Sinistra radicale all'attacco "Il piano welfare va cambiato in Parlamento"
Improvviso incontro con Prodi dei ministri di Prc, Pdci, Sd e Verdi sul protocollo d'intesa. Pecoraro e Mussi: "Le Camere sono sovrane, bisogna rimediare a decisioni sbagliate". Dalla Cgil arriva la reazione alla lettera con cui Palazzo Chigi chiedeva di firmare: "Non ci è piaciuta"
di Luisa Grion e Vincenzo La Manna
Vertice a Palazzo Chigi con Ferrero, Bianchi, Pecoraro e Mussi: " Modificare il piano in Parlamento". Il premier: è andata bene. Gelo con la Cgil
Braccio di ferro sul Welfare
La Sinistra a Prodi:"Duri, se ci ascolti".
"Scontentato un terzo della maggioranza". Cgil: la lettera del premier non ci piace
Pressing congiunto di Mussi, Ferrero, Bianchi e Pecoraro Scanio su Palazzo Chigi
ROMA - Ci è voluto un pranzo a Palazzo Chigi per stemperare il clima. E ci è voluto un chiarimento, da parte del premier, sulla disponibilità del governo a dialogare, a meglio definire nel corso del dibattito parlamentare alcuni punti del tanto discusso Protocollo sul welfare.
Ma riguardo a quelle norme su lavoro e competitività ieri la maggioranza ha rischiato un altro scontro: dopo il polemico scambio di messaggi fra Prodi e il leader della Cgil Epifani sulla firma di tutta, o di una sola parte, dell´intesa, anche la sinistra radicale ha fatto pesare il suo dissenso. In mattinata, proprio durante il Consiglio dei ministri, ha chiesto un urgente incontro con il premier.
Detto, fatto: a pranzo, fra pennette e filetto, Prodi, il ministro del Lavoro Damiano e il sottosegretario a Palazzo Chigi Enrico Letta da una parte, i quattro ministri della sinistra radicale dall´altra (Ferrero, Pecoraro Scanio, Bianchi e Mussi) hanno discusso sia sui contenuti che sui metodi dell´accordo.
Durante l´incontro - che si è svolto nell´appartamento del premier a Palazzo Chigi e al quale, quindi, era presente anche la moglie Flavia - pare che un ruolo di mediazione fra i ministri «dissidenti» lo abbia svolto soprattutto il leader dei Verdi Pecoraro Scanio che si è speso per evitare che dal tavolo della sinistra estrema partisse un nuovo strappo dopo quello, consumato qualche settimana fa, con la lettera dei ministri "estremi" su previdenza e tesoretto. Il ministro dell´Ambiente ha fatto notare che «un problema ci deve essere se il Protocollo accontenta la Confindustria e scontenta la Cgil». Il premier ha fatto presente ai rappresentanti dell´ala radicale che «è da un anno che mi fanno martire con la storia che sono vicino a voi, ma io sono in realtà il garante del programma».
Alla fine, però lo scontro è rientrato: il premier non ha chiuso a possibili modifiche del testo, ma ha avvertito che a decidere sarà il Parlamento. Modifiche e emendamenti che smussino i temi più caldi, dunque saranno ammessi, ma la partita è rimandata a settembre. Al prossimo Consiglio dei ministri (quello del 3 agosto) il Protocollo passerà così com´è , poi arriverà il dibattito e le eventuali modifiche.
Ma la partita, si sa, non sarà facile. Il ministro della Solidarietà sociale Ferrero è stato chiaro: «C´è un terzo della maggioranza che sostiene che quell´accordo va modificato - ha detto - in autunno si dovrà arrivare ad un´intesa in Parlamento. La nostra richiesta discussione non mi sembra esagerata, anzi è il minimo». E il collega dell´Università Fabio Mussi precisa: «Durante l´incontro c´è stata una mia obiezione condivisa da tutti sul capitolo della competitività. Il fatto che i contenuti siano tutti relativi al costo del lavoro è una cosa poco evoluta».
Ma se sul piano di governo la polemica si è al momento smussata, resta aperta quella con la Cgil. Alla missiva del premier - che il sindacato avrebbe giudicato priva di riferimenti concreti - Epifani risponderà con una nuova lettera la prossima settimana: ci sarà il sì al Protocollo, ma anche la forte riserva già espressa riguardo alla parte sul mercato del lavoro. L´intenzione della Cgil, dunque, è quella di tenere in qualche modo le mani libere, per agire in ogni sede e modo per modificare i punti controversi.
Corriere della Sera 28.7.07
Rifondazione e Pdci non si fidano: l'ipotesi di far rimettere il mandato E Diliberto: ora Romano mi chiami
L’altolà di Mussi: «Al capo del governo ho ricordato che abbiamo 150 parlamentari, non poca cosa: se poi lui vuol stare con i coraggiosi di Rutelli questa è un'altra storia...»
ROMA — «Io ormai ho una certa diffidenza... sono mesi che sento chiacchiere a cui non seguono i fatti, quindi aspetto di verificare quel che accadrà a settembre. Ma se pensano di metterci all'angolo in autunno, allora la situazione diventerà veramente molto complicata». Così Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, qualche ora dopo l'incontro dei ministri della sinistra con Romano Prodi. E qualche minuto più in là, con i suoi, il leader del Prc è ancora più esplicito: «Se viene farfugliata qualche disponibilità in un pranzo, io, a questo punto, non prendo niente per buono: bisogna che si apra una vera conflittualità sociale, sennò non si otterrà nulla. Solo in questo modo, forse, riusciremo ad aprire uno spiraglio, anche perché sarà pur vero che il Partito democratico non cerca la rottura con noi, ma sicuramente è nato per farsi portatore dei disegni di Confindustria e dei poteri forti...».
Negli altri partiti della cosiddetta "Cosa rossa" non si ragiona in modo molto diverso. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, è chiaro: «Io non mi sento impegnato o vincolato a niente. Prodi alzi il telefono e parli con me, mi spieghi quello che vuole fare, perché io di fronte al fatto compiuto non mi ci voglio più trovare». E Fabio Mussi, ministro dell'Università nonché leader della Sinistra democratica, ieri lo ha detto chiaro e tondo al premier: «Noi abbiamo centocinquanta parlamentari... che non è che non contino proprio nulla, se poi tu vuoi stare con i coraggiosi di Rutelli, questa è un'altra storia...». Un'altra storia, o, meglio, la Storia con la S maiuscola, che la sinistra radicale soffre l'offensiva dell'ala più moderata dell'Unione e non ha ancora bene capito dove vada a parare. Ma, soprattutto, non ha capito da che parte stia veramente il premier. Prodi lo ha ribadito anche ieri: «Volete farmi cadere? Io non sono attaccato alla poltrona...». Quasi una sfida. A cui, però, la "Cosa rossa" non sa rispondere anche perché il maggior partito della sinistra dell'Unione, ossia Rifondazione comunista, sconta ancora il peccato originale del '98, quando Bertinotti, allora leader del Prc, fece cadere Prodi.
Di ingoiare tutto, ma proprio tutto, comunque, i rifondatori non hanno voglia. Capiscono che bisogna premere sull'acceleratore e poi allentare e, alle volte, usare persino il freno a mano, ma non possono fermare la loro auto e regalarla, chiavi in mano, all'area riformista dell'Unione. In queste ore, quindi, si medita sulla controffensiva. Magari la stessa che si studiò all'epoca del braccio di ferro sulle pensioni e che, però, non venne poi adottata. Una mossa traumatica, uno "strappo": i ministro Università e Ricerca quattro ministri della sinistra, gli stessi che ieri, chez Prodi, hanno mangiato fiele e miele, potrebbero rimettere il loro mandato nelle mani del premier. Loro ci avevano pensato ancor prima che lo facesse Emma Bonino. Poi hanno preferito soprassedere, nella speranza che, dopo le pensioni, sulla successiva trattativa sul Welfare, avrebbero strappato qualcosa. Ma niente. Quando Mussi ha parlato con un Epifani furibondo perché «mi hanno fatto il gioco delle tre carte, facendomi vedere una bozza e facendomene firmare un'altra », i partiti della sinistra dell'Unione hanno capito che lo spazio di manovra era quantomai esiguo. E la risposta di Prodi alla lettera del segretario della Cgil li ha confermati nella loro opinione. Tanto che è stato anche per "coprire" Epifani, così duramente trattato dal premier, che i quattro ministri hanno chiesto l'incontro. Lo hanno ottenuto, condito con una mezza disponibilità. A cui non credono più di tanto. Per questo a settembre potrebbero mettere in atto ciò che pensavano di fare già a luglio. E quando rimetteranno i loro mandati sarà Prodi che dovrà decidere che cosa fare. Senza poter dire quel che sussurra a mezza bocca adesso: «I miei partner sembrano non capire che se cado io, cadono anche loro...».
l’Unità 28.7.07
Il grande freddo tra Prodi ed Epifani
Il segretario della Cgil «deluso» dalla lettera del premier
di Marco Tedeschi
CONTRASTI La lettera di Romano Prodi («Caro Epifani, l’accordo va firmato per intero...») non è piaciuta al destinatario e alla Cgil tutta e lo scambio espistolare tra il capo del governo e il segretario generale della Cgil continuerà, ci si augura in toni meno
gelidi rispetto a quelli che si sono fin qui manifestati. La prossima missiva sarà di quest’ultimo, che non firmerà il famoso e contestato protocollo d’intesa su lavoro, welfare e previdenza, ma spiegherà il consenso (e il dissenso) suo e dell’organizzazione per iscritto, dettagliando dunque, per quanto sarà possibile, i punti critici. Così come farà Confindustria. Mentre Angeletti ha già firmato per la Uil e Bonanni si appresta a farlo.
Guglielmo Epifani non ha commentato pubblicamente la risposta di Prodi. Ma si sa della sua insoddisfazione, perchè il capo del governo non avrebbe risposto agli interrogativi posti e alla contestazione che continua a riguardare soprattutto il pacchetto lavoro e quindi il cambiamento di alcune “voci” della legge 30 e la decisione di «azzerare ogni contribuzione aggiuntiva sullo straordinario». Una «risposta ecumenica quella di Prodi», avrebbe giudicato il sindacato di Corso d’Italia. Epifani aveva accusato l’esecutivo di aver cambiato, a sorpresa, pochi minuti prima dell'incontro con il sindacato, il testo del protocollo d’intesa. Con una conclusione: la Cgil si intende libera di agire in ogni sede e modo per modificare quei punti contestati, alcuni dei quali rappresenterebbero una vera «aberrazione». Non è rottura, non è scontro, ma è un accentuare il ruolo tutt’altro che accomodante, tutt’altro che “passivo” del primo sindacato italiano.
La posizione di Epifani, raccolta dal Comitato direttivo della Cgil di lunedì scorso dopo un’estenuante discusssione, ha incontrato un consenso diffuso nell’organizzazione, come ha sintetizzato il segretario confederale Carla Cantone: «Il dibattito e le conclusioni dei direttivi e degli attivi territoriali confederali, nell'apprezzare le valutazioni e le argomentazioni politiche di merito e metodo avanzate dal segretario generale Guglielmo Epifani a nome della maggioranza della Segreteria nazionale, hanno sottolineato la irrinunciabile necessità di avviare unitariamente la più ampia consultazione certificata e vincolante dei lavoratori e dei pensionati». Cioè, da quasi tutte le regioni e dai capoluoghi più importanti, dal Piemonte alla Sardegna, da Milano a Palermo, è giunto appoggio alla linea di Epifani. Ma nella stessa Cgil sono apparse posizioni di dissenso radicali, dalla Fiom di Rinaldini in particolare e non solo dalla Fiom: ancora ieri la segreteria dei metalmeccanici di Brescia si esprimeva nel segno della forte contrarietà ai contenuti dell’intesa.
Diverso l’atteggiamento di Uil e Cisl. Luigi Angeletti, segretario della Uil, dopo la firma, ha confermato un «giudizio complessivamente positivo». Ma ha anche ricordato che l'ultima parola spetta comunque ai lavoratori: «Il loro giudizio sarà vincolante». Bonanni, segretario della Cisl, ha apprezzato la lettera di Prodi e l’ha definita un intervento «appropriato, puntuale ed efficace». Anche Bonanni ha rinviato il giudizio definitivo alla consultazione con i lavorator, «sulla base - ha puntualizzato - delle risposte del protocollo del Governo al documento unitario di Cgil, Cisl e Uil di febbraio, testo nel quale però, proprio per mantenere l'unità tra i sindacati, non venivano menzionati nè la legge 30 (la legge Biagi, ndr) nè la possibile revisione dell'accordo del 1993».
l’Unità 28.7.07
Cesare Salvi. «Fiducia o non fiducia» dichiara il senatore della sinistra «non si può accettare»
Il pacchetto Damiano così non lo voto
di Roberto Rossi
«Se il pacchetto Damiano dovesse trasformarsi in legge così com’è io non lo voto. Fiducia o non fiducia». E con il senatore Cesare Salvi, ex ministro del Lavoro, tutta la sinistra della maggioranza.
Eppure il ministro del Lavoro Damiano l’ha dichiarato “chiuso”?
«Ha fatto un errore. Ha diviso il sindacato e isolato la Cgil. Non solo non c’è niente di inemendabile ma se non lo si fa si finisce male. Sulle pensioni siamo stati responsabili. Lì c’era un problema di soldi. Qui no».
L’incontro tra Prodi con i ministri di sinistra non è l’inizio di un dialogo?
«Sì, ma vorrei essere molto chiaro: non si pensi che portando il pacchetto welfare in Finanziaria e mettendo la fiducia noi lo voteremo».
A quali modifiche state pensando?
«Sulla questione del lavoro abbiano indicato una soluzione che riprende quella del programma elettorale. Noi avevamo detto di superare alcuni aspetti della Legge 30 e di introdurre il divieto di reiterazione del lavoro temporaneo. In questo protocollo c’è l’esatto contrario. Non a caso il maggior entusiasmo Confindustria l’ha mostrato proprio su questo punto. Nel pacchetto si elimina solo il job on call, mentre resta particolarmente grave la disciplina del tempo determinato».
Perché la considera grave?
«L’Europa ha una direttiva nella quale c’è il divieto di reiterazione del contratto a termine. Damiano non l’ha recepita. Punto primo: considera solo il tempo determinato mentre nel lavoro temporaneo c’è anche il lavoro interinale. Punto secondo: prevede la possibilità di reiterare il contratto a tempo determinato per un arco di 36 mesi. Punto terzo: successivamente prevede anche una nuova reiterazione con il solo elemento burocratico di un timbro dell’ispettore del lavoro. Secondo lei che cosa sceglie un giovane tra la prospettiva di perdere un contratto, anche se a tempo determinato, e andarsene a casa, e la possibilità di andare a mettere un timbro?
Quale altro punto del protocollo non vi è piaciuto?
«La decontribuzione salariale è sbagliata fatta in quel modo. Oltre tutto è una misura che costa. Fare una legge di tipo europeo non si spende nulla, questa misura Damiano invece costa».
Quanto secondo lei?
«Non quanto il cuneo fiscale, ma comunque cifre rilevanti. Tutte a vantaggio delle imprese. I custodi del rigore non hanno nulla da dire?».
Voi avete sempre puntato ad abbattere i costi della politica. A che punto siamo?
«Noi abbiamo ottenuto che nel Dpef fossero inserite misure di risparmio da recepire in Finanziaria. Tra queste un ritorno alla legge Bassanini con una riduzione dei ministri. Servirebbe un governo con la struttura di quello francese (15, ndr). Adottando questa misura risparmieremmo fino a 150 milioni».
In Italia i ministri sono 25. Chi dovrebbe abbandonare?
«Noi di Sinistra democratica siamo disposti anche a fare un passo indietro. Faccio notare però che il futuro Partito democratico su 25 ne ha 18».
l’Unità 28.7.07
Tutti in Cantiere, la sinistra dell’Unione punta sulla conoscenza
di Gabriella Gallozzi
La conoscenza senza se e senza ma. Al di là della «mercificazione che riduce gli spazi della libertà». E come «occasione di uguaglianza e liberazione». Così come era stata «concepita» nel programma dell’Unione, insomma. A fronte, invece, di «un impoverimento» degli spazi che vanno dalla cultura alla scuola, dalla ricerca all’università. È questo il punto di partenza del «Cantiere della conoscenza», l’iniziativa lanciata da Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Comunisti italiani che ieri, alla presentazione in Senato, poteva già contare su una lunga lista di adesioni da parte di personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’Università, della politica: Sabina Guzzanti, Sandro Curzi, Citto Maselli, Wilma Labate, la sottosegretaria ai Beni culturali Danielle Mazzonis, il critico Bruno Torri, Massimo Ranieri, Giovanni Berlinguer, Benedetta Buccellato e tanti altri, oltre ad associazioni e movimenti della società civile. Insomma, un «luogo unitario di iniziativa e azione», per «portare nelle Istituzioni il frutto del lavoro comune, insieme ad artisti, intellettuali ed associazioni».
«Si dimentica che nel programma dell’Unione tradito quotidianamente - dice Alba Sasso della Sinistra democratica - si riportava la formazione come centrale. A quell’idea, invece, si è sostituita l’ossessione del risanamento del debito con politiche orribili su scuola, università, ricerca». Questo per quanto riguarda la scuola, ma non diversamente è accaduto al mondo del cinema e della cultura. Il primo appuntamento, dunque, è in Finanziaria, sottolinea la senatrice Maria Agostina Pellegatta, «in questa sede si deve chiedere il risarcimento verso la scuola, l’investimento del governo nella cultura, l’abbassamento dell’Iva al 4% per tutte le attività culturali». Ma sopratto, prosegue la senatrice, si «deve contrastare la deriva centrista dell’Unione nel suo tentativo di governo monocolore». Affinché la cultura torni ad essere centrale e si blocchi «la privatizzazione del sapere». Temi questi, già tutti presenti al tavolo programmatico dell’Unione, ribadisce Loredana Fraleone di Rifondazione, «è in quella sede, in realtà, che ha preso il via il Cantiere». Ma è oggi che i lavori entrano nel vivo. Per ribadire, come sottolinea Stefania Brai, responsabile cultura di Rifondazione, «che la cultura è uno strumento di sviluppo, un valore sociale in sé, indipendentemente dall’utile economico che produce. È strumento per capire e cambiare il mondo. Non dimentichiamo, infatti, che Berlusconi vinse soprattutto culturalmente». Da qui l’invito alla «mobilitazione», alla partecipazione nel «Cantiere della conoscenza» aperto a tutti e che dà appuntamento al prossimo 6 ottobre con una giornata di «lavori».
l’Unità 28.7.07
Ruffolo: «Siamo tutti riformisti»
di Bruno Gravagnuolo
«Quel che mi riesce impossibile da capire, è la distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Nessuno propugna più la rivoluzione contro le riforme, o sbaglio?». Comincia con una domanda dell’intervistato, l’intervento di Giorgio Ruffolo - uomo della cultura di programma socialista - nel dibattito sulla «sinistra smarrita». Replica alla domanda: Lei sa bene che tutto dipende dalla parola stessa: riformismo. C’è chi la tira di qua e chi di là. Da destra da sinistra, e magari in termini di schieramenti di “nuovo conio”, vedi Rutelli...». «Vero - dice Ruffolo - e allora chiariamo. Riformismo, da sinistra, non è certo assecondare gli equilibri esistenti. Bensì farli evolvere in avanti. Modificando i rapporti di forza tra i ceti sociali». Non significa perciò assecondare il capitalismo? «No, vuol dire fare avanzare tutti. Introdurre giustizia democrazia, regole per l’ambiente. E promuovere i bisogni sociali. E poi il capitalismo non è una forza naturale eterna. Benché si sia rivelato imbattibile nel produrre ricchezza, fino ad oggi».
Dunque Professore, la sinistra ha una missione specifica? «Sì, emancipativa! Opposta alla subalternità rispetto agli assetti dati, pur dentro compatibilità realistiche. È su questo che si misurano la destra e la sinistra. Non in relazione a criteri ideologici o topografici. Tipo: a sinistra contro l’America, a destra a favore. A sinistra con gli arabi, a destra contro...». Bene, ma facciamo qualche esempio concreto. La sinistra deve difendere uno stato sociale universalistico, o modellarlo secondo le esigenze dell’impresa privata? «Lo stato sociale universalistico - per la sinistra - è irrinunciabile. Tutti hanno diritto ai servizi fondamentali, senza i quali non ci sono né persone né diritti. Né eguaglianza, né libertà. Ben per questo Jospin diceva: economia di mercato sì, società di mercato no. Slogan ancora buono, da sottoscrivere. Il problema è come trovare le risorse, in una situazione in cui la pressione fiscale è avvertita come intollerabile». Giusto, ma evasione fiscale a parte, non è certo di sinistra togliere ai poveri... per dare ai poveri. Come si vuol fare con le pensioni: diminuendo i rendimenti e alzando l’età pensionabile. Ai danni dei lavoratori che versano i contributi, e col pretesto di voler finanziare formazione e ammortizzatori sociali. «Le rispondo così. Sulle pensioni s’è fatto dell’allarmismo, visto che l’età media effettiva del pensionamento in Italia non è lontana da quella europea. Tuttavia un problema di riequilibrio, tra base contributiva e allungamento della vita media, esiste. E in fondo quello trovato dal centrosinistra al governo mi pare un buon compromesso: allungamento dell’età lavorativa, spalmato gradualmente. Che rispetta i diritti acquisiti, e guarda agli equilibri di bilancio. Il punto però resta: come finanziare il nuovo welfare, oltre alle pensioni?». Già, come? «Credo che la soluzione stia nel “welfare market”, cioè nell’adottare una modalità cooperativa e associativa nel campo dei servizi. Insomma: l’impresa sociale-privata. Che può scaricare lo stato da molti oneri, e integrarlo». La prendo in parola, Professore. Ma perché allora non estendere lo schema anche all’economia privata? Magari senza illudersi di dover fare finanza cooperativa, sganciata da fini mutualistici... «Credo che il movimento cooperativo resti un’idea-forza della sinistra, oltre che una grande realtà economica figlia della tradizione socialista. Ma va detto che l’impresa privata classica ha un motore più forte, senza i vincoli di quella cooperativa. Ottima quest’ultima sul territorio, nella distribuzione, ma ancor più promettente nel campo chiave della solidarietà: i servizi sociali. È in questa direzione che va spinta, non in quella di un’improbabile competizione sul piano finanziario, che rischia di snaturare la mutualità e di renderla irriconoscibile. Aggiungo: inutile voler entrare nel salotto buono della finanza. Si finisce col confondere le regole dell’economia con il ruolo della politica. E una politica di sinistra non deve mescolarsi con l’economia, bensì guidarla e regolarla».
Veniamo a un tema classico, keynesiano e di sinistra: la piena occupazione. La sinistra deve promuoverla, o contentarsi di un lavoro perennemente flessibile e precario, da plasmare e «formare» alla bisogna? «No, la piena e buona occupazione deve essere obiettivo primario per una vera sinistra. Altrimenti facciamo del lavoro una merce come un’altra. Mentre è una questione di dignità, di identità. Che non tocca solo la sfera dello scambio e della prestazione materiale, ma l’intero arco delle relazioni umane. Sicché il mio criterio è il seguente: graduare la flessibilità a seconda delle età della vita. Vi sarà quindi un periodo di apprendimento e di flessibilità, nella vita di ciascuno. Che alla fine culminerà, o dovrebbe culminare, in un lavoro stabile, frutto di esperienze diversificate. Oltretutto un lavoro perennemente precario, non aiuta un’economia di qualità». Torniamo al capitalismo. Tra i suoi Mantra c’è la «concorrenza». E però c’è chi come Sarkozy - da destra! - espunge quell’imperativo dalla Costituzione europea. Che ne pensa? «Sarkozy, uomo abilissimo ed egemonico, fa benissimo a demistificarne l’aura sacrale. Anche da sinistra si può, e si deve dire: la concorrenza è un mezzo. Un vincolo di cui tener conto. Non l’obiettivo supremo di una società giusta».
E ora parliamo del Partito democratico, verso il quale parte della sinistra si avvia. Lei - che all’inizio fece parte del Comitato dei tredici per il manifesto inaugurale - ne è uscito subito. Come mai? «Perché mi sono accorto che su temi chiave il Pd era elusivo. Il primo è quello della collocazione internazionale del nuovo partito. Un problema esistenziale, rimasto inevaso. Chiedo: dove si schiererà il Pd in Europa? Non basta dire che si muoverà tra i demo-liberali e i socialisti. Che allargherà le frontiere. No, la sinistra europea che conta è il socialismo europeo. E senza tale ancoraggio, la nuova creatura sarà fragile e incerta. Il secondo punto di dissenso concerne la mancanza di un vero orizzonte progettuale. Che tipo di società propugna il Pd? Quali finalità generali? Quale economia? Tutto questo non è chiaro, benché la nuova leadership di Veltroni abbia reso più credibile questa scommessa, infondendole maggiore autorevolezza e incisività». Scusi Professore, ma il Pd non inclina verso un forte ridimensionamento del ruolo del lavoro, come asse del blocco sociale di riferimento? Massimo Cacciari per esempio, dice che privilegiare il lavoro dipendente è «reazionario», a fronte delle nuove figure sociali emergenti... «Guardi, sappiamo bene che la geografia sociale si è arricchita e che il lavoro è mutato! Ma Cacciari sbaglia, se pensa che il profilo del lavoro coincida con quello dell’individualismo di mercato, fatto di tante figure che scambiano le loro prestazioni. Ciò non corrisponde al peso maggioritario del lavoro dipendente. E non è nemmeno accettabile come paradigma etico». Ultima questione, l’Europa. La si è magnificata, caro Ruffolo. Ma appare sempre più come un recinto di scambi, finanza e regole monetarie. Domanda: che cosa ha fatto il socialismo europeo per fare dell’Europa una potenza democratica sovranazionale? «Senza dubbio pochissimo. E se consideriamo che fino a pochi anni fa erano 13 i governi a guida socialista su 15, allora il Pse deve prendersela solo con se stesso». Il Pse avrebbe dovuto contrastare gli alti tassi della Bce e promuovere così politiche di piena occupazione? «No, la Banca centrale fa il suo mestiere: controlla il tasso di inflazione. Il punto è un altro. Ci sarebbe voluta una politica economica in grado di attrarre capitali, per farne il volano di uno sviluppo forte. Parlo di grandi progetti infrastrutturali, per canalizzare risorse e farle fruttare in termini di indotto e opportunità di investimento. Era l’idea di Jacques Delors: del tutto dimenticata! E poi non è questione di Euro forte o meno. Semmai di come usare l’Euro forte. E qui che l’Europa e la sinistra sono mancate. Totale assenza di politiche industrali ed economiche...».
E la laicità, professore, non è un altro dei punti dolenti del Pd? «Giusto, quasi ce ne dimenticavamo. È un altro dei punti inevasi del Pd. E anche qui, è questione di dignità. Dignità del lavoro, della vecchiaia, delle donne, dei giovani, dei deboli. E dignità dei non credenti. Non mi pare che sia risultata centrale, negli intenti del Pd. E si tratta di una questione non negoziabile sul piano dei principi». Insomma professor Ruffolo, malgrado i suoi «paletti», il Pd sembra averla delusa per ora, o no? «Io gli auguri a Veltroni li ho fatti. Lui può farcela, a prescindere dalla ridda dei conflitti interni ed esterni sulla strada del Pd. Quanto all’essere deluso, non posso esserlo... Perché è da tanto tempo che non mi illudo più».
Repubblica 28.7.07
La dolce utopia di un mondo dove esiste una sola razza
di Timothy Garton Ash
Qualche tempo fa in occasione di un censimento fu chiesto ai brasiliani di specificare il proprio colore di pelle. Vennero fuori 134 diversi termini, tra cui alva-rosada (carnagione bianco-rosata), branca-sardenta (bianca con macchie brune), café-com-leite (caffèlatte), morena-canelada (bruno-cannella), polaca (fisionomia polacca), quase-negra (quasi nera) e tostada (tostata). Queste descrizioni spesso gioiosamente poetiche sono specchio di una realtà ben visibile soprattutto nelle aree più povere delle metropoli brasiliane. Girando per la Città di Dio, un quartiere povero di edilizia popolare nell´immediata periferia di Rio de Janeiro (dove è stato girato il film omonimo), ho visto ogni possibile sfumatura di colore e varietà di fisionomie talvolta all´interno di una stessa famiglia. Alba Zaluar, esimio antropologo che da anni lavora tra gli abitanti della Città di Dio, mi ha raccontato che la gente ironizza su questa cosa dandosi nomignoli come "latticino" o "moretto". E questa eterogenea miscela di tratti somatici risulta spesso di grande bellezza.
Il Brasile è un paese in cui la mescolanza delle razze è considerata una delle ricchezze della nazione e il termine "meticciato", brutta parola inappropriata assume qui una connotazione positiva. Ma c´è un rovescio della medaglia. Dall´inizio del Ventesimo secolo il Brasile si dipinge come una "Democrazia razziale" in contrapposizione alla segregazione razziale all´epoca vigente negli Stati Uniti. Ma la realtà ancora oggi è che la maggioranza dei non-bianchi è in condizione di inferiorità sotto il profilo economico sociale e dell´istruzione rispetto alla maggioranza dei bianchi. E questa disuguaglianza è in parte frutto di discriminazione razziale.
Ero in Brasile per porre domande sulla povertà, l´esclusione e l´ineguaglianza sociale. Nel giro di pochi minuti il discorso andava sulla razza. E´ accaduto regolarmente, anche a colloquio con l´ex presidente brasiliano, Fernando Henrique Cardoso.
In un vivace memoriale, Presidente del Brasile per caso , Cardoso ricorda la ricerca condotta quand´era un giovane sociologo nelle baraccopoli. Pur registrando l´ampia mescolanza di razze giunse alla conclusione che «in via generale essere nero in Brasile equivaleva ad essere povero».
Per affrontare il problema il suo governo diede avvio a progetti anti-discriminazione, incrementati sotto il presidente Lula. Oggi in molte università sono previste quote di ammissione per gli aspiranti provenienti dalle scuole statali e per i neri. Sulle quote per i neri si è aperta una feroce diatriba. I critici ne fanno innanzitutto una questione di principio. Stando alle cronache Maria-Tereza Moreira de Jesus, poetessa e scrittrice nera ha commentato: «Il razzismo esiste, dal modo in cui ti trattano nei negozi ai colloqui di lavoro, ma basare l´ammissione sulla razza è un´altra forma di razzismo». Un rapper nero che ho conosciuto in una favela di San Paolo, "MC Magus", si è detto contrario alle quote perché «siamo tutti uguali».
Esiste poi un ostacolo di ordine pratico: come stabilire chi è "nero" in una società così miscelata e multicolore? Il problema è emerso con chiarezza nel recente caso dei due gemelli identici Alex e Alan Teixera da Cunha, che avevano entrambi presentato domanda di ammissione all´Università di Brasilia in base al sistema delle quote. Alan è stato ammesso come nero, Alex respinto come non nero. L´ Università di Brasilia dispone in realtà di una commissione che determina la razza in base alle foto dei candidati considerando fenotipi come capigliatura, colore della pelle e tratti somatici. A raccontarmi questo episodio è stato un ebreo. «Puoi immaginare che cosa ne penso», ha detto.
Alcuni degli attivissimi movimenti neri preferiscono il termine "oriundi africani". Ma in base alle stime di un recente studio scientifico condotto sul Dna nucleare e mitocondriale fino all´85 per cento della popolazione, inclusi decine di milioni di brasiliani che si considerano bianchi, hanno nel loro genoma una componente africana superiore al 10 per cento. (I primi coloni portoghesi in genere non portavano le mogli con sé).
Resta valido quindi il sistema di definizione soggettiva tradizionalmente utilizzato in Brasile. I dati ufficiali più recenti forniti dall´istituto geografico e statistico indicano che circa il 50 per cento dei brasiliani si definisce "bianco", poco più del 40 per cento "bruno", poco più del 6 per cento "nero" e meno dell´un per cento "giallo" (cioè oriundo asiatico, soprattutto giapponese) o "indigeno" (traduzione letterale delle cinque categorie specificate). Con un´audace iniziativa i rappresentanti dei movimenti neri, alcuni dei quali finanziati da fondazioni americane hanno proposto che l´intera popolazione non-bianca venga classificata come nera. Tutto si semplificherebbe: o bianchi o neri.
Altri inorriditi gridano che una soluzione simile equivarrebbe ad importare il peggio della classificazione razziale all´americana negando la specificità dell´ibrido razziale brasiliano. Se proprio servono quote di ammissione all´università in base al colore della pelle (prassi giudicata discriminatoria dai tribunali negli Stati Uniti) che almeno si fondino sul metodo tradizionale brasiliano dell´autoidentificazione. In passato i brasiliani tendevano a collocarsi entro la sezione più chiara dello spettro, soprattutto con il migliorare della loro posizione economica ("il denaro sbianca" osserva senza tanti complimenti un sociologo). Se ora per via delle quote c´è qualcuno in più che preferisce essere nero, ben venga. Dopo tanti secoli in cui è stato molto più vantaggioso essere bianchi – la schiavitù è stata abolita in Brasile solo nel 1888 – è giusto mescolare un po´ le carte. E se questo significa che un giorno una ragazza generalmente considerata bianca farà domanda di ammissione all´università come nera, beh, buona fortuna.
Non essendo brasiliano non sono in condizione di esprimere un giudizio sull´argomento.Capisco le forti motivazioni contro le quote in base al colore della pelle e capisco anche che la dura realtà di discriminazione retaggio del passato va affrontata. La decisione spetta i brasiliani. Ma spero con tutto il cuore che il Brasile si avvicini a realizzare il suo antico mito di "democrazia razziale" invece che allontanarsene chiudendosi in classificazioni razziali anacronistiche e riducendo complesse identità ad un´unica caratteristica. Perché la realtà brasiliana apre una finestra sul futuro di noi tutti in un mondo che vedrà una sempre maggiore mescolanza di popoli.
Mi rendo ovviamente conto che posso dare l´idea del ricco straniero bianco ( più che bianco in realtà alva-rosada, soprattutto dopo quindici giorni trascorsi sotto il sole brasiliano) che fa una gita di un paio di giorni nelle favela ed esclama "com´è bella questa gente". Ma lo dico lo stesso: in Brasile anche in mezzo alla miseria e alla violenza, frutto della droga, della Città di Dio ho avuto modo di cogliere la bellezza della miscela di razze. E´ proprio questo ibrido che ha contribuito a fare dei brasiliani gli esseri umani più belli della terra. Se e ripeto, solo se, il Brasile saprà correggere i suoi spaventosi squilibri sociali ed economici, incluso il retaggio di discriminazione, qui si prefigura la possibilità di un mondo in cui il colore della pelle non è nulla più che una caratteristica fisica come il colore degli occhi o la forma del naso, un attributo da ammirare, di cui prendere pacatamente atto o su cui ironizzare. E di un mondo in cui l´unica razza che conta è la razza umana.
Repubblica 28.7.07
Stalin ingegnere del male
Settant'anni fa l’apogeo del terrore sovietico
di Maria Ferretti
La macabra gara tra signori locali
Confessioni estorte con la tortura
Al 30 luglio del 1937 risale l´azione repressiva più sanguinaria, portata alla luce solo dopo l’apertura degli archivi
Il 30 luglio 1937, il Politbjuro del partito comunista sovietico approvava il segretissimo ordine operativo 00447, stilato alla vigilia da Eov, il capo del Ministero degli interni (NKVD): prendeva così avvio l´ondata repressiva più sanguinaria del Terrore staliniano, responsabile, da sola, di più della metà delle vittime. Secondo le stime più recenti, ma non ancora definitive, le repressioni scatenate il 5 agosto in base all´ordine 00447 portarono alla condanna di 818.000 persone, di cui 436.000 furono fucilate, su un totale di 1.440.000 condannati e 725.000 giustiziati nel 1936-1938. Tenuta segreta, questa operazione terroristica di massa, ricostruita soltanto dopo l´apertura degli archivi, getta una luce nuova sul Terrore e sulla sua funzione nella società sovietica degli anni Trenta. Tradizionalmente considerato, come suggerivano i processi di Mosca in cui era stata sterminata la vecchia guardia bolscevica, il punto culminante delle purghe rivolte contro le élites politiche, militari e intellettuali con lo scopo non solo di eliminare gli oppositori a Stalin, ma anche di promuovere giovani quadri legati da un vincolo di fedeltà personale al dittatore, il grande Terrore appare oggi anzitutto il frutto di un preciso disegno di ingegneria sociale, volto a estirpare dal corpo sociale tutti quegli elementi che, per ragioni sociali o etniche, erano considerati "estranei" o "nocivi" per la nuova società socialista.
Questa logica è del resto esplicita nel preambolo dell´ordine 00447, che invitava la polizia politica a "farla finita una volta per tutte" con gli "elementi socialmente pericolosi", cioè con tutta quella schiera di figure del passato, di "uomini-ex" - ex-kulaki, i contadini benestanti già spodestati da Stalin con la collettivizzazione, ex religiosi, ex militanti di partiti soppressi dopo la rivoluzione e via dicendo - che, per via della loro stessa natura, erano sospetti di nutrire scarse simpatie per il regime. Per primi erano presi di mira i kulaki già deportati che, fuggiti dal confino o liberati allo scadere dei termini, avevano fatto ritorno ai villaggi, quando non avevano trovato lavoro nei cantieri dei primi piani quinquennali. Oltre ai kulaki, ai "banditi" e a sabotatori di ogni genere e tipo, finiva sotto la scure dell´ordine 00447 chiunque fosse tacciato di "attività antisovietica", un´etichetta, questa, affibbiata tanto al contadino che, per quanto povero, osava rimpiangere la sua fattoria, quanto all´operaio che si azzardava a protestare per le decurtazioni salariali o per l´aumento forsennato dei ritmi di lavoro imposto con l´industrializzazione forzata.
Gli "elementi antisovietici" andavano suddivisi, secondo l´ordine 00447, in due categorie. Per quelli di prima categoria, i più pericolosi, era prevista la fucilazione immediata. La condanna era pronunciata, dopo una sommaria istruttoria, dalle trojke, organi extragiudiziari formati dal segretario regionale del partito, il capo del NKVD locale e il pubblico ministero. L´inchiesta era rapida, per non allungare i tempi della campagna repressiva, che, come tutte le campagne del paese dei soviet, avanzava a tempi di record. La prova di colpevolezza principale era la confessione, estorta spesso agli imputati con la tortura, che proprio sul finire di luglio 1937 era tornata in auge nelle carceri sovietiche. La condanna a morte era segreta, anche per gli interessati. Segreto era pure il luogo dell´esecuzione. Per i condannati meno pericolosi - la seconda categoria - erano previsti invece 8-10 anni di lavoro forzato nei campi dell´arcipelago Gulag.
L´ordine 00447 stabiliva anche le "quote" di nemici del popolo da sradicare regione per regione e precisava quanti andavano fucilati - la "I categoria" - e quanti dovevano finire nei lager. Le quote erano fissate in base alle stime inviate al Cremlino, su richiesta del Politbjuro, dai responsabili regionali. La quota più elevata fu attribuita a Mosca, allora feudo di Chrušcev, che ottenne 35.000 vittime, di cui 5.000 di I categoria. Seguivano le terre di confino, la Siberia occidentale (17.000, di cui 5.000 di I) e gli Urali del sud (16.000, con 5.500 in I); un tributo meno esorbitante era chiamata a pagare Leningrado (14.000, di cui 4.000 in I), già martoriata dalle purghe degli anni precedenti. Fuori dalla Russia, la più colpita era l´Ucraina, con 28.800 arrestati e 8.000 fucilati. Macabro segno del fascino esercitato, negli anni dell´industrializzazione, da cifre e diagrammi, le quote non erano una novità assoluta. Già durante la collettivizzazione Mosca aveva assegnato alle regioni le quote di contadini da spodestare, specificando quanti andavano arrestati e quanti deportati. La differenza, nel 1937-1938, fu che ora la morte veniva decisa a tavolino, con un tratto di penna, una cifra nero su bianco in base a cui si sarebbero poi selezionati gli uomini.
Le cifre proposte dall´ordine 00447 - 75.950 fucilati e 193.500 internati - erano ben inferiori a quelli che saranno i risultati finali dell´operazione. In breve volgere di tempo, le quote assegnate da Mosca vennero esaurite e molti zelanti gerarchi locali, ansiosi di far bella figura davanti ai superiori, cominciarono a chiedere assegnazioni supplementari. Dalle province lontane giungevano al Cremlino telegrammi con richieste di aumentare le quote, perfino di 8 o 9 volte. E il Cremlino, compiacente, autorizzava, aizzando la macabra gara fra i signorotti locali. Invece che i 4 mesi previsti, l´operazione finì per durare più di un anno. A mano a mano che il tempo passava, gli aumenti di quote si facevano sempre più vorticosi. Nella primavera del 1938, Stalin concesse all´Ucraina l´aumento più elevato accordato a una sola regione: 30.000 vittime, e tutte di I categoria. Per realizzare le quote, gli agenti del NKVD, una volta esaurite le liste degli schedati, si lanciavano a caccia d´uomini circondando mercati e stazioni, dove si riuniva la povera gente in cerca di espedienti per sbarcare il lunario: chi era senza passaporto finiva nel mucchio. Con le retate e gli arresti notturni, le prigioni si riempivano fino a scoppiare. Per decongestionarle, Berija, futuro capo del NKVD, escogitò presto la soluzione: promuovere i prigionieri più pericolosi di categoria, passandoli in prima.
L´"operazione kulak", come era detta dagli uomini del NKVD, fu l´ondata repressiva più importante, ma non la sola, che si abbatté sulla società sovietica nel 1937-1938 per "purificarla" dagli "elementi estranei". Pochi giorni prima dell´ordine 00447, il 25 luglio, era stato diramato l´ordine 00439, che ingiungeva di arrestare, nel giro di 5 giorni, tutti i tedeschi impiegati in settori strategici (industrie legate alla difesa, ferrovie) e i sovietici che avevano un qualche rapporto con loro, tutti considerati spioni al soldo della Gestapo. Dopo i tedeschi, fu la volta dei polacchi (che pagarono il tributo più elevato: 143.810 condannati, di di cui quasi l´80% a morte), seguiti da lettoni e finlandesi, greci e rumeni, estoni e coreani. Fra luglio 1937 e novembre 1938 vennero condannate, nel quadro delle operazioni nazionali, 335.513 persone, di cui quasi i tre quarti alla pena capitale (247.157, cioè 73,6%), una percentuale ancora maggiore che per l´operazione kulak.
Che cosa scatenò la spaventosa mattanza del 1937-1938? Ci fu certo la personalità di Stalin, la paranoia del dittatore, incline a vedere ovunque tradimenti e complotti. Ci fu la psicosi di una guerra imminente, scatenata dal deteriorasi della situazione internazionale e dall´aggressività tedesca. Ma ci fu anche la volontà di stroncare sul nascere ogni possibilità di protesta sociale nel momento in cui si temevano nuove, gravi difficoltà economiche e, con l´adozione, nel 1936, della nuova Costituzione staliniana, il paese si apprestava ad andare alle urne, per quelle elezioni che la propaganda decantava come le più libere del mondo: da questo punto di vista, il Terrore fu un´operazione repressiva preventiva volta a terrorizzare la società e a privarla dei suoi possibili leader. Per dirla con Nicolas Werth, uno dei maggiori specialisti delle repressioni staliniane, il Terrore del 1937-1938 fu il culmine parossistico di quella gestione poliziesca del sociale che era stata inaugurata con la collettivizzazione e proseguita negli anni successivi con una serie di politiche volte a espellere dal corpo sociale, e soprattutto dai luoghi sensibili, come le grandi città e le regioni di frontiera, gli "elementi socialmente nocivi". Perché nulla potesse ostacolare il trionfo dello Stato che si era proclamato costruttore del socialismo.
Repubblica 28.7.07
Un'opera di pulizia "razionale"
La verità e le tre bugie di Krusciov
Massacro preventivo e differenze con la Shoah
di Andrea Graziosi
Nel giugno 1937, quando Stalin liquidò i vertici militari, l´opinione pubblica internazionale aveva già identificato il terrore con lo sterminio dell´élite sovietica. Questa identificazione, causata dalla risonanza dei processi e dalla notorietà degli imputati e poi favorita dalle memorie dei sopravvissuti nonché da romanzi come Buio a mezzogiorno, fu consacrata da Krusciov nel 1956. Malgrado il suo significato liberatorio e le verità che esso conteneva, il rapporto segreto si basava però su tre falsificazioni. La prima era che le sofferenze erano cominciate dopo il 1934, salvando con l´industrializzazione e la collettivizzazione l´essenza del sistema staliniano. Vi era poi la presentazione del partito come martire innocente, che nascondeva le responsabilità tanto dei vecchi bolscevichi vittime delle purghe ma protagonisti della guerra alla popolazione del 1929-33, quanto dei "compagni di Stalin", Krusciov compreso, che ammise di avere "le braccia immerse nel sangue fino ai gomiti". Soprattutto, il terrore era ridotto a quello contro i quadri dello stato e del partito.
Proprio alla fine del giugno 1937 Stalin decise però di effettuare, in tempo di pace, un intervento di chirurgia etnico-sociale sul corpo della popolazione attraverso "operazioni di massa" affidate alla polizia politica. La prima fu lanciata a luglio col decreto 00447 (vedi riquadro in alto a destra) che elencava le categorie da colpire e indicava le quote per regione delle persone da arrestare, divise in due categorie, quelle da giustiziare e quelle da deportare nei lager. Tra loro vi erano i membri dei vecchi partiti socialisti, religiosi ecc., ma la maggioranza era composta da contadini ("ex kulak") e piccoli criminali.
Lo 00447 fu seguito ad agosto dallo 00485, diretto contro "i membri dell´organizzazione militare polacca in Urss", vale a dire i cittadini sovietici di origine polacca. Esso servì da modello a decreti rivolti contro le altre nazionalità ritenute inaffidabili perché "soggette a governo straniero", benché risiedessero nel paese da lungo tempo: gli arrestati nel corso delle "operazioni nazionali" furono più di 330.000, di cui circa 250.000 fucilati.
Proseguiva intanto, estendendosi agli apparati locali, la purga dei quadri del partito e dello stato. In totale nel 1937 la polizia politica arrestò 937.000 persone, condannandone 791.000, di cui 353.000 a morte, quasi tutte dopo luglio. Nel 1938 vi furono invece 639.000 arresti e 554.000 condanne, di cui 329.000 a morte. Le esecuzioni di massa furono in genere condotte da piccoli gruppi di boia professionali che, facendo uso di vodka, giustiziavano i condannati singolarmente e in rapida successione con un colpo alla nuca di fronte a grandi buche scavate nelle foreste.
Nel 1936 le condanne a morte erano state invece circa 1.200 e ridiventarono 2.600 del 1939. Il terrore ebbe quindi un inizio e una fine precisi, e fu scandito da operazioni dirette da Stalin, che ne mantenne sempre il controllo.
In loco, però, il terrore ebbe un andamento caotico, prodotto da tre fattori. Ricevute le quote, i dirigenti della polizia politica controllavano quante persone delle categorie da colpire erano nei loro schedari. Il numero di regola non coincideva con quello indicato da Mosca. Ciò rendeva necessario "procurarsi" le persone mancanti. Poiché inoltre i decreti invitavano a eccedere le quote, chi si voleva distinguere si affannava a trovare altri colpevoli.
Il terrore che si innestò sulla purga dell´élite fu quindi insieme categoriale e preventivo: esso procedette cioè per categorie, ritenute pericolose e che quindi si decideva di liquidare preventivamente, in modo da rimuovere alla radice problemi futuri.
Questa essenza restò però segreta. L´ignoranza dei meccanismi del terrore ha influenzato anche le sue interpretazioni, che lo hanno a lungo presentato come un fenomeno casuale, teso ad atterrire, "atomizzandola", la popolazione. Ma se visto dall´esterno e cogli occhi delle sue vittime il terrore sembra cieco, una volta penetrata la sua logica esso ci appare come una opera "razionale" di pulizia, che procedette lungo due direzioni: l´eliminazione dei "detriti" ostili lasciati dalla costruzione del socialismo, proclamata dalla Costituzione del 1936, e quella di ogni quinta colonna potenziale in vista della guerra.
Il terrore del 1937-38 si ricollega perciò alla decosacchizzazione della guerra civile e alla dekulakizzazione del 1929-30. Esso è però anche la virulenta manifestazione di un fenomeno più generale, rappresentato dai tanti tentativi di manipolare la popolazione sulla base della sua suddivisione in categorie sociali, etniche o religiose, contrassegnate da un supposto maggiore o minore tasso di fedeltà o ostilità al potere. In epoca moderna tali pratiche sono state rafforzate dalla costruzione di stati in condizioni d´insicurezza, estremizzate dalle esperienze coloniali e poi generalizzate dalla prima guerra mondiale, quando raggiunsero il loro culmine con lo sterminio degli armeni. C´è a questo proposito da chiedersi se l´unicità della Shoah non consista anche nel suo essere slegata da ogni razionale, ancorché paranoica, preoccupazione di sicurezza, a meno di non voler ritenere tale la paura della contaminazione razziale. Anche in questo caso saremmo però lontani dal comportamento dei Giovani turchi del 1915 o dello Stalin del 1937-38, la cui lucida follia ci appare come un episodio estremo di quel terrorismo del potere che, come capì Burckhardt, stermina "gli avversari per categorie scelte secondo principi generali".
Repubblica 28.7.07
Il decreto n° 00477 che diede avvio allo sterminio
Sgominare senza pietà
Pubblichiamo parte del "Decreto operativo n° 00477 sulle operazioni di repressione degli ex kukak, dei criminali e degli altri elementi antisovietici", approvato il 30 luglio 1937
Dagli atti istruttori relativi alle formazioni antisovietiche trova conferma che nelle campagne si è rifugiato un gran numero di ex kulak, già repressi in passato, che si sottraggono alla repressione, fuggiti dai lager, dal confino e dalle colonie di lavoro. Vi si sono stabiliti molti degli ecclesiastici e dei membri delle sette, nonché degli ex partecipanti alle insurrezioni armate antisovietiche che in passato sono stati oggetto di repressione. Non sono stati pressoché colpiti nelle campagne i quadri principali dei partiti politici antisovietici (…) Una parte degli elementi su indicati, fuggendo dalle campagne verso le città, si è infiltrata nelle fabbriche, nei trasporti e nelle imprese edilizie. Inoltre, nelle campagne e nelle città hanno ancora il loro nido un numero considerevole di delinquenti comuni, di ladri di cavalli e di bestiame, di ladri recidivi, di rapinatori e di altri elementi che hanno scontato la pena, sono fuggiti dai luoghi di detenzione o hanno trovato scampo dalle repressioni. (...) Come è stato accertato, tutti questi elementi antisovietici sono i principali responsabili di ogni sorta di crimine antisovietico. Gli organi di Sicurezza hanno il compito di sgominare senza pietà questa banda di elementi antisovietici. In considerazione di ciò decreto di dare inizio il 5 agosto 1937 in tutte le Repubbliche e le regioni all´operazione di repressione degli ex kulak, degli elementi attivi antisovietici e dei criminali (…).
Per l´organizzazione e la direzione delle operazioni attenersi a quanto segue:
I. Categorie che soggiacciono alla repressione.
1. Gli ex kulak che hanno scontato la pena e continuano a condurre attività antisovietiche. 2. Gli ex kulak fuggiti dai lager o dalle colonie di lavoro, nonché quelli sfuggiti alla dekulakizzazione, che conducono attività antisovietiche. 3. Gli ex kulak e i soggetti socialmente pericolosi membri di formazioni insurrezionali fasciste, terroristiche e dedite al brigantaggio che hanno scontato la pena, sono scampati alle repressioni o fuggiti dai luoghi di detenzione e di nuovo impegnati in attività antisovietiche. 4. I membri dei partiti antisovietici, le ex guardie bianche, i gendarmi, i funzionari, i membri delle squadre punitive, i banditi e o loro complici, i favoreggiatori di fuggiaschi, i rimpatriati, coloro che sono scampati alle repressioni, gli elementi fuggiti dai luoghi di detenzione e tuttora dediti ad attività antisovietiche. (...)
II. Sulle misure punitive da adottare nei confronti degli elementi da reprimere e sul numero di coloro che soggiacciono alla repressione.
1. Tutti i kulak, i criminali comuni e gli altri elementi antisovietici contro cui dirigere la repressione vanno divisi in due categorie: a) nella prima categoria sono da annoverare tutti i soggetti più pericolosi tra quelli sopra nominati; costoro sono passibili di arresto immediato e di fucilazione; b) nella seconda categoria sono da annoverare tutti gli altri elementi meno attivi, ma ostili. Costoro sono punibili con l´arresto e la reclusione nei lager per un periodo da 8 a 10 anni (…)
Il Commissario del popolo agli Interni dell´Urss, N. Eov
il manifesto 28.7.07
Intervista a Cesare Salvi (Sd):
«Stanno tentando di farci fuori, dobbiamo unirci al più presto»
«E' in atto un'operazione che mira a sostituire la sinistra con nuovi alleati centristi». Sul protocollo sul welfare: «Se non vengono accettati i nostri emendamenti non lo votiamo, neppure se mettono la fiducia»
di Alessandro Braga
Roma. «Ci vogliono fare fuori». E quando dice «ci» Cesare Salvi, capogruppo al senato di Sinistra democratica, intende tutta la sinistra alternativa. I «killer» sarebbero il partito democratico e i moderati dell'Unione. Ma, avverte Salvi, «venderemo cara la pelle».
Senatore, sul protocollo sul welfare la tensione resta alta tra il governo e la sinistra alternativa.
Certo, perché a noi questo protocollo proprio non piace. Istituzionalizza di fatto il precariato a vita, non tiene conto del lavoro interinale. Se dovesse passare così com'è avrebbe effetti negativi incredibili.
Il ministro del lavoro Cesare Damiano ha detto che il documento è «inemendabile».
E già qui c'è un problema metodologico. Non è mai successo che un ministro abbia presentato un protocollo definendolo inemendabile, intoccabile.
Quindi che farete?
Abbiamo già pronti i nostri emendamenti, e li presenteremo. Devono essere discussi in parlamento.
E se non dovessero essere accettati?
Allora noi non voteremo il documento, in nessun caso.
Neppure se dovesse essere posta la fiducia?
No, neppure in quel caso. I provvedimenti che noi presentiamo non prevedono costi aggiuntivi e sono conformi con le direttive europee. Veniamo definiti estremisti, ma in realtà siamo solo coerenti con il programma dell'Unione. Per questo potremmo chiedere una verifica del programma di governo. Se ne tiene conto solo quando riguarda i moderati della coalizione, diventa invece carta straccia se siamo noi della sinistra a chiedere che venga rispettato.
La Cgil sta vivendo ultimamente una grossa crisi.
Il protocollo aggiuntivo è stato un grosso colpo alla Cgil. Un colpo basso a chi ha cercato di difendere l'unità sindacale e dei lavoratori. Noi come sinistra dobbiamo in qualche modo aiutarla e fare la nostra parte.
Negli ultimi tempi questi attacchi all'ala sinistra della coalizione sembrano essersi moltiplicati. Perché?
Faccio un'analisi politica del momento: Damiano ha riproposto una logica identica a quella di Berlusconi; Francesco Rutelli con il suo «manifesto dei coraggiosi» ha parlato di «centrosinistra di nuovo conio»; Piero Fassino parla di «scenari più avanzati» in fatto di alleanze e dice che bisogna aprire a Lega e Udc. Mi sembra siano tutti elementi che fanno parte di un unico grande piano.
Quale?
Quello di far fuori la sinistra. Mi sembra si stia cercando di logorarla, sperando in un suo scatto di nervi che faccia cadere il governo, riproponendo il problema del '98, oppure trovare nuovi alleati per rendersi autosufficienti da questa stessa sinistra e liberarsene.
Cosa deve fare allora la sinistra per difendersi da questi attacchi?
Accelerare il suo processo di unificazione. Tutti insieme dobbiamo portare avanti iniziative comuni. Ma è importante rivolgersi a tutti, dallo Sdi a Rifondazione comunista, senza esclusioni. Poi, se qualcuno si autoesclude, è un'altra questione.
Però sulla questione delle pensioni non siete stati uniti. Voi e i Verdi avete dato un giudizio positivo sull'accordo, Prc e Pdci si sono opposti.
E' vero, ma ora sul protocollo siamo uniti. Il passo successivo è quello di non ricompattarci solo sui No, ma proporre posizioni alternative nostre. Che devono essere il più possibile comuni, senza per questo rinunciare alle diverse identità che ognuno di noi ha. Io personalmente credo ancora che sia possibile rimanere in un ambito di socialismo europeo, rinnovato e nuovo, ma pur sempre socialismo.
Uno spazio lasciato libero dai Ds dopo la nascita del Pd. Qual è il tuo giudizio sul Pd?
Credo sia un partito neocentrista. Se rappresentasse davvero la sinistra riformista non lo avrei certo abbandonato. Non si ripresenta il problema delle due sinistre, perché il Pd non sarà di sinistra. E sarà, paradossalmente, il più vecchio nel panorama politico italiano perché si rifà a schemi degli anni '90: il neoliberismo, l'idea di un governo forte, presidenzialista. I dirigenti del partito democratico sono in ritardo. Anche quando parlano di democrazia che decide. Questa va costruita sul consenso, non con tentazioni presidenzialiste, che sono superate dai tempi.
A proposito di tempi, quando vedremo la sinistra unita? Qualcuno parla delle amministrative del prossimo anno.
Abituato al senato, dove si vive alla giornata, non ragiono in una dimensione temporale così lunga. Credo che già in autunno, con la discussione sulla finanziaria, ci sarà una sinsitra unita. Che deve smetterla di stare sulla difensiva e essere propositiva e aggressiva. Se altri nel centrosinistra credono di farci fuori, anche utilizzando il referendum sulla legge elettorale, si illudono.
il Riformista 28.7.07
Van Gogh, genio a prescindere (dalla sregolatezza)
Una nuova teoria contro il binomio creatività/follia
Secondo la psichiatra Annelore Homberg bisogna distinguere la dimensione artistica dalla malattia mentale
di Livia Profeti
Van Gogh muore il 29 luglio del 1890, due giorni dopo essersi sparato su un fianco. Tra gli ultimi dipinti quel Campo di grano con corvi dove un cielo tormentato e nero invade minaccioso il giallo solare di ben altri campi, dipinti solo un anno prima. Al fianco il fratello Theo, al quale era molto legato e che non gli sopravviverà a lungo, morendo anch’egli sei mesi dopo in una clinica psichiatrica, in preda a misteriosi sensi di colpa.
Figlio di un pastore protestante, Van Gogh diventa pittore relativamente tardi, a 26 anni, dopo il tentativo fallito di intraprendere la carriera ecclesiastica e la rottura del rapporto con i genitori. Theo, che si era schierato dalla sua parte, gli suggerì di guadagnarsi da vivere facendo il litografo o il bibliotecario, ma fortunatamente Vincent non accettò il consiglio. Si isolò per un anno nell’insopprimibile «necessità di conoscere più profondamente se stesso», racconta al fratello nel luglio 1880 in una lettera piena d’inquietudine: «se non faccio nulla, se non studio, se smetto di cercare, sono perduto (…) c’è qualcosa in me, ma cos’é? ». Troverà la risposta un mese dopo, quando, nel farsi inviare le stampe di Jean-François Millet per copiare i dipinti sui contadini, gli scriverà: «fino a quando riuscirò a lavorare supererò in un modo o nell’altro tutto quanto». Aveva compreso di essere un artista.
Nel 1885 con I mangiatori di patate il primo capolavoro, ma nel 1888 non aveva ancora venduto un solo quadro, conservava comunque un certo ottimismo che scomparirà invece a dicembre, dopo la lite con Paul Gauguin, l’automutilazione dell’orecchio sinistro e l’inizio della malattia, che lo accompagnerà a fasi alterne sino alla tragica fine.
La malattia del genio olandese è stata sempre presentata come un emblema del binomio arte e follia, tanto misterioso quanto indissolubile, e del prezzo che un genio pagherebbe per la propria “diversità”. Solo recentemente è stata osservata da un nuovo punto di vista secondo il quale gli artisti non sarebbero in realtà così diversi dagli altri, nel senso che la loro capacità corrisponde ad una condizione universale di creatività, esclusivamente e “sanamente” umana. Ne ha parlato la psichiatra Annelore Homberg in un recente intervento in Cina, presso la Facoltà di architettura e l’Accademia di arte contemporanea di Tianjin, riportato sul n. 2/07 de Il sogno della farfalla (NER).
Per la Homberg la dimensione artistica è un’esigenza che «esprime l’identità umana», tant’é che «non esiste consorzio umano in cui non si canti, non si faccia musica, non si balli o non si rappresenti con il corpo. In cui non si creino immagini: dipingendo, decorando, scolpendo o costruendo case». Un’identità che però in Occidente è stata ostacolata da 2500 anni di razionalismo, che con la filosofia greca ha dapprima condannato l’irrazionale come residuo animale e poi, con la fusione di elementi ebraico-cristiani, lo ha trasformato in nucleo congenito di malvagità, male originario e radicale. Un solco sul quale la psicanalisi, la psichiatria e la filosofia moderne si sono inserite senza grosse variazioni, associando ambiguamente l’irrazionale artistico al termine “follia” e finendo con il confondere la creatività umana con la malattia mentale.
Diversamente, gli artisti del secolo scorso hanno avuto il coraggio di fare una ricerca originale sulla creatività inconscia, abbandonando la rappresentazione della figura definita, troppo legata alla memoria cosciente. Una ricerca il cui pioniere è stato proprio Van Gogh, che nel dipingere faceva emergere l’immagine direttamente dal colore senza prima disegnarne i contorni. Secondo la Homberg - che confessa anche un proprio passato artistico - con l’olandese è venuta alla luce la possibilità di «ricreare e rappresentare, con tela e colori, una realtà umana molto nascosta e lontana nel tempo». Van Gogh, precisa la psichiatra tedesca facendo riferimento alla teoria fagioliana della nascita, «allude ad un’uguaglianza di tutti: perché tutti hanno un inizio della vita che si nutre di luce e colore». La sofferenza psichica o l’autodistruzione nelle quali spesso un artista cade fanno parte di una problematica molto complessa, ma non è a loro che si deve la riuscita di un’opera d’arte.
Laurence Madeline, ex curatrice del museo Picasso di Parigi, ha sostenuto che la vicenda di Van Gogh è stata sempre presente nello spagnolo, con una drammatica domanda esistenziale: «fino a che punto un artista deve mettere se stesso e la sua vita nella sua opera? Fino alla pazzia, fino alla morte? » (Van Gogh Picasso, Reliè). Un corpo a corpo con il suo geniale predecessore durato un’intera lunghissima vita, compiuta sul filo della regressione nel non cosciente forse ancora maggiore, senza però pagare alcun dazio a quella malattia nella quale era invece caduto il grande olandese. Un parallelo affascinante senza alcuna risposta facile, solo le due vicende umane di due geni straordinari, da studiare con calma, senza credenze di origine antica che negano all’arte il suo coraggioso contributo alla conoscenza.