze verità finalizzate agli effetti propagandistici»...
«Conosco il lavoro che è stato fatto dagli editori: hanno fornito nelle note i nomi, le date, il contesto storico, necessari a inquadrare il testo e a capirne meglio il significato. Un lavoro ben fatto, che mira per così dire a detossificare il libro, a dimostrare quanto folli, orribili e sbagliate fossero le tesi dell’autore».
Le opere di Mao, Stalin, Lenin, sono sempre state pubblicate senza suscitare polemiche, sebbene oggi quei leader siano giudicati dalla storia come dei dittatori sanguinari.
Perché il “Mein Kampf” andrebbe considerato diversamente?
«La mia risposta è che in effetti il Mein Kampf non dovrebbe essere considerato diversamente. La differenza è che, dopo la morte di Hitler e la fine della Germania nazista, la nuova Germania democratica mise al bando quel testo per dare un messaggio simbolico di condanna totale del passato, un segno di rottura, mentre i libri di Lenin, Stalin, Mao continuavano a venire pubblicati, in Russia, Cina o in Europa orientale, con il sostegno di governi o regimi che non avevano preso le distanze da essi. La mia opinione è che la Germania fece bene a vietare il Mein Kampf nel 1945, ma oggi viviamo in un’epoca differente. Pubblicare le opere di un tiranno non vuol dire condividere le sue idee, vuol dire soltanto che è possibile studiarlo».
Come si studierebbero Napoleone, Genkis Khan, Giulio Cesare?
«Sì, ma Napoleone o Cesare non concepirono il genocidio di massa di un popolo. La ragione per studiare Hitler e il suo libro è diversa: serve a capire non solo il meccanismo ideologico che portò la Germania nazista verso il genocidio degli ebrei, ma anche a comprendere la minaccia del genocidio nel mondo contemporaneo, una minaccia che, dal Ruanda alla Cambogia al Darfur, purtroppo non è scomparsa».
Crede che in Israele la pubblicazione del ‘Mein Kampf” da parte della Germania verrà presa con maggiore ansia?
«Probabilmente sì e per ragioni interamente comprensibili. Molti cittadini di Israele hanno perso la propria famiglia nell’Olocausto ed è legittimo che guardino ancora con preoccupazione al risveglio di un simile orrore in qualunque forma. Ma penso che anche molti israeliani concordino che, a distanza di settant’anni, è un fenomeno da studiare per capire appunto come si è sviluppato. E inoltre Israele sa che la Germania, proprio per quello che fece Hitler agli ebrei, è oggi il suo miglior amico e sostenitore in Europa».
La Stampa TuttoLibri 9.1.16
Schiantarsi sulle Alpi come il folle pilota
Il romanzo di un giornalista (immaginario) che ricostruisce il disastro dell’aereo Germanwings e i propri stati d’animo
di Piersandro Pallavicini

Se in un romanzo l’io narrante si concede una pausa dalla storia principale da cui poi esce dicendo «ma sto divagando», e noi lettori ci ritroviamo invece a pensare «no, ti prego continua», vuol dire che siamo davanti all’opera di un narratore di talento. Nel nuovo romanzo di Giovanni Cocco,La promessa
, succede vicino a pagina cinquanta, e da lì, per il piacere di chi legge, quelle che l’io narrante chiama «divagazioni» e la vicenda principale finiscono per intrecciarsi e assumere identico peso. Si tratta di questo: Vincent De Boer, ex-giornalista di cronaca, in pausa dal lavoro da qualche anno, d’impulso decide di voler scrivere della vicenda del volo Barcellona-Düsseldorf della Germanwings. Ce la ricordiamo tutti, impossibile dimenticare l’angoscia di quei giorni in cui si seguivano spasmodicamente i notiziari per cercare di capire prima cosa fosse successo, e poi l’origine della follia del pilota Andreas Lubitz.
Nella finzione del romanzo di Cocco, De Boer si reca sul posto, a Le Vernet, ai piedi del massiccio dei Trois-Évêchés, dove l’aereo si è schiantato. L’intera vicenda viene ricostruita nei dettagli, attraverso la lunga sequenza di informazioni circolate dopo l’incidente. De Boer parla con testimoni oculari, segue l’azione dei volontari, approfondisce con i proprietari dell’aeroclub dove Lubitz aveva imparato a volare. Ma non bisogna in alcuna misura aspettarsi un romanzo d’indagine, l’autore e il suo personaggio non hanno da offrire altri dati e fatti rispetto a quelli acclarati: non è questo lo scopo e il taglio di questo romanzo affascinante. L’intenzione è piuttosto quella di trovare corrispondenze, somiglianze tra lo stato d’animo (il quadro psicologico, gli schemi di vita e dunque di pensiero) di Vincent De Boer e quello che ha condotto Lubitz allo schianto.
Ecco dunque dove trovano posto le cosiddette «divagazioni»: nello scavo del passato e del presente, della vicenda umana, lavorativa, sentimentale dell’ex-giornalista. Se c’è un motore in questo romanzo, è quello dell’interrogarsi sulla possibilità di governare la propria vita al fronte dell’immane numero di variabili del mondo, di esercitare il libero arbitrio contro l’essere travolti da un flusso di eventi che ci può portare in luoghi imprevedibili, persino nel cockpit di un aereo che ci ritroviamo a dirigere contro un massiccio montuoso.
Giovanni Cocco ha scritto La Promessa come seguito de La Caduta, il complesso romanzo-mondo finalista al Premio Campiello 2013. Un seguito che era stato a lungo programmato, con pagine scritte e poi gettate, perché è evidente che questo nuovo romanzo è stato in realtà scritto di getto (il disastro aereo è di fine marzo 2015), e i collegamenti con La Caduta sono più che altro in alcuni personaggi che tornano e nella scelta di raccontare un’altra catastrofe. Qui però il passo è diverso, qui si recupera una tridimensionalità dei personaggi, una profondità di indagine dei sentimenti che in La Caduta passava talvolta in secondo piano a favore della sontuosità del progetto e della struttura dell’opera. Questo significa che Cocco è uno scrittore che sa cambiare, che ha talento e che in più questo talento lo sa gestire in funzione del testo che si appresta a scrivere. E infatti Cocco non ha dato alle stampe solo questi due romanzi complessi, e in buona parte inscrivibili dentro un coté che semplificando si può definire «intellettuale», ma anche Il bacio dell’Assunta (2014, Feltrinelli), un romanzo d’intreccio ambientato sulle sponde di un lago, nel solco di Piero Chiara e Andrea Vitali, e – insieme ad Amneris Magella – i due purissimi gialli Ombre sul lago e Omicidio alla Stazione Centrale, usciti nel 2013 e 2015 per Guanda. Uno scrittore non etichettabile dunque, ammirevole anche per il proprio coraggio, in un’Italia dove spesso si tende invece a cercarsi una nicchia, un giro, rendendosi riconoscibili e di conseguenza più facilmente accettabili.
il manifesto 9.1.16
La bolla cinese si avvicina
Mercato globale. Le otto pesanti crisi finanziarie nel ventennio 1987-2007 non hanno cambiato le regole delle borse e della finanza ombra
di Tonino Perna

La Borsa di Shangai ha chiuso con un timido rimbalzo positivo (1,98 %), nettamente inferiore alle perdite degli ultimi due giorni (- 15%), con una perdita di circa il 40 per cento rispetto al picco dei primi di giugno con l’indice generale arrivato a quota 5.100. Nel corso del 2015 aveva già subito due crolli, di cui quello di fine estate particolarmente pesante. In quel 24 agosto la Borsa di Shangai registrò un crollo dell’8,5 per cento, poi del 7.6 per riprendersi solo dopo un massiccio intervento della Banca Centrale cinese.
La People’s Bank of China intervenne pesantemente: tagliò i tassi d’interesse attivi e passivi, diminuendo le riserve obbligatorie delle banche, ed immettendo direttamente sul mercato finanziario 30 miliardi di dollari , con operazioni di mercato aperto. Operazione analoga è avvenuta in questi giorni e con molte probabilità il Q.E. (Quantitative Easing) cinese continuerà nel disperato tentativo di salvare le Borse ed evitare che la fuga dei capitali dalla Cina diventi un fiume. Ma, ed è questo che è davvero interessante, ogni volta che la Borsa di Shangai subisce un colpo le altre Borse che contano – Tokyo, N.Y, Londra ecc– tremano e lanciano un segnale preciso: ci stiamo avvicinando al Grande Crollo, come J.K Galbraith definì in un suo famoso saggio la crisi del ’29.
Tutte le spiegazioni che si danno di volta in volta di fronte ad un tonfo delle Borse a livello mondiale contengono certamente un quid di verità , ma non tengono conto del fatto che “strutturalmente” questo modello della finanza va incontro a crac periodici e sempre più pesanti, a turbolenze finanziarie sempre più frequenti.
Nel solo ventennio 1987/2007 ci sono state otto crisi finanziarie pesanti, che hanno provocato fallimenti e danni all’economia reale, senza che sia cambiato niente nella regolazione delle Borse e della finanza “ombra”. Siamo passati dai 20.000 miliardi di dollari scambiati nel 1992 ad un flusso finanziario che già nel 2010 aveva superato gli 800mila miliardi di dollari e continua a salire.
Ma, ai primi segnali di frenata nella immissione di liquidità nel sistema (come è avvenuto adesso quando la Fed ha alzato i tassi d’interesse) i grandi gruppi finanziari hanno pensato che è arrivato il momento di passare all’incasso, di realizzare i surplus artificialmente creati e hanno deciso di premere sell nei computer che contano. I piccoli e medi risparmiatori non hanno fatto altro che seguirli secondo la nota legge dello sciame, che grazie ad Internet si è straordinariamente rafforzata, trascinando i titoli delle Borse di tutto il mondo verso il basso.
Come scriveva GK Galbraith risparmiatori e governi hanno la memoria corta: dopo un primo shock che produce tanti buoni propositi, non cambia niente, anzi la situazione peggiora. Il sistema della finanza mondiale è ormai sfuggito di mano a tutti i governi ed istituzioni internazionali. E’ dal tempo di F.D. Roosevelt , quando nel 1933 emanò il Glass-Steagall Act, che non c’è stato più nessun governo dei paesi industrializzati capace di mettere un freno e dei paletti alla finanza speculativa. Anzi, da Reagan a Bush, a Clinton, sono state eliminate tutte le forme di regolazione introdotte da Roosevelt.
Quello che colpisce è il fatto che anche uno Stato forte come quello cinese, un governo monolitico che programma investimenti e strategie a lungo termine, che è riuscito in vent’anni a trasformare la Cina da paese del terzo Mondo in prima potenza industriale e prima economia (Pil in termini di potere d’acquisto) del mondo, non riesca a regolamentare il suo mondo della finanza.
Come e peggio delle altre potenze occidentali la Cina è caduta nella trappola della finanza e dell’indebitamento infinito, gode ancora di notevoli risorse finanziarie in valuta straniera (oltre 3000 miliardi di dollari), ma la sua economia reale rischia di essere travolta dalle fluttuazioni giganti della finanza. E se la Cina, che ancora trascina l’economia mondiale con i suoi alti tassi di crescita, precipita nel vuoto si tira appresso tutto il resto dell’economia mondiale. E’ il bello della globalizzazione!
Come uscirne e non restare spettatori bolliti di fronte ad una catastrofe annunciata ? Credo che oggi sarebbe molto utile prendere in mano l’ultimo libro di Luciano Gallino “Il Denaro, il Debito e la Doppia Crisi”, che coraggiosamente prova a rispondere alla domanda nell’ultimo paragrafo del suo saggio : « Se la politica la fa il capitale, come si può far politica per opporsi al capitale ?».
Corriere 9.1.16
Gerusalemme, anno 70. La fiera sconfitta
di Antonio Carioti

Nelle infinite guerre che i Romani condussero per conquistare e mantenere l’impero, uno degli ossi più duri che incontrarono fu il popolo ebraico. Non per la sua forza militare, piuttosto limitata, ma per lo zelo religioso che ne cementava l’identità, tale da renderlo straordinariamente refrattario alla pur notevole attrazione integrativa e inclusiva esercitata dalla civiltà romana sulle genti sottomesse. Tra dominatori e dominati si creò così la drammatica «incomunicabilità» su cui insiste Giovanni Brizzi nel libro 70 d.C. La conquista di Gerusalemme edito da Laterza: un fattore che avrebbe inasprito il conflitto, rendendolo «crudele fin quasi ai limiti del genocidio».
In questo scenario di lotta senza quartiere, che l’autore segue passo per passo, nei suoi aspetti ideologici come in quelli più tecnici legati alla condotta bellica delle parti in conflitto, si stagliano alcune figure di notevole rilievo.
Primo fra tutti Giuseppe Flavio, lo storico ebreo che prima combatte gli occupanti e poi si schiera con loro, cercando una difficile conciliazione tra il culto giudaico e la legge dell’impero. Poi Tito, futuro imperatore, il comandante romano sempre in prima linea con suoi legionari, che cerca di trattare con i ribelli, ma poi, di fronte alla loro ostinazione, li punisce senza alcuna pietà. E i capi degli insorti, come Simone bar Giora, Giovanni di Giscala, Eleazar ben Simon, animati da un fervore messianico in cui religione e politica diventano tutt’uno.
La rivolta scoppia nel 66 d.C. e si conclude nel 70 con la distruzione del Tempio di Gerusalemme: l’esito dello scontro non è mai veramente in dubbio, data la potenza soverchiante delle legioni. Ma le sommosse proseguono per altri 65 anni, in Giudea come nei luoghi della diaspora ebraica: Cirene, Cipro, la Mesopotamia, l’Egitto. E Roma deve impiegare «un patrimonio non rimpiazzabile di energie vitali», sottolinea Giovanni Brizzi, per reprimerle nel sangue.
Una tragedia quanto mai istruttiva circa le conseguenze funeste cui può portare l’incapacità di dialogare tra culture diverse.
il manifesto 9.1.16
Palestinesi tra Israele, Anp e Hamas
Territori occupati. Netanyahu parla di una Autorità nazionale palestinese vicino al crollo e di Israele pronto ad intervenire. Abu Mazen nega e annuncia riunione dell'Olp sulla cooperazione di sicurezza con lo Stato ebraico. Sullo sfondo il malcontento della popolazione palestinese contro i governi dell'Anp in Cisgiordania e di Hamas a Gaza
di Michele Giorgio

Siamo di fronte al periodico, quasi rituale, allarme sul “crollo imminente” dell’Autorità nazionale palestinese oppure a una situazione concreta di dissolvimento dell’entità amministrativa nata nel 1994 dagli Accordi di Oslo che controlla, è bene ricordarlo, appena il 15% della Cisgiordania. La questione si è riproposta in questi giorni, segnati da altri morti e feriti nei Territori occupati. Giovedì quattro palestinesi sono stati uccisi. Avrebbero tentato di pugnalare alcuni militari ma foto che girano in rete sembrano smentire, almeno in un caso, questa versione perchè uno degli uccisi appare a terra prima disarmato e poi con un coltello in mano. A scuotere le fondamenta dell’Anp sono i sussulti causati dall’Intifada dei giovani contro l’occupazione – circa 140 i morti palestinesi, oltre 20 quelli israeliani — uniti alla frustrazione della popolazione palestinese nei confronti della cooperazione di sicurezza con Israele. Senza dimenticare che il costo della vita e la disoccupazione penalizzano un numero crescente di giovani e le loro famiglie. Anche il governo di Hamas a Gaza sta affrontando un significativo calo di consenso a conferma della crisi che attanaglia nel suo complesso la leadership politica palestinese. Peraltro a Gaza, come accade in Cisgiordania, il dissenso è sempre meno tollerato. Lo dimostra l’arresto nei giorni scorsi del giornalista Ayman Alloul (per alcuni post su Facebook) e del giovane attivista Ramzi Herz Allah.
A lanciare l’allarme sulla stabilità dell’Anp è stato il primo ministro israeliano Netanyahu, colui che non poco ha fatto in questi anni per indebolire e delegittimare l’Anp e il suo presidente Abu Mazen sul terreno e sulla scena internazionale. Lunedì scorso Netanyahu ha detto che Israele deve prepararsi alla possibilità di un crollo dell’Autorità nazionale palestinese. «Dobbiamo evitare, se possibile, il collasso dell’Anp ma, allo stesso tempo, prepararci nel caso che accada», ha detto, secondo due alti funzionari citati dalla stampa israeliana. Negli ultimi 10 giorni, sempre secondo i media locali, il gabinetto di sicurezza israeliano, sulla base di informazioni di intelligence, avrebbe tenuto più di una riunione sulla stabilità dell’Anp. E sono circolare voci di un Abu Mazen gravemente ammalato. L’altra sera il presidente palestinese è intervenuto in diretta tv per smentire la fragilità dell’Anp e la sua salute precaria. Ha quindi annunciato che l’Olp, mercoledì prossimo, deciderà se continuare la cooperazione di sicurezza con Israele.
Questa uscita pubblica non ha placato le indiscrezioni, anzi ha contribuito ad alimentare tra i palestinesi il dibattito sul ruolo e il peso di un presidente che ha concluso nel 2009 il suo mandato e che resta al potere, sull’assenza di prospettive di nuove elezioni legislative e presidenziali (le ultime furono dieci anni fa), sulla successione e sulla frattura tra Anp e Hamas che limita le possibilità di elaborare una piattaforma politica unitaria da opporre all’occupazione e alle politiche di Israele. Temi che si aggiungono al malcontento per il ruolo dei servizi di sicurezza dell’Anp volto ad impedire una adesione popolare e massiccia all’Intifada che si è manifestata, almeno sino ad oggi, quasi sempre con atti individuali. Abu Mazen denuncia le politiche di Israele ma si oppone a una “Intifada diffusa”. Teme le reazioni del governo Netanyahu e l’opportunità che l’insurrezione potrebbe offrire ad Hamas di entrare da protagonista anche sulla scena cisgiordana dove già gode di un significativo sostegno sotterraneo.
«Ci sono due spiegazioni a questa improvvisa preoccupazione, se così vogliamo definirla, di Israele per le sorti dell’Anp e di Abu Mazen», dice al manifesto l’analista Ghassan al Khatib, docente all’università di Bir Zeit «si tratta prima di tutto di un ammonimento. Netanyahu, che segue con rabbia le iniziative di Abu Mazen all’Onu e in campo internazionale, fa capire che Israele è pronto a intervenire, in ogni forma, In seconda battuta è possibile che i suoi servizi segreti guardino con timore all’indebolimento dell’Anp e, di conseguenza, alla fine della cooperazione di sicurezza. Non dimentichiamo che il crollo dell’Anp vorrebbe dire per Israele anche un impegno diretto economico e amministrativo nei confronti di milioni di palestinesi sotto occupazione». Secondo al Khatib l’Anp non è più fragile di qualche mese fa ma la sua esistenza oggi più di prima è legata alla presenza di Abu Mazen. «Dovesse venire a mancare all’improvviso, per qualsiasi motivo, il suo presidente, al quale non pochi palestinesi riconoscono ancora legittimità, emergerà a mio avviso la precarietà dell’Anp – prevede l’analista — perchè tutti sanno che non ci saranno elezioni presidenziali, a causa della frattura tra Anp e Hamas e dell’impossibilità di riunire il Parlamento. La successione potrebbe trasformarsi in una agguerrita lotta per il potere tra persone non elette che getterebbe nel caos l’Anp e la Cisgiordania».
il manifesto 9.1.16
Due minorenni e un malato di mente tra i giustiziati da Riyadh
Arabia Saudita. Oltre al religioso al-Nimr, i boia sauditi hanno ucciso un giovane del Ciad, 13enne all'epoca dell'arresto, e un saudita che aveva 17 anni per essersi uniti ad al Qaeda

Tra i 47 giustiziati dai boia sauditi anche due minorenni all’epoca dell’arresto e un malato di mente. Lo rivela Middle East Eye, citando fonti interne. Mustafa Abkar aveva 13 anni quando fu arrestato nel 2003: era arrivato dal Ciad per unirsi ad al Qaeda. La sua storia comparve sulla tv Al Arabiya: funzionari sauditi ne prospettarono il rilascio, vista la giovanissima età. Poi più nulla e il primo gennaio l’esecuzione.
Era minorenne, quando fu arrestato nel 2004, anche il saudita Mishaal al-Farraj: 17 anni, era entrato in al Qaeda dopo l’uccisione del padre. Per lui nessun processo. Abdulaziz al-Toaili’e, ex leader qaedista catturato nel 2005, invece, dopo anni di torture fisiche e psicologiche ha riportato seri danni mentali. A suo favore una lettera inviata all’Onu chiedeva di fare pressioni su Riyadh per rilasciarlo a causa della grave malattia mentale. Nessuna risposta
Corriere 9.1.16
Con Corbyn il laburismo è rimasto senza bussola
di Fabio Cavalera

Va dato merito ai laburisti britannici di avere stabilito un record: mai, nella storia del partito, un regolamento di conti interno, fra sinistra e centristi, era durato così tanto. Trentaquattro ore e 13 minuti di discussioni, ripensamenti, trappole. Il tutto per partorire un mini rimpasto nel gruppo dirigente e nel governo ombra. Copione degno delle migliori telenovele. Ma al di là degli aspetti più folkloristici (in parte inediti per la politica londinese) conta la sostanza. Jeremy Corbyn ha tentato di azzoppare la sua opposizione che, debole fra la base, è maggioritaria nel gruppo parlamentare. È un fronte composito di moderati e vecchi simpatizzanti di Tony Blair uniti dall’obiettivo di compiere in fretta il golpe contro il nuovo leader. Il quale, a sua volta da quando è stato incoronato, intende modellare il partito sull’esempio spagnolo di Podemos, pensionando la svolta blairiana. Se l’obiettivo (di Corbyn) era quello di licenziare l’astro nascente Hilary Benn, ministro degli Esteri che ha detto sì all’intervento in Siria chiesto da Cameron, e Maria Eagle, ministra ombra della Difesa favorevole all’armamento nucleare, il leader ha subito una mezza sconfitta. Il primo è sempre al suo posto. La seconda è stata spostata alla Cultura. I nomi contano ma fino a un certo punto. La posta in gioco è la linea di politica estera e della difesa. Corbyn viene dal movimento pacifista, dipendesse da lui il Regno Unito uscirebbe subito dalla Nato e i missili Trident sarebbero congelati. I suoi sostenitori vanno oltre: in concomitanza con la bomba all’idrogeno del dittatore nordcoreano, sognano il disarmo occidentale unilaterale. Gli oppositori hanno tutte altre idee e votano per bombardare l’Isis. Due partiti laburisti che fingono di stare assieme ma sono sempre più distanti. Convivono per necessità, in attesa di darsi scacco matto. Una via di mezzo, all’orizzonte, non c’è. Il laburismo è senza bussola.
Il Sole 9.1.16
La sicurezza delle donne, l’altra emergenza
di Elisabetta Rasy

È molto probabile che le donne aggredite a Colonia nella notte di Capodanno facessero parte di quel molto diffuso gruppo di europei che si battono, con militanza vera e propria o nel profondo della propria coscienza, contro l’islamofobia. Donne molte delle quali non accompagnate, sicure di essere libere, magari con altre amiche, di godersi in allegria una serata di festa in mezzo alla gente: donne dunque senza diffidenza, senza pregiudizi. Così come senza pregiudizi, cittadini del mondo e della libertà, erano sicuramente la gran parte dei morti di novembre a Parigi. Ma per aggredire le libere ragazze di Colonia non servivano né kalashnikov né bombe, neppure i coltelli, bastavano le armi tradizionali che nelle società tradizionali gli uomini hanno usato contro le donne: le proprie peggiori pulsioni e il proprio corpo violento. Questi due elementi, la pacifica e ben disposta libertà delle vittime e la mancanza di armi tradizionali (il che vuol dire un terrorismo della vita quotidiana che può essere organizzato solo con un semplice passa-parola) hanno cambiato definitivamente volto, nel 2015, alla questione dell’integrazione, degli immigrati, dei rifugiati e del multiculturalismo.
Da oggi in poi, per forza di cose, ogni ottimismo della volontà in materia non sarà più possibile. Non si può più dire che sono i giovani della banlieue sfavoriti rispetto ai loro coetanei che vanno ai concerti rock o al ristorante. Non si può più parlare, salvo suscitare un imbarazzante ridicolo, di colpe dell’Occidente, di tragici esiti di politiche coloniali e postcoloniali errate, di guerre ingiuste. No. Qui in campo c’erano della ragazze che non rappresentavano niente se non se stesse, inermi e sorridenti nella notte di festa. E tanto è bastato.
Se nel caso di bande terroristiche armate si discute di guerra asimmetrica, qui non si può che riesumare la vecchia formula dello scontro di civiltà. Purtroppo è così: sappiamo bene che la condizione femminile è uno degli indici in base ai quali si valuta il grado di democrazia e complessivo benessere di una società. Ma la condizione femminile è anche questione di sguardi: se chi guarda una donna non vede che una preda da attaccare – in vari modi, dai più ipocriti come i matrimoni combinati ai più violenti come l’acidificazione o la morte – siamo di fronte a una differenza basilare che nessuna buona volontà può negare.
È ora impossibile ascoltare discorsi di mediazione, quei discorsi degli arabi moderati che con sincerità sostengono che il vero Islam è rispettoso delle donne. Sarebbe come tirare in ballo la morale cristiana ogni volta che da noi c’è uno stupro. Che cosa sostenga sulle donne il vero Islam conta poco se è possibile a un gruppo di uomini persino ubriachi – e dunque non necessariamente coordinati e organizzati – circondare, intimidire e aggredire sessualmente donne che circolano pacificamente per strada. È persino esagerato dire che quelle donne incarnavano un’idea estrema di libertà femminile: erano semplici cittadine in una notte di festa, senza niente di trasgressivo, senza niente di provocatorio.
Questo pone per tutti un problema difficile, ma lo pone soprattutto per tutti coloro che si battono per l’accoglienza e la tolleranza delle altre culture, e si battono giustamente perché la tolleranza e l’accoglienza fanno parte di quella stessa idea occidentale del diritto e della libertà che consente a delle ragazze di andarsene in giro a festeggiare la notte dell’anno. Suonano molto male in questi giorni le chiamate alla xenofobia: non si può difendere la libertà e il diritto alla sicurezza essendo xenofobi o razzisti. È una contraddizione palese e bisogna sottolinearlo con forza.
Ma suonano anche male le parole di chi sostiene che anche nella nostra società la tentazione patriarcale è sempre attiva, che anche qui le donne sono aggredite, stuprate e uccise. È vero, ma qui da decenni su decenni è in corso una battaglia condotta dalle donne stesse in primo luogo e poi dalle istituzioni perché questo non avvenga, e di fatto, per quanto l’onda misogina non sia mai del tutto sconfitta, si tratta sempre dell’eccezione non della regola. Nel caso di Colonia è evidente che per la mentalità degli aggressori attaccare le donne – se non velate, controllate, sottomesse – è la regola, non l’eccezione.
Tutti dicono oggi che bisogna ripensare il wilkommen, la politica dell’accoglienza. È la sfida non dell’anno che nasce ma di tutto il secolo, cominciata l’11 settembre del 2001. Le cose da rifare, quelle da revisionare o da cambiare sono tante e spetta agli organismi competenti – governi sovranazionali nazionali e locali – impegnarsi a fondo, nella convinzione che battersi per l’uguaglianza significa comprendere e affrontare le diversità, anche e in primo luogo tra immigrato e immigrato e tra rifugiato e rifugiato, tenendo ben distinto, come ci ha insegnato il Vangelo, il grano dal loglio. Ma tra le tante emergenze che ci assediano e le tante ipotesi di una nuova possibile accoglienza e integrazione da vagliare, una cosa è certa fin da ora: la sicurezza delle donne è sempre più all’ordine del giorno.
il manifesto 9.1.16
La miscela dello scontro di civiltà
Colonia. Nei fatti accaduti a capodanno colpisce la dimensione del fenomeno. Ma l’obiettivo politico ora è l’accoglienza di Angela Merkel
di Alberto Burgio

La notte di Colonia comincia a schiarirsi, le denunce si moltiplicano e così gli arresti, mentre monta una polemica al calor bianco che scuote il governo federale (con le dimissioni del capo della polizia) e riecheggia in tutta Europa, dove alcuni paesi dell’Unione annunciano misure per fermare l’«invasione musulmana» e altri rivedono in senso restrittivo le clausole di Schengen. Eppure di quella notte non sappiamo abbastanza per un’interpretazione univoca dei fatti e tanto meno per sposare letture precipitose o pregiudiziali.
Le ultime notizie parlano di 31 arresti, tra cui 18 profughi (oltre a due tedeschi e a un cittadino statunitense). Le ipotesi di reato riguardano furti e lesioni personali, ma anche tre casi di violenza sessuale. La presenza di rifugiati tra le persone fermate collega oggettivamente l’episodio alla politica di accoglienza della cancelliera Merkel la quale, dopo l’iniziale riserbo, si è sentita in dovere di affermare la necessità di «un segnale forte» e di chiarire che, per salvaguardare il diritto d’asilo, non dovrà esservi indulgenza («niente sconti né attenuanti») per i colpevoli delle aggressioni.
Il dato più macroscopico consiste nelle dimensioni dell’episodio. Violenze anche sessuali sono triste routine in occasione di appuntamenti festosi di massa. A Monaco, per l’Oktoberfest, e nella stessa Colonia, per il famoso carnevale. E del resto Colonia non è stata l’unico teatro di violenze nella notte di san Silvestro, né in Germania (episodi analoghi si sono registrati ad Amburgo, Stoccarda e Francoforte) né altrove (Zurigo, Helsinki e Salisburgo). La peculiarità del caso di Colonia sta nel fatto che il grande branco era composto da un migliaio di persone, un assembramento tale da avere addirittura sopraffatto le forze di polizia presenti.
Con tutto ciò, il quadro rimane ancora alquanto oscuro, anche a causa della lentezza delle indagini e delle contraddittorie versioni fornite. Non si sa in quanti abbiano effettivamente preso parte alle violenze. Sembra che la polizia tenesse d’occhio alcune bande dedite alla microcriminalità, che sono state tuttavia lasciate libere di scorrazzare. Ed è difficile anche intendere la logica del branco, capire che cosa cercasse – se di sfogare pulsioni maciste in preda all’alcol o di rubare, o che cos’altro ancora – visto che alcuni erano armati di bottiglie molotov. Quello che non è affatto oscuro è invece il contesto politico generale in cui l’episodio si colloca: un contesto molto significativo che va tenuto presente per evitare conclusioni affrettate.
Da mesi in Germania (e non solo) le politiche di accoglienza decise da Angela Merkel sono oggetto di polemiche furibonde. La cancelliera è di continuo attaccata non soltanto dall’estrema destra xenofoba ma anche da cristiano-sociali e democristiani (la sua parte politica) che danno voce alle preoccupazioni di chi teme che una politica di accoglienza troppo generosa possa compromettere l’identità del paese.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state proprio quelle scene che hanno commosso il mondo quando, quest’estate, i profughi siriani in arrivo nelle stazioni ferroviarie tedesche sono stati salutati dagli applausi e dai canti dei cittadini accorsi ad accoglierli. Una cosa mai vista, si è detto. E inaspettata. Ma anche una sorpresa allarmante per chi ha sempre fatto affidamento sulla spontanea ostilità della gente verso i migranti. Che cosa stava succedendo? Stavano forse saltando anche i presidi naturali alle frontiere della nazione? E non si rischiava davvero un’invasione per colpa della sconsiderata svolta decisa dalla cancelliera?
Ora, se c’è una cosa di cui possiamo star certi è che lo shock provocato dai fatti di Colonia è piombato su questa delicata discussione con la violenza di un macigno. La Merkel ha chiesto di non strumentalizzare l’accaduto ma è inevitabile che chi sostiene le ragioni dell’accoglienza e della solidarietà sia ora in grande difficoltà, mentre i critici – quanti invocano giri di vite, espulsioni e chiusura delle frontiere – hanno buon gioco. Di meglio essi non potevano chiedere. E certo non sono dispiaciuti per il mistero che ancora avvolge tutta la vicenda e che fa lievitare ansie e risentimenti.
Di qui a dire che le aggressioni siano state organizzate dalla destra xenofoba tedesca ce ne corre, ma le prime reazioni, peraltro prevedibili, non confutano le congetture più sospettose. Anzi. Un articolo come quello scritto da Pierluigi Battista sul Corriere della sera di giovedì 7 non fa che rafforzarle con l’accostare la notte di Colonia alla strage parigina nella redazione di Charlie Hebdo. È lo schema Fallaci, o Huntington. Il sempreverde modello dello «scontro tra civiltà». Battista è andato subito a colpo sicuro, scrivendo di un attacco deliberato alle libertà occidentali, al nostro stile di vita, alla nostra cultura. Lui non ha dubbi: le bande di Colonia «volevano punire» la libertà delle donne; «hanno voluto manifestare» il loro odio verso lo spirito di libertà dell’Occidente cristiano.
Di fronte a tanta sicurezza, una certezza possiamo dire di averla anche noi, in attesa che le indagini in corso facciano piena luce. Mentre i conflitti tendono a radicalizzarsi – in Europa sotto il peso di una gravissima crisi sociale; in Medio Oriente e in Asia centrale per effetto di dinamiche geopolitiche che hanno innescato guerre (scatenate proprio dall’Occidente cristiano), colpi di Stato, balcanizzazione dei territori e un’inedita escalation terroristica – c’è chi non rinuncia a soffiare sul fuoco augurandosi che l’incendio dilaghi e ripromettendosi di trarne profitto.
Dopo Colonia le destre europee brindano, siano o meno estranee all’organizzazione degli attacchi. E con loro si compiacciono i teorici dello scontro di civiltà, che pure affettano collera e preoccupazione. Tutti evidentemente hanno dimenticato quanto sia pericoloso giocare con la paura dei più deboli. E come, una volta appiccato l’incendio, domare le fiamme sia molto difficile per chiunque.
Il Sole 9.1.16
Contratti, ecco il testo dei sindacati
Riforme. Tre i pilastri del documento: contrattazione, partecipazione e regole. Si propone l’estensione erga omnes dei minimi salariali
Il documento avrà il via libera degli esecutivi giovedì, poi il confronto con le imprese
di Giorgio Pogliotti

ROMA L’estensione erga omnes dei minimi salariali contrattuali, in applicazione dell’articolo 39 della Costituzione, va resa esigibile attraverso un intervento legislativo di sostegno. Per il modello contrattuale si conferma l’articolazione su due livelli, con il salario regolato dal contratto nazionale non più in base alla sola inflazione, ma all’andamento delle dinamiche macroeconomiche, ad indicatori di crescita, agli andamenti settoriali. La contrattazione di secondo livello va sviluppata, trasferendovi competenze affinchè possa intervenire sui processi organizzativi, sulle politiche orarie, sull’inquadramento, la sicurezza, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro e di far crescere la produttività.
Dopo una lunga elaborazione, è pronta la proposta sul “moderno sistema di relazioni industriali” elaborata da Cgil, Cisl e Uil che giovedì 14 gennaio alle 15 riuniranno gli esecutivi unitari per il varo definitivo del testo su cui confrontarsi con le associazioni datoriali - in primis Confindustria, con cui da tempo è aperto un tavolo - per cercare un’intesa sul nuovo modello contrattuale. L’obiettivo è quello di evitare un intervento del governo su temi propri delle parti sociali, a partire dalla ventilata introduzione del salario minimo legale che per il sindacato produrrebbe una riduzione generale delle retribuzioni, mettendo a rischio la contrattazione. Il testo di 17 pagine propone un nuovo sistema di relazioni industriali che guarda all’intero mondo del lavoro - anche alle pubbliche amministrazioni verrà presentata una proposta specifica - con tre pilastri: la contrattazione, la partecipazione e le regole.
Si punta anzitutto ad una contrattazione più inclusiva per tutelare tutte le forme contrattuali che operano nello stessa azienda, superando le divisioni tra chi è più tutelato e chi meno. Quanto al modello contrattuale, per Cgil, Cisl e Uil «non sono più immaginabili schemi rigidi ed immutabili nel tempo»; meglio un sistema generale con regole di base su cui «innestare in modo flessibile gli adeguamenti» che servono per assicurare una complementarietà tra i diversi livelli. Il contratto nazionale deve proseguire nella sua funzione e fissare norme comuni per tutti i lavoratori del settore di riferimento, con le linee guida per lo sviluppo contrattazione di secondo livello. Per la parte economica si propone di superare la sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto; le diverse opzioni indicate per regolare gli aumenti tengono conto delle proposte presentate a suo tempo dai tre sindacati. Accanto agli indicatori di crescita economica si fa riferimento agli andamenti settoriali, attraverso misure variabili che potranno essere definite da singoli contratti nazionali, anche in relazione allo sviluppo del secondo livello di contrattazione che è considerato un fattore di competitività. Per evitare sovrapposizioni tra i livelli, la vigenza contrattuale può diventare anche quadriennale. Per estendere il salario di produttività i sindacati propongono che la detassazione venga resa strutturale, con una riforma del fisco che sostenga il lavoro.
Altra priorità il sostegno ai modelli partecipativi nelle diverse direzioni: partecipazione alla governance (per le aziende che hanno adottato un modello duale si traduce nella presenza nei consigli di sorveglianza), organizzativa, economico-finanziaria. Insieme allo sviluppo del welfare contrattuale, la diffusione della previdenza complementare e della sanità integrativa. Il nuovo sistema di rappresentanza per i sindacati va reso pienamente operativo, l’eventuale intervento legislativo dovrà recepire il Testo unico del gennaio 2014.
il manifesto 9.1.16
Vivo o morto? Il centrosinistra della discordia
Elezioni amministrative. I vertici di Sinistra italiana lanciano da Montecitorio la campagna anti renziana «#bastaipocrisia». Iniziativa in contemporanea dei minisindaci capitolini di Sel per salvare la coalizione con un dibattito pubblico #perRoma al Brancaccio il 23 gennaio
Conferenza stampa a Montecitorio dei vertici nazionali di Sinistra italiana per la presentazione della campagna «#bastaipocrisia»
di Eleonora Martini

Il centrosinistra, questo sconosciuto. Morto e sepolto dalle scelte politiche del Pd di Renzi per alcuni, per altri è invece ancora vivo e vegeto nelle esperienze di governo dei territori, perfino in una città come Roma dove continua ad amministrare tutti i Municipi tranne Ostia, sopravvissuti al commissariamento del Campidoglio.
La diatriba dilania in particolare Sel che già litiga con Sinistra italiana, cioè con se stessa, e ieri è apparsa addirittura divisa fisicamente in due. Da una parte, i vertici nazionali di Si che da Montecitorio hanno lanciato la campagna social «#bastaipocrisia», contro i falsi appelli renziani all’unità e al voto utile a cui credono sempre meno elettori. E dall’altra, i presidenti e gli amministratori dei municipi romani di Sel che insieme a quelli del Pd hanno scelto la sala di vetro della “Casa della città” per lanciare l’iniziativa #perRoma, un dibattito pubblico che tenterà di riunire al teatro Brancaccio, il 23 gennaio, tutte quelle forze che vogliono «rimettere in campo un’opzione progressista capace di battere le destre e i populismi» alle amministrative di giugno.
La questione non è di lana caprina, almeno fino al ballottaggio: per Stefano Fassina, al momento l’unico candidato certo a sindaco della Capitale, la coalizione tra Pd e Sel/Si a Roma è fuori discussione. Non è una questione ideologica, ma «concreta», spiegano il coordinatore nazionale di Sel Fratoianni, i capigruppo di Camera e Senato di Si, Scotto e De Petris, e l’ex dem D’Attorre confluito nel nuovo soggetto di sinistra. Fassina è assente ma gli altri mostrano le slide della campagna social — «Caro Matteo, caro Pd #bastaipocrisia» — che invita il Nazareno ad abbandonare la folle idea del Partito della nazione, e allo stesso tempo risponde anche a chi dentro Sel considera la ricostruzione del centrosinistra romano l’unica chance per salire al Campidoglio.
«Se si vuole governare con la sinistra, bisogna fare una cosa semplice: fare cose di sinistra. Se si fanno cose di destra, si governa con la destra», ragiona Fratoianni.
La campagna è efficace e entra nel merito: «Caro Matteo — recita uno degli slogan — ma se volete governare con noi nelle città perché non finanziate l’assunzione dei 20 mila educatori necessari a dare un posto in asilo nido ad almeno il 33% dei bambini sotto i 3 anni? #bastaipocrisia». Oppure «Perché da due anni e mezzo la legge sul consumo del suolo è ancora ferma in commissione?». Fratoianni parla anche ai suoi, quando ribatte a «chi continua a chiederci responsabilità e unità in nome del centrosinistra»: «Se la discussione la facciamo sulle questioni concrete siamo sempre pronti, se invece è ad uso e consumo della prossime amministrative, allora troveranno da parte nostra la risposta di una forza politica autonoma».
«Noi siamo pronti» è invece la firma collettiva con cui i 14 mini-sindaci (di cui due di Sel) sottoscrivono l’appello #perRoma, «un manifesto senza nomi, e non si vedeva dal 1918, perché questa non è una iniziativa contro qualcuno e non è a favore di qualcuno». «Siamo la generazione di amministratori che si è forgiata nella fase più difficile della storia recente della città», scrivono, ma la questione non è solo generazionale. I primi sondaggi su Fassina non sono rincuoranti, e i tanti che hanno affollato la casa di vetro di Roma capitale — da Foschi e Staffieri del Pd, a Peciola e Bonafoni di Sel, fino a Di Berardino e Di Cola della Cgil — supportano la richiesta della presidente dem del I municipio, Sabrina Alfonsi, di indire «primarie con tutti i candidati del centrosinistra».
Proposte e candidature «studiate in qualche luogo distante dalla città» sono da rifiutare, chiarisce Andrea Catarci (Sel) mini sindaco dell’VIII: «Di qui al 23 gennaio proponiamo una grande raccolta di adesioni per riaprire un campo largo di centrosinistra. Invitiamo a partecipare tutti i decisori politici, anche quelli più autistici». La speranza è che ad ascoltare le forze sociali e sindacali della città ci siano tutti, da Marino a Orfini, e naturalmente, puntualizza Catarci, «il mio candidato, Fassina, che sa bene che la coalizione si rinnova ancora nei municipi: per esempio nella giunta Pd del IV, appena una settimana fa è stata nominata una vicepresidente di Sel».
Per il dem Barletta (XIV), «è un errore politico pensare di poter saltare un giro. Non sono convincenti né la proposta politica del Pd che ripiega su primarie interne, né quella della sinistra, tutta sulla difensiva, che guarda al passato. Accogliamo l’appello di Pisapia, Zedda e Doria per recuperare le esperienze positive del centrosinistra». «È un invito senza steccati a chiunque, compresi Ferrero e Civati», gli fa eco Torquati (XV). Apprezza l’iniziativa, entusiasta, il vicepresidente della Regione Lazio, Smeriglio, che ha assicurato la propria presenza al Brancaccio.
Ad «ascoltare» ci sarà anche Fassina che, a distanza, però risponde: «Il centrosinistra è finito nel nostro popolo, a Roma e in Italia. Nessuna retorica di Palazzo lo può resuscitare dopo la rottura in Campidoglio del luglio scorso e la liquidazione dell’amministrazione Marino dal notaio. Dopo le politiche del governo radicalmente contraddittorie con l’identità del centrosinistra su scuola, lavoro, ambiente e democrazia». Fassina ricorda le proposte di Si, «obiettivi concreti e scelte di radicale discontinuità anche con il centrosinistra. Qual è invece il programma del Pd? Nessuno ne sa ancora nulla». Solo con «un progetto per Roma alternativo al Pd del Nazaremo, che domina nella Capitale», avverte il candidato sindaco di Si, «lasciamo campo libero alla destra».
Repubblica 9.1.16
Il retroscena
Il governo accelera: lunedì voto alla Camera, il 19 al Senato. Sì finale ad aprile
La road map del premier “Così si può sovrapporre ilreferendum alle comunali”
di Carmelo Lopapa

ROMA. Il piano di Renzi per il 2016 è una corsa che porta dritti in volata verso l’approvazione finale della riforma costituzionale. Ma con un’accelerazione improvvisa che apre a scenari finora inediti. Perché il ddl Boschi che diventerà legge ad aprile e l’Itali-cum che entrerà in vigore a luglio metteranno davvero nella disponibilità di Palazzo Chigi la carta jolly delle elezioni anticipate. Magari pochi mesi dopo il referendum.
Il timing che Matteo Renzi ha imposto in queste ore ha sorpreso anche i suoi più stretti collaboratori. E ha portato alla stipula di un patto tra i partiti di maggioranza che ha coinvolto le presidenze delle Camere. «Voglio il foto finale sulle riforme entro aprile, l’11», è la finish line piazzata dal presidente del Consiglio, che non ammette dilazioni. A quel punto, tempi lampo anche per il referendum e sull’eventuale congresso Pd da tenere magari in rapida successione.
Quel che è certo è che, se il percorso sarà portato a traguardo senza incidenti e nei tempi stabiliti, da aprile, con la campagna per le amministrative di giugno (probabile il 12) il segretario pd farà partire in conteporaneaanche quella decisiva per il referendum costituzionale. Consultazione che lui immagina come plabiscito sull’intera azione riformatrice del suo governo: sì o no . Senza la mannaia del quorum. Da lì, come ha detto il presidente del Consiglio a fine anno, dipendono i destini della sua permanenza a Palazzo Chigi. In un senso o nell’altro: perchè anche sull’onda di un eventuale successo il premier a quel punto potrebbe preferire non perdere tempo e piuttosto portarlo a profitto (elettorale).
Ma un passo alla volta. Il countdown scatta lunedì, quando la Camera nel pomeriggio è chiamata ad approvare il testo del ddl Boschi che riforma il bicameralismo paritario. Passaggio rapido, scontato (per i numeri della maggioranza a Montecitorio) ma tutt’altro che ininfluente nella sostanza: il testo che sarà varato infatti, dopo i precedenti passaggi nei due rami del Parlamento, sarà quello definitivo. Occorreranno altri due “sì” secchi: al Senato e poi alla Camera. Ma su un disegno di legge blindato: non sarà cioè più emendabile, modificabile. Una discussione unica e poi approvazione o bocciatura. Il punto di svolta è l’uno due che a sorpresa si consumerà nell’arco di una settimana. Sul voto di lunedì 11 gennaio a Montecitorio nessuno aveva dubbi. Quel che tutti si attendevano era un rinvio poi alle settimane successive per l’ok che dovrà seguire a Palazzo Madama. E invece no, qui l’accelerazione, altro che settimane: sull’agenda del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi quel passaggio di una sola seduta al Senato dovrà cadere otto giorni dopo: il 19 gennaio. E così, spiegano dalla maggioranza, è ormai deciso. Il gioco allora è fatto: tre mesi di tempo dal sì della Camera e l’11 aprile sempre Montecitorio darà l’ultimo, definitivo sì.
Da lì, da aprile, inizia un’altra storia, nei piani di Palazzo Chigi e del Nazareno. Saranno i giorni quelli successivi alla Pasqua - in cui dovrà partire la campagna per il voto nelle grandi città. Ma per Matteo Renzi la campagna sarà unica, coinciderà con quella referendaria, riguarderà anche la «nuova forma di Paese» che il suo governo e la sua maggioranza hanno impresso con la riforma costituzionale. Due campagne in una. E allora, sarà difficile anche per Angelino Alfano e i suoi centristi schierarsi su un altro fronte nella concomitante corsa ai comuni. La consultazione dovrà tenersi dopo tre mesi dall’ultimo sì del Parlamento (in teoria da luglio), più realisticamente sarà convocata subito dopo l’estate, nei primi di ottobre.
Nessuno, neanche a Palazzo Chigi, ritiene che il risultato sia acquisito, che sarà una passeggiata. «Ci sarà da sudare, avremo tutti contro, ma da una parte ci saremo noi, il partito del cambiamento, dall’altra loro, i difensori della casta, e gli italiani non avranno dubbi» va ripetendo assai fiducioso Matteo Renzi. Il fatto è che nel frattempo la riforma elettorale, l’Italicum approvato l’anno scorso in via definitiva, sarà entrato in vigore: avverrà proprio a luglio, come prevede la clausola al testo. E con un nuovo assetto istituzionale e un nuovo sistema di voto in mano al premier, tutto può accadere. Di certo, nulla sul piano tecnico potrà impedire un eventuale ritorno anticipato alle urne. Nulla tranne un passaggio: una nuova legittimazione interna per il segretario- premier. Anticipare i tempi del congresso, nelle ultime settimane di questo 2016 è un’altra possibilità che lo scenario aprirebbe. Le opposizioni - dai grillini a Forza Italia, dalla Lega alla Sinistra italiana passando per i conservatori di Fitto - ovviamente scommettono su un altro schema. «Il referendum sarà l’ultima occasione per per riaprire il centrosinistra e archiviare la stagione renziana» sostiene l’ex Pd Alfredo D’Attorre. Renzì sì o no, appunto.
Il premier intanto procede a tappe forzate e si prepara a puntellare il governo già nelle prossime settimane. C’è ancora da coprire la casella degli Affari regionali, posto di pertinenza Ncd. Al nome ricorrente (e gradito al capo del governo) di Dorina Bianchi, in queste ore si affianca quello dell’attuale viceministro alla Giustizia Enrico Costa. Angelino Alfano per quel posto vorrebbe puntare su Gabriele Albertini, tra l’altro ex sindaco che potrebbe aiutare nella campagna per il voto di giugno a Milano. Ma la vera partita è un’altra. Quella delle riforme, appunto.
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Il piano di Palazzo Chigi rimette in posta l’ipotesi di elezioni anticipate nel 2017 Rimpastino in vista: al ministero degli affari regionali Alfano vuole Gabriele Albertini
La Stampa 9.1.16
Unioni civili, sulle adozioni gay Renzi lascerà libertà di coscienza
Il premier personalmente favorevole, ma cerca ancora una mediazione
No all’utero in affitto, il punto di partenza resterà il testo della Cirinnà
di Francesco Maesano

«L’importante è che la legge ci sia». Matteo Renzi ha riassunto così con i suoi la linea che il Pd terrà da qui a quando la legge sulle unioni civili inizierà la discussione al Senato. Il premier è personalmente favorevole alla step-child adoption, ma per non doversi intestare l’ennesima mediazione al ribasso su un testo già limato ha deciso di rimettersi all’aula, lasciando libertà di coscienza e di fatto tirando dritto sull’approdo del disegno di legge Cirinnà in aula così com’è.
Ieri pomeriggio, dopo l’incontro tra Renzi, Boschi e i capigruppo Pd di Camera e Senato, s’era sparsa la notizia di un tentativo di mediazione in extremis per tenere dentro i centristi. Il timore di parte del Pd è di ritrovarsi senza l’appoggio del M5S al momento di votare sugli emendamenti col voto segreto. Timore strumentale per alcuni, dato che dal M5S sono arrivate sia formalmente che informalmente rassicurazioni sulla compattezza del gruppo sul sì alla legge.
Fondato per altri, come i parlamentari che si sono riuniti ieri nello studio di Donatella Ferranti con Walter Verini e altri per elaborare qualche proposta di mediazione. Una di queste prevede di inserire nel testo un rimando alla legge sulle adozioni speciali, lasciando al magistrato la valutazione della coppia. Una proposta che contiene un evidente elemento di disomogeneità legata alla valutazione dei giudici chiamati a stabilire se affidare o meno il figlio di un membro della coppia, anche omosessuale, all’altro componente.
Altra ipotesi sarebbe quella di consentire la stepchild adoption solo se il bambino sia nato prima della stipula dell’unione civile. Eventualità facilmente aggirabile posticipando la scelta di unirsi civilmente. Il terzo scenario invece prevede di innalzare le pene per utero in affitto facendole partire da una minimo di tre anni e trasformandolo così in un reato maggiore, perseguibile anche se commesso all’estero.
«Sicuramente un punto d’incontro potrebbe essere quello di ribadire il no assoluto all’utero in affitto. È un tema vero, che unisce laici e cattolici, che è figlio anche di lunghe battaglie della cultura laica e femminista», faceva notare ieri Francesco Russo del Pd, provando a inserire la proposta nel dibattito.
Per ora nulla di tutto questo entrerà nel testo. Se invece, partendo da queste proposte, dovessero essere presentati emendamenti, questi dovrebbero passare dal vaglio dell’ufficio legislativo del Pd al Senato.
I primi a capire che gli spazi di mediazione sono esauriti e non resta che prepararsi alla battaglia parlamentare sono stati i centristi. «Sul ddl Cirinnà non può e non potrà esserci mediazione o trattativa, né sul merito né sul metodo. L’unica mediazione possibile è cancellare questa discussione e rinviarla alla prossima legislatura se il Pd riuscirà a vincere le elezioni da solo», ha tagliato corto Alessandro Pagano di Area Popolare.
Ora toccherà al gruppo ristretto del Pd guidato da Maria Elena Boschi traghettare il dibattito verso l’assemblea dei senatori con meno scossoni possibili. Solo in quella sede, tra una decina di giorni, si capirà quanti tra i parlamentari critici hanno davvero intenzione di dire no.ero passare
Corriere 9.1.16
Una prudenza imposta dagli altri fronti caldi 
Il voto finale verrà influenzato anche dall’impatto della piazza cattolica
di Massimo Franco


Troppa fretta, forse. E adesso, il governo sembra costretto a fare i conti non tanto con i rapporti di forza parlamentari, ma con resistenze culturali che non aveva calcolato fino in fondo. La decisione di Matteo Renzi di lasciare ai parlamentari la libertà di coscienza sulla legge che regola le unioni civili va interpretata come un gesto di realismo. Si tratta, tuttavia, di una scelta maturata dopo l’incontro di ieri pomeriggio col ministro delle Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi, e i due capigruppo del Pd.
E fa seguito alle parole bellicose dei giorni precedenti, che mostravano un governo deciso ad approvare il testo così com’era, rifiutando qualunque compromesso. Evidentemente, dalla maggioranza, intesa come Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, da qualche frangia residua del Pd, e da una parte delle opposizioni, sono arrivati segnali di forte scetticismo. Alfano ha addirittura ipotizzato un referendum abrogativo, mettendo in allarme un Vaticano memore degli scontri perdenti sul divorzio nel 1974 e sull’aborto nel 1981.
La Chiesa cattolica preferisce rassegnarsi ad accettare le unioni civili. E in parallelo fa sentire discretamente le sue profonde riserve: tanto più in un momento in cui Papa Francesco mostra apertura e rifiuta di assecondare derive referendarie e scontri ideologici. Questo sfoggio di moderazione costringe il governo a fare i conti con le lacerazioni potenziali di provvedimenti considerati di sinistra ma forse non proprio popolari. Ammettere per legge l’adozione del figlio del convivente per le coppie omosessuali è qualcosa che il premier ha dichiarato di volere.
Ma da ieri delega al Parlamento la soluzione, con distacco ostentato. Il tentativo è di non forzare la mano e di non politicizzare troppo la questione, una volta indicata la rotta. Anche perché le votazioni al Senato avverranno a fine mese. E incroceranno la manifestazione cosiddetta del «Family Day», la giornata indetta dalle associazioni cattoliche ostili alle norme che Renzi spera di approvare. Palazzo Chigi è già esposto su molti fronti. La scia giudiziaria dell’inchiesta sul salvataggio di quattro banche locali promette altre sorprese.
In più ci sono le tensioni in aumento con l’Europa. E le giunte locali, a cinque mesi dalle elezioni amministrative, restano un rebus. Aggiungere a queste incognite la sfida sulle unioni civili potrebbe risultare imprudente. Come minimo, il governo cercherà di verificare la consistenza della piazza cattolica; e di valutare quanto pesi il «no» alla legge di una parte della società italiana. Sarà quella risposta a influire sul contenuto del testo finale.


La Stampa 9.1.16
“Ecco gli illeciti di Banca Etruria”
Nelle carte di Bankitalia le violazioni di manager e consiglieri che hanno affondato l’istituto

La Procura di Arezzo ipotizza che siano stati concessi da Banca Etruria finanziamenti in conflitto d’interesse ad alcune società, quattordici delle quali, oltre all’istituto di credito, sono state perquisite dalla Guardia di finanza. Bankitalia accusa ex consiglieri, manager e sindaci di Etruria del collasso della banca e chiede nuove sanzioni, dopo la maximulta da 2,5 milioni arrivata nel 2014. Coinvolti, tra gli altri, l’ex presidente Lorenzo Rosi e Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena, a lungo consigliere e vicepresidente.

La Stampa 9.1.16
L’incaglio dei crediti e dei dirigenti
di Francesco Manacorda

Le carte della Procura di Arezzo che pubblichiamo oggi fanno fare un salto avanti all’indagine su eventuali rapporti preferenziali tra Banca Etruria e quattordici società che da questa hanno ricevuto credito senza poi riuscire a ripagarlo. E mostrano come sotto la montagna dei crediti cattivi c’è spesso anche una cattiva amministrazione.
Le violazioni contestate dalla Banca d’Italia che sono nei fascicoli dell’inchiesta riguardano le «carenze nel governo, gestione e controllo dei rischi e connessi riflessi sulla situazione patrimoniale». Indicano insomma che chi era – spesso da anni e anni, se non da decenni – nella stanza dei bottoni della banca aretina maneggiava in modo a dir poco disinvolto una materia delicata e sensibile come il credito bancario. Le indagini della magistratura dovranno adesso appurare se dietro queste concessioni di denaro ci siano palesi conflitti d’interesse – cosa più che possibile, visto che tra i consiglieri della banca sanzionati c’era anche chi sedeva nelle società beneficiate dai crediti – o eventuali altri reati.
Per il momento, comunque, quel che emerge è il rapporto tra la montagna di crediti bancari deteriorati del sistema bancario italiano, una montagna alta 337 miliardi di euro, e il consiglio d’amministrazione di un medio istituto della provincia come la Popolare dell’Etruria.
A prima vista il rapporto non c’è. Ma è un’impressione sbagliata. Se si cerca di capire come sia cresciuta in Italia quella massa da 337 miliardi, che rappresenta l’enorme somma di crediti in sofferenza, incagliati o già ristrutturati – in tutto oltre un sesto di tutti i finanziamenti concessi dal sistema bancario nazionale – ci si sentirà spesso dire, anche dal mondo delle stesse banche, che si tratta di una sfortunata circostanza: dopo il 2009 l’economia italiana è stata colpita da un vero tornado e gli effetti devastanti delle fabbriche chiuse e dei magazzini pieni si sono tradotti presto in conti bancari vuoti. Una spiegazione che vale specie per le piccole banche locali, così vicine alle aziende del loro territorio.
Ma questo è vero solo in parte. Pesano, come si vede nel caso della Popolare dell’Etruria e delle altre banche finite commissariate, anche e molto gli intrecci perversi e infiniti tra chi il credito concede e chi lo riceve. Colpiscono poi i rilievi mossi dalla Vigilanza all’ex presidente e al vicepresidente della banca aretina, Lorenzo Rosi e Pierluigi Boschi, di aver formato assieme ad altri una sorta di «cda ombra» per esaminare e respingere una possibile fusione con un altro istituto, in barba ai poteri conferiti al consiglio d’amministrazione.
Ci possiamo rassicurare dicendo che si tratta solo di casi limite? Purtroppo non ancora. Senza fare catastrofismi non è detto che tutti i casi di cattiva gestione bancaria degli ultimi anni siano già venuti alla luce.
Quel che possiamo dire è che in alcuni casi i veri incagli e le reali sofferenze non stanno solo nei crediti dei clienti, quanto nei consigli d’amministrazione delle banche. Come testimonia anche l’inchiesta che pubblichiamo oggi sul giornale ci sono consiglieri «incagliati» al loro posto da decenni. Non è che questo sia illegale in sé: ma è indubbio che un sistema sclerotizzato, dove gli amministratori restano abbarbicati a quella che considerano la «loro» banca il più a lungo possibile, favorisca il rischio di una concessione di credito secondo criteri oscuri e in gran parte discrezionali. Servono regole forse più severe – in ogni caso più efficaci – per evitare conflitti d’interesse anche potenziali. E serve che l’indipendenza dei consiglieri – vale per tutte le società quotate, ma per le banche vale ancora di più – non rappresenti solo un requisito formale ma un dato sostanziale. Se il denaro delle banche viene impiegato in operazioni poco chiare o destinate in partenza ad essere più rischiose del dovuto diventa più probabile anche che il risparmio ad esse affidato venga tradito.

Corriere 9.1.16
Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Claudio De Vincenti
«Non escludiamo rimborsi totali»
di Lorenzo Salvia

ROMA «Le indagini devono fare il loro corso e, una volta accertate le responsabilità, chi avesse sbagliato dovrà pagare. Ma in ogni caso escludo conseguenze di qualsiasi tipo sul governo». Anche se il padre del ministro Maria Elena Boschi dovesse essere rinviato a giudizio o condannato? «Siamo in uno Stato di diritto, se non sbaglio. La responsabilità davanti alla legge è personale. E, aggiungo, il discorso del ministro Boschi in Parlamento è stato limpido e ineccepibile, come è stato riconosciuto dalla gran parte degli osservatori e anche da un buon numero di avversari politici». Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Claudio De Vincenti è abituato a parlare lentamente, sempre alla ricerca della parola esatta come faceva da professore universitario. Stavolta aggiunge delle pause. Forse consapevole che la vicenda della quattro banche salvate per decreto dal governo («guardi che non abbiamo salvato le banche, abbiamo salvato i soldi di chi lì aveva il conto corrente») è un terreno molto scivoloso.
È per questo che avete deciso di accelerare sui decreti per gli indennizzi?
«No, abbiamo accelerato perché è giusto dare una risposta rapida a chi ha perso i soldi che aveva investito».
Sarà possibile, in alcuni casi, un rimborso totale?
«In linea di principio l’ipotesi non è da escludere. Per il momento si sta ragionando sui principi che porteranno a fissare criteri precisi».
E quali saranno?
«Il primo è che non sia stata fornita al risparmiatore un’informazione adeguata su quel tipo di investimento. Il secondo è che saranno privilegiate le posizioni più fragili, considerando sia il tipo di investimento sia il profilo generale del risparmiatore».
È possibile che l’indennizzo sia fatto con azioni delle nuove banche?
«Mi sembra prematuro parlarne».
Però la percentuale non sarà uguale per tutti?
«È una delle ipotesi».
Per i rimborsi ci sono al momento 100 milioni di euro. Ne arriveranno altri?
«Non è da escludere ma vedremo più avanti. Prima bisogna capire quante risorse saranno assorbite dalle decisioni degli arbitrati. Poi, se necessario, potremo intervenire. Sottolineo, comunque, che quei 100 milioni non sono soldi pubblici: sono fondi messi a disposizione dal sistema bancario».
La prossima settimana approverete la riforma delle banche di credito cooperativo. Recepirete le proposte delle stesse Bcc oppure no?
«Terremo conto della loro autoriforma. In ogni caso puntiamo a un sistema basato su uno o più gruppi aggreganti che aiutino il rafforzamento delle banche. L’obiettivo è sbloccare il credito all’economia. Vedremo entro gennaio».
Intanto il 31 dicembre è scaduto il vecchio programma di fondi europei. Quanto non siamo riusciti a spendere di quei 45 miliardi di euro?
«Il dato finale lo avremo a febbraio ma siamo molto soddisfatti. Abbiamo sostanzialmente raggiunto l’obiettivo di assorbimento delle risorse, stimiamo un rischio residuo non superiore al 2-2,5%. Insomma alla peggio potrebbe restare fuori un miliardo».
Comunque non poco, in tempo di risorse scarse.
«La colpa non è certo nostra. Nel 2011 il governo Berlusconi era arrivato a spendere solo il 15% dei fondi a disposizione fin dal 2007. C’è stato un forte recupero di spesa, specie sui quattro programmi più in difficoltà: quelli nazionale Reti e quelli regionali Calabria, Sicilia e Campania, dove per tutti arriviamo al 100% o molto vicini».
Non è che, pur di usare quei soldi, abbiamo abbassato la qualità della spesa, cioè finanziato «la qualunque»?
«Al contrario. Abbiamo riprogrammato i fondi verso i progetti capaci di tirare più risorse, trasporto su ferro e dissesto idrogeologico».
È vero che per la vendita delle acciaierie Ilva il governo cerca una cordata italiana?
«Non abbiamo preferenze di nazionalità. L’unica preferenza è per una soluzione che mantenga la forza industriale e finanziaria dell’azienda e il radicamento sul territorio italiano di tutti gli attuali stabilimenti, a cominciare da Taranto».
Questo rende probabile che la cordata sia italiana, non crede?
«Naturalmente noi sollecitiamo gli imprenditori italiani a farsi avanti con proposte concrete».
E non c’è il rischio che si ripeta il pasticcio dei «capitani coraggiosi» di Alitalia, con una toppa che non regge?
«No, perché la soluzione deve essere forte sul piano industriale e finanziario».
Ma dal punto di vista tecnico chi sarà a firmare l’atto di vendita dell’Ilva?
«È l’amministrazione straordinaria che opera la cessione. Non vedo il problema».
C’è chi parla di esproprio.
«Non sa ci cosa sta parlando. Siamo nel pieno rispetto della Legge Marzano. E senza il commissariamento di due anni fa, oggi sì che l’Ilva sarebbe a rischio».
Dall’Unione europea continuano a chiederci di non esagerare sulla flessibilità. Rischiamo nuove procedure d’infrazione?
«No, perché non chiediamo nulla di più di quanto già previsto dalle regole europee».
C’è però il rischio che il debito pubblico non scenda se l’anno prossimo il Pil cresce meno di quanto previsto da voi e l’inflazione resta così bassa. Non pensa?
«La crescita dell’economia farà riprendere anche la dinamica dei prezzi. In ogni caso il debito pubblico scenderà».
E vi impegnate a disinnescare le clausole di salvaguardia del 2017, cioè gli aumenti di tasse che scatterebbero in automatico?
«Certo, e lo faremo continuando a lavorare sulla revisione della spesa pubblica. Eviterei di chiamarla ancora spending review».
Si dice che Vasco Errani potrebbe prendere il suo posto allo Sviluppo economico.
«Ho grande stima per lui, abbiamo lavorato insieme per risolvere situazioni di crisi aziendali in Emilia Romagna. Quanto ai futuri assetti del governo, dipendono da tante variabili che saranno valutate con le forze politiche. A me piace pensare che i partiti abbiano un ruolo importante nella valutazione della situazione politica».
lorenzosalvia
il manifesto 9.1.16
Immigrazione, la resa del premier
Governo. La depenalizzazione del reato di clandestinità slitta ancora. Motivi di «opportunità politica». Il parlamento insiste: meglio una sanzione amministrativa. Ma Palazzo Chigi cede per la secondo volta ad Alfano. L’esecutivo non esercita la delega. Ignorati i richiami della Corte europea e dei magistrati che indagano sulla tratta dei migranti
di A. Fab.

ROMA Che il reato di immigrazione clandestina, eredità dei governi Berlusconi che il Pd ha più volte promesso di abolire, sia contrario alla giustizia Europea lo ha stabilito la Corte di Strasburgo. La sua depenalizzazione sarebbe assai utile nel contrasto alla tratta di migranti, lo chiedono da anni i magistrati che indagano sugli scafisti e il procuratore nazionale antimafia. Non solo, che il reato penale immaginato ai tempi della legge Bossi-Fini debba essere trasformato in un illecito amministrativo lo ha detto due volte il parlamento: la prima in una legge delega del maggio 2014, che il governo non ha esercitato solo su questo punto, la seconda un mese fa quando le commissioni parlamentari hanno incalzato il governo perché proceda anche a questa depenalizzazione. Ma la depenalizzazione non si farà. Il decreto, preparato dal ministro Orlando, non è arrivato al Consiglio dei ministri di ieri. Se ne riparlerà probabilmente la prossima settimana. Sotto i peggiori auspici, visto che palazzo Chigi fa sapere che «la logica vorrebbe la scelta della depenalizzazione. Ma nella componente sicurezza l’elemento psicologico e di percezione è molto importante».
È una dichiarazione di resa di Renzi di fronte ad Alfano che, ministro della giustizia nel governo Berlusconi quando il reato fu introdotto, ha sempre difeso la legge anche di fronte ai fallimenti. L’impossibile applicazione della sanzione (da 5 a 10mila euro) a carico dei migranti in fuga, la possibilità per gli indagati di non collaborare nelle indagini sui responsabili della tratta (a differenza dei testimoni non indagati), persino la complicazione nelle procedure di espulsione consigliano da anni il passo indietro, anche a prescindere da ogni valutazione di giustizia e umanità. Ma «la logica» traballa a palazzo Chigi davanti alle ragioni di «opportunità politica». La stessa «opportunità alla quale si aggrappa il ministro dell’interno Alfano, quando si avventura a spiegare che malgrado «voci molto autorevoli e rispettabili affermano ragioni tecnicamente valide a sostegno di una abrogazione» esistono «motivi di opportunità fin troppo evidenti» per «evitare di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi che sarebbero negativi per la percezione di sicurezza in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa».
È con ragionamenti del genere — ovvero: la gente ha paura dei terroristi, meglio mantenere il reato di immigrazione clandestina malgrado sia disumano, inapplicabile e controproducente — che Alfano riuscì a imporsi nel Consiglio dei ministri del 13 novembre scorso. Scadeva allora la delega prevista nel disegno di legge Orlando approvato nel maggio 2014 dalle camere; la riunione del governo si tenne nel pomeriggio del giorno che sarebbe poi passato alla storia come quello degli attacchi terroristici di Parigi, cominciati nella serata allo stadio e al Bataclan. Senza bisogno di quel carico emozionale, la linea dell’ex ministro di Berlusconi convinse Renzi e si decise di trasmettere lo schema di decreto legislativo al parlamento senza la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina. Il problema però è ritornato sulla scrivania di palazzo Chigi, di nuovo attraverso il guardasigilli Orlando, perché le commissioni parlamentari nell’esprimere il loro parere favorevole hanno raccomandato che «il reato di immigrazione clandestina sia trasformato in illecito amministrativo». Entro la prossima settimana Renzi dovrà decidere. A meno che gli uffici non riescano a trovare nelle pieghe della legge delega originaria i margini per rinviare ogni decisione di altri sessanta giorni. Che sarebbero utilissimi all’esecutivo.
La questione immigrazione clandestina viene a coincidere infatti con l’altra che divide il Nuovo centrodestra dal Pd, quella delle Unioni civili, e annuncia una terza spaccatura, sulla riforma della cittadinanza. Alfano ha buone chance di vittoria, in nome della «opportunità politica». Nel frattempo una parte del Pd invita a non rimangiarsi anche questo impegno — «la politica non può farsi guidare dalla paura», dice Speranza — mentre un’altra (quella renziana) già a capito dove si andrà a parare: «Sull’abolizione del reato di clandestinità non potrei essere più d’accordo, su quando farlo agirei in questo momento con grande cautela», dice Fiano. L’occasione è perfetta per la Lega per profetizzare invasioni, e Salvini annuncia già un referendum per cancellare la cancellazione del reato. Che intanto può attendere.
La Stampa 9.1.16
Rolex regalati in Arabia e Airbus 340
Il danno d’immagine preoccupa il premier
I timori del leader Pd per le accuse degli “anticasta”
di Fabio Martini

Un venerdì di palpabile nervosismo a palazzo Chigi, con lo staff del Presidente più inavvicinabile del solito, concentrato sul compito di mettere a fuoco e fugare illazioni su due vicende di piccolo cabotaggio ma potenzialmente capaci di intaccare il bene al quale Matteo Renzi tiene di più: la sua estraneità alla “Casta”. Nulla di personale nelle due storie che si sono affollate nelle ultime 48 ore. Anzitutto c’è il piccolo mistero che circonda il destino dell’Airbus 340 (più grande di quello del Papa) che avrebbe dovuto sostituire il vecchio aereo della Presidenza del Consiglio: diventato un caso alcuni mesi fa, è stato «rimosso» dalla circolazione. E ieri è affiorata anche una storia di Rolex distribuiti a suo tempo in Arabia Saudita dai padroni di casa alla delegazione italiana e che potrebbero essere stati incamerati da dirigenti e funzionari del governo in barba alla direttiva del governo Monti, che impedisce di accettare doni per un valore superiore ai 150 euro. In entrambi i casi, palazzo Chigi ha replicato con comunicati precisi ma stringati, che non hanno consentito di chiudere in modo definitivo i due casi. In particolare quello dei Rolex, sollevato da un documentato articolo del «Fatto quotidiano».
Per Renzi si tratta di questioni sensibili, più di quanto non potessero esserlo per politici di lungo corso della Prima e della Seconda Repubblica. La sua ascesa politica è stata accompagnata da una campagna vincente contro la precedente classe dirigente, messa sotto accusa per il suo attaccamento alle “poltrone”, in parole povere per il suo essere “Casta”. Ecco perché Renzi tiene a dimostrare la sua estraneità a quei vizi, ecco perché soffre (senza dare a vederlo) tutto quello che lo accosta a certe abitudini. Ieri mattina il «Fatto quotidiano» ha pubblicato un articolo nel quale si raccontava una storia da film dei «cinepanettoni»: nella notte del 9 novembre nel palazzo reale di Ryad, dove è ospitata la delegazione italiana al seguito del premier, si scatena una rissa verbale tra dirigenti e funzionari per incamerare i regali più «appetitosi» messi a disposizione dai sauditi: dei Rolex d’oro. Lo scontro imbarazzante: la scorta della Presidenza requisisce i doni. Ma al ritorno in Italia resta il dubbio: che fine hanno fatto i Rolex? Qualcuno se li è tenuti? Una direttiva emanata dal governo Monti impedisce ai funzionari (ma non al presidente del Consiglio e ai ministri) di trattenere regali con un valore superiore ai 150 euro, che vanno restituiti o devoluti al Mef. Palazzo Chigi ha precisato che dei doni si occupa «il personale della Presidenza non le cariche istituzionali». Resta un dubbio: quanti doni sono stati silenziosamente incassati a Ryad e soprattutto in altre occasioni?
Si deve invece a Renzi la decisione, nella primavera 2015, di affrancarsi dal vecchio A319 per prendere in leasing un jet super-accessoriato, più potente di quelli del Papa e di Hollande. Una debolezza del premier per gli status symbol del potere? Sta di fatto che appena il super-jet attira l’attenzione dei media, Renzi lo fa ritirare dalla circolazione. Due giorni fa il sito Aviazionecivile.it annunciava l’arrivo a Fiumicino, ma palazzo Chigi ha sentito l’urgenza di smentire: «L’arrivo è rinviato a data da destinarsi».

venerdì 8 gennaio 2016

il manifesto 8.1.16
Quella sobria cura della verità
Pubblicati da Aragno gli scritti di Tito Perlini, uno dei più importanti studiosi della «Scuola di Francoforte» e del nichilismo
Ma anche originale filosofo che ha operato per sganciare il marxismo dallo storicismo
di Stefano Petrucciani


Quello dell’intellettuale critico e non conformista non è mai stato un mestiere facile. Uno che lo ha praticato con coerenza e lucidità dagli anni Sessanta del Novecento fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2013 è stato Tito Perlini, di cui esce in questi giorni, per l’editore Aragno, una cospicua raccolta di scritti (Attraverso il nichilismo. Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria, prefazione di Claudio Magris, introduzione e cura di Enrico Cerasi, pp. 800, euro 40). L’itinerario intellettuale di Perlini, che l’ampia raccolta consente di ripercorrere nel suo complesso, è stato molto interessante e singolare. Perlini, che era nato a Trieste nel 1931, appartiene infatti a quel gruppo di studiosi italiani che, verso la metà degli anni Sessanta, scoprirono e importarono nel nostro Paese le tematiche della Scuola di Francoforte, allora sconosciute ai più e, anche in Germania, note molto parzialmente.
A frequentare intellettualmente e anche fisicamente Francoforte furono, in quegli anni, studiosi come Renato Solmi (di cui Quodlibet ha appena ripubblicato l’Introduzione del 1954 ai Minima moralia di Adorno), Furio Cerutti, Carlo Donolo, Gian Enrico Rusconi, che tutti diedero un contributo alla ricezione italiana del francofortismo. Ma il lavoro che, in questo campo, fu svolto da Tito Perlini, ebbe un’ampiezza senza pari.
Libertario e antiortodosso
Il punto fondamentale della questione si può ricordare in poche parole: nella ripresa del pensiero critico e nel contesto del rinnovamento della discussione marxista degli anni Sessanta, alcuni intellettuali italiani (molto diversi l’uno dall’altro per gusti e formazione) videro nella elaborazione dei francofortesi e degli autori ad essi vicini (soprattutto il giovane Lukacs ed Ernst Bloch) l’unica via teoricamente aperta per proporre un marxismo che fosse intellettualmente avanzato e politicamente libertario e antiortodosso. Ciò significava rompere con lo storicismo degli intellettuali legati al Pci, rifiutando però anche, al tempo stesso, quei tentativi di rinnovamento dove la sostanza critica e dialettica del pensiero di Marx, la sua radicalità emancipativa andava perduta: e cioè il dellavolpismo in Italia (nemico acerrimo del francofortismo) e l’althusserismo in Francia.
Molto più complesso e meno in bianco e nero era il rapporto con l’altra grande operazione di rinnovamento del marxismo italiano, e cioè l’operaismo, soprattutto di Panzieri. Qui infatti non vi era culturalmente una così radicale distanza dal francofortismo; le differenze passavano piuttosto sul piano dell’analisi sociale, perché mentre il francofortismo metteva al centro delle sue riflessioni i temi dell’industria culturale e della manipolazione consumistica, l’operaismo enfatizzava le nuove potenzialità conflittuali della classe operaia italiana.
In dialogo con le avanguardie
Tra questi diversi tentativi di rinnovamento il francofortismo era, almeno sul piano della teoria generale e filosofica, quello di gran lunga più attrezzato, perché, mentre riscopriva la genuina sostanza dialettica di un Marx letto insieme con Hegel, cercava di portarlo a fusione con tradizioni teoriche totalmente diverse; non solo Freud, ma anche Nietzsche, di cui i francofortesi evidenziavano la spietata lucidità critica, mentre per altri restava ancora un tabù. E poi, il francofortismo riusciva anche a parlare ai movimenti, come dimostrò, a un certo punto, l’incredibile successo del Marcuse de L’uomo a una dimensione, di Eros e civiltà, di Psicanalisi e politica, che proponeva un linguaggio dove si saldavano perfettamente emancipazione sociale e liberazione individuale.
I libri e i saggi di Tito Perlini furono uno strumento intellettuale molto utile nella stagione «euforica» tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. Il suo approccio teneva insieme teoria critica ed estetica; e valorizzava perciò anche un’altra grande peculiarità del pensiero francofortese, la capacità di interagire con la letteratura d’avanguardia (e la grande musica) del Novecento. L’autore sul quale Perlini dette il meglio di sé fu senza dubbio Adorno; e gli aspetti della sua filosofia che Perlini decifrò e discusse con maggiore penetrazione furono la Dialettica dell’illuminismo e l’estetica.
Non aveva torto, perché effettivamente è in questi due poli che si raccoglie il meglio della produzione adorniana. In un breve giro di anni cruciali a cavallo tra i Sessanta e i Settanta Perlini scrisse e pubblicò una quantità impressionante di pagine: in una buona collana di alta divulgazione dell’editore Ubaldini, che si chiamava «Che cosa ha veramente detto», apparvero nel 1968 i volumi dedicati a Kierkegaard e a Marcuse, nel 1971 quello su Adorno; anche se il più bello e pionieristico lavoro adorniano di Perlini resta il saggio Autocritica della ragione illuministica, che apparve nel 1969 sulla rivista «Ideologie» e che avrebbe meritato di essere incluso nella raccolta ora pubblicata. Sempre nel solco di questa impressionante produttività Perlini pubblicava, nel 1968, un ampio studio lukacsiano (Utopia e prospettiva in Gyorgy Lukacs, Dedalo, Bari); nel ’71 e nel ’74, per le edizioni Accademia, uscivano due profili dedicati rispettivamente a Lenin e a Marx: un Marx libertario e «utopico», antitetico rispetto a quello degli storicisti e degli strutturalisti.
L’emancipazione che non c’è
Ovviamente, in una così grande mole di lavoro vi sono cose più riuscite e altre meno, ma resta il fatto che Perlini ha dato un apporto primario alla conoscenza di temi e approcci teorici fondamentali, che ha percorso e indagato come pochi. Questa particolarissima stagione, però, va poi gradualmente a chiudersi. La dialettica sociale si spegne, la stagione dell’emancipazione tramonta, il clima intellettuale cambia completamente, arrivano il pensiero debole e il postmoderno. Che ne è allora del pensiero critico, e in particolare di quello d’impronta francofortese? Qui il discorso si fa più complicato. Se non riusciamo a cambiare il mondo, dobbiamo cambiare noi? E come? I percorsi degli intellettuali critici in questo passaggio di fase non sono semplici: c’è chi muta bandiera, chi lascia le vecchie strade per cercare direzioni di ricerca differenti. E chi, seguendo il modello habermasiano, si dedica pazientemente a capire cosa non funzionava nel pur affascinante modello dell’emancipazione dialettico-critica francofortese.
Tito Perlini (e anche qui sta la sua originalità) non abbraccia nessuna di queste vie d’uscita. Non quella della autoriflessione critica (e qui secondo me sbaglia, perché bisognava pur capire cosa non aveva funzionato), non quella del «pentimento». Non prende neppure la strada del silenzio, anche se la sua presenza è, dagli anni Ottanta, molto più discreta. Continua invece, come mostrano i saggi raccolti in Attraverso il nichilismo, a pensare sobriamente sulla linea della teoria critica.
Umanismo autoironico
Esemplare, da questo punto di vista, è uno degli ultimi saggi, Verità relativismo relatività, dove da buon dialettico Perlini prima demolisce senza pietà quello che chiama il «relativismo volgare», poi difende ciò che vi è di valido in tutte le relativizzazioni del nostro sapere, a cominciare da quelle che si fondano sulla prospettiva antropologica, e infine conclude che l’atteggiamento più onesto è quello di prendersi cura della verità, nella consapevolezza che cercarla è una cosa, possederla un’altra. Intenso è il confronto anche col nichilismo nicciano, che il dialettico Perlini non esorcizza ma attraversa fino in fondo, mettendone in risalto ambiguità e contraddizioni. Ben lontano è però Perlini dallo sposare Nietzsche o l’uso che ne hanno fatto i postmoderni; perché la sua prospettiva rimane, come scrive con espressione felice, quella di un «umanismo fragile e autoironico».
Non manca però, soprattutto nell’ultimo Perlini, anche un avvicinamento a filosofi che, probabilmente, ad Adorno sarebbero riusciti molto indigesti. Perlini si accosta decisamente, infatti, alla critica della modernità formulata dal pensatore cattolico Augusto Del Noce: per cui quella contemporanea sarebbe ormai una non-società, tecnocratica e «naturalmente irreligiosa», dove si sono realizzate tutte le negazioni di cui il marxismo era portatore, ma senza la parte propositiva che lo caratterizzava.
Le riflessioni di Perlini su Del Noce non sono prive di interesse e anche di forza di provocazione. Per quanto mi riguarda, però, continuo a preferire il Perlini adorniano; è nel confronto col grande francofortese che il filosofo triestino ha dato il meglio di sé e ha scritto pagine che resistono all’usura del tempo.