sabato 25 agosto 2018

Corriere 25.8.18
Sequestro di persona


Il sequestro di persona è un reato previsto dall'articolo 605 del codice penale, secondo il quale «chiunque privi taluno della libertà personale è punito con la reclusione da 6 mesi a 8 anni» (da 3 a 12 anni, se la vittima è un minore). Questa è una delle accuse ipotizzate dalla Procura di Agrigento nell'ambito dell'inchiesta per «trattenimento illecito» dei migranti a bordo della Diciotti.

Il Fatto 25.8.18
“Abusi sessuali, da Papa Francesco solo promesse”
Colm O’Gorman - L’attivista in occasione della visita di oggi e domani di Bergoglio in Irlanda: “Deve chiedere conto a chi ha insabbiato”
“Abusi sessuali, da Papa Francesco solo promesse”
di Sabrina Provenzani


L’uomo che ha fatto causa al Vaticano risponde al telefono dagli uffici dublinesi di Amnesty Ireland, di cui è direttore esecutivo. È la vigilia della visita pastorale di Papa Francesco, la seconda di un papa in Eire.
“Ricordo bene i giorni della visita di Giovanni Paolo II, nel 1979 – racconta Colm O‘Gorman – ero un tredicenne devoto, invidioso dei miei fratelli maggiori che avevano il permesso di andare a vedere il Papa al grande raduno di Phoenix Park; 18 mesi dopo fui violentato da un prete cattolico”.
Gli abusi continuano fino ai 17 anni di età. Poi O’Gorman trova il coraggio di denunciare i suoi carnefici: ottiene un risarcimento, collabora a documentari, fonda l’associazione One in 4 a supporto degli abusati. Ed è fra gli organizzatori di Stand4Truth, manifestazione a sostegno delle vittime della Chiesa Cattolica organizzata a Dublino per domenica, in contemporanea con la messa solenne di Papa Francesco.
L’arcivescovo di Dublino ha ammesso che il numero delle vittime di preti cattolici in Irlanda è “immenso”. Di cosa parliamo?
Solo fra il 1930 e il 1970 sono state 173 mila le vittime dirette, cioè i bambini in istituzioni cattoliche e soggetti ad ogni sorta di abuso, sessuale, fisico e psicologico, incluso lavoro minorile e tortura, su base quotidiana. Poi ci sono le donne e le ragazze private della loro libertà e dei loro figli nelle Magdalene Laundries; le fosse comuni, le inchieste in corso. E i danni degli abusi hanno conseguenze permanenti, travolgono vite per sempre. È un impatto incalcolabile.
Le risulta che questi abusi siano ancora in corso?
Non possiamo escluderlo. Ma speriamo che la nostra continua vigilanza e le riforme legali e sociali abbiano creato una cultura in cui un minore abusato abbia la forza di denunciare subito.
Le rivelazioni sugli abusi hanno azzoppato la Chiesa irlandese. L’Irlanda si è secolarizzata e le chiese sono vuote. Le gerarchie hanno fatto ammenda?
No, la Chiesa irlandese non ha pagato, in nessun senso. Il grosso dei risarcimenti economici alle vittime è a carico dei contribuenti, e soprattutto nessuno ai vertici ha ammesso le proprie responsabilità, né per il passato né per le ferite che le vittime si portano tuttora addosso. La versione è sempre che le gerarchie non erano consapevoli.
Eppure solo lunedì Papa Francesco, in una lettera aperta ai fedeli, per la prima volta ha chiamato quegli abusi “crimini”, ha chiesto perdono, ha parlato apertamente di coperture e ha promesso tolleranza zero. Lei non vede cambiamenti con questo papa?
Vedo solo interventi cosmetici, un cambio di retorica, promesse, nessuna azione concreta. Nella lettera parla di coperture, ma non indica i responsabili. Chiede perdono, ma non dice cosa dovremmo perdonare. Parla di responsabili ma non dice chi siano. I vescovi? Ma è lui, come capo dei vescovi, l’unico che può chiedere loro conto di aver insabbiato. E non lo fa, perché non si è trattato di iniziative individuali, ma di persone che hanno eseguito direttive dei vertici, basate su leggi e norme del diritto canonico.
Cosa significa questa visita per i sopravvissuti?
Forse può essere di conforto per i pochi che, solo dopo l’insistenza dell’arcivescovo di Dublino, il Papa ha accettato di incontrare in questi giorni. La solita scena, cinica, inaugurata da Benedetto XVI a beneficio dei media: il Papa ascolta, piange, condivide il dolore. Ma se davvero fosse dalla parte delle vittime non verrebbe a Dublino, sarebbe in Pennsylvania a costringere i suoi vescovi ad aprire i loro dossier, perché i vertici sapevano tutto. Nulla può cambiare davvero finché il Papa non dirà la verità, e non si assumerà pubblicamente la responsabilità di quello che è stato fatto, e continua ad essere fatto, a centinaia di migliaia di vittime in tutto il mondo.

La Stampa 25.8.18
Il Papa a Dublino per le famiglie, con l’ombra dello scandalo abusi
Francesco parte per l’Irlanda e visita una Chiesa scossa dagli scandali del passato che sta combattendo efficacemente il fenomeno della pedofilia clericale
di Andrea Tornielli


Città del Vaticano Francesco arriva a Dublino quasi quarant’anni dopo il viaggio trionfale di Giovanni Paolo II, per una delle trasferte più difficili del suo pontificato. Il motivo della visita è l’Incontro mondiale delle Famiglie, il primo dopo la pubblicazione dell’esortazione “Amoris laetitia”. Ma a pesare sarà soprattutto il tema degli abusi sui minori, uno scandalo che ha piegato la Chiesa irlandese facendole perdere credibilità ma che è stato affrontato con determinazione e con protocolli efficaci.
Nel 2006, dopo l’emergere del primo rapporto statale sugli abusi, la Chiesa cattolica del Paese ha istituito il “National Board for safeguarding children”, con un capo esecutivo credibile e autonomo, Ian Elliot. Nel 2011 è iniziato l’esame di tutte le misure di protezione per in bambini messe in atto nelle diocesi irlandesi e il lavoro è continuato dal 2013 con la nuova responsabile del Board, Teresa Devlin. Dal gennaio 1975 si sono registrate in Irlanda 1.259 denunce di abusi rivolte contro 489 sacerdoti o religiosi in 26 diocesi, e di questi accusati, 36 sono stati portati di fronte ai tribunali penali. Ma il dato significativo è quello più recente a disposizione: nel 2017 sono state raccolte 135 denunce nei confronti di 98 preti, ma soltanto una di queste era relativa ad abusi accaduti dopo l’anno 2000. Ci sono dunque ragioni di speranza e di ottimismo perché le linee guida per la protezione dei minori si sono rivelate efficaci.
Certo l’Irlanda che accoglie Francesco è molto diversa da quella che ricevette la visita di Papa Wojtyla. Sono state introdotte con decisione popolare leggi che autorizzano l’aborto e le nozze gay, la società appare sempre più secolarizzata, nonostante l’identità cattolica conservi ancora una sua forza culturale quale elemento distintivo rispetto all’appartenenza britannica.
La visita di Papa Francesco «è un’opportunità per noi come Repubblica e per noi come Stato irlandese di iniziare un nuovo capitolo nella nostra relazione con la Chiesa - ha detto il Taoseach (Primo ministro) Leo Varadkar - Penso che in passato la Chiesa cattolica ha avuto un posto troppo dominante nella nostra società. Penso che ha ancora un posto nella nostra società ma non determina le politiche o le leggi».
Nel primo giorno, sabato 25 agosto 2018, si parlerà in modo significativo degli abusi, perché ci si aspetta che Francesco ne parli nel discorso di fronte alle autorità politiche e diplomatiche del Paese, come pure sarà significativa la preghiera silenziosa per le vittime che il Pontefice farà nel pomeriggio nella concattedrale di Dublino.
Il cuore della visita sarà rappresentato dalla veglia con le famiglie di sabato sera e la grande messa di domenica pomeriggio. L’incontro internazionale delle famiglie è già iniziato: sono intervenuti circa 200 relatori di tutti i continenti (91 sono donne laiche, 65 sono uomini laici e 44 sono sacerdoti, religiosi e religiose). “Amoris laetitia” è il tema principale del congresso. Si è svolta una tavola rotonda, sul «salvaguardare i bambini e gli adulti vulnerabili», alla quale ha preso parte tra gli altri, Marie Collins, la donna irlandese vittima da bambina di un prete pedofilo e in passato membro della stessa commissione pontificia, prima delle dimissioni. È la prima volta che un incontro mondiale delle famiglie ospita una tavola rotonda su questo tema.

Corriere 25.8.18
Ferns Report

È la prima di quattro indagini governative che, a partire dal 2005, hanno rivelato decenni di violenze e abusi su migliaia di minori nelle istituzioni cattoliche irlandesi. Al «Ferns Report» seguirono nel 2009 il «Ryan Report», cinquant’anni di crimini dal 1930, e il «Murphy Report» sulla diocesi di Dublino dal 1974 al 2004. Da ultimo, nel 2011, il «Cloyne Report» sulla diocesi omonima tra il 1996 e il 2009

Quando questa mattina Francesco arriverà a Dublino per la seconda visita di un Papa in quasi 40 anni, troverà ad accoglierlo un’altra Irlanda, che nel frattempo ha legalizzato divorzio, aborto e unioni gay e dove l’età media dei 3.900 sacerdoti (erano 6.200 nel 1979) è di 70 anni. A stringergli la mano ci sarà anche il premier Leo Varadkar, che tutti gli irlandesi sanno essere apertamente gay.

Il Fatto 25.8.18
Il filosofo vuole cambiare partito
di Gianfranco Pasquino


Cambiare il Partito Democratico? Si può, sostiene Roberto Esposito su Repubblica (24 agosto). È facile. Però, bisogna che gli intellettuali che criticano il Pd si iscrivano al partito. Lo cambieranno da dentro. Come mai non ci (mi metto, non abusivamente, fra gli intellettuali critici) abbiamo pensato prima?
Per fortuna che, adesso, grazie a Esposito, i filosofi non si limitano più a studiare il mondo, ma cercano di cambiarlo. Non so quanto mondo conosca il filosofo Esposito. Sono, invece, sicuro che non conosce i partiti politici e, meno che mai, il Pd (come partito, non come dirigenti). Lascio da parte che, anche se, nel peggiore dei casi, il Pd avesse circa 300 mila iscritti, sarebbe difficile per gli intellettuali di sinistra vincere numericamente qualsiasi battaglia interna a qualsivoglia organismo di partito. Riuscirebbero mai a ottenere la maggioranza in un circolo del Pd? A Bologna certamente no. Lì hanno vinto coloro che volevano candidare Pierferdinando Casini al Senato e poi l’hanno anche fatto votare (e votato davvero!). Altrove, bisognerebbe fare un’analisi circolo per circolo, ma ho regolarmente assistito a votazioni nelle quali facevano la loro comparsa truppe cammellate di iscritti tempestivamente invitate per l’ora nella quale si sarebbe tenuta la votazione. Grazie a interventi “sapientemente” misurati, la votazione aveva luogo quando gli oppositori si erano stancati e i cammellati erano arrivati.
Peraltro, il problema per l’iscrizione di massa degli intellettuali comincerebbe proprio dalla richiesta della fatidica tessera. Infatti, qualsiasi domanda di iscrizione può essere respinta dal direttivo di qualsiasi circolo. Le motivazioni del respingimento sarebbero tutte molto plausibili. Come si fa a dare la tessera a quello lì che ci critica da anni oppure a quello lì che si è opposto alle riforme costituzionali oppure a quell’altro che ha votato LeU, l’ha detto pubblicamente, se n’è vantato? Non siamo affatto convinti che l’aspirante condivida, minimo, il programma del partito, e così via. Iscrizione a rischio, spesse volte lasciata ad libitum dei dirigenti del partito locale i quali, ovviamente, hanno i voti e sono in grado di respingere persino gli eventuali simpatizzanti di un altro leader locale in minoranza. No, il filosofo Esposito non conosce il Pd e le sue dinamiche. Sembra che non conosca neanche il funzionamento dei partiti in generale. Avrebbe, forse, potuto (dovuto) rafforzare il suo bizzarro invito all’iscrizione di massa degli intellettuali con qualche esempio di successo tratto da sistemi politici nei quali la trasformazione di uno o più partiti è avvenuta con la procedura da lui suggerita.
La un tempo famosissima Bad Godesberg (1959) grazie alla quale la Spd riuscì ad accreditarsi come partito non a vocazione maggioritaria, ma governativa, avvenne in seguito all’iscrizione di massa degli intellettuali tedeschi a quel partito? La creazione del Parti Socialiste in Francia nel 1971 fu il prodotto di spostamenti di masse di intellettuali al seguito di François Mitterrand oppure di una lunga elaborazione culturale e politica in club nei quali si trovavano settori della società civile, borghesia progressista, imprenditori, alti funzionari statali, laureati della Grandi Scuole d’Amministrazione (non ricordo la presenza di filosofi), ma soprattutto della leadership politica? La trasformazione del Labour Party in New Labour all’inizio degli anni novanta del secolo fu il seguito di un boom di iscrizioni di intellettuali oppure di un cambio generazionale e di una consapevole lotta politica condotta da Tony Blair, Gordon Brown e alcuni esperti di comunicazione politica? Qualcuno potrebbe anche voler chiedere a Esposito in quale conto i fondatori del Partito democratico hanno dato prova di tenere gli intellettuali nel 2007 e poi, ad esempio, nel 2018 per le candidature al Parlamento.
Nessuna iscrizione di massa al Pd è possibile a meno che i non meglio definiti intellettuali critici del partito si organizzino come falange compatta (non proprio la modalità organizzativa preferita e praticata dagli intellettuali chiunque siano) prima di qualsiasi azione nei confronti del Pd. Altrimenti, quasi sicuramente sarebbero risucchiati nelle logiche di funzionamento interno di un partito organizzato in piccole, settarie oligarchie. Soprattutto, una volta ufficialmente iscritti, troveranno molti ostacoli all’espressione del loro dissenso. Forse, però, è questo l’obiettivo di Esposito: fare risucchiare gli intellettuali critici e, mentre lui continuerà a scrivere su Repubblica, sostanzialmente silenziarli.

La Stampa 25.8.18
Craxi-Proudhon, quel colpo di cannone nello psicodramma della sinistra italiana
di Fabio Martini


In nessun Paese dell’Occidente la suggestione del comunismo fu così duratura ed estesa come in Italia: nel secondo dopoguerra la condivisero dirigenti di partito, elettori, fior di intellettuali, fiumi di ragazzi in corteo, sino a quando quella rendita di posizione fu improvvisamente attaccata. Era il 27 agosto del 1978 e la pubblicazione sull’Espresso del saggio «Il vangelo socialista», firmato da Bettino Craxi, si sarebbe trasformato, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in «un colpo di fucile, o piuttosto di cannone» nella vicenda politico-culturale della sinistra italiana, fino ad allora rintanata nelle sue dottrine e nel culto dei suoi profeti.
Il segretario socialista, leader divisivo per sua scelta, in quella occasione prese di mira il bastione più resistente del comunismo interno e internazionale, il mito di Lenin. Divampò la polemica, che durò mesi: il Pci e i suoi intellettuali provarono a delegittimare il saggio, prendendo di mira uno dei pensatori citati nel testo, Pierre-Joseph Proudhon, socialista utopista e come tale liquidato come sognatore.
Berlinguer: nessuna abiura
Enrico Berlinguer alla festa dell’Unità disse che il Pci non avrebbe mai fatto «abiura di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre». Ma il colpo era andato a segno: 48 ore dopo la pubblicazione del saggio, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma aveva trasmesso riservatamente un lungo rapporto al Dipartimento di Stato, sottolineandone il carattere strategico, e qualche anno più tardi un intellettuale comunista come Biagio De Giovanni ammise che in quel passaggio «il Pci aveva subito una sconfitta culturale e teorica». E d’altra parte sarebbe stata la storia a dimostrare quanto anacronistica fosse la trincea del Pci: soltanto 11 anni dopo i regimi dell’Est comunista sarebbero caduti uno dopo l’altro, nel giro di poche settimane.
L’articolo di Craxi sarebbe passato alla storia come il saggio su Proudhon, anche se lo storico Giovanni Scirocco, autore di un recente libro sul tema (Il vangelo socialista, ed. Aragno) dimostra come si sia trattato di una definizione «impropria», figlia della polemica di quei mesi. Proudhon era un contemporaneo (assai critico) di Marx e invece nel saggio si puntava sul leninismo, messo sotto accusa per le sue «mire palingenetiche» e per la sua natura di «religione travestita da scienza», mentre il socialismo riconosce che «il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore».
Il testo, firmato da Craxi, era stato preparato da Luciano Pellicani, uno dei tanti uomini di cultura che in quella fase si muovevano attorno al nuovo corso socialista: negli anni tra il 1976 e il 1979 tra intellettuali e Psi si sviluppò un rapporto originale e non subalterno, secondo modalità mai viste prima e mai più replicate. Sia pure con modalità diverse, contribuirono all’elaborazione socialista personalità come Norberto Bobbio, Massimo Salvadori, Paolo Sylos Labini, Valerio Castronovo, Giuliano Amato, Stefano Rodotà, Roberto Guiducci, Gino Giugni e tanti altri.
Apertura alla modernità
Intellettuali strutturati, che si posero davanti al nuovo corso socialista con la postura descritta da Norberto Bobbio: gli uomini di cultura possono impegnarsi nella politica «mantenendo un distacco critico», partecipando cioè alle battaglie, ma con quella distanza «che gli impedisca di identificarsi completamente con una parte».
L’offensiva socialista non si limitò al totem-Lenin. Contribuirono a modernizzare la sinistra (non solo italiana), il Progetto per il 41° Congresso Psi di Torino del 1978, la Biennale del dissenso nei Paesi dell’Est del 1977, il convegno internazionale su «Marxismo, leninismo, socialismo», l’azione della rivista Mondoperaio diretta da Federico Coen.
Dal punto di vista culturale gli effetti di lunga durata di quella stagione li ha spiegati 20 anni più tardi Giampiero Mughini: «La furia barbarica di Craxi, socialista anticomunista, diede diritto di cittadinanza a parole e giudizi che erano inconsueti a sinistra». Ci furono effetti anche politici (una sinistra più aperta alla modernità e meno orientata al consociativismo), che però furono presto divorati dalla questione morale, con la quale l’autonomismo socialista perse l’anima. Ma con un paradosso in più. Lo ha scritto Luciano Cafagna nel suo saggio La strana disfatta: Craxi, dopo l’iniziale idillio, divenne ostile all’intellighenzia e a quegli intermediari di opinione (magistratura, burocrazia, insegnamento, mass media), che gliela fecero pagar cara. E dall’altra ridusse l’autonomismo - e il socialismo stesso - a semplice anticomunismo, una parola che col crollo del muro di Berlino era stata «portata via in un giorno» e «dove era rimasta solo quella, almeno a sinistra, per forza di cose doveva portarsi via tutto». Così fu: nel giro di cinque anni i due partiti storici della sinistra italiana, Psi e Pci, non esistevano più.

Il Fatto 25.8.18
“Il Pd sta coi potenti? Di sicuro ha perso la base”
Enrico Mentana - Per il giornalista non c’è sudditanza verso gli industriali: “Ma i Dem dimenticano gli ultimi”
intervista di Lorenzo Giarelli


“Le critiche dei delusi di sinistra sono legittime, ma non direi che il Partito democratico abbia una sudditanza nei confronti degli industriali”. Le critiche di Gad Lerner – che nei giorni scorsi aveva accusato sul Fatto il “suo” centrosinistra di avere un’ansia da legittimazione verso i gruppi imprenditoriali – non convince per niente Enrico Mentana. Non perché i Dem, dice il direttore del TgLa7, non abbiano diffusi rapporti con quelli che un tempo si chiamavano “poteri forti”, ma perché di lì a confondere “l’assemblea del Pd con quella di Confindustria ce ne passa”.
Direttore Mentana, esagerazioni a parte, non ci sono storture nel rapporto tra sinistra e industriali?
Io non credo che il problema sia il Pd che diventa il Partito degli affari. Il problema è se la sinistra mantiene i rapporti con gli imprenditori ma nel frattempo perde per strada operai, insegnanti e il ceto medio.
Ma questa non è stata una scelta precisa da parte della classe dirigente?
È ovvio che l’idea di modernità di Matteo Renzi si sposasse più con Confindustria che con Susanna Camusso, però non dimentichiamo che Renzi alle Europee del 2014 ha portato il Pd al 40 per cento: non mi sembra si possa dire che gli italiani volevano un Partito degli affari. Eppure il centrosinistra era lo stesso.
Qualcosa però da allora è cambiato: c’entra il fatto che il Pd sia stato percepito più vicino ai potenti che agli ultimi?
Se governi, o fai la Rivoluzione d’ottobre o devi avere rapporti con gli imprenditori. Oltretutto per vent’anni tutti i grandi gruppi che non amavano Berlusconi si sono rivolti al centrosinistra e si è cercata una legittimazione reciproca. Ma quando Alessandro Profumo e Corrado Passera sostenevano Romano Prodi alle primarie il tema non si poneva. Il problema, semmai, è che c’è stato un divorzio sentimentale tra il Pd e la sua base.
Cioè?
L’emblema di questa rottura è la riforma sulla Buona Scuola. Da sempre gli insegnanti erano il cuore dell’elettorato di centrosinistra, ma con la Buona Scuola Renzi è riuscito nel capolavoro di fare 150mila assunzioni scontentando allo stesso tempo i nuovi assunti –che venivano mandati lontano da casa – e tutti quelli che erano rimasti fuori dal programma. Se non dai loro una prospettiva, queste persone si rivolgono altrove. Ma perché li hai dimenticati, non certo perché hai rapporti con gli industriali.
Neppure nel caso delle privatizzazioni autostradali, realizzate dai governi di centrosinistra, vede quella sudditanza di cui parla Gad Lerner?
Ma no, non è un discorso di sudditanza. All’epoca delle privatizzazioni era esploso il nostro debito pubblico e ci trovammo a vendere i gioielli di casa anche su forti pressioni dell’Europa. A parte alcuni casi, come quello di Telecom, in cui si permise di comandare a imprenditori che avevano il 5 per cento della società, è col senno di poi che sappiamo che le privatizzazioni furono fatte male.
Compresa quella delle autostrade? Nei giorni dopo il crollo lei ha chiesto di evitare processi sommari ai Benetton.
Oggi nessuno, neanche con tutta la benevolenza del mondo, direbbe alla famiglia Benetton che può tenersi tranquillamente le concessioni come nulla fosse successo, ma all’epoca la privatizzazione delle autostrade non fu uno scandalo.

La Stampa 25.8.18
Se il confronto fosse prevalso sulla polemica
di Maurizio Assalto


La storia non si fa con i se, ma a volte i se aiutano a comprenderla. Se 40 anni fa il saggio di Craxi-Pellicani passato (impropriamente) alla storia sotto l’etichetta di Proudhon non fosse stato liquidato come una bizzarria provocatoria dall’implicito interlocutore comunista, e non fosse stato conseguentemente travolto dalla polemica politica ma assunto come spunto di riflessione per un ripensamento-rinnovamento della sinistra, superando fratture che le tragedie del ’900 avevano reso abissali e sulle quali la storia più recente è passata come un rullo compressore, forse non sarebbero dovuti trascorrere altri tre anni perché Berlinguer riconoscesse esaurita la «spinta propulsiva» dell’Ottobre e la democrazia quale valore fondante di una società socialista, il Pci non avrebbe dovuto aspettare il crollo dell’Urss per cambiare il proprio nome, il Psi e il suo leader non avrebbero abbandonato la prospettiva dell’alternativa socialista per sprofondare, sedotti dal potere, nell’ignominia di Tangentopoli, e in definitiva l’Italia non sarebbe oggi priva di una credibile forza di sinistra in grado di provare a contrastare il populismo sovranista.
Certo Proudhon, l’utopista francese che aveva sdoganato l’idea di anarchia conferendole un senso positivo, l’avversario di Marx noto soprattutto per la sua proposizione «la proprietà è un furto», non poteva realisticamente fornire l’armamentario ideologico per l’operazione che allora sarebbe stata opportuna, e che oggi è troppo tardi per riproporre. Ma alcune sue suggestioni, e in particolare il rifiuto di ogni dogma aprioristico, conservano un valore ideale sul quale si sarebbe potuto e dovuto discutere. E forse la storia, almeno un po’, sarebbe andata diversamente.

Repubblica 25.8.18
Il Pd e il barone di Münchhausen
di Antonio Floridia


Roberto Esposito chiude il suo articolo di ieri, lanciando una proposta: oltre che criticare, gli intellettuali ( ma non solo) facciano qualcosa di positivo, ad esempio si iscrivano al Pd. Chiedo semplicemente a Esposito: iscriversi, sì, ma per fare cosa? Ci si è chiesto come funziona oggi, concretamente, il Pd? Credo che nei discorsi correnti sul Pd si sottovaluti drammaticamente quello che un tempo si diceva “ lo stato del partito”. Lo stesso segretario Martina, con ammirevole schiettezza, nel suo discorso all’Assemblea nazionale ha detto che l’organizzazione del partito è “ collassata”. Ma non è solo una questione organizzativa: è l’intero impianto del partito che dovrebbe oggi essere rimesso radicalmente in discussione e, in primo luogo, il modello di democrazia a cui il partito ha ispirato le sue regole interne. Un modello plebiscitario, che ruota tutto attorno all’investitura diretta del segretario. La “ democrazia interna” è vista solo come mera “ autorizzazione al comando” di un leader, da parte — oltre tutto — di un indefinito “ popolo delle primarie”: dove sono le sedi e le occasioni in cui si possa anche discutere, formare un orientamento comune, valorizzare le competenze intellettuali, le esperienze e il sapere dei militanti o anche di coloro che vorrebbero dare una mano? E perché mai ci si dovrebbe iscrivere a un partito in cui l’unico momento che conta è quello elettorale delle cosiddette “ primarie aperte”, e in cui le prerogative di un iscritto sono del tutto simili a quelle di un qualsiasi elettore che si trovi a passare per caso dinanzi a un gazebo? Nei mesi scorsi, dopo le elezioni, si è levata qualche voce per chiedere un “ congresso vero”, che non fosse una semplice conta. Bene: ma non mi pare si stia facendo qualcosa. Qualcuno ha delle idee in proposito? Personalmente, non ci credo molto. Il Pd è imprigionato in un dilemma: per rinnovare il partito, occorre cambiare, anzi azzerare, le attuali regole; ma, per cambiare le regole, dovrebbero essere gli attuali organismi dirigenti a prendere qualche iniziativa, organismi però che a loro volta sono tuttora controllati da chi è stato, e sarebbe, beneficiario delle attuali regole.
Temo che non se ne esca: ci vorrebbe un novello barone di Münchhausen, capace di tirarsi su dal pantano aggrappandosi al codino dei propri stessi capelli.

Il Fatto 25.8.18
“Altro che solo”: tanti col Fico anti-Salvini
Muro - Nel M5S cresce il peso del presidente. E i vertici temono per la tenuta del gruppo
di Luca De Carolis


“Non credo proprio che Fico sia un problema per il Movimento, queste sono state sempre le idee di Roberto sull’immigrazione”. Pompiere per necessità, Luigi Di Maio ad Agorà derubrica l’intervento del presidente della Camera sulla nave Diciotti al solito discorso del solito Fico: ossia quello di sinistra, che per carità, “ha tutto il diritto di esprimersi da presidente”, ma non parla certo per tutto il M5S.
Però le proteste pubbliche e ufficiose e gli umori che filtrano dal Movimento raccontano anche un’altra verità. Ovvero che il Fico strapazzato da Matteo Salvini perché reo di invocare lo sbarco dei sequestrati della Diciotti ha goduto di una solidarietà larga dentro i 5Stelle, che in parte ha sorpreso lo stesso presidente della Camera. Tutt’altro che solo nel Movimento. Anzi, forte come forse non lo era da tempo. Perché nel M5S dove tanti parlamentari e anche alcuni ministri, in gran parte del Sud, sono stufi del Salvini in trincea. E sono stufi di subirlo. Da qui, la scelta di stringersi attorno a Fico, al movimentista della prima ora. Un modo anche per invocare un riequilibrio dentro il governo, da quel Di Maio che a Genova aveva rubato la scena al leghista dichiarando guerra alla società Autostrade. Ma che ora è tornato in linea con l’altro vicepremier, perché non vede altra scelta. Per il fastidio diffuso nel M5S. Al punto che ieri un dimaiano di rango ammetteva: “Se continua così faremo fatica a tenere il gruppo”.
Nervoso, anche per altri fattori: dalla marginalizzazione dei parlamentari, fino alle nuove regole sulle restituzioni. E allora il muro a difesa di Fico va osservato con attenzione. Ripartendo dai nomi di chi lo ha eretto, visto che questa volta si è andati ben oltre la consueta pattuglia dei fichiani di stretta osservanza, dalla senatrice Paola Nugnes al presidente della commissione Cultura della Camera Luigi Gallo, fino a quello della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, che su Avvenire ha rivendicato: “Fico non è isolato, in tanti la pensiamo come lui”.
E ad occhio non mente, visto che con il presidente di Montecitorio si è schierato anche il ministro del Sud, Barbara Lezzi, big autonoma: “Nessuno dia lezioni alla terza carica dello Stato”. Sillabe che hanno fatto irritare Di Maio, raccontano. Ma contro Salvini hanno parlato anche veterani ascoltati nel gruppo. Come il deputato pescarese Andrea Colletti, durissimo: “Invece di blaterare e farsi selfie, il ministro pensi a far lavorare le commissioni territoriali”. Mentre la lucana Mirella Liuzzi, membro della Vigilanza Rai, ha rilanciato il tweet con cui Fico ha replicato al leghista. E ieri si è esposto anche Gregorio De Falco, senatore ed ex capitano di fregata: “Non è degno di un Paese civile e di uno Stato di diritto il lasciar permanere la situazione della Diciotti”. E siamo solo alle posizioni ufficiali. “Roberto è stato chiamato da altri ministri e parlamentari oltre Lezzi” assicurano ambienti vicino a Fico. A cui sono arrivate telefonate anche da altri partiti.
Però il tema è il clima nel M5S. Con Di Maio che dopo l’attacco di Salvini non ha chiamato Fico. Ma l’ex presidente della Vigilanza Rai, giurano, non si attendeva alcuna difesa da parte del capo politico. Mentre ieri a Omnibus il dimaiano Stefano Buffagni lo ha punto: “Nei panni di Fico forse avrei fatto una telefonata prima di fare l’uscita pubblica”. Ma il telefono non ha suonato. E la distanza tra Di Maio e Fico torna a dilatarsi.

La Stampa 25.8.18
Per il pugno di ferro il 40% degli elettori
“Ma gli italiani non sono xenofobi”
di Andrea Carugati

Sul no agli sbarchi la maggioranza degli italiani sta con Salvini, come sostiene il leader della Lega? Tecnicamente no. Anche se il numero di cittadini che approva la linea dura è molto elevato, «tra il 40 e il 45%», sostengono due sondaggisti di peso come Antonio Noto e Roberto Weber di Ixè. «Ma la maggioranza, seppur di poco, è contraria all’azione del ministro dell’Interno», dice Noto. Nella sostanza, al netto di una quota che non si pronuncia, «il Paese è diviso a metà», spiega Weber. «Ci sono due blocchi tra il 40 e il 45%, che fotografano posizioni presenti da almeno vent’anni. Salvini ha catalizzato umori presenti da tempo nell’area del centrodestra, mentre sull’altro fronte non c’è una figura che incarna una politica più favorevole all’immigrazione». Secondo Weber «è sbagliato sostenere che gli italiani siano diventati xenofobi. È cambiata la congiuntura, il tema immigrazione si è sedimentato, ma non c’è stato un boom di razzismo».
Certo è che la quota di favorevoli allo stop va ben oltre quella indicata dai sondaggi per la Lega. «La sfida all’immobilismo europeo attrae anche una parte di elettori del M5S che vengono dalla sinistra, la prova di forza con Bruxelles ottiene un consenso che non è solo di destra», dice Weber. E tuttavia, secondo Noto, a beneficiare di vicende come quella della nave Diciotti è soprattutto la Lega, «a scapito dei Cinque stelle». Perché? «Salvini è già arrivato al 30% nelle intenzioni di voto, e si consolida. Mentre il M5S rischia di pagare un prezzo, come dimostra la frattura che si è creata tra Fico e Di Maio. Per la prima volta dalla nascita del governo esponenti del Movimento hanno criticato apertamente Salvini e questo perché rispondono a una parte di elettorato che non condivide la lina dura». Difficile ipotizzare quanto costerà al M5S essersi allineato con la Lega sul tema immigrazione: «La nascita del governo gialloverde - dice Noto - ha provocato un piccolo calo dal 32 al 28% per i grillini. E si può ipotizzare che ci sia una ulteriore emorragia sul fronte sinistro, che rappresenta un terzo dei votanti del M5S». In ogni caso, «con la sfida sui migranti, Salvini, che era entrato nel governo da partner minore, rischia di diventare il primo partito della maggioranza».
E non è poco. «Salvini va avanti perché sa di avere una parte consistente della popolazione che è d’accordo con lui», sottolinea Nicola Piepoli. «Ed è la parte che in questo momento è più attiva e visibile sulla scena pubblica». Gli altri? «Io conto un 25% di cattolici praticanti che mette avanti le ragioni umanitarie, più una quota consistente di cosiddetti “altruisti”. In numeri il fronte ha dimensioni simili a quelli di chi vorrebbe respingere tutti gli immigrati, ma non incide, non fa opinione», dice Piepoli.
Il mix di no all’immigrazione e di sfida a Bruxelles funziona dunque come benzina per i gialloverdi. «Ma davanti a noi c’è un bivio», osserva Weber. «Se la sfida all’Europa va troppo oltre e mette a rischio la permanenza nell’euro, gli italiani potrebbero scaricare Salvini. Il sì alla moneta unica è oltre il 70% e i timori per lo spread molto diffusi. Sui dossier legati al portafoglio dei cittadini, Salvini e il M5S rischiano molto in termini di consensi, potenziali e reali».

Repubblica 25.8.18
Il caso della Diciotti
Tutti gli abusi di Salvini
Migranti come ostaggi ecco le norme violate per ordine di Salvini
Dal “porto sicuro” negato all’assenza di disposizioni scritte: la catena di illegittimità su cui indaga la procura di Agrigento. Oggi interrogati due funzionari del Viminale
di Carlo Bonini e Salvo Palazzolo


Arrivata al suo nono giorno di infamia, la vicenda della nave “ Diciotti” - per come ricostruita dalle evidenze sin qui acquisite dalla Procura di Agrigento e dalle testimonianze di tre diverse fonti qualificate del Viminale interpellate da Repubblica - appare di assoluta chiarezza. Quantomeno se ci si libera dalla pavidità che impedisce di chiamare le cose con il loro nome. Al molo di Levante del porto di Catania, a bordo della unità della nostra Guardia Costiera, dunque sul territorio della Repubblica italiana, è in corso un “ sequestro di persona aggravato” di 150 migranti eritrei (articolo 605 del codice penale, pena da 6 mesi a 8 anni di reclusione) che potrebbe persino trasformarsi, nella sua qualificazione giuridica, nell’ancor più grave “ sequestro di persona a scopo di coazione” ( articolo 289 ter del codice penale. “Chiunque sequestra una persona minacciando di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da 25 a 30 anni”).
Non solo. Su quello stesso molo, con pieno abuso di potere, si sta consumando la violazione macroscopica, palese e giuridicamente immotivata, delle norme del testo unico di legge sull’immigrazione e dei diritti fondamentali dell’uomo che impongono a ciascuno Stato, prima ancora di assumere qualsiasi decisione relativa al loro destino, che i migranti vengano compiutamente identificati e messi nelle condizioni di chiedere asilo o protezione umanitaria.
Ecco perché, nelle prossime ore, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, magistrato prudente ma consapevole del passaggio che ha di fronte, così come la polizia giudiziaria che a lui risponde dovranno necessariamente interrompere, come vuole la legge, il sequestro e gli abusi, ancor prima e persino a prescindere dall’identificazione delle loro responsabilità. A meno di non volerne diventare complici e dunque a loro volta risponderne.
È questo il motivo per cui, questa mattina, il procuratore siciliano sarà a Roma per ascoltare ( al momento nella veste di testimoni) il capo del Dipartimento delle Libertà civili, il prefetto Gerarda Pantalone, e il vicecapo del Dipartimento Bruno Corda, ex prefetto di Como, arrivato al Viminale nel luglio scorso nel primo movimento di prefetti battezzato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sono loro, infatti, i due dirigenti dell’ufficio da cui ha preso le mosse la macroscopica catena di abusi cominciata nove giorni fa nel basso Mediterraneo. Anche questi documentali, come la Procura ha sin qui potuto accertare.
I due prefetti dovranno dare infatti conto delle tre circostanze chiave di questa vicenda.
La prima. Per quale motivo il Dipartimento delle libertà civili, in violazione della legge e delle convenzioni internazionali, non abbia indicato al Comando generale della Guardia Costiera, e attraverso di lui alla centrale operativa di Roma delle operazioni Sar nel basso Mediterraneo il “ place of safety”, il porto sicuro dove la “Diciotti” avrebbe dovuto sbarcare i migranti soccorsi nella notte del 15 agosto.
La seconda. Per quale motivo il Dipartimento abbia negato ai migranti soccorsi l’esercizio del diritto riconosciuto dalle nostre leggi oltre che dalle Convenzioni internazionali di poter chiedere asilo.
La terza. Per quali motivo i due prefetti abbiano dato corso a disposizioni palesemente illegittime, venendo meno, prima ancora che alle norme del codice penale, al regolamento di disciplina dello stesso ministero che impone a funzionari e dirigenti di sottrarsi a ordini contrari alla legge.
In questa storia, infatti, una cosa è certa. L’abuso di potere consumato dal Viminale e il sequestro a bordo della Diciotti dei 150 migranti sono avvenuti senza che il ministro, in vacanza a Pinzolo, ma in servizio permanente su Twitter e Facebook, abbia impartito una sola indicazione per iscritto. Si è mosso infatti il suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi ( cercato ieri da Repubblica, il prefetto non era reperibile, così come del resto si è resa irreperibile - «È in ferie, ne ha diritto anche lei » - il prefetto di Catania) per trovare la gabola con cui giustificare la presa in ostaggio dei migranti. Una “ norma pattizia” che regola il coordinamento delle operazioni in mare tra ministero dell’Interno e Guardia Costiera (la cosiddetta Sop 009/2015) e che, per ragioni di semplice efficienza, attribuisce al Viminale il potere di indicare alle Capitanerie nelle operazioni Sar il “ porto sicuro di approdo”. Una disposizione di valore giuridico assolutamente residuale, perché subordinata alla legge penale e alle norme amministrative oltre che, va da sé, alle Convenzioni internazionali e alla Costituzione, e in questo caso, usata per aggirarle. Alla Diciotti è stato infatti indicato un approdo “di transito”, il molo di Levante di Catania, appunto, per simulare, giuridicamente, una condizione non di arrivo in porto (con conseguente obbligo di sbarco) ma di “ operazione ancora in corso”. Una mossa da azzeccagarbugli che, nelle intenzioni di chi l’ha partorita, avrebbe dovuto mettere al riparo il ministero da contestazioni penali e dare tempo ai suoi complici a Palazzo Chigi, il vicepremier Luigi Di Maio e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di agitare un’estorsione ai danni dell’Unione europea.
Una mossa che non ha portato da nessuna parte. Né al tavolo di Bruxelles. Né, soprattutto, nell’ufficio del procuratore di Agrigento, che ha ritenuto la nota di giustificazione ricevuta dal Viminale priva di qualunque valenza rispetto alla violazione delle norme penali e di quelle del testo unico sull’immigrazione. Tanto da fargli decidere per un’immediata trasferta a Roma nella giornata di oggi. Non fosse altro che per un motivo. Che invocare quella norma pattizia sarebbe stato già complicato se i migranti eritrei fossero stati a bordo di una imbarcazione civile battente bandiera estera. Figurarsi a bordo di un’unità della marina italiana, di diritto territorio nazionale a prescindere dal molo cui sia attraccata.
È per questo che, in uno spettacolo non nuovo ma non per questo meno desolante, mentre il governo si abbandonava a un’altra giornata di tweet, dichiarazioni, mascelle in fuori, nei felpati corridoi del Viminale è cominciata la corsa febbrile a immaginare come mettere una pezza o trovare un capro espiatorio per una storia in cui – per dirla con le parole di un navigato dirigente del Palazzo - « si faranno male in parecchi » . A cominciare dai prefetti che hanno battuto i tacchi e chinato il capo di fronte alla prima telefonata arrivata dal Gabinetto di un ministro fuori controllo e fuori dalla legge.

Il Fatto 25.8.18
“Regeni, altro che verità, Londra pensa agli affari”
di Andrea Valdambrini


Con una lettera aperta al Guardian, oltre 200 accademici del Regno Unito hanno chiesto al governo di Londra di non intensificare la collaborazione universitaria con l’Egitto. Impossibile, scrivono i docenti, ignorare la crescente brutalità del regime di al-Sisi nel reprimere ogni forma di dissenso e soprattutto dimenticare la tragica morte di Giulio Regeni, ucciso al Cairo tra gennaio e febbraio 2016 mentre svolgeva attività di ricerca per l’università di Cambridge. Fabio Petito, docente di Relazioni Internazionali all’Università del Sussex è uno dei firmatari dell’appello.
Cosa rimproverate al governo nella vostra lettera?
Anche nel campo degli accordi universitari, Londra segue le priorità dettate dalla Brexit: tutto ciò che è utile per aumentare i guadagni, va bene, i diritti umani passano in secondo piano rispetto al business.
Venendo al caso Regeni,, com’è possibile che Cambridge non abbia saputo proteggere un suo studente?
All’epoca ne rimasi sorpreso. Il sistema britannico è molto severo nei controlli: ogni supervisore deve firmare una serie di carte in cui dichiara di non mette a rischio la sicurezza dello studente. Da parte mia, non avrei mai inviato qualcuno a fare ricerca in un contesto così delicato.
Quale contesto?
Quello del primo anno di governo di al-Sisi, in cui il presidente vuole legittimarsi agli occhi del mondo. Nessuna ingerenza dall’esterno è gradita, fosse pure quella di un ricercatore straniero, che si occupava comunque di una materia molto sensibile.
Sta dicendo che la sua collega a Cambridge ( la tutor di Giulio era Maha Abdelraham) ha sbagliato valutazione?
Non sono un esperto di Egitto come lo è lei, ma certamente il suo comportamento è stato superficiale.
Dopo la tragedia, Cambridge ha fatto tutto il possibile per scoprire la verità?
Hanno pensato di affrontare il caso mettendo tutto in mano ai legali, il cui unico scopo è tutelare l’istituzione universitaria sotto il profilo giuridico. Eppure nessuno della famiglia Regeni ha cercato ricompense. Per questo l’approccio di Cambridge è disdicevole dal punto di vista morale. E anche poco rispettoso della sensibilità dell’opinione pubblica italiana. D’altronde sia la politica che i media britannici hanno finora dato sempre poco risalto al caso, almeno fino alla pubblicazione della nostra lettera da parte del Guardian.

Il Fatto 25.8.18
Austerità senza fine: Tsipras sarà l’ultima vittima
di Filippomaria Pontani


“La nostra terra è chiusa. Chiusa / dalle nere Simplegadi”: questi i versi del poeta Giorgio Seferis (da Leggenda, 1935) scelti da Alexis Tsipras nel suo discorso di tre giorni fa a Itaca, per proclamare che l’uscita dal tunnel dei memorandum ha mostrato la capacità del Paese di superare, al pari della leggendaria nave degli Argonauti, le rocce che nessuno oltrepassava indenne.
Tsipras vede oggi nel ritorno della Grecia sui mercati la fine di quella “nuova Odissea” annunciata nell’aprile 2010 all’altro capo dell’Egeo, a Kastellòrizo dall’allora premier Yorgos Papandreu, figlio dello storico politico socialista Andreas ed esponente di quella “seconda generazione” (i giovani Karamanlìs, Mitsotakis, Samaràs) la cui allegra incompetenza dette il colpo di grazia a uno Stato marcio e inefficiente, pronto per essere prostrato dalla speculazione internazionale e dall’austerità di un’Unione europea complice, ipocrita, imbelle.
Questa élite corrotta, ancora presente sulla scena pubblica è pronta, sulle ali di una stampa che non l’ha mollata, a pretendere il governo del Paese nelle elezioni del 2019: è contro di essa che Tsipras scaglia oggi le sue frecce, denunciando il cinismo di un’oligarchia che si riteneva intoccabile, condannando i ministri banchieri e i banchieri ministri (come l’ex premier Lukas Papadimos), ma anche chi si è lasciato abbindolare dalle Sirene del “tutto è inutile”, i fascisti riemersi e i gufi tifavano contro il proprio Paese per dimostrare l’inadeguatezza del governo a lottare contro i Lestrigoni e i Ciclopi. Non è chiaro se i greci serberanno memoria delle colpe di “quelli di prima”, di certo non dimenticheranno il cumulo delle misure dei tre memorandum d’intesa con la troika, l’ultimo firmato dallo stesso Tsipras nell’estate 2015 al termine di un tentativo, fallito, di forzare la mano con la politica di Yanis Varoufakis e un controverso referendum.
Per fare punto: abolizione di tredicesima e quattordicesima; abbassamento del salario minimo (per i giovani da 751 a 490 euro); abbattimento delle esenzioni e delle agevolazioni fiscali; aumento dell’anticipo fiscale per l’anno successivo (100 per cento); abbassamento della soglia di esenzione fiscale (da 8000 a 5000 euro); tre contribuzioni una tantum per i redditi sopra i 12.000 euro; aumenti ripetuti e strutturali di benzina, sigarette, alcol, giochi d’azzardo, bevande, telefonia mobile, autostrade, assicurazioni; tassa sugli immobili; tagli alle pensioni, con aumento dell’età pensionabile; aumento dell’Iva al 23 per cento, e applicazione di questa tariffa a un maggior numero di beni; graduale abolizione dell’Iva calmierata per le isole; tagli draconiani a investimenti pubblici, spese farmaceutiche e di difesa; migliaia di licenziamenti e cospicui tagli salariali nel settore pubblico. Per non parlare della totale alienazione in mani straniere di porti, aeroporti, ferrovie, enti pubblici e risorse strategiche.
Ulisse si presenta dunque a Itaca ai minimi termini, come nella recente vignetta dello Spiegel dove un grasso dottore insignito di coccarda europea accoglie uno scheletro greco esclamando “Dopo 8 anni di dieta Lei ha un aspetto molto più sano!”. E i segnali di ripresa sono ben più fragili di quanto si millanti: il debito non è stato tagliato ma solo dilazionato, e continua a viaggiare oltre il 180 per cento del Pil; il Pil aumenta per il quinto trimestre consecutivo, ma rimane molto al di sotto del 2008, e ballano miliardi di prestiti in mano ai creditori esteri, che non appena l’avanzo primario diminuirà potrebbero riprecipitare il Paese nel baratro; la disoccupazione è scesa sotto il 20 per cento, ma in termini assoluti gli occupati sono calati rispetto al 2008 di 858mila unità, i disoccupati di lungo termine sono aumentati di 565mila, e si è ridotta in modo sostanziale la forza-lavoro (circa 450mila persone sono emigrate all’estero, per lo più giovani ben qualificati).
A tutto questo si aggiungono i rapporti sempre tesi con la Macedonia del Nord (difficile che in autunno vada in porto l’accordo che assegna questo nome al Paese con capitale Skopje, un accordo che l’alleato destrorso di Tsipras, Panos Kammenos, ha già detto di voler rifiutare a costo di una crisi) e quelli con la Turchia, perché nessuno crede che la recente liberazione dei due soldati greci detenuti da mesi dall’esercito di Erdogan con l’accusa di aver sconfinato in armi sull’Ebro, sia il preludio a una vera normalizzazione. E soprattutto rimane la spada di Damocle della questione migratoria, che è lungi dall’essere risolta: i fondi dei programmi di assistenza europei sono ormai agli sgoccioli, il rubinetto turco continua a perdere, e serpeggia in vari luoghi la xenofobia (soprattutto nelle isole delle vacanze come Chio, Samo, Lesbo, dove sono allocati molti centri di detenzione).
Sul piano interno, la debolezza di Syriza – depauperata da anni dell’ala sinistra che non ha mai accettato il cedimento alla troika – è così evidente che in vista delle elezioni del 2019 sono state avviate goffe manovre di avvicinamento al “Movimento per il Cambiamento” (Kìnima Allaghìs) di centro-sinistra, il quale però pare intenzionato a proseguire la sua opposizione, e forse perfino a fornicare con i conservatori di Nea Dimokratía. Il sigillo su questo fallimento l’hanno messo gli incendi di luglio in Attica, i cui 93 morti sono stati il frutto dell’imbottigliamento prodotto da una speculazione selvaggia di almeno vent’anni, alla quale questo governo non ha saputo porre un freno. Inutili dunque, prima, le missioni di sensibilizzazione dei vigili del fuoco, inutili i richiami alla legalità contro l’abusivismo, lettera morta l’intenzione di creare un nuovo catasto del territorio; e ora tardive le lacrime di coccodrillo sui rimboschimenti sbagliati con pini marittimi (gli alberi più infiammabili), tardiva la costituzione di una commissione d’indagine indipendente e tardiva anche la riorganizzazione della Protezione Civile sul modello italiano, ritenuto il più efficace.
Gli incendi hanno mostrato una Grecia attenta al particulare, dimentica del bene pubblico e della legalità, un governo debole e a tratti corrivo, una cittadinanza pronta a sacrificare i beni comuni per una palazzina vista mare o un accesso alla spiaggia. Era forse impossibile imprimere una svolta di ethos in così poco tempo, era certo impossibile farlo sotto la pelosa ipocrisia dell’Europa.
Per ora, le speranze si concentrano sulla Fiera Internazionale di Salonicco, dove tra l’8 e il 9 settembre Tsipras annuncerà le misure del suo governo per la ripresa (ma Fmi e Commissione Ue, la cui prima “visita” di controllo è prevista proprio per il 10, hanno già dichiarato che non tollereranno deviazioni dagli impegni assunti): dilazione degli ultimi tagli pensionistici, abbattimento della patrimoniale, aumento del salario minimo, lotta all’evasione e al lavoro nero, reintroduzione dei contratti collettivi. Sono in larga parte le promesse con cui l’attuale premier si era presentato agli elettori 4 anni fa, e l’idea di mettervi mano ora, ridotto a mal partito da tutte queste peripezie, sembra velleitaria perfino per il giovane Ulisse che vuole risistemare Itaca e uccidere i proci, convinto di avere ormai passato le Simplegadi. Già, le Simplegadi. La poesia di Seferis citata da Tsipras, cupa professione d’impotenza, si chiude così: “Nei porti, la domenica, / quando scendiamo a prendere un po’ d’aria, / vediamo rischiarirsi nel crepuscolo / legni rotti da viaggi interminati, / corpi che più non sanno come amare”.

La Stampa 25.8.18
I servizi palestinesi sventano attacco contro Israele
di Giordano Stabile


I servizi palestinesi sventano un potenziale, devastante attacco contro i militari israeliani, e bloccano il tentativo da parte di gruppi jihadisti di sabotare l’accordo fra lo Stato ebraico e Hamas, ormai molto vicino, per una tregua permanente a Gaza. L’intesa, oltre a porre fine a cinque mesi di scontri, è destinata ad alleviare le condizioni umanitarie difficilissime nella Striscia e potrebbe essere il preludio di un passo molto più importante, la presentazione del piano di pace americano promesso da Donald Trump.
Anche la leadership di Hamas, messa all’angolo dal blocco israeliano ed egiziano, sembra ormai convinta che l’unica strada è il negoziato. La tregua potrebbe anche favorire la nascita di un governo di unità nazionale con Al-Fatah del presidente Abu Mazen. È un percorso stretto e gli estremisti vogliono bloccarlo. E proprio i servizi dell’Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen hanno scoperto nei giorni scorsi una bomba molto potente sulla superstrada 443, destinata a far saltare in aria un convoglio dell’esercito israeliano. Lo sventato attacco è stato rivelato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth e da quello panarabo Al-Quds al-Arabi, che hanno citato fonti dei servizi palestinesi.
Le fonti hanno sottolineato che la caratteristiche della bomba sono compatibili con il modus operandi sia della Jihad islamica palestinese che dell’Hezbollah libanese». La seconda ipotesi appare alquanto improbabile ma la Jihad islamica si è resa protagonista di attacchi anche in Cisgiordania negli ultimi tre anni. È un gruppo più radicale rispetto ad Hamas, che punta soltanto sulla lotta armata in tutti i Territori. La bomba è stata trovata tra i villaggi palestinesi di Beit Liqya e Beit Anan, nell’Area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo israeliano. L’ordigno consisteva in due bombole di gas con materiale esplosivo e un gran numero di chiodi.
La cooperazione prosegue
L’operazione di disinnesco «è avvenuta in coordinamento con l’esercito di Israele». Nonostante le tensioni molto forti fra l’Autorità palestinese e il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, a partire dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, la cooperazione tra forze di sicurezza palestinesi e israeliane è continuata. In Cisgiordania le manifestazioni sono rimaste contenute, rispetto alle “marce del ritorno” a Gaza, dove ieri ci sono stati altri 20 feriti.

Il Fatto 25.8.18
Le colpe dei padri Lisa Brennon Jobs, figlia di Steve Jobs
“Perdonatelo, io l’ho fatto. Papà Jobs era un computer”
In uscita il 4 settembre la versione di Lisa “Apple”
di Alessia Grossi


“Mi vergognavo di essere la parte peggiore di una grande storia”. Parola di Lisa Jobs. Soggetto di innumerevoli biografie – in vita e in morte –, dell’esistenza di Steve Jobs i suoi fan così come i suoi detrattori conoscevano già ogni dettaglio. Compreso quello del complesso rapporto con sua figlia, nata Brennon perché da lui riconosciuta solo tardivamente e da allora cresciuta schiacciata da suo padre, l’illustre “buonuomo” che ha rivoluzionato il rapporto tra uomo e tecnologia. Peccato che non abbia saputo fare lo stesso con le relazioni padre-figlia. Oppure sì. Visto che lei, Lisa, a pochi giorni dall’uscita della biografia, Small Fry – che ha in primo piano proprio papà Steve – confessa di averlo perdonato. “Vorrei che anche i lettori lo facessero – spiega in un’intervista al New York Times – vorrei che restassero impresse a chi legge le immagini di noi due contenti in pattini a rotelle, quanto il suo annuncio che non mi lascerà l’eredità”.
Esperimento difficile. Basta leggere le anticipazioni del libro, infatti, per immaginare lo sforzo che deve aver significato per lei, riconosciuta solo da adolescente, venire a patti con “la parte peggiore” di suo padre. E che padre. Eppure è Lisa stessa a confessare di essere riuscita a darsi una spiegazione per ogni singola freddura che Steve Jobs le ha riservato. Come quella volta che ci tenne a spiegarle che “Apple Lisa”, il computer da lui creato non era in suo nome. “Voleva insegnarmi a non cavalcare l’onda della sua fama”, spiega la donna al Nyt. O quando le negò l’aria condizionata in camera. “Non è che fosse insensibile – chiarisce – voleva insegnarmi un sistema di valori”. O quel giorno in cui lei decise di spruzzarsi un profumo per lui che la gelò con “odori come un gabinetto”. “Mi stava soltanto mostrando la sua onestà”. Small Fry dunque, sarebbe un modo per la scrittrice di “fare pace” con suo padre, anche se lei stessa non ne sembra molto convinta e si augura “di riuscire a passare un buon Ringraziamento”. Nonostante tutto. Perché ce n’è per tutti nel suo racconto. Sullo sfondo c’è la Silicon Valley degli anni 80: un mix di artisti, hippy e tecnologi. Ed è in questo clima che sua madre Chrissann Brennan, artista, e suo padre, il futuro rivoluzionario dell’informatica si conoscono, si amano, concepiscono Lisa e poi si lasciano. Sarà proprio sua madre – costretta ai lavori più umili – a crescerla nonostante i milioni di dollari che nel frattempo seppelliscono il suo padre biologico. E non basterà neanche la prova del Dna a darle ragione. Servirà una sentenza del tribunale che obbligherà Jobs a sostenere gli studi di sua figlia, per veder riconosciuta a Lisa la paternità. Lei che solo allora decide di confessare ai suoi compagni del liceo di Paolo Alto di essere la figlia dell’inventore del Mac. Small Fryracconta anche questo. Come Jobs sia diventato l’eroe locale.
Eppure sempre freddo nei confronti di sua figlia. Tanto da “costringere” i vicini a farsi carico dell’adolescente spaesata e ad accoglierla in casa loro. A proposito di casa, Lisa ricorda quando su richiesta di sua madre, Steve le accorda l’acquisto di un’abitazione “purché sia bella”. Chrisann Brennan ne trova una all’altezza. Al punto che l’ex decide di andarci a vivere con sua moglie, Laurene Powell. La donna che – durante una sessione di terapia con Lisa piangente perché si sente sola – risponde al terapeuta: “Siamo solo persone fredde”. Altroché fredde, Lisa racconta di come suo padre “scherzasse” simulando un amplesso con la signora Powell davanti ai suoi occhi.
E la madre della ragazza si spinge a rievocare la scelta di mettere tra Steve e sua figlia piccola un accompagnatore “per via degli atteggiamenti inappropriati” del manager con la bambina. “A nove anni lo sorpresi a ridere di lei su ipotetici rapporti con un fidanzatino”.
Ma Lisa “giustifica” anche questo: “Era così inopportuno perché non sapeva fare di meglio. Era sempre in bilico tra l’umano e il disumano”. Ma come in tutte le fiabe mentre Jobs era malato terminale arriva il “lieto fine”. “Lui si scusa e nella sua biografia ammette di essere pentito di non aver trascorso più tempo con lei e di non aver risposto alle sue chiamate né di averla richiamata”. Salvo spiegarle di non averlo fatto non perché fosse occupato, bensì “perché offeso per non essere stato invitato ai week end di Harvard”. Oggi Lisa avrà perdonato suo padre, forte anche dei milioni ricevuti in eredità, pari a quella degli altri figli, eccetto per la parte finanziaria. “Se avessi quella la donerei alla Gates Foundation”, confessa fiera. “Sarebbe troppo perverso, si domanda?”. Almeno quanto dire di aver perdonato suo padre e poi dare alle stampe queste memorie, avendo promesso a lui di non farlo.

Domani me ne vado alla Festa dell’Unità. Ho bisogno di starmene un po’ da solo.

Dal web

venerdì 24 agosto 2018

il manifesto 24.8.18
Si prepara una repubblica identitaria
Riforme. Sconcertante l'attualità del confronto sul futuro del parlamentarismo che si è svolto tra Kelsen e Shmitt nella fase più vivace della repubblica di Weimar. Poi sappiamo com’è finita
di Gaetano Azzariti

«Non si può seriamente dubitare che il parlamentarismo sia l’unica forma reale in cui l’idea di democrazia possa essere attuata nell’odierno contesto sociale».
È la risposta che diede Hans Kelsen a Carl Schmitt il quale riteneva che il Parlamento avesse esaurito le proprie ragioni «storico-spirituali».
Tanto Kelsen quanto Schmitt erano, entrambi, del tutto consapevoli della grave crisi in cui versava l’organo della rappresentanza popolare, ciò che però radicalmente li separava era la visione di democrazia. Per Kelsen, infatti, l’essenza e il valore della democrazia era da rinvenire nelle garanzie del procedimento parlamentare, poiché esse sole potevano assicurare la dialettica e il contraddittorio (la «contrapposizione di tesi e antitesi») tra i diversi interessi politici. È solo a seguito di questo necessario confronto che si può formare la volontà dello Stato democratico. Il «compromesso» parlamentare si regge sul principio di maggioranza s’intende, e dunque non c’è alcun cedimento verso forme di governo assembleari che minino le prerogative e l’attività dei Governi. Ma proprio per assicurare capacità di governo è necessario garantire che si possano esprime e far valere entro il Parlamento gli effettivi rapporti sociali.
ALTRIMENTI, scriverà con drammatica chiarezza Kelsen, il conflitto finirà per travolgere la democrazia: «Se c’è una forma che offra la possibilità di eliminare questo profondo contrasto – che si può deplorare ma non seriamente negare – non mediante sanguinose rivoluzioni ma in modo pacifico e graduale, questa è la forma della democrazia parlamentare».
Carl Schmitt riteneva invece il Parlamento il luogo dell’inconcludenza politica, mero «teatro della divisione pluralistica della società». Si doveva, dunque, immaginare un futuro senza quest’organo, ormai entrato in una fase di «autodisfacimento». La volontà statale non si sarebbe più assicurata mediante il principio di rappresentanza politica plurale, bensì poteva essere conseguita ben più efficacemente in base al principio d’identità. Identità in un capo (Führerprinzip) e adozione di un sistema di pronunce dirette della volontà popolare su singole questioni («Se i cittadini aventi diritto al voto non eleggono un deputato, ma in un referendum, in un cosiddetto plebiscito reale, decidono effettivamente da sé e rispondono con un ‘sì’ o un ‘no’ a una domanda loro posta, il principio dell’identità è veramente realizzato al massimo grado»). Nei termini più propriamente istituzionali, dunque, la ricetta per superare la crisi del Parlamento era in questo caso indicata nel passaggio ad un sistema di presidenzialismo plebiscitario.
QUESTO CONFRONTO sul futuro del parlamentarismo si è svolto negli anni Venti del secolo scorso, durante la fase più vivace della repubblica di Weimar. Poi sappiamo come è andata a finire. A me sembra di un’attualità sconcertante ed una lezione su cui meditare, poiché essa coglie l’essenza dei problemi del nostro tempo con una distanza e una profondità d’analisi del tutto assenti nel dibattito convulso che si è acceso su queste delicatissime questioni.
NON VORREI nobilitare troppo gli attuali critici del Parlamento (da Casaleggio a Giorgetti), ma le tesi da loro sostenute non possono essere considerate in sé e per sé, devono essere valutate alla luce della visione di superamento della democrazia parlamentare lucidamente fissata da Carl Schmitt. Non sono, infatti, in discussione le aspre critiche che vengono rivolte alle patologie del sistema: che il Parlamento non conti più nulla, che non sia più riconosciuto dai cittadini (Giorgetti), o che la sfiducia dei cittadini nella classe politica abbia radici lontane e lo scollamento tra i palazzi e la vita reale non sia una novità (Casaleggio) sono certamente dati di realtà. Quel che inquieta sono le conclusioni che se ne traggono e le prospettive che si indicano. Per Casaleggio «il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile», sostituito da forme in cui il volere dei cittadini venga tradotto direttamente in atti concreti e coerenti; mentre con più pragmatismo Giorgetti indica la classica strada della repubblica presidenziale come via per superare un parlamentarismo inconcludente e andare alla ricerca di un rapporto diretto tra il popolo e un capo. È una repubblica identitaria il futuro che ci viene prospettato. Forse solo, in termini schmittiani, un’altra forma di democrazia, privata però del suo valore e della sua essenza.
EPPURE, quel che impressiona sopra ogni altra cosa è che nel dibattito attuale sia scomparsa la voce di chi, pur consapevole della crisi del sistema parlamentare, voglia riaffermarne il suo primato. Non fosse altro perché è questa l’unica forma reale in cui l’idea di democrazia può essere attuata.
IN FONDO basterebbe tornare a Kelsen per individuare una strada alternativa a quella che ci è stata sin qui proposta, e non solo con le ultime dichiarazioni degli esponenti del governo giallo-verde, ma dall’intero establishment politico ormai da qualche lustro. La crisi delle democrazie contemporanee si lega indissolubilmente al disfacimento del sistema parlamentare. Ed è proprio questo doppio stallo che impone di riflettere sulle forme assunte dalle procedure parlamentari, non più in grado di assicurare il confronto tra i diversi interessi politici. Se qualcuno volesse seriamente affrontare le drammatiche questioni poste dall’odierno contesto sociale, sempre più asfittico e chiuso, dovrebbe con forza rivendicare una nuova centralità del sistema parlamentare. Poiché senza un Parlamento in grado di essere effettivo luogo del compromesso politico non c’è spazio per un’idea di democrazia plurale.

Repubblica 23.8.18
Il dibattito
Dopo i fischi di Genova
Quel popolo a sinistra che aspetta solo di essere ascoltato
Il confronto tra i lettori di Repubblica dopo l’editoriale di Nadia Urbinati pubblicato martedì
di Nadia Urbinati

Sono molto grata ai lettori di Repubblica per la lettura partecipata del mio articolo Il peccato della sinistra senza popolo pubblicato il 21 agosto scorso. Molti i commenti critici e moltissimi quelli simpatetici; molte le riflessioni interessanti su quel che ci sta a cuore: scuotere l’immobilità dell’opposizione, riprendere le fila della discussione sulle ragioni della sconfitta con lo scopo di raddrizzare la barra, per ripartire. La critica più ricorrente sostiene che il mio argomento invita a pensare che la sconfitta della sinistra sia la dimostrazione della ragione degli altri. Ma non è davvero questo il significato della considerazione che proponevo: «Come chi nel Pd ancora sostiene che gli elettori "hanno sbagliato" a votare (il 4 dicembre e poi il 4 marzo). Ma nella gara democratica sbaglia chi perde.
Invece si persiste in una irrealistica astrattezza: nel rifiutare la realtà». Il popolo non ha sempre ragione, ma insistere come fanno spesso i dirigenti del Pd che "noi" abbiamo ragione e chi non ci ha votato ha torto, è un segno di astrattezza e presunzione che non si accorda con la democrazia elettorale. Se si perdono voti la ragione è da cercare in quel che si è o non si è fatto. Se a vincere sono forze nazionaliste e xenofobe dobbiamo chiederci come queste sono cresciute negli anni in cui governava la sinistra.
Sostiene Paul Krugman, che la minaccia all’ordine liberale che viene dall’Italia mostra la vulnerabilità dei partiti di centrosinistra, e punta il dito verso "gli errori" commessi nel governare la crisi economica.
Chi perde non può intestardirsi a dire che avrebbe dovuto vincere perché era il migliore.
Anche il Partito d’Azione era il migliore quanto a menti pensanti, ma come partito fu perdente come «un drappello di generali senza esercito». Il principio di realtà ci impone di guardare in faccia quel che non ci piace. E il partito politico ha la funzione di interpretare la realtà e situare se stesso in quella specifica realtà, per governarla e non esserne travolto. Per questo, occorre capire la realtà (capirla non significa accondiscenderla). La passività del maggior partito di opposizione, e della sinistra in generale, è un problema serio per il Paese. E l’insistenza nell’assumere di essere nel vero (magari attendendo che i fatti ci diano ragione...e intanto il Paese è governato da queste forze) non aiuta a rimettere in piedi una strategia politica e un partito. Forse il tono della mia critica infastidisce – ben venga lo scossone emotivo; se non altro potrà rivilitalizzare un corpo che sembra non volersi risvegliare dopo la sconfitta.
Che si levino critiche, dunque; che qualcosa almeno succeda!
Ci sarebbe urgente bisogno di azione strategica, di linea politica chiara: sui respingimenti e la violazione dei diritti umani; sull’attacco al Parlamento e la proposta di una riforma compiutamente autoritaria della Costituzione; sui diritti civili e le politiche sociali; sul ruolo cruciale dell’Europa democratica. Su tutto questo abbiamo bisogno che la sinistra esista e che non balbetti, lasciando dietro di sé l’inutile recriminazione su una presunta verità non capita dagli elettori. Anche perché, se gli elettori hanno girato le spalle occorrerà capire che cosa è andato storto. Comunque sia, è necessario partire dalla realtà.

Repubblica 21.8.18
La crisi del Pd
I peccati della sinistra senza popolo
di Nadia Urbinati

C’è ancora chi si stupisce, dentro il recinto del centrosinistra, di quanto invisi siano i suoi uomini e le sue donne al "popolo" che sta fuori, che guarda, che commenta e che giudica: che ha in mano il potere oggi più temuto, quello dell’audience. Un popolo in funzione giudicante, pollice alto/pollice verso, fa paura. E la reazione alla paura denota il carattere. Chi teme i fischi sta a casa: questo è avvenuto ai funerali di Stato delle vittime per il crollo del viadotto di Genova. La sinistra assente. Maurizio Martina lasciato solo.
Questa diserzione è un’immagine pietosa della mancanza di leadership, che è mancanza di carattere. Ed è la conferma di una delle numerose ragioni che stanno all’origine del disprezzo largo, dell’odio perfino, nei confronti del Pd. La politica si basa sull’opinione, che non fa sconti.
Come non ne fa il voto. Il persistente stupore che a sinistra si avverte per questa contrarietà è segno di una radicale incapacità a comprendere.
Come chi nel Pd ancora sostiene che gli elettori "hanno sbagliato" a votare (il 4 dicembre e poi il 4 marzo). Ma nella gara democratica sbaglia chi perde. Invece si persiste in una irrealistica astrattezza nel rifiutare la realtà. Nel frattempo, gli italiani che hanno sbagliato fischiano.
Come tra i due tronconi del viadotto Morandi spezzato, tra la sinistra e gli italiani c’è un baratro.
Peppe Provenzano, in un commento postato sulla sua pagina di Facebook, scrive che si deve avere il coraggio di cambiare persone e sigle, programmi e messaggi. Per ripartire occorre però liberarsi della zavorra che affonda la nave: quei vizi etico-politici che sono, oggi, alla base dell’antipatia del popolo.
Un vizio è la saccenteria, quell’immagine fastidiosa di una sinistra che tutto capisce. Viene da lontano, quando la filosofia della storia dava la certezza della comprensione dei processi. Ma allora c’era buona fede: si credeva. Oggi, il mito è morto ma quell’atteggiamento è rimasto e genera un insopportabile e giustificato fastidio. Con quale autorità chi è di sinistra può dire di stare più vicino al vero degli altri? Un altro vizio, conseguente a questo, è la presunzione di competenza. Che aveva una ragione d’essere (forse) ieri, ma non oggi: alla prova dei fatti, i suoi leader e ministri hanno mostrato di essere non sempre capaci e le loro decisioni non sempre buone. Eppure, resta l’attitudine di aristocratica supponenza di chi crede di essere comunque dalla parte giusta.
Questo genera frustrazione in chi è ancora di sinistra e risentimento in chi lo era. Genera disprezzo in tutti gli altri, che sono sempre più numerosi.
Scriveva Albert O. Hirschman che non c’è peggior categoria di politici di coloro che credono di sapere sempre come stanno le cose, senza bisogno di confrontarsi con chi non la pensa come loro poiché, oltre ad aver la mente chiusa al dubbio e all’apprendimento, hanno la supponenza di chi non ha nulla da imparare. Il popolo che fischia dovrebbe essere come un libro di testo; per aprirlo e leggerlo occorre una disposizione basilare di umiltà, poiché ha più di una ragione per essere così critico. La sinistra al governo non ha mantenuto molte delle sue promesse: non ha sempre operato per la giustizia sociale; non ha ridato forza al pubblico; non è stata sempre dalla parte dei lavoratori e del lavoro; non ha sempre avuto leader capaci, amati e lungimiranti; ha tentennato sui principi e spesso li ha traditi. Questi sono alcuni degli "errori" dai quali partire. Con umiltà e accettando il principio di realtà.

«Per l’opposizione, che incarna il passato, al netto di tutte le sue carenze come illustrava benissimo Nadia Urbinati ieri, sarà difficile risalire la china»
Repubblica 22.8.18
La crisi del centrosinistra
La finzione della purezza immacolata
di Piero Ignazi

Non me ne voglia Maurizio Martina, persona garbata e senza macchia, ma quello che è successo alla Fiera di Genova durante il funerale alle vittime del crollo del ponte Morandi ha lo stesso significato delle monete lanciate a Craxi fuori dall’hotel Raphael dopo la sua "assoluzione" in Parlamento nel 1993, e dei lazzi che hanno accompagnato Berlusconi fuori da Palazzo Chigi nel 2011. Da un lato i fischi, ancorché isolati, al Pd, dall’altro gli applausi a scena aperta al governo segnano uno spartiacque nell’immaginario collettivo.
I rappresentanti del Pd agli occhi della folla, incarna(va)no il potere. Non conta che lo abbiano ceduto pezzo a pezzo, prima a livello locale perdendo il controllo di regioni e di città grandi e piccole e poi anche al centro. Il Partito democratico era, oggettivamente, il perno del sistema politico italiano.
Quando era all’opposizione gestiva molte amministrazioni locali che poi, quando tornava al governo del paese, manteneva in buon numero (fino agli ultimi anni). La centralità del partito è apparsa in tutta evidenza durante il governo Renzi per la forza attrattiva della sua personalità. In una fase attraversata dai venti furiosi dell’anti — politica e dell’anti — establishment il Pd è diventato il bersaglio preferenziale. Già il referendum del 4 dicembre lo aveva messo in chiaro. Oggi si imputa al Pd tutto quello che non va. Esattamente come fece Berlusconi dopo il 1994: lui non c’entrava nulla con quello che avevano fatto prima. Era nuovo, vergine.
Anche i 5Stelle possono arrogarsi una purezza immacolata; la Lega no, ovviamente. Invece, grazie all’alleanza con i pentastellati, i leghisti sono stati mondati dal peccato originale del potere. Il tocco grillino santifica… Il crollo del ponte trascina con sé una classe politica e una classe dirigente.
L’opposizione all’establishment politico ed economico ha acquisito una forza emotiva dirompente. E i giallo-verdi la sfruttano appieno, senza scrupoli. Gli si è parata di fronte una gigantesca opportunità per fare punto a capo: da qui, da questi morti, fanno nascere una nuova fase e fondano la loro legittimità più profonda. E chi si oppone è un nemico del popolo. La furia con cui Luigi Di Maio ha arringato l’opinione pubblica in questi giorni non esprime solo la giusta indignazione verso chi — eventualmente — poteva evitare il disastro. Esprime una torsione, forse definitiva, del M5S in direzione schiettamente populista. Non ci sono più regole, norme, procedure: vince la pulsione per una giustizia popolare, e sommaria. Il richiamo al primato della legge, tante volte invocato anche dallo stesso Grillo quando polemizzava con Berlusconi, sparisce.
L’abbraccio con la Lega ha purificato quest’ultima assolvendola dalla passata commistione peccaminosa con il potere, ma ha infettato i pentastellati con il suo populismo a 24 carati, quello della superiore legittimità del "popolo" — un tempo padano e ora italiano — alle leggi dello Stato. Aver lasciato andare il M5S all’abbraccio con la Lega, non aver fatto quanto era possibile per evitare il saldarsi di queste due forze, mostra adesso l’enormità dell’errore. Il consenso che l’alleanza di governo aveva, e che probabilmente schizzerà in alto dopo Genova, si fonda su un rigetto del passato ancor più che su una speranza per il futuro. Per l’opposizione, che incarna il passato, al netto di tutte le sue carenze come illustrava benissimo Nadia Urbinati ieri, sarà difficile risalire la china.

Repubblica 23.8.18
L’appello di Cacciari, i diritti e l’uguaglianza
di Mario Tancredi

Vorrei contribuire in concreto a rispondere all’appello di Cacciari e degli altri intellettuali, al di là dell’adesione profonda ed entusiasta. La Democrazia è sistema complesso che non si gestisce semplicemente attraverso leggi elettorali, forme di governo o maggioranze coese ( che sono solo strumenti), ma, come per l’individuo, c’è da gestire la Cultura sociale. La non gestione è la peggiore forma di gestione che si possa adottare. Ed è quel che sta avvenendo: si lascia spazio a « pensieri rozzi e pratiche discorsive confuse » , come scrive Galimberti ("D" del 18 agosto), e tutto viene rimesso in questione, non però con spirito critico e sulla base di una buona conoscenza, ma con il più volatile degli strumenti dialettici, cioè l’opinione. L’opinione che diventa realtà alternativa e assume la stessa valenza della realtà documentata.
Solo per esemplificare sulla gestione della Cultura sociale prendo uno dei " valori" fondanti la nostra, quello della " uguaglianza". In assenza di una gestione della Cultura, si è verificata una deriva, passando dall’uguaglianza delle opportunità a quella dei trattamenti. Questo fa sì che tutti chiedano tutto arrivando a rivendicare come diritti anche i capricci, rendendo difficoltosa non solo l’attività governativa, ma anche sterilizzando come " valore" la meritocrazia. Di cui, infatti, si parla e si scrive soltanto.
E così si scade nella mediocrità, nella " mediocrazia" che fa da lievito alla fuga di cervelli all’estero, nei Paesi in cui la meritocrazia è salvaguardata. La Politica va a rimorchio degli elettori nel celebrare il valore dell’uguaglianza che gli individui rivendicano per non esporsi all’ansia della competitività e all’impegno per evolvere. Già nel 1871 il filosofo Henri- Frédéric Amiel scriveva nei " Frammenti di diario intimo": «La democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell’Uguaglianza, che dispensa l’ignorante di istruirsi, l’imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi. Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle conseguenze. Perché non riconosce la diseguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento.
L’adorazione delle apparenze si paga » .

La Stampa 24.8.18
L’ultima frontiera del capo leghista. Prima il popolo, poi le istituzioni
Per il leader-ministro un crescendo di dichiarazioni e linea sempre più dura in diretta Facebook. Se il Colle, il premier e i giudici non sono d’accordo poco importa: basta che la gente sia con lui
di Francesca Schianchi

Roma Quale fosse l’aria si poteva capire fin dai primi giorni di governo, da quando, poche ore dopo aver giurato, già metteva da parte la grisaglia ministeriale e si scaldava in piazza a Vicenza coniando uno degli slogan più infelici e virali di questa stagione: «Per i clandestini è finita la pacchia». Da allora, in barba alla moderazione istituzionale che di solito porta il ruolo, per il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini è stato tutto un crescendo: contro l’opposizione in Parlamento e contro la Ue, i poteri forti e la stampa, il rapper, l’attrice, l’intellettuale. Beffardi bacioni per tutti, sempre in nome del popolo italiano, in un florilegio di attacchi e critiche e taglienti sfottò che arriva fino alla magistratura («Indagatemi») e ai vertici dello Stato: la nuova frontiera del salvinismo è lo scontro istituzionale, la sfida al presidente della Repubblica, ma anche al premier, entrambi provocatoriamente invitati, dopo che hanno tentato la moral suasion, a dare il via allo sbarco dalla Diciotti se vogliono, «ma senza il mio consenso», e al presidente della Camera, Roberto Fico, accomunato malignamente a «Bertinotti, Fini e Boldrini», la terza carica dello Stato descritta con sprezzo come uno che «ha tempo per parlare».
Un rivale via l’altro 
Va in tv, interviene in radio, fa interviste sui giornali. Ma la specialità è il rapporto col suo pubblico, «è un po’ che non ci sentivamo e non ci vedevamo in diretta live», li saluta con il sorriso che si riserva agli amici parlando via Facebook, rassicurandoli di aver detto no allo sbarco «a nome mio, ma anche a nome vostro perché per questo mi avete scelto e votato», e mentre parla «da ministro, da papà, da italiano», mentre spuntano un attimo gli occhi della figlia in un quadretto di famiglia che sembra perfetto per dire «sono come voi», è tutto un tripudio di cuoricini e pollici alzati, «sei un grande non fermarti» e «l’Italia vi ama», più di centomila commenti e oltre un milione di visualizzazioni. I nemici sono Maurizio Martina e il Pd, «ma poveretto», Asia Argento «sperando che la notte stia tranquilla», Roberto Saviano con cui lo scontro è aperto da tempo, «sperando che non abbia esaurito la scorta di Maalox», Gad Lerner che «chissà se il Rolex funziona ancora perfettamente». E poi «l’Europa vigliacca», il «giornalismo ipocrita», la magistratura che apre un fascicolo contro ignoti, «sono qua, non sono ignoto» e via via, un nemico dopo l’altro in una escalation che sente benedetta dall’umore popolare, «è con me la maggioranza degli italiani», e pazienza se il 4 marzo scorso a votare per lui fu il 17 e rotti per cento che non corrisponde esattamente alla maggioranza.
La rivalità di Di Maio 
Da allora, in questi due mesi e mezzo di governo, proprio questo viaggiare solo in accelerazione, mai fare marcia indietro nella convinzione che qualcun altro risolverà il problema (come quando, a luglio, fu Conte su input di Mattarella a decidere lo sbarco) o, mal che vada, si finirà alla crisi di governo e all’incasso, lo fa crescere nei sondaggi, lievitare su su fino a raddoppiare lo score o giù di lì. Tutto questo nello stesso momento in cui Luigi Di Maio, il gemello diverso del M5S, l’alleato con cui «lavoro molto bene» gli sta dietro a fatica. Ne imita il linguaggio («Passeranno sul mio cadavere», «Hanno fatto marchette ad Autostrade»), alza i toni pure lui («Se l’Ue non fa nulla non siamo più disposti a dare 20 miliardi all’anno all’Unione europea»), eppure il ritmo è sincopato, ogni tanto gli tocca abbozzare come su Ilva, nascondersi dietro formule tipo «il delitto perfetto», per dire che la gara non gli piace ma le regole si rispettano. Mica come Salvini, disposto a tirare la corda fino quasi a farla spezzare. Anche oltre le regole dello Stato di diritto, l’umanità, il buon senso, spronato da una valanga di like.

La Stampa 24.8.18
I vicepremier e le spallate al sistema
dii Lucia Annunziata

Non ha paura delle eventuali accuse dei giudici, «perché ho con me i cittadini». Non si fa smuovere dal dissenso del presidente della Camera Fico o dalle pressioni del suo stesso premier o del Quirinale: «Ognuno faccia il suo lavoro nel suo ruolo». Parlando da «ministro, italiano e papà» Matteo Salvini ha concluso una convulsa giornata di scontro rimanendo in trincea, e incassando la piena solidarietà di Luigi Di Maio.
L’intervento sulla Diciotti segna un salto politico: c’è dentro un passaggio di toni che rende chiaro che lo scontro intorno alla nave si è fatto più alto.
Il No del vicepremier si erge contro la magistratura, il presidente della Camera, il premier del suo governo, e, infine, contro il Quirinale. Insomma, la polemica è stata portata nel cuore delle istituzioni. Con l’entusiastico consenso di Luigi Di Maio che, parlando a nome di tutto il movimento (sconfessando insomma Fico) vi aggiunge un proprio carico: chiede soluzioni europee già per oggi nella riunione convocata in Europa, «oppure non daremo più i venti miliardi all’Europa».
C’è materiale per una crisi di governo, si sarebbe detto in altri tempi. Ma non è questo a cui pensano i due vicepremier. La loro è l’ennesima sfida all’equilibrio esistente del governo giallo-verde. Ma la critica alla democrazia rappresentativa per questa coalizione ha molto poco della dichiarazione ideologica; è piuttosto una efficace arma «pratica», un potente grimaldello per girare i rapporti di forza a proprio favore.
Cosa vogliono guadagnare dunque ora Matteo e Luigi allargando lo scontro? Davvero pensano di poter bloccare Mattarella, Conte, Fico e i magistrati, tutti insieme?
Bloccarli forse no. Ma metterli in imbarazzo, sì. Agli occhi dell’opinione pubblica (quel «papà» che fa tanto uomo comune) per alzare il tiro contro l’obiettivo di sempre l’Europa. Questa Europa che sulla vicenda dei migranti si è rivelata in verità di nuovo indifendibile. A parte i pochi gesti di solidarietà - fatti più che altro per compensare le durezze salviniane nei giorni della chiusura dei porti italiani - il famoso impegno sulla ripartizione dei migranti illegali fra tutti i Paesi europei è rimasto lettera morta. Nel caso attuale della Diciotti è successo di peggio. Questa volta infatti il No europeo non è stato rivolto a Salvini, ma all’Italia nelle vesti delle nostre massime autorità - il ministro degli Esteri Moavero, il premier e lo stesso presidente Mattarella.
Salvini e Di Maio sanno tutto questo. I loro No parlano dell’Europa, ma servono soprattutto a esporre al pubblico la sconfitta diplomatica, la impotenza della più alte cariche dello Stato, la paralisi dell’Italia nel rapporto con questa Europa. orse finirà come sempre con una pecetta finale, una nuova polemica. Ma nel frattempo l’azione dei leader di Lega e M5S che sta umiliando 177 uomini e donne, è riuscita: a) a umiliare anche gli sforzi delle nostre istituzioni, b) a preparare il prossimo scontro con l’Europa, che è quello sulla prossima finanziaria, c) a collocare i due vicepremier, agli occhi degli elettori, come gli unici uomini di azione in un Paese con una classe dirigente piegata o corrotta.
Fornendo contemporaneamente un’utile scusa a priori per eventuali sconfitte di questi stessi leader.

La Stampa 24.8.18
L’alleanza gialloverde vuole scalare l’Europa
Ma Roma resta isolata
di Carlo Bertini

A Matteo Salvini, l’affondo duro di Luigi Di Maio contro l’Europa è piaciuto particolarmente, anche perché non concordato. Non se l’aspettava ed ha apprezzato assai. Così come Salvini ha gradito leggere le critiche di molti grillini su Facebook al post della Lezzi di solidarietà a Fico. Verso il quale Di Maio non ha speso una parola. Non a caso. L’asse con Salvini si è rafforzato e le dimissioni minacciate l’altro ieri dal titolare del Viminale sono rientrate, perché il premier per ora non molla: il pressing è sull’Europa, «una guerra di nervi» la definiscono nel governo. E non si arretra, anche se finora la trattativa non ha dato risultati apprezzabili. Ma si spera che entro 24-48 ore giungano risposte nette. «Io tengo in ostaggio gli immigrati? No, è l’Italia in ostaggio dell’immigrazione clandestina», è la linea trasmessa dal leader leghista agli uomini a lui vicini.
Il Colle non si impone
Nei suoi contatti (non con Salvini), il Colle ha fatto presente che sta seguendo con attenzione la vicenda, ma senza voler imporre alcuna soluzione. Mattarella ha sentito Conte in un quadro di moral suasion, lasciando che il premier assuma da solo le proprie determinazioni. Insomma, nessuna intenzione di dare spago alle polemiche del leader leghista. Tantomeno di levargli le castagne dal fuoco, imponendo al governo lo sbarco dei migranti. Fra quanti frequentano i piani alti dei Palazzi, il punto di domanda è come Salvini potrà uscire dal tunnel: perché se l’Europa non li prende e la Libia nemmeno, che si fa di qui a qualche giorno?
Il premier giocoforza è preoccupato, si trova tra l’incudine e il martello, sottoposto a una forte pressione e conscio di dover gestire una situazione anomala. Dopo la minaccia di una crisi di governo, ieri però è stato il giorno della concordia: Conte non preme più di tanto per sbloccare la situazione, Di Maio è allineato e quindi la tenuta dell’esecutivo non sembra a rischio. Per Salvini del resto questa vicenda fissa uno spartiacque: vuole tenere la barra ferma anche perché se accettasse una marcia indietro tutti sarebbero autorizzati a pensare che al di là dei toni muscolari lui cede. E sarebbe un segnale di debolezza. Dunque si va fino in fondo.
Ognuno per sé
Peccato che dalle capitali europee non arrivano buone nuove, anzi. Moavero e Conte sondano le cancellerie, ma non ottengono ciò che a questo punto potrebbe sbloccare la situazione: tanto per cominciare garanzie e tempi certi di accoglienza dei migranti sbarcati un mese fa a Pozzallo, quelli che in base agli accordi andavano ripartiti in mezza Europa. Ma che non sono stati presi in carico da nessuno, tranne che dalla Francia. E in secondo luogo, Conte dovrebbe spuntare un accordo ferreo che suddivida questi altri 150 migranti rimasti a bordo della Diciotti nei vari Paesi. Al Viminale fremono, anche perché il prospetto aggiornato dei ricollocamenti per lo sbarco di Pozzallo mostra un quadro desolante. Due pagine con la data del 21 agosto mostrano un eloquente zero trasferimenti accanto ai 50 in capo alla Germania, idem per la Spagna, stessa cosa per i 20 spettanti al Portogallo e gli altri 20 all’Irlanda.
A Palazzo Chigi, dunque c’è una certa tensione: nessuno vuole forzare mano, ma c’è consapevolezza della difficoltà, ammette una fonte di governo. Anche perché dall’Europa non è attesa una semplice dichiarazione di intenti, ma dopo una valutazione del caso Pozzallo, dopo le promesse mantenute solo dalla Francia, la strada è ancora più in salita. E ora si spera che entro domani giungano risposte nette.

Corriere 24.88.18
Intervista al ministro dell’interno
«A breve vedrò Orbán per cambiare le regole»
di Marco Cremonesi

Pinzolo (Trento) «Ostaggi? Gli ostaggi sono stati gli italiani. Lo sono degli immigrati e dell’Europa, da troppo tempo. Con questo governo non lo saranno più. È finita un’epoca». Matteo Salvini trascorre qualche giorno a Pinzolo, in Trentino, con la figlia. E continua a ripetere il suo no al far scendere gli immigrati dalla nave Diciotti.
Ministro, che vuol fare? Gli immigrati sono attraccati a un molo italiano da giorni, come se ne esce?
«Con un bell’aereo che arriva da una delle capitali europee all’aeroporto di Catania. Gli europei dimostreranno il loro cuore grande caricando tutti gli aspiranti profughi. Noi la nostra parte l’abbiamo fatta con i giovani».
Oggi l’Europa si riunirà sul tema. Cosa direte?
«L’Europa deve sapere che il governo italiano è irritato. Basta con parole tante e risultati pochi. L’Ue si era impegnata a prendere 35mila immigrati: si sono fermati a 12 mila. Se la serietà è questa, non ci si può stupire che noi abbiamo deciso un punto fermo. Con le Ong ci siamo riusciti, ora dobbiamo costringere l’Ue a farsi carico di ciò che le spetta».
E come?
«L’Italia è contribuente dell’Europa per circa 6 miliardi l’anno. Ne abbiamo in cambio problemi su pesca, agricoltura, turismo, commercio, banche…».
L’Italia taglierà i contributi all’Unione?
«Stiamo entrando nella discussione sul bilancio, in cui le decisioni richiedono unanimità. Per noi, l’unanimità Bruxelles non la vedrà neanche col binocolo. E non siamo gli unici».
Altri Paesi si sottrarranno?
«Alla faccia del Pd, non siamo certo soli. La maggior parte dei Paesi pretende lo stop all’immigrazione. A metà settembre ci sarà la riunione dei ministri dell’Interno europei, e lì lo si vedrà. Io, nei prossimi giorni, incontrerò Viktor Orbán a Milano».
Qualche dettaglio?
«Ci sarà parecchio di cui parlare. Si dice che in base ai trattati, alle convenzioni, a Ginevra, noi non possiamo riportare gli immigrati indietro. Bene. Ma trattati e convenzioni si possono modificare».
Lei parla di Australia, ma lì gli accordi internazionali li hanno fatti. Noi non ancora…
«Al 23 agosto, gli sbarchi 2018 sono stati 19.526. Di cui 3.718 tunisini. Un Paese né in guerra né in carestia. Sono già in contatto con la Tunisia per andare il prima possibile e capire come possiamo aiutarli».
Sulla Diciotti sono quasi tutti eritrei, potrebbero avere diritto all’asilo. O no?
«Una delle poche buone notizie di questa estate disastrosa è che tra Etiopia ed Eritrea la pace resiste. Il cappellano degli eritrei in Europa, don Mussie Zerai, dice di sperare che anche l’Italia faccia la sua parte. Come governo, noi siamo assolutamente disponibili».
Lei ha strattonato il presidente della Camera Fico. Non un po’ troppo duramente?
«No. Mi attengo al contratto di governo, che parla di lotta all’immigrazione clandestina. Questo da ministro io faccio. E a giudicare dalle reazioni in strada e sulla Rete, l’ha capito la grande maggioranza degli elettori anche a 5 Stelle. Tanto che Di Maio, che ringrazio, ha confermato la nostra posizione».
Non è vero che lei abbia minacciato col premier Conte le dimissioni?
«Ma che dice? Le uniche telefonate che stiamo facendo sono quelle sull’economia. Parlare di immigrazione non ha un gran senso, la posizione è quella e tutti sono d’accordo».
Non pensa di aver avuto un atteggiamento di sfida nei confronti della magistratura?
«Non è questione di sfida, ci sono milioni di processi in arretrato e mi stupisce che ci sia qualche magistrato che ritiene di aprire un fascicolo per sequestro di persona».
Non è una questione di stato di diritto?
«Se mi convocano, sono a disposizione. Se l’autorità giudiziaria riterrà di indagarmi, processarmi o arrestarmi, troverà in me un italiano pronto a difendersi».
Dunque, state parlando di economia. Temete che i mercati puniranno i titoli del debito italiano?
«A qualcuno diamo fastidio, e le prove generali di un attacco economico sono già partite».
Parla dei 70 miliardi disinvestiti dai titoli italiani tra maggio e giugno?
«Anche. Per questo fa bene Conte ad andare da Trump. Per questo fanno bene gli esponenti di governo — Tria, Di Maio, Geraci — che stanno per partire per la Cina. Tra l’altro la Cina sta facendo investimenti formidabili in Africa, può essere un partner importante anche su terrorismo e immigrazione. Dobbiamo essere aperti a tutti gli scenari» .
«I veri ostaggi sono gli italiani — — dice al Corriere il ministro dell’Interno Matteo Salvini — io non ho paura di nessuno. A giorni vedrò Orbán per cambiare le regole».
Pinzolo (Trento) «Ostaggi? Gli ostaggi sono stati gli italiani. Lo sono degli immigrati e dell’Europa, da troppo tempo. Con questo governo non lo saranno più. È finita un’epoca». Matteo Salvini trascorre qualche giorno a Pinzolo, in Trentino, con la figlia. E continua a ripetere il suo no al far scendere gli immigrati dalla nave Diciotti.
Ministro, che vuol fare? Gli immigrati sono attraccati a un molo italiano da giorni, come se ne esce?
«Con un bell’aereo che arriva da una delle capitali europee all’aeroporto di Catania. Gli europei dimostreranno il loro cuore grande caricando tutti gli aspiranti profughi. Noi la nostra parte l’abbiamo fatta con i giovani».
Oggi l’Europa si riunirà sul tema. Cosa direte?
«L’Europa deve sapere che il governo italiano è irritato. Basta con parole tante e risultati pochi. L’Ue si era impegnata a prendere 35mila immigrati: si sono fermati a 12 mila. Se la serietà è questa, non ci si può stupire che noi abbiamo deciso un punto fermo. Con le Ong ci siamo riusciti, ora dobbiamo costringere l’Ue a farsi carico di ciò che le spetta».
E come?
«L’Italia è contribuente dell’Europa per circa 6 miliardi l’anno. Ne abbiamo in cambio problemi su pesca, agricoltura, turismo, commercio, banche…».
L’Italia taglierà i contributi all’Unione?
«Stiamo entrando nella discussione sul bilancio, in cui le decisioni richiedono unanimità. Per noi, l’unanimità Bruxelles non la vedrà neanche col binocolo. E non siamo gli unici».
Altri Paesi si sottrarranno?
«Alla faccia del Pd, non siamo certo soli. La maggior parte dei Paesi pretende lo stop all’immigrazione. A metà settembre ci sarà la riunione dei ministri dell’Interno europei, e lì lo si vedrà. Io, nei prossimi giorni, incontrerò Viktor Orbán a Milano».
Qualche dettaglio?
«Ci sarà parecchio di cui parlare. Si dice che in base ai trattati, alle convenzioni, a Ginevra, noi non possiamo riportare gli immigrati indietro. Bene. Ma trattati e convenzioni si possono modificare».
Lei parla di Australia, ma lì gli accordi internazionali li hanno fatti. Noi non ancora…
«Al 23 agosto, gli sbarchi 2018 sono stati 19.526. Di cui 3.718 tunisini. Un Paese né in guerra né in carestia. Sono già in contatto con la Tunisia per andare il prima possibile e capire come possiamo aiutarli».
Sulla Diciotti sono quasi tutti eritrei, potrebbero avere diritto all’asilo. O no?
«Una delle poche buone notizie di questa estate disastrosa è che tra Etiopia ed Eritrea la pace resiste. Il cappellano degli eritrei in Europa, don Mussie Zerai, dice di sperare che anche l’Italia faccia la sua parte. Come governo, noi siamo assolutamente disponibili».
Lei ha strattonato il presidente della Camera Fico. Non un po’ troppo duramente?
«No. Mi attengo al contratto di governo, che parla di lotta all’immigrazione clandestina. Questo da ministro io faccio. E a giudicare dalle reazioni in strada e sulla Rete, l’ha capito la grande maggioranza degli elettori anche a 5 Stelle. Tanto che Di Maio, che ringrazio, ha confermato la nostra posizione».
Non è vero che lei abbia minacciato col premier Conte le dimissioni?
«Ma che dice? Le uniche telefonate che stiamo facendo sono quelle sull’economia. Parlare di immigrazione non ha un gran senso, la posizione è quella e tutti sono d’accordo».
Non pensa di aver avuto un atteggiamento di sfida nei confronti della magistratura?
«Non è questione di sfida, ci sono milioni di processi in arretrato e mi stupisce che ci sia qualche magistrato che ritiene di aprire un fascicolo per sequestro di persona».
Non è una questione di stato di diritto?
«Se mi convocano, sono a disposizione. Se l’autorità giudiziaria riterrà di indagarmi, processarmi o arrestarmi, troverà in me un italiano pronto a difendersi».
Dunque, state parlando di economia. Temete che i mercati puniranno i titoli del debito italiano?
«A qualcuno diamo fastidio, e le prove generali di un attacco economico sono già partite».
Parla dei 70 miliardi disinvestiti dai titoli italiani tra maggio e giugno?
«Anche. Per questo fa bene Conte ad andare da Trump. Per questo fanno bene gli esponenti di governo — Tria, Di Maio, Geraci — che stanno per partire per la Cina. Tra l’altro la Cina sta facendo investimenti formidabili in Africa, può essere un partner importante anche su terrorismo e immigrazione. Dobbiamo essere aperti a tutti gli scenari» .

Repubblica 24.8.18
Intervista
Bonino
“Bulli al governo Ora si denunci l’Italia alla Corte dei diritti umani”
di Giovanna Casadio

ROMA «La vita altrui non vale più niente e non c’è più politica ma solo le dichiarazioni di Salvini, da bullo di periferia, non certo da ministro».
Emma Bonino pensa a soluzioni europee ma, dice, «i nostri partner europei ci guardano allibiti: una nave italiana in un porto italiano è bloccata da un ministro italiano secondo il quale i migranti a bordo sono tutti illegali – ma chi gliel’ha detto? – e che si inventa il modello australiano di respingimento».
Bonino, c’è stato un sequestro di persone sulla nave Diciotti?
«Lo appurerà la magistratura. Da cittadina provo un senso di profondissima indignazione.
Questa situazione è un groviglio di fili, nessuno dignitoso».
Lei, con alcuni giuristi, pensa a un’iniziativa?
«So che si sta studiando una denuncia alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che già ci ha condannato sui respingimenti collettivi. Ricordo che la maggioranza dei migranti della Diciotti sono eritrei, quindi fuggono da una dittatura, e si è venuti meno alla convenzione sui rifugiati. In questa vicenda surreale si mescolano questioni interne italiane, una tattica da propaganda elettorale permanente, questioni relative ai rapporti con i vari Stati europei. Le convenzioni del mare, quelle internazionali, i principi costituzionali sono scavalcati da tweet roboanti di un cattivismo inutilmente crudele».
È in atto anche uno scontro istituzionale.
«Anche, sì. E passano in ultima fila la vita e le speranze di 150 esseri umani che hanno l’unico demerito di essere nati in Paesi difficili e avere un colore diverso. Usciamo tutti perdenti come esseri umani, come cittadini, come politici. Ne escono perdenti anche gli Stati europei. Uno spettacolo indegno».
Salvini parla di adottare il modello australiano.
«Il modello australiano prevede uno schieramento di forze militari ingenti e costose e trattati con i Paesi vicini. Questa ennesima bufala sarà dimenticata nel giro di due giorni e allora ci sarà una nuova sparata».
Ma l’Europa dov’è?
«La commissione europea non ha competenze, perché gli Stati membri non gliele hanno mai date.
Le cose, si sostenne, sarebbero state risolte dai capi di Stato e di governo che si riuniscono e, anche quando decidono qualcosa, poi non la applicano. Al vertice di fine giugno, sbandierato come una vittoria, ci sono stati tanti litigi e poca sostanza. Tanto è vero che le parole chiave furono “su base volontaria”, che non significa nulla».
Non crede che l’incapacità di fronteggiare l’emergenza migranti in Italia spieghi i consensi alla linea di Salvini?
«Sicuro, da parte italiana e non solo. Al presidente Fico e ai deputati ricordo che giace in Parlamento la proposta di legge “Ero straniero” di iniziativa popolare che cerca di governare il fenomeno. Un’ultima cosa: sono solidale con gli eroi della Guardia Costiera che ricevono ordini via Facebook e sono tenuti a fare cose che non sono di loro competenza».

La Stampa 24.8.18
2000 morti in 18 anni, la politica australiana del “No Way” spiegata in un video

il manifesto 24.8.18
In piazza contro il ministro della vergogna
di Norma Rangeri

Sarebbe arrivato il momento di togliere ai bassi fondi dei social l’esclusiva della formazione dell’opinione pubblica per riportarla nella dimensione della piazza reale. Se, a settembre, decine di migliaia di persone decidessero di incontrarsi a Roma, oltreché su Facebook, per una manifestazione contro la politica del governo sui migranti sarebbe un modo, per ciascuno e per tutto il paese, di ritrovarsi.
Servirebbe uno scatto di dignità nazionale contro chi si atteggia a piccolo padre della patria, capace di trattare gli immigrati come ostaggi, di sequestrare ragazze e ragazzi minorenni in fuga dai disastri del mondo, di fomentare rigurgiti razzisti, di stravolgere diritto e diritti costringendo la guardia costiera a diventare il suo braccio operativo. Al punto da intimidire il comandante della nave Diciotti: «Non sapevo se nell’attraccare al porto correvo il rischio di essere arrestato». Il ministro degli interni va combattuto a fondo e seriamente. Esposti e querele rischiano di lasciare il tempo che trovano.
Per fortuna dalla nostra parte abbiamo il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Fico è espressione dello stesso governo di Salvini che, dopo averlo attaccato personalmente su come si guadagna lo stipendio (ignorando che Fico restituisce l’indennità da presidente), ha buttato la palla addosso al Movimento pentastellato. Lui si trova benissimo con Di Maio e Toninelli, se i 5Stelle sono divisi è affare loro. Quanto a Mattarella «non temo il Colle, ho la coscienza a posto». Come è evidente, lo scontro politico-istituzionale è frontale, sia dentro il governo che, se non soprattutto, con l’Europa.
Oltretutto se a Bruxelles l’Italia incontra un muro sull’accoglienza, il governo è pronto a sparare cannonate sui conti pubblici e il momento si avvicina. Che il massimo dell’impegno sia riunire oggi le seconde file di dodici dei ventotto paesi per venire a capo del caso Diciotti, significa che non sarà l’Europa a fermare Salvini e i suoi amici europei. Non si può certo dire che la situazione sia eccellente anche se la confusione è grande.
La tentazione della crisi di governo per andare alle elezioni europee e fare il pieno di voti fa parte del gioco spericolato che, nei piani della Lega, dovrebbe prevedere, come suggerisce il sottosegretario Giorgietti, la riforma presidenziale e monocamerale.
Tuttavia la storia non è finita anche se le bandiere democratiche e costituzionali (in momenti come questo si sente la mancanza del professor Rodotà) sono state via via abbandonate, lasciate nelle mani di una classe dirigente e di governo che negli anni (grazie anche a Renzi, Minniti e compagni) le ha strappate pezzo a pezzo, fino a renderle irriconoscibili brandelli.
Come del resto sta succedendo alla bandiera europea, affogata nel Mediterraneo insieme ai 34.361 migranti morti per raggiungere le nostre coste negli ultimi 15 anni. Le vittime che abbiamo voluto ricordare, con nome e cognome, nell’inserto speciale pubblicato dal manifesto. Con nome e cognome perché sono persone e privarle dell’identità è disumanizzarle, a tal punto da immaginare di poterle riportare nei lager (libici). Una ferita che sfigurerebbe chiunque.
Proprio in questi giorni la Grecia festeggia l’uscita dai memorandum tornando a Itaca dopo la lunga odissea, dopo la vera e propria guerra europea contro i greci, un attacco brutale sotto gli occhi di tutti. Abbiamo visto da vicino di cosa è capace l’Europa ora che lo scenario internazionale la mette alla prova: non solo sul che fare nei confronti del governo italiano, ma verso la propria stentata sopravvivenza.
Sarebbe più che giustificato un lucido pessimismo, ma abbandonare il campo è sconsigliabile, questa è una battaglia campale che la destra italiana vuole stravincere senza fare prigionieri. L’unica via è andare controvento, i ponti da ricostruire sono molti e da qualche parte bisognerà cominciare. E Roma, a settembre, potrebbe fare al caso nostro.

il manifesto 24.8.18
«Facciamoli scendere», presidio continuo al porto
di Ruggero Scotti

Da due giorni centinaia di catanesi stanno manifestando, muniti di arancini, presso la banchina 19 del molo di Levante del porto di Catania a poca distanza dei migranti ostaggio della Diciotti. Chiedono di farli scendere. I manifestanti sono tenuti a distanza dalla nave, ma ieri la rete anti-razzista di Catania ha tentato di raggiungere la Diciotti con un gommone, intercettato dalla polizia. In serata un presidio di una quarantina di esponenti di Forza Nuova (autorizzato) contro i migranti ha provocato qualche episodio di tensione con l’altro sit-in, sciolta dalle forze delle ordine in tenuta anti-sommossa che hanno allontanato i manifestanti.
La mobilitazione pro-migranti è partita spontaneamente da un post apparso su facebook il 21 agosto: «Ecco mi piacerebbe che noi catanesi comprassimo 177 arancini e andassimo tutti al porto ad accogliere.» L’autore del post è l’attore e regista catanese Silvio Laviano, diplomato al Teatro Stabile di Genova e apparso nell’episodio de il Commissario Montalbano “il covo di vipere”. Per l’attore siciliano «è stata una reazione umana a una questione disumana» L’invito di Laviano è stato raccolto da altre due colleghe catanesi Nellina Laganà e Giusy Marraro ed è diventato rapidamente un evento facebook «Un Arancino per accogliere»che ha girato molto sul social network. «Perché l’arancino? perché è simbolo di amicizia, di condivisione, di cibo da viaggio» si legge sempre nel post di Laviano.
Così spontaneamente centinaia di catanesi hanno raggiunto il porto il 22 agosto sera con gli arancini come gesto di accoglienza e con le bandiere della pace. Il presidio è iniziato alle otto e mezza, i partecipanti sono arrivati alla spicciolata, tra di loro Pippo Civati fondatore di Possibile, il deputato dei radicali italiani Riccardo Magi che ha provato a salire inutilmente sulla Diciotti – c’è riuscito poi ieri. Il picco massimo della partecipazione è stato raggiunto alle dieci e mezza. Proprio in quei momenti si sono svolte le procedure di riconoscimento dei 27 minori che poi sono stati fatti sbarcare. «Uno di loro non vedeva bene, aveva le pupille dilatate, ha spiegato di essere stato tenuto per un anno al buio nel centro di detenzione libico», ha racconta una psicologa di Médecin sans frontière. All’una i manifestanti hanno abbandonato il molo di Levante dandosi appuntamento per la mattina successiva stavolta senza l’arancino.
Ieri il numero dei partecipanti è stato inferiore. Oltre a associazioni e a movimenti (Save The Children, Amnesty International, Potere al Popolo) arrivano anche l’europarlamentare Daniele Viotti e Laura Boldrini e il consigliere regionale catanese Claudio Fava. I parlamentari sono riusciti a salire tutti a bordo, così come sono salite i deputati del Pd Faraone e Miceli.
Sempre ieri, la Cgil, l’Anpi, l’Arci, Legambiente e Libera hanno comunicato di aderire al presidio: «Il comportamento del governo non solo è deplorevole ma irresponsabile. Non si può accettare che delle istituzioni continuino ad avere un atteggiamento superficiale e disumano nei confronti dei più deboli. L’ostinazione a non far attraccare una nave della Guardia Costiera – si legge ancora nel comunicato – è una palese violazione del codice penale oltre che della Carta costituzionale». Carla nespolo, presidente dell’Anpi, ha dichiarato che «A Catania si sta consumando l’ennesimo, feroce attacco alla Costituzione. È ora che si ponga un freno definitivo a questa suddivisione delle persone in scompartimenti razziali e al quotidiano gioco al massacro dei diritti umani posti in essere dal ministro dell’Interno». Oggi la Cgil ha annunciato un presidio dalle ore 11 con l’adesione di delegazioni da tutta la Sicilia.

Il Fatto 24.8.18
“Gli stranieri devono sbarcare: lo dice la Costituzione”

Ai passeggeri della Diciotti deve essere permesso di sbarcare in Italia: lo dice la Costituzione. Anche il Coordinamento per la democrazia costituzionale si unisce agli appelli per i migranti trattenuti sulla nave della Guardia costiera, definendo tale situazione “intollerabile”. L’associazione che nel 2016 si era impegnata per la vittoria del “no” nel referendum del 4 dicembre si appella proprio ai principi della Carta: “Queste persone si trovano in Italia e sono soggette alla protezione della Costituzione, perché le navi militari sono ‘territorio italiano’ anche in acque internazionali, e per di più nel caso in questione la nave si trova in acque nazionali”. “L’articolo 13 – spiega il documento firmato da Alfiero Grandi e Domenico Gallo – prevede che la libertà personale è inviolabile e si applica anche ai migranti a bordo della Diciotti, come si applica nei loro confronti la disciplina giuridica dell’immigrazione. Non possono esistere zone franche dal diritto”. Nel suo divieto, dunque, il governo e Matteo Salvini starebbero violando la Costituzione: “Il ministro dell’Interno non ha alcun potere sulla vita e la libertà delle persone recuperate in mare, alle quali non può impedire l’esercizio dei loro diritti”.

Il Fatto 24.8.18
Spinelli ai ministri: “Quale legge state applicando?”

Una lettera al governo (ma anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alle istituzioni europee) per chiedere sulla base di quali leggi venga impedito ai passeggeri di una nave italiana di sbarcare in Italia. Barbara Spinelli scrive ai ministri Matteo Salvini e Danilo Toninelli per avere spiegazioni sull’ “ennesima emergenza umanitaria” in corso nel porto di Catania, con la Diciotti “tenuta in ostaggio insieme ai migranti soccorsi in mare”. L’esecutivo guidato da Lega e M5s ha ribadito di volere rassicurazioni dall’Ue sull’assegnazione degli immigrati, prima di consentire lo sbarco, ma “l’imposizione di un divieto deve avere un chiaro fondamento giuridico”, spiega l’eurodeputata della Sinistra europea. “Nell’attuale quadro normativo non risulta esistente una disposizione che contempli motivi legali per rifiutare lo sbarco fondati sulla previa ripartizione delle persone soccorse con altri Stati sovrani membri dell’Unione”. “Secondo la legge – ribadisce l’europarlamentare di Gue-Ngl – una nave militare italiana ha diritto di approdare in un porto italiano, e le persone che a bordo devono essere sbarcate per l’esame della loro situazione di salute psico-fisica e delle questioni non-SAR”.

Il Fatto 24.8.18
Libri di testo, ebrei uguali ai tempi dei nazi
Scuola - La denuncia del presidente Schuster: “Stereotipi antisemiti come nella rivista Stürmer”
Il manifesto “Der ewige Jude”
di Mattia Eccheli

Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania (CdJ), tiene alta l’attenzione dopo la diffusione dei dati sui reati di matrice antisemita e critica l’impostazione di alcuni libri di testo.
Secondo Schuster il ritratto della presenza ebraica nel paese è superficiale: “Talvolta rudimentale”, dice. Lamenta che si parli del suo popolo solo fra il 1933 ed il 1945: “In Germania la vita ebraica esisteva molti secoli prima e, per fortuna, c’è di nuovo oggi”. Medico, 64 anni, Schuster da quattro guida l’importante organismo tedesco: ha puntato il dito soprattutto contro alcune immagini “ancora improntate sugli stereotipi antisemiti della rivista Stürmer”, il settimanale non ufficiale di propaganda nazista edito a Norimberga da Julius Streicher dal 1922 fino alla fine della guerra. Ad esempio, quella del manifesto dell’esposizione Der Ewige Jude del 1937 (utilizzato anche nel film del 1940, “L’ebreo errante”), pubblicata in tre libri usati a scuola ma senza una adeguata contestualizzazione. Schuster ha riaperto un caso, dopo che due anni fa analoghe polemiche avevano accompagnato la decisione della Baviera di consentire la “lettura orientata” di Mein Kampf, il testamento politico di Adolf Hitler. Chiamati in causa, gli editori Westermann e Klett hanno respinto gli addebiti.
Il gruppo Westermann ha precisato che per i contenuti fanno riferimento i programmi di istruzione. Per Ulrich Bongertman, responsabile dell’associazione dei docenti di storia, le accuse di Schuster sono “eccessive”, anche se conviene che ci sono margini di miglioramento. Lo stesso Schuster ha già riconosciuto progressi con l’arrivo di libri nuovi. Martin Liepach, insegnante di storia e ricercatore nell’istituto Fritz Bauer di Francoforte, parla di una “dichiarazione radicale”, ma conferma perplessità sul modo in cui gli ebrei vengono rappresentati. Nelle scuole tedesche olocausto e nazionalsocialismo sono temi trattati con serietà. Documentari e approfondimenti vengono trasmessi a cadenza quasi quotidiana in televisione (non solo in orari proibitivi), ma per il presidente del Consiglio centrale una visita obbligatoria ad un campo di concentramento sarebbe utile agli studenti.
I servizi segreti vigilano sulle attività dei movimenti che si ispirano al Terzo Reich. L’ondata migratoria degli ultimi anni ha riacceso la brace dell’odio razziale, che ha finito con il coinvolgere anche gli ebrei. Berlino sembra essere diventata l’epicentro di questo nuovo fenomeno. Tra il 2010 e la fine dello scorso luglio, nella capitale si sono verificati 1.649 reati di matrice antisemita. Si tratta di quasi il 14% di quelli rilevati a livello federale (circa 12.000): un’incidenza più che tripla rispetto alla media nazionale. Il problema è rilevante soprattutto nella parte orientale del paese, dove è più forte il movimento xenofobo Alternative für Deutschland.

Corriere 24.8.18
La proposta del governo Usa: soldi pubblici per armare gli insegnanti
di Massimo Gaggi

Nell’America dei 300 milioni di armi nelle case della gente e dei frequenti massacri che stanno riportando il Paese ai tempi del West selvaggio, anche l’acquisto di pistole e fucili da distribuire tra maestri e professori delle scuole può essere fatto passare per un modo appropriato di usare fondi federali istituiti per sostenere il progresso accademico degli studenti. È quello che sembra pensare Betsy DeVos, la plenipotenziaria di Trump per la scuola: il ministro dell’Istruzione in passato aveva assicurato che le iniziative del governo per migliorare la sicurezza di scuole e campus universitari non includevano la distribuzione di armi da fuoco ai docenti, ma ora pare averci ripensato. La DeVos sta, infatti, pensando di consentire ai singoli stati dell’Unione che desiderano farlo di armare i loro insegnanti e di pagare armi e addestramento usando fondi federali. Una possibilità che fin qui sembrava esclusa, anche perché mesi fa il Congresso aveva approvato, con un accordo bipartisan, una legge per addestrare studenti ed educatori a percepire in anticipo situazioni che potrebbero sfociare in atti violenti: una norma che esclude l’acquisto di armi. Erano i giorni drammatici delle stragi nella scuola di Parkland, in Florida e al liceo Santa Fe, in Texas. L’America era scossa dalle manifestazioni degli studenti che chiedevano più sicurezza, ma senza armare le scuole. La pressione della Nra, la lobby delle armi, per distribuire fucili e pistole negli istituti è rimasta, però, forte. E alla fine i tecnici del ministero si sono accorti che un altro fondo di un miliardo di dollari, lo Student Support and Academic Enrichment Grant, non proibisce esplicitamente l’uso del denaro pubblico per l’acquisto di armi. Il fondo era stato istituito per aiutare le scuole più povere del Paese ad aiutare i ragazzi migliorando le strutture accademiche, soprattutto quelle tecnologiche per l’alfabetizzazione digitale. Cambio di rotta: meno chip, più pallottole.

Corriere 24.8.18
Romana Caruso Mariani, psichiatra e psicoterapeuta
«Ecco i segnali che ci dicono se c’è il rischio femminicidio»
di Mara Rodella

Manuela, e tutte le altre. Vittime di quello che esperti e cronache, da troppo tempo e troppo spesso chiamano femminicidio: «Un triste gioco di potere tra persone che, consapevolmente, non avendo un sé completo, lo cercano nell’altro». Parte da questa definizione Romana Caruso Mariani, psichiatra e psicoterapeuta bresciana.
Quale meccanismo si innesca?
«Chi cerca fuori qualcosa resterà comunque un eterno bulimico, insoddisfatto: quel che troverà non gli basterà mai».
Quindi si finisce con l’annientarlo?
«L’aggressore cerca nel potere sull’altro il suo valore: la morte diventa un modo per sancire definitivamente la “proprietà” e l’ennesima illusione di potenza».
Perché una vittima resta?
«È capitato a tutti noi, di vivere una relazione disturbata: fa parte dell’evoluzione e della crescita di un rapporto. Capita però che ci si fissi, a tutti i costi. E si continui a cercare un modo per risolverla, come se significasse risolvere sé. Perché in quel legame, in realtà, anche la vittima sta cercando una parte di se stessa, ma quella relazione crollerà».
E capita non ci si limiti ad essere infelici, purtroppo.
«Se dall’altra parte c’è un potenziale killer, per accidente o per deviazione criminale, allora una donna può finire uccisa».
Come rendersene conto?
«Il problema è che non ci si occupa abbastanza dell’interiorità delle persone: la psicologia spesso è fatta di tante parole, ma va calata nella vita della gente. Bisogna allenarsi ad ascoltarsi, e capire cosa si ha dentro. I professionisti e le opportunità per poterlo fare ci sono: bisogna saperle cogliere».
Forse spesso è difficile.
«Non è facile, ma nemmeno impossibile. Non bisogna solo dirlo, ma sentirlo: essere a contatto con se stessi, in una società che va velocissima, è un’esperienza meravigliosa. L’interiorità è il modo migliore e più divertente per vivere la vita reale, quella vera».
Senza «perdersi», quindi?
«Vede, se impariamo ad ascoltarci, allora riusciremo a capire anche cosa sia la paura, e sapremo riconoscerne i segnali e le avvisaglie, per salvarci. E non sbaglieremo».

Repubblica 24.8.18
I mille anni di solitudine filosofica di Masullo
di Antonio Gnoli

Ci sono tanti modi con cui la filosofia definisce se stessa. Aldo Masullo privilegia quello con la vita: con il vissuto emozionale senza il quale la conoscenza sarebbe solo mera astrazione. Da un lato c’è il pensiero che calcola (e che Masullo rigetta); dall’altro il pensiero che patisce e mette alla prova le proprie facoltà conoscitive.
Tuttavia, non basta emozionarsi per intercettare e conoscere una parte di mondo; è necessario che l’emozione diventi un fenomeno di coscienza. È necessario, come direbbe Antonio Damasio, che si produca nella mente un sé che sente. Ho letto con molta curiosità husserliana il nuovo libro di questo battagliero e acuto filosofo, L’Arcisenso.
Dialettica della solitudine
(Quodlibet), trovandovi riesposte le linee principali del suo pensiero. L’emozione è solo l’interruttore in grado di accendere il nostro vissuto. Ma nel momento in cui ne siamo investiti, in tutta la pienezza del nostro sentire, creiamo uno stato d’animo che solo in piccola parte è comunicabile.
Di qui, quella che Masullo chiama "dialettica della solitudine": non posso fare a meno di relazionarmi con gli altri, comunicare attraverso gesti e parole le mie intenzioni (vere o false che siano), ma non potrò mai rivelare all’altro il mio sentire, il mio vissuto più profondo.
Negli ultimi due secoli si è passati dalla morte di Dio (Nietzsche) a quella dell’uomo (Foucault), fino al trionfo dell’uomo a-patico. Come ripensare dunque l’umano?
Una parte di noi è destinata a restare intoccabile.
Irraggiungibile. Ciò che potrebbe apparire come il più tragico degli scacchi umani (è la posizione tra gli altri di Sartre) in realtà può trasformarsi in una sorprendente risorsa. Anche perché se fossimo interamente trasparenti all’altro finiremmo col perdere ogni capacità di distinzione. Masullo diffida perciò degli appelli all’autenticità e alla trasparenza: in una parola all’unica verità che tutto ricomprende. Giacché l’esito di un tale appello provocherebbe la scomparsa dell’individuo con i suoi fraintendimenti ed errori certo, ma altresì con i suoi slanci e solidarietà.
È sufficiente vedere quanto accade puntualmente dopo ogni catastrofe. La mitologia politica invoca trasparenza e perfezione e nell’esigerle requisisce le emozioni e le strumentalizza; tentando di arricchire il nostro vissuto non fa che impoverirlo.
Banalizzarlo. Piegarlo alle esigenze del momento. Che non sono mai quelle che guardano con concreta passione al nostro futuro.

Repubblica 22.8.18
Piero Martinetti
Il kantiano mite che disse "no" al fascismo
di Maurizio Maggiani

A Milano, in zona Gambara, una via privata è intitolata a Piero Martinetti uno dei dodici docenti universitari che rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà a Mussolini. Un filosofo che più di tutto amava l’imperativo morale
Mah, per il Trivulzio forse l’ideale è prendere la linea rossa e scendere a Gambara poi però se uno non è pratico deve chiedere.
Perché a Milano bisogna sempre chiedere, perché se uno non è abbastanza sveglio, per lui Milano è una città scritta con il codice Enigma, perché la misura metrica vigente in Milano non è la copia della barra in platino conservata nell’ufficio parigino dei pesi e delle misure, ma si dilata e curva in prossimità della velocità della luce, e se non si va abbastanza svelti si entra in una dimensione minore e le strade cambiano di nome un attimo prima che ci passi. E infatti Gambara non andava per niente bene, o forse andava bene ma per un uomo più meritevole, perché chiedo e mi rispondono con una certa qual cortesia molto risentita, come se nell’indurli alla generosità gli addossassi il peso insostenibile della mia inefficienza. E così mi dicono che sono in prossimità di corso Rembrandt, epperò corso Rembrandt non c’entra niente con il pio albergo e adesso l’ideale sarebbe prendere a destra e fare un po’ di strada a piedi, sempreché lei capisca quello che intendo. Sì che capisco, i piedi, andare con i piedi; vado e sono perso. Sono perso nelle trippe di Milano, Milano vicino all’Europa ma non so bene dove, trippe di recente stagionatura, cementi di dignità impiegatizia, balconi senza un geranio, marciapiedi senza una cicca, il pio albergo c’era due secoli prima che tutto questo venisse alla luce, perché mai è nato, qui avrebbero dovuto esserci i verdi prati per le pie passeggiate dei buoni ospiti del pio albergo, per terra neanche una carta, sui cordoli nemmeno un filo d’erba, alzo gli occhi sullo spigolo di un cantone, alt, via privata. Via privata Piero Martinetti. Giurare per me era tanto impossibile quanto una impossibilità fisica: sarei morto d’avvilimento.
Martinetti uno dei Dodici.
Sbattuto qui, cementato a un intonaco senza arte né parte in un quartiere inventato senza arte in nessuna parte della città.
Piero Martinetti, l’unico filosofo ad avere una cattedra da mettere sul piatto dell’onore e conseguentemente a lasciarcela, che ci fa qui, così lontano dalla sua casa di paesello campagnolo, non sembrerebbe ma anche così topograficamente distante dalla sua cattedra perduta all’Università Statale, chi si è preso la briga di privatizzarlo, di prenderselo in accomodato perpetuo, o almeno per quanto durerà questo intonaco. Forse ci sono filosofi così ricchi da possedere una strada di Milano tutta intera, forse ci sono filosofi così ricchi e così generosi da privarsi di una strada intestata a Socrate e Platone per regalarla a un filosofo che nemmeno i filosofi si son presi la briga di leggere. Esponente novecentesco dell’Idealismo etico, sai che goduria. Kantiano nel tempo che il dover essere era acqua passata sotto i ponti dello stato etico, e fascista, di Giovanni Gentile, acqua incanalata nella diga del proletariato etico, e dittatore, di Karl Marx. Kantiano del trattato Per la pace perpetua, pacifista nel mezzo della più feroce guerra e della più grande rivoluzione, pacifista nel tempo del fascismo, anelante a tal misura di starsene in pace col Creato da rifiutarsi di cibarsi di carni; pensava, o forse sapeva, che gli animali non sono solo esseri, ma lo sono con coscienza e intelletto. Kantiano e cristiano, cristiano acattolico e senza chiesa; o perlomeno, una chiesa c’è l’aveva ed era una chiesa invisibile, «nell’unione invisibile di tutte le anime sincere che si sono purificate dall’egoismo naturale e nel culto della carità e della giustizia hanno avuto la rivelazione della verità e la promessa della vita eterna». I cattolici fascisti, e il gran fondatore di università cattoliche e prode firmatario del Manifesto della Razza padre Gemelli a buon peso, lo hanno odiato con una virulenza e un accanimento che non si vedeva dai bei tempi delle maledizioni di Pio V. S’è preso una denuncia per vilipendio dell’eucarestia, il suo Gesù Cristo e il Cristianesimo è stato sequestrato e messo all’indice il giorno dopo la sua pubblicazione, il parroco del suo paesello si è preso la briga di proibire dal pulpito ai bravi cristiani di Spineto di onorare un ateo scandaloso andandogli dietro al funerale, non tutti obbedirono, dietro al furgone che lo portava a cremare erano in una decina. Ma c’è stato almeno un cattolico che gli ha voluto bene, Aldo Capitini e si capisce; e a onor del vero gli ha voluto bene anche un filosofo, ed è stato Norberto Bobbio. Assetato e affamato di imperativo morale, Bobbio ha pensato sinceramente che Piero Martinetti fosse il più grande filosofo del ’900 italiano.
Ho un amico che di cognome fa Martinetti, è stato un allievo di Bobbio e si ricorda di quante volte il suo professore gli avesse chiesto se per caso non fosse parente di Piero, gli premeva che il suo filosofo preferito avesse una qualche discendenza, che qualcuno potesse ricordarlo; il filosofo kantiano era stato un uomo della solitudine, non ci teneva neppure un granché ad avere degli allievi, «la filosofia è mia moglie e mia moglie non la presto a nessuno». Quando i fascisti lo cacciarono dall’università lui prese e se ne andò in campagna a studiare e da lì non se ne è mai più venuto via, è morto molto filosoficamente cadendo da un pero.
Piero Martinetti non ha mai militato nell’antifascismo, il suo era un antifascismo radicale di per sé, in ragione della sua individuale, intima risposta all’imperativo categorico; lo presero a casa di Solari, il maestro di Bobbio, nella grande retata di Giustizia e Libertà del ’35, il capolavoro delatorio di Pitigrilli, assieme a Einaudi, Pavese, Bobbio, Mila, Antonicelli e gli altri, ma gli fecero fare un po’ di galera per puro gusto sadico, era evidente anche all’Ovra che era comunque altrove, anche rispetto a Giustizia e Libertà. Sì, era altrove, ma intanto lui non ha giurato, «giurare per me era tanto impossibile quanto una impossibilità fisica: sarei morto d’avvilimento». Lui e altri undici, dodici in tutto il regno, anche il grande Solari aveva giurato. Non giurò, e un bel giorno si presentò alla sua cattedra a dare l’esame di filosofia morale un tale Lelio Basso, si fece avanti con due carabinieri alle spalle. Ci sarà una via Lelio Basso da qualche parte, magari una pubblica via? È stato un socialista Lelio Basso, aveva un’idea del socialismo intollerante della supponenza che ha portato con sé la natura elitaria del partito politico così come era pensato e organizzato finché ci sono stati i partiti politici, intendeva costruire un partito dei socialisti come strumento di diffusione della democrazia, ha militato nella Resistenza con la certezza che fosse l’atto di riscatto di un popolo intero, è stato un antistalinista sorgivo, un democratico assolutista, un apostolo, un tempo lo si diceva "apostolo", della giustizia universale. Ma intanto a vent’anni era già al confino perché «elemento pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica, in conseguenza della sua attiva propaganda fra elementi intolleranti dell’attuale stato di cose», e dal confino i carabinieri lo hanno portato alla Statale a dare l’esame di filosofia morale; al confino si poteva studiare, il fascismo aveva una singolare sfiducia nell’efficacia dello studio e lasciava studiare galeotti e confinati, li lasciava persino discutere tra loro nella convinzione che più studiavano e discutevano più si sarebbero dimostrati inetti a resistergli.
Dunque lo studente confinato Basso Lelio si presenta alla commissione d’esame e il presidente Martinetti gli pone la prima domanda, l’imperativo categorico kantiano. Lo studente inizia la sua diligente esposizione, ma al termine del preambolo il presidente lo ferma e indica i due carabinieri che ascoltano vigili e assenti: basta così, lei non sta esponendo l’imperativo categorico kantiano, lei lo sta incarnando, trenta e lode. Chissà se da via privata Piero Martinetti arriverò mai al pio albergo Trivulzio.

Repubblica 22.8.18
La legalizzazione dell’aborto
La battaglia delle donne d’Argentina
di Mario Vargas Llosa

Il Senato argentino, due settimane fa, ha respinto la proposta di legalizzare l’aborto con 38 voti contro 31. Il progetto di legge era stato approvato dalla Camera dei deputati e aveva provocato un dibattito nazionale, oltre a gigantesche mobilitazioni di sostenitori e avversari. Anche se la legalizzazione è stata respinta, anch’io credo, come le migliaia di giovani che sono scesi in piazza per manifestare a suo favore, che questa sia stata una vittoria di Pirro per gli avversari e che, più prima che poi, come nei Paesi più moderni e civili del mondo, l’Argentina legalizzerà l’interruzione volontaria di gravidanza entro le prime 14 settimane.
Come sempre accade in questi casi, i nemici dell’aborto — soprattutto una Chiesa cattolica molto incline a un cupo oscurantismo — si sono presentati come i " difensori della vita", suggerendo così che noi, che difendiamo il diritto delle donne di decidere se vogliono o meno avere figli, siamo favorevoli alla morte — e orrore degli orrori — nientemeno che di creature inermi e innocenti. Questo non è vero. Nessuno che sia sano di mente può giustificare allegramente l’aborto, tanto meno le donne costrette a ricorrervi, cui spesso questa terribile decisione provoca traumi e conflitti psicologici di lunga durata. Negli anni in cui vissi in Inghilterra, uno dei Paesi pionieri nella legalizzazione dell’aborto, vidi diverse donne spagnole e peruviane arrivare lì per questo motivo. E non ne ricordo una sola che non vivesse questa decisione come una lacerazione profonda.
Difendere l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza è scegliere un male minore, riconoscendo ovviamente che si tratta di una decisione difficile e dolorosa, cui si giunge di solito per condizioni di vita poverissime che condannerebbero il progetto di vita interrotto a un’esistenza inumana. Vale a dire a una morte lenta, senza alcuna speranza di cambiamento, con un aggravamento delle condizioni di miseria della famiglia ( specialmente della madre). Naturalmente, sarebbe preferibile che non ci fossero aborti, che, grazie a un’educazione sessuale diffusa, non ci fossero gravidanze indesiderate, che le bambine e le adolescenti fossero sempre in grado di scegliere i figli che vogliono avere e quelli che vogliono evitare.
Ma uno dei grandi paradossi è questo: coloro che si oppongono all’aborto sono anche gli avversari più acerrimi del fatto che gli adolescenti ricevano quella formazione sessuale, che permetterebbe loro di avere solo i figli che vogliono avere. Lo ricordo molto bene: ho frequentato scuole religiose e laiche e in nessuna di esse ho mai ricevuto la minima informazione sulla vita sessuale. Questo tabù è molto diminuito ai giorni nostri, sebbene non ovunque, come può testimoniare l’America Latina, dove le gravidanze derivanti dall’ignoranza e dalla disinformazione sono innumerevoli.
Difendere il diritto della donna a decidere quanti figli vuole ( e può) avere è fondamentale per garantire l’uguaglianza di genere e dare alle donne l’indipendenza e le risorse per organizzare le loro vite secondo i propri criteri, senza essere costrette dalle circostanze — come è successo e continua a succedere in gran parte del mondo — a un ruolo ancillare, che le destina unicamente alla procreazione e alla cura della discendenza.
Votare contro l’aborto non garantisce affatto che esso sparisca; al contrario, non c’è un solo Paese che sia esente da tale pratica. E l’unica differenza tra i Paesi in cui è legale e quelli in cui è illegale è che in alcuni si porta a termine in condizioni di clandestinità, in genere esecrabili e molto rischiose per la madre, e negli altri con tutte le garanzie sanitarie. Non c’è un campo in cui la differenza economica tra poveri e ricchi ( o semplicemente benestanti) sia più evidente. Il divieto non impedisce alle donne che possono permettersi un aborto sicuro di praticarlo, nel proprio Paese o all’estero, con la necessaria discrezione e in condizioni ottimali. Mentre le donne povere o con redditi più modesti devono spesso ricorrere a falsi dottori o a mammane, con cui le pazienti mettono a repentaglio la vita rischiando emorragie o contraendo infezioni che le possono uccidere.
Anche se le statistiche in questo campo sono spesso inaffidabili, si tratta, comunque, di cifre spaventose: solo in Argentina, come è stato rivelato in questo dibattito, il numero degli aborti clandestini oscillerebbe tra i 350 mila e i 450 mila ogni anno.
Poiché si tratta di un argomento estremamente delicato e molto personale, il presidente Mauricio Macri ha fatto bene a lasciare che i parlamentari del suo partito votassero secondo coscienza e credo che così abbiano deciso anche gli altri partiti politici argentini. Le ragioni per cui si è a favore o contro l’aborto sono molto diverse, dipendono da credenze religiose e scelte etiche, e non dovrebbero mai prevalere su di esse le consegne di ordine politico.
Scrivo questo articolo nello stesso giorno in cui i giornali di tutto il mondo commentano il grande scandalo che stanno vivendo gli Stati Uniti per il rapporto reso pubblico da un giurato della Pennsylvania. Questo documento rivela, dopo un’indagine durata diversi anni, che circa 300 sacerdoti di quello Stato hanno commesso abusi sessuali contro almeno un migliaio di bambini e di giovani. Non solo, la gerarchia cattolica ha tenuto nascoste le denunce e ha protetto gli autori di quegli abusi in base a un sistema sottile, giuridico ed ecclesiastico, che consisteva nello snaturare gli abusi, spostare i pedofili tra diversi collegi e parrocchie, negando sistematicamente i fatti secondo un codice di " occultamento della verità" che, a quanto pare, tutta l’istituzione conosceva e metteva in pratica, dai vertici della gerarchia stessa fino ai suoi più umili membri.
Questa complicità è andata avanti per circa 70 anni e, di conseguenza, il rapporto non avrà molte conseguenze pratiche, dal momento che i crimini nella maggior parte dei casi sono prescritti e i responsabili sono morti. Ma non c’è dubbio che questo scandalo, come altri della stessa natura resi pubblici in diverse parti del mondo negli ultimi anni, avrà effetti molto negativi in seno alla Chiesa.
Che cosa c’entra con il discorso dell’aborto? Un’istituzione oggetto di rivelazioni così orribili come l’abuso sessuale di bambini e di giovani da parte dei religiosi a cui erano affidati dovrebbe essere meno intollerante e inflessibile su una questione tanto dolorosa come quella dell’aborto, al quale la Chiesa si è invece sempre opposta ferocemente, a prescindere dalle sfumature e dai motivi particolari, e condannando senza troppe cerimonie le sfortunate madri che vi ricorrono.
Non sempre si possono dividere le azioni umane in buone e cattive. Ci sono dei casi — e l’aborto è uno di questi — in cui il bene e il male non si distinguono chiaramente e bisogna soppesarli molto attentamente, accettando, qualunque possa essere la decisione presa, che la si è presa senza gioia e anche con dolore, perché l’altra decisione sarebbe sicuramente stata peggio.
Diritti mondiali di riproduzione in tutte le lingue riservati a Ediciones El País, S. L., 2018 © Mario Vargas Llosa, 2018 Traduzione di Luis E. Moriones