sabato 18 novembre 2017

Repubblica 18.11.17
Il filosofo Maurizio Ferraris
Se umanesimo, calcoli e web vanno a braccetto
di Maurizio Ferraris

Non è più il tempo del puro specialismo, non ci sono più territori separati: assistiamo così a una rivoluzione

Ci sono molte ragioni per ricordare Galilei (anzi, Galileo: singolarmente, viene spesso chiamato per nome, come se chiamassimo Newton “Isacco”), e che non riguardano soltanto le sue scoperte. La prima è ovviamente la vicenda biografica dell’abiura, e la sua ricaduta letteraria, il Galileo (appunto, se almeno ci atteniamo alle traduzioni italiane) di Brecht. La seconda è il fatto che, insieme al suo allievo Torricelli, è citato da Kant nella Critica della ragion pura come campione della scienza moderna. La terza è che viene citato non solo nella storia della scienza, ma nella letteratura italiana, e a due titoli: come eroe di Foscolo, di Leopardi, di Nievo, di Ungaretti e di Calvino, e come autore accolto nei classici della nostra lingua. Senza dimenticare che nella seconda metà del Novecento, molto tempo dopo che gli esperimenti di Galilei sul moto del pendolo erano stati consegnati alla storia della scienza, trovarono una nuova vita in sede di fenomenologia della percezione per opera di un grande psicologo come Paolo Bozzi. Queste molte ragioni (e non sono nemmeno tutte: c’è anche il Galilei musico, il Galilei tecnologo, il Galilei critico d’arte) sembrano disegnare il ritratto di un “ uomo leonardesco”, ossia, in parole povere, di un pezzo da museo. Una volta, ai tempi di Galilei, si faceva scienza come lui. Ora, per fortuna, non più: essere scienziati significa essere specialisti, e nello specialismo rientra soprattutto l’antitesi tra scienza e umanesimo. Al punto che quando un chimico come Primo Levi o un ingegnere come Carlo Emilio Gadda si mettono a scrivere romanzi si ha la sensazione di avere a che fare con delle bizzarrie, quasi con delle deviazioni rispetto all’ordine naturale delle cose. Ma siamo sicuri che sia così? In effetti, non solo la scienza non è più quella del puro specialismo, ma nemmeno le discipline umanistiche sono più quelle di una volta: nobili cose vetuste. E, soprattutto, la scienza e l’umanesimo non sono più due territori separati, visto che condividono lo stesso spazio, il web e le tecnologie a esso correlate. Assistiamo così a una rivoluzione per cui “l’uomo leonardesco” e lo scienziato galileiano non sono più semplicemente cose del passato. La scienza deve rendersi comprensibile, perché la società è sempre meno disposta a deleghe in bianco agli esperti: dunque deve saper comunicare, persuadere, discutere fuori dallo specialismo, ossia avvicinarsi a quell’unione tra scienza e umanesimo che vigeva ai tempi di Galilei. D’altra parte, l’umanesimo – nel momento in cui la più grande produzione industriale dell’Occidente è il documento: libri, scritti, messaggi, immagini – non è più semplicemente l’Arcadia, ma è un elemento cruciale per la tecnologia e l’economia.
Insomma, molta acqua è passata sotto i ponti non solo da quando Galilei misurava la frequenza del moto pendolare con le frequenze del suo polso, ma anche da quando essere scienziato significava sapere tutto su pochissimo. Il risultato di queste trasformazioni, in larga parte silenziose, e di cui non abbiamo ancora preso le misure, è enorme. Basti pensare che mentre trent’anni fa una mostra su Galileo ci avrebbe mostrato il passato della scienza, quella di oggi ce ne indica piuttosto il futuro.
* Docente di Filosofia Teoretica all’università di Torino
Repubblica 18.11.17
A Padova si inaugura oggi una mostra sul padre del metodo sperimentale: l’inventore, il letterato ma anche l’uomo che ha cambiato la visione dell’universo
L’altro Galileo, scienza e arte
Dipinti, video, oggetti e disegni in un viaggio lungo sette secoli Dopo di lui il cielo non fu più lo stesso, passammo dagli astrologi agli astronomi
di Raffaella De Santis

C’è stato un momento a partire dal quale il cielo non è stato più lo stesso. La Luna, i pianeti, la via Lattea, il Sole sono cambiati da quando Galileo Galilei ha puntato il suo cannocchiale in alto e li ha guardati in un altro modo. In quell’esatto momento il cielo è passato dagli astrologi agli astronomi, dalle narrazioni simboliche all’osservazione scientifica. A Padova si inaugura oggi una mostra interamente dedicata a Galileo Galilei, curata da Giovanni Carlo Federico Villa e Stefan Weppelmann (“Rivoluzione Galileo. L’arte incontra la scienza”, Palazzo del Monte di Pietà, fino al 18 marzo), che ha al centro proprio il rapporto tra uomo e universo. La mostra è un viaggio nella storia dell’arte su Galileo, scienziato e letterato, matematico e artista, amante degli astri e di Ariosto. Dice Villa: «Galilei è l’ultimo degli uomini del Rinascimento e il primo della modernità». L’ingresso è affidato ai versi di Primo Levi dedicati al Sidereus Nuncius di Galilei: «Ho visto Venere bicorne / Navigare soave nel sereno / Ho visto valli e monti sulla Luna / E Saturno trigemino / Io, Galileo, primo fra gli umani…».
Il Sidereus Nuncius, che aprirà lo scontro con la Chiesa, era stato pubblicato nel 1610. Galileo, allora professore di matematica a Padova, dove insegnò per 18 anni, era stato il primo ad osservare con un cannocchiale da lui costruito la Luna. Per un anno aveva puntato il suo strumento sul cielo, scoprendo, tra le altre cose, che la Luna aveva monti, valli, asprezze, che la rendevano simile alla Terra.
La mostra è un percorso concettuale ed estetico dal cielo prima di Galileo al cielo dopo Galileo, dai testi astrologici di Igino e Sacrobosco ai disegni astronomici di Leonardo, dall’Origine della via Lattea di Rubens, in cui la galassia alla quale appartiene il sistema solare è ancora mitologicamente avvinta al seno di Era, agli acquerelli e agli schizzi dello stesso Galilei. È esposto per la prima volta anche il ritratto dello scienziato dipinto da Santi di Tito. Dopo aver puntato un cannocchiale sulla superficie lunare è difficile dipingere il satellite come si faceva prima. Con il passare del tempo pittori come Gaetano Previati ( La danza delle ore), Pellizza Da Volpedo ( Il sole nascente) o Giacomo Balla ( Mercurio passa davanti al sole) tentano di rendere con le immagini quello che aveva studiato Galileo. «Anche la scomposizione della luce attraverso la tecnica pittorica divisionista ha alle spalle l’osservazione scientifica galileiana», spiega Villa, professore di storia dell’arte a Bergamo e curatore negli anni di grandi mostre, tra le quali quelle su Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Tintoretto e Tiziano.
La mostra però non si ferma alle suggestioni del passato, ma spinge il gioco delle corrispondenze fino ai tempi più recenti, ai fumetti di Tintìn ( Objectif Lune e On a marché sur la lune) o al cortometraggio protofantascientifico del 1902 di Georges Mèliès intitolato Il viaggio nella Luna ( Le voyage dans la Lune), ispirato a Jules Verne, a H.G.Wells e alle incisioni con cui Gustavo Dorè nel 1868 aveva illustrato Le avventure del barone di Munchausen. Per arrivare infine al film Hugo Cabret di Martin Scorsese, in cui compare come personaggio lo stesso Méliès. E poi ci sono le opere di artisti contemporanei, da quelle spaziali di Anish Kapoor e Thomas Ruff fino all’americano Trevor Plagen, che fotografa scie luminose di rifiuti cosmici e ai video del tedesco Michael Najjar, tra cui Spacewalk, in cui un astronauta nuota nello spazio.
«Dopo Galileo anche lo spazio diventa sempre più prossimo, a portata di mano e noi ci scopriamo una piccola parte dell’universo. Oggi non siamo più noi ad osservare il cosmo, ma è il cosmo che osserva noi», dice Weppelmann, studioso ed esperto di arte italiana, che ha seguito da vicino la curatela della parte contemporanea della mostra. Non c’è da stupirsi. Dopo lo sbarco sulla Luna nel 1969, Italo Calvino, che considerava Galileo il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, scrisse: “Il fatto che siamo obbligati a ripensare la Luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in modo nuovo tante cose”. Parole che potrebbero fare da epigrafe alla mostra padovana.
Repubblica 18.11.17
Un male corrode la democrazia lo chiamano “lupaggine”
Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky definiscono in questo modo la corruzione in “Il legno storto della giustizia”, un libro in forma di dialogo
di Liana Milella

IL LIBRO Il legno storto della giustizia di Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky (Garzanti, pagg. 173, euro 16). Domenica Colombo presenta il libro a Bookcity (Milano, Palazzo Clerici, ore 18,30)

«Eretici». «Fuori linea ». «Sovversivi ». Da una parte il costituzionalista che preferisce essere chiamato solo “professore” sia che scriva di diritto, sia che fustighi duramente la politica, di destra e di sinistra, nelle sue dannose riforme. Dall’altra l’ex magistrato che ormai da dieci anni, dopo Mani pulite, percorre l’Italia spiegando ai ragazzi cos’è la Costituzione, convinto che da lì si debba partire per ristabilire la legalità.
Gustavo Zagrebelsky e Gherardo Colombo insieme, in un botta-risposta disteso lungo un intero libro — Il legno storto della giustizia (Garzanti) — uniti da un comune punto di partenza, proprio quell’articolo della nostra Carta per cui tutti i cittadini «hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge ». Grande voglia di democrazia dunque, ma funestata da un super veleno, radicato, diffuso, una gramigna inestirpabile, la corruzione.
Ve ne sono ormai tanti di libri che ne parlano, la descrivono, forniscono cifre, suggeriscono modelli, ipotizzano gli strumenti giusti per combatterla e sbarazzarsene. Ma la corruzione è lì, pronta a essere impietosamente svelata da un’indagine giudiziaria che puntualmente turba il pre e il post elezioni. Zagrebelsky e Colombo non hanno dubbi sulle ragioni della corruzione. Fotografano l’uomo «ingordo», colui che «riesce a impadronirsi del patrimonio di un altro e l’aggiunge al suo, così fa due, ed essendo cresciuto potrà mangiarne altri due, e così fa quattro, e poi otto, e poi sedici e così via». È il meccanismo della «lupaggine». È la voglia di potere. Di essere visibili e visti. Quella che fa dire alla gente che ti incontra «ti ho visto in televisione », come se quell’attimo di visibilità e notorietà potesse
La libertà rovesciata diventa schiavitù
rappresentare una svolta, l’uscita dall’anonimato, già di per sé l’affermazione di un potere.
Dall’ingordigia alla corruzione il passo è breve. Chiede Colombo: «L’ingordigia non è solo un male in sé, ma è anche una distorsione dell’anima?». Replica Zagrebelsky: «Non solo distorsione dell’anima, ma rovesciamento della libertà in servitù. Non c’è bisogno di essere un Rousseau per comprendere che il denaro che si possiede (ma anche il potere e la fama che si possiedono) è strumento di libertà, ma quello che si insegue è strumento di schiavitù». Colombo ricorda come, sulla facciata del palazzo di giustizia di Milano, sia scritto in rilievo «honeste vivere, alterum non laedere et suum cuique tribuere» (vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo), motto scritto negli anni Quaranta dello scorso secolo, evidentemente incompatibile con la teoria dell’ingordigia e della “lupaggine” che Colombo e Zagrebelsky descrivono.
Che cos’è, dunque, la corruzione? Peggio di un velenoso diserbante. «La chiamano corruzione perché corrode» scrive Zagrebelsky, che fotografa l’erosione distruttiva della democrazia, perché «la corruzione produce decomposizione dell’ordine legale e ne ricompone un altro, illegale, che tende a generalizzarsi e a stabilizzarsi crescendo e moltiplicandosi». La corruzione si legittima, diventa Stato, «perfino con le sue istituzioni ». Si parte con una semplice raccomandazione, si finisce per creare «un ordine diverso e alternativo». E la legge che fine ha fatto? Che frutti hanno avuto le pur tante inchieste della magistratura negli ultimi trent’anni? La legge sta lì, sul crinale tra «la pulsione predatoria e la difesa delle prede dai predatori». Ma Colombo, dopo una vita spesa a fare il pubblico ministero — sua, con Giuliano Turone, la scoperta della loggia P2 di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi — ammette che «in alcune zone d’Italia l’ordine e la sicurezza sono garantiti più dalla mafia che dallo Stato» e che durante Mani pulite «siamo stati a volte raggirati da chi, per proteggere il giro della corruzione, per garantire sicurezza alla massa di corrotti e corruttori, ci
Ma in fondo, che fine ha fatto la legge?
svelava il cinque per cento di quel che sapeva e copriva tutto il resto».
Forse, par di capire, il dialogo tra Zagrebelsky e Colombo non finisce qui, potrebbe proseguire ancora. Certo è che questo primo capitolo vive di pessimismo. Quello che fotografa l’Italia del «giro di potere», per usare la definizione di Zagrebelsky, che Colombo traduce con «cultura», il giro di potere della corruzione, la cultura della corruzione. Per rappresentarla con un esempio, è l’Italia del vigile urbano che tutti i giorni beve il caffè gratis al bar e non mette la multa alle auto piazzate lì davanti in divieto di sosta. L’Italia di Pasolini del 14 novembre 1974: «Io so. Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi ». L’Italia in cui il potere, di fronte alle accuse, replica: «Fuori i nomi».
Repubblica 18.11.17
Non solo ricercatori in fuga: preoccupa di più che nei nostri atenei non vuole venire nessuno
Tre regolette per attirare cervelli dall’estero
La mobilità nel Medio Evo era la regola: Anselmo d’Aosta a Bec e Canterbury, Tommaso d’Aquino a Colonia e a Parigi
Anticipiamo l’intervento di Maurizio Ferraris in chiusura del convegno “ Knowledge Based Migration”, oggi a Pavia, Associazione Italiana Alexander von Humboldt
di Maurizio Ferraris

Nel 2001 l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani pubblicava “Cervelli in fuga. Storie di menti italiane fuggite all’estero” (a cura di Augusto Palombini, Avverbi Editore), e l’epoca era caratterizzata da una grandissima enfasi sulla perdita di risorse che il nostro paese aveva a causa di queste fughe di persone altamente qualificate. Recensendo quel libro feci notare che il vero problema
non erano i cervelli in fuga, bensì quelli in gabbia, e quattro anni dopo, dal medesimo editore, con il medesimo curatore, usciva
Cervelli in Gabbia. Disavventure e peripezie dei ricercatori in Italia, dove si narrava delle disgrazie degli italiani rimasti in Italia. La gabbia, però, non è solo uno spazio di costrizione e di illibertà, che impedisce di uscire. È anche un ambiente protettivo che impedisce di entrare, come quelle gabbie di cui si servono i subacquei quando hanno a che fare con gli squali. Questa protezione, nel campo della cultura, è la cosa peggiore che possa capitare. Questa chiusura esiste, eccome, nella nostra università: l’Italia importa calciatori, allenatori, sarti e manager, ma non professori, limitandosi a esportarli. Questa circostanza non deve essere oggetto di futile orgoglio, perché significa che i ricercatori che produciamo sono bravi, ma l’università (e il sistema paese in cui si inserisce) è poco attrattiva, il che – in un settore come il sapere, in cui lo scambio è tutto – costituisce una grande limitazione.
La decadenza italiana nell’Ottocento è provata dal fatto che Nietzsche e Brentano ci vennero, ma solo in pensione (mentre Nietzsche nel periodo attivo era stato un cervello in fuga dalla Germania alla Svizzera). Le cose non sono andate molto diversamente nel Novecento: Karl Löwith è venuto a Roma negli anni Trenta, ma per via delle leggi razziali in Germania, e prima che le leggi razziali italiane lo costringessero a emigrare in Giappone. Come pensare a un’università senza cervelli in gabbia – dove le gabbie sono linguistiche, disciplinari, salariali, e culturali?
Le tre I di berlusconiana memoria – inglese, internet, impresa – si sono rivelate radicalmente insufficienti, perché proponevano un confronto al ribasso tra l’università e il mondo esterno, quasi che quest’ultima dovesse correre dietro alle novità del mondo, mentre un’università senza gabbie dovrebbe essere piuttosto una avanguardia, che anticipa le dinamiche sociali invece che inseguirle. Forse ci sono tre I più sostanziose: internazionalità, interdisciplinarità, inventività.
Internazionalità. La mobilità dovrebbe essere la norma nelle università. Essere un cervello in fuga nel Medio Evo era la regola: Anselmo d’Aosta a Bec e Canterbury, Tommaso d’Aquino a Colonia e a Parigi (beneficiando poi di un rientro dei cervelli a Napoli, nella nuova università voluta da Federico II). E il cosmopolitismo dei docenti corrispondeva a un cosmopolitismo degli studenti, come testimoniano le vie degli irlandesi o dei catalani nel quartiere latino di Parigi. Questa situazione si è mantenuta in vita in America e in Inghilterra, anche grazie alla fuga dei cervelli dalla Germania degli anni Trenta. Ma è interessante notare che oggi in Germania è quasi di prammatica avere un docente americano in un dipartimento di filosofia, per non parlare delle scienze.
E che in Francia una componente impressionantemente alta di docenti e ricercatori è composta da italiani. Persino un paese piccolo e apparentemente marginale come il Portogallo è molto più attrattivo dell’Italia. In Italia l’Erasmus ha fatto molto, e la mobilità, che già adesso è molto più grande che un tempo, deve essere potenziata, non solo tra gli studenti (dove si sono fatti enormi progressi rispetto al passato) ma tra i docenti (dove invece si è tornati molto indietro, perdendo qualsiasi mobilità). Ma come riuscire ad attrarre professori dall’estero? Una buona via sembra essere l’interdisciplinarità.
Interdisciplinarità. In Italia ci sono troppe discipline, molte delle quali inutili e ridondanti. In questo senso, ridisegnare i rapporti tra discipline sta al centro del progetto che stiamo elaborando all’università di Torino: un MIT per le scienze umane che alzi la qualità della ricerca rendendola così attrattiva per gli apporti dall’estero, attingendo ai vincitori di progetti competitivi. Abbiamo di fronte a noi una industria 4.0. Questa circostanza suggerisce che la via che si apre alle discipline umanistiche non è un ritorno al passato, ma piuttosto un ritorno al futuro: è necessario pensare delle humanities 4.0 capaci di interagire con una industria 4.0 e con una scienza 4.0, proprio come, alla corte di Federico II, la ricerca scientifica più avanzata si incontrava con la strategia politica, e i funzionari della cancelleria reale diedero vita anche a quell’altra grande scoperta tecnologica che è il sonetto.
L’industria insomma non è più quella di una volta, ha molto più bisogno dell’università e può trarre un grande vantaggio dal formulare delle azioni comuni con l’università. In un recente incontro il presidente della Crui, Manfredi, ha giustamente osservato che i nostri stipendi non sono attrattivi. È dunque necessario che si creino laboratori di ricerca che ricevono finanziamenti regionali e privati per rendere più interessante a un docente straniero l’idea di venire in Italia, senza con questo creare ingiustizie con i docenti italiani. È a questo punto che diventa cruciale la terza parola, e cioè l’inventività.
Inventività. Cartesio diceva che in filosofia nulla è più importante dell’essere innovatore, e questo vale per l’università, che non deve presentarsi come il vecchio che arranca dietro al nuovo, ma come la sede in cui lo si inventa (ben sapendo che il modo migliore per inventare è ricordarsi del passato proiettandosi verso il futuro). Ma arrancare è facile, inventare è difficile, ed è per questo che occorre la meritocrazia. Roberto Saviano ha scritto che la sola organizzazione meritocratica in Italia è la ‘ndrangheta. Se la fortuna e la buona volontà ci assistono, non è escluso che se ne aggiunga una seconda, l’università. Questo può apparire paradossale, visto che l’università, nella percezione pubblica, è associata a una serie di neologismi: parentopoli, esamificio, fabbrica di disoccupati, su su sino ai “baroni”. Come uscire dall’impasse? Rispondendo a criteri semplici. Gli abilitati alla docenza universitaria sono tutti uguali? No.
Siamo continuamente giudicati, con criteri che potrebbero essere migliori, ma che intanto ci sono. Bisogna migliorare i criteri, ma, sia sulla ricerca sia sulla didattica, sarebbe meglio che fossero pubblici, mentre ora, per un malinteso senso della privacy, vengono comunicati solo agli interessati. Così come sarebbe opportuno introdurre delle valutazioni ex post, per rimediare a errori di reclutamento che altrimenti ci si porta dietro per tutta la vita. È possibile che a questo punto qualcuno (e mi ci metto io per primo) si senta inadeguato, che non è un sentimento bellissimo, ma è comunque preferibile al sentirsi parte di una casta arretrata e screditata.
Corriere 18.11.17
L’appuntamento
Galilei e Merisi, stesso destino. Con papa Urbano VIII l’illusione
di una libertà antidogmatica
A Padova una mostra sullo scienziato mette al centro la costante ricerca della verità, che influenzò pure molti artisti. Ma poi, nella Roma del potere, trionfò l’Inquisizione
primavera bruciata
di Francesca Bonazzoli


Il 6 agosto 1623, dopo 37 scrutini, Maffeo Barberini fu eletto papa e divenne Urbano VIII. A Roma, la comunità che nel breve passaggio dal Cinquecento al Seicento stava forgiando il pensiero moderno in concomitanza con ciò che avveniva nelle cerchie artistiche e intellettuali d’Europa, si riscosse ed esultò. Era arrivato il momento sospirato per uscire dalla buia cappa della Controriforma con la sua ossessione per i dogmi, la persecuzione degli eretici, la censura dei testi non conformi alle linee stabilite dal Concilio di Trento.
Da giovane, Maffeo aveva condiviso le amicizie di coloro che si erano trovati sul confine dell’eresia, come il laico libertino Giulio Mancini, diventato suo medico personale dopo una carriera iniziata negli stessi anni di Caravaggio, di cui scrisse poi la biografia. Consumato libertino era anche il poeta Giambattista Marino, amico di Guidobaldo Del Monte, fratello del cardinale Francesco Maria, protettore del Caravaggio. Sempre da cardinale, Maffeo aveva chiamato a Roma Athanasius Kircher, offrendogli un insegnamento di scienze matematiche al Collegio Romano e aveva sostenuto Galileo e l’Accademia dei Lincei.
Insomma il giovane Barberini aveva incoraggiato proprio quell’élite antidogmatica che, divenuto papa, si preoccupò di stroncare. Con una virata a 360 gradi Urbano VIII consegnò nelle mani dell’Inquisizione Giambattista Marino e Galileo e impresse all’arte un nuovo stile che cancellò quello del Caravaggio, da cui si era fatto ritrarre più volte.
Trent’anni prima, la Roma di Clemente VIII, eletto nel 1592, era stata scenario di oltre una trentina di roghi, compreso quello di Giordano Bruno. Nella città dove il papa era impegnato a debellare sodomia, prostituzione, gioco delle carte e dei dadi (proprio gli stessi soggetti dei quadri con cui esordì Caravaggio), era pericoloso pensare e parlare. Eppure il cardinale Francesco Maria Del Monte, diplomatico consumato che esercitava in sommo grado l’arte della discrezione, riuscì ad allestire una distilleria alchemica e fu il primo a possedere il nuovo telescopio dell’amico Galileo di cui prese le difese durante i guai con l’Inquisizione. Lo scienziato era spesso in visita nel suo palazzo Madama proprio quando vi dimorava Caravaggio il quale, riportano le carte giudiziarie, in una notte del 1598 fu arrestato e perquisito: «portava la spada senza licentia, et un paro de compassi», forse quelli che Galileo stava mettendo a punto con Guidobaldo Del Monte, matematico e fisico, che assieme al fratello Francesco Maria aveva ottenuto una cattedra per Galileo. Caravaggio entrava a pieno titolo in questa compagnia che privilegiava la conoscenza empirica alle prescrizioni del cardinale Paleotti sulle immagini, indicate come strumento di virtuosa edificazione.
Negli anni i cui pittori si esercitavano a copiare santi che alzavano languidi gli occhi al cielo prima di venire martirizzati in pose aggraziate, Caravaggio dipingeva dal vivo la prostituta Lena seguendo, come diceva Galileo per le sue osservazioni dei cieli, «quello che l’esperienza e il senso ci dimostra». Anche lo scienziato detestava l’artificiosità del Manierismo allora in voga, le allegorie, le fiabe, l’anatomia così idealizzata da stravolgere i corpi in allungamenti tanto estenuati quanto fasulli.
Quella cerchia dove gli interessi per la musica, la matematica, la fisica e l’arte facevano un tutt’uno, voleva ribaltare la dittatura del dogma con la forza della verità. Con l’elezione del Barberini sembrò che la rivoluzione potesse compiersi.
E invece, già all’inizio dei Trenta del Seicento, tutto era cambiato e anche la scena artistica appariva irriconoscibile. Trionfava la nuova era della propaganda, e questa volta legava intimamente la religione al potere temporale. Il cardinale che si era fatto ritrarre da Caravaggio era diventato il papa promotore del Barocco. Ogni indizio di verità fu cancellato dall’arte che da allora divenne sinonimo di finzione, spettacolo che stordisce e inganna i sensi, come il baldacchino commissionato al Bernini. Nel volgere di pochi decenni Roma si era trasformata nella capitale dell’immaginazione. La breve stagione della realtà e della scienza migrava nel Nord Europa.
Corriere 18.11.17
«In rete rimonta l’ignoranza E non possiamo più tacere»
Burioni: la scienza merita fiducia perché si mette in discussione
di Roberta Scorranese

Professor Burioni, a Padova l’arte rende omaggio a Galileo ma oggi c’è ancora chi pensa che la Terra sia piatta. Su Facebook ci sono gruppi di discussione con migliaia di «like». Che cosa sta succedendo alla scienza?
«C’è una miscela di ignoranza e arroganza, alimentata dalle interazioni sui social network. Molto semplicemente, se fino a dieci anni fa qualcuno se ne usciva con questa affermazione, veniva ignorato. Oggi viene rilanciato! Ognuno di loro dice l’esatto contrario di quello che dice la scienza e ognuno di loro si sente un nuovo Galileo. Ma non basta dire il contrario di quello che dicono tutti per essere Galileo. Ecco perché oggi la responsabilità di noi scienziati è maggiore di ieri».
Roberto Burioni, 55 anni, ordinario di microbiologia e virologia presso l’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha da poco pubblicato La congiura dei somari (Rizzoli), dove denuncia il moderno oscurantismo grazie al quale migliaia di persone diffidano dei vaccini o delle ricerche scientifiche. Dalla presunta pericolosità delle vaccinazioni alla «teoria» secondo la quale l’Aids è una truffa, fino alla fondatezza «scientifica» dell’omeopatia.
Burioni, perché dice che oggi il ruolo di scienziati come lei è più rilevante?
«Perché non dobbiamo rimanere in silenzio quando qualcuno mette in discussione verità accertate dalla scienza e per giunta senza avere un minimo di conoscenza dei fatti».
Lei si espone molto.
«Non dobbiamo evitare il dibattito, ma, al contrario, spiegare, far capire che non sono i singoli scienziati a dover essere difesi ma la Scienza con la maiuscola. Che, come ci ha insegnato Galileo, non ha bisogno di fede , ma della fiducia dell’intera comunità».
Di recente la procura di Trani ha chiuso un’inchiesta con la quale ha accertato che non vi è correlazione tra vaccini e autismo. Ma serviva la magistratura?
«Queste risposte deve darle la comunità scientifica. Che da tempo ha confermato quello che la procura ha accertato».
Ma perché allora questo scetticismo così diffuso da rasentare l’avversione alla scienza e alla ricerca?
«Perché fino agli anni Cinquanta, purtroppo, ancora si potevano vedere in giro persone devastate dalla poliomielite (una delle tante malattie sconfitte grazie ai vaccini, ndr ). Tanta gente ha la memoria corta. Non ricorda la fame, le malattie, la guerra».
La maggior parte degli scettici dà la colpa ai cosiddetti poteri forti, a un generico «le multinazionali».
«Sì, dicono che le vaccinazioni ingrassano le multinazionali, però poi quando vanno dal dentista si fanno fare l’anestetico senza battere ciglio. Se si è coerenti, una volta seduti dal dentista si deve rifiutare l’anestetico sviluppato e validato dalla scienza e accettare mezz’ora di atroci dolori per la cura e l’otturazione».
Qual è l’errore più comune nato dallo scetticismo?
«La tendenza a trarre conclusioni a partire da dati che appaiono in piccole popolazioni e che, a un’analisi più approfondita, si rivelano essere irrilevanti e sono solo normali variazioni statistiche».
Nel suo libro lei dice che la scienza non è democratica.
«Ogni giorno, centinaia di scienziati si impegnano con fatica per dimostrare che quello che si sa è incompleto, imperfetto, persino sbagliato. Ma è per questo che bisogna avere fiducia nella scienza: perché, galileianamente , si mette in discussione finché non trova la strada giusta».
Lei riceve ancora minacce e insulti in rete?
«Certo. E solo perché spiego l’importanza delle vaccinazioni oggi, pensi un po’».
Ma non sempre è colpa di quelli che lei chiama «somari»: in molte farmacie i prodotti omeopatici sono disposti vicino dai farmaci.
«E questo crea confusione. A me non importa se uno si cura le malattie con pelle di pipistrello o diavolerie. Ma nelle farmacie e, in generale, nei luoghi pubblici, la scienza va separata dalla superstizione» .
il manifesto Alias 18.11.17
Majakovskij e Gianni Toti
Il convegno. La Trilogia realizzata per la sperimentazione Rai e mai programmata è presentata giovedì 23 novembre a Roma Tre in occasione della manifestazione "Il progetto e le forme di un cinema politico a cento anni dalla rivoluzione d'ottobre"
di Sandra Lischi

«L’io è poco per me – e per voi?». È uno dei versi di Majakovskij che Gianni Toti, poetronico futuriano, cita negli immaginifici titoli di testa del suo videopoema Incatenata alla pellicola, 1983. L’opera fa parte della «Trilogia majakovskiana» realizzata da Toti per la Sperimentazione Programmi della RAI: un omaggio al poeta, a Lili Brik, al cinema, alle utopie rivoluzionarie dell’epoca, in una fervida e struggente mescolanza di alterità non solo politiche, di pensiero, di sguardo ma anche di modi di vita e d’amore.
L’amore che «è al cuore di tutte le cose», l’amore come «libero confronto col mondo intero», come scriveva Vladimir appunto a Lili nel 1923. La storia di Lili Brik (1891-1978), del marito Osip, di Majakovskij, la storia di quelle amicizie, di quell’amore per la vita e per la rivoluzione, e anche la storia di Lili e della sorella Elsa Triolet, che visse a Parigi e fu scrittrice e traduttrice oltre che la moglie di Aragon, sono affascinanti, ricche di spunti, di evocazioni, di cultura e di passione politica nel senso più nobile alto ed esistenziale.
Per Toti fanno parte di un universo di riferimento costante, con Velimir Chlébnikov e il suo «linguaggio transmentale», Dziga Vertov, Ejzenštejn; quanto a Majakovskij, giganteggia anche letteralmente in suoi lavori successivi, come Planetopolis, del 1994, con la sua statua nell’omonima piazza di Mosca che oscilla su una ininterrotta città che si stende dagli USA all’ex-URSS. Del resto Planetopolis si apre con una dedica a Vertov e con la discesa su un pianeta abitato oggi dalle masse di Ottobre di Ejzenštejn che «avantindietreggiano».
Toti, videoartista e coSmunista, come si definiva ma anche poeta, saggista, scrittore, traduttore, giornalista, era un profondo conoscitore delle avanguardie russe e poi sovietiche degli anni Venti. Ma aveva anche conosciuto personalmente Lili Brik: e una Lili Brik già ottantenne gli aveva donato a Mosca nel 1970 un frammento di Sakovannaja filmoi (Incatenata alla pellicola, appunto), film del 1918 con la regia di Nikandr Turkin, interpretato da lei e da Majakovskij, che ne aveva anche realizzato il manifesto, con un disegno che ritraeva la protagonista avvolta dalle spirali del nastro di pellicola. Toti ha raccontato questa storia in quella bellissima rivista dalla copertina cartonata che era «Carte Segrete» (nel gennaio-marzo 1971): «neppure sequenze, scrive, solo fotogrammi ricuciti adesso con filo di memoria e pazienza…chi ha visto, chi vedrà quei ‘resti’ che non sono silenziosi?» si chiedeva.
La risposta l’ha poi trovata lui stesso decidendo, molti anni dopo, di rimetter mano a quel frammento, di dilatarlo in una sorta di blow-up amoroso, di indagine poetica e antropologica, politica e videocinematografica insieme, nel confronto fra epoche e sogni ma anche fra tecnologie: cine-occhio e video-occhio.
Il frammento era scampato a un incendio alla Neptun Film: due minuti e quaranta secondi in cui vediamo brevi scene fra i due, il cui senso è ricostruibile solo a partire dalla storia, quella di un pittore che si innamora della protagonista di un film, una ballerina in tutù che per amore esce dallo schermo ed entra nel mondo reale.
Uno dei taschinabili scritti da Toti, edito da Fahrenheit 451, nel 1994, Lili Brik e Majakovskij, La leggenda di Cinelandia, contiene anche la simulata corrispondenza ironicamente polemica di Toti con il Woody Allen di The Purple Rose of Cairo, del 1985: storie di uscite dagli schermi!
Majakovskij aveva poi rimesso mano a quel film che non lo soddisfaceva, riscrivendone la sceneggiatura, nel 1926. Il film, Cuore di cinema, non fu mai girato. Toti nella sua Trilogia per la RAI narra in tre modi diversi questo concatenarsi di storie: la prima parte, Valeriascopia o dell’Ammagliatrice, rimette in scena il film del 1918 con una danzatrice, Valeria Magli, e una coreografia sperimentale arricchita dagli effetti elettronici; la terza, Cuor di Tèlema (1984), girato al Museo del cinema di Torino, e con la collaborazione della Cineteca di Bologna, riprende il progetto di Majakovskij, rileggendolo fra documento (si sente anche la voce di Majakovskij), finzione con attori, poesia, videoarte.
Ma è in Incatenata alla pellicola, che dilata quei due minuti e quaranta secondi fino a un’ora, che sboccia lo splendore dei primi piani ulteriormente ingranditi e sgranati in video, il rallentamento di sguardi e gesti, e germogliano gli occhi enormi di Lili e lo sguardo tenero e severo di Volodia, le mani, il bianco del tutù, il cravattino, la nostalgia dello schermo. Con tocchi di colore elettronico, con gli echi e le ripetizioni, con gli sdoppiamenti e con le musiche, con la voce di Toti che recita i versi di Majakovskij e i propri, in cui si cantano l’incanto e il disincanto, le utopie e le disillusioni. «Il vecchio sole rosso domani ancora è non ancora?…Perché i sogni dei poeti restano sogni…e noi sogniamo ancora gli stessi sogni ma noi adesso sappiamo che il sole rosso è solo un trucco elettronico…il sole rosso è solo un trucco elettronico?»
La «Trilogia majakovskiana», realizzata in parte grazie alle attrezzature e con i tecnici della sede Rai di Milano, è illuminante non solo nel percorso di Gianni Toti ma nel contesto delle arti elettroniche in Italia: l’autore vi dispiega una serie di effetti fino ad allora non esplorati compiutamente (o del tutto ignoti) in ambito televisivo, dal mirror allo strobo, dal mosaico all’intarsio a scontornamenti, coloriture, rovesciamenti; insieme a effetti sonori di alterazione, ma ricorrendo anche allo stop-motion di tradizione cinematografica e a scritte sull’immagine. L’idea di Toti è chiaramente quella di rileggere e ricreare le utopie linguistiche e poetico-politiche delle avanguardie storiche con la complessità consentita dalle incessanti metamorfosi elettroniche, più versatili e caleidoscopiche di quelle cinematografiche (pure amatissime: l’opera di Toti è fittamente intessuta di richiami al cinema di ogni epoca), ricche di possibilità di intrecci, confronti, conflitti, simultaneità.
Linguaggi transmentali come lo Zaùm di Chlébnikov, poeta a cui Toti dedicherà il suo ultimo lavoro prodotto dalla RAI, Squeezangezaùm, 1989, titolo di sapore futurista che assembla richiami a Chlébnikov e nomi di effetti elettronici, come appunto lo Squeezoom. «Lirica era l’esistenza ancora, nessuno era autore di niente e tutti autori di tutto» dice la voce di Gianni Toti in Incatenata alla pellicola. Fra quelle utopie c’era anche quella di un cinema che riattivasse e capovolgesse sguardi e pensieri contro la logica dello spettacolo e del profitto («il cinema è un atleta», scriveva Majakovskij) e poi quella di un video (il cuore di Tèlema, appunto) capace di raccoglierne le eredità. Ha funzionato, il sole elettronico?
La RAI non ha mai mandato in onda la «Trilogia majakovskiana», né gli altri lavori di Toti. Tanto che lui negava, polemicamente, di aver mai lavorato per la Sperimentazione Programmi.
E intanto Majakovskij e Lili Brik nei videopoemi a loro dedicati si guardano all’infinito, «verso quell’avvenire, dice ancora Toti, che non può dirsi avvenuto… verso l’in-avvenuto…»
il manifesto Alias 18.11.17
Undici tesi sul comunismo possibile
Il documento. La sintesi della "Conferenza di Roma" sul comunismo la cui potenza programmatica è stata raccolta dal collettivo C17 in undici tesi
Collettivo C17

1.Spettro
Dove è al potere il Partito Comunista, il comunismo è scomparso da un pezzo. Vigono mercato e sfruttamento, ma senza parlamenti e libera opinione.
Il comunismo è una storia degenerata, sconfitta, rimossa; in Europa e nel mondo.
Raramente capita che una sconfitta sia ancora uno spettro, abbia la capacità di spaventare ancora: è il caso, raro, del comunismo. La parola è impronunciabile, il senso o il progetto difficili da chiarire.
Il nemico, però, continua ad avere le idee chiare; sicuramente non è terrorizzato come nel 1848, e di certo ha imparato a prevenire. Il capitalismo contemporaneo spaventa per non essere spaventato.
Sappiamo, da Hobbes in poi, che la paura costituisce il sovrano: oggi la paura, il ricatto permanente delle vite precarie, rendono possibile lo sfruttamento.
Ma se così è, c’è qualcosa che non torna: le vite, pure precarie e sempre al lavoro, sono un pericolo, oltre a essere in pericolo.
Comunismo è il nome di questa eccedenza che, nonostante tutto, continua a far paura.
La vittoria del capitale, come una nemesi, non smette di produrre questa eccedenza (di relazioni, mobilità, forza-invenzione, cooperazione produttiva, ecc.).
La vittoria del capitale, come una nemesi, non smette di produrre le condizioni oggettive del comunismo: la riduzione del «lavoro necessario» alla riproduzione sociale della forza-lavoro.
2. Neoliberalismo
«Capitalizzare la rivoluzione»: dal 1968 in poi, è il segno della grande trasformazione nella quale siamo immersi.
Se con le lotte la vita esce dai cardini e dalla fabbrica, occorre inseguirla ovunque, mettere a valore i suoi tratti unici e irripetibili, fare affari con i gusti estetici e le condotte di ciascuno, trasformare il macchinario in protesi del «cervello sociale» (le tecnologie digitali e della comunicazione: dal Pc al Web, dagli Smart Phone ai Social Network) e il general intellect in algoritmo.
Questo è accaduto, mentre correva veloce la globalizzazione e una violenta accumulazione investiva l’Est e il Sud del mondo.
Pensare i due processi separatamente, o in opposizione, è un errore gravido di conseguenze politiche nefaste: la globalizzazione neoliberale è una trama dalla temporalità multipla ed eterogenea; uno spazio comune quanto segmentato. Capiamo la Silicon Valley con le zone economiche speciali della Cina o della Polonia, e viceversa.
Il neoliberalismo, più precisamente, è la contro-rivoluzione, la risposta capitalistica al 1968, evento di lotta – dalla Sorbona al Vietnam, da Berkeley a Praga, da Roma a Tokyo – compiutamente globale.
Pensare la globalizzazione senza aver capito le spinte decoloniali significa non pensarla affatto.
Soffermarsi sull’economia della conoscenza senza dedicare attenzione ai movimenti studenteschi o a quelli operai del rifiuto del lavoro (ripetitivo) vuol dire consegnare l’innovazione tecnologica, interamente, al comando capitalistico.
Il neoliberalismo ha riproposto – su scala globale, con diverse intensità, rendendoli cronici – fenomeni di accumulazione originaria: lo spossessamento, a mezzo di land grabbing, di milioni di donne e di uomini come la recinzione dei saperi, a mezzo dei brevetti; l’erosione del salario indiretto, attraverso fiscalità regressiva e tagli al welfare, come la compressione di quello diretto, con i processi di precarizzazione del lavoro; la carcerazione di massa dei poveri come l’uso della forza-lavoro migrante per destabilizzare le rigidità salariali; il sodalizio, sempre moralmente condannato, tra economia criminale e affari “puliti”.
Impoverimento, ma accesso generalizzato ai consumi, alle tecnologie; rinnovata mobilità e diffusione dei muri; esaltazione delle differenze e radicalizzazione dello sfruttamento: il neoliberalismo è la combinazione, sempre ri-attivata, di questi processi.
3. Crisi
Dicono gli economisti che la crisi nella quale da dieci anni continuiamo a sprofondare è una Grande depressione.
Grande, come quella degli anni Settanta dell’Ottocento, come quella esplosa nel 1929 e sopita, solo dopo diverse decine di milioni di morti, nel 1945. Riprendendo il lessico degli anni Trenta (del Novecento), alcuni economisti parlano di «stagnazione secolare»: decenni di crescita bassa, salari bassi, disoccupazione alta, povertà. C’è di che sperare…
La crisi, in questo senso, non è più solo una malattia, ma la “cura” ogni giorno adottata perché il morbo divampi.
La domanda si impone: perché, se il capitalismo ha vinto ovunque, c’è bisogno della crisi per governare il mondo?
Una prima risposta ci indica che il mondo è tutt’altro che governato: l’egemonia americana tramonta; un nuovo multipolarismo si presenta minaccioso; la guerra uccide in periferia e al centro, e si fa con le armi, gli attentati, la moneta, il commercio.
Una seconda risposta, invece, ci dice che la crisi è una forma di governo della forza-lavoro. Proprio perché la vittoria del capitale non smette di produrre, suo malgrado, le condizioni oggettive del comunismo, allora il comando del capitale ripristina senza sosta quel portato di violenza extra-economica che ne aveva caratterizzato le origini a partire dal XVI secolo.
Tanto più il robot si sostituisce al lavoro umano, tanto meno il capitalismo può permettersi giustizia sociale e democrazia.
Tanto più i soggetti incorporano strumenti produttivi, tanto più sarà necessario demoralizzarli, impoverirli, disciplinarli.
La gestione neoliberale della crisi connette il controllo delle condotte con il rilancio delle discipline, siano esse la coazione al lavoro, la violenza maschile contro le donne, la repressione dei poveri e dei migranti (dall’internamento alle espulsioni).
Il volto più noto del capitalismo-crisi è Donald Trump: miliardario vicino alla Goldman Sachs, dunque a Wall Street, non disdegna, anzi difende e quando può fomenta la destra nazionalista e razzista. Il neoliberalismo, che per anni ha fatto rima con globalizzazione, rafforza il suo polo aggressivo e autoritario; lo spazio della finanza si sposa con quello dei muri, della discriminazione, della patria.
Di più: nella crisi, riemerge l’arcaico della Sovranità, la guerra civile e quella contro i poveri.
In questo scenario, se la sinistra neoliberale – quella in voga ai tempi di Clinton, Blair e Schröder – rattrappisce quasi ovunque, la destra (neoliberale) si riscopre sciovinista e non esclude retoriche fasciste.
4. Proletariato
Se vale quanto scritto fin qui, non è più possibile definizione di proletariato che non tenga in conto l’ibridazione di produzione e riproduzione, la globalizzazione (e la sua crisi), l’eterogeneità dei tempi storici del capitale («contemporaneità del non contemporaneo»).
Il lavoro, infatti, fatica a distinguersi dalla vita; non tanto e non solo perché tempo di lavoro e tempo di vita tendono a coincidere, ma anche e soprattutto perché per lavorare e produrre plusvalore è fondamentale attingere a quelle risorse affettive, relazionali, simboliche che articolano la vita stessa e la sua riproduzione.
Così come è impossibile descrivere i soggetti produttivi senza mettere al centro la mobilità; anche quando quest’ultima viene impedita o viene largamente utilizzata per favorire nuovi processi di gerarchizzazione del mercato del lavoro.
Ancora: in uno stesso territorio possono coabitare imprese hi-tech, caporalato e semi-schiavitù nella produzione agricola, lavoro di cura sotto-pagato, economia informale e criminale. Proletariato dunque deve sempre dirsi attraverso tre sensi: differenza sessuata; dimensione transnazionale (nuovo regime migratorio; gerarchie secondo la linea del colore); moltiplicazione del lavoro (e delle forme dello sfruttamento).
La classe operaia bianca, “maschile troppo maschile”, non è mai stata tutto il proletariato.
La Rivoluzione russa, per esempio, inizia con lo Sciopero delle donne, l’8 marzo del 1917 (il 22 febbraio nel calendario giuliano).
Il proletariato, che evidentemente comprende anche la classe operaia globale (con maggiore attenzione alla Cina o al Bangladesh, ecc.), oggi più che mai è donna, è giovane scolarizzato, è nero, è migrante.
Nell’intersezione di questi elementi, poi, ritroviamo i soggetti sfruttati della scena contemporanea. Un proletariato che è maggioranza, ma è fatto di minoranze, un tessuto ibrido che sfugge alle identità.
5. Lotta di classe
Quando produzione e riproduzione si intrecciano, fino spesso a confondersi, non c’è lotta di classe che non sia anche conflitto per l’affermazione e la difesa delle forme di vita.
La lotta economica, quella demandata storicamente al sindacato, perde i suoi confini, esonda continuamente sul terreno della sessualità, della formazione, del diritto alla città, dell’antirazzismo, della comunicazione.
In questo senso, viene meno la tradizionale distinzione tra lotte economiche e lotte politiche; semmai assistiamo a processi di politicizzazione che insistono e si dislocano tanto nella scena produttiva quanto nella cooperazione sociale, nelle condotte come nella difesa dei commons, nell’intimità come nelle relazioni.
Lotta di classe è tanto lo Sciopero globale delle donne quanto Gezi Park, Black Lives Matter quanto gli scontri – aspri e duraturi – per gli aumenti salariali in Cina e in India, o i primi scioperi dei lavoratori Uber e Foodora.
Come le donne in particolare ci hanno saputo mostrare, lo Sciopero non è più uno strumento esclusivo dei sindacati, ma una pratica che innerva le lotte contro la violenza patriarcale, quella contro lo sfruttamento e la disparità salariale, quella per la riappropriazione democratica del welfare, per i diritti sociali e per quelli civili.
Sciopero, dopo l’8 marzo globale, è (finalmente) processo di politicizzazione.
Negli esempi citati, i momenti che ancora apparivano disposti in sequenza nel Manifesto di Marx ed Engels – «collisione» tra proletariato locale e singolo capitalista, «coalizione» degli operai, lotta politica – sono da subito compresenti e conquistano terreni prima considerati estranei alla lotta di classe.
Ma questa compresenza o co-articolazione mantiene intatta, semmai la rafforza e la complica, la spinta del processo costituente: dal basso – della vita e della sua potenza, dei rapporti sociali e di sfruttamento, dalle lotte molecolari, del linguaggio e dei suoi contagi, ecc. – verso l’alto – del potere.
La violenza, che pure è componente ineliminabile della lotta di classe e dell’esercizio del potere, riscopre i tratti dello ius resistentiae: non è tanto l’inimicizia, politica e militare, a definirne la fisionomia e il ritmo quanto la «difesa delle opere dell’amicizia», della cooperazione sociale, delle forme di vita alternative.
6. Comuniste e comunisti
Chi sono, oggi, le comuniste e i comunisti? Meglio: cosa fanno?
Ripartiamo, schematicamente, dalle indicazioni del Manifesto di Marx ed Engels: fanno «emergere gli interessi comuni», oltre i perimetri locali/nazionali delle lotte; si dedicano pazientemente e con determinazione alla «formazione del proletariato in classe»; si battono per prendere il potere politico; esprimono in modo generale i «rapporti di forza di una esistente lotta di classe» («cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi»).
Le comuniste e i comunisti dunque, in primo luogo, conquistano o costruiscono il comune nelle lotte.
Uno sforzo tanto più necessario se si intende fare i conti, seriamente, con la molteplicità irriducibile e l’orizzonte globale delle stesse, con la disparità dei ritmi storici, con il primato delle differenze sulle identità.
Formare il proletariato in classe, quando il primo sfugge a codificazioni omogenee, significa spostare l’attenzione dal soggetto ai processi di soggettivazione. La classe a venire non potrà che essere «un pachtwork a prosecuzione infinita» o «un mantello di arlecchino»; il metodo delle comuniste e dei comunisti, la composizione.
Affidiamoci ancora alle metafore dei filosofi: comporre il proletariato in classe significa fare arcipelago, delineare costellazioni. Solo nel mezzo di questo processo, che è sempre anche un laboratorio di auto-apprendimento, è possibile generalizzare le lotte, coglierne gli aspetti trasversali.
Le comuniste e i comunisti, nel combattimento, esprimono questi aspetti con la propria vita, non li rappresentano con le chiacchiere.
7. Comunismo
Lo si confonde spesso con la comunione dei beni, siano essi naturali o artificiali. Vale la pena, invece, essere letterali: comunismo è «abolizione della proprietà privata borghese». Consapevoli che quest’ultima è un rapporto sociale di sfruttamento; equivale al furto del lavoro altrui. Meglio ancora: del lavoro altrui viene rubato quello eccedente, ovvero quello che non è necessario alla riproduzione della vita di chi lavora.
Se non si afferra questo nocciolo duro, si confonde il comunismo con un semplice problema di equa distribuzione della ricchezza.
È vero, però, che non c’è sfruttamento senza spossessamento (della terra, dei mezzi di produzione, in generale delle condizioni oggettive della riproduzione): vende al mercato la propria forza-lavoro il povero, chi non dispone di altro, cioè, se non di essa.
Ma oggi, a differenza del XVI secolo, il povero è da subito gettato in una rete di comunicazione e di mobilità che il nuovo modo di produrre e la globalizzazione, malgrado tutto e secondo differenti regimi di inclusione, hanno reso possibile.
In una parte significativa del mondo, tra l’altro, gli strumenti produttivi sono stati ampiamente socializzati (tecnologie informatiche, digital labour, ecc.), la riproduzione della vita largamente finanziarizzata (debito).
Il capitale, in questo senso, si qualifica come un insieme, assai articolato, di «operazioni estrattive».
L’estrazione del valore avviene a monte del processo produttivo (terra, risorse naturali, rendita urbana, ecc.), attraverso meccanismi di spossessamento e recinzione; avviene nel processo stesso, ovviamente, succhiando plusvalore assoluto e relativo; ma avviene anche – e sempre di più – a valle, nella cattura e nel comando, a mezzo di algoritmi e finanza, della cooperazione e della creatività sociale.
«Espropriare gli espropriatori» (o lotta di classe), allora, significa abolire questa proprietà privata: il comune del comunismo riguarda tanto i beni e il welfare – il loro uso condiviso, la loro gestione democratica – quanto il rifiuto del lavoro sotto padrone, l’invenzione di nuove misure monetarie quanto l’autonomia dell’intelligenza collettiva e della sua costruttività (scientifica, economica, politica, artistica).
8. Forme di vita
Appropriazione comunista – ovvero rifiuto del lavoro salariato, democratizzazione del welfare, ecc. – è anche abolizione della ‘persona’.
Nella società borghese, ricordano Marx ed Engels, a essere «indipendente e personale» è soltanto il capitale, mentre «impersonale» è il lavoro vivo. Dove finisce il capitale, lì finisce anche la finzione individuale, con i suoi perimetri.
La tradizione politica liberale e oggi, in modo assai più spiccato, la governamentalità neoliberale insistono sul primato indiscusso dell’individuo nei confronti della società.
Agli inizi della contro-rivoluzione, mentre schiacciava i minatori e più in generale i sindacati inglesi, Margaret Thatcher ripeteva il mantra: «non esiste la società, esistono solo gli individui». Slogan incarnato nell’estensione a dismisura della forma impresa (l’imprenditore di se stesso), nelle celebrazioni del capitale umano, nella proliferazione del lavoro autonomo.
Farla finita con lo sfruttamento, oggi che questo si presenta nella cattura del valore oltre i confini della fabbrica, nella sussunzione della cooperazione sociale, nella coincidenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, significa farla finita con l’individualismo competitivo.
Comunismo è autonomia del lavoro vivo, primato del presente sul passato (capitale, lavoro accumulato), dunque affermazione del carattere irriducibilmente sociale dell’individuo.
Di più: non c’è abolizione della personalità del capitale senza abbattimento della famiglia e del patriarcato, senza invenzione di nuove istituzioni amorose.
Non è tutto. Ripetiamo, proprio ora che la creatività e la dimensione estetica si combinano in modo inedito con l’innovazione tecnologica e produttiva, l’adagio del giovane Marx: «la soppressione della proprietà privata rappresenta quindi la completa emancipazione di tutti i sensi».
Oltre Marx, diciamo che la conquista di nuovi modi di sentire non è solo punto d’arrivo, ma accompagna ogni processo di liberazione.
9. Programma
Come la classe, il programma si compone. Da questo punto di vista, non sono tanto le «domande sociali» a essere decisive, quanto le lotte e i processi di soggettivazione.
Vale la pena insistere, anche per distinguere la politica comunista da quella populista.
La molteplicità irriducibile delle domande fa del popolo un «significante vuoto», da riempire attraverso un insieme di mosse discorsive ed egemoniche.
La molteplicità irriducibile delle lotte e dei fenomeni di politicizzazione a esse legati, invece, incarna le pretese, le svolge su un piano polemico e costruttivo nello stesso tempo; l’egemonia non riguarda più solo i discorsi, ma insiste sulle forme di vita.
In questo senso, il programma comunista non è, semplicemente, un programma di governo.
Formare il proletariato in classe vuol dire «conquistare la democrazia», qui e ora.
E conquistare la democrazia, qui e ora, significa espropriare gli espropriatori, fare il comune contro il capitale e le sue operazioni estrattive.
Presentiamo dunque, senza gerarchia alcuna, un programma già forte nei tanti conflitti fin qui ricordati: reddito di base universale, sganciato dalla prestazione lavorativa e a carico della fiscalità generale; salario minimo globale; riduzione dell’orario di lavoro; libertà di circolazione delle donne e degli uomini; tassazione dei patrimoni, delle transazioni finanziarie, dei robot; eliminazione dei paradisi fiscali; sviluppo delle produzioni del comune e per il comune (salute, cura, innovazione tecno-scientifica, ecc.); sostegno senza sosta alla formazione pubblica; lotta senza quartiere, e a partire dalla scuola d’infanzia, contro il patriarcato; implementazione della bellezza (urbana, del paesaggio, culturale); ecc.
10. Soviet
Scriveva Lenin nell’aprile del 1917: «Il problema fondamentale di tutte le rivoluzioni è quello del potere dello Stato».
Partiamo dunque dalla domanda: cos’è, oggi, il potere dello Stato? Lo Stato è ancora, così come appariva a Lenin, e con lui ai comunisti del Novecento, il luogo di massima concentrazione del potere politico?
Conveniamo con chi, descrivendo la razionalità neoliberale, ha contestato le retoriche che in questi anni molto hanno insistito sull’evaporazione dello Stato, o celebrato i fasti dello «Stato minimo».
Il modello ordoliberale europeo, per un verso, ma più in generale il peso degli stati nei processi di neoliberalizzazione che hanno travolto l’Est del mondo (Cina e Russia in particolare), mostrano uno scenario del tutto diverso. Altrettanto, però, sappiamo quanto la globalizzazione neoliberale abbia stravolto lo spazio e i poteri.
Ai confini nazionali si sono sostituiti le zone economiche speciali, i corridoi, i flussi, gli accordi transnazionali, ecc. Tanto che non è più possibile far coincidere il potere politico, la sua efficacia, con il potere dello Stato.
Quest’ultimo, semmai, è un attore importante dei processi di neoliberalizzazione («riforme strutturali»), senza mai essere il regista unico o privilegiato degli stessi. L’esaurimento dell’egemonia americana, la definizione di un mondo propriamente multipolare, non cancellano la globalizzazione; la articolano secondo traiettorie inedite, anche dal punto di vista delle crisi belliche.
Il breve testo di Lenin di cui sopra, interrogando il potere dello Stato dopo la rivoluzione di febbraio, qualifica un fenomeno politico decisivo: il «dualismo di potere».
Da una parte il governo della borghesia, dall’altra, seppur embrionale, il governo dei Soviet degli operai, dei contadini, dei soldati.
Il secondo è un potere – parole di Lenin – «dello stesso tipo della Comune di Parigi del 1871»: alle norme e ai parlamenti si sostituisce l’iniziativa diretta e dal basso, agli eserciti e alle polizie il popolo in armi, alle burocrazie il mandato imperativo.
Senza dualismo di potere, senza esemplificazione e approfondimento di un’altra forma di governo, non è possibile la rivoluzione, l’abbattimento del governo borghese.
Nel criticare i sindacati, Antonio Gramsci presenta il consiglio di fabbrica – dove al semplice salariato si sostituisce il «produttore», un soggetto che decide sulla cooperazione sociale – come «il modello dello Stato proletario».
Ancora: la dittatura del proletariato non è che la confluenza di nuove «esperienze istituzionali della classe oppressa».
Proprio ora che lo Stato non concentra più l’interezza del potere politico, proprio ora che nuovi assemblaggi articolano la governance globale, oggi che il lavoro vivo ha conquistato densità relazionale, linguistica, affettiva, il dualismo di potere perde il suo carattere temporaneo per divenire il terreno privilegiato e permanente dell’iniziativa comunista.
Ciò non impedisce, anzi, di cogliere le occasioni e di andare al governo, quando congiunture positive lo consentono.
E non cancella la consapevolezza che il regime neoliberale spesso mobilita e cattura i processi di auto-organizzazione, facendone terreno di contesa. Ciò vuol dire, però, che senza una fitta rete (fortemente) transnazionale di contro-poteri, di Soviet, anche la conquista della Stato non fa la differenza, è destinata a non lasciare tracce durature.
Alla Comune si devono dunque affiancare fenomeni di sindacalismo rivoluzionario, vere e proprie istituzioni del lavoro vivo dove lotta di classe e processi di politicizzazione, conflitto e auto-governo procedono di pari passo.
11. Futuro
Pur stando nel movimento reale del lavoro vivo, nelle lotte che fanno valere gli interessi immediati, i comunisti esibiscono l’«avvenire del movimento» stesso: così si conclude il Manifesto del 1848.
Esibire l’avvenire, farlo vivere nelle lotte singolari, significa – lo abbiamo appreso poco fa con Gramsci – consolidare «esperienze istituzionali della classe oppressa».
Significa, anche, riconquistare il futuro, la prefigurazione, dopo troppi anni nel segno della distopia, con un presente che tiene stretti e senza fiato, come fosse una gabbia; anni di svalutazione neoliberale della raffinata arte proletaria dell’organizzazione e del progetto.
Fare piani, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la collettivizzazione forzata a mezzo di violenza di Stato.
Ma vuol dire, nell’orizzontalità delle lotte, allargare a dismisura il possibile; stare nel movimento elaborando – istituzionalmente – le sue virtualità; delineare paradigmi e strumenti per una governamentalità del comune.
Progetto comunista, allora, è un nuovo costruttivismo, dove produzione, riproduzione, decisione politica e forme di vita si fanno (finalmente) inseparabili.

il manifesto Alias 18.11.17
Twain, una storia della buonanotte
Everteen. «Il rapimento del principe Margarina», in Italia con Bompiani, è una storia che nasce da sedici pagine di appunti dello scrittore americano, ritrovate per caso. A finire la fiaba e a reinventarla sono stati i coniugi Stead, scrittura e illustrazione
di Arianna Di Genova

Una foto strappata da una rivista che non fa proprio volare l’immaginazione. È una figura anatomica scelta dalle figlie di Mark Twain (Clara e Susy) e proposta al padre per iniziare una storia della buonanotte. Naturalmente, uno come Twain è riuscito ad animare quel disegno esangue, ma la fiaba – era il 1879 – raccontata al completo quella sera e per altre quattro di seguito, in un hotel parigino, venne poi buttata giù dallo scrittore americano in sedici pagine ingarbugliate, che rimasero allo stato di brogliaccio. Di certo, c’era solo un ragazzo poverissimo di nome Johnny e una serie di semi magici da ingoiare una volta diventati fiore. C’erano anche due minacciosi draghi a custodia di una caverna, e un canguro amico. Di appunti così saranno pieni gli archivi del mondo, se non fosse che un giorno, lo studioso John Bird li ripescò al Mark Twain Papers Archive (Berkeley, California).
Cercava in realtà delle ricette dell’autore e siccome nel titolo di quell’abbozzo di scrittura compariva la parola «margarina» tirò fuori questa strampalata trama, rimasta sospesa. Avrebbe voluto finire lui stesso il racconto, ma quando Doubleday Books for Young Readers comprò i diritti destinò quel manoscritto pasticciato ai coniugi Philip e Erin Stead, per reinventare la storia uno e per illustrarla l’altra, alla loro maniera. E la scelta della coppia (Il raffreddore di Amos Perbacco, tra le loro creazioni) fu quella di inserire un Twain svagato e sospettoso rispetto al «plot» nel libro stesso (fa da contrappunto alla narrazione, riportando il lettore all’operazione editoriale di fiction, in una sorta di straniamento brechtiano), una specie di voce dissonante e interlocutoria che si riprende sotto custodia qua e là i personaggi e le loro avventure.
In Italia, questo libro tutto da riscoprire lo porta fra gli scaffali prenatalizi Bompiani, in uscita per il 22 novembre. Il rapimento del principe Margarina (pp. 160, euro 20, traduzione di Giordano Aterini) è così il risultato – forse un po’ troppo buonista negli esiti – della collaborazione in differita tra gli Stead e Twain (a sua insaputa). Alcune novità introdotte sono lampanti: Johnny, il protagonista, adolescente dall’animo gentile e sconsolato, è nero. Ha un nonno acidissimo che però muore presto. Ha un’amica gallina che è costretto a dar via ma che farà la sua fortuna, quando la vecchietta che l’accoglierà, in un gesto di riconoscenza, regalerà a Johnny alcuni semi fatati. Piantati, sarà necessario mangiare i petali sbocciati. Johnny esegue, affamato e disperato. E tutto, d’improvviso, cambia. Come guida nella sua nuova vita vagabonda per il bosco e in compagnia degli animali selvatici (di cui ora il ragazzo capisce le molte lingue) non ci sarà più l’originale canguro, ma una puzzola, bestiola che può vantare una maggiore «americanità». Il principe da salvare, però, non ha nulla di eroico ma è una peste che la tribù mista (piccolo uomo e animali) si sbrigheranno a riportare indietro, pur di liberarsene.
Per prepararsi all’ardua «manomissione» della fantasia, gli Stead hanno divorato i libri di Twain, la sua autobiografia, sono entrati nel suo orto letterario. Poi hanno proseguito da soli, convinti che la storia, nata dalla tradizione orale, per sua stessa natura fosse suscettibile di cambiamenti.
Il Fatto 18.11.17
“Una donna sposata non poteva avere interessi scientifici”
Il peso del diritto – Lorenza Carlassare
La cattedra vinta dieci anni dopo: “Sono stata il primo professore donna di Diritto costituzionale. E per molto tempo anche l’unica. Giuseppe Ferrari, che fu anche giudice costituzionale, mi disse: ‘Signora, si renda conto, lei sarebbe la prima. È una cosa gravissima’
di Silvia Truzzi

Ne Il caso Joseph Conrad sostiene che “esser donna è terribilmente difficile perché consiste soprattutto nell’aver a che fare con gli uomini”. Una cosa che Lorenza Carlassare – professore emerito a Padova, prima donna a vincere una cattedra di Diritto costituzionale in Italia – non condivide per nulla: “Ho vissuto in un mondo prevalentemente maschile. E mi sono trovata benissimo!”.
Quando ha capito che si voleva occupare di diritto?
Dopo la maturità mi ero iscritta a Filosofia, ma mi sono pentita quasi subito: la facoltà era praticamente quella di Lettere con pochi esami di Filosofia. Poi un giorno una mia amica che faceva Legge, istigata da mio marito che allora non conoscevo, è venuta a prendermi. Mi ha detto: ‘Perché perdi tempo qui? Sembra una classe liceale, suonano perfino la campanella alla fine delle lezioni. E ci sono solo preti e ragazze occhialute’. In realtà mi ero convinta che Giurisprudenza mi avrebbe aiutata da un punto di vista del pensiero: lì, mi dicevo, il bianco è bianco, il nero è nero… Non sapevo quanto mi sbagliavo! Poi mi sono appassionata moltissimo perché, per fortuna, non era davvero così. Mi sono laureata a 21 anni.
Tempo record.
Mi avevano mandato a scuola prestissimo, da bambina ero una peste…
Ha scelto subito di lavorare all’Università?
Mi sono laureata con 110 e lode e ho vinto il premio per il miglior laureato dell’Università di Padova. E mi hanno dato subito un assegno di ricerca, mi pare che il ruolo fosse ‘assistente straordinario’.
Ha mai pensato di fare l’avvocato o il magistrato?
L’esame di procuratore l’ho dato subito, anche se l’avvocato non l’avrei fatto mai. E anche volendo, non avrei potuto fare il magistrato. Era in vigore una legge fascista del 1919 che escludeva le donne dalla magistratura oltre che da funzioni dirigenziali nella Pubblica amministrazione.
Bidella sì, magistrato no?
Esatto. Nel 1960 fu un’allieva di Costantino Mortati, Rosanna Oliva, oggi presidente della Rete per la Parità, a far cambiare le cose, chiedendo proprio a Mortati di presentare ricorso alla Corte costituzionale contro quella legge perché lei voleva fare un concorso e non poteva. E vinse: la legge venne dichiarata incostituzionale e da quel momento si aprirono alle donne nuove strade (anche se il legislatore fu assai lento nell’emanare le leggi nuove).
Torniamo alla giovane ricercatrice.
Avevo avuto il mio assegno come ‘assistente straordinario’. Dopodiché, a 23 anni, mi sono sposata. Fino alla sera prima del matrimonio ero stata in istituto a correggere tesi di laurea. Il giorno in cui sono tornata, però, mi hanno levato la borsa.
Motivo?
Nel verbale non c’è scritto, ma della riunione in cui la mia rimozione è stata decisa ho avuto un resoconto dettagliato da Gaetano Arangio-Ruiz, internazionalista, che insegnava anche, per incarico, Diritto costituzionale e, indignato, si era dimesso in polemica con quella scelta. La ragione – parole di un professore – era che “una donna sposata non può avere interessi scientifici”. Era il 1954.
E quindi?
Sono rimasta a casa. Ma, avendo bisogno di me, benché fossi incinta di mia figlia Raffaella, mi avevano chiesto comunque di dare una mano agli esami. Sono andata, ero ormai all’ottavo mese, ricordo di aver chiesto un tavolo adeguato… Poi il mio primo marito è morto molto presto e sono rimasta vedova.
Non ci dica che l’hanno richiamata….
Certo: nubile e vedova andava bene, sposata no. Ma ero contenta perché a Padova era arrivato Vezio Crisafulli, un grandissimo costituzionalista, che è stato il mio vero maestro. Prima di fare il concorso da assistente di ruolo mi sono risposata. E di nuovo si è creato un certo clima, non si capiva se potevo restare o no. Mio marito Giovanni (Battaglini, professore di Diritto internazionale, ndr) era un uomo di ferro. Mi aveva detto: ‘Se riesci a farti mandare via un’altra volta non ti guardo più’. Per fortuna prevalse il buon senso. Poi ho preso la libera docenza, dopo di che dovevo fare il concorso a cattedra. Intanto Crisafulli era andato all’Università di Roma ma io non avevo voluto seguirlo. Avevo una bimba piccola e avrei sacrificato qualunque carriera per la mia vita familiare.
È stata comunque la prima donna in Italia a occupare la cattedra di Diritto costituzionale.
Sì, ma dieci anni dopo rispetto a quanto avrei dovuto. Il che ha avuto come unica conseguenza positiva che per molto tempo tutti hanno pensato che io fossi molto più giovane, perché ero entrata in ruolo insieme a colleghi di un’età assai inferiore. Ricordo che in quel periodo c’erano le commissioni multiple. Di me dicevano (me lo riferì un commissario): ‘È più brava, e vincerà di certo. Prima mandiamo avanti quelli meno bravi, che sono più insicuri’. Giuseppe Ferrari, che fu anche giudice costituzionale, una volta mi disse: ‘Signora lo sa, lei sarebbe la prima donna a vincere una cattedra di Diritto costituzionale. È la rottura di una barriera, lei capisce che è una cosa gravissima. Si renda conto che è molto difficile’.
E come si sbloccò la faccenda?
Per caso. Morì un commissario, io ero già stata esclusa per l’ennesima volta. Fu sorteggiato a sostituirlo Serio Galeotti, un professore che conoscevo poco ma che aveva sempre detto che era una vergogna che mi avessero lasciata fuori (era la fine degli anni 70). Sono stata la prima donna e, per un decennio, anche la sola. Così ho vissuto in un ambiente completamente maschile e ho perso la dimestichezza con le donne. Di questo un po’ mi dispiace, anche se ho, egualmente, delle carissime amiche.
I suoi colleghi uomini l’adorano.
È vero, ho sempre avuto la sensazione di essere anche troppo considerata… Per il mio impegno e i lavori scientifici pubblicati sono stata conosciuta e rispettata da tutti loro.
Ha partecipato alle lotte femministe?
No, non mi sono mai sentita diversa e divisa dai maschi. Sentivo di più le battaglie politiche comuni. Sono stata molto fortunata, ho avuto incontri felici e ottimi rapporti con gli uomini, sia nella vita privata che professionale, anche se ho trovato molte difficoltà che venivano dal blocco di potere, non dalle singole persone. Io credo che il movimento femminista abbia svolto un ruolo fondamentale: ha portato l’Italia molto avanti, ha contribuito a far evolvere la coscienza sociale e a spezzare quel blocco di potere: il femminismo è stato fondamentale.
Lei ha scritto molto anche del ruolo delle donne nella Costituente.
È stato un ruolo importantissimo, anche se erano poche, solo 21. Nella Commissione dei 75, incaricata di elaborare il progetto di Costituzione da discutere poi in aula, le donne erano appena cinque: Maria Federici (Dc), Teresa Noce e Nilde Iotti (Pci), Angelina Merlin (Psi), Ottavia Penna Buscemi (Partito dell’Uomo qualunque, da cui presto si dimise). Nilde Iotti lavorò nella Prima sottocommissione (Diritti e doveri dei cittadini), Maria Federici, Angelina Merlin, Teresa Noce nella Terza (Diritti e doveri economici e sociali). Eppure il loro contributo fu significativo. Angela Guidi Cingolani nel suo primo intervento alla Consulta Nazionale – era il ’45 e va ricordato come il primo intervento di una donna in un’Assemblea nazionale in Italia – rivendicando con fierezza il ruolo delle donne disse: ‘Il fascismo ha tentato di abbrutirci con la cosiddetta politica demografica considerandoci unicamente come fattrici di servi e di sgherri. Per la stessa dignità di donne noi siamo contro la tirannide di ieri come contro qualunque possibile ritorno a una tirannide di domani’. Una posizione forte, che continua a essere di straordinaria attualità.
Qualcosa che in particolare dobbiamo a loro?
L’articolo 3 della Carta tutela la persona e la sua dignità (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale) e garantisce l’eguaglianza di tutti davanti alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, razza, lingua religione e di sesso (come volle in particolare Teresa Noce). Ma non basta, aggiunge anche qualcosa che va oltre l’eguaglianza davanti alla legge: le persone nella realtà non sono eguali e, per assicurare l’effettiva eguaglianza, il secondo comma impone alla Repubblica di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’. È Teresa Mattei, in accordo con numerose altre costituenti, a proporre l’inserimento della locuzione ‘di fatto’, essenziale per dar senso alla disposizione: di diritto siamo tutti uguali, di fatto no. Gli ostacoli di fatto sono tanti, miseria e ignoranza innanzitutto. Hanno insistito molto sui diritti sociali: qui le donne hanno avuto un peso determinante.
E poi?
In un momento in cui le diseguaglianze crescono a dismisura, troppi sono lasciati nella miseria e nell’abbandono: si parla di ‘reddito di cittadinanza’ quasi fosse una novità da introdurre, dimenticando che, con un altro nome, la Costituzione già lo prevede, all’articolo 38. Il 10 settembre 1946 Angelina Merlin formula questa proposta: ‘Lo Stato riconosce il diritto e il dovere dei cittadini al lavoro ed è tenuto a promuovere i piani economici che assicurino il minimo necessario alla vita e, se non è possibile, l’assistenza’. Il giorno successivo Teresa Noce, tenendo ferma la distinzione fra ‘previdenza’ e ‘assistenza’, sottolinea che la distinzione va però accompagnata dalla precisazione che ‘l’assistenza va data anche a tutte le persone che non godono della previdenza’. E, contro le obiezioni di Enrico Molè ‘che così entrerebbe nel campo della beneficenza, mentre qui si tratta di diritti che scaturiscono dal diritto al lavoro’, la risposta di Teresa Noce fu ferma: ‘Non si tratta di assistenza sotto forma di carità pubblica, sia pure sociale, ma di qualche cosa che sorge da un diritto’. Così è nato l’articolo 38 della Carta.
Lei ha scritto molto anche della partecipazione alla vita politica delle donne.
La storia è una storia di monopolio maschile. Poche sono le donne elette, poche hanno voce nelle sedi della decisione politica. Nel ’93, una legge prescrisse la presenza di almeno un terzo di candidature femminili nelle liste elettorali, ma fu annullata dalla Corte costituzionale (sollecitata da maschi offesi!) in base all’equivoco fra norme ‘anti-discriminatorie’ e norme ‘di favore’, equivoco fortunatamente eliminato poi con una sentenza del 2003. Fu facile per i giudici respingere il ricorso del governo escludendo che si trattasse di un ‘privilegio’: la legge della Valle d’Aosta – impugnata dal governo – neppure fissava ‘quote’, prescriveva soltanto che nelle liste fossero presenti candidati di ‘entrambi i sessi’! Fu l’occasione per la Corte di esprimere valutazioni importanti anche per il futuro, aprendo possibilità sfruttate soprattutto a livello regionale. Nel 2010 la Corte ha respinto il ricorso contro la legge della Campania che consente all’elettore di esprimere due preferenze anziché una, purché riguardino l’una un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista: una soluzione semplice, che non piaceva al governo. Già a metà degli anni Novanta avevo proposto che nei collegi uninominali, ogni partito presentasse due nomi di un uomo e di una donna, tra cui l’elettore potesse scegliere. Mi piaceva non solo per la questione femminile, ma anche perché consentiva un minimo di scelta agli elettori. Ma era troppo scomoda per i partiti, che volevano garantire ‘collegi sicuri’: la doppia presenza avrebbe tolto la certezza.
Per molte donne le quote sono discriminanti.
Non è vero! Si trattava di rimuovere un ostacolo fattuale, quel monopolio di cui parlavamo prima. Per questo mi sono tanto battuta. Devo però dire che ora che la situazione è cambiata (con il 32% di deputate alla Camera, e il 30 di senatrici a Palazzo Madama) sono molto delusa: l’ingresso delle donne non ha cambiato nulla, mentre io lo speravo. Ma era importante affermare la pari opportunità nell’accesso: se non sei in lista, non puoi essere eletta. Oggi non ha più senso parlare di quote.
Ministra o ministro?
È una questione seria e difficile che solo il tempo, con l’assuefazione a un linguaggio rispettoso della differenza sessuale, può risolvere. Non credo che improvvisamente, con un colpo di bacchetta magica, si possano cambiare le cose. Anche perché a volte il risultato può essere ridicolo o indurre a equivoci sulla funzione: la parola ‘segretario’, ad esempio, usata anche per funzioni di rilievo elevato, declinata al femminile fa pensare a mansioni di assistenza. E tuttavia l’assenza del ‘nome’ tende a oscurare la presenza femminile nei ruoli importanti e socialmente apprezzati. Credo sia una questione seria che richiede riflessione. Per quanto mi riguarda, la cosa che preferisco è essere chiamata ‘signora’, ignorando i titoli accademici .
Cosa pensa dello scandalo delle molestie?
È una cosa gravissima, che attiene al potere. Non c’entra con il sesso, con il desiderio, è un modo per gli uomini di affermare il dominio. Non mi piace però il ritardo nelle denunce. L’idea che per ottenere un posto una donna debba giocare il proprio corpo è inammissibile. E i silenzi sono complicità; anche qui bisognerebbe però distinguere fra posizioni: quando si è estremamente deboli o bisognosi è difficile resistere.
Perché non è mai entrata nella Corte costituzionale?
So soltanto che di me qualche influente uomo politico ha detto: ‘È una donna inaffidabile’. So che invece vari giudici costituzionali si aspettavano la mia presenza.
Inaffidabile, cioè troppo indipendente?
Un complimento alla mia libertà. Io ho sempre pensato di non dover rendere conto a nessuno: se non a scienza e coscienza. Dove per scienza intendo i miei studi e per coscienza la mia fede. Del potere non ho mai avuto soggezione.
La Stampa 18.11.17
Le infezioni in ospedale uccidono due volte di più degli incidenti stradali
Le vittime sono 7 mila l’anno contro 3500 Viene colpito fino all’8 per cento degli assistiti
di Paolo Russo

Si entra per un intervento chirurgico o per una batteria di controlli e si esce con una bella infezione. I nostri ospedali brulicano di batteri e virus che oramai fanno più vittime degli incidenti stradali. Le infezioni ospedaliere, stima l’Istituto superiore di sanità, mietono tra le 4500 e le 7000 vittime l’anno, contro le 3500 della strada. Ma sono oltre mezzo milione i pazienti che ogni anno si ricoverano per curare una cosa e si trovano a dover fronteggiare un’altra malattia presa proprio in ospedale. In pratica tra il 5 e l’8 per cento degli assistiti è vittima di un’infezione ospedaliera.
Che esistesse un problema, in realtà non solo italiano, lo sapevamo già, ma i dati del rapporto del Ministero della salute sulle schede di dimissioni ospedaliere mostra ora un vero boom delle infezioni contratte in corsia o negli ambulatori dei nostri nosocomi, che negli ultimi dieci anni sono aumentate del 61,2 per cento per gli interventi chirurgici e del 79,6 per cento per quelli medici, soprattutto controlli endoscopici, come gastroscopie e colonscopie.
I casi delle infezioni mediche sono oramai 12,39 ogni 100 mila dimessi, mentre quelle chirurgiche sono da brivido: 233 per lo stesso numero di dimissioni.
Un fenomeno del quale si parla continuamente in convegni e corsi di formazione ma che continua inarrestabile a minare sempre più la salute di pazienti già fragili. Perché l’impennata delle infezioni prosegue inarrestabile nonostante il numero di ricoveri in Italia sia in calo, visto che molti interventi si fanno oramai negli ambulatori territoriali.
Quasi 500mila casi sono dovuti alle infezioni alle vie urinarie perché magari la pulizia dei cateteri lascia a desiderare, a ferite chirurgiche, polmoniti e sepsi. Ma a volte a veicolare i microbi sono i mal tenuti sistemi di areazione dei nostri sempre più obsoleti nosocomi, che hanno oramai un’età media di settant’anni. Fatto è che circa un’infezione su tre si sarebbe potuta evitare con un po’ di pulizia e di prevenzione. Che significa tra le 135 e le 210 mila infezioni sono frutto in qualche modo di un’incuria che può avere a volte conseguenze letali, visto che mediamente l’1 per cento di questi casi evitabili causa un decesso. Per farsi meglio un’idea duemila pazienti ogni anno muoiono per infezioni evitabilissime.
Ma come sempre quando si parla di sanità la situazione varia e di molto da una regione all’altra. Anche se, a sorpresa, in questo caso sembra stare peggio il solitamente più efficiente Nord. Il record di infezioni dopo un intervento chirurgico lo detiene la piccola Valle d’Aosta, con 500 casi ogni 100mila dimessi. Seguono la Liguria con 454 e l’Emilia Romagna con 416, mentre la Lombardia ne conta 300, Trento 295, il Veneto 273 e l’Umbria 267. In fascia media il Piemonte con 218 casi. Nel Lazio se ne contano 211 mentre in tutto il Sud solo la Calabria supera quota 200 (con 263 casi). La più virtuosa è l’Abruzzo con sole 70 infezioni. Resta da capire se si tratti di maggior bravura e attenzione al fenomeno oppure di un difetto di rilevazione dei casi.
Il prezzo è comunque salato per la salute di chi si ricovera ma anche per le malandate casse regionali. Secondo una ricerca condotta nel maggio scorso dal Ceis dell’Università Tor Vergata di Roma per ogni infezione ospedaliera si stima vadano in fumo tra i 9000 e i 10.500 euro.
Moltiplichiamo per il mezzo milione e passa di casi e lo spreco è quantificabile in almeno 5 miliardi di euro. Quanto basterebbe ad abrogare tutti in ticket, che valgono 3,5 miliardi e a finanziare le nuove costosissime cure che spesso arrivano in ritardo per evitare che i conti della sanità vadano in rosso.
Repubblica 18.11.17
Dare un nome alle cose è il segreto per ripartire
L’ultimo libro di Michela Marzano “ L’amore che mi resta” (Einaudi) indaga il legame tra una madre e la figlia adottiva
di Michela Marzano

«LUISA, non ho scelto io di chiamarti così. Non ho nemmeno scelto di averti, per me sei solo la più dolorosa ferita che ho avuto a 18 anni». Sono poche e taglienti le parole che Luisa, alla ricerca da anni della madre biologica, si è vista recapitare su un biglietto anonimo da chi, al momento della nascita, aveva già deciso di restare anonima. Ma cosa cerca esattamente chi cerca di avere accesso alle proprie origini? Cosa si vuole riparare o sapere o capire? Che cosa manca esattamente quando manca la conoscenza della madre biologica?
Ovviamente, solo chi attraversa personalmente questo dramma può poi rispondere a questo tipo di domande — difficili, terribili, talvolta anche devastanti per chi, prima di essere stato adottato, ha subito il trauma dell’abbandono. Anche se tante volte, dietro il desiderio di accedere a quel nome che manca e a quel viso che si idealizza, c’è soprattutto il tentativo di trovare quel pezzo che manca per completare il puzzle della propria esistenza. Ci si interroga su cosa possa aver spinto la propria madre a non diventare madre. Ci si tormenta al pensiero di essere sbagliati, cattivi, inopportuni. Tante volte, si vorrebbe solo capire il perché di quell’iniziale abbandono, anche solo per liberarsi dal peso di un’ipotetica colpa. Ma quale colpa può mai avere un bambino appena nato? Quale colpa, al tempo stesso, può mai avere una ragazza di 18 anni che si ritrova incinta senza averlo voluto, magari in seguito ad una violenza o uno stupro?
La madre biologica di Luisa ha tutto il diritto di continuare a restare anonima. Soprattutto ora che il perché dell’abbandono alla nascita è venuto fuori e che Luisa, quel pezzo mancante del puzzle, in realtà lo ha trovato. Certo, è un pezzo che le è arrivato in faccia con violenza, come uno schiaffo. Perché è violento, e non può essere diversamente, scoprire di essere il frutto di una violenza e di un non-desiderio. Ma almeno la realtà dell’accaduto ha finalmente trovato un nome e, quando le cose riescono ad essere nominate, poi è anche possibile, pian piano, mettere ordine nella propria esistenza e diminuire la quantità di dolore che ci circonda.
L’ultimo libro di Michela Marzano “ L’amore che mi resta” (Einaudi) indaga il legame tra una madre e la figlia adottiva
Il Fatto 18.11.17
L’ipocrisia del cinema su Brizzi: lo scandalo è una bolla di sapone
Molestie - Dopo giorni di polemiche ci sono molte accuse anonime e nessuna denuncia. I grandi artisti tacciono: tutti devono lavorare
di Selvaggia Lucarelli

Mi dispiace interrompere il suono di campane a festa. In Italia, il ciclone Brizzi è stato già declassato a tempesta tropicale e la mia sensazione è che salvo novità eclatanti, nel giro di poco sarà una leggera brezza marina. So che lo dico mentre i pugni delle donne sono ancora alzati e gli animi femminili permeati da un luminoso ottimismo, ma no, non dobbiamo raccontarcela. Rimaniamo lucide. Non c’è alcuna rivoluzione sociale o culturale in corso.
C’è, al massimo, una rivoluzione dissuasiva in corso. In questo preciso momento storico probabilmente registi e produttori sono più cauti nello svelare le proprie pulsioni. Tengono le mani a posto.
Chiudono i loft a chiave e invitano le attrici negli uffici con le targhe d’ottone all’ingresso. Che è già un risultato, direte voi. Lo è, ma dopo Mani Pulite non si è smesso di rubare, dopo il Brizzi-gate non si smetterà di fare i maiali, statene certi. Lo dico perché bisognerebbe soffermarsi con attenzione non su chi sta parlando, ma su chi sta tacendo. È il silenzio, in questa fase, a raccontarci il sistema e la ragione per cui sopravvive, non il chiacchiericcio.
Chi ha parlato, fino a oggi? Qualche attore marginale della commedia. Miriana Trevisan, sparita dalle scene da anni, Asia Argento (che come attrice è fuori gioco da un pezzo) e le accusatrici di Brizzi, ovvero un discreto numero di aspiranti attrici o sconosciute o pixelate. Poi? Il deserto del Gobi. Si parla del loro ambiente, del loro luogo di lavoro, del sistema in cui si muovono, ma stranamente le attrici famose, in carriera, credibili, autorevoli, non hanno nulla da dire. E sia chiaro, neppure gli uomini.
Nessuno che sappia, che abbia visto, che abbia voglia anche solo di dire la sua sul tema. Qualche frase smozzicata giusto se c’è un microfono alle calcagna o una telefonata a sorpresa, ma pare che le molestie siano tutte roba di venti o trenta anni fa, oppure roba riservata alle sconosciute, come se poi quelle famose non fossero state pure loro, aspiranti qualcosa. La molestia contemporanea non esiste. Una mano sul culo, un pisello mostrato senza il permesso, una lingua sul collo di cinque minuti fa, non esistono. La molestia subita da una Buy, una Bellucci, una Golino, una Leone, una Ramazzotti, una Chiatti, non è mai esistita. Come in fondo, non esiste neppure una parola di solidarietà nei confronti di chi parla.
Le uniche attrici che lavorano ancora e che si sono esposte (la Cristiana Capotondi e Claudia Gerini), lo hanno fatto per dire “Fausto Brizzi era tanto una brava persona”. Come se poi ci fosse sempre una grande aderenza tra quello che sembriamo e quello che siamo. Come se il serial killer non fosse puntualmente quello che salutava sempre anziché quello che non salutava mai. Certo, le rivoluzioni partono sempre dalle periferie. Ma qui non si vede ancora neppure qualche lontana colonna di fumo, dai palazzi del potere. La verità è che quelli che contano sono tutti complici del sistema. La verità è che il silenzio paga. Un’attrice omertosa, lancia un messaggio preciso: “Io sono gestibile”. Anzi. In fondo crea pure un rapporto di riconoscenza dovuta. Se il produttore le ha messo le mani addosso e quella sta zitta, il produttore le darà un altro film, forse. Un premio, come la Mini Cooper per il silenzio delle olgettine. Gli attori che ne avranno viste di cotte e di crude idem. “E poi è pure pieno di attrici che la danno ben volentieri per lavorare”, si diranno per autoassolversi, tra un ciak e un altro.
Magari, poi, ci sono un sacco di code di paglia. Quanto mi piacerebbe che di quello che sta accadendo nel loro mondo ne parlassero un Sergio Castellitto. Un Pierfrancesco Favino. Un Giancarlo Giannini. O magari uno sceneggiatore, che so, Roberto Saviano. Perché Saviano che pontifica su tutto, che ha scritto “mostrare la cellulite è una rivoluzione” incredibilmente tace su questa rivoluzione? È bizzarro. Tutti zitti, come se non li riguardasse neppure di striscio. Come se questi meccanismi riguardassero, forse, casa Brizzi o l’ufficio di Giuseppe Tornatore, 20 anni fa.
Che poi, per come stanno le cose oggi, pure il caso Brizzi è a un punto morto. Le ragazze intervistate da Le Iene non hanno un nome, quindi lui non può denunciare loro. I fatti risalgono tutti a più di sei mesi fa, dunque sono già prescritti, ergo loro non possono denunciare Brizzi. Per ora, per quanto le testimonianze siano attendibili, concordanti, numerose ed emotivamente coinvolgenti, “Brizzi mi ha molestata!” non vuol dire “Brizzi è un molestatore”. O meglio. Vuol dire questo per il tribunale di Twitter, il televoto da casa, l’inviato de Le Iene e per i collettivi femministe incazzate. Poi però ci sarebbe quella cosa che si chiama Stato di diritto. Quella cosa che si chiama presunzione di innocenza. Se decidiamo che vale per gli assassini e i rapinatori, dovrebbe valere pure per lui. Se invece tutti insieme decidiamo che no, per i molestatori non vale perché bisogna interrompere un fenomeno a tutti i costi e dobbiamo credere alle vittime incondizionatamente, allora non è neppure una rivoluzione femminista. È una rivoluzione del diritto. Per ora, la vedo dura. E quindi, si torna al punto di partenza. Il caso Brizzi, salvo novità, rischia di impantanarsi.
Se Brizzi è innocente pagherà un conto enorme. Se è colpevole, al di là di quella che è stata la sanzione sociale e morale, non pagherà. A breve ci sarà l’oblio. Poi la riabilitazione. Poi “visto, era tutta fuffa quella delle Iene’”. Poi un’intervista da Maurizio Costanzo. Poi l’elezione a eroe sopravvissuto al fango lanciato da dieci mitomani.
Eppure, tra le tante che hanno lavorato con lui e tra le tante che sono passate nel suo loft negli ultimi sei mesi, se è vero che era un predatore seriale, ci sarà qualcuna che potrebbe fare una denuncia seria, di quelle vecchio stile al commissariato anziché al microfono. Io ne conosco ben due, che sostengono di aver vissuto queste esperienze con lui di recente (non sarebbero reati prescritti), pensate un po’. Però non se la sentono. Hanno paura. “I processi sono lunghi!”. “Sono rischiosi”, dicono. “E poi chi mi vorrà più in un film?”, dicono. “Io ho un sogno!”, dicono. Già, hanno un sogno. Loro, le aspiranti, lo rincorrono. Le attrici note lo cavalcano. Gli attori lo noti lo proteggono. In fondo, il sogno, vale perfino un incubo.
No, non è cambiato niente.
Repubblica 18.11.17
Biotestamento e Ius soli sei sedute per il sì alle leggi prima dello scioglimento
Le norme sul fine vita rischiano di finire fuori tempo massimo
di Giovanna Casadio

ROMA. Martedì 5 dicembre, quindi il 6 e il 7 (nonostante sia Sant’Ambrogio), per poi riprendere discussioni e votazioni il 12, 13 e 14 dicembre. Sono le sei sedute-clou del Senato, quelle in cui nuovo regolamento, Ius soli e biotestamento (in quest’ordine) dovrebbero diventare legge. Il tempo è stretto nello scorcio di legislatura che, una volta incassata con la fiducia la legge di Bilancio, dovrebbe sciogliersi tra fine dicembre e inizio gennaio. Difficile un “trascinamento” a febbraio.
Sotto il fuoco incrociato dei veti e dei trabocchetti, con i leghisti sulle barricate per lo Ius soli, e nel pieno ormai della campagna elettorale, non è chiaro se sei sedute potranno bastare per il biotestamento. Il Pd assicura che ce la metterà tutta, e che comunque si potrebbero verificare le condizioni di un accordo per un via libera veloce anche ai tempi supplementari. Così sarebbe se la legislatura si allungasse alla prima settimana di gennaio, oppure ci fossero altre due sedute (quindi otto in tutto) “rubate” alla manovra economica. Il cui ritorno dalla Camera a Palazzo Madama dovrebbe esserci il 15 dicembre, ma potrebbe slittare al 19. E ieri Luigi Zanda, il capogruppo del Pd, per fare pressing sui 97 senatori dem, ha inviato a tutti il discorso del Papa con due righe di accompagnamento: «Care amiche e cari amici, penso possa interessarvi il testo integrale del messaggio di Papa Francesco sulla questione del fine vita». Anche il Pontefice è tornato ieri sull’argomento: «Bravo quel medico - ha detto nell’omelia a Santa Marta - che accompagna il malato fino alla fine ».
Calcoli e tempistica che ai 5Stelle non piacciono. E neppure alla sinistra. Nicola Morra, il senatore grillino si sfoga: «Volere è potere. Non si capisce perché, dopo il primo via libera alla legge di Bilancio, non ci possano essere sedute senza interruzione per fare quello che manca, prima del ritorno della manovra. Quando hanno voluto, le cose si sono fatte in un batter d’occhio ». Esempio? L’inno di Mameli approvato tra Camera e Senato in venti giorni. «Noi abbiamo chiesto da subito a Grasso di mantenere la promessa di riorganizzare i calendari per farci lavorare di più». I 5Stelle vorrebbero il via libera per vitalizi e biotestamento, già votato a Montecitorio. Se il provvedimento sul fine vita non cambia, lo rivoteranno al Senato. Non voteranno invece lo Ius soli. Sul biotestamento muro della Lega e dubbi degli alfaniani, che vogliono lo stralcio di idratazione e nutrizione artificiale.
Rincara la senatrice Loredana De Petris, di Sinistra italiana: «Servono più sedute nelle due settimane libere dalla manovra. Solo così riusciremo ad approvare anche il biotestamento». Sullo Ius soli il ricorso alla fiducia è scontato. Per il biotestamento invece è improbabile.
il manifesto 18.11.17
Come riprendere il percorso virtuoso del Brancaccio
Rocco Albanese, Marco Barbieri, Piero Bevilacqua, Sandra Bonsanti, Stefano Brugnara, Alberto Campailla, Anna Caputo, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Massimo Cortesi, Andrea Costa, Vezio De Lucia, Luigi Ferrajoli, Daniele Lorenzi, Giorgio Marasà, Federico Martelloni, Walter Massa, Filippo Miraglia, Andrea Ranieri, Bia Sarasini, Salvatore Settis, Francesco Silos Labini, Domenico Rizzi

Il brusco arresto del percorso avviato lo scorso 18 giugno al teatro Brancaccio da Anna Falcone e Tomaso Montanari è una brutta notizia per la sinistra e per il Paese. L’idea di introdurre un’iniezione di rinnovamento e di partecipazione dal basso, della società civile più o meno organizzata, insieme ai partiti alla sinistra del Pd e non contro di loro, in una stagione segnata dall’antipolitica e da una forte disillusione, rappresenta una delle poche novità positive del dibattito politico in corso.
Le soluzioni che oggi sono in campo, senza un quadro di riferimento che vada oltre i partiti, e con i leader delle formazioni della sinistra che sottoscrivono un accordo e incoronano un capo autorevole, rischia di essere un deja vu al quale non possiamo e non vogliamo rassegnarci.
Le 100 piazze del Brancaccio hanno suscitato in migliaia di persone una grande aspettativa e la speranza che finalmente la sinistra diffusa, sotto scacco in questo Paese dove l’egemonia della destra è sempre più evidente, potesse rialzare la testa e mettere in campo una alternativa credibile ed efficace. Questo significa confermare sì il ruolo dei partiti, riconosciuto dalla nostra Costituzione, provando però a percorrere strade nuove caratterizzate da un forte rinnovamento, sia programmatico sia di metodo.
L’assemblea del 2 dicembre, presentandosi – al di la delle intenzioni dei promotori – come la ratifica di una scelta interna al “tavolo dei partiti”, certamente legittima, ma che ripropone riti noti, e rischia di tradursi in un arretramento rispetto al percorso aperto ed inclusivo che si stava profilando, mentre vi è oggi la necessità e l’opportunità di produrre uno scarto in avanti che ci allontani dall’esperienza della Sinistra Arcobaleno e dei più recenti insuccessi.
Un’altra disfatta o un risultato semplicemente consolatorio per i partiti a sinistra del Pd sarebbe un disastro, politico e culturale.
La povertà sempre più diffusa, il disagio sociale nelle mille periferie del Paese, il populismo e il neo fascismo crescenti, non consentono a nessuno di rimanere a guardare. C’è la necessità di far ripartire il percorso messo in moto con l’assemblea del Brancaccio, confidando nel fatto che le formazioni politiche che hanno promosso l’assemblea del 2 dicembre diano un segnale di apertura concreto, a partire dalla ridefinizione degli appuntamenti già previsti e fissando le tappe successive in un percorso realmente comune e trasparente. Solo così si potrà dimostrare la reale apertura ai cittadini e a quella “maggioranza invisibile” del Paese che non vota più e dal cui reale coinvolgimento – come già ribadito da più parti – dipendono la credibilità dell’appello dei partiti e il successo elettorale di una qualsiasi lista futura.
Per questo facciamo appello innanzitutto a Tomaso e Anna, a coloro che hanno condiviso quel percorso, ai partiti della sinistra alternativa a questo governo, inclusi quelli che non stanno nel percorso del 2 dicembre, e a tutte quelle persone che credono che la sinistra possa svolgere un ruolo in questo Paese e in Europa, a rivederci per costruire le condizioni per una assemblea nazionale della sinistra unita, alternativa e profondamente rinnovata, realmente aperta ai cittadini e a quanti si riconoscano nel progetto.
Rocco Albanese, Marco Barbieri, Piero Bevilacqua, Sandra Bonsanti, Stefano Brugnara, Alberto Campailla, Anna Caputo, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Massimo Cortesi, Andrea Costa, Vezio De Lucia, Luigi Ferrajoli, Daniele Lorenzi, Giorgio Marasà, Federico Martelloni, Walter Massa, Filippo Miraglia, Andrea Ranieri, Bia Sarasini, Salvatore Settis, Francesco Silos Labini, Domenico Rizzi