sabato 21 gennaio 2012

l’Unità 21.1.12
Il delirio liberista della falsa sinistra
di Paolo Bonaretti


Tra le patologie che si diffondono in questo periodo di crisi, vi è la singolare attitudine di una falsa sinistra, in realtà ultraliberista, a farsi paladina delle peggiori ricette della destra neothatcheriana e reaganiana, sepolte da oltre un ventennio perché drammaticamente fallite.
Proprio di questo fallimento, peraltro, stiamo oggi vivendo la fase più acuta e le conseguenze più nefaste. Il conato ideologico di Alessandro De Nicola su Repubblica di ieri, in forma di peana delle privatizzazioni (anzi di intimazione a vendere tutte le più importanti imprese di proprietà pubblica), appartiene a pieno titolo a questa patologia.
Nessuna persona dotata di raziocinio e in buona fede può in questi giorni proporre una campagna di privatizzazioni forzate di una parte così significativa dell’apparato finanziario e industriale strategico del Paese. L’Italia sta con fatica riconquistando un peso e un ruolo in Europa e nel mondo, e l’economia italiana ha bisogno di grandi imprese nazionali capaci di stare sui grandi scenari globali, capaci di trainare politiche industriali, per l’energia, le infrastrutture, l’innovazione tecnologica. Eni, Finmeccanica, Fintecna costituiscono punti fermi su cui appoggiare una strategia di rilancio industriale del Paese, sono tra le aziende che sviluppano la maggior intensità di ricerca, assorbono grandi numeri di capitale umano ad alta qualificazione, partecipano ai grandi programmi di ricerca e di infrastrutture a livello europeo ed internazionale. Costituiscono in sintesi uno strumento essenziale per la capacità negoziale e di crescita del Paese a livello globale.
Mettere oggi in stallo, e dunque in crisi prospettive e governance, queste imprese, semplicemente per fare cassa, costituisce un rischio sistemico inaccettabile. Che poi le privatizzazioni generino in sé efficienza è tutto da dimostrare: esistono aziende pubbliche efficienti e ben governate ed esistono aziende private inefficienti e viceversa. L’idea che la tipologia della proprietà determini in automatico la qualità dell’impresa è infondata, specie in mercati complessi dove si giocano interessi strategici nazionali. Fortunatamente il presidente Monti sa ben distinguere tra liberalizzazioni e concorrenza da un lato e privatizzazioni e ideologia mercatista dall’altro. Oggi la reputazione, la credibilità del Paese (finanche lo spread!) dipendono dalla dimostrazione della nostra capacità di crescere, di generare e distribuire ricchezza. In questo quadro le politiche economiche e industriali debbono dare quadri stabili di riferimento, puntando sulle grandi imprese nazionali come fattore di accelerazione della crescita e dell’innovazione anche del nostro sistema di piccole e medie imprese.
La privatizzazione forzata del sistema delle utilities frenerebbe invece la crescita costante e graduale di sistemi locali di imprese nel campo delle tecnologie e dei servizi energetico-ambientali e metterebbe in ginocchio la finanza locale, già fortemente colpita, mettendo in crisi il livello dei servizi alle famiglie e in definitiva la coesione sociale. Sulla privatizzazione selvaggia e senza regole dei sistemi di trasporto, il disastro del caso inglese si erge di fronte a noi, monito imperituro.
Quanto poi all’idea che tutto questo sistema di imprese in mano privata generi sviluppo ed efficienza, e addirittura aumenti di stipendi dei dipendenti (sic!), attraverso la salvifica virtù della mano invisibile del mercato è palesemente senza fondamento. Del resto deve trattarsi della medesima mano che in tutti questi anni, visti gli effetti nefasti e distorsivi, deve essere rimasta in tasca, presumibilmente dedita a pratiche onanistiche, con evidenti effetti di cecità ideologica in alcuni economisti liberisti.
Oggi abbiamo bisogno di sostenere la ricerca, lo sviluppo di economia sostenibile, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Strutture come Cassa Depositi e Prestiti, Sace e altri (che De Nicola invece invita a vendere) sono essenziali oggi per sostenere politiche di incentivazione dei programmi e lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi
(e già in parte lo fanno).

l’Unità 21.1.12
Intervista a Donald Sassoon
Capitalismo in crisi
«È fallito un modello che pareva invincibile»
Parla lo storico inglese: in Italia il dibattito è condizionato da un pensiero debole, e quindi subalterno. Tempo fa non sarebbe accaduto, il Pci era più cosmopolita
di Umberto De Giovannangeli


Studioso del movimento operaio e del Labour
È autore di diversi saggi sulla storia d’Italia, fra cui «Togliatti e la via italiana al socialismo» (Einaudi) e «Cento anni di socialismo» (Editori Riuniti)

Le cose vanno chiamate per ciò che sono, e analizzate per la loro portata, evitando di restare prigionieri, sia sul piano politico che su quello culturale, di un pensiero così debole da apparire subalterno. Non c’è dubbio che siamo di fronte alla crisi del capitalismo occidentale, sia nella sua versione americana che in quella europea, e mi riferisco in particolare ai Paesi dell’eurozona. E un pensiero critico deve essere all’altezza di questa crisi». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e studiosi della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra. Profondo conoscitore della realtà, politica e intellettuale, italiana, Sassoon ricorda, da storico, che «con la fine del Pci è tramontata una certa visione cosmopolita, che alcuni avevano bollato come velleitaria. Ma è bene avere una intelligente presunzione cosmopolita, perché ciò resta il migliore antidoto ad un realismo provinciale, miope, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, tanto non può incidere...».
Professor Sassoon, nel mondo, a partire dall’America, si discute della crisi del capitalismo, argomento che appariva tabù...
«Andiamo con ordine. Da storico vorrei far notare che di crisi del capitalismo ce ne sono state altre. Non vorrei che quelli che si considerano “nemici del capitalismo” cantassero vittoria. Perché a me sembra che ciò che è accaduto negli ultimi tempi dimostri al contrario il “trionfo del capitalismo”...».
Affermazione forte...
«Vede, un sistema economico-sociale ha veramente vinto non quando va tutto bene, bensì quando è in crisi e tutti quanti, da destra a sinistra passando per il centro, cercano in ogni modo di salvarlo. Certo, su come salvarlo esistono differenze, ma nessuna forza significativa porta avanti un’alternativa di sistema. I riferimenti continui che si fanno alla crisi del ’29 ci ricordano che negli anni Trenta esisteva un punto di riferimento “altro” sul piano sistemico: il comunismo e l’Urss. Oggi invece abbiamo lo spettacolo assolutamente sorprendente che 20-30 anni fa nessuno si sarebbe sognato di prevedere dei dirigenti del Partito comunista della Repubblica popolare cinese che fanno la predica ai dirigenti americani perché costoro non si preoccupano abbastanza delle sorti del capitalismo mondiale. Nella stessa direzione va il cancelliere dello Scacchiere britannico quando offre la City, e dunque il mondo finanziario britannico, come principale punto di riferimento per una avanzata globale del capitalismo cinese».
Restiamo sul dibattito internazionale. Secondo lei è appropriato, sul piano analitico, parlare di modello in crisi o di fallimento del neoliberismo?
«Assolutamente sì. Questa crisi mette in discussione il modello di deregulation che fu portato avanti principalmente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e in Gran Bretagna sia dai conservatori che dai laburisti. La questione cruciale oggi è definire una “regulation” che non può che essere internazionale, e qui le cose si complicano, perché a questo livello mancano le istituzioni adeguate, istituzioni che abbiano legittimità politica. Quanto ai concetti “forti”, non si devono avere remore nel definire le cose per quel che sono: il capitalismo occidentale è in crisi, e lo è sia nella sua versione americana che in quella europea. Come ci ricordano i marxisti, le crisi sono occasioni per un rimescolamento generale delle carte. Il gioco continua ma non necessariamente con gli stessi giocatori».
Un gioco che in Italia appare quanto meno titubante, rispetto a quello che si è aperto negli Usa, in Gran Bretagna e in Francia. Cosa nasconde questa incertezza, professor Sassoon? «Vede, nei Paesi che lei ha citato, se non necessariamente a livello della politica ma di certo nell’intellighenzia, si è abituati a pensare in modo globale. Per la Francia e la Gran Bretagna l’epoca degli imperi è finita da molti anni, ma la pratica dell’impero lascia una mentalità che porta a guardare a ciò che accade nel mondo come a qualcosa sulla quale occorre ragionare e, forse, intervenire. Un esempio recente: la Libia. Quando è cominciata la lotta armata contro Gheddafi, Londra e Parigi si sono subito chieste se intervenire o no. Nessun altro Paese, neanche l’Italia che pure aveva un rapporto storicamente e geograficamente stretto con Libia, si è posto questo problema con la stessa determinazione».
Mentre nel mondo si discute nel merito, in Italia il solo parlare di crisi del capitalismo è un tabù che in pochi osano infrangere.
«Lungi da me passare per un nostalgico del tempo che fu, tuttavia ricordo che quando c’era il Pci, i congressi del partito o le riunioni del comitato centrale, si aprivano sempre con una discussione sulla situazione mondiale, quasi come se facesse parte della politica quotidiana il chiedersi e ragionare sul rapporto che esisteva tra ciò che succede nel mondo e l’Italia. È come se con la venuta meno del Pci sia tramontata questa visione cosmopolita, che alcuni hanno frettolosamente liquidato come velleitaria. Ma l’esercizio di una critica fondata, di programma e progetto, allo stato di cose esistente resta, a mio avviso, una sfida irrinunciabile, affascinante. Se non si vuole restare prigionieri di un certo provincialismo succube, spacciato per realismo, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, e nemmeno provi a darne una lettura sistemica, tanto su quella realtà non può incidere. Ma questo non è realismo, è subalternità culturale oltre che politica. Ogni tanto vale la pena essere intelligentemente presuntuosi. E questo è il momento di provare ad esserlo».

Corriere della Sera 21.1.12
Neo-statalista, rigido, legato al potere, il capitalismo ha cambiato anima?
Mentre in Asia (e altrove) trionfa il modello cinese, in Occidente le maxi-imprese sono salvate dai governi
di Danilo Taino


Non ha mai avuto una faccia tanto brutta e incattivita come oggi, il capitalismo. In pochi anni, è invecchiato e si è irrigidito. Un tempo sollevava speranze, oggi non attrae più e qualche volta repelle. Non è che sia in crisi. È che è così potente da essere insopportabile. Vittima del suo stesso successo, dilagante dopo il crollo del socialismo reale, è diventato il contrario di ciò che ha sempre predicato: invece di liberare forze, come spesso nella storia ha fatto, oggi tende a schiacciarle, a limitare lo sviluppo del nuovo oppure a mangiarselo subito. La crisi finanziaria esplosa nell'autunno del 2008 è stata probabilmente la porta che lo ha introdotto in una sua fase nuova, quella della distruzione, invece che della creazione, della ricchezza.
Le proteste più evidenti contro il capitalismo di questo inizio di secolo sono quelle dei movimenti Occupy… Wall Street, la City e tutti i simboli del denaro. E quelle delle manifestazioni dei cosiddetti 99% che si oppongono alle ricchezze, ai privilegi, alle stock option dell'1% che è la classe globale, il cosiddetto Davos-Man cosmopolita, molto ben connesso con il potere, con le sue belle case, i jet privati e le mogli-trofeo. Ma, dietro le manifestazioni pubbliche, il disagio dell'Occidente contro i nuovi capitalisti è molto più vasto: perché, per la prima volta, la classe media sente che le ricchezze accumulate e le differenze sociali sono ingiuste, non meritate, non frutto di imprenditorialità, di premio del lavoro ma risultato di rendite e di partecipazione ai network del potere e del denaro. Se il capitalismo diventa un club chiuso, ha finito di essere la forza motrice del mondo che è stato per decenni.
La consapevolezza di questa nuova fase storica è forte soprattutto nei santuari del capitalismo moderno, anglosassoni. Da alcuni giorni, il quotidiano finanziario della City di Londra, il Financial Times, dedica articoli e articoli a un dibattito che va sotto il marchio Capitalism in Crisis. Ieri, il settimanale che in oltre 200 anni di storia si è caratterizzato come il maggiore sostenitore del liberismo, il londinese Economist, ha dedicato la copertina alla crescita del capitalismo di Stato. Succede che i vecchi paradigmi sui modelli di capitalismo si sono come dissolti, sembrano non avere più senso: contrapporre il modello anglosassone a quello renano, di gran moda fino per vent'anni, fa sorridere, oggi che sulla scena il modello crescente è quello centralizzato cinese. In discussione è l'anima stessa del capitalismo. E la domanda che sale, a Occidente come a Oriente, è questa: c'è ancora una relazione creativa tra capitalismo e mercato oppure il primo ha appiattito se non azzerato il secondo?
La globalizzazione ha portato sotto l'ombrello capitalista gran parte del mondo: la Cina, l'India, il Vietnam e quasi tutta l'Asia, oltre che molti altri Paesi un tempo attratti dalle economie pianificate o da modelli caotici, dal Sudafrica al Brasile. In questi Paesi, però, non è stata l'economia aperta a trionfare, il libero gioco degli individui che alla fine risulta nella benefica mano invisibile del mercato. Per costruire le loro economie, spesso gli ex Paesi poveri ricorrono alla creazione di enormi aziende controllate dallo Stato — o dal regime come nel caso della Cina. Potenti conglomerate che usano denaro pubblico e agganci politici per farsi spazio nelle economie domestiche e internazionali. Sono le società dell'energia come la saudita Aramco, la russa Gazprom, l'iraniana Nioc, la Qatar Petroleum, la Petrochina che ormai dominano il business del greggio e del gas. Sono le telecom, le imprese di costruzione, le banche, le società minerarie dei Paesi emergenti che, appoggiate e finanziate dai loro governi, stanno dando l'attacco ai mercati internazionali a suon di acquisizioni.
Il fenomeno non è in sé nuovo. Anche la East India Company britannica fu, più di tre secoli fa, sostenuta dalla corona britannica nella sua espansione in Asia e fu funzionale alla nascita del capitalismo. Nuovo è il fatto che queste portentose imprese — capitaliste nella logica ma di Stato nella proprietà — stiano attaccando il modello privato conosciuto finora. E con notevoli successi. A livello globale, nell'energia oltre il 65% delle imprese (in valore) è controllato dallo Stato; nei servizi come acqua, telefoni, luce, oltre il 50%; in finanza il 35% e via dicendo. Tra i maggiori dieci gruppi internazionali per capitalizzazione, già quattro sono controllati da governi: la cinese Sinopec, la China National Petroleum Corporation, la rete elettrica della Cina, le Poste giapponesi. L'80% del valore della Borsa cinese è fatto da imprese pubbliche. In Russia siamo al 62% e in Brasile al 38%. Il legame tra capitalismo e privato, in altri termini, non è più un fatto scontato, anzi: nei Paesi emergenti il capitalismo è una delle facce dello Stato (spesso totalitario). Non solo: il modello cinese sta prendendo piede in molte altre parti del mondo, per esempio in Africa e nell'America Latina.
Il fatto più straordinario è però che lo Stato sia sempre più determinante anche in quella che una volta era la terra del libero mercato, l'Occidente. La crisi finanziaria ha mostrato al mondo l'esistenza di imprese — soprattutto banche ma non solo — così grandi, intrecciate a infiniti settori dell'economia e così potenti da rappresentare elementi di sistema, cioè qualcosa che è privato nella forma (e nei profitti) ma ha una caratteristica pubblica, perché se fallisce crea disastri a tutti. Sono le cosiddette imprese too-big-to-fail, troppo grandi per fallire, che di fatto hanno imposto a tutti l'obbligo di salvarle con denaro dei contribuenti anche quando dovrebbero finire a gambe all'aria.
In altre parole, il capitalismo è sempre più intrecciato allo Stato, a Oriente come a Occidente, nei Paesi poveri come in quelli ricchi. Ciò significa, nella grandissima parte dei casi, corruzione, scambi di favori tra politica e business, formazione di élite cooptate e non fondate sul merito e soprattutto pratiche brutali per tenere fuori dagli affari chi non ha protezioni, con conseguenti barriere alte all'ingresso e limitazioni della creatività e dell'innovazione. In sintesi, nei Paesi emergenti il modello cinese avanza. E nei Paesi ricchi siamo di fronte a un capitalismo che premia poche oligarchie, cresce sulle rendite e così facendo distrugge il capitale, cioè il lavoro, tanto che la quota di reddito che va ai salari rispetto a quella che va alle rendite è in costante calo (in America al 58%, dal 63% medio dei 65 anni precedenti). Un capitalismo che ha sempre meno consenso, che ha perso parte del suo ruolo di arricchimento della società e dunque anche in Occidente ha bisogno dello Stato e della politica per mantenere le sue caratteristiche. Brutto e invecchiato, appunto: se continuerà su questa strada, non riuscirà più a produrre le meraviglie di Google, Apple, Facebook. E spudoratamente anti-mercato.

TamTam

Corriere della Sera 21.1.12
La scelta dei democratici: distanziarsi dall'esecutivo
Ma i veltroniani: appoggio totale e congresso a maggio
di Maria Teresa Meli


ROMA — C'è un sondaggio che inquieta il Pd. C'è un sondaggio dietro la decisione di Pier Luigi Bersani di non nominare mai il nome di Mario Monti nella relazione con cui ha aperto la due giorni dell'assemblea nazionale del Partito democratico. Oltre il 70 per cento crede che nel 2012 la situazione nel nostro Paese l'Italia peggiorerà. L'11 per cento delle famiglie italiane ha già avuto un componente che ha perso il lavoro. La fiducia nei partiti si attesta attorno al 12 per cento. Cresce solo il consenso nei confronti del sindacato, perché, spiegano gli intervistati, sono gli unici che difendono i lavoratori.
Sono dati che fanno accapponare la pelle ai dirigenti del Pd. Tant'è vero che Rosy Bindi nel presentare i lavori del parlamentino del Partito democratico non riesce a non lasciarsi sfuggire un «Il Pd non è il governo Monti». Bersani, ovviamente, è più cauto. Ma non si spinge ad abbracciare in tutto e per tutto la politica del premier. Non solo, il segretario del Pd, nel suo discorso, fa una premessa che la dice lunga: «Non tutto è nelle nostre mani, siamo minoranza in Parlamento». Come a dire, anzi, a ribadire, che non esiste una maggioranza di governo, ma solo un'aggregazione di partiti che in questa fase contingente appoggiano lo stesso governo.
Insomma, il Pd non vuole metterci la faccia. Non sa come andrà a finire l'avventura del nuovo esecutivo e non intende pagare tutte le conseguenze di un eventuale insuccesso. Non si può dare per scontato che tutto quello che farà il governo piacerà al Pd. «E quando accadrà lo diremo», dice senza problemi Bersani. Che, tanto per mettere i puntini sulle «i», avverte: «Basta con le manovra d'aggiustamento, all'Italia non si può chiedere di più». Ma la vera delusione per Bersani riguarda il capitolo liberalizzazioni: «Si può fare di più e di meglio. E con maggiore immediatezza. Mi riferisco in particolare a quelle materie che incidono direttamente sulle tasche dei cittadini, dei pensionati, delle famiglie numerose: parlo quindi di farmaci, parafarmaci, gas, assicurazioni e banche. Bisognerà tornare a discuterne in Parlamento».
Effettivamente il Pd si aspettava di più. Lo ammette il responsabile economico del partito Stefano Fassina: «Su alcuni punti ci sono stati dei passi indietro». Lo conferma la responsabile Impresa Paola De Micheli: «Il nostro messaggio è chiaro: Monti, ti incalzeremo: non essere timido perché se vai avanti, noi ti seguiremo».
Ma c'è un altro elemento di diffidenza che si è insinuato tra il gruppo dirigente del Pd e il governo. Spiega Bersani: «Siamo la forza principale: nessuno potrà pensare di prendere alle spalle il Pd in un passaggio delicatissimo per il Paese». Per dirla in breve: prima o poi toccherà a noi governare. Non la pensano nello stesso modo i veltroniani, che stanno con Monti «senza se e senza ma» e che immaginano così il futuro: «Bisognerà fare un'alleanza tra il Pd e il Terzo polo, candidando alla presidenza del Consiglio un esponente dell'attuale governo». Bersani tace ma non acconsente. E aspetta al varco gli avversari interni. Alcuni di loro chiedono il congresso nel prossimo maggio. Il leader ha una road map diversa: le assise nazionali si terranno dopo le elezioni politiche.

il Riformista 21.1.12
De Benedetti e i partiti
di Emanuele Macaluso


Ieri il Fatto ha pubblicato una pagina con le anticipazioni del libro di Marco Damilano, Eutanasia di un potere, consistenti nell’intervista data da Carlo De Benedetti all’autore.
Ne parlo nell’editoriale di questo giornale perché affronta un tema, il rapporto tra partiti e Poteri più o meno forti, cui parla l’editore dell’Espresso e di Repubblica, riferendo fatti che si sarebbero verificati negli anni settanta-ottanta. C’è un pezzo dedicato a Craxi che l’ingegnere considerava «un bandito con atteggiamenti fascistoidi» a cui però negli anni 80 era «difficile dare torto nell’esigenza di modernizzazione», parla delle tangenti che lui e altri erano «costretti» a pagare all’amministratore del Psi, Balzamo. E accenna come cinicamente Craxi si fece largo tra Pci e Dc. Racconta anche di una riunione, fatta in casa Formenton con il ministro democristiano Marcora, «con Pirelli, Lucchini, Romiti e l’establishment milanese» per discutere la candidatura a segretario della Dc di De Mita. Il quale udite! udite! quando fu eletto «chiamava Scalfari tutte le mattine: c’era una sudditanza impressionante...». E chiarisce: «Scalfari pensò di potere gestire De Mita e, attraverso di lui, la Dc. Fino a quel momento aveva provato a gestire il Pci e c’era riuscito». Il Pci di cui si parla era quello con Berlinguer segretario. Chi conosce la storia di quel partito sa bene che questa influenza scalfariana sul Pci fu certo tentata (ne ho parlato anche su queste colonne ricordando le mie polemiche col fondatore di Repubblica negli anni in cui dirigevo l’Unità), ma è ridicolo pensare che Scalfari «gestisse il Pci». Non gestì nemmeno la Dc, anche se ebbe un rapporto forte con De Mita. Dc, Pci e Psi erano partiti forti con un rapporto con i loro iscritti ed elettori, e non potevano essere «gestiti» da altri.
Tuttavia, ecco la ragione per cui scrivo questo editoriale: un ricco signore che in passato, e ancora oggi, esercita un “potere forte” nel mondo economico e in quello dei media, manifesta una concezione padronale della politica, al punto da ritenere che Scalfari (cioè il suo gruppo) «gestisse» la Dc e il Pci.
Il tema, però, è di grande interesse: non solo da un punto di vista storico, ma politico e attuale. In questi anni abbiamo avuto un partito padronale che ha governato il paese. E l’ha governato con la politica e con enormi mezzi usati anche per ottenere, e mantenere, un alleanza (la Lega) e un potere nel mondo dell’economia e dei media.
l caso più evidente e clamoroso, anche perché a un certo punto, nel cuore di una crisi politica, Berlusconi ha operato senza mediazioni, direttamente e personalmente. Ma altri non sono rimasti con le mani in mano come si usa dire. Non penso che il gruppo De Benedetti, in questi anni, abbia «gestito» il centrosinistra, ma l’opera per fornirgli una cultura politica, e a volte di suggerire comportamenti e iniziative, non è mancata.
I partiti oggi sono fragili, i gruppi dirigenti deboli per acquisire e mantenere una forte autonomia. Ma il problema posto, quello del ruolo dei partiti e del loro rapporto con i poteri più o meno forti, è aperto. Anche perché nonostante la crisi un partito con un forte padrone c’è ancora.

l’Unità 21.1.12
Intervista ad Anna Finocchiaro
«Cancellare subito la vergogna delle dimissioni in bianco»
La presidente dei senatori Pd: «Usano questo strumento per aggirare l’articolo 18
Noi in prima linea in una battaglia di civiltà. Il centrodestra dovrà cedere all’indignazione»
di Maria Zegarelli


Un appello alla ministra Elsa Fornero lanciato da 14 donne e subito sottoscritto da altre 188, proprio il numero di quella legge contro le dimissioni in bianco che il governo Berlusconi ha cancellato. E poi, un passaggio del discorso del segretario Pd, durante l’Assemblea di ieri, affinché sul tavolo di lavoro per la riforma del mercato entri in primo piano anche il ripristino di quelle norme di civiltà spazzate via proprio mentre la crisi, che il centrodestra ha negato fino alla scorsa estate, logora posti di lavoro e quelli delle donne un po’ di più.
Anna Finocchiaro, capogruppo dei democratici al Senato dice che la questione «non è tornata al centro dell’attenzione, perché per il Pd c’è sempre stata».
Presidente, tante dichiarazioni di intenti, ma la legge ancora non c’è. Adesso l’appello trasversale di moltissime donne al ministro. E il Parlamento?
«Questa è una battaglia che noi democratici non abbiamo mai abbandonato. La reintroduzione del divieto di dimissioni in bianco è stata oggetto di nostri interventi in Aula, di emendamenti, sempre bocciati dal centrodestra, e proposte di legge sia alla Camera sia al Senato. Sono state soprattutto le senatrici e le deputate a tenere sempre alta l’attenzione su questo tema e lo dico non per fare una rivendicazione fine a se stessa, ma per ribadire che questa battaglia, che ritorna oggi di attualità sui media, grazie anche a questo appello di tante donne impegnate in politica, nel sindacato, nel mondo dello spettacolo e della cultura, che io stessa ho sottoscritto, il Pd non ha mai smesso di combatterla».
Non ripristinare quella legge potrebbe essere ancora più drammatico per le donne, ma anche per gli uomini, con l’acuirsi della crisi e la recessione in atto. Perché aspettare?
«Di fronte all’incalzare della crisi e all’ulteriore mortificazione dei diritti del lavoro, la questione è di assoluto rilievo. Per evitare la pratica delle dimissioni in bianco non ci vogliono meccanismi complicati né costi aggiuntivi. Lo strumento c’è, è quello sperimentato nel 2006 dal governo Prodi: le dimissioni vanno compilate in moduli con numeri progressivi e non possono avere una data che vada più indietro dei 15 giorni dal momento della presentazione. Non c’è motivo per rinviare, la discussione della norma va messa immediatamente all’ordine del giorno sia alla Camera che al Senato».
La domanda è: perché il centrodestra dovrebbe dire sì oggi quando ha detto no fino a ieri?
«Perché potrebbe cominciare a vergognarsi se non lo facesse e a far crescere il senso di vergogna sarebbe quel sentimento di indignazione che sta crescendo tra gli uomini e le donne di questo Paese. Quella norma, infatti, riguarda tutti e aggiungo che lo strumento delle dimissioni in bianco è un modo di aggirare l’articolo 18».
Il governo dice che per ora l’articolo 18 non è all’ordine del giorno. Se dovesse tornarci, il Pd riuscirebbe a trovare una sua posizione?
«Per quanto riguarda il Pd l’articolo 18 non è in discussione e non è discutibile. Io starei però attenta perché, mentre vedo che monta il dibattito su una presunta e ipotetica volontà del governo di modificarlo, non noto altrettanta attenzione alle decine e decine di posti di lavoro che saltano ogni giorno».
Il Pd appoggia questo governo con lealtà senza rinunciare a dire la propria, ha spiegato Bersani. Insomma, ci siete ma non siete il governo. «Noi siamo leali e lo dimostriamo ogni giorno in Parlamento. Lo siamo soprattutto perché non rinunciamo, nelle sedi appropriate, a rappresentare le nostre posizioni, i nostri rilievi e la posizione del nostro partito sulle questioni che stiamo affrontando e che affronteremo in futuro. Né, d’altra parte, ci si può aspettare di meno dal più grande partito italiano e da una forza seria e responsabile che appoggia questo governo ma che si candida a guidare il prossimo». Con chi lo guiderete? Bersani su questo non si è sbilanciato.
«Noi lo guideremo, questo è sicuro perché nessuna alleanza si crea a prescindere da noi. Vediamo chi vorrà condividere il nostro progetto di Paese».
Però nel Pd c’è chi chiede un congresso anticipato per decidere la linea politica anche in vista delle elezioni.
«Non vedo dove sta il problema. Un congresso del Pd non è come un congresso della Lega, siamo abituati a farli e se la maggioranza lo chiede non vedo perché non si dovrebbe fare. Mi fa aggiungere un’ultima cosa?».
Cosa vuole aggiungere?
«Osservo che i congressi servono anche a consolidare le leadership che già ci sono, non soltanto a crearne di nuove».

La Stampa 21.1.12
Castellucci: contro di me una fatwa cristiana
Il regista del discusso “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” “Non mi interessa lo spettacolo, è l’atmosfera che mi spaventa”
di Francesco Bonami


Romeo Castellucci (foto sotto), classe 1960, vive a Cesena, il suo buen ritiro, da dove con la oramai storica Societas Raffaello Sanzio progetta le sue travolgenti tappe europee e mondiali : il suo ultimo spettacolo «Sul concetto di volto nel figlio di Dio» (foto a sinistra) dovrebbe andare in scena a Milano al Teatro Franco Parenti martedì prossimo

Avevamo intervistato Romeo Castellucci in occasione delle violente proteste contro il suo spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio in Francia. Oggi però la situazione sta assumendo tinte molto più cupe dopo che anche il Vaticano si è schierato a favore di gruppi che Castellucci non ha timore a definire con amarezza «fascisti e antisemiti». Abbiamo raggiunto il regista a Cesena, il suo buen ritiro, da dove con la Societas Raffaello Sanzio progetta le sue travolgenti tournées. E’ forse l’unico vero erede di Carmelo Bene ma l’impatto internazionale del suo teatro è di gran lunga superiore a quello dell’insuperabile maestro.
Castellucci, come si spiega una reazione così dura?
«Quando lo spettacolo aprì a Parigi tutti giornali hanno diffuso notizie false dicendo che si gettavano veri escrementi sull’immagine di Cristo. Cosa assolutamente non vera, veniva usato semplicemente colore».
Ma Parigi è acqua passata, adesso addirittura il Papa ha preso posizione contro lo spettacolo.
«Ci troviamo davanti ad una specie di “fatwa” cristiana e la cosa è gravissima. Una cultura che vuole tornare all’inquisizione e alla censura dell’arte. Dello spettacolo non me ne frega niente, è l’atmosfera che mi spaventa.
Un’atmosfera che vuole la morte dell’arte dimenticando che arte e religione sono nate mano nella mano. L’arte è nata come gesto sacro. E’ grave che le autorità ecclesiastiche ascoltino la voce di gente che sta facendo il processo alle intenzioni, attaccando violentemente attori, spettatori, minacciando la libertà di pensiero. Rifiutando il dibattito. Considerando nemici tutti coloro che parlano del volto di Cristo fuori dagli stereotipi. Perchè il Vaticano non accetta il confronto e l’incontro con chi parla una lingua diversa da quella dogmatica? Io sono disponibile. In un momento in cui la le religioni hanno acquistato una potenza identitaria così forte, negare la sua interpretazione da parte dell’arte è pericolosissimo».
C’è chi dice che tutto questo le fa pubblicità.
«Non è questo tipo di attenzione che mi interessa e che cerchiamo».
L’arte, il teatro, possono aiutare a ritrovare immagini sacre per la nostra società?
«Certo. C’è infatti questa gelosia, invidia, per arte che è in grado di produrre immagini spirituali, immagini che ti possono ancora mettere in crisi».
Una crisi che sfocia in violenza «Si è scatenata una campagna violentissima come si era già avuta, qualche anno fa, davanti alla fotografia Piss Christ dell’artista Andreas Serrano».
Una provocazione ?
«Assolutamente no. Il problema è che la gente non sa più riconoscere un immagine assolutamente cattolica, che passa attraverso il corpo, che fa parte della passione. Non c’è più nulla di blasfemo nell’urina e nelle feci una volta che Gesù ha deciso con l’Eucarestia di passare dal nostro corpo».
La religione che fa scandalo e che è attaccata dal fondamentalismo religioso, una contraddizione.
«Una contraddizione enorme fra questa vena iconoclasta e la foga di apparire della Chiesa. Ma quando la Chiesa abbraccia la comunicazione è il segnale di una malattia terminale».
Quale dovrebbe essere la risposta della Chiesa al nostro tempo?
«Piuttosto il silenzio. Non certo le dichiarazioni e gli slogan» Cosa muove le persone che ti attaccano?
«Sono manipolati da qualche politico molto scaltro. Ma la cosa lugubre è che sono diciottenni vestiti benissimo. Qualcosa che ricorda la gioventù nazista .. Nessuno si capacita di questa violenza non solo verbale. A Rennes la polizia ha dovuto chiudere il centro. In sala hanno trovato cinque coltelli».
Hai paura?
«Moltissima. Gli attori però sono i veri eroi quando salgono sul palcoscenico».
Una reazione molto simile a quella dei fanatici islamici.
«Assolutamente simile. Infatti in Francia i fondamentalisti islamici si sono uniti ai giovani cattolici perché secondo loro offendevo anche il profeta Issa che poi è Gesù».
La sindrome di Salman Rushdie «Un po’ quel rischio c’è. Mi mandano link con immagini di veri cadaveri, dicono che mi uccideranno».
Ma cosa ci sarebbe di blasfemo nel tuo spettacolo?
«Nulla di blasfemo. Il nome di Dio è blasfemo per l’Antico Testamento. Per l’arte condanna o redenzione è la stessa cosa. Ma l’assurdo è chi attacca lo spettacolo non lo ha neanche visto».
Ce lo spieghi lei.
«Un piano sequenza, questo padre incontinente e il figlio che gli cambia il pannolone tante volte. Sullo sfondo il famoso Cristo di Antonello da Messina. A poco a poco il salotto è invaso da pannoloni. C’è un aspetto iperrealista con anche l’odore. L’equazione: feci=Gesù ha scatenato reazioni violentissime».
Si meraviglia?
«Ma la “merda” è la materia per antonomasia, ciò che rimane».
C’è anche una metafora politica.
«Sicuramente. Quando lo abbiamo presentato ad Atene gli spettatori lo hanno visto come l’eredità lasciata dai padri ai figli costretti a pulire la loro merda economica e sociale».
«E’ come se Gesù appartenesse a questa gente. Sarebbe bello poter liquidare il tutto con una risata ma non si può» I media da che parte stavano in Francia?
«Dalla parte della libertà di espressione ma in modo ambiguo. Tutti sanno che non sono un provocatore. Ma faceva notizia e comodo continuare a portare avanti questa immagine falsa della provocazione. Ho sentito l’impotenza di dire la verità. Una tragedia della comunicazione. Ma la buona notizia è che ancora è possibile fare uno spettacolo teatrale che scuota l’attenzione dell’opinione pubblica».
Cosa vuol dire fare cultura ?
«Scegliere. Scegliere di guardare. Quando si fa cultura si sceglie di stare con gli altri».

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
Ama il prossimo tuo Il decimo comandamento che illumina «tutta la Legge e i Profeti» secondo Enzo Bianchi e Massimo Cacciari
Con l’agape l’impossibile è la misura dell’amore
di Federico Vercellone


Enzo Bianchi Massimo Cacciari AMA IL PROSSIMO TUO Il Mulino, pp.141, 12

C'è un comandamento che riassume compiutamente l'insegnamento di Gesù, ed è l'ultimo: «Ama il prossimo tuo». Il decimo comandamento realizza il mandatum novum, suggella il nuovo patto tra Dio e il suo popolo. Quello che così si configura è un cammino che travolge i confini. Su questa via il cristianesimo si configura come religione universale.
A ricordarcelo sono Enzo Bianchi e Massimo Cacciari in Ama il prossimo tuo, il magnifico libretto dedicato al decimo comandamento che hanno scritto per Il Mulino. Il volume si compone di due saggi. Il primo, di Enzo Bianchi, è intitolato Farsi prossimo come amore, e il secondo di Cacciari, Drammatica della prossimità. I testi compendiano il versante storico-religioso e teologico e quello filosofico della questione.
Enzo Bianchi ci guida attraverso la tradizione ebraica e quella cristiana. Il decimo è un comandamento che suona sempre come una sfida; e lo è forse a maggior ragione in un'età come la nostra che è stata definita anche come l'epoca della «morte del prossimo». L'amore, ricorda Enzo Bianchi, è un appello costante a uscire da se stessi; e il comandamento ammonisce, come ricordava già S. Girolamo, che ogni uomo va considerato prossimo per l'altro uomo. L'insegnamento ad amare il prossimo come te stesso, nell'Antico Testamento, compare nel Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Non abbiamo a che fare con una concezione individualistica dell' amore, poiché, come si evince dal contesto, l'intento del passo del Levitico è quello di fare di Israele una comunità giusta e solidale fra i suoi membri. Ciò nondimeno avviene nel quadro di un'equilibrata interazione tra responsabilità individuale e dimensione collettiva
Al di là del modo in cui si può intendere nella Bibbia ebraica il comandamento, non è possibile non riscontrare come il mandatum novum rappresenti una delle grandi fratture prodotte da Gesù nei confronti del giudaismo, uno dei punti in cui egli si allontana dalla religione dei padri per esprimere una nuova interpretazione della Legge fondata sull'ermeneutica dell' amore. Come insegna il Vangelo di Matteo, il decimo comandamento diventa il punto di vista attraverso il quale bisogna leggere la Bibbia, un fuoco che illumina «tutta la Legge e i Profeti», un esempio incarnato da Gesù che fa della sua vita un capolavoro d'amore. «Da questo», dice il Vangelo di Giovanni, «tutti sapranno che siete miei discepoli».
Tutto ciò è assolutamente drammatico. Abbiamo a che fare, come magistralmente sottolinea Massimo Cacciari, con un sentimento del tutto paradossale, «con una compassione che non conosce gelosia, e che non ha altro scopo che liberare l'amato». Ogni traduzione risulta arrischiata nel confronto con il contenuto assolutamente paradossale del messaggio evangelico. Con il decimo comandamento si va ben oltre il concetto greco di philia, che non esclude che sia meglio fare il bene che riceverlo. Con il cristianesimo abbiamo a che fare con un passo che va decisamente oltre ogni amore antico. Quello che qui si annunzia è l'agape, l'amore che non ha innanzi tutto da fare con le relazioni umane ma con il rapporto che Dio intrattiene con se stesso attraverso il Figlio. In quanto il Padre si realizza nell'unità con il Figlio abbiamo a che fare con un amore che sfonda ogni limite, per accogliere entro di sé la sofferenza che affligge l'amato. E' un amore che sceglie dunque l'impossibile come propria misura. E mostra così che l'amore è ogni volta un obolo infinito che riconosce l'altro prima di noi stessi. Che lo assegna alla sua singolarità assoluta. Realizzandosi l'amore del prossimo si dimostra di volta in volta come il più potente degli impossibili. "Un appello costante a uscire da se stessi, ogni uomo considerato prossimo per l’altro uomo Oltre il concetto greco di philia, che non esclude che sia meglio fare il bene che riceverlo"

l’Unità 21.1.12
I nazisti di oggi? Quell’1% di ricchi
Art Spiegelman A Torino una lezione sul fumetto del creatore del celebre «Maus»: «Ogni volta che c’è una crisi economica comincia a soffiare
il vento dell’antisemitismo e del razzismo: è il socialismo degli idioti»
di Silvio Bernelli


Che diavolo è successo al fumetto? È questa la domanda che Art Spiegelman, il celebrato creatore di Maus, pone alle sue legioni di lettori. Un modo per dire che il mondo dei fumetti è radicalmente cambiato negli ultimi anni, da quando insomma il graphic novel, la narrazione per immagini, è stata finalmente riconosciuta come forma autonoma d’arte. Un’affermazione critica che deve molto proprio al suo Maus: un graphic novel in cui Art Spiegelman metteva in scena la storia personale del padre Vladek imprigionato nel campo di concentramento di Auschwitz, raffigurando gli ebrei come topi e i nazisti come gatti. Oggi sono passati venticinque anni dalla sua pubblicazione e l’autore ha deciso di portare in giro per il mondo una lezione per immagini, intitolata appunto What the %@&*! Happened to Comics? L’unica data italiana di questo evento, un vero tour cronologico nella storia del fumetto, nonché un grandioso successo di pubblico, è stata giovedì scordo al Circolo dei lettori di Torino.
MENTE, PAROLE E IMMAGINI
Giaccia spigata grigia in tono con la camicia, i capelli lunghi degli ex ragazzi degli anni ’60, Spiegelman si presenta come un uomo gentile ma deciso, sottilmente spigoloso. Soprattutto, ci tiene ad essere un uomo di questi tempi. «Benché sia un disegnatore, non rifiuto il mondo della tecnologia. Potete vederlo anche dalla sigaretta elettronica che tengo tra le dita. E anche i comics sono moderni. Sono il collegamento tra il mondo dello scorso secolo e questo, proprio perché utilizzano simultaneamente diversi strumenti di comunicazione, come il disegno e il racconto. Negli Stati Uniti, dove oggi le case editrici sono terrorizzate dall’affermazione dell’ebook e di internet, la sezione fumetti è quella che spesso registra il maggior successo di vendite. D’altronde i comics sono il mezzo più semplice per entrare nel cervello delle persone: noi infatti pensiamo per immagini, e anche i nostri pensieri sono delle piccole esplosioni di parole». Gran parte della chiacchierata con Spiegelman è dedicata al suo famosissimo Maus, con il quale rivela di avere un rapporto impegnativo e complesso. «So che grazie a Maus vengo considerato il padre del graphic novel, ma sto ancora chie-
dendo la prova del dna... A parte gli scherzi, bisogna tenere presente che graphic novel è una definizione data dal marketing, non riguarda l’essenza del lavoro. L’Europa è da sempre ostaggio di alcuni vecchi concetti, legati alla purezza dell’opera d’arte. Oggi però siamo entrati in una nuova era e possiamo vedere come una forma narrativa che comprenda sia l’aspetto del disegno sia quello della scrittura, non sia più da considerarsi una forma narrativa inferiore. Detto ciò, non so se riuscirò mai a togliermi la maschera di Maus, ma continuerò a provarci. Giusto due mesi fa ad esempio è uscito questo libro complesso, MetaMaus (la storia della sua creazione, ne ha scritto in queste pagine Sara Antonelli ndr.), e quando ne parlo so che indosso la maschera di me che viene fuori da MetaMaus. Diciamo che ogni volta quando torno a casa, nel mio studio, sta a me vedere cosa è rimasto sotto la maschera». Un grande artista, sicuramente, ben conscio che il suo capolavoro ha una portata che va molto al di là del racconto per quanto spiazzante e originale dello sterminio degli ebrei. «Oggi i nazisti e i topi, gli aguzzini e le vittime di Maus, non sembrano più divisi per categorie razziali, quanto più per categorie economiche. Da una parte ci sono i ricchi, i gatti, che sono l 1’% della popolazione; dall’altra i poveri, i topi, che sono il 99%. Ciascun paese oggi sembra avere le proprie vittime. Negli Stati Uniti sono i neri e gli arabi, in Italia probabilmente gli abitanti del Sud. È vero comunque che in giro si respira una brutta aria di antisemitismo, lo stesso di sempre. Un vento che soffia ogni volta che c’è una crisi economica. Anche il campo di sterminio di Auschwitz è in fondo figlio del crollo di Repubblica di Weimar e della crisi economica degli anni ’30. Le tragedie però tendono tristemente a ripetersi. Dopo i campi di sterminio nazisti si era detto: “Non deve succedere mai più”, poi c’è stato il massacro tra Tutsi e Hutu, quello tra serbi e bosniaci... L’antisemitismo e il razzismo sono sempre il socialismo degli idioti». Esauriti i temi più politici del suo lavoro, Spiegelman confessa quanto nasca da lontano la sua passione per il fumetto. «Io sono cieco da un occhio, mi è stata negata la visione tridimensionale. Il mondo bidimensionale delle tavole disegnate per me è la realtà. Quand’ero bambino non potevo andare a giocare a baseball con gli amici, non vedevo la palla che arrivava, non valutavo la profondità degli spazi. Appena uscivo da scuola andavo di corsa in biblioteca a leggere fumetti e romanzi». Poi il piccolo Art tornava a casa. E, con un occhio solo o no, disegnava. Per fortuna.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
L’Europa non volle vedere il treno per i Lager
di Elena Lowenthal


Auschwitz è il buco nero della nostra storia: una voragine cieca e incolore dopo la quale nulla è più come prima. Ma non è uniforme, l’oscurità di questo non luogo che sta dentro il nostro mondo, abita la nostra civiltà anche se preferiremmo tutti sbarazzarcene, fare come se non fosse mai successo. Il male non è mai uguale a se stesso, ha fantasia. Sorprende prima ancora di spezzare: sfida l’umanità a inventare. Auschwitz non è il male assoluto perché, e forse purtroppo, il male assoluto non esiste - c’è sempre qualcosa che è peggio, più crudele, più basso. E il buio di quel luogo, di quel tempo, di quell’orrore, conosce un’infinità di sfumature: come se il nero non fosse assenza di luce e colore, ma una gamma inesauribile di oscurità.
Perché Auschwitz è stato il campo di sterminio, è stato le camere a gas, sono stati i forni crematori e l’umanità sfigurata nelle baracche e nelle adunate del mattino. I cumuli di capelli e di denti e di scarpe. Ma è stato anche altro. Non si può dare un voto al dolore e dire: questo è il più terribile, questo è peggio. Ma accostare, sì. Provare a immaginare. Immedesimarsi, malgrado una distanza abissale. Sapere che quell’inferno aveva molte facce, non una soltanto.
Auschwitz, dunque, è stato non solo laggiù, nella campagna polacca sulla quale la cenere dei forni ha continuato a depositarsi per molto tempo dopo, ancora. E’ stato anche nei luoghi di raccolta, meta dei rastrellamenti. Nei vagoni merci che attraversavano l’Europa in lungo e in largo, si fermavano nelle stazioni. Volendo, fra le fessure del legno, attraverso gli spioncini, si sarebbero visti occhi, scampoli di facce. Volendo, si sarebbero potuti ascoltare i lamenti, le voci. E invece, l’Europa si è fatta attraversare da questi treni come una pista di ghiaccio dove i pattini passano e lasciano una minuscola riga, che subito sparisce.
Sono tanti, i luoghi di mezzo della Shoah: là dove lo sterminio era presagio e certezza al tempo stesso. Là dove Auschwitz era ancora soltanto un’ombra, eppure pesante e feroce. Anticamere dell’inferno, ma anche inferni essi stessi. Ne Il vagone (Mondadori, traduzione di Marco Bellin, pp. 152, 10) Arnaud Rykner prova a fare il viaggio: accompagna l’ultimo treno di deportati in direzione Dachau, giorni e giorni di un tragitto che durerebbe molto meno, prolungato per seminare morte e sofferenza sui binari. La sua è un’operazione letteraria ardua, ai limiti dell’impossibile. Difficile dire se ci sia riuscito o meno. Come si fa a immaginare - e raccontare - quello che si è provato lì dentro? Rykner riesce soprattutto a dar conto dell’assurdo isolamento di quei convogli: se Auschwitz è un altro mondo, quei treni erano ancora in questo. Questo mondo li ha vergognosamente fatti passare, li ha digeriti nello stomaco della propria storia.
Prima dei vagoni merci, ci sono stati i rastrellamenti. Abbiate Pietà di mio Figlio (a cura di K. Taieb, D. Missika, Sperling e Kupfer, pp. 210, 17; pubblicato sulla scia del romanzo La chiave di Sara, di Tatiana de Rosnay, Mondadori, pp. 321, 17, ora anche film) riporta le lettere di alcuni fra gli ebrei rinchiusi al Vel d’Hiv a Parigi. Fra il 16 e il 17 luglio del 1942, 3031 uomini, 5802 donne e 4051 bambini (sì, bambini) vengono rastrellati e rinchiusi qui dal governo di Vichy, in attesa di essere deportati. Queste diciotto lettere sono piene di paura e raccomandazioni, di testamenti e quotidianità. E’ un libro terribile perché toglie il velo a una pagina francese rimasta piuttosto taciuta. «Miei cari Roland, Annie e Paule. Sono le 4 del mattino. Sono venuti a prenderci. Vi dico addio, mi pento di tutto il male che potrei avervi fatto e delle preoccupazioni che vi ho procurato. Sappiate che vi ho amato sopra ogni cosa, anche se non ho potuto dimostrarlo». Ancora una volta, al Vel d’Hiver la civile Europa mostra di cosa è stata capace: e mica solo i nazisti occupanti. No, non solo loro.
Ma prima di Auschwitz, prima dei treni della morte, prima dei rastrellamenti nelle metropoli d’Europa, c’è stata l’emarginazione. Due erano gli obiettivi: «tenere pulita» la società evitando il contatto con la stirpe «infetta». Ma soprattutto rintracciare gli ebrei più facilmente, uno ad uno. L’emarginazione è stata davvero l’anticamera dello sterminio. Anche se a volte, da quei luoghi recintati in cui gli ebrei furono rinchiusi, l’orrore sembrava lontano. Come allo Joods Lyceum di Amsterdam, dove Theo Coster è tornato qualche anno fa con un documentario e ora con un libro, "Dall’infame governo di Vichy a una gita scolastica con il cuore e la memoria insieme a Anna Frank", Rizzoli, pp. 178, 17,50. Ma perché omettere del tutto il nome del traduttore?). Una specie di gita scolastica con il cuore e la memoria, insieme ad Anne Frank e ai compagni che non ci sono più. E’ un libro quasi sereno, questo, ad ogni riga animato da un’assenza: quella di lei, in cui tutti i sopravvissuti si rispecchiano. Ma proprio questa apparente serenità, questi ricordi di scuola così simili a tanti altri eppure così immensamente distanti da una rievocazione «normale», fanno presto schiantare il lettore contro la realtà della storia, il silenzio di chi non c’è più.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
L’immagine della Shoah
La vita è bella ha banalizzato i campi di sterminio?
di Marco Belpoliti


Da qualche anno il tema della memoria è diventato centrale in ogni discussione culturale e politica. Da quando le memorie offese di popoli, minoranze, gruppi, individui, sono balzate al centro del dibattito pubblico, è subentrata la sensazione che esista, oltre che un uso, anche un abuso della memoria stessa. Valentina Pisanty nel suo libro, Abusi della memoria (Bruno Mondadori, pp. 152, €16) affronta di petto il tema. E lo fa mettendo alla prova la questione che ha prodotto sia l'uso che l'abuso: la Shoah. Inoltre, se si considera che questo tema è legato, dopo il processo a Eichmann nel 1961, all' identità dello Stato di Israele, alla sua creazione ed esistenza, si comprende come un groviglio di problemi agiti il dibattito in Europa come in Israele, come mostra il recente libro di Idith Zertal (Einaudi).
Pisanty è una semiologa e affronta la questione con i suoi strumenti, cercando di individuarne le contraddizioni. Tre sono gli ambiti che esamina: il negazionismo, la banalizzazione e la sacralizzazione della Shoah. L'autrice si arma d'intelligenza, buon senso e un innegabile bisturi illuminista, sezionando e definendo i temi che si agglutinano. Holocaust, il film televisivo che cambiò la percezione della Shoah nel mondo occidentale, e La vita è bella di Benigni, banalizzano o no la vicenda degli ebrei gasati ad Auschwitz? E il fatto che scrittori come Elie Wiesel abbiano fatto dell' Olocausto un elemento sacro della identità ebraica, che effetti produce? Banalità e sacro sono davvero l'uno l'altra faccia dell'altro?
Questioni intricate che il libro affronta con lucidità e correttezza, mettendo bene in luce il paradigma vittimario che si è prodotto nel corso degli ultimi quarant'anni intorno allo sterminio, e che ha contagiato molti altri episodi tragici della storia passata e recente, così da diventare una questione politica di grande evidenza: cosa significa essere una vittima? Quali problemi crea la figura della vittima nel raggiungimento di una verità e di una giustizia definitiva? Il tema della banalizzazione è la chiave della questione, che oggi ha sostituito il dibattito tra storici e testimoni sulla determinazione della verità degli avvenimenti, una volta che si è concluso che esiste una indubbia divergenza tra ciò che si è vissuto e ciò che è effettivamente accaduto, a vantaggio degli storici, ma senza obliare i testimoni.
Così resta problematico definire cosa significa «banalizzare». Se il banale è ciò che si oppone al «distinto», come ha precisato una volta Stefano Bartezzaghi a proposito di Queneau e dei suoi Esercizi di stile, non è facile isolare la banalità: «la banalità è come una macchia lattiginosa che circonda gli oggetti della nostra attenzione», così che più ci concentriamo sulla macchia più la togliamo dalla sua banalità.
Pisanty accosta l'argomento, per mostrare la banalizzazione della Shoah da parte di film come Portiere di notte della Cavani o al porno-nazi di Brass, ma di fronte al lavoro di Begnini si trova in difficoltà, e anche l'uso del Kitsch, un tempo strumento sicuro per individuare la banalizzazione, non è così semplice oggi da manovrare dopo trent'anni di televisione berlusconiana e di rivalutazione del pop. Abusi della memoria è un bel libro che apre problemi che vanno oggi affrontati in modo urgente, anche per uscire dalla stagnazione culturale attuale. La Pisanty ha dunque aperto la strada a un ripensamento importante. "Il saggio di Valentina Pisanty tra cinema e romanzi affronta il tema dello sterminio e delle «trappole» che contiene"
Valentina Pisanty, Abusi della memoria, Bruno Mondadori, pp. 152, 16

Corriere della Sera 21.1.12
Kertész, fuga senza fine da Auschwitz
La ferita del lager non si può rimarginare nel diario-romanzo del Premio Nobel
di Giorgio Pressburger


Bompiani pubblica Io, un altro di Imre Kertész, lo scrittore ungherese, Premio Nobel nel 2002. (Il precedente stampato dallo stesso editore si intitolava Il vessillo britannico).
Molti ricorderanno anche l'impareggiabile Essere senza destino (Feltrinelli) premiato col «Flaiano», un anno prima del Nobel. Sì, Imre Kertész è uno dei maggiori scrittori viventi e alcuni suoi libri sono all'altezza di Primo Levi, al quale si può paragonare per la somiglianza di temi e di esperienze umane fatte durante la Seconda guerra mondiale. In un'epoca in cui dominano i romanzi «rosa», o polizieschi, e pare che per altri generi non ci sia spazio, l'apparizione di questo libro piccolo, 135 pagine, vivace e dolente, ma anche umoristico, è un vero regalo. Testimonianza del fatto che esistono altre letterature, altri gusti, anche se occorre pazientemente cercarne le tracce.
Il volumetto di Kertész parla di un tema che ci porta nel sottosuolo, negli abissi dell'animo e del destino. Si tratta del vagare di un sopravvissuto ad Auschwitz nei Paesi centrali dell'Europa, negli anni dell'apertura dei confini, la caduta del muro di Berlino. Un cammino solitario, compiuto per la prima volta in libertà, su inviti di associazioni letterarie e religiose, di amici dell'Europa occidentale. Ma com'è questo viaggio, per chi si è salvato ad Auschwitz e finalmente è fuori anche dalle galere staliniane? È come vedere le cose essendo diventati completamente «altri», estranei a sé stessi e al mondo, alla propria vita precedente? È come risvegliarsi sotto l'effetto di una metamorfosi totale. Ma non è la crisalide che si trasforma nell'angelica farfalla come nella Divina Commedia di Dante, o nella poesia del giovane poeta di Gorizia Carlo Michelstaedter vissuto all'inizio del Novecento, (Il canto delle crisalidi). Non è in qualcosa di nuovo e promettente che la crisalide si trasforma qui, bensì in un essere estraneo a tutto, a tutti, a se stesso e all'intero Universo. La piaga inferta dall'orribile esperienza di Auschwitz e poi dalla dittatura staliniana non si rimarginerà più, perché anche quella del mondo nuovo, sempre più conformista e violento, indifferente, vuoto, avido, non sembra più guarire. Lo scrittore, nel suo pellegrinaggio in questo paesaggio deserto, come la Waste land di Eliot, a volte sovraffollato, luccicante, cerca con tutte le forze un appiglio alla vita, a qualche parvenza di esistenza sopportabile. Incontri fugaci, viaggi in automobile con donne mai nominate, nottate allucinanti in edifici vuoti nell'ex Germania dell'Est, costellano questo diario della metamorfosi. Sprazzi di veri sentimenti umani baluginano nell'oscurità, per un attimo si presentano anche momenti di felicità, ma tutto è rivolto verso una meta dove esistono soltanto i grandi interrogativi sullo scopo di vita e morte. L'ultima immagine del libro può rammentare una delle figurine umane di Giacometti: un uomo cammina con un piede già alzato e la testa rivolta all'indietro. Il passo condurrà alla morte ma lo sguardo è ancora affisso sulla vita.
Come tutti i libri di Kertész, Io, un altro è pervaso da un sentimento di acuto pessimismo, ma analogamente non è affatto distruttivo. Anzi. Vi sono molti riferimenti a celebri brani musicali e a opere di grandi narratori e poeti; qui non si tratta, come in molti libri che vogliono compiacere il lettore e il mercato, di puri elenchi di azioni e sensazioni. Si parla, in modo chiaro e semplice, anche se a volte addolorato, di smarrimenti, riflessioni, rimpianti, disperazione.
Eppure la lettura dà un certo slancio a chi la compie (in due ore al massimo), come capita soltanto con i grandi autori. Giacché di fatto si scopre un senso, in questo vuoto, in questa violenza e volgarità. In vari episodi narrati, come in quello dell'incontro con un barbone antisemita e ubriaco a Berlino, c'è una forma di umorismo tanto sottile e solare come è impossibile trovare nelle opere scritte per distrarre o intrattenere.
E a proposito di antisemiti: proprio nell'Europa centrale, dove è nato ha vissuto (e ha sofferto) Kertész, si stanno ridestando, nemmeno tanto nascosti, sprazzi di razzismo d'antico stampo. Questo libro parla anche di questi fenomeni, senza enfasi né esagerazione, ma con attonita obbiettività, come del resto in Essere senza destino. Direi che quel tono, quell'approccio alle grandi tragedie del Novecento ha trovato una voce, oltre a quella di Primo Levi e del poeta tedesco Paul Celan, soltanto nelle opere di Kertész.
La grandezza consiste soprattutto in questo: c'è molto di più della pura tragedia, c'è l'apparente considerazione dell'orrore come cosa che avviene in modo naturale, quasi logica, giustificata per la sua ineluttabilità sotto gli occhi di un ragazzo di 15 anni.
Del resto Kertész negli altri libri descrive con identico piglio le orrende angherie a cui quel ragazzo, ormai uomo di mezza età, viene sottoposto nell'Ungheria stalinista. O in quella d'oggi, nel ridestarsi di vecchi sentimenti razzisti che, all'epoca del conferimento del Nobel a Kertész, hanno fatto dire a qualche sciagurato collega che l'Ungheria non poteva vantarsene, giacché Kertész non è ungherese ma ebreo.
Oggi Imre Kertész ha scelto di vivere in Germania, a Berlino, dove ha cominciato a essere noto prima che altrove, prima della sua patria stessa. In Germania i suoi libri sono stati acquistati da un considerevole numero di lettori, discussi in conferenze, incontri e convegni. La vita in qualche modo premia chi riesce a sopportarne le prove più terribili, come è capitato a Kertész o al triestino Boris Pahor, anche lui reduce da vari lager. Il fatto che comincino a essere letti e stimati da un vasto pubblico quasi come eroi vittoriosi può essere considerato un segno incoraggiante: il lettore non è ridotto al livello di un cane da carezzare e consolare con uno zuccherino. Sopporta l'immersione nelle profondità e nella sofferenza altrui, non solo in quella esibita come oggetto di spettacolo. Kertész ha 82 anni, Pahor 99. Li conosco tutti e due, con Kertész ci si può dire amici. È un uomo solare, benigno. Non si lamenta mai. Chi come me ha vissuto da bambino o vive oggi esperienze in qualche modo simili alle loro si aggrappa al ricordo della loro vittoria, come nel Processo di Kafka chi canta in coro si aggrappa alla voce dei cantanti più vicini.

Corriere della Sera 21.1.12
Fosse Ardeatine, ritrovata la lista originale
di Paolo Fallai


Una scoperta, una conferma, una infamia. L'eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, col massacro di 335 civili a opera dei nazifascisti, non finisce di riservare sorprese. Negli archivi del Museo storico della Liberazione a Roma — che ha sede in via Tasso nell'ex carcere «politico» da cui partirono molte delle vittime — sono state trovate due pagine, che insieme a una terza esistente rappresenterebbero la lista originale di detenuti prelevati dal carcere di Regina Coeli. Due elementi sono chiari: la presenza del numero di cella, che rimanda appunto al carcere, e la firma del compilatore, Heinz Thunath, Obersturmfuehrer, incaricato di prelevare i prigionieri. Un documento prezioso perché ancora oggi non è chiaro come i nazifascisti, su ordine di Kesselring e del generale Maeltzer, siano arrivati al numero di 335. Una prima lista di 270 comprendeva detenuti di Regina Coeli e di via Tasso. Ma per arrivare all'agghiacciate proporzione «1 a 10» con cui i nazisti volevano vendicare i 32 morti dell'attentato partigiano di via Rasella, vennero aggiunti 55 nomi, preparati dal questore fascista Pietro Caruso. Anche questi non bastarono e dieci vittime non sappiamo ancora oggi come vennero rastrellate e portate a morire.
La conferma viene proprio dal nome del compilatore Heinz Thunath, figura minore del processo Kappler. Solo pochi giorni fa il settimanale «Der Spiegel» ha ripreso il lavoro di uno storico tedesco, Felix Bohr, sulla corrispondenza tra i ministeri degli Esteri di Roma e Berlino nel 1959, da cui emerge la comune volontà di nascondere i nomi e i recapiti dei complici di Kappler. In questa corrispondenza compare il nome di Heinz Thunath, con l'annotazione di tacere il suo indirizzo.
La scoperta, a via Tasso, è stata compiuta dalla responsabile degli archivi, Alessia Glielmi: «Le fonti — conferma — contengono nome, cognome, data e in alcuni casi luogo di nascita e numero di cella dei detenuti. Ma ora sarà necessaria la comparazione analitica con gli altri documenti». Alla fine di questo lavoro potrebbe esserci, a 68 anni di distanza, la possibilità di ricostruire per intero i 335 nomi: ne mancano ancora dieci, mentre l'esame del Dna, solennemente promesso un anno fa dall'allora ministro della Difesa La Russa, non ha dato risultati.
L'infamia è sempre la stessa. Perfino i nazisti processati e condannati all'ergastolo per le 2.273 stragi nazifasciste compiute in Italia fra il 1943 e il 1945, non hanno pagato. Il giornalista Franco Giustolisi nel suo libro L'armadio della vergogna (Edizioni Beat) ne ha elencati 21, con nomi e cognomi. Sarebbero sedici quelli ancora vivi. Ma lo Stato italiano non li cerca. E non si è mai posto il problema di far riconoscere alla Germania le sentenze pronunciate in Italia.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
Gli Anni 60. Bruno Cartosio ricostruisce i movimenti culturali della sinistra Usa che cambiarono stili, valori, sentimenti della società ma non riuscirono a vincere in politica
L’America mise fiori e dubbi nei cannoni del Vietnam
di Massimiliano Panarari


Bruno Cartosio I LUNGHI ANNI SESSANTA Feltrinelli, pp. 398, 25
Hippies, Malcolm X, movimenti beat, deliri rivoluzionari L’onda lunga è arrivata a Obama

Bruno Cartosio, nato nel 1943, insegna storia dell'America del Nord all'Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti. E’ autore, tra l’altro, di «New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917)»

Il potentissimo (e tremendo) fondatore dell’Fbi, il J. Edgar Hoover mostrato dall’ultimo film di Clint Eastwood, li detestava con tutte le sue forze, considerandoli, nelle loro varie metamorfosi, i nemici dell’America. Erano (e tuttora sono) i radical, sintesi a stelle e strisce di «bolscevichi», anarchici e comunisti, i cui eredi (diciamo così) seppero, manifestandosi in forme e mediante organizzazioni diverse, incarnare lo spirito dei tempi di tutta una stagione, I lunghi anni sessanta che danno il titolo all’ultimo voluminoso libro dell’americanista Bruno Cartosio, uno dei massimi esperti della sinistra d’Oltreatlantico. Un testo ricchissimo e che fa punto e a capo su un periodo storico di grande vivacità politica e intellettuale (anche quando discutibile), le cui propaggini si spingono fino a noi, perché, a mezzo secolo di distanza, le primarie del Partito democratico sono state, non a caso, combattute da un afroamericano e da una donna. Lo scontro (poi ricomposto al governo) tra Barack Obama e Hillary Clinton, in definitiva, quale straordinario, ancorché travagliato, approdo di un «più che decennio» molto intenso, iniziato negli Anni Cinquanta con le rivendicazioni dei diritti civili per la popolazione di colore e prolungatosi fino ai Settanta del femminismo.
A fare la propria ricomparsa sul proscenio della vita pubblica statunitense, in un’epoca di grande affluenza, fu così la «critica al sistema», ossia la messa in discussione del modello di vita e, soprattutto, economico e produttivo della prima potenza planetaria. Una situazione insospettabile dopo le durissime campagne di repressione del dissenso da cui era stata sostanzialmente estirpata la sinistra antisistema, che mostrò come il rigetto dell’American way of life covasse non soltanto al di là dell’oceano, ma anche in quelle tremende no man’s land che erano i ghetti delle metropoli. A fare da detonatore all’esplosione delle proteste ci pensò l’escalation della guerra in Vietnam, con le mobilitazioni studentesche che divennero, infatti, sempre più intense a partire dal marzo del 1965, saldandosi alle manifestazioni di piazza e alle rivolte urbane delle minoranze etniche. L’effetto finale fu quello di far saltare per aria il progetto della Grande società di Lyndon Johnson, fondata sull’idea del «burro» (e dei consumi) in patria e dei «cannoni» in politica estera, come rilevò, tra le pochissime voci fuori del coro dell’establishment, il senatore J. William Fulbright, preoccupato del fatto che l’estensione del conflitto nel Sud-Est asiatico e i «costi di mantenimento dell’Impero» avessero fatto ammalare la società Usa e scatenato una guerra intestina.
Dal Free Speech Movement ai Diggers (i pionieri del movimento hippie del quartiere di Haight-Ashbury a San Francisco), dall’estetica della controcultura alla Beat generation, dalla retorica di Martin Luther King a quella di Malcolm X (sul quale è uscita poco fa, da Donzelli, l’ultimativa biografia di Manning Marable), dalla Summer of Love del ‘67 alle anime della New Left, il libro di Cartosio offre una panoramica impressionante sul Movimento, i suoi protagonisti e le sue componenti, e su di un periodo che ha, da molti punti di vista, cambiato gli Stati Uniti (e il mondo), fornendo un palcoscenico alla prima gigantesca esplosione di soggettività della storia. Senza, però, naturalmente, riuscire a vincere in politica, come sottolinea a più riprese questo volume dichiaratamente «di parte» e simpatetico con il proprio oggetto di indagine. Un decennio di luci, e anche di ombre, come i deliri rivoluzionari dei «partiti armati» e di gruppi terroristici quali la Weather Underground Organization, l'Esercito di liberazione simbionese o le Pantere nere, spesso sconfinanti nella criminalità comune.
A sterilizzare la carica dirompente di quella stagione ci penseranno il neoliberismo e l’edonismo reaganiano che convertiranno alcune delle sue rivoluzioni di costume in (concrete o immateriali) merci postmoderne e in accessori della società spettacolo; ma anche, paradossalmente, talune vittorie, come l’attrazione esercitata dal movimento delle donne sulle esponenti delle classi alte, chiaramente interessate a rivendicazioni settoriali ma non a mettere in discussione la società nel suo complesso, cosa che decreterà la fine del femminismo radicale.
Oltre alla political correctness, insomma, negli Anni Sessanta lunghi del Secolo breve c’è stato anche (e molto) di più.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
Underground Dal 1964 al 1974, un racconto corale degli anni «gioiosamente ribelli della controcultura», tra concerti e sit-in
E in Italia si sognava cantando «peace & love»
di Giuseppe Culicchia


C'è stato, su questo pianeta, un tempo nemmeno troppo lontano eppure distantissimo dal nostro, in cui l'India era l'Altrove e l'Afghanistan un fiabesco paese medievale. In entrambi i luoghi, ignari della globalizzazione e delle guerre a venire e affollati di santoni e monaci e spacciatori, si arrivava da Brera in autostop o a bordo di pulmini Volkswagen, magari strappando il passaporto in qualità di cittadini del mondo: una Brera e un mondo va da sé assai diversi dalle attuali versioni 2.0. In Sicilia, la comune di Terrasini era una sorta di tappa propedeutica sulla via per gli Ashram di Poona. A Torino Gianni Milano si faceva conoscere come «il maestro beat». A Roma, il solito Giuliano Ferrara si esibiva al Piper in veste di cantante e ballerino in un'opera insieme lirica e pop ispirata alle canzoni di Bob Dylan e naturalmente alternativa, non solo al «potere costituito», come si diceva allora, ma alla famiglia in quanto istituzione e alla società borghese, messe in discussione a San Francisco come a Trastevere dai cosiddetti capelloni, o se preferite dal movimento hippy. Intanto, Marcello Baraghini apriva le porte della sede del Partito Radicale ai ragazzi che con i loro sacchi a pelo si davano appuntamento sui gradini di Piazza di Spagna. Anita Pallenberg e Gabriella Ferri, due matte scatenate, frequentavano in minigonna il giro degli artisti al Caffè Rosati. Romina Power scopriva come tanti Gibran e Hermann Hesse. Quanto a Fernanda Pivano, invitava tutti nel suo salotto di design, lì dov'erano appena passati Jack Kerouac e Allen Ginsberg, a dire di alcuni «un po' guardona».
Fa una certa impressione, oggi che l'India è una potenza nucleare e in Afghanistan si viaggia a bordo di mezzi blindati leggere Underground Italiana, racconto corale degli anni «gioiosamente ribelli della controcultura», curato da Matteo Guarnaccia e ottenuto dalle voci di chi all' epoca, più o meno ventenne, sognò di cambiare il mondo all'insegna dello slogan «peace & love», anche precipitandosi a Firenze per dare una mano all'indomani dell'alluvione: salvo poi dover fare i conti con la realtà, e dunque non solo con le retate della polizia ma anche con il servizio d'ordine di Lotta Continua e con l'eroina. Tra concerti pop e feste macrobiotiche, sit-in di protesta contro l'intervento americano in Vietnam e orge lunghe tre giorni corredate da cataloghi di droghe, i ricordi si affollano: chi a causa della chioma veniva sospeso da scuola, chi strafatto di Lsd badava ai bambini in un asilo autogestito, chi faceva ritorno dall'India con i pidocchi e la dissenteria e dieci chili in meno, chi scappava di casa e fondava una comune di fronte a San Vittore, chi finiva nel carcere omonimo.
Tra i sostantivi e i nomi ricorrenti, energia, Jimi Hendrix, Chilum, rivoluzione, Himalaya, utopia, Londra, Re Nudo, amore libero, libertà. E ovviamente 68. Dinni Cesoni, ex attivista del Movimento delle Comuni, tira le somme: «ci hanno ucciso con una overdose di consumismo e ideologia, ci hanno fatto credere che tutto era moda. Hanno fatto in modo che parole come hippy, India, underground diventassero impronunciabili. Poi ci si sono messi anche i compagni che in un delirio di follia hanno iniziato ad ammazzare la gente. Per il potere, da un certo punto in poi, tutti erano brigatisti e hanno spazzato via tutto».
Underground Italiana è il racconto del decennio 1964-1974 visto attraverso gli occhi di chi credeva che la sola vera ricchezza fosse avere il tempo per vivere le proprie esperienze. Tra tenerezze e rivendicazioni, nostalgie e paraculaggini assortite, molti di quelli ancora in vita devono dire oggi di essere finiti in un «bad trip». "Energia, Jimi Hendrix, Chilum, rivoluzione, Himalaya, utopia, Londra, viaggio, Re Nudo, amore libero..."

venerdì 20 gennaio 2012

l’Unità 20.1.12
Capitalismo in crisi
Dal crollo del liberismo un’altra idea di libertà
Dopo la guerra il lavoro è stato la misura della crescita economica e sociale. Poi si è progressivamente imposto il tecno-nichilismo
di Mauro Magatti


La rivista online del Pd Tamtam democratico dedica il suo ultimo numero alle radici finanziarie, politiche e culturali della crisi che sta scuotendo l’economia mondiale. Pubblichiamo qui di seguito ampi estratti dall’articolo del sociologo Mauro Magatti.
C ome hanno scritto i due economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, ci troviamo nel mezzo di una grande contrazione, cioè all’interruzione di una fase di crescita che, mediante quelli che dal 2008 sono stati chiamati «eccessi» finanziari, ha sostenuto un’economia basata sul consumo a debito.
Scompaginati i delicati equilibri che sostenevano il circuito espansivo, qualunque strada si adotti, il deleveraging (cioè il percorso di riassorbimento del disordine finanziario) avrà bisogno di parecchi anni per essere completato. Questa considerazione getta ombre sul futuro dei paesi avanzati. Le speranze, coltivate nei primi mesi post-crisi, di una rapida ripresa si sono rivelate illusorie. (...)
Si può pensare che tutto ciò costituisca solo una iattura. Oppure, si può attraversare questo periodo, indubbiamente difficile e carico di rischi, in cui le risorse saranno più limitate, come un’occasione per smaltire le tossine sociali e culturali del tecno-nichilismo, in modo tale da creare, un po’ per volta, le condizioni per un nuovo modello di sviluppo. (...) I due corni del dilemma sono chiari: da un lato, c’è il fallimento di una libertà che ha immaginato di essere assoluta. Dall’altro, c’è l’impossibilità di tornare indietro, rimettendosi sotto l’ala di qualche sistema autoritario. Ma che cosa c'è in mezzo? (...)
Tutti i discorsi di questi anni sulla crisi suonano contraddittori. Alcuni insistono sulla ripresa dei consumi interni che è resa impossibile dall'indebitamento e dal generale clima di sfiducia e di instabilità. Altri parlano di competitività per sottolineare lo sforzo che occorre compiere per essere all’altezza dei competitor. Ma entrambi questi discorsi, sicuramente corretti, peccano dal lato della motivazione: perché dobbiamo essere competitivi? (...)
Gli effetti collaterali del capitalismo tecno-nichilista una montagna di debiti, lo svuotamento del senso, livelli di disuguaglianza crescenti, squilibri sociali, ambientali e istituzionali sempre più accentuati indicano che la crescita, per non implodere, dovrà essere capace di integrare dimensioni rimaste dissociate tra loro in questi decennio.
Ripensare la crescita comporta, prima di tutto, un nuovo atto di intelligenza: la democrazia e il mercato si misurano oggi con le conseguenze negative della spirale espansiva «potenza-volontà di potenza». Affannarsi a cercare di far ripartire questo circuito nel modo in cui ha funzionato negli ultimi decenni non porta da nessuna parte. Pertanto, crescere diversamente significa tentare di creare nuove condizioni in cui, partendo da una definizione antropologica meno unilaterale, impariamo a riconoscere che la volontà di potenza non si traduce solo in acquisizione quantitativa e che, per quanto prezioso e vero, tale movimento non esaurisce l’intera esperienza umana. (...)
Alla fine della Seconda guerra mondiale, il valore è stato riconosciuto nella ricostruzione e nella integrazione sociale, sbilanciandosi sul versante istituzionale e assegnando centralità al lavoro che diventava misura e strumento della crescita economica e sociale. A partire dagli anni 70, sono l’espansione e lo slegamento espressione dell’immaginario della libertà individualistica e adolescenziale a essere rivestiti di valore nell’ottica della scambiabilità e manipolabilità: nel quadro della fase della razionalizzazione planetaria e della mediatizzazione dell’esperienza, il consumo è diventato il criterio di riferimento del valore.
Oggi, al fine di immaginare una nuova stagione di crescita, le società occidentali sono chiamate a trovare una diversa soluzione alla questione del valore. Ciò ha a che fare con quella che E. Erikson chiama libertà generativa: una libertà cioè che, senza mortificare la tensione desiderante che ci contraddistingue come esseri umani segnando anche la spinta alla crescita, la riqualifichi rispetto al senso, al contesto, a una storia e ad altri.

Corriere della Sera 20.1.12
Il Pd vola nei sondaggi: ora è al 30% Ma cresce lo scontento dell'ala sinistra
I dati (falsati dall'astensionismo) e le critiche di Emiliano e Rossi

di Maria Teresa Meli

ROMA — Ci sono numeri che dicono più delle parole, come sanno bene al Pd. Il Partito democratico, che oggi e domani terrà la sua assemblea nazionale, continua a crescere nei sondaggi. È arrivato a quota 30 per cento. Ma quella cifra non può essere presa nel suo valore assoluto. Pesa, in tutte le rilevazioni, l'astensionismo crescente. Ci sono tanti, troppi intervistati che dichiarano di non voler andare a votare. E pesa anche un altro dato: il calo delle iscrizioni al Pd in alcune grandi città. A Torino si arriva a un meno 40 per cento, percentuali simili a Firenze, a Roma le tessere non sono scese ma non sono nemmeno aumentate. E in tutta Italia monta l'insoddisfazione del popolo della sinistra, che non è ancora del tutto convinto dell'operazione Monti.
In periferia il malumore si allarga anche ai gruppi dirigenti. Michele Emiliano ormai sfida apertamente il suo partito: «Sembrano come quegli astronauti che escono dalla navicella spaziale per aggiustarla e si perdono nello spazio». Il governatore della Toscana Enrico Rossi è un uomo d'apparato per cui non mollerà il Pd, però è molto critico: «O la sinistra ritrova la sua identità o sarà fagocitata dalla svolta tecnocratica. Monti rappresenta una politica economica di destra». Insomma, il Partito democratico rischia di perdere pezzi a sinistra. Dove, peraltro, sta prendendo piede un nuovo possibile movimento, che debutterà domenica prossima con Vendola, Luigi de Magistris, Emiliano, il leader della Fiom Landini. E all'appuntamento potrebbe affacciarsi anche Rita Borsellino. Bersani l'ha candidata come sindaco di Palermo, ma quel pezzo di Pd che è legato a filo doppio a Lombardo la osteggia.
Il gruppo dirigente del Pd non intende andare all'inseguimento della sinistra, però non vuole neanche abbandonare quel campo. È per questa ragione che, ieri, persino un fan sfegatato di Monti come Enrico Letta ha tenuto un convegno a porte chiuse con Alfredo Reichlin per capire che cosa si agita nella sinistra del fu Pci. Ed è sempre per questa stessa ragione che Bersani, oggi, nella sua relazione introduttiva cercherà di rassicurare elettori e militanti. Come? Rilanciando il ruolo del Pd come «pilastro delle riforme» per «ridare alla politica ciò che è della politica». Il segretario starà bene attento a non dare l'immagine di un partito immobile, al traino del governo e porrà l'accento su un parola, «solidarietà», cara al popolo della sinistra.
Ma il malumore che si avverte in periferia ha, inevitabilmente, anche delle ripercussioni nei gruppi dirigenti. Sempre più insofferenti nei confronti del Pdl. È il caso, per esempio, di Rosy Bindi. La presidente del Pd avrebbe voluto fare un intervento durissimo all'assemblea, dopo una trattativa interna vi ha rinunciato, ma il suo umore non è che sia cambiato troppo. La regia del parlamentino del Partito democratico prevede di mandare in onda un film senza colpi di scena. Tutti cercheranno di attutire dissensi e tensioni. E poiché non esiste un programma vero e proprio si sta puntando a evitare la presentazione di ordini del giorno che potrebbero rivelarsi insidiosi. Un esempio: la proposta presentata da Vassallo e Civati che prevede le primarie per la scelta dei parlamentari nel caso in cui si dovesse andare al voto con l'attuale sistema elettorale. È una proposta che potrebbe interessare i segretari regionali delle regioni rosse, stufi di dover regalare collegi ai dirigenti nazionali.

l’Unità 20.1.12
Presidio al Pantheon «Giornali a rischio il governo intervenga»


«Decine di testate e migliaia di posti di lavoro, questa è la posta in gioco. In queste ore decisive per la sorte dell'editoria finanziata pubblicamente serve la mobilitazione di tutti e uno sforzo comune per ottenere che il governo Monti trovi spiccioli per una boccata d'ossigeno al settore dell'editoria in attesa di una sua strutturale riforma». È l’appello del
comitato per la libertà di informazione che ha organizzato un presidio al Pantheon. Presenti i sindacati e i rappresentanti di varie testate tra cui l’Unità, Manifesto, Terra e Liberazione (l’editore ieri ha chiuso le password ai redattori che stavano realizzando il giornale on line).
Il presidente dell'Fnsi Roberto Natale ha denunciato: «Un numero crescente di testate sta morendo, dal noto caso di Liberazione a quelli di svariate testate locali. Il governo Monti non può limitarsi ad accettare le conseguenze delle decisioni del governo Berlusconi».

Corriere della Sera 20.1.12
Liberazione, guerra fra comunisti sulla chiusura del giornale


ROMA — È la storia che lo dice: quando a sinistra volano gli stracci, volano di brutto. Non fa eccezioni la vicenda che riguarda il quotidiano Liberazione. Dove da tempo fra la redazione e l'editore, cioè il partito della Rifondazione comunista, è in atto uno scontro all'arma bianca che ricorda quelli fra la Fiat e la Fiom piuttosto che una banale scaramuccia fra compagni. È accaduto che la società editrice, la Mrc srl, ha deciso prima di chiudere il giornale di carta. Poi, da qualche ora, anche la versione online.
La storia è questa. Liberazione è in crisi da un bel po'. Tredici giornalisti se ne sono già andati passando dall'uscita di servizio della cassa integrazione. Per gli altri 17 redattori e i 14 poligrafici ci sono invece i contratti di solidarietà. A metà dicembre, la sorpresa: arriva una raccomandata che non è un regalo di Natale. La società editrice disdetta unilateralmente gli accordi e sospende le pubblicazioni in attesa che la Regione metta tutti in Cassa integrazione a zero ore. Nel frattempo propone di andare avanti con il sito, dal quale si può scaricare una versione di due pagine in formato pdf di Liberazione, per non perdere il diritto ai contributi pubblici. Formazione del nuovo giornale: direttore, vicedirettore, un redattore e un poligrafico. Gli altri, a casa. Parte l'occupazione della redazione, ma l'azienda non si commuove. E siccome nemmeno gli occupanti cedono, prima si stacca la spina al giornale in pdf, poi al sito. Messaggio inequivocabile: ci vediamo in Regione, per la Cassa integrazione.
La ragione di questo piccolo grande dramma della sinistra è semplice: non ci sono più soldi. Il governo Monti non vuole riaprire i rubinetti dei fondi ai giornali di partito. Il taglio, per Liberazione, potrebbe significare dover rinunciare almeno a 2 milioni di euro (nel 2010 ha messo a bilancio 3,4 milioni): praticamente metà dei ricavi. Che il quotidiano di Rifondazione possa stare in piedi senza quei contributi, è pura immaginazione. I conti del 2010 parlano chiaro. Il fatturato delle vendite è stato di un milione 28 mila euro, che si traduce in una diffusione media di circa 4 mila copie. Fra il 2009 e il 2010, dice il sindacato, il giornale avrebbe perso 2.400 copie e gran parte della poca pubblicità. Risultato che l'azienda addebita alla crisi generale e che il comitato di redazione (cdr) sembra addebitare anche alla gestione del quotidiano. Basta rileggersi il comunicato dello stesso cdr del 5 agosto 2010, dopo che già si era consumato uno sciopero di due giorni. Un pugno nello stomaco del direttore Dino Greco, autore di un editoriale in risposta all'agitazione che il sindacato non definì «un inusitato attacco alle prerogative sindacali e alle funzioni del comitato di redazione».
Da allora è andata sempre peggio. Si è arrivati, martedì scorso, a svelare un sospetto. Che «all'azzeramento del quotidiano e della redazione tutta, giornalisti e poligrafici», ha affermato il cdr in una nota velenosa, corrisponda «il tentativo di usare il denaro dei cittadini in modo improprio e scorretto». Che può significare? Forse liberarsi degli stipendi da pagare trovando il modo di incassare ugualmente i contributi? «Calunnie infondate!», ringhia Marco Gelmini, amministratore di Mrc. Il fatto è che i fondi per i giornali di partito non saranno azzerati. Il che rende tutto più imbarazzante. I dipendenti chiedono di resistere finché la situazione non si sbloccherà. Mrc risponde picche. Ostinazione che origina in molti il sospetto.
Con il nuovo regolamento in discussione a Palazzo Chigi dovrebbe essere ridotto il numero delle testate che li hanno intascati finora. Eliminando, per esempio, quelle che con i partiti non hanno nulla a che fare ma che con piccole furbizie normative all'italiana sono state per anni mantenute a spese dei contribuenti. Un intervento di pulizia che certo non riporterà la stampa politica ai fasti del passato, ma libererà un bel po' di risorse. E con i chiari di luna che si preparano...
Sergio Rizzo

l’Unità 20.1.12
Memoria e futuro
Il valore dei partigiani e l’Italia unita
di Carlo Smuraglia, Presidente nazionale Anpi


S iamo alla conclusione di un anno particolarmente intenso, di “celebrazioni” dell’anniversario dell’Unità d’Italia. Poteva trattarsi solo di una celebrazione, con fiumi di retorica, ma così non è stato, soprattutto per merito del Presidente della Repubblica, che ha dedicato a questo anniversario un’attività veramente importante e continuativa, ricca di spunti di riflessione, che ha finito per conquistare la grande maggioranza dei cittadini. A questa ricerca di riflessione, storica e politica, l’Anpi l’Associazione nazionale partigiani ha dato un suo rilevante contributo con molteplici iniziative adottate in tutta Italia. Ora si tratta di tirare le somme, di ricuperare alcuni aspetti più trascurati nel dibattito pubblico e di concentrare l’attenzione sulle questioni tuttora aperte e che richiedono di essere risolte in prosieguo, anche per realizzare un ulteriore consolidamento della Nazione e dello Stato.
La prima riflessione non può che riferirsi alla limitata attenzione che è stata dedicata, in questo anno, al contributo recato dalla Resistenza. È stato già detto (e lo ha sottolineato con estrema precisione il Presidente emerito Ciampi) che per rompere l’Unità d’Italia non si sarebbe potuto pensare ad un’occasione migliore di quella che si presentò fra il 1943 e il 1945, col Paese diviso in due dalla guerra e dalla occupazione tedesca. Eppure ci fu un grande anelito verso la realizzazione dell’Unità, si lavorò con serietà, fatica e sacrifici a ricostruire quel concetto di “patria” che il fascismo aveva sostanzialmente distrutto, a forza di retorica; e si riuscì a rifondare il concetto di nazione non solo con l’impegno della liberazione dalla dittatura e dall’occupazione tedesca, ma anche col lavoro successivo, e direttamente scaturito dalla Resistenza, quale fu quello dedicato all’emanazione di una Costituzione democratica.
Questo contributo dei combattenti per la libertà, indipendentemente dalle loro ideologie, origini e appartenenze, ha caratterizzato 1’intera Resistenza e merita di essere considerato come determinante ai fini del consolidamento dell’Unita d’Italia. Sicché, non è per caso che l’art. 5 della Costituzione è scritto in quel modo, con una affermazione di assoluta perentorietà; e non è ugualmente per caso che tutta la Costituzione sia pervasa da quello spirito unitario di libertà e democrazia, proprio di un Paese che vuol essere nazione, che vuol essere inteso da tutti come una Patria. Il nostro futuro sta in un senso di “nazione” e di “patria” che sia inclusivo e risponda alle profonde aspirazioni di socialità, di uguaglianza, di democrazia su cui si è ricostruito un Paese libero, con la Resistenza e con la Costituzione.

Repubblica 20.1.12
I lavoratori, soprattutto donne, costretti a firmare lettere di pre-licenziamento all’atto dell’assunzione
Due milioni di dimissioni bianche
di Maria Novella De Luca


Che cosa si può fare oggi concretamente per difendersi da questo sopruso?
Cos´è questa prassi illegale e come si fa ad attuare una distorsione delle regole tanto evidente?

Accade nei cantieri, nei negozi, nei centri commerciali, nelle botteghe artigiane, nelle imprese. Tra le ricamatrici di abiti da sposa di Barletta come tra gli operai metalmeccanici di Terni. Nelle aziende in crisi ma anche in quelle sane. Dove ci sono 10 dipendenti, ma anche 50. Al Sud e al Nord. Si chiamano "dimissioni in bianco".
Sono una delle piaghe più sommerse e invisibili del mercato del lavoro in Italia, la clausola nascosta del 15% dei contratti a tempo indeterminato, un ricatto che colpisce due milioni di dipendenti, in gran parte donne.
Ricorda Fabrizio B., meccanico specializzato di 34 anni, oggi a contratto in una grande acciaieria umbra: «Con un´unica penna ho firmato la mia assunzione e le mie dimissioni, la speranza e la condanna, sapevo che era un ricatto, sapevo che era illegale, ma avevo due figlie piccole, un mutuo, e il bisogno, disperato, di uno stipendio. Era il 2003: cinque anni dopo, quando mi sono opposto a turni di lavoro disumani, il mio principale dopo mesi di mobbing ha tirato fuori la lettera e ci ha messo la data. Sono stato cacciato, ma in realtà risultavo "dimesso". E dunque senza possibilità di oppormi, di avere né disoccupazione né altro… Ho impiegato anni per riprendermi, il mio matrimonio è fallito, ho rischiato di perdere la casa. E oggi ancora ne porto i segni».
Si annida dappertutto il fenomeno delle dimissioni in bianco, rappresenta oltre il 10% di tutte le controversie di lavoro dei patronati Acli, il 5% di quelle degli uffici vertenze della Cisl, spunta come una gramigna cattiva da ogni interstizio produttivo, tra le commesse dei negozi di lusso come tra gli impiegati delle agenzie di servizi, nell´edilizia senza regole che cementifica le nuove periferie, ma anche nelle botteghe artigiane dell´orgoglio made in Italy. E nell´80% dei casi resta un reato impunito e taciuto. Ma che cosa è questa prassi illegale che coinvolge il 60% delle lavoratrici donne e il 40% dei lavoratori maschi, la manodopera operaia, tessile e artigiana, ma si estende anche, e con una percentuale del 25%, al personale impiegatizio di piccole e medie aziende? Come si fa a ricattare così un lavoratore, ma soprattutto una lavoratrice (le donne spesso vengono "dimissionate" non appena tornano dalla maternità) con una distorsione delle regole tanto evidente che il ministro del Lavoro Fornero, su pressione di diversi gruppi di donne, ha annunciato a breve un provvedimento per rendere impossibili le dimissioni in bianco?
La promessa e l´inganno
«In pratica - spiega Pasquale De Dilectis, direttore provinciale del patronato Acli di Napoli - al momento dell´assunzione le aziende fanno firmare al lavoratore un foglio completamente in bianco, o magari una pagina già compilata ma senza una data, in cui il neo dipendente presenta le proprie dimissioni. Questa lettera viene custodita dal titolare che così può decidere, in ogni momento, di mandare via quell´operaio senza doverlo licenziare, e dunque mettendosi al riparo da cause e contenziosi…». Perché è difficilissimo, una volta firmata una lettera autografa, dimostrare che si è stati costretti a quel gesto, e spesso patronati e sindacati non possono fare altro che "raccogliere" la storia di quell´uomo o quella donna ricattati e beffati da padroni senza scrupoli. E si può essere "dimissionati" per decine di pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, l´età, i rapporti con il sindacato. O semplicemente, anzi cinicamente, raccontano ancora alle Acli, «per lo scadere dei benefici della legge 407 del 1990, che permette ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato di non pagare per 3 anni i contributi al neo-dipendente che viene coperto direttamente dall´Inps». Passati quei mille giorni la lettera salta fuori e il lavoratore diventa carta straccia, avanti il prossimo per poter "rubare" i benefici di legge.
Cacciate dopo la maternità
Ottocentomila donne nate dopo il 1973 hanno raccontato all´Istat di essere state licenziate o costrette a dimettersi dopo la maternità. In quel momento strategico in cui, compiuto l´anno del bambino, le donne non sono più protette dalla legge 1204 del 30 dicembre 1971, sulla "Tutela delle lavoratrici madri", e dunque le aziende sanno che sia le "dimissioni in bianco" sia i licenziamenti diventano meno attaccabili e sanzionabili. «Il dato è davvero critico - commenta Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento di Statistiche Sociali e Ambientali dell´Istat - perché questa condizione sta addirittura peggiorando tra le donne più giovani».
«Se penso che in azienda l´abito da sposa me lo sono cucito e ricamato da sola, seta Mikado e fiori di madreperla, e poi la titolare lo ha messo in collezione, ancora mi viene da piangere». Sì, perché Adele Ferri, che oggi ha 30 anni, in quella piccola ditta di alta sartoria nota in tutta la Puglia, aveva cominciato a lavorare a 15 anni, «come succede da noi, a Barletta, mia nonna diceva che avevo le mani d´oro, mi hanno preso come lavorante, nemmeno il corso ho fatto tanto ero brava, ma un contratto vero, anche se a termine, me l´hanno fatto soltanto a 18 anni».
Corre veloce Adele, sacrifica alla "ditta" amici, vacanze e domeniche, ma lo fa con passione, perché, racconta oggi nello studio del suo avvocato, «sapevo che mi stavo creando un futuro, un posto di lavoro, intorno a me c´erano soltanto tanti giovani disoccupati, mi sentivo quasi fortunata». Accade però che a 22 anni Adele si fidanza, e la titolare a sorpresa la convoca. «Mi disse che voleva farmi un regalo, ora che stavo per formarmi una famiglia, io che per lei, così ripeteva, ero come una figlia: un contratto a tempo indeterminato, ma che dovevo anche firmare una lettera in cui mi dimettevo, ma soltanto così, per sicurezza, l´avevano già fatto tutte le altre, e figuriamoci se si sarebbe mai privata di una come me. Accettai, delusa, ma ancora mi fidavo». A 23 anni Adele si sposa, a 25 resta incinta. «Ho lavorato fino all´ottavo mese, quasi non riuscivo più nemmeno a piegarmi per provare i vestiti alle clienti, ero già in maternità e ancora mi chiamavano». Nasce Alex, e Adele cambia. Prende l´aspettativa. Torna in ditta ma non ce la fa più. Chiede di non fare gli straordinari, esige che il contratto di lavoro venga rispettato, chiama il sindacato. «Era febbraio, erano i giorni di Carnevale, e la titolare tirò fuori quella lettera: da domani tu vai a casa, non ti riconosco più, non voglio guai qui… Nove anni sepolti in un attimo e oltretutto con la mia firma… Ho avuto la depressione, ma poi sono riuscita a risollevarmi e sto iniziando una causa, nell´attesa di aprire un atelier tutto mio».
La legge cancellata
Contro la piaga endemica delle dimissioni in bianco, che, stima Luana Del Bino dell´ufficio vertenze della Cgil di Pistoia «riguarda il 15% di tutti i contratti a tempo indeterminato», quindi circa due milioni di lavoratori, il governo Prodi aveva varato una legge illuminata, la numero 188 del 17 ottobre 2007. Titti Di Salvo, oggi nell´ufficio di presidenza di Sel, era stata la relatrice di quella legge, fatta di un solo, ma essenziale articolo. «Ciò che veniva imposto è che le dimissioni fossero presentate su moduli identificati da codici numerici progressivi e validi non oltre 15 giorni dalla data emissione. Per evitare appunto la data "in bianco". Purtroppo la legge entrò in vigore soltanto all´inizio del 2008, poco prima che si sciogliessero le camere. Eppure l´aver semplicemente annunciato sanzioni e provvedimenti contro la prassi delle dimissioni in bianco aveva già avuto un effetto deterrente. Ma è stato solo un momento, perché il primo provvedimento del governo Berlusconi - dice con amarezza Titti Di Salvo - è stata proprio la cancellazione di quella legge, ad opera del ministro Sacconi».
Un colpo di spugna che unito alla crisi, ricorda Amedeo Contili delle Acli di Terni, ha inabissato il fenomeno ancor di più, «peggiorando le condizioni delle donne dopo la maternità, degli immigrati e di chi lavora nell´edilizia, con l´aggravante che questi lavoratori non possono accedere né alla indennità di disoccupazione, né ad altri ammortizzatori sociali». Ma che cosa si può fare allora per difendersi da questo sopruso, dal ricatto di quelle lettere firmate per bisogno e per disperazione, nell´attesa che il ministro Fornero davvero intervenga contro questa piaga?
Gli 007 della Cgil toscana
All´ufficio vertenze della Cgil di Pistoia, che già nel 2007 raccolse i dati nazionali del fenomeno, alle dimissioni in bianco hanno dichiarato guerra. Vincendo decine di cause contro aziende fuorilegge. «Attraverso un tam tam capillare sui giornali locali, nelle fabbriche, nelle radio, ovunque, cerchiamo di informare i lavoratori, e li spingiamo comunque a venire da noi nonostante abbiano firmato quelle lettere al momento dell´assunzione. Quello che suggeriamo loro - spiega Luana Del Bino - è di inviare con una raccomandata postale una dichiarazione autografa all´ufficio vertenze, in cui denunciano di essere stati costretti a firmare un foglio di dimissioni in bianco, in quel giorno e in quell´azienda. Noi non apriamo queste buste, le mettiamo in cassaforte, ma quando il titolare di un´impresa decide effettivamente di "dimissionare" un proprio dipendente, noi ci presentiamo con quella lettera che abbiamo custodito per anni… E ci vuole poco ai consulenti del lavoro per capire che l´azienda è in torto e il reato è la truffa. Siamo anche arrivati alle perizie calligrafiche. E molti lavoratori hanno così riavuto il loro posto. Ma è sempre e soltanto una goccia nel mare».
I ricattati del Sud
Non gli era sembrato vero ad Antonio P., 45 anni e 4 figli, una casetta condonata in un piccolo comune del Casertano, vent´anni di matrimonio con Anna, di ricevere quella proposta di lavoro a tempo indeterminato. È un buon manovale Antonio, lo conoscono tutti, «per campare la famiglia onestamente non mi sono mai tirato indietro, sempre in lista al collocamento, ho sempre fatto di tutto, i miei figli studiano, sono bravi ragazzi, ma mai nessuno che mi avesse messo in regola, solo impiego a giornata, contratti a termine e spesso scoprivo che erano finti…». Ma questa volta è diverso. Chi lo chiama è il titolare di una nota ditta di manutenzione stabili. «Antò, mi hanno affidato un grosso lavoro di pulizie, questa volta ti assumo». Antonio si fida, è quasi felice, da mesi non guadagna, l´edilizia è in crisi, i cantieri fermi. O sequestrati. Il giorno dell´assunzione però il titolare svela le carte. «Antò, devi firmare anche le dimissioni, senza data, perché quando finiscono i contributi dello Stato, te ne devi andare, mi dispiace, ma io non ce la faccio, però ti conviene, almeno per un po´ guadagni…». Antonio è confuso, deluso, prende tempo, torna al collocamento, parla con i volontari della parrocchia che aiutano i disoccupati a districarsi tra le norme e i contratti.
«Mi consigliarono di pensarci bene, dicendomi sì che era un ricatto schifoso, ma anche che così potevo portare i soldi a casa, con 4 figli non si scherza, finisce che prima poi devi chiedere un favore a qualcuno e allora sì che è un macello… Quella sera ho discusso con Anna, era stanca, sfinita, tutto il giorno a correre per fare le ore nelle case, negli uffici. Abbiamo capito di non avere scelta, meglio questo che la fame o la delinquenza: ho firmato quella lettera scritta al computer e su cui prima o poi il mio principale metterà la data. I mesi di contributi agevolati che lo Stato dà per il mio contratto scadono a giugno: dopo c´è il nulla… No, anzi, c´è la comunione di mia figlia Laura. C´è il vestito, il pranzo, i confetti. Magari trovo un prestito…» .

Repubblica 20.1.12
Dopo gli scontri in Francia contestata a Milano l’opera teatrale di Castellucci
Il volto di Gesù e l’integralismo della Chiesa
Il Vaticano: fermate la pièce su Gesù
di Adriano Prosperi


Lo spettacolo del regista Romeo Castellucci, "Sul concetto di volto nel figlio di Dio", è un dialogo tra un figlio e un padre anziano colpito da dissenteria: il dialogo si svolge sotto una grande riproduzione di un celebre volto di Cristo.
È il volto dipinto da Antonello da Messina: un Cristo vero e bellissimo uomo. Un Gesù dall´espressione dolce e intensa, un´immagine lontana da quella tradizione di origine francescana che ha insistito sugli strazi della Passione, il sangue, le spine, l´allucinata magrezza. Questa versione ha vinto nella storia della religiosità cattolica e segnatamente italiana perché ha dato espressione al bisogno di accostarsi a Cristo come uomo, di trovare in lui una figura fraterna, un mediatore dolce e rassicurante col Padre Eterno. Ma in questo spettacolo è proprio quella perfezione fisica che viene presentata come una provocazione intollerabile per chi sta sperimentando il degrado e l´umiliazione estrema del corpo di un padre nell´estrema decadenza della vecchiaia. La reazione a questo conflitto è l´iconoclastia, l´offesa all´immagine: un gruppo di giovani sporca quell´immagine, le scaglia contro sassi e granate.
È una drammatica sfida, una maniera di chiedere una spiegazione a Dio, dunque qualcosa che appartiene in profondità all´esperienza religiosa. Si può chiamare a testimone un sacerdote che fu anche un intellettuale cattolico e un grande organizzatore di cultura, don Giuseppe De Luca. Nella sua definizione della pietà era inclusa anche l´offesa a Dio, la bestemmia, l´esecrazione, l´empietà: tanti segni, secondo lui, di un rapporto vivo tra l´uomo e Dio, di un atteggiamento diverso dall´indifferenza e dal distacco di chi non si sente minimamente interrogato dal messaggio religioso. Questa scena aveva suscitato reazioni polemiche di gruppi cattolici tradizionalisti francesi durante le rappresentazioni parigine nell´ottobre scorso. Ora il dramma è in cartellone a Milano al Teatro Franco Parenti a partire dal 24 gennaio. Il regista ha annunciato che la scena delle offese all´immagine non ci sarà. Fa parte della sua libertà di decidere in materia. E fa parte della libertà degli spettatori il diritto di andare a teatro e di giudicare il dramma in base alla loro sensibilità e alla loro cultura. Anche di protestare, se si sentono offesi nei loro sentimenti.
Invece in questo caso non si vuole che il dramma sia rappresentato. Rispolverando toni intransigenti e scandalizzati che riportano ai tempi delle condanne del teatro da parte di San Carlo Borromeo. un comitato che non a caso si intitola proprio al nome del santo milanese ha chiesto al teatro milanese di «voler cancellare questo spettacolo» perché è una «offesa a Cristo e, con lui, a tutti i cattolici». Ed è giunta, insieme ad altre reazioni dello stesso tipo, una lettera di monsignor Peter Wells della Segreteria di Stato vaticana che accusa il dramma di Castellucci di essere un´opera «offensiva nei confronti di Nostro Signore».
Milano non è Parigi, evidentemente. Né i cattolici italiani possono godere dei diritti dei cattolici francesi. In Italia non si può vedere, non si può giudicare con la propria testa. Questo è il punto. Alla Chiesa cattolica non si può muovere a cuor leggero l´accusa di essere un´agenzia dell´intolleranza religiosa: in tempi come i nostri ben altre sono le manifestazioni dell´intolleranza che destano preoccupazione. Lo scatenarsi della violenza da parte di chi si ritiene obbligato a vendicare l´onore del suo Dio o del suo profeta ha riportato all´ordine del giorno fenomeni che speravamo di avere lasciato in un remoto passato. La Chiesa cattolica ha dimostrato di saper aprire un confronto col mondo moderno all´interno di una accettazione del principio della libertà delle coscienze e della tolleranza: una tolleranza che si somma spesso alla saggezza politica. Talvolta eccessivamente politica a giudizio di molti, che preferirebbero una proposta religiosa capace di distinguere i veri credenti dal cattolicesimo sociologico della maggioranza.
Se ne è avuto un esempio nella non dimenticata controversia giuridica sull´affissione del Crocifisso nei luoghi pubblici quando le autorità ecclesiastiche ne hanno sottolineato il carattere di "arredo" mettendo in ombra quello di sconvolgente simbolo religioso. Resta il fatto che l´Italia per questa Chiesa è una provincia speciale dove si deve ancora sfoderare all´occasione il volto severo: come si fa coi bambini, come non si fa con gli adulti. Ritroviamo in questo episodio la conferma di una tradizione antica e la riprova di quello speciale stile della Chiesa di Roma che un esperto studioso di queste cose, il professor Jeffrey Haynes della London University, ha definito come l´esercizio di un "transnational soft power": un potere dolce, capace di adattarsi alle differenze locali e di modulare diversamente la voce a seconda dei destinatari. Con gli italiani, la voce è severa, per loro vige ancora la censura preventiva.

Repubblica 20.1.12
Tradizionalisti, "lefebvriani", esponenti dell´estrema destra. Annunciano veglie e "messe di riparazione"

"Fermiamo la blasfemia, a ogni costo" ecco chi sono i nuovi ultrà cattolici
Un arcipelago di sigle riunite dietro la protesta annunciando gesti clamorosi sul web
di Carlo Brambilla

MILANO - «Basta con la cristianofobia!» «Fermiamo la blasfemia!» «Dobbiamo reagire. Scendere in piazza. Protestare». Mentre si annunciano pubblici rosari, veglie di preghiera e messe di riparazione, corre sul web la protesta degli ultrà cattolici che hanno deciso di mobilitarsi contro lo spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio, del regista Romeo Castellucci, in cartellone al Teatro Franco Parenti dal 24 gennaio.
È un arcipelago di sigle. Che in qualche caso non nascondono le loro simpatie politiche per la destra estrema e usano toni antisemiti contro la direttrice ebrea del teatro, Andrèe Ruth Shammah. Alcuni gruppi sono noti, come Militia Christi o i comitati per la vita, altri sconosciuti, mai visti prima, piccole associazioni, microcomitati spuntati come funghi. Per tutti l´appuntamento, rilanciato via Facebook, Twitter, le mail e gli appelli sui siti sorti per l´occasione, è fissato per martedì prossimo davanti al Franco Parenti, in occasione della prima milanese dello spettacolo. «Da giorni, incessantemente, siamo stati identificati con i peggiori epiteti, criminalizzati e ghettizzati - afferma il Comitato San Carlo Borromeo, dopo aver ringraziato la presa della posizione della Santa Sede - con i solo intento di distogliere l´attenzione da quello che è il vero problema, ovvero l´offesa a Cristo e a tutti i cattolici. Siamo anche stati accusati di non essere cattolici maturi. Ma noi ci chiediamo quale persona di buon senso ricoprirebbe di escrementi l´immagine di una persona che ama? Siamo stati accusati di essere ultra-estremisti-integralisti, ma non solo abbiamo avuto l´appoggio del Cardinal Scola, ma ora abbiamo anche quello dichiarato dalla Santa Sede». E, se lo spettacolo non sarà cancellato il comitato annuncia già quale sarà la "riparazione pubblica": il rosario da recitare il giorno 28 gennaio.
Ma sono decine le sigle che aderiscono alla protesta, da Italia Cristiana alla Fondazione Lepanto, e poi ancora: Riscossa Cristiana, il Fronte della Tradizione, il comitato no 194, Ora et Labora. «Saremo centinaia di fedeli in arrivo da tutta Italia - annuncia Roberto Lastei, responsabile del gruppo più organizzato, Militia Christi, che ha sede a Roma, e si è distinto in passato per le battaglie contro l´"omicidio-aborto", il divorzio, l´eutanasia. - Però non definiteci oltranzisti. Siamo semplicemente credenti che si oppongono alla messa in scena di uno spettacolo osceno. Non lo abbiamo visto, ma sappiamo che il volto di Gesù viene offeso mentre nel teatro si diffonde una nauseante puzza di escrementi (sulla scena si svolge la storia di un figlio che assiste un padre anziano colpito da dissenteria, ndr)». La scena del lancio di granate e sassi, non escrementi, sul volto di Cristo non sarà presente nell´edizione milanese dell´opera.
Ma gli ultrà cattolici non vogliono sentire ragioni. Roberto Jonghi Lavarini von Urnavas, noto esponente dell´estrema destra cattolica milanese, soprannominato "il barone nero", un passato da dirigente del Fronte della Gioventù, nell´Msi, oggi militante del Pdl, è tra i più attivi in queste ore sul web. Con proclami minacciosi: «Siamo pronti a impedire fisicamente l´accesso al Teatro e l´esecuzione dello spettacolo. Quando il rosario e le preghiere non bastano più i veri cristiani sanno ancora usare la spada». In un suo comunicato la Curia milanese aveva chiesto ai fedeli toni assai diversi: «Manifestare il proprio dissenso non può accompagnarsi a eccessi di qualunque tipo, anche solo verbali».

il Riformista 20.1.12
Assemblea domenica a Roma. Vendola con De Magistris, Emiliano, Pisapia, Zedda, Landini della Fiom e Zipponi dell’Idv
Sel fa prove tecniche di Quarto polo
diu Ettore Maria Colombo


Il “Quarto polo” della sinistra radicale che lavora, costruisce e combatte alla sinistra del Pd non nascerà di certo la prossima domenica, quando, all’hotel Summit di Roma, si terrà l’Assemblea generale nazionale di Sel (Sinistra, ecologia e libertà). La formazione politica fu fondata da Nichi Vendola nel 2008 quando il governatore pugliese e i suoi colonnelli bertinottiani (Migliore, Giordano eccetera) uscirono da Rifondazione comunista, dopo un congresso perso al fotofinish con Paolo Ferrero, oggi segretario di quel che resta del Prc, poi si fusero con spezzoni degli ex-Ds (Mussi, Fava eccetera) e dei Verdi (Cento) per diventare, dopo aver perso dei pezzi (socialisti, verdi) quel che, appunto, oggi è Sel. Che se ne parli da tempo, però, di far nascere un Quarto Polo a sinistra del Pd, è un fatto. Ieri ne ha scritto Daniela Preziosi sul manifesto: «Il Quarto polo tenta la sinistra». Subito, ovvio, sono piovute le smentite, a partire da quelli che, domenica, saranno i due principali attori, pur in qualità di “esterni”, dell’assemblea vendoliana. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris (formalmente ancora iscritto all’Idv, in qualità di indipendente, ma di cui è parlamentare europeo), e quello di Bari, Michele Emiliano (ancora iscritto al Pd, ma ormai con una forte caratura autonoma), hanno fatto sapere, urbi et orbi che, insomma, di Quarti poli non se ne parla proprio per niente. De Magistris ha scritto una nota per dire che andrà da Vendola, «ma non nasce alcun Quarto Polo». Né, tantomeno, pensa di «rifondare il Pci», come gli era stato attribuito da qualcuno, Emiliano, il quale specifica anche: «Io, a differenza di Vendola, dialogo con tutti e punto all’alleanza con l’Udc».
Peraltro, in Puglia, tra maggio e giugno, si voterà nei capoluoghi di provincia, esclusi Bari e Foggia, e già sono iniziate le grandi manovre e i primi annusamenti tra Pd e Udc, senza dire del fatto che l’opposizione che l’Udc fa alla giunta Vendola è detta “di sua Maestà” e che proprio Emiliano coltiva da tempo il sogno di lanciare un’Opa sul suo partito, il Pd, non a sinistra.
Dall’altra parte, a Napoli, De Magistris sta lavorando a ben altro progetto e tutto fatto in casa, oltre che lontano anni luce dall’Idv e da Di Pietro, una “Rete” di movimenti civici e sociali che verrà lanciata il prossimo 28 febbraio da Napoli, primo officiante della Rete proprio lui, ’o sinnaco.
Non nasce nulla, dunque, domenica prossima? Solo una parata di illustri sindaci di sinistra, visto che interverranno i primi cittadini di Milano, Giuliano Pisapia, e di Cagliari, Massimo Zedda, che saranno anche iscritti e/o vicini a Sel, ma che di questi tempi hanno ben altri grattacapi, tutti locali? Non è detto. Infatti, un’altra cosa è certa: tra i leader di Idv e Sel, e cioè tra Vendola e Di Pietro, corrono sempre di più e sempre più spesso corrispondenze di amorosi sensi. È dalla nascita del governo Monti in avanti che i due leader si vedono, si sentono e si muovono, di fatto, sulla stessa falsariga. Di Pietro dentro il Parlamento, Vendola fuori, per ora (ma i raid del governatore pugliese alla Camera dei deputati sono sempre più frequenti) hanno stabilito qualcosa in più di una semplice entende cordiale. Sui temi economico-sociali (lavoro, welfare, liberalizzazioni) e istituzionali (ventilata e temuta da entrambi una riforma della legge elettorale in senso punitivo per Idv e Sel in testa) il patto stretto dai due leader (specie nei confronti dell’alleato più temuto e inviso, il Pd) è questo: nulla potrà mai essere fatto contro l’uno o contro l’altro dei due contraenti della Duplice intesa. A sigillare il patto la presenza, sempre domenica e sempre all’assemblea di Sel, del leader della Fiom, Maurizio Landini, e del responsabile Lavoro dell’Idv (ex Fiom ed ex rifondarolo bertinottiano) Maurizio Zipponi. Il quale Zipponi è diventato presidente del Comitato editoriale del settimanale Gli Altri, diretto da Piero Sansonetti, ex direttore di una Liberazione ultras proVendola, dentro il Prc. Se non è un Quarto polo poco ci manca: di certo, per Idv e Sel, si tratterebbe della quadratura del cerchio.

Corriere della Sera 20.1.12
I 100 milioni di donne che mancano all'appello
di Edoardo Boncinelli


Al momento mancano all'appello 100 milioni di donne, mai nate o presto morte. In tutte le parti del mondo, ma soprattutto in Paesi sconfinati e prepotentemente emergenti come l'India e la Cina. È un fenomeno di proporzioni allarmanti di cui solo raramente si sente parlare, ed è assai appropriato che adesso Anna Meldolesi lo affronti seriamente nel suo nitido libretto Mai nate (Mondadori Università, pp. 194, 16), dove si analizzano i fatti, si cerca di capirne le motivazioni e si propongono sommessamente soluzioni.
Varie sono le ragioni per cui in alcune famiglie si preferiscono figli maschi, e li si preferisce a tal punto da sopprimere le eventuali figlie femmine utilizzando le tecniche più diverse, dalla selezione degli spermatozoi alla diagnosi prenatale fino all'infanticidio mirato dei neonati femmina. Si è arrivati a calcolare che «nel 2020 un cinese su cinque potrebbe non riuscire a trovare moglie. I ragazzi maschi al di sotto dei 19 anni, infatti, supereranno le coetanee femmine di 30-40 milioni». Molte di queste ragioni affondano le radici nelle tradizioni di una società patriarcale di un certo tipo, anche se a volte si citano anche particolari condizioni di natura socio-economica. È però prevalentemente la tradizione che porta Paesi come l'Albania, la Georgia, le Filippine, lo Sri Lanka, il Venezuela o l'Armenia a presentare un disarmante quadro di genericidio, cioé di soppressione di embrioni o infanti di sesso femminile. Gli abitanti di questi Paesi importano spesso questa loro usanza anche nelle Nazioni nelle quali si trovano a emigrare, almeno alla prima generazione. Tutto ciò nonostante nel luogo di arrivo non si riscontrino che alcune delle condizioni socio-economiche tipiche del luogo di partenza.
Incalzante ed eccezionalmente documentato, il libro di Anna Meldolesi è un modello di serietà e di impegno, sempre attento all'obiettività, senza mai indulgere alla retorica e alle mitologie oggi imperanti. L'autrice è evidentemente convinta, come me, del fatto che la verità sia la migliore delle mitologie e che una buona causa si serva meglio sforzandosi di essere obiettivi piuttosto che partigiani, perché i miti e i risentimenti passano, la verità resta. Anche con le migliori intenzioni, la non-verità resta non-verità, e non si sa mai quale uso se ne potrà fare in seguito.
E che questa sia una buona causa non c'è proprio dubbio: non esiste nulla nella natura né nella cultura che possa consigliare di fare a meno di un così alto numero di esseri umani di sesso femminile, anche al di là di ogni considerazione suggerita dalla pietas. Sono veramente lunghi e contorti i percorsi che portano dalla natura alla cultura, e alcuni si presentano francamente incomprensibili. Questo vale soprattutto per quelli di cui non si parla mai e che vengono dati per ovvi o scontati. È quindi opportuno dare per scontato il minor numero possibile di convinzioni sociali: non si sa mai che cosa ne può derivare. E, come è noto, è molto più facile prevenire che correggere.

Corriere della Sera 20.1.12
Marx ed Engels restino a Berlino quella statua non oltraggia nessuno
di Pierluigi Battista


La prevalenza del gesto simbolico crea troppi guai. Sfrattare la statua di Marx ed Engels dal centro di Berlino, come sfregio alla Germania comunista che ne aveva voluto la costruzione, colpisce un simbolo ma evita di fare i conti seriamente con il passato. A chi fa paura quella statua? Qual è la molla segreta che spinge un democristiano tedesco a prendersela con un monumento?
La molla segreta è appunto l'eccessiva importanza che si vuole dare al simbolo. È l'idea, frutto di una cattiva pedagogia, che la rimozione di un simbolo cancelli ipso facto il passato che si vuole condannare. È la stessa molla segreta di chi vuole cambiare la toponomastica dei regimi abbattuti, di chi vuole demolire monumenti e statue di un passato che si vuole rimuovere. Si comprende per esempio chi ha voluto in Spagna umiliare le statue equestri di Francisco Franco come protesta per un regime la cui insopportabilità è ancora nella memoria di tutti: ma si è trattato solo di un gesto, non di una resa dei conti profonda con il passato franchista che ha contagiato gran parte della società spagnola. Si comprende anche la ragione che ha indotto l'esponente della Cdu tedesca a liquidare un monumento dedicato alla santificazione dei due fondatori del movimento comunista e fortemente voluto dal dittatore Honecker a metà degli anni Ottanta. Si capisce che quei simboli restano, nella memoria collettiva, come segni di un regime oppressivo e poliziesco che ha vessato per anni milioni di tedeschi. Ma che a tanti anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino, ancora quella statua sia considerata una presenza oltraggiosa appare un anacronismo difficilmente comprensibile. Come se lo sradicamento di un monumento potesse fare tabula rasa del passato, come se uno schiaffo postumo a una dittatura potesse risarcire le sofferenze patite nel passato. L'Italia ha avuto lo stesso problema con le vestigia del fascismo: si negava il passato rimuovendone i simboli, ma il passato ostinatamente restava nei precordi della società italiana. La smobilitazione simbolica resta solo un simbolo. Ed è il simbolo di una smania di azzeramento del passato, che è il contrario della sua rielaborazione. Le statue possono restare dove sono.

Corriere della Sera 20.1.12
Perché è interesse di Israele essere uno Stato come gli altri
risponde Sergio Romano


Nell'affrontare la questione dei pro e dei contro alle missioni all'estero del nostro esercito, lei ha correttamente citato i teatri di guerra dove i nostri soldati sono o sono stati impegnati quali, nell'ordine, Corno d'Africa, Bosnia, Kosovo, Iraq, Libano, Afghanistan.
Non essendo pertinente alla questione affrontata, si è correttamente astenuto dal giudizio su ragioni e torti dei conflitti e delle parti in causa. Non ho potuto non notare, però, con mio profondo rincrescimento, che, solo per la missione in Libano ha parlato di «attacco israeliano contro il Libano» dando al lettore una evidente lettura delle responsabilità del conflitto, senza ricordare le cause che lo hanno determinato e l'aggressione (sotto forma di sconfinamenti, uccisioni e rapimenti), subita da Israele, che ha dato inizio alla guerra.
A questo punto mi chiedo se sia stata una svista (cosa che spero), se sia stato un riflesso condizionato (cosa che non spero) o se abbia ragione chi sostiene che il suo giudizio sulle tematiche israeliane sia condizionato da un pregiudizio che non sempre le consente di mantenere il giusto equilibrio nell'analisi (cosa che mi farebbe inorridire).
David Caviglia Roma

Caro Caviglia,
Per spiegare l'invio di missioni militari in Somalia, Bosnia, Kosovo, Iraq e Afghanistan, non era necessario fornire al lettore maggiori informazioni. Per spiegare il rafforzamento di Unifil (una forza dell'Onu presente in Libano da parecchi decenni) occorreva invece evocare brevemente l'antefatto, vale a dire l'operazione militare lanciata da Israele contro il territorio libanese. Lei ha ragione quando osserva che l'espressione «attacco israeliano» conteneva un giudizio sull'opportunità dell'operazione. Ma se questo è un segno di scarsa neutralità devo ricordarle che mi sono macchiato della stessa colpa quando ho parlato di guerra della Nato contro la Serbia, di aggressione americana dell'Iraq e di guerra anglofrancese contro la Libia di Gheddafi. In ciascuno di questi casi ho detto esplicitamente dove fossero, a mio avviso, le responsabilità del conflitto. Devo essere considerato antiamericano, antibritannico e antifrancese? È possibile dire che la guerra americana nel Vietnam fu un tragico errore senza essere considerato nemico degli Stati Uniti?
Nella politica internazionale esistono interessi comuni e interdipendenze che espongono ogni Stato al giudizio di altri Paesi. Perché Israele dovrebbe sfuggire a questa regola? Forse uno dei suoi maggiori problemi è proprio una certa tendenza a giustificare la propria politica con l'eccezionalità della sua storia. Questa argomentazione gli è stata utile in molte circostanze, ma è destinata a essere, col passare del tempo, sempre meno efficace. Non credo che Israele possa contare indefinitamente sull'amicizia e la complicità degli Stati Uniti. Non credo che l'accusa di antisemitismo o antisionismo, indirizzata ai suoi critici, possa continuare a giustificare le imprudenze e le imprevidenze della sua politica estera. Credo che sia suo interesse essere considerato uno Stato come gli altri.

l’Unità 20.1.12
La nostalgia di tornare al futuro
Festival delle scienze C’è chi pensa che non sia concepibile spostarsi da un secolo all’altro. Eppure esistono tante storie che riguardano proprio i viaggi temporali. Vi anticipiamo una parte della lectio magistralis di Markosian
di Ned Markosian


Abbiamo tutti una certa familiarità con le storie che raccontano di viaggi nel tempo e sono pochi quelli fra noi che non hanno mai immaginato di viaggiare indietro nel tempo per ritrovarsi in un particolare periodo storico o per incontrare qualche interessante personaggio del passato. Ma viaggiare nel tempo è possibile? Una questione rilevante è se il viaggio nel tempo sia permesso dalle leggi della natura oggi comunemente accettate. Questo presumibilmente è un argomento che riguarda le scienze empiriche (o forse dovremmo dire la corretta interpretazione filosofica delle nostre migliori teorie delle scienze empiriche). Ma c’è un’ulteriore questione, che invece ricade interamente sotto le competenze della filosofia: se il viaggio nel tempo sia permesso dalle leggi della logica e della metafisica. Il problema si pone in quanto alcuni hanno osservato che dalla supposizione che il viaggio nel tempo sia (logicamente e metafisicamente) possibile, discendono diverse assurdità. Ecco un esempio di queste argomentazioni.
TRE QUESTIONI
1. Se si potesse viaggiare nel tempo, allora sarebbe possibile che qualcuno uccida suo nonno prima ancora che suo padre venga concepito (infatti che cosa potrebbe impedirgli di portare con sé una pistola e sparargli?)
2. Ma non è possibile che qualcuno possa uccidere suo nonno prima ancora che suo padre sia stato concepito (perché se potesse farlo, quel qualcuno potrebbe affermare con certezza che egli stesso non esiste, ma questa è una cosa che nessuno può affermare).
3. Dunque, non si può viaggiare indietro nel tempo.
Un altro argomento che può essere sollevato contro la possibilità di viaggiare nel tempo si basa sull’accettazione della verità del Presentismo (una teoria secondo cui solo gli oggetti e gli eventi del presente esistono, ndr). Se il Presentismo è vero, infatti, allora non esistono né gli oggetti del futuro né quelli del passato. In questo caso, sarebbe difficile immaginare come qualcuno possa viaggiare verso il futuro o verso il passato.
Nonostante l’esistenza di questi ed altri argomenti contro la possibilità di viaggiare nel tempo, ci sono, d’altro canto, problemi connessi con l’affermazione che i viaggi nel tempo non sono possibili. Per prima cosa, infatti, molti scienziati e molti filosofi credono che le leggi attuali della fisica siano compatibili con i viaggi nel tempo. E inoltre, come ho già detto, spesso pensiamo storie che hanno a che fare con i viaggi nel tempo. Ma è plausibile pensare che una storia non possa descrivere cose che sono addirittura impossibili.
SE DUE + DUE FA CINQUE
Per esempio, è naturale pensare che non potrebbe esserci una storia in cui due più due fa cinque, o in cui vi è una sfera che nello stesso tempo è e non è rossa. (Questo sembra particolarmente vero se la storia è raccontata con le immagini, come nel caso di un film.) Quindi, se il viaggio nel tempo fosse impossibile, noi non dovremmo nemmeno essere in grado di prendere in considerazione una qualsiasi storia in cui il viaggio nel tempo si verifica. Eppure lo facciamo in continuazione! Un compito che deve affrontare il filosofo che sostiene che viaggiare nel tempo è impossibile, allora, è quello di spiegare l'esistenza di un gran numero di ben note storie che sembrano riguardare in modo specifico proprio i viaggi nel tempo.
(traduzione a cura di Cristiana Pulcinelli)

l’Unità 20.1.12
Tutti i fisici pazzi per la macchina del tempo
Fu l’austriaco Gödel il primo a dimostrare che le equazioni della relatività generale consentono il ritorno nel passato
di Pietro Greco


Tra gli ultimi Seth Lloyd, docente a Boston e noto divulgatore. Ma anche Lorenzo Maccone, docente all’università di Pavia, e Vittorio Giovanetti, della Scuola Normale di Pisa. Sono ormai molti i fisici che credono possibile – almeno in linea teorica – costruire una «macchina del tempo» e scarrozzare a piacimento tra passato, presente e futuro. Il primo a pensarci, come tutti sanno e come spesso accade, uno scrittore: H. G. Wells, che nel 1895 scrisse, appunto, La macchina del tempo. Ma, al contrario di quanto molti pensano, l’idea non ha trasmigrato dalla letteratura alla fisica quando Albert Einstein elaborò, nel 1905, la teoria della relatività ristretta, con la quale mandò in soffitta il concetto di tempo assoluto. E neppure quando lo stesso Einstein, nel 1916, elaborò la teoria della relatività generale, dimostrando che la gravità può curvare le traiettorie spaziotemporali fino a chiuderle come in un laccio. No, abbiamo dovuto attendere Kurt Gödel – che molti ritengono il più grande logico di ogni tempo insieme ad Aristotele – e il 1949 prima che l’avveniristica macchina del tempo di Wells diventasse un’ipotesi scientifica. È solo in quell’anno che l’austriaco, emigrato negli Usa per sfuggire alle leggi razziali naziste, consegna all’amico Einstein una nota in cui dimostra che le equazioni della relatività generale consentono, in un universo che ruota su se stesso, di seguire una linea spaziotemporale chiusa e di ritornare nel passato.
«Che ne pensi?», chiede Gödel. Einstein è perplesso. Perché l’amico logico gli sta dicendo che, in linea di principio, è possibile che qualcuno torni nel suo passato, e novello don Rodrigo, impedisca che si celebrino le nozze tra suo padre e sua madre e con loro la sua stessa nascita. La «mia» relatività – rimugina Einstein – sta dunque mandando a gambe all’aria quel principio di causalità che io stesso sto strenuamente difendendo contro il possente assalto di quelli che Michele Bresso chiama, con ironia, i «malvagi quanta»?
Prima di ricordare cosa risponde Einstein a Gödel conviene ricordare che il tema della macchina del tempo, ovvero di come ritornare al passato, viene ripreso più tardi da un altro grande fisico teorico, John Wheeler, che scopre la possibilità di scavare nella topologia dello spaziotempo dei wormholes, dei buchi simili a quelli di un verme, e di trovare così una scorciatoia per viaggiare nel passato o nel futuro remoto senza dover percorrere l’intero periplo di quella strana mela che è l’universo quantorelativistico.
Dopo Wheeler, con i suoi wormholes (ancora oggi attuali), sono molti i fisici – da Roy Kerr a Frank Tipler, a Kip Thorne a Richard Gott – che, incuranti dei paradossi, si danno da fare nel proporre progetti per costruire la macchina del tempo. Certo finora i progetti si sono dimostrati difficili da realizzare. Ma se il problema è solo tecnologico e non fisico – dicono i fisici – allora il problema non c’è: prima o poi una soluzione si trova. Basta aspettare che la nostra società diventi abbastanza avanzata da riuscire a manipolare gli oggetti cosmici e il viaggio nel tempo potrà iniziare. Frank Tipler immagina, matematica alla mano, che questa società di crononauti presto (nel giro di alcuni miliardi di miliardi di anni) esisterà davvero. È per accorciare un po’ i tempi che ancora oggi molti colleghi di Tipler si spremono le meningi per trovare soluzioni pratiche più abbordabili. Ma, a proposito, cosa rispose Einstein quando Gödel gli mostrò che la sua relatività consente il ritorno al passato (o al futuro)? Caro Kurt – rispose con schietto scetticismo – se la teoria prevede la possibilità di costruire una macchina del tempo, allora o è una teoria sbagliata o una teoria incompleta. Lui alla causalità rigorosa non voleva rinunciare. Non senza combattere, almeno.

La Stampa 20.1.11
Il caso all’Onu
Il secondo più lungo della Terra
di Piero Bianucci


Non è la Guerra del Tempo ma la guerra dei tempi: quello misurato dalla cara vecchia rotazione della Terra e quello misurato dagli orologi atomici. Il primo è lievemente irregolare, il secondo è di gran lunga più stabile e preciso. La questione che si pone è: usare l’uno o l’altro?
Il mondo non va d’accordo, manco a dirlo, neppure sugli orologi. Finora si è adottato un compromesso.
Ogni tanto, cioè ogni uno o due anni, quando il tempo segnato dalla rotazione terrestre restava indietro di più di un secondo rispetto agli orologi atomici, si aggiungeva il secondo mancante mettendo forzatamente d’accordo Natura e Tecnologia. Un po’ come, per far quadrare gli anni con il moto della Terra intorno al Sole, si sono inventati gli anni bisestili con un giorno in più. Ma ora si litiga sul compromesso. Gli Stati Uniti vogliono abolire il «secondo intercalare». Adottiamo il tempo atomico – dicono – e non se ne parli più. Invece Gran Bretagna, Canada, Cina e la maggior parte degli altri Paesi difendono il compromesso tuttora vigente.
La disputa, che si trascina da anni, va allo scontro finale. Il 30 giugno le 70 nazioni che compongono la Commissione Telecomunicazioni, organismo dell’Onu con sede a Ginevra, dovranno prendere una decisione: mantenere o abolire il secondo aggiuntivo. Cioè fermare o non fermare per un secondo tutti gli orologi del mondo.
Non è un problema come il sesso degli angeli. Quel secondo ha conseguenze importanti. Stando agli esperti degli Stati Uniti, infilare ogni tanto un secondo in più è una operazione carica di rischi. I computer, le reti di telecomunicazione (a cominciare da Internet), le reti elettriche, i satelliti GPS sono sincronizzati sull’ora atomica. Intervenire con il secondo intercalare significherebbe mettere a rischio l’intero sistema. In effetti, su ognuno dei 30 satelliti GPS sono imbarcati orologi atomici perché le misure di distanza sono oggi in pratica misure di tempo basate sulla velocità della luce. I GPS, quindi, devono funzionare con la precisione dei miliardesimi di secondo, altrimenti con il vostro navigatore non arrivereste davanti al portone di casa del vostro amico ma a chilometri di distanza.
I Paesi che si oppongono ad adottare esclusivamente l’ora atomica fanno invece un ragionamento di buon senso: dopo tutto la vita umana è scandita dall’alternanza giorno/notte, cioè dalla rotazione della Terra. Questo, quindi, deve essere il vero riferimento, e pazienza se non è precisa come gli orologi atomici. Abolendo il secondo intercalare, tra decine di migliaia di anni si potrebbe arrivare al paradosso che il Sole brilla di notte e a mezzogiorno è buio. D’altra parte, se dagli Anni Sessanta del secolo scorso ad oggi per più di trenta volte si è aggiunto il famoso secondo per compensare il rallentamento della Terra e non è successa nessuna catastrofe né informatica né alle reti di telecomunicazione né ai sistemi di navigazione satellitare, è chiaro che un pericolo grave non c’è. Semplicemente, quando si ferma artificialmente la lancetta, ciò deve avvenire anche sui satelliti GPS.
Ribattono gli Stati Uniti che comunque il rischio sussiste, mentre lo sfasamento giorno/notte è un problema che si porrà tra un sacco di tempo.
In realtà dietro tutta la faccenda c’è anche un po’ di lotta di potere. La Gran Bretagna difende l’ora della Terra perché il riferimento è, alla fin fine, lo storico meridiano di Greenwich, che si impose su altri possibili riferimenti (concorreva, per esempio, anche Parigi) solo perché Sua Maestà stava anche a capo del più grande impero mondiale. Gli Stati Uniti, facendo passare l’ora atomica difesa dal Naval Observatory di Washington, instaurerebbero un loro imperialismo di carattere tecnologico-culturale.
Il rallentamento della Terra è dovuto all’attrito delle maree, e quindi è abbastanza costante. Talvolta però spostamenti di grandi masse d’aria o di magma e rocce nelle profondità del pianeta causano piccole irregolarità. Gli orologi atomici non sono soggetti a questi malumori. In essi scandisce il tempo in modo inesorabile lo strato esterno degli elettroni dell’atomo di cesio: 9 miliardi 192 milioni 631 mila 770 oscillazioni al secondo, non una di più né una di meno. Tanto che attualmente i migliori orologi atomici scarterebbero di un secondo in 30 milioni di anni.
Dunque: Terra o atomi? Fate voi. Tanto in ogni caso vi capiterà di arrivare in ritardo.

il Fatto 20.1.12
“Quando Scalfari si infatuò di De Mita”
Da Tangentopoli a B. Il racconto di Carlo De Benedetti
di Marco Damilano


Esce oggi per Laterza il libro di Marco Damilano “Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica”. Anticipiamo alcuni stralci della testimonianza di Carlo De Benedetti.
Nel 1976 – ricorda De Benedetti – arriva Bettino Craxi. Di lui si può dire quello che si vuole, io sono sempre stato un suo avversario, lo consideravo un bandito con atteggiamenti fascistoidi, di quelli sei con me o contro di me, un atteggiamento che i democristiani non avevano. Ma è stato un personaggio politico che ha marcato la storia italiana. Il suo primo obiettivo è stato distruggere l’asse Dc-Pci (...).
Craxi si rese conto che doveva fare un salto di qualità: capì che senza i soldi non si fa politica. E dunque cominciò a reclamare risorse in modo palese, spiegando che gli industriali per evitare il ricongiungimento cattocomunista avevano l’obbligo di finanziare l’unico politico che lo poteva impedire. ‘Guardi’, ti diceva con il suo modo spiccio di fare, ‘lei di politica non capisce un cazzo. Questo Paese ha bisogno di superare la vera tenaglia di arretratezza economica, culturale che è rappresentata dal ricongiungimento di due forze che sono entrambe conservatrici’. Ti poteva infastidire per il modo con cui ti porgeva le sue argomentazioni, l’arroganza, il sudore, le amicizie di cui si circondava, la volgarità della persona. Ma in quei primi anni 80 era difficile dargli torto nell’esigenza di modernizzazione (...). Penso che all’inizio i soldi li chiedesse per finanziare il suo partito e la sua politica. Balzamo aveva l’incarico di passare a incassare: tu prendevi un ordine, per dire, alle Poste e arrivava Balzamo e ti chiedeva il 5 per cento. Tutti pagavano, tutti. Anche perché la virulenza di Craxi era temibile, si capiva che in caso contrario si sarebbe vendicato. Lo provai sulla mia pelle: per averlo contrastato anche su questi argomenti mi ostacolò sulla Sme. Per lui significava mandare un messaggio chiaro a tutti gli altri, per esempio a Romiti sull’Alfa Romeo. Colpirne uno per educarne cento (...). Negli anni 80 Craxi cercò in tutti i modi di allontanare il Pci dalla Dc, e riuscì nell’obiettivo. E poi ci fu la sua seconda evoluzione, quando si rese conto che (...) per coronare il suo sogno di diventare premier doveva fare un patto con Forlani, che rappresentava le correnti più moderate della Dc, e con Andreotti, che era una potenza politica vera, con gli americani, con il Vaticano, aveva agganci con la massoneria e con la P2. Craxi, che per anni lo aveva insultato, la volpe che finisce in pellicceria, Belfagor e Belzebù, per andare a Palazzo Chigi scese a patti col suo peggior nemico (...).
Sulla guerra di Segrate Craxi fu il motore di Berlusconi, non c’è dubbio. A Berlusconi della Mondadori non interessava niente, il suo compito era conquistare Repubblica, era lo scalpo da portare a Craxi, perché la fissa di Craxi erano Scalfari e De Benedetti. Bisogna tenere presente che a un certo punto Repubblica stava per fallire e io l’avevo salvata, per Craxi rappresentavo dal punto di vista finanziario la garanzia di solidità economica del quotidiano, al di là della mia condivisione delle idee e della mia amicizia con Scalfari. Allora ha tentato il colpo tramite Leonardo Mondadori e Berlusconi per arrivare a Repubblica. Però Berlusconi aveva già cominciato a maturare l’idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. ‘Sai’, mi disse, ‘se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie televisioni, lo faccio fuori in cinque minuti’. Ma aveva bisogno della legge Mammì, per ottenerla era disposto a fare qualsiasi cosa, era il suo business.
ANDREOTTI, che non ha mai potuto vedere Craxi, mi chiamò a Palazzo Chigi, nella sua stanza, e mi disse: ‘A lei la Mondadori non la daremo mai, è già abbastanza quello che ha con Repubblica. Ma ancor di più io non permetterò mai che Berlusconi si impossessi di Repubblica, è troppo potente già oggi. Dunque dovete trovare una soluzione’. Aggiunse: ‘E noi la aiuteremo a trovarla: quando lei uscirà da questa stanza troverà nell’anticamera chi le può dare una mano’. Uscii, nell’anticamera ad aspettarmi c’era Luigi Bisignani... Dopo arrivò la mediazione di Ciarrapico (...). La leggenda del partito trasversale di Repubblica-Espresso nacque con l’infatuazione di Scalfari per De Mita. Nell’82, in vista dell’elezione del nuovo segretario della Dc, Marcora organizzò una cena a casa di Mario Formenton con una decina di persone, c’erano Pirelli, Lucchini, Romiti e l’establishment milanese, alla fine ci disse che avevano deciso di puntare su De Mita. Ci fu un ululato di scontento: ai nostri occhi De Mita era quello che da ministro aveva bloccato il prezzo della pasta, era visto come un dirigista, un politico meridionale vecchio stile, il peggio che si potesse avere (...). Scalfari invece pensò di poter gestire De Mita e attraverso di lui la Dc. Fino a quel momento aveva provato a gestire il Pci, e c’era riuscito. Quando De Mita andò a Palazzo Chigi, Scalfari gli consigliò la nomina di Andrea Manzella a segretario generale della presidenza del Consiglio, che era vicino a Spadolini e con la Dc non c’entrava nulla. De Mita chiamava Scalfari tutte le mattine, c’era una sudditanza impressionante (...). Se mi si chiede con quale ipotesi politica l’establishment imprenditoriale italiano arriva al 1992 rispondo: nessuna (...). All’improvviso è crollato tutto il sistema delle alleanze. È stato come trovarsi di fronte a un deserto e ognuno ha cominciato a giocare per sé perché ognuno aveva la coscienza sporca. Ci siamo trovati di fronte a Di Pietro che faceva paura.
Nel maggio 1993 concordai con il pool tramite l’avvocato De Luca che mi sarei presentato spontaneamente e che mi sarei assunto tutte le responsabilità, indicando un elenco di 4-5 operazioni in cui la Olivetti aveva elargito soldi e a chi. Nessun capo di azienda si comportò come me. La mia esperienza a Regina Coeli fu tutta un’altra storia. C’erano tre mandati di cattura, per me, per Gianni Letta e per Adriano Galliani. Il gip Augusta Iannini disse di avere ottimi rapporti di famiglia con Letta e con Galliani, per via del marito Bruno Vespa, e che non poteva essere obiettiva. Io obiettai che questo valeva anche per me, al contrario, per i miei pessimi rapporti con Berlusconi. Comunque ci fu un interrogatorio, chiari ilamiaposizione, uscii di prigione e nel processo venni assolto (in parte per prescrizione, ndr). L’Avvocato mi chiese se si sarebbero fermati, io gli risposi: ‘Guardi, non c’è niente da fare, questi sono portati dal vento’. La condizione di Agnelli era di angoscia. Il solo pensiero non dico di un arresto ma di finire in un interrogatorio non lo faceva dormire la notte. La paura individuale era il sentimento prevalente. E ognuno andò per conto suo: non ci fu neppure il tentativo di organizzare, non so se la parola sia esatta, una forma di difesa. Di Pietro aveva un’incredibile forza organizzativa, fisica, psicologica, me ne resi conto da come faceva le fotocopie o telefonava. Era un fulmine, una valanga (...).
NELL’ESTATE del 1993 Claudio Rinaldi, il direttore dell’Espresso, mio carissimo amico, mi ripeteva: ‘Guarda, Berlusconi vuole fare un partito’. Andai da Agnelli a chiedere se ne sapesse qualcosa, era il mese di giugno. ‘È vero che Berlusconi entra in politica? ’, gli domandai. ‘Qualche giorno fa è venuto a trovarmi il professor Giuliano Urbani, il capo del centro Einaudi a Torino, e mi ha proposto di scendere in campo per prendere il controllo del Paese. Io non sapevo come sbarazzarmene, l’ho spedito da quel matto di Berlusconi’. Parola di Agnelli del giugno 1993. (...) Gennaio 1994, colazione nella sua casa di St. Moritz, lui e io. Parliamo di Berlusconi e del suo partito. E l’Avvocato fa una previsione: ‘Farà un buco nell’acqua. Prenderà al massimo il 3 per cento, come i repubblicani’. Io ero meno convinto di lui, pensavo che al 10 per cento sarebbe arrivato. Nessuno di noi pensava che sarebbe stato votato da un terzo degli italiani e avrebbe vinto (...). Subito dopo la sua nomina a premier nel 1994 ci fu una cena organizzata da Agnelli in casa sua, c’eravamo io, Marzotto, Romiti, Lucchini. Era una sorta di introduzione del Berlusconi premier di fronte all’establishment confindustriale. Agnelli gli dava del lei: ‘Adesso che è arrivato a Palazzo Chigi la prima cosa che lei deve fare è la privatizzazione della Stet’. Berlusconi lo bloccò subito: ‘Quella azienda ora è mia, va bene, perché dovrei venderla? ’ (...). Cos’è rimasto di Tangentopoli? Niente. Mani Pulite non ha cambiato il Paese. La bufera è passata, l’Italia è rimasta la stessa. E in questa Italia immutabile a lungo ha vinto Berlusconi”. Eutanasia di un potere
“STORIA POLITICA D'ITALIA DA TANGENTOPOLI ALLA SECONDA REPUBBLICA” DI MARCO DAMILANO, EDITORI LATERZA, 336 PAG, 18 EURO

La Stampa 20.1.12
De Benedetti e Mani Pulite “Sì, il Pci fu protetto”
Nell’anniversario del ’92 un libro racconta la storia e interroga i protagonisti
E l’Ingegnere svela il ruolo di Bisignani come co-salvatore di “Repubblica”
di Fabio Martini


ROMA Craxi Di lui De Benedetti dice: «Un bandito, con atteggiamenti fascistoidi», «era uno che ti diceva, guardi lei di politica non capisce un c...»
De Benedetti In un libro appena uscito, l’Ingegnere destabilizza tanti luoghi comuni sulla stagione di Tangentopoli
Andreotti Il divo Giulio fu figura chiave per impedire a Silvio Berlusconi di mettere le mani su «Repubblica»
Di Pietro Il pm di Mani Pulite, snodo cruciale per capire gli ultimi vent’anni di storia italiana
Bisignani Andreotti disse a De Benedetti: «Quando lei uscirà, troverà nell’anticamera chi le può dare una mano». E spuntò Luigi Bisignani

Venti anni or sono - era il febbraio del 1992 - nello sciacquone della Baggina di Milano, assieme alle mazzette di Mario Chiesa, sembrò che potessero diluirsi anche i vizi più macroscopici della prima stagione della Repubblica. Di lì a due anni, effettivamente, lasciarono la scena leader e partiti che sembravano eterni, ma col passare del tempo sono poi riemerse quasi tutte le tare politiche, economiche e sociali che avevano portato a Tangentopoli e alla quasi bancarotta dello Stato. Al punto che Francesco Saverio Borrelli, qualche mese fa, è arrivato a dire: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite: non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale». Nei venti anni successivi perché la rivoluzione di Tangentopoli è rimasta confinata alla sfera giudiziaria? Per comprenderlo, bisogna tornare al crepuscolo della Prima Repubblica, studiare meglio le viscere di quegli anni così intensi: è questo l’assunto attorno al quale ruota il libro «Eutanasia di un potere», scritto per Laterza dal giornalista dell’«Espresso» Marco Damilano e da oggi in libreria.
Assieme ad una rilettura storico-politica del biennio 1992-93 e al racconto di una stagione anche attraverso la cultura popolare (tv, canzoni, film, satira), la novità è rappresentata dalle testimonianze di alcuni dei protagonisti. Tra tutte, la più spiazzante e anticonformista è quella proposta dall’ingegner Carlo De Benedetti. Considerato dai leader del Psi e della Dc come uno degli affossatori della Prima Repubblica («Un unico mascalzone grandissimo», scrisse di lui Bettino Craxi) ; nemico numero uno di Silvio Berlusconi nella guerra di Segrate ma anche nei venti anni successivi, l’Ingegnere rivela episodi e giudizi che destabilizzano tanti luoghi comuni, compresi alcuni che lo riguardano. A cominciare dalla guerra per il controllo della Mondadori. Racconta De Benedetti: «A Berlusconi della Mondadori non interessava niente», il compito che gli aveva affidato Craxi «era conquistare Repubblica», la quale - fa sapere l’Ingegnere quando era stata sul punto di «fallire», era stata da lui «salvata». E ancora: «Andreotti, che non aveva mai potuto vedere Craxi mi chiamò a palazzo Chigi e mi disse: a lei la Mondadori non la daremo mai, ma non permetterò che Berlusconi si impossessi di “Repubblica”», «e quando lei uscirà, troverà nell’anticamera chi le può dare una mano». Con gusto letterario, l’” Ing” tira la tenda del sipario: «Uscii. Nell’anticamera ad aspettarmi c’era Luigi Bisignani», sbalorditivo personaggio per tutte le stagioni, così svelato nel suo ruolo di co-salvatore della “corazzata antiberlusconiana”. E Craxi, l’uomo nero? «Io lo consideravo un bandito, con atteggiamenti fascistoidi», «era uno che ti diceva, guardi lei di politica non capisce un cazzo», «ma era difficile dargli torto nell’esigenza di modernizzare il Paese», bloccato da quella «tenaglia di arretratezza economica e culturale» che il segretario socialista vedeva incarnato nelle «due forze conservatrici», Dc e Pci.
Tanto più De Benedetti rivela di non aver mai condiviso «l’infatuazione» di Eugenio Scalfari, carismatico direttore fondatore della “Repubblica”, per Ciriaco De Mita: nel 1982, in una riunione di imprenditori «ci fu un ululato di scontento» quando Giovanni Marcora chiese un appoggio, ma invece Scalfari «pensò di poter gestire De Mita», visto che «fino a quel momento era riuscito a gestire il Pci». E Mani pulite? «Nessun capo di azienda si comportò come me», perché racconta De Benedetti di se stesso, «accettai di presentarmi spontaneamente in tribunale», raccontando le operazioni con le quali la Olivetti aveva elargito soldi ai partiti, anche se «la mia esperienza a Regina Coeli fu tutta un’altra storia», nel senso che «c’erano tre mandati di cattura, per me, Galliani e Gianni Letta, ma il gip Augusta Iannini disse di avere ottimi rapporti di famiglia con Letta e Galliani per via del marito Bruno Vespa e che non poteva essere obiettiva». Il pool di Mani pulite? Anche in questo caso De Benedetti corregge la vulgata sinistrorsa: «In quella operazione certamente il Pci è stato protetto, perché sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti». Berlusconi in politica? Nel giugno 1993 Gianni Agnelli si sente proporre da Giuliano Urbani di entrare in campo, ma come racconterà a De Benedetti, l’Avvocato gli rispose di rivolgersi a Berlusconi. Passato alla storia come l’affossatore del Caf, l’Ingegnere rivela, col gusto del dettaglio, di essere stato ospitato da Andreotti: «Quando entri nella casa di un politico, ti fai immediatamente un’idea se ha rubato o no: da Andreotti c’era un salotto mesto, con le foderine bianche appoggiate al divano per non sporcare il tessuto con la brillantina dei capelli. Cose da Ottocento... ».

La Stampa 20.1.12
Riecco il compagno G: noi tutelati? Io dissi tutto...
di Jacopo Iacoboni


Primo Greganti, ex tesoriere del Pci Ora svela: io zitto? Macché, parlai ore con i pm
Altro che Pci tutelato, altro che compagno G. zitto come una tomba: Primo Greganti rivela che parlò e parlò, e di tutto, con Di Pietro; al contrario della vulgata, «era difficile farmi stare zitto».
In un libro gustoso scritto da Federico Ferrero, un giornalista che si occupa di tennis per Eurosport (fa le telecronache) ma è appassionato di politica ( Alla fine della Fiera, Add editore), compare una smilza galleria di interviste-ritratto che ogni cultore del genere dovrebbe praticare, perché rivelano utili spigolature del nostro passato recentissimo, dunque del presente. Chi di voi ricorda per esempio Luca Leoni Orsenigo? È il leghista che all’ora di pranzo del 16 marzo del ‘93, mentre il premier Giuliano Amato tentava di salvare il salvabile, e mentre mezzo Psi finiva al gabbio, si alzò in aula sventolando un cappio. Divenne il simbolo atroce di quella stagione, che pure meriterebbe dopotutto rispetto. Se non fosse che poi oggi, uno come Leoni Orsenigo - un ragioniere di Cantù che era proprietario di un negozio di apparecchiature tecniche a Como - racconta come Bossi lo selezionò. Lo incontrò per caso, «mi chiese cosa sapevo fare: maneggiare le antenne. Detto fatto: mi mandò alla vigilanza Rai. sempre antenne erano, no? ». Il quale Bossi, racconta Leoni Orsenigo, «tra l’altro neanche sapeva di quello che mi ero inventato col cappio. Formentini lo informò e lui si fece una risata: d’accordo il gesto plateale, mi disse - però ero andato un po’ oltre». Un po’, testuale, che meraviglia. E fece anche il bel gesto di sospenderlo per quindici giorni. Se ne andò presto, Leoni, dalla politica, dopo due legislature pure brevi. Stanco, logorato, anche sfiduciato dopo la storia della mazzetta alla Lega incassata dal «pirla» (parole del Senatùr), il tesoriere Patelli. Ferrero gli chiede: secondo lei Bossi sapeva della tangente? E Leoni, notevole: «Mi faccia una domanda di riserva, per favore»...
Ci sono diverse altre cose interessanti, nel libro, per esempio le parole di Luca Magni, l’uomo che denunciando Mario Chiesa, amministratore di una casa di riposo, il 14 febbraio del ‘92 fece partire l’ondata di Mani Pulite; e parla appunto Alessandro Patelli, che sulla tangente Lega è sibillino, «non voglio dire né che Bossi sapesse né che non sapesse». Racconta che per fare certe rivelazioni sul capo della Lega ci vorrebbero prove scritte, e lui non ne ha; ha narrato tutta la storia a una giornalista, voleva farne un libro, poi la tipa tre mesi dopo lo chiamò informandolo che sarebbero piovute cause pesantissime se non ci fossero stati riscontri. E non se ne fece più nulla.
Il boccone più singolare è l’intervista a Primo Greganti, il leggendario compagno G., tesoriere del Pci-Pds; che nega («una bufala») l’esistenza di finanziamenti da Mosca, e informa che i funzionari sovietici che venivano in Italia erano talmente con le pezze sdrucite che «dovevamo comprargli noi abiti e scarpe, come facemmo a Zagladin, inviato da Gorbaciov». Poi, sorpresa, si confida come gran ciarliero, proprio lui: «È passata la storia che io sarei stato zitto per proteggere il Pci. Ma non è vero: anzi, solitamente si fa fatica a farmi star zitto. Non mi sono mai rifiutato di rispondere ad alcun interrogatorio». Insomma, il Pci non fu protetto affatto, come rivela De Benedetti. Piccola postilla, il compagno G. rivela che anche fu assunto in fabbrica perché il papà l’aveva fatto raccomandare... da un prete.

il Fatto 20.1.12
La sede degli ex servizi segreti della Stasi diventa un museo
Berlino e la triste “Disneyland comunista”
di Alessandro Oppes

È un enorme blocco di cemento grigio dall’aspetto sinistro sulla Normannenstrasse, a poche decine di metri dalla Karl Marx Allee, quel lungo viale che è il tributo più pacchiano alla megalomania della Ddr, dove Erich Honecker e i gerarchi del regime sfilavano nelle imponenti parate militari, tra cigolìo dei carriarmati e sfrecciare dei caccia sovietici. Incute ancora timore la vecchia sede della Stasi, oggi che Der Mauer, il Muro di Berlino, non c’è più, e la Cortina di Ferro è solo un ricordo lontano. Così lontano che la maggior parte dei giovani della Germania unita (di sicuro tutti i liceali, ma ormai anche buona parte degli universitari) hanno notizia di quell’epoca solo grazie a vecchi filmati e ai racconti dei loro padri. Ma tra chi ha vissuto quegli anni, chi ha sofferto la dittatura dell’Est, la notizia dell’apertura al pubblico del lugubre quartier generale della polizia di Stato, è un evento che riapre vecchie ferite e suona come un’inopportuna operazione di marketing. “Un circo di cattivo gusto, una mancanza di rispetto nei nostri confronti”, dice alla Reuters un ex meccanico, Manfred, 71 anni, che riceve dallo Stato una “pensione di vittima”, la miseria di 250 euro al mese.
C’È CHI la chiama già “una Disneyland comunista”. Hanno speso 11 milioni di euro per ristrutturare quelle tetre stanze dove si pianificava la repressione di Stato, e ne hanno fatto un polemico museo della memoria. All’ingresso della Haus 1 – quello stesso edificio nel quale una folla indignata fece irruzione il 15 gennaio 1990 – ci si trova subito di fronte a un imponente busto di Karl Marx. Ma bisogna salire al primo piano per immergersi nel mondo dello spionaggio meticolosamente organizzato, tra pareti in legno color senape, grandi tappeti e poltroncine azzurre. Arredamento triste e modesto di una dittatura povera. Qui, da queste stanze, si teneva d’occhio un’intera nazione. Per i leader della Sed, il partito unico, era l’efficacissimo strumento di terrore e oppressione che gli consentiva di mantenere saldo il controllo del potere.
“Lo scudo e la spada” era l’espressione che loro stessi avevano coniato per definire lo Staatssicherheit, il Servizio per la sicurezza statale. Per tutti, semplicemente, Stasi. Che era un insieme di polizia segreta, agenzia centrale d’intelligence e ufficio d’investigazione criminale. Ai vertici, per oltre trent’anni, e sino alla caduta del regime, nel 1989, il temibile Erich Mielke. Era l’uomo che teneva in scacco un intero paese, grazie a 91 mila agenti e 173 mila informatori non ufficiali. Nel suo ufficio, spicca la sobrietà comunista, ma anche gli strumenti – per l’epoca – tecnologicamente avanzati. Un grande telefono con un’infinità di tasti, sofisticati registratori, un vecchio televisore Philips che gli permetteva di vedere le tv occidentali. La scrivania è la stessa sulla quale Mielke firmò la condanna a morte per tantissimi oppositori. Nelle altre sale, sono esposti gli strumenti impiegati nello spionaggio. Ci sono telecamere nascoste in cisterne d’acqua, o all’interno di pietre, e microfoni occultati alla bell’e meglio dietro cravatte. Cose che fanno persino sorridere, viste con gli occhi odierni, ma che è probabile vengano osservate con distacco solo dai turisti stranieri. Ma che rischiano di apparire un affronto alle vittime del terrore. Così come quei gadget – magliette, bandiere, accendini, portachiavi – con i simboli della Ddr, disponibili un po’ ovunque nei negozi di souvenir di Berlino. La capitale tedesca è permeata di ricordi della sua storia spesso tragica. E questa costante insistenza nel riesumare il passato continua a scuotere le coscienze. A molti non è piaciuta per niente l’idea, lanciata la scorsa estate dall’ex sindaco Eberhard Diepgen, di riedificare il Muro “per dare a tutti la possibilità di rivivere la storia”. E anche la ricostruzione, che costerà 590 milioni, dell’antico castello degli Hoenzollern sul sito dove il regime comunista aveva eretto il Palazzo della Repubblica, continua a suscitare polemiche.

il Fatto 20.1.12
Chi sacralizza la Shoah
Pubblichiamo un estratto dal volume “Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah”, apparso in questi giorni in libreria.
di Valentina Pisanty


L’8 febbraio 2011 Alberto Cavaglion pubblica una breve riflessione sulla newsletter dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in cui depreca l’appropriazione delle parole “Se non ora, quando? ” da parte del comitato promotore della giornata di mobilitazione nazionale delle donne programmata per il 13 febbraio. Ciò che lo infastidisce è il presunto oltraggio al titolo del romanzo di Primo Levi, ridotto a slogan femminista e messo al servizio di un progetto politico contingente – rovesciare Berlusconi e il berlusconismo – che secondo Cavaglion non può essere paragonato (pena la banalizzazione) alla resistenza ebraica sul fronte orientale raccontata da Levi. […] Da un punto di vista strettamente filologico, l’accusa non è infondata. Nel romanzo di Levi, “Se non ora, quando” è il verso della letteratura rabbinica. In rapporto alle vicende della guerra, la canzone inquadra la lotta partigiana in una storia al contempo più vasta e più particolare, e cioè la trama millenaria della diaspora, sino allo sterminio in corso e al soprassalto di rivalsa con cui si fa largo una nuova idea di autodeterminazione del popolo ebraico. [... ] La canzone attinge a un archivio di storie – Davide e Golia, l’assedio di Masada, la ghettizzazione, la resistenza, la nascita del sionismo – che concorrono a definire un’identità ebraica stratificata e conflittuale, fondata su valori apparentemente inconciliabili quali l’orgoglio e l’umiltà, la forza e la dolcezza, l’intransigenza e la tolleranza; valori nei confronti dei quali il testo di Gedale sollecita una drastica presa di posizione: se non ora quando?, appunto. Pur non essendo di indole particolarmente vendicativa, i gedalisti scelgono la lotta armata perché sanno che l’alternativa è il camino. [... ]
INTERVISTATA da Repubblica (14 febbraio 2011) sulla scelta dello slogan, Francesca Izzo – una delle promotrici della manifestazione del 13 febbraio – ha risposto: “Mi è venuto così, stava nelle mie orecchie e corrispondeva esattamente a quel che volevamo dire. Ci è piaciuto e lo abbiamo usato”. In questa dichiarazione c’è tutto ciò che serve per inquadrare il tipo di operazione semiotica compiuta sul frammento dalle promotrici della manifestazione. Nulla a che vedere con una rilettura critica del romanzo di Levi, il quale resta sullo sfondo come dato enciclopedico condiviso. Il gioco linguistico è tutt’altro: si tratta – come sempre con gli slogan – di ideare un “grido di guerra” icastico e memorabile, dotato cioè delle caratteristiche necessarie per bucare lo schermo sovraffollato della comunicazione politica. […] Generalmente, la citazione drammatizza le circostanze problematiche descritte dai discorsi in cui è di volta in volta trapiantata, iniettandovi un supplemento di pathos e adombrando un possibile (benché raramente esplicitato) parallelo con la guerra all’ultimo sangue combattuta dai partigiani ebrei contro i nazisti. [... ] Per un conoscitore dei romanzi di Levi quale Alberto Cavaglion è, si capisce che la disinvoltura con cui i linguaggi del giornalismo e della politica si sono impossessati di “Se non ora, quando? ” possa risultare irritante. […] A rileggere la nota dell’8 febbraio, è evidente che l’indignazione di Cavaglion non è tanto rivolta alla pratica banalizzante in sé, quanto all’infrazione di un tabù più specifico. La parola-chiave è “sacrilegio”: “Oggi vedo che nessuno protesta per quello che a me sembra un sacrilegio”.
MA “SACRILEGIO” significa “profanazione di oggetto, persona o luogo sacro”. In che senso il frammento di Levi può dirsi sacro e in che cosa consisterebbe la violazione della sua sacralità? La controversia sulla citazione di Levi è un sintomo apparentemente trascurabile di una tendenza culturale ben più macroscopica. Ne hanno già parlato diversi autori […], tutti concordi nel riconoscere che negli ultimi decenni la Shoah (o meglio, l’insieme dei discorsi che confluiscono nella memoria pubblica di questo evento) è soggetta a un meccanismo di sacralizzazione per effetto del quale il genocidio ebraico viene estrapolato dalla serie dei fatti storici e ricollocato in una dimensione “altra” – la dimensione del sacro, per l’appunto – che lo sottrae all’uso comune, ossia ai procedimenti del discorso ordinario, banalizzazione inclusa. [... ] Resta da capire da dove Cavaglion – e altri come lui – tragga l’idea che la memoria dello sterminio ebraico, con tutta la costellazione di testi che a essa fa capo, appartenga per diritto alla sfera del sacro.
Abusi di memoria di Valentina Pisanty, Bruno Mondadori PAGG. 151  16 EURO

il Fatto Saturno 20.1.12
Musei
Che ci fa Duchamp accanto a Fontana?
Al via il nuovo allestimento della Galleria Nazionale d’ArteModerna diRoma
Con accostamenti non sempre di facile comprensione
di Elena Volpato


 ALLA GALLERIA NAZIONALE d’Arte Moderna di Roma si è inaugurato il nuovo ordinamento delle collezioni unitamente al riallestimento delle sale. Il settimo, di questa importanza, dal 1915 – anno in cui le raccolte furono trasferite da Palazzo delle Esposizioni all’attuale edificio di Valle Giulia.
Ripensare l’esposizione delle opere, modificarne gli ambienti e la presentazione è la più impegnativa delle avventure nella storia di un museo e la GNAM non è un museo qualsiasi. Le opere esposte sono tra le più belle di Otto e Novecento che si possano vedere in Italia e l’insieme è certamente all’altezza delle più rilevanti collezioni europee. Ha ragione chi, come Alessandra Mammì, lamenta una troppo limitata considerazione da parte della stampa per il progetto portato a termine, ma non si può stupirsene. Si è voluto che i musei diventassero spazi per continue mostre a ricambio veloce, così che quando esercitano le loro precipue funzioni, lavorando sulle collezioni e mettendo mano ai cataloghi ragionati, se ne trascurano gli esiti. Fortunatamente, oltre la scalinata e il colonnato neoclassico della GNAM, si preservano sacelli di studio e di benedetta prudenza. Non si sono buttati all’aria gli elementari criteri storici, sempre più disattesi nei musei, dopo la scelta della Tate, nel 2000, di procedere per temi (arriva ora la notizia che Sheena Wagstaff, proveniente dal museo inglese e passata in questi giorni al Metropolitan di New York, annuncia “un’inedita comprensione dell’arte tra passato e presente”), ma neppure si è congelato il preesistente, come non lo si fece in passato, quando si passò dall’ordinamento per scuole regionali a quello per movimenti.
Nell’attuale assetto si attraversano tre grandi stagioni storiche cui sono state affiancate delle titolazioni “tematiche”: Il mito la storia e la realtà 1800-1885; Verso la modernità 1886-1925 e Un altro tempo, un altro spazio 1926-2000. Aiutano la comprensione del pubblico e non sono arbitrarie. Per chi ama l’Ottocento quella prima triade di parole corrisponde a gruppi d’opere e d’autori piuttosto definiti, così come la modernità è una questione storico artistica di ampio respiro e tradizione. In alcuni spazi ci sono delle aperture più propriamente tematiche. La prima, subito dopo l’atrio, s’intitola Scusi ma è arte questa? Con opere di Fontana, Burri e Manzoni, realizzate attorno il 1960, inframmezzate con ready-made di Duchamp, ideati all’inizio del Novecento. L’occhio non si persuade dell’insieme, ma una ragione storica c’è. Come Duchamp continua a scandalizzare, anche quegli artisti, in passato, costarono al museo pubbliche proteste e interpellanze parlamentari. Sarebbe l’inizio di un’ottima mostra con cui riaccendere la consapevolezza della carica rivoluzionaria di quelle opere, attraverso aspetti di storia del gusto e delle istituzioni, è forse, però, una prospettiva troppo obliqua per farne una scelta permanente. E se è vero che alla domanda del titolo il successivo attraversamento delle sale consente al visitatore più avvertito di rispondere affermativamente per gli italiani, Duchamp resta uno scoglio inspiegato nell’insieme della collezione GNAM e non solo perché lo è, in parte, costituzionalmente.
Diverso è il caso di due ampie sale speculari: una dedicata al mito, l’altra alla guerra. Il raffronto iconografico è stringente e si tratta di due costanti della ricerca artistica: due moti verso l’immaginario e il preesistente, l’altro dentro la crudezza degli eventi – contrapposti,
non a caso, rispetto al piano storico cui resta affidata nelle sale attigue la comprensione
delle differenze linguistiche tra gli artisti presentati e la consapevolezza di tutto ciò che è accaduto nel mezzo.
Un cedimento alla moda, anche se veniale, c’è stato. Alcuni dei colori alle pareti investono il visitatore come uno squillo di tromba. Si vede bene che nessuno di essi è stato scelto a caso, ma l’acuto di qualche ciclamino e qualche azzurro, sembra dar noia al conversare pacato di alcune opere.
Nel complesso la serietà dei criteri di lavoro, la capacità di sollevare dei quesiti e la straordinaria bellezza di quanto è in mostra, meritano attenzione e più di una visita.
www.gnam.be  niculturali.it

il Fatto Saturno 20.1.12
Evgen Bavcar
Il cieco che fotografa i sogni
di Grazia Lissi


NELLA SUA NOTTE senza fine sono entrati i sogni e lui ha deciso di fermarli con uno scatto. Evgen Bavcar, scrittore, poeta, laureato in Filosofia estetica alla Sorbona, ricercatore per il Cnrs di Parigi, fotografo non vedente racconta: «La tecnica mi ha regalato la macchina fotografica, l’immaginazione le idee, insieme danno forma alle mie foto interiori». La mostra Il buio è uno spazio, a cura di Enrica Viganò al Museo di Roma in Trastevere fino al 25 marzo, omaggia l’artista che, paradossalmente, ha trasformato «il mezzo fotografico, strumento della vista, in strumento del non vedere». Ecco la corsa di una bambina, una violoncellista che suona, un campo di tarassachi, uno stormo di gabbiani impazziti… Intense immagini in bianco e nero, frammenti di luce e movimento che anticipano gli ultimi scatti, per la prima volta, a colori. Fra gli autori più apprezzati nel mondo della fotografia, Bavcar sembra rincorrere i ricordi della sua infanzia, conservati gelosamente da quando, all’età di dodici anni, ha perso completamente la vista camminando su una mina. «Le mie immagini vengono da un mondo interiore, dai sogni, dalla mia vita spirituale. Non vedrò mai con i miei occhi le mie foto, ma non è importante: so che altri le vedranno». Nato in Slovenia nel 1946 si definisce «figlio di un paese dai confini mobili e dalle tante culture stratificate». L’artista parla cinque lingue, ma non gli bastavano, per questo ha aggiunto il linguaggio delle immagini. Non vuole che gli si chieda come fa a fotografare, ma perché lo fa: «Per secoli i non vedenti sono stati usati come modelli dai fotografi. Io non volevo esserlo, volevo poter ricambiare lo sguardo degli altri». Si avvicina a ogni soggetto, persona o paesaggio, come fosse spinto da una forza interiore. Quando scatta si fa accompagnare dalla nipote Veronica, o da bambini, lo sguardo più libero; gli amici l’aiutano a scegliere le foto che espone. «Ieri ho incontrato una ragazza russa, una maestra di scacchi. L’ho fotografata qui, nel buio di questa stanza, sentivo le sue mani sulle pedine. Prima di scattare mi sono avvicinato tantissimo al suo volto, le ho chiesto se potevo farlo. Non tocco mai, guardo da vicino». E continua rincorrendo ricordi lontani: «Quand’ero al liceo credevo di esser-mi innamorato di una ragazza, la stessa che amavano tutti i miei compagni di scuola, per questo me ne parlavano. Mi ero innamorato dei fantasmi degli altri. Questo è ingiusto. Oggi come artista so di avere diritto a percezioni di altro tipo, posso provare anch’io a vedere una donna». Il suo desiderio di luce si fonda con i suoni, gli odori, le voci e diventa una fotografia: «La bellezza è un’utopia in cui continuerò a credere, l’infinito che mi spinge in avanti. Ne ho bisogno, vivo con i sentimenti estetici di chi mi racconta una piazza, un quadro, una statua». Ha mai provato nostalgia? «Si, per i luoghi della mia infanzia, mi accompagnano come in uno specchio magico. È la staticità del mio mondo, come se il destino mi avesse condannato a vivere per sempre la stessa immagine. Ma la nostalgia è la mia speranza, il filo invisibile che mi porta nel futuro».
Evgen Bavcar, Il buio è uno spazio, Museo di Roma in Trastevere, fino al 25 marzo;
www.museodiromaintrastevere.it

il Fatto 20.1.12
È arrivata l’Armata Rosa
“E ora dove andiamo?” della libanese Nadine Labaki è una bella commedia sul fanatismo religioso sconfitto dalle donne
di Gianni Canova


SONO tutte in nero. Alcune a capo scoperto, altre con il velo. Una accanto all’altra, avanzano ondeggiando su un sentiero sassoso e polveroso che porta al cimitero. In mano hanno o un mazzo di fiori o la fotografia di un uomo scomparso: un padre, un figlio, un marito o un fratello che non c’è più. Siamo in una zona di guerra, e la guerra i maschi se li porta via a grappoli. Le donne – orfane o vedove nere – piangono i loro morti. Cantano una nenia funebre per loro. Unite, solidali, armoniose. Anche se, arrivate al cimitero, inevitabilmente si dividono. Le cristiane vanno a sinistra, le musulmane a destra. Da un lato le tombe hanno le croci, dall’altro no. Un corpo sociale che sembrava unito si mostra in realtà diviso. E nell’uniformità – degli abiti, dei canti, degli sguardi, dei riti – si affaccia il germe della differenza. Quella che – da sempre – genera il conflitto e la violenza. Comincia così, con un corteo funebre ridisegnato come se fosse una coreografia, l’opera seconda di Nadine Labaki, la giovane regista libanese che nel 2007, a Cannes, aveva stupito il mondo e incantato il Festival con Caramel, un’operina fresca e sensuale ambientata in un salone di bellezza di Beirut frequentato solo da donne. Lì, fra uno shampoo e una ceretta, un colpo di spazzola e una depilazione al caramello, cinque donne di diverse generazioni parlavano di sé e si scambiavano confidenze, in un film così fisico e sensoriale da illuderti di sentire gli odori e i profumi dell’ambiente, il calore dei corpi, i suoni e i fremiti dell’anima. Con E ora dove andiamo? – premio come miglior film al Festival di Toronto – Nadine Labaki lascia Beirut ma non il Libano: si trasferisce infatti in un anonimo villaggio sulle montagne libanesi per raccontare le dinamiche attraverso cui esplodono l’integralismo e il fanatismo religioso.
A trasformare questo sperduto villaggio rurale in un villaggio “globale” provvede – manco fossimo in un saggio di scuola macluhaniana – la televisione. Che arriva al villaggio sottoforma di un vecchio apparecchio anni Sessanta. L’evento è epocale, si mobilita il sindaco e la sera, per vedere la Tv, gli abitanti accorrono in massa come avveniva con il cinematografo nell’immaginario villaggio siciliano di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Ma la Tv non mostra solo procaci corpi di donne che annunciano il meteo o rapinosi baci in vecchi film hollywoodiani. Trasmette anche notizie. Notizie che risvegliano l’odio assopito. Che ricordano che c’è chi uccide solo perché invoca un dio diverso da quello del “nemico”. Così anche nel villaggio riesplode il conflitto. Le capre cristiane finiscono nella moschea musulmana e una statua in gesso della madonna viene distrutta a bastonate. Cristiani e musulmani, che pure frequentano le stesse scuole e bevono il caffè nello stesso bar, si riscoprono nemici. Di qua la chiesa, di là la moschea. Qui il prete, là l’imam. Sono allora le donne – tra cui la bellissima proprietaria del caffè, interpretata dalla stessa regista – a inventarsi gli espedienti più geniali e spesso esilaranti – come l’ingaggio di alcune biondissime ballerine delle repubbliche ex-sovietiche – per offrire ai maschi una distrazione che li distolga dalla loro viscerale voglia di guerra e di sangue. Raccontato così, E ora dove andiamo? potrebbe sembrare un’operina a tesi («fate l’amore, non fate la guerra»). In realtà, pur non disdegnando alcuni tratti di sano didascalismo (ma un po’ nel tono e nello spirito dei nostri Don Camillo e Peppone), Nadine Labaki evita le trappole del manicheismo ideologico grazie alle qualità della messinscena: che è ironica e leggera, scanzonata come una commedia italiana degli anni Cinquanta ma anche ariosa e colorata come un film di Jacques Demy. Nadine Labaki opera con continui salti di registro, passa dalla commedia al melò e perfino al musical (sublime la sequenza ballata e cantata in cui le donne preparano e infornano il pane e le torte). A derivarne è un film che convince soprattutto nella messinscena della vita quotidiana, nella rappresentazione dei gesti minuti della gente comune, nella celebrazione di un matriarcato gentile. L’integralismo e il fanatismo ne escono a pezzi, ma a colpi di sorrisi.
E ora dove andiamo?, di e con Nadine Labaki, 110’, Francia, Libano, Egitto, Italia