sabato 13 settembre 2008

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l’Unità 13.9.08
Il bavaglio, la malattia che uccide i giornali
di Furio Colombo


IL LIBRO In edicola con l’Unità il primo d’una serie di saggi di Furio Colombo. Esordio con un’indagine sulla metamorfosi del mestiere di giornalista. Dal New York Times a Le Monde il cancro è lo stesso

Il nuovo titolo non è una trovata per dare un segno vivace a una nuova edizione. Intende rendere evidente un aggravarsi del sistema delle informazioni in Italia dopo la clamorosa vittoria di Berlusconi nell’aprile del 2008. Con il suo ritorno al governo, che implica anche un progetto di vasta revisione costituzionale, piú o meno condiviso con l’opposizione, Berlusconi riporta al centro dello Stato il peso del suo impero mediatico, sommato al controllo sulla televisione di Stato, che gli è garantito dalla legge Gasparri, rimasta in vigore durante il breve governo del centrosinistra, sommato alla vastità della sua ricchezza, dunque capacità di influenza o potere sui consigli di amministrazione dei più importanti gruppi editoriali italiani. Il problema - in questa fase difficile per le democrazie occidentali, ansiose, insicure e inclini a rinunciare a diritti inalienabili come la libertà di stampa in cambio di una illusione di sicurezza - non è solo italiano, come testimonia Barbara Spinelli su La Stampa del 18 maggio 2008.
«Sono tante le democrazie alle prese con una informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le paure, gli interventi prioritari. Che è vicina alle lobby e ai potenti piú che ai lettori». Basterebbe ricordare lo scandalo del Pentagono che fin dall’inizio della guerra in Iraq ha fatto in modo che ex ufficiali venissero assunti come «esperti militari» dalle maggiori reti televisive americane, in modo da assecondare autorevolmente, in ogni telegiornale o talk show le notizie preferite dal Pentagono. Basterebbe citare lo scandalo del New York Times che per anni ha passato le «veline» della Casa Bianca al New York Times attraverso la principale notista politica di quel giornale (poi scoperta per caso e licenziata, come si narra in questo libro). Basterebbe riferirsi ai tormenti del quotidiano Le Monde, uno dei piú autorevoli del mondo, che non riesce ad uscire da una crisi che in parte è economica e in parte di capacità e volontà di confermare senza compromessi la propria missione.
Ma vede giusto la Spinelli quando aggiunge alla sua dura diagnosi il quadro, peggiore, della situazione italiana: «Quel che ci rende originali (noi italiani, ndr) è il fallire del sistema immunitario che altrove funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule».
L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: «Un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto di correttezza, un’aria di intesa e di pace. Fuori, intanto, una guerra tra poveri e pogrom moltiplicati contro Rom e diversi. Il guaio è che anche la stampa è palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata».
Il fatto è che la stampa e la tv, come buoni e fedeli retrievers trovano ciò che devono trovare e lo portano dove lo devono portare, in onda o in pagina, proprio come in una partita di caccia fruttuosa e bene organizzata. Una pesante anomalia in piú a carico dell’Italia e del suo sistema di notizie, che è casta-specchio della casta del potere.
In Italia, di frequente, e anche nel mezzo di drammatiche vicende nazionali e internazionali, i telegiornali aprono con interventi, parole, apparizioni del Papa che non sono notizia, sono buon materiale per i programmi religiosi e per qualche occasione di approfondimento. Invece la capacità della Chiesa cattolica di dirottare il corso delle notizie a vantaggio della propria prominenza si esprime in un vero, incontrastato dominio delle redazioni che il «silenzio stampa» italiano, preso nella doppia morsa del potere commerciale di Berlusconi e del potere religioso della Chiesa, segnato dalla resistenza esangue di un sistema immunitario allo stremo, di una contrapposizione politica fragile e smarrita, è un fatto tristemente evidente. Ma poiché sarà sempre contestato sia dalla malafede di chi - come abbiamo detto - domina la scena (la strategia vincente è sempre quella di farsi passare per parte minoritaria, perseguitata, un underdog che esercita con le unghie e coi denti un diritto alla sopravvivenza), sia da chi, in buona fede, e senza vedere la camera stagna in cui è racchiuso vuole difendere ciò che crede il suo buon, onesto lavoro, potrà essere utile offrire qui, all’inizio di questa breve esplorazione dell’infelice giornalismo italiano contemporaneo, la narrazione e documentazione di un fatto italiano e televisivo di ordinaria amministrazione che però è apparso tanto allarmante quanto esemplare a chi ha ancora memoria di giornalismo libero. È il caso Travaglio, il caso di un giornalista che, invitato ad una intervista giornalistica intesa come occasione mondana, si è preso la responsabilità di trasformarla in occasione politica. La Rai si è scusata con il pubblico, si è dissociata dall’intervistato-ospite, ha dichiarato che l’ospite risponderà personalmente dei danni, come se avesse devastato lo studio invece di raccontare ciò che sa e ha dimostrato di sapere di un personaggio delle istituzioni. Perciò abbiamo ritenuto di aggiungere un nuovo capitolo dedicato a questa strana avventura televisiva che offre una preziosa chiave di lettura per il materiale e le opinioni che seguono sullo stato del giornalismo italiano. Intanto Berlusconi torna a governare e si avvia, con tutto il peso delle sue vettovaglie, verso la presidenza della Repubblica.

l’Unità 13.9.08
Nubi su «Liberazione». Il sindacato chiede garanzie per il lavoro di 60 dipendenti. Esclusa fusione con «Il Manifesto»


ROMA Futuro incerto per 60 dipendenti, di cui 37 giornalisti, del quotidiano Liberazione, la mancanza di trasparenza sullo stato dei conti economici del giornale e della volontà politica del partito-editore, Rifondazione comunista, sul suo futuro, sono stati i temi denunciati dal Cdr della Testata, dal segretario di stampa romana, Paolo Butturini, e dal suo presidente Fabio Morabito, e dal presidente della Federazione nazionale della stampa Roberto Natale. Alla denuncia del sindacato è seguita la risposta del segretario di Rc Paolo Ferrero che ha affermato di condividere le preoccupazioni dei giornalisti e ha smentito ogni voce su un possibile accordo tra il partito e il quotidiano «Il Manifesto» per trasformare «Liberazione» in un inserto del «Manifesto». «Ben consapevoli dei problemi sorti per il partito editore del giornale Rc, in seguito ai risultati dell'elezione di aprile e del particolare momento che sta vivendo il partito stesso dopo il congresso di Chianciano - si legge in una nota - il sindacato chiede che la società editrice si comporti da società pura tenendo fuori Liberazione da qualsiasi problema politico. Il sindacato chiede inoltre garanzie immediate per il futuro per circa i 60 dipendenti».

l’Unità 13.9.08
All’armi son fascisti
di Moni Ovadia


I recenti episodi di riabilitazione della memoria fascista e segnatamente repubblichina che hanno avuto come protagonisti l’apologeta della croce celtica, l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, sono solo l’ultimo e più grave episodio della tossicosi revisionista che ammorba l’ecosistema politico culturale del Belpaese. Da quasi oltre un ventennio, più o meno dalla discesa in campo di Berlusconi, vengono riversati neri liquami tossici nelle discariche televisive per impregnare il terreno del senso comune dei teleutenti sprovvisti di coscienza storica, poco o male informati e di molti giovani che non ricevono una vera formazione. Questa materia inquinata, viene sparsa con abbondanza soprattutto per il tramite delle pompe dell’anticomunismo viscerale, forma virulenta e degradata di un démi penser isterico e strumentale. L’anticomunismo viscerale assomiglia in modo impressionante a certe forme di parossistiche di antisemitismo tipiche di paesi in cui gli ebrei, un tempo numerosi, vi si trovano oggi a poche centinaia.
La doppia esternazione di Alemanno e La Russa è gravissima perché viene da rappresentanti del governo che hanno giurato fedeltà alla Costituzione Repubblicana. La nostra Carta, ha ragione Francesco Storace quando lo fa notare, non è un totem in sé, ma è fondata su principi universalmente sacri che si chiamano uguaglianza, libertà, solidarietà, inviolabilità dell’essere umano, giustizia sociale, universalità. Questi valori, per qualsiasi autentico democratico, sono non negoziabili ed irrinunciabili. Per chi si richiama all’eredità fascista, o anche solo la tollera come veniale, no! Per capirlo e toccarlo con mano non c’è bisogno di ritornare ai tempi del manganello, dell’olio di ricino, del “bivacco per i miei manipoli”, dei roghi delle Case del Popolo e dell’assassinio degli esponenti avversi. È sufficiente ricordare i fatti di Genova del 2001.
Come siamo arrivati a questo disastro? Sì, disastro! In un paese serio, diciamo solo a titolo di esempio, la Germania Federale, i due esponenti della destra avrebbero immediatamente dovuto rassegnare le dimissioni e scusarsi con l’intero paese per le ignobili dichiarazioni. Da noi invece questo non accade, noi siamo arrivati a questo punto per quel turpe vizio nazionale che è la sedicente “moderazione”, pretesa figlia di una presunta bonomia, quella per intenderci degli “italiani brava gente”. Detto carattere italiano, ha avuto facile gioco nel pretendere ed ottenere sottovalutazione e immunità per gli orrendi crimini fascisti, tolleranza verso il revanscismo repubblichino e, dulcis in fundo, la semi beatificazione di uno dei peggiori criminali del Novecento, il vigliacco, opportunista, traditore e razzista per convenienza Benito Mussolini. Tutte le sirene che cantano per il centro-destra, anche le più seducenti, hanno ovviamente sviolinato a più non posso con la scusa di favorire un’altra delle peggiori truffe nazionali, la sedicente “riconciliazione”, ma grave è anche l’atteggiamento pavido di una parte dell’opposizione, sia riformista, sia radicale, che con aria penitente ha accettato il commercio revisionista anche flagellandosi coram populo pur di farsi perdonare la colpa di essere stati comunisti.
La responsabilità più grave, mio parere, ricade invece su alcuni esponenti istituzionali delle comunità ebraiche italiane che, in cambio di quattro moine per il governo di Israele attualmente in carica, hanno deliberatamente ignorato la sarabanda revisionista o, al massimo, reagito con una cordiale tiratina d’orecchi. C’è persino qualcuno che è arrivato a candidarsi con questo centro-destra (e sottolineo “questo”) anche se nell’alleanza c’è un partito di irrisolto orientamento xenofobo e talora frange dichiaratamente neonaziste.
Le parole dure, calunniose e vigliacche ai limiti della denuncia, questi signori hanno preferito riservarle a quei dissidenti, ebrei e non, che democraticamente criticano la politica di occupazione e colonizzazione delle terre palestinesi.
In questa circostanza sento come non appropriato il chiudere le mie riflessioni con accenti negativi.
Ho letto sulla stampa che il Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini, è profondamente irritato per il comportamento dei suoi colonnelli. Voglio credere che la sua irritazione sia sincera e che abbia seria intenzione di rimuovere dalla politica italiana le derive nostalgiche. Mi permetto di fargli una proposta: negli archivi Rai giace un film della Bbc intitolato «The Fascist Legacy», L’eredità fascista. La Rai lo ha acquistato tempo addietro e mai trasmesso, sospetto per ovvie ragioni. Fini, che oggi rappresenta la terza carica della Repubblica, chieda che venga messo in onda su Rai 1 in occasione del Giorno della Memoria, in prima serata, con lui in studio per commentarlo come si deve.
Se lo farà, ci saranno probabilmente molte reazioni scomposte, ma alla fine il paese gliene sarà grato.

l’Unità 13.9.08
Domande ai maschi
di Clara Sereni


In prima battuta mi sono chiesta: ma la voce delle donne, che fine ha fatto? Possibile che le donne non abbiano niente di nuovo da dire sulla prostituzione, sull’uso sempre più spregiudicato, proprietario e violento dei corpi, sull’idea di rinchiuderli dentro case che saranno prigioni e lager? Siccome non sono i nostri, e visto che a parlare sembra restino soltanto le brave mogli e brave madri e buone figlie, quelle che hanno vergogna di vedere e preferiscono non sapere, sui corpi venduti e comprati non abbiamo più parole? Siamo talmente affaticate dal vivere che ogni repressione ed emarginazione ci passa sopra senza commenti che non siano di bandiera? Siamo così impaurite dal nostro retrocedere?
Così intimorite che - a parte le donne presenti nelle unità di strada finché non le sopprimono - non ci poniamo più il problema di come relazionarci con chi vive condizioni di massima emarginazione, quando non di vera e propria schiavitù?
Non ho trovato la risposta, ma un’altra domanda mi si è affacciata subito dopo: ma gli uomini, hanno qualcosa da dire? Si pongono il problema di dire qualcosa?
Negli ambienti che frequento vige ancora - fortunatamente - qualche tabù: dire che le donne sono tutte puttane non sta bene, e anche l’inevitabilità del mestiere più antico del mondo non trova buona stampa. Qualcuno certamente pensa ambedue le cose, ma si perita di dirlo e questo lo considero, alla fin fine, un bene. E però...
Fra le persone che conosco, mai ne fosse capitato uno che ammetta di dirsi cliente. Al più ho sentito dire, da qualcuno abbastanza attempato e in imbarazzo, che bisogna pur provvedere alle pulsioni sessuali degli immigrati senza relazioni e senza amori: e senza soldi, aggiungo io, in mancanza dei quali incrementare l’afflusso dei clienti è piuttosto improbabile. Da quel punto di vista, la prostituzione sarebbe tutto un fatto di emarginazione, da una parte e dall’altra, e chiusa lì. Da un giovane, invece, ho sentito raccontare della rinnovata frequenza e passione per i “puttan tour”, quei giocosi assembramenti maschili, generalmente automuniti, in cui si va a sparare con le pistole ad acqua o se ne tira a secchiate, preferibilmente d’inverno, alle prostitute che così si congelano meglio. A me, attonita, che chiedevo un perché, una ragione, è stato risposto: «È divertente...», e il discorso si è incagliato, senza possibilità di riprenderlo in modo minimamente problematico.
Giovani e meno giovani, mai un discorso che valga la pena ascoltare su come gli uomini vivono la propria sessualità. Su come si relazionano, oggi, con le donne, che siano le loro compagne o altre. E invece vorrei sentir confessare e discutere, per esempio, questo bisogno maschile inesausto, anzi evidentemente in crescita, di comperare corpi - giovani più che si può, femminili in prevalenza ma poi anche maschili e transgender. Ci hanno detto che dipende dal ruolo maschile ormai pencolante, che li porta anche a picchiarle e ucciderle, le donne. E questa spiegazione sembra aver chiuso ogni altro discorso, ogni ulteriore problematizzazione. E così, se la prostituzione innegabilmente aumenta, la reazione è come per la grandine: succede, la manda il cielo, ci sono le mutazioni climatiche, che c’entro io?
L’ho già scritto, sono stufa di partecipare a manifestazioni a sostegno delle donne brutalizzate, vendute e comprate, ammazzate. I maschi devono trovare il coraggio di mettersi in gioco, di parlare. Non solo per dire: non nel mio giardino, non davanti a me, non davanti ai miei figli povere creature innocenti. I maschi devono interrogarsi a fondo sulla dicotomia donna(puttana)-madonna che sembra essersi di nuovo impadronita del sentire comune, e che dilaga nei nostri figli. I maschi devono dire “io”, e da lì partire per ragionare, per capire, e solo dopo, molto dopo, per decidere ed eventualmente legiferare. I maschi devono almeno cominciare a rendere conto alle donne di quel che pensano, di quel che fanno. Di come crescono e di come regrediscono.
Una domanda, ancora. L’educazione sessuale nelle scuole è cosa che neanche si nomina più. Il Presidente Napolitano ha apprezzato i nuovi programmi di educazione alla Costituzione. Chiedo: ma quale educazione alla Costituzione si potrà mai impartire, se mancano i minimi presupposti di vita civile, quelli che segnano i rapporti fra i generi? Il nuovo fascismo non è solo nelle affermazioni storicamente assai disinvolte di sindaci e ministri della Repubblica, o nelle singole aggressioni a migranti e diversi. Il fascismo è anche qui, nei nostri “maschi alfa” che da sempre e di nuovo si sentono liberi da ogni vincolo di coscienza e rispetto, anche nei confronti di se stessi. Abbiamo un gran bisogno di antifascismo in piazza, e bene ha fatto ad esempio la Cgil ad impegnarsi in tal senso, ma bisognerebbe cominciare a chiarire cosa significhi anti-fascismo fra le lenzuola, domestiche e non.
Non certo dalla ministra all’Istruzione, che mi appare in tutt’altre faccende repressive affaccendata, ma da qualcuno (maschio) vorrei proprio cominciare ad avere qualche risposta.

l’Unità 13.9.08
Paradosso Gelmini: tempo pieno, casse vuote
di Marina Boscaino


Il ministro promette che il tempo pieno non verrà ridotto
Sarebbe una bella notizia se non fosse per un dubbio: alla luce dei tagli annunciati quali saranno i fondi?

Il ministro Gelmini, intervistata qualche giorno fa a «Radio Anch’Io», ha tirato fuori una buona notizia: «il ritorno del maestro unico non compromette la tenuta del tempo pieno che, anzi, verrà esteso a più classi». Ma non è tutto oro ciò che luccica: tra logiche di risparmio (la conferma del taglio di 87mila posti di lavoro e il ritorno al maestro unico) e clamorose miopie culturali a sfondo demagogico («perché mai il contribuente deve pagare 3 insegnanti per una scuola primaria che funziona benissimo anche con uno solo») è legittimo chiedersi quali fondi saranno destinati all’investimento sul tempo pieno. E quale investimento culturale sarà fatto sulle 40 ore. Alla prima domanda risponde Enrico Panini: «la promessa è negata dal testo del decreto approvato in Consiglio dei ministri, che prevede l’introduzione del maestro unico in prima, seconda e terza elementare senza deroga alcuna, in contraddizione con la legge del 2006 che ripristinava il tempo pieno; in secondo luogo, se le parole del decreto hanno un senso, l’unica possibilità è che, qualora ce ne fossero le condizioni, si arrivi ad un allungamento orario, incrocio tra badantato e tempo scuola». Un modello molto simile, dunque, a quello della Moratti.
L’altra questione, quella dell’investimento culturale, è certamente più complessa. L’ossessione antisessantottina, alla quale questo governo sta dando corpo con un passatismo esasperante e anacronistico, cavalcando gli istinti più banali di una società incapace di affrontare la complessità - e dunque alla ricerca di rassicurazioni immediate e di facile realizzazione e consumo - minaccia di investire luoghi, spazi e acquisizioni che non sono esclusivamente il frutto dell’odiata cultura di sinistra, che pure ebbe l’indiscusso merito di elaborarne principi e modalità; ma soprattutto sono modelli ancora validi e risposte plausibili (per quanto perfettibili) a domande sociali e culturali di cui la scuola è per definizione il crocevia e il punto da cui partire. Il tempo pieno non va difeso solo come conquista di gloriosi anni di lotta e di partecipazione; di interesse per la cosa pubblica; di consapevolezza della funzione portante che l’educazione e la conoscenza, ma anche la socialità e lo stile di vita, hanno nell’emancipazione degli individui. Il tempo pieno va difeso perché - oggi soprattutto - una scuola consapevole, luogo di cura, di relazione, di accoglienza può rappresentare la risposta più inclusiva ed equa alle contraddizioni del reale. Può non solo rendere compiuta la cittadinanza dei figli dei migranti e della marginalità sociale; ma anche ribadire e rinforzare quella di tutti i bambini e le bambine che avranno avuto la fortuna di incappare in uno strano luogo in cui si facciano parti uguali tra coloro che una società sfacciata e impudica sempre più considera diversi. Può configurare un modello di società che non abbiamo il diritto - per noi e per i nostri figli - di considerare tramontato. Può fare tutte queste cose sorprendenti e utili attraverso un modello di integrazione didattica, di laborialità, di pluralità dei punti di vista e delle prospettive, di collegialità vissuta come confronto attivo; attraverso un progetto strettamente culturale che per molti anni ha avuto una straordinaria forza di impatto dando risposte cognitive, educative - e quindi anch’esse culturali - a bisogni sociali. L’impresa è difficile: la ostacolano il calo di motivazione degli insegnanti, il calo di tensione civile dei cittadini, il calo di fiducia in idee e temi che hanno caratterizzato una storia che la liquidità dell’oggi ci fa sembrare lontana anni luce. Ma che era solo ieri. È curioso che Gelmini e colleghi abbiano deciso scientemente di penalizzare con maggiore violenza la scuola elementare, l’ordine più efficace del sistema scolastico italiano; quello la cui esperienza didattica viene considerata esemplare da molti punti di vista. È curioso ma non casuale.
Da queste e da molte altre ragioni è motivato lo scetticismo sulla veridicità delle promesse di Gelmini: grembiule, maestro unico, tagli, provvedimenti antibullismo di facile impatto mediatico ma di probabile inefficacia, cinque in condotta, mal si coniugano con l’ampio respiro che ha dato vita ad una delle esperienze più significative della scuola italiana.

Corriere della Sera 13.9.08
L'ultima rivelazione I dossier del processo e la confessione di un amico della coppia confermano l'iniquità della sentenza
«Ethel Rosenberg innocente»: la verità 55 anni dopo l'esecuzione
Condannata con il marito per aver fornito segreti nucleari all'Urss. «Lui era la spia, lei fu incastrata»
di Ennio Caretto


L'esecuzione avvenne nel '53. Ethel aveva 35 anni Spia Morton Sobell, amico della coppia

WASHINGTON — Nel 1953, quando Julius ed Ethel Rosenberg, sposati e con due figli piccoli, vennero mandati alla sedia elettrica per avere fornito segreti atomici all'Urss, l'Europa, l'Italia in particolare, si divise tra colpevolisti e innocentisti. La spaccatura non si saldò mai: per i colpevolisti l'America, in piena guerra fredda, aveva solo fatto giustizia; ma per gli innocentisti s'era resa complice della caccia alle streghe comuniste dell'estrema destra, il maccartismo. Ieri, con il rilascio di gran parte degli atti processuali e con una intervista al New York Times di un compagno della coppia, Morton Sobell, la verità è finalmente emersa.
Spia sovietica fu unicamente Julius Rosenberg: la moglie Ethel, pur essendo al corrente della sua attività, non vi partecipò. A 55 anni di distanza, la sua condanna a morte, anziché alla detenzione, appare una sentenza iniqua anche ai fautori della pena capitale.
A ottenere il rilascio dei documenti, 41 delle 45 deposizioni al processo, uno dei più controversi della storia americana, sono stati gli Archivi nazionali e la Coalizione nazionale degli storici. Dai dossier, è chiaro che si trattò di una tragedia familiare oltre che giudiziaria: le false prove di spionaggio a carico di Ethel Rosenberg furono infatti addotte dal fratello David Greenglass e dalla cognata Ruth su pressione della Procura, che in cambio risparmiò loro la sedia elettrica.
Il fratello, che lavorava al Laboratorio di Los Alamos, e la cognata testimoniarono di avere fornito ai Rosenberg appunti presi a mano sull'atomica, e di avere visto Ethel batterli a macchina per consegnarli ai sovietici. Un falso dell'ultimo minuto, in contrasto con la loro deposizione iniziale davanti al Gran Giurì, dove avevano accusato solo Julius.
Dell'innocenza di Ethel Rosenberg erano convinti da tempo sia gli Archivi nazionali che la Coalizione degli storici: da documenti della Urss decifrati dalla Cia, risultava che il Kgb, la polizia sovietica, aveva ricevuto gli appunti a mano di David Greenglass e che non esistevano suoi appunti battuti a macchina dalla sorella. Ma ieri l'innocenza di Ethel è stata confermata anche da Sobell, che a 91 anni è l'unico sopravvissuto del clamoroso caso.
Nell'intervista al New York Times, Sobell, un altro ricercatore del Laboratorio di Los Alamos, ha ammesso per la prima volta di essere stato anch'egli una spia sovietica. Ha però sostenuto che il Cremlino possedeva già i segreti atomici e che i dati ricevuti da Julius Rosenberg erano di scarsa importanza: «Quanto a Ethel — ha concluso— ebbe solo la colpa di essere sua moglie ».
Il New York Times ha ricordato che nel 2001 William Rogers, il sostituto procuratore al tempi del processo, celebrato nel 1951, spiegò che Ethel venne incriminata per indurre il marito a confessare e a svelare i nomi di altre spie sovietiche: «Speravamo che di fronte alla minaccia di una condanna a morte della donna, Julius crollasse. Ma i coniugi non collaborarono, continuarono a proclamarsi innocenti».
Secondo il quotidiano, la politica impedì alla Procura di tirarsi indietro. Ne è convinto anche Sobell, che era riuscito a fuggire, ma fu catturato e incarcerato fino al '69: «Ethel sapeva, ma più di una volta si era tenuta fuori dalle nostre conversazioni. Tacque con le autorità per salvare il marito, un reato di omissione».
Tra il 1951 e il 1953 eminenti americani, a disagio per il caso, chiesero invano la grazia per i Rosenberg: il presidente Eisenhower la rifiutò, e la loro esecuzione fu accompagnata da proteste in tutto il mondo. Ricordandolo, uno dei loro figli, Robert Meeropol— dovette cambiare nome — si è detto lieto del riconoscimento dell'innocenza della madre. Ha rilevato lo storico Bruce Craig: «È un'amara lezione per la nostra democrazia. La Procura giudicò i Rosenberg colpevoli prima ancora del processo e non badò ai mezzi per farli condannare. Auguriamoci che non si ripeta più».

Corriere della Sera 13.9.08
Pantelleria Le piante di agrumi protette come nel 3000 avanti Cristo da edifici in pietra
Il Fai riapre il giardino dei Sumeri
di Stefano Bucci


PANTELLERIA (TP) — Potrebbe essere il risultato (finalmente concreto) di una delle tante utopie messe in scena quest'anno da Aaron Beetsky nella sua Biennale dell'architettura di Venezia. Oppure uno dei primi effetti dell'appello per progetti sempre più ecosostenibili e autosufficienti lanciato da Jeremy Rifkin. Il Giardino Pantesco Donnafugata inaugurato ieri in Contrada Khamma, a Pantelleria, è invece il frutto (come la secolare pianta di arancio dolce che lo stesso giardino ospita) di un sogno che parte da molto lontano (la prima rappresentazione di questo edificio si ritrova su una tavoletta sumerica del 3000 a.C.) ma che guarda al futuro. A come, per esempio, si possa utilizzare un modello antico «per soddisfare oggi l'esigenza idrica in assenza di irrigazione e in situazioni climatiche di grande siccità» (qui la pioggia non cade da aprile). L'isola, d'altra parte, sembra già esibire una connotazione ecologica: il 36% della raccolta dei rifiuti è differenziata mentre Pantelleria è «Parco nazionale» ed è in corsa per diventare Patrimonio dell'Unesco.
Tutto è nato dalla collaborazione tra il Fai (quel Fondo per l'ambiente italiano che fino al 30 ottobre ha avviato un censimento «per cancellare le brutture d'Italia» e che in Sicilia si sta già occupando del giardino della Kolimbetra ad Agrigento) e l'azienda vinicola Donnafugata della famiglia Rallo, che ha donato questo giardino pantesco (restaurato da Giuseppe Barbera e Gabriella Giuntoli) che rappresenta al pari dei dammusi uno dei simboli di un territorio «desertus et asperrimus » (secondo Seneca) oppure «infernale e verde» (secondo Cesare Brandi). Si tratta di edifici in pietra a secco (in massima parte a pianta circolare), privi di copertura, con una piccola porta che si apre su uno spazio simile all'hortus conclusus e che ospita poche piante di agrumi (a volte addirittura una sola).
Sono «segni» suggestivi che caratterizzano una realtà fatta di pietra lavica, piante di capperi, vento che spazza, ma anche di fichi e viti rigogliosissime. La loro presenza (circa 400) potrà diventare un elemento di attrazione turistica ma anche un laboratorio di sviluppo e ricerca. Ieri durante si è così cercato di presentare in particolare l'aspetto «moderno» di una proposta non solo ambientale (il direttore generale del Fai Marco Magnifico ha sottolineato che ora l'impegno del Fai abbraccia l'Italia «dalla Valtellina fino a Pantelleria, nel segno di una tutela che è integrazione e miglioramento»). Perché come ha spiegato Barbera (docente di culture arboree a Palermo) «i giardini panteschi proteggono la pianta dal vento, aumentano la riserva idrica del suolo, riducono l'evaporazione». Un'idea che potrebbe anche essere molto utile anche oggi; non a caso il Cnr ha messo questo giardino sotto osservazione. Perché, in fondo, il Sud del Mediterraneo, con le sue infinite realtà afflitte da siccità endemica, può ricevere un buon insegnamento anche da una pianta secolare di arancio nascosta dietro un muro di pietre, nel mezzo di un vigneto sull'isola di Pantelleria.

Repubblica 13.9.08
Ecco il segreto dell´acqua nel giardino di Pantelleria
di Carlo Brambilla


L´umidità del vento si condensa sulla pietra lavica: un microclima miracoloso
Sensori su recinti e piante per capire come usare una fortunata sequenza naturale

Come un nuraghe scoperchiato il torrione di pietra lavica del giardino pantesco sembra una fortificazione militare nel vento che sferza senza sosta l´isola di Pantelleria. Da centrotrenta giorni non scende una goccia d´acqua dal cielo. L´isola non ha sorgenti o falde profonde da cui attingere acqua. Nessuno può irrigare la terra. Ma nell´isola assetata, dietro quel muro circolare, a secco, fatto posando una sull´altra pietre vulcaniche tagliate a mano, porose come pomice, si nasconde una sorpresa straordinaria. Un immenso rigogliosissimo albero carico di arance particolarmente dolci e profumate. Un esempio di agricoltura senza acqua sul quale ha avviato una ricerca il Cnr di Bologna, in collaborazione col dipartimento di Colture arboree dell´Università di Palermo. Siamo all´inaugurazione dell´ultimo gioiello, il più meridionale di tutti, acquisito dal Fai, il Fondo per l´ambiente italiano.
Il giardino pantesco, donato dalla famiglia Rallo, proprietaria dell´azienda vinicola Donnafugata, verrà aperto al pubblico, completamente ristrutturato, nei prossimi mesi estivi. «Questa è la più piccola proprietà del Fai per estensione, ma ne siamo particolarmente orgogliosi - racconta Marco Magnifico, direttore generale culturale del Fai, arrivato sull´isola per firmare davanti al notaio l´atto della nuova donazione - un simbolo della lotta intelligente allo spreco di acqua. Una risorsa preziosa in un mondo che ha sempre più sete. Anche in Italia l´emergenza idrica è spesso una realtà quotidiana fatta di una distribuzione inefficace irrazionale ed inutili sprechi». I muri a secco di pietra consentono infatti un´agricoltura senz´acqua, realizzabile grazie alla condensa dell´umidità contenuta nell´aria marina.
A spiegare il meccanismo nella sua semplicità sono Giuseppe Barbera e Antonio Motisi, del dipartimento di Colture arboree dell´Università di Palermo: «Il vento caldo che sferza l´isola è carico di umidità. A contatto con la pietra lavica, che di notte si raffredda, l´umidità si condensa in tante piccole goccioline d´acqua. La pietra porosa raccoglie l´acqua come una spugna. E la rilascia lentamente al terreno. Consentendo alla pianta di arancio, particolarmente delicata, di crescere perfettamente. Grazie al muro che la circonda, che la protegge dal vento e permette il realizzarsi di un microclima ideale, parzialmente ombreggiato».
Condizioni ottimali che il Cnr intende studiare, applicando una serie di sensori al muro, al terreno e alla pianta. Per capire fino a che punto un´antica sapienza agricola può essere sfruttata al meglio, in futuro, grazie alle moderne tecnologie e ai nuovi materiali. Spiega Antonio Motisi: «Pensiamo a più comodi e leggeri film plastici capaci di far condensare le nebbie. O a particolari reti capaci di catturare l´umidità notturna. Per questo intendiamo studiare il bilancio energetico complessivo, durante tutto l´anno, del giardino pantesco, utilizzando termometri, termografi, strumenti sensibili ai raggi infrarossi. Per capire se questo modello può essere applicato in altre realtà agricole diverse, particolarmente povere di acqua».
Ma il giardino pantesco non interessa solo agli scienziati. Per la sua bellezza, all´interno di un´isola che non ha certo bisogno di presentazioni, è destinato ad attirare il turismo culturale attento alla tutela del paesaggio e delle tradizioni. «A Pantelleria la maggior parte dei giardini panteschi sono vuoti o da recuperare - racconta Giacomo Rallo, fondatore di Donnafugata - con questa donazione abbiamo voluto aprirne per la prima volta uno ai visitatori, nella speranza di tenere alta l´attenzione per tutto ciò che è rivolto a dare un contributo culturale al contesto che ci circonda». «I giardini murati di Pantelleria sono particolarmente importanti - commenta con entusiasmo Luca Mercalli, meteorologo e climatologo - perché sono lì a ricordarci che non bisogna perdere la memoria di quanto forse un domani tornerà utile».

Corriere della Sera 13.9.08
Asia Tour Ma a Milano uno sciopero fa saltare il balletto
La Scala debutta in Cina Applausi anche dai ragazzini
di Enrico Girardi


SHANGHAI — Si conclude oggi con un concerto al National Center for the Performing Arts di Pechino il cosiddetto «Asia Tour» dell'Orchestra Filarmonica della Scala. Iniziata in Giappone (Tokyo, Hyogo, ancora Tokyo) e proseguita in Sud Corea (Seongnam e Seoul), la marcia musicale degli scaligeri ha toccato il suo vertice ieri a Shanghai.
Se infatti Giappone e Corea sono tappe frequenti delle trasferte della Scala e di numerose formazioni europee e americane (i due Paesi rappresentano quasi il 50 per cento del mercato discografico mondiale), per la Scala in Cina si è trattato invece di una prima volta.
La Cina, del resto, è Paese giovanissimo quanto a musica occidentale. A Shanghai, capitale economica della nazione, prossima sede dell'Expo, di stagioni di musica sinfonica se ne organizzano solo da tre anni. In compenso, quando si muovono i cinesi lo fanno seriamente. Investono. E pur avendo 3000 teatri destinati agli spettacoli tradizionali, hanno costruito auditorium avveniristici per architettura e tecnologia. Tale quello di Pechino. E tale quello di Shanghai, un gigantesco edificio a forma di farfalla quasi soffocato dai grattacieli circostanti: in un'ala la sala per l'opera, nell'altra la Concert Hall da 1950 posti, nel corpo un'altra sala per la musica da camera, uffici, sale prova, persino una scuola di musica per bambini (10.000 allievi di pianoforte nella sola Shanghai). Le poltrone sono care (120-180 euro) ma si sa che la trasformazione di un sistema comunista in uno capitalistico ha costi sociali pesanti: più vale l'orchestra, più costa il biglietto.
Qui ieri, all'Oriental Art Center, sotto uno striscione che recitava «La prima serata di gala della Scala a Shanghai», i Filarmonici sono stati accolti da un pubblico giovane, con tanti bimbi, non esperto ma curioso e attento.
Ecco dunque anche il perché di un programma metà e metà: da una parte una Sinfonia di Ciajkovskij, la Quarta; dall'altra una quasi ovvia carrellata di brani d'opera: le Sinfonie da L'italiana in Algeri e dal Tell di Rossini, da La forza del destino di Verdi e l'Intermezzo da Manon Lescaut di Puccini. Bello che sia l'una sia l'altra parte siano state accolte con uguale entusiasmo. Bello che fosse un entusiasmo composto, nulla di sguaiato. Segno di un'ammirazione autentica.
Con l'orchestra un Myung-Whun Chung visibilmente felice, lui coreano, di traghettare la Filarmonica Scala in Oriente. Mai lo s'era visto così partecipe e sorridente. Sul podio però è sempre lui: gesto essenziale e chiarissimo, fraseggi molto accurati (anche quelli risaputi, seguivano un periodare con tanta «punteggiatura»), gusto per la cantabilità ma anche espressività trattenuta e colori accesi ma non troppo. Un bel concerto, di livello superiore a quello che le orchestre occidentali producono mediamente in tournée.
Entusiasmo all'estero, qualche problema a Milano: a causa di uno sciopero — indetto come atto di protesta contro la mancata conferma di alcuni lavoratori a tempo determinato — la Scala ha annullato la recita del balletto Serata Petit di martedì.

Repubblica 13.9.08
La visita di Benedetto XVI tra scetticismo e simpatie. Libé: "Missione impossibile"
Nel paese della chiese vuote "Qui non può fare miracoli"
di Giampiero Martinotti


PARIGI - "Missione impossibile" ha titolato ieri mattina Libération: «Benedetto XVI non farà miracoli in Francia, non rilancerà una chiesa che perde terreno». Il tono è più severo di quello di altre testate, ma la constatazione è unanime: il Papa visita un paese secolarizzato, malgrado due terzi dei suoi cittadini si dichiarino cattolici. E questo Pontefice così diverso dal suo predecessore, poco conosciuto dai francesi che lo considerano come un teologo poco comprensibile e molto conservatore, non potrà fare granché per nascondere le chiese vuote, le vocazioni in vertiginosa caduta, il materialismo imperante. Giovanni Paolo II poteva far dimenticare tutto ciò: nel 1997, centinaia di migliaia di giovani lo avevano acclamato sul Campo di Marte. Stavolta, come ha sottolineato L´Express, l´arcivescovado ha preferito la più piccola spianata degli Invalidi per la messa pontificale: «Paragonando le due cerimonie, se ne sarebbe dedotto che i fedeli erano molto invecchiati», ha detto l´arcivescovo della capitale.
La visita del papa ha però suscitato poche polemiche. Le protesta dei giornalisti della rete pubblica France2, che hanno lamentato lo slittamento del telegiornale delle 13 a causa della diretta da Orly e dall´Eliseo, fa soprattutto sorridere. E le proteste politiche sono state ridotte ai minimi termini. Tutti i commentatori hanno sottolineato la prudenza di Benedetto XVI, la moderazione delle sue parole, l´assenza di parole o concetti che potessero irritare la suscettibilità di un paese gelosamente attaccato alla laicità.
In fondo, a suscitare commenti politici è stato soprattutto Nicolas Sarkozy, che ha di nuovo parlato di «laicità positiva». Aggiungendo un aggettivo che non piace a molti. Il segretario socialista, François Hollande, lo ha accusato di discostarsi dal suo ruolo di guardiano delle istituzioni: «Confonde il suo ruolo di presidente della Repubblica con le sue convinzioni personali, confonde il rispetto dovuto alle religioni e il posto che si deve accordare loro nella Repubblica». Ma nessuno ha polemizzato con il Pontefice, accolto anzi con fervore dai parigini assiepati lungo il percorso della papamobile.

il Riformista 13.9.08
«Ora et labora» Il Papa indica all'Europa la via dei monaci
Il Papa ha detto che senza i monaci non ci sarebbe stato neanche Voltaire
di Paolo Rodari


Nella laicissima Francia, nel paese che, da Voltaire in giù, è per il mondo intero la "patria dei Lumi", Benedetto XVI ha vestito, in occasione della sua visita a Parigi (poi seguirà quella a Lourdes), davanti alle autorità del paese adunate all'Eliseo, i panni del professore di storia che spiega come attorno al concetto di «laicità positiva» Chiesa e Francia, lui e il presidente Sarkozy, possano viaggiare su binari mai così vicini e sintonici. Un tema, questo, secondo un diverso accento affrontato anche nell'attesissimo discorso del pomeriggio, quello tenuto al College des Bernardins davanti a 700 rappresentanti del mondo della cultura. Anche qui, il Papa, ha voluto vestire i panni del professore di storia per indagare sulle radici cristiane dell'Europa, la genesi insomma di un continente dove oggi «per molti - ha detto - Dio è diventato veramente il Grande Sconosciuto». Un discorso che non ha voluto spiegare all'intellighenzia transalpina quali siano i valori a cui un continente cristiano dovrebbe richiamarsi, quanto l'origine della sua stessa identità cristiana: il monachesimo che nel medioevo seppe creare dei luoghi di aggregazione culturale dove non soltanto la teologia (fede) ma anche le scienze (ragione) vennero indagate e poterono progredire senza frizioni e separazioni.
Anche il presidente Nicolas Sarkozy ha promosso nei suoi interventi di ieri il concetto di laicità positiva, mostrando come lui e il Papa si trovino sostanzialmente d'accordo sul rapporto tra Chiesa e Stato, sul delicato tema della laicità, e su come le due istituzioni possano e debbano interagire.
Benedetto XVI ha anticipato il suo pensiero fin dalla breve conferenza stampa tenuta nell'aereo che in mattinata lo ha portato in Francia. «È ovvio - ha detto - che la laicità non è in contraddizione con la fede». Parole alle quali ha replicato Sarkozy già all'aeroporto dove con Carla Bruni ha accolto il Pontefice: «Privarsi delle religioni - ha detto l'inquilino dell'Eliseo - sarebbe una follia, un errore contro la cultura e contro il pensiero». Per il Papa, infatti, «i valori cristiani sono fondamentali per la costruzione dello Stato e della società». Anche perché, certamente, si tratta di «due sfere che devono rimanere aperte l'una verso l'altra».
Touché, direbbero in Francia. Bersaglio centrato, potremmo tradurre in Italia: la sintonia tra il Papa e Sarkozy, canonico onorario di San Giovanni in Laterano, ha toccato in questo modo la sua più alta espressione pubblica. Anche padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, lo ha riconosciuto: «Questo viaggio si presenta sotto i migliori auspici». Auspici poi confermati anche dai lunghi applausi che il discorso di Ratzinger ha ottenuto all'Eliseo, dalla standing ovation del College des Bernardins e, infine, dagli applausi della folla lungo le strade parigine.


«I due interventi tenuti ieri da Benedetto XVI a Parigi avevano finalità diverse. Il primo era proiettato a riflettere sullo storico rapporto esistente tra la Francia e la Chiesa cattolica. Il secondo, invece, era indirizzato a mostrare - ed è significativo che l'abbia fatto nella patria dei Lumi - come si sia formata la cultura europea: attraverso lo studio operato dal monachesimo della parola di Dio è nata la teologia, la filosofia, e sono nate le scienze. I monasteri medievali erano luoghi che riproponevano sempre quel nesso inscindibile di fede e ragione e Benedetto XVI, parlando proprio di questo nesso, ne ha voluto mostrare anche il fondamento storico. Questo intervento, a mio avviso, è un distillato ratzingeriano, un testo musicale e armonico, che nel suo progredire ha mostrato il proprio scopo. E cioè come attraverso lo studio della parola di Dio si sia sviluppato il sapere umano».
Carlo Cardia, professore di Diritto ecclesiastico e di Filosofia del diritto all'Università di Roma Tre, spiega così al Riformista il senso della prima giornata di Benedetto XVI a Parigi, Cardia conosce bene le dinamiche Stato-Chiesa, avendo lavorato come esperto dell'allora Pci e come consulente per il governo italiano nella revisione del 1984 dei Patti Lateranensi e nella successiva regolazione del finanziamento alla Chiesa italiana. Oggi fa parte della commissione paritetica italo-vaticana per l'applicazione del Concordato.
Professore, rivolgendosi alle autorità francesi il Papa ha elogiato le aperture di Sarkozy a un modello di laicità positivo. È così?
«Benedetto XVI mi sembra abbia voluto recuperare il rapporto con la Francia, che è sempre stata considerata "figlia dilettissima" della Chiesa. Anche l'accenno alle difficoltà del passato è in secondo piano rispetto al fatto che oggi il rapporto corra su buoni canali».
Quali?
«La Francia è un paese da sempre attento al rapporto tra i popoli. Il Papa le riconosce questa caratteristica e dice che su questo tema la sintonia con la Santa Sede può migliorare. Certo, Sarkozy facilita questa sintonia tra Chiesa e Francia. Egli, infatti, ben prima di diventare presidente della Repubblica, aveva parlato della necessità di mettere in campo una laicità positiva e, singolarmente, lo aveva fatto grazie alla sua conoscenza del mondo islamico, come spiega nell'ormai famoso libro-intervista La République, les religions, l'espérance . Parole come queste rappresentano per la Francia una rottura netta col passato».
Le medesime cose Sarkozy le disse il 20 dicembre del 2007 in San Giovanni in Laterano…
«Il discorso del Laterano fu in questo senso mirabile. Si sentiva, infatti, l'orgoglio francese proiettato al recupero della cattolicità della stessa Francia».
Tre giorni fa però il cardinale Bertone ha detto, in un'intervista concessa a La Croix e in riferimento alle aperture di Sarkozy sulla laicità, che «alle parole debbono seguire i fatti»…
«Benedetto XVI ne ha fatto un breve cenno nel discorso della mattina quando ha spiegato che, già dal 2002, le cose erano iniziate a cambiare grazie all'istituzione di una sorta di tavolo d'incontro scaturito anche qui dal bisogno del presidente francese di coinvolgere il mondo musulmano. Certo, come ha detto Bertone le cose possono e debbono migliorare, ma già qualche passo in avanti si è fatto».
Al College des Bernardins il Papa ha invece parlato di fede e ragione.
«Ha parlato del rapporto tra fede e ragione alla luce della storia. Dunque fede, ragione e storia. Benedetto XVI, cioè, non ha voluto parlare dei valori cristiani che stanno alla base del continente europeo, ma è voluto partire dalla genesi della cultura cristiana in Europa, e quindi dal nesso inscindibile di fede e ragione così some storicamente si è formato. E lo ha voluto fare, significativamente, davanti all'intellighenzia del paese dei Lumi».
Cosa c'entra il monachesimo in tutto questo?
«Ascoltando il Papa parlare ci si domandava perché citasse i monaci e quello che nel medioevo facevano: lo studio della parola, dei classici, della musica. E poi il fatto che gli stessi monaci per la prima volta abbiano nobilitato il lavoro togliendogli il carattere servile e rapportandolo alla dignità dell'uomo. Ma si è capito poi, ascoltandolo, dove volesse arrivare. Voleva parlare del fatto che l'Europa, le sue scienze, le sue teologie, si sono formate proprio nei monasteri. Erano dei centri di irradiazione culturale che hanno permesso il formarsi del nostro continente, anche delle scienze. Le radici della cultura occidentale stanno in questi centri di cultura». (P. Rod.)

il Riformista 13.9.08
I 700 professori. L'esame degli intellos
Il parterre laico, missione impossibile
di di Luca Sebastiani


A guardar bene la scena non si capiva con precisione chi fosse ospite di chi. Se fosse Benedetto XVI a essere in udienza dagli intellettuali francesi o il contrario. Ieri il confine tra i ruoli era decisamente poroso al College des Bernardins dove il Papa aveva convocato settecento rappresentanti del mondo culturale d'oltralpe per rivolger loro un discorso su fede e ragione, religione e laicità. Per declinare di fronte ai guardiani della Francia secolarizzata un ragionamento sui rapporti tra Chiesa e Stato. Che di fronte all'intellighenzia parigina è come pretendere di rubare in casa del ladro. Non a caso Benedetto XVI, per non irritare la suscettibilità parigina, ha soppesato le parole con estrema cautela, come di fronte a una commissione d'esame.
A eccezione dell'ex presidente della Commissione europea Jacques Delors, il parterre che ha ascoltato il Papa era completamente sprovvisto di rappresentanza politica. C'erano scrittori noti come Daniel Pennac e meno noti come Pierre Micron. Scienziati, storici, accademici di Francia come Marc Fumaroli e poeti come François Cheng. E registi, scultori, giornalisti e universitari di ogni campo.
Si sa che in Francia l'aristocrazia intellettuale più o meno engagé ha sostituito da tempo la vecchia aristocrazia di sangue. La casta intellettuale ha un ruolo di primo piano nella République, subito accanto al monarca repubblicano. Candidato alla presidenza, il parvenu Nicolas Sarkozy spese non poca energia per cooptare dalla sua parte qualche intellettuale di primo piano che gli permettesse di penetrare in un modo a lui ignoto ma necessario per entrare all'Eliseo. La mossa gli riuscì e dopo il nouveau philosophe André Glucksmann, uno a uno fecero coming out in suo favore parecchi prestigiosi esponenti dell'Accademia. Compreso lo storico e accademico di Francia Max Gallo, che da ex socialista e ispiratore della nuova «laicità positiva» alla Sarkozy, ieri sedeva tra i primi ranghi ad ascoltare le parole del Papa.
Ma il mondo intellettuale francese, contrariamente alla fronda sarkozista, è profondamente attaccato alle prerogative sul magistero intellettuale che gli sono attribuite dalla stretta separazione tra Stato e Chiesa. E Benedetto XVI era perfettamente conscio della difficoltà della prova. Ma il suo era un passaggio obbligato. Certo il presidente della Repubblica ha concesso più di un'apertura alla Chiesa cattolica, in particolare rivendicando le radici cristiane della Francia e auspicando un maggiore spazio nella vita pubblica per la religione. Ma i veri guardiani del dibattito pubblico, in Francia, sono gli intellettuali e se si vuole pesare è attraverso loro che bisogna farlo. Non è un caso che il Papa li abbia incontrati subito dopo essere stato ricevuto da Sarkozy. Il discorso al College des Bernardins era tutto mirato alla riconquista dell'egemonia culturale in un paese tra i più secolarizzati d'occidente.
Per ridare visibilità e peso alla Chiesa e al cattolicesimo è in primis agli intellettuali cattolici che il Papa si è rivolto. L'obiettivo era quello di spingerli ad assumere in maniera militante la loro fede. A questo proposito non sfuggiva la presenza nella platea di uno storico come Jacques Juillard o di uno scrittore come Philippe Sollers, intellettuali che hanno sempre tenuto la loro fede relegata nella sfera privata. E non sfuggiva neanche la presenza del filosofo Regis Debray, l'ex guerrigliero trotzkista che dopo aver combattuto al fianco di Che Guevara è tornato a Parigi per occuparsi di religione.
Per riuscire nel suo intento Benedetto XVI aveva una serie di carte da giocarsi. Innanzi tutto ha potuto farsi accettare in quanto membro a pieno titolo del mondo intellettuale. Il tema del rapporto tra fede e ragione è stato al centro della sua vita di studioso e quindi ne ha parlato ai parigini nelle vesti di esperto. Dall'altro Benedetto XVI poteva vantare una certa conoscenza dell'universo culturale francese. Il Papa parla un francese senza accento ed è oltretutto un grande lettore di François Mauriac, Paul Claudel e Georges Bernanos. Proprio per questo non gli sarà sfuggita la situazione di isolamento che gli intellettuali cattolici hanno sempre scontato oltralpe. Da aristocrazia del sapere, l'intellighenzia francese gode di un'ottima posizione e di una grande autonomia. Tornare sotto il magistero della Chiesa, qualunque essa sia, per ora non dovrebbe interessarla. Non a caso Libération, in relazione alla scommessa del Papa, titolava: «Missione impossibile».



Repubblica 13.9.08
Restare se stessi in terra straniera è la sfida dell´era delle diaspore
di Zygmunt Bauman


Stiamo vivendo la terza fase delle migrazioni, quella che più di ogni altra ci impone il tema della convivenza
La nuova incarnazione dei diritti umani è il diritto a preservare l´identità anche nei paesi ospitanti

Le città, ed in particolare le metropoli, sono come pattumiere in cui i problemi della globalizzazione vengono gettati. Sono anche laboratori in cui l´arte di vivere con questi problemi (pur non risolvendoli) è sperimentata, messa alla prova e (speriamo) sviluppata. Mi concentrerò su un aspetto del processo di globalizzazione: e cioè, il mutamento di alcuni aspetti della migrazione globale.
Si possono individuare tre distinte fasi migratorie nell´epoca moderna. Quella attuale, la terza, tuttora in pieno vigore e slancio, ci porta nell´era delle diaspore: un arcipelago planetario di insediamenti etnici/religiosi/linguistici ha indotto una logica della redistribuzione planetaria delle risorse umane. Le diaspore sono disseminate, diffuse, si estendono in molti territori sovrani, ignorano le rivendicazioni territoriali per la supremazia di richieste e doveri locali, sono schiacciate dal doppio (o multiplo) legame della "doppia (o multipla) nazionalità" e doppia (o multipla) lealtà.
La nuova migrazione pone un punto interrogativo al legame tra identità e cittadinanza, individuo e luogo, vicinato e appartenenza. I confini del proprio "quartiere" sono porosi, è difficile identificare chi vi appartiene e chi è un estraneo. Che cos´è ciò a cui apparteniamo in questa località? Che cos´è ciò che ognuno di noi chiama casa e, quando ricordiamo e ripensiamo a come siamo arrivati qua, quali storie condividiamo? Vivere come noi in una diaspora tra diaspore ha imposto alla nostra attenzione il tema della "convivenza con la diversità". È probabile che avvenga solo una volta che tale differenza non sia più percepita puramente come una "irritazione temporanea", e così, diversamente dal passato, urgentemente bisognosa di interventi specifici, insegnamento e apprendimento. L´idea dei "diritti umani", si traduce oggi nel "diritto a essere diverso".
Un po´ alla volta, questa nuova interpretazione dell´idea dei diritti umani, tutt´al più, semina tolleranza; deve cominciare seriamente fin d´ora a seminare solidarietà. La nuova interpretazione dell´idea di diritti umani scardina le gerarchie e distrugge l´immagine di una "evoluzione culturale" verso l´alto (progressiva). Forme di vita galleggiano, si incontrano, scontrano, precipitano, si aggrappano l´una all´altra, si fondono, si separano (per parafrasare George Simmel) con uguale gravità specifica. Le fisse e monolitiche gerarchie e le linee evolutive sono state sostituite da interminabili lotte per il riconoscimento, endemicamente inconcludenti; o al massimo da scale gerarchiche rinegoziabili.
Potremmo dire che la cultura è nella sua fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà di scelta individuale. E dovrebbe sostenere tale libertà; assicurarsi che la scelta sia inevitabile: una necessità vitale e un dovere. La cultura contemporanea si basa su offerte, non norme. Come già notato da Pierre Bourdieu, la cultura vive secondo la seduzione, e non regole normative; secondo relazioni pubbliche, e non mantenimento dell´ordine; creando nuovi bisogni/desideri/volontà, non coercizione. Questa nostra società e una società di consumatori, e proprio come il resto del mondo è vissuto da consumatori, la cultura si trasforma in un magazzino di prodotti pensati per il consumo – in cui ognuno di essi compete per catturare l´attenzione di potenziali consumatori nella speranza di attirarli e trattenerli per un attimo. Abbandonare i rigidi standard, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti non privilegiandone alcuno, incoraggiare la discontinuità e la "flessibilità" e romanticizzare l´instabilità e l´inconsistenza, è questa la "giusta" strategia da perseguire.
L´attuale fase di progressiva trasformazione dell´idea di cultura dalla sua originaria forma ispirata all´Illuminismo verso la sua reincarnazione liquido-moderna è stimolata e gestita dalle stesse forze che promuovono l´emancipazione dei mercati dagli impedimenti di natura non-economica – cioè da quei legami sociali, politici ed etici. Perseguendo la propria emancipazione, l´economia, focalizzata sul consumatore liquido-moderno, fa affidamento sulle offerte in eccesso, sul loro invecchiamento accelerato, e sul rapido declino del loro potere seduttivo – cose che, tra l´altro, la rendono un´economia di dissipazione e spreco. Dal momento che non è dato sapere in anticipo quali offerte si riveleranno sufficientemente attraenti da stimolare il desiderio consumistico, l´unica soluzione è quella di costosi tentativi.
La cultura sta diventando ora come uno di quei reparti del tipo "tutto ciò che ti serve e che puoi sognare" dei grandi magazzini in cui il mondo abitato da consumatori si è trasformato. Come in altri reparti di quel magazzino, le mensole strapiene sono rifornite giornalmente di merci, mentre i banchi sono addobbati con le ultime offerte commerciali destinate a scomparire immediatamente, assieme alle attrazioni che pubblicizzano. Le merci e le pubblicità allo stesso modo sono pensate per accrescere i desideri e stimolare le volontà (come George Steiner ha notoriamente descritto – "per un massimo impatto e un immediato invecchiamento"). I commercianti e i copywrighter contano sul connubio tra il potere seduttivo delle offerte e la radicata "arte di primeggiare", il desiderio di "ricavarsi uno spazio" proprio dei potenziali consumatori. La cultura liquido-moderna, differentemente dalla cultura dell´epoca del nation-building, non ha persone da acculturare. Ha invece clienti da sedurre. E, diversamente dai suoi predecessori "solidi moderni", non vuole più lasciare che le cose si risolvano da sole, il suo compito oggi è rendere permanente la sua sopravvivenza – rendendo temporali tutti gli aspetti della vita dei suoi precedenti protetti, ora rinati come clienti.
(Traduzione di Silvia Sai, testo elaborato in occasione del primo Festival delle Culture "Uguali-Diversi" a Luzzara e Novellara dal 12 al 14 settembre)

Repubblica 13.9.08
Una ricerca Israele-Usa pubblicata su Science "La memoria è come un videoregistratore"
Il replay della mente così i ricordi nutrono il cervello
di Elena Dusi


A ogni immagine che si forma nella nostra testa si attiva un mosaico di neuroni

Un neuroscienziato sa cosa pensa un uomo prima ancora che lui se ne renda conto. Quando un´idea o un ricordo iniziano a sbocciare nella testa, dei sensori elettrici possono coglierla prima che raggiunga la superficie della coscienza. Lo hanno dimostrato dei ricercatori americani e israeliani in un esperimento pubblicato su Science. Il risultato in realtà lascia un po´ l´amaro in bocca, perché finisce con il paragonare la nostra mente a una sorta di videoregistratore. Semplificando molto, è come se bastasse attaccare una spina elettrica per "osservare" le immagini che scorrono nella nostra testa, nel momento in cui ricordiamo il volto di una persona incontrata ieri o il film visto la sera prima. E se il sensore elettrico è piazzato al punto giusto in quella "centralina" della memoria chiamata ippocampo, raccogliere il ricordo è questione di un attimo: gli scienziati di fronte al video impiegano addirittura uno o due secondi in meno rispetto a quanto non faccia la coscienza di chi ricorda.
Un esperimento come quello guidato da Hagar Gelbard-Sagiv del Weizmann Institute di Rehovot, in Israele, e da Itzhak Fried dell´università della California a Los Angeles può essere tentato solo su individui gravemente ammalati di epilessia in attesa di un intervento chirurgico. In ogni caso, prima dell´operazione, a questi pazienti va inserita una minuscola sonda che arrivi nelle profondità del cervello, laddove si trova un´area a forma di virgola chiamata ippocampo. È qui che i ricordi vengono immagazzinati alla rinfusa appena arrivano, in attesa di essere scomposti e spediti nelle aree del cervello deputate alla loro conservazione a lungo termine.
Con la sonda posizionata nell´ippocampo di tredici pazienti, i neuroscienziati hanno osservato uno per uno i circa cento neuroni che si attivavano mentre sullo schermo di una tv scorreva una scena dei Simpsons o di un altro telefilm capace di stimolare attenzione e umorismo. Lo stesso esperimento è stato ripetuto mostrando agli individui con l´epilessia delle foto di animali o cartoline con la torre Eiffel o paesaggi diversi. A ogni immagine corrisponde un mosaico di neuroni che si attivano.
L´ippocampo registra questo schema nel momento in cui guarda la foto o la scena del film. Un´ora più tardi, quando ai pazienti viene chiesto di richiamare l´immagine dalla loro memoria, la sonda ha osservate esattamente gli stessi neuroni che si riaccendevano. Ricordare, dunque, è un po´ come rivivere. O più banalmente, come premere il tasto "replay" su un videoregistratore. Ma nonostante il fascino straordinario di riuscire a osservare il nostro cervello mentre lavora con la definizione del singolo neurone, la spiegazione degli scienziati israeliani e americani scatena più domande di quante non ne soddisfi. Dove per esempio viene conservato lo "schema" di accensione dei neuroni relativo a Homer e dove quello che caratterizza Lisa. E come la memoria a breve termine viene processata e trasformata in memoria a lungo termine, in aree lontane dall´ippocampo.

Repubblica 13.9.08
Remo Bodei racconta l´idea che anima la rassegna
Il dono di vedere un mondo che non c´è
di Ilaria Zaffino


"La gente è stanca del fast food intellettuale fornito dalla tv. Ha voglia di approfondire. Divertendosi"

Accade a tutti di immaginare chi saremmo potuti essere se non avessimo conosciuto quella persona, se non ci fossimo trovati in una determinata situazione, se non fosse capitata una certa occasione. La fantasia è una facoltà che possediamo sin dall´infanzia. Sfruttata dai bambini nei giochi, sperimentata di notte nei sogni e ogni giorno nel formulare ipotesi. Da un lato è legata all´idea di arbitrio, di velleitaria fuga dalla realtà. Dall´altro svolge una funzione vitale nel non vedere il mondo com´è e nel promuovere la creatività artistica, scientifica. Persino le scelte nella vita di tutti i giorni». Remo Bodei, supervisore scientifico del Festival della Filosofia, che per l´ottavo anno animerà durante il prossimo fine settimana le città di Modena, Carpi e Sassuolo, spiega la scelta del tema guida di quest´anno: la fantasia, appunto. «Quello strumento» come lo chiama lui «che è un antidoto alla finitezza di ogni esperienza individuale e viene utilizzato per sognare una vita diversa; per rendere la nostra vita più ricca e soddisfacente, intrecciandola con quella degli altri, conosciuti o non conosciuti, vicini o lontani, nel tempo e nello spazio». E proprio a "La vita degli altri (e la nostra)" è dedicato uno degli interventi di Bodei al festival. Insieme a lui si confronteranno col pubblico grandi maestri del pensiero contemporaneo.
«Ad esempio Giacomo Rizzolati, il padre dei neuroni a specchio, racconta come funziona il "teatro della mente". Isabelle Stenger, assistente del premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, illustra la pratica dell´invenzione nella scienza, l´importanza cioè dell´immaginazione scientifica. E, ancora, il francese Marcel Detienne parla dei miti di ieri e di oggi, dall´antica Grecia fino al mito della Padania. Ma si discuterà anche di proiezioni immaginative della maternità, di Second Life, del rapporto tra verità e finzione, e dei risvolti che questo ha sul cinema e sulla moda. C´è molta attenzione al momento dell´imparare divertendosi, con uno spazio dedicato ai bambini, come i "lettini parlanti" dove si possono ascoltare le favole o le bolle di sapone tanto grandi da contenere una persona. C´è il teatro, con Massimiliano Finazzer Flory che propone una pièce su Borges. L´arte, e tanta musica».
Cosa c´è dietro al successo di un festival che ha per oggetto una disciplina vecchia di 2.500 anni?
«La gente è stanca del fast food intellettuale fornito dalla tv. Ha voglia di imparare, di approfondire nozioni scolastiche, vedere persone di cui ha sentito parlare e di cui ha letto libri, ha voglia di stare insieme. Di festival ce ne sono tanti: qui non vogliamo dare pillole di saggezza, ma discutere su un tema che coinvolge la vita di tutti. Quest´anno ci sono 40 lezioni magistrali e 200 appuntamenti gratuiti per dimostrare che la filosofia non muore mai. Anzi rivive a ogni stagione, perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamente riformulati».
Come si presenta oggi la scena filosofica italiana? E quella internazionale?
«Cominciamo dall´estero: la filosofia italiana inizia a circolare, a essere apprezzata all´estero. Le filosofie europee, e sulla scia di queste quella italiana, sono molto studiate: vengono tradotti molti libri, ad esempio Vattimo o io stesso. In Italia il discorso è più complicato. Dall´Umanesimo la nostra è stata una filosofia civile. Una filosofia della ragione impura, che non si rivolge ai filosofi, ma ai cittadini colti, con la funzione di educare le élite. Una filosofia che ha dato il meglio negli aspetti legati alla realtà: la politica, ad esempio, con Machiavelli o Gramsci; la storia con Croce. Però ora questo modello è entrato in crisi: si è indebolito l´impegno politico, molti filosofi sono diventati concessionari di filosofie straniere. Non è che manchi il pane teorico ai filosofi, bisogna solo aspettare che passi questo momento di transizione.E intanto cresce la preoccupazione per il futuro e per i grandi temi come l´ecologia, i disastri climatici: la natura è tornata protagonista come ai tempi della filosofia greca delle origini. Solo che si è creato un antidestino: prima la natura era immodificabile. Oggi la possiamo cambiare: le donne possono avere figli dopo la menopausa. Fino all´estremo che si possa arrivare a donne e uomini di allevamento».

Repubblica 13.9.08
"Oltre l´almeno", divagazioni d´autore (e d´attore) sul tema della fantasia
Alla fonte dell´immaginazione
di Alessandro Bergonzoni


Attore e autore teatrale,è al Festival della Filosofia domenica 21 settembre (alle ore 21, Modena, piazza Roma) con lo spettacolo "Il pensiero orda e sue convulsioni:la fantasia incontra Bergonzoni":una serata di divagazioni e invenzioni linguistiche. Di seguito un estratto del suo intervento

La Fantasia lì nasce. È il cambio che si danno i mondi durante il turno delle cose. (Oh mania vergine, fammela scaturire!). Il planare conserva la terra un attimo in più del precipitare.Chi dice che una scure di giorno (precipitare), di notte non si travesta da piuma per provare nuove armonie (planare)? La Fantasia.
Con Ella si tratta o non si tratta. Si tratta di sibili mnemonici impercettibili, di rivelazione (poi, solo dopo, azione e rivoluzione!). Si tratta di starnuti sessuali, di angurie al sangue, di geometria delle fiamme, di rosari senza spine, della decenza fatta di dieci sottili bordi (bordelli), di sfiniture, di indugi vascolari, di allettame,di ostriche che non son altro che orecchie fossili (mettile davanti agli occhi e sentirai il mare); si tratta di avvertire il dolore di non venire se c´è gia sofferenza, di far scoppiare le cariche dello stato (delle cose). La Fantasia parla di se stessi: se stessi per guarire? Se stessi per stridere? Se stessi per stanare? Se stessi per rimpinguare? Se stessi per umettarmi? E adesso afroditemi: posso tornare ad esser dea? Altrimenti torno venia e chiedo asilo alle dita che tengo sempre nella fondina delle mani. Regalatevi un anello prima che diventi di nuovo una linea, prima del suo decerchiarsi. Dal punto di vista filosofico, la ragion d´essere, la ragion pura e la ragion veduta centrano? Certo: la pura veduta ce l´hai solo dall´essere! Prendi esempio dalle ciglia: cadi e vedrai ! Si tratta di altre metereoligiche, è questione di invento, d´altro. Invece certuni (nel senso unico di troppo certi) continuano a voler medaglie sul petto quando ormai è solo ora di cambiare il petto, liberarlo dalla gabbia toracica, per farsi contagiare dal fiato delle statue, scrutando il cielo dei passi col capo-volto, il mare in uno sputo, gli inguini di confine, le vitali morie, le orde anomale, il pulviscolo esoterico, la stagione in cui fioriscono gli attaccapanni pensando contemporaneamente a cosa prova un bottone quando entra nell´asola.
Invece, ancora certuni, continuano a parlare di storie decise a tavolino che nemmeno il tavolino avrebbe pensato, di temi scelti dal visto (per non andare da nessuna parte), sceneggiature da pavida cosmesi (per far buon viso), romanzi per rassicurare. Oh Fantasia falli! Incominciare a smettere di volersi riconoscere in quello che vedono e sentono, di cercare solo l´attuale, gli eventi reali (ne re ne ali)! Chetorni! Il creare come la prima delle volte, le volte dell´architettura, dell´immaginazione cruenta, le ampie volute, potute e dovute. Dicono: e la verità? Filosoficamente, nell´arte, la verità va detta o basta scoprire che ne esistono altre? Mistero: per calcolare l´aria della fantasia bisogna moltiplicare frase per altezze e tutto sommato non dividere niente. Per tutto ciò, devo qualcosa?
Devo pensare alla distanza che c´è tra l´ugola e il Natale (non parlare solo delle sue vacanze). È un esempio d´esempio. Devo intuire quel che prova la modestia quando indossa un uomo (non saperne di più attraverso un film sulla timidezza). Un altro esempio d´esempio. Devo scoprire cosa pensa il litro, a prescindere dal suo liquido, quando resta per anni dentro una bottiglia (non sentirmi raccontare ancora cosa dimostra la chimica o cosa dicono le storie sul vino).
Fantasia, dacci dentro! (Ci abbiam dato troppo fuori!).

venerdì 12 settembre 2008

Repubblica 12.9.08
Fascismo, Bertinotti attacca Fini
di Giovanna Casadio e Giovanna Vitale


"Colpa sua il revisionismo". E Amato rompe con Alemanno
Dopo il discorso di insediamento,dopo quello di La Russa, Napolitano ha parlato da garante

ROMA - Non è che Fini se la può cavare prendendo le distanze dai suoi "colonnelli", dal sindaco Alemanno che derubrica le responsabilità del fascismo e indica solo nelle leggi razziali il male assoluto e dal ministro La Russa che rende omaggio ai combattenti di Salò. Fausto Bertinotti attacca l´ex leader di An e suo successore alla presidenza della Camera. È Gianfranco Fini - ad esempio nel discorso di insediamento a Montecitorio - ad avere aperto la strada a «quegli scampoli» anticostituzionali. Ha proposto «l´a-fascismo, la de-ideologizzazione. Una volta che è caduta la discriminante antifascista, se viene meno questo paradigma che fonda la nostra Repubblica, sono appunto recuperati scampoli che poi naturalmente destano scandalo, e così un ministro si permette di dire quello che ha detto...».
Durissimo nella sostanza, misurato nella forma il "lìder maximo" di Rifondazione, che si è ora defilato dalla politica attiva, e ieri partecipa a un dibattito sull´antifascismo a Villa Tuscolana a Frascati alla Summer School di Magna Carta, il pensatoio liberalforzista animato da Gaetano Quagliariello. Per questo, è intervenuto il Capo dello Stato che «deve fare valere il fatto di essere garante della Costituzione. Il presidente Napolitano difende la Carta contro la costituzione materiale che si sta costruendo». Bertinotti dà lezione: ricorda il valore della memoria («Il rischio maggiore è quello di non ricordare, ho chiamato Duccio mio figlio in onore del comandante partigiano Duccio Galimberti»); ammette che piegare l´antifascismo a un uso politico lo impoverisce: «L´antifascismo è il fondamento dell´unica religione civile di questo paese». Non risparmia "affondi" a Berlusconi né al Pd denunciando «l´erosione della democrazia», il «regime leggero», la mancanza di un´opposizione come progetto alternativo, quel vizio di dire «la scuola, la sicurezza, la sanità non sono né di destra né di sinistra». Come se la politica fosse «amministrazione».
Proprio sull´antifascismo e sui valori della Costituzione c´è stato un chiarimento tra il presidente Napolitano e Fini. Dieci minuti di colloquio privato, un faccia a faccia al Quirinale che sia il capo dello Stato che il presidente della Camera hanno voluto.
E in questo clima surriscaldato dalle polemiche, dopo la bacchettata del capo dello Stato alla destra, Giuliano Amato ha tratto il dado e ha ufficialmente comunicato con una telefonata al sindaco Alemanno la sua retromarcia sulla commissione Attali in salsa romana. «Non ci sono le condizioni politiche né il clima per la mia partecipazione alla commissione per lo sviluppo per Roma», ha detto ad Alemanno. Il sindaco capitolino ha cercato in tutti i modi di dissuaderlo: «Aspetta, questo per me è un grande problema». Già nei giorni scorsi c´erano state molte altre defezioni di personalità di spicco, si era parlato di Renzo Piano e di Andrea Riccardi. Amato resterà solo nella commissione dei giuristi.
Di antifascismo parla anche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani: «Sui valori della Reistenza non si arretra», avverte. E rispetto alle sortite di Alemanno e La Russa: «Noi non dobbiamo sentire solo l´indignazione ma dobbiamo tornare in piazza e dire non le nostre ragioni ma le ragioni della verità».

l’Unità 12.9.08
Epifani: pronti alla piazza per i valori antifascisti
Non ci sarà un’altra commemorazione sporcata dai rigurgiti revisionisti dei finiani


La promessa della Cgil è chiara: il sindacato è pronto a scendere in piazza se i fatti dell’ultimo 8 settembre si ripeteranno ancora una volta. Guglielmo Epifani lo dice senza giri di parole: «se ad ogni commemorazione da ora in poi il ministro della Difesa dirà che in fondo erano tutti, seppure su fronti diversi, figli della stessa storia, chi combatteva per la libertà e chi combatteva insieme con i fascisti e i nazisti; oppure se possiamo consentire che il sindaco di Roma dica che fino alle leggi razziali il fascismo non aveva commesso fatti esecrabili, noi non dobbiamo sentire solo l’indignazione, ma dobbiamo tornare in piazza a dire non le nostre ragioni, ma le ragioni della verità. Sui valori della Resistenza e della Costituzione "non si arretra», semplicemente.
Il segretario generale della Cgil ieri ha parlato dal palco dell’attivo dei delegati bolognesi cui presentava la mobilitazione prevista in tutta Italia contro la politica economica del Governo Berlusconi. Ma nella città emiliana medaglia d’oro per la Resistenza è inevitabile non rievocare quelle parole del sindaco romano Gianni Alemanno e del ministro Ignazio La Russa, i quali alla prima occasione di commemorazione ufficiale si sono lanciati in un improbabile tentativo di riabilitare il fascismo e la Repubblica sociale. E la reprimenda di Epifani è durissima. D’altronde, spiega il leader Cgil «cosa deve dire un sindacato come il nostro, che fu il primo oggetto degli attacchi del fascismo? Noi abbiamo avuto morti nelle Camere del Lavoro, incendi, distruzioni, l’abolizione della libertà sindacale nel 1926. Dal ’19 al ’26 abbiamo costellato con il sangue di lavoratori e dirigenti sindacali il nostro paese».
Epifani cita Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola e «tutti quelli che morirono» prima della promulgazione delle leggi razziali. «Noi - redarguisce - dobbiamo stare attenti, perché in un’epoca come questa il senso della memoria viene in qualche modo molto ristretto. Purtroppo quello che per noi è pacifico, non lo è per le nuove generazioni. Di questo ho paura, non della durezza delle frasi che vengono dette da un ministro o dal sindaco di Roma, ma del fatto che queste frasi cadono su una memoria in cui la forza di valori condivisi non c’è più».
Oltre al fronte delle lotte sociali e per i salari, dunque, gli eredi di Giuseppe Di Vittorio sono pronti a passare in prima linea anche per la difesa dei valori costituzionali e dell’antifascismo. Bruciano troppo quelle dichiarazioni di Alemanno e La Russa che anche il segretario bolognese del sindacato, Cesare Melloni, reputa «gravissime e inopportune, ma non sorprendenti: quando la destra è al Governo si presenta sempre come "il nuovo", ma porta il vento della restaurazione e del revisionismo. Invece l’Italia nuova è quella nata dalla Resistenza e che si basa sulla Costituzione».

l’Unità Firenze 12.9.08
Arci e Anpi contro la libreria che vende libri e cimeli inneggianti al fascismo


«Un’associazione, denominata la Fenice, che fa riferimento diretto alla cultura e all'ideologia fascista» ha aperto nel luglio scorso un luogo di vendita, definendolo libreria, per oggetti come la bandiera con la Croce Celtica, adesivi con il fascio littorio e il simbolo nazista. Lo affermano Arci Firenze e Anpi provinciale definendo questo fatto «grave e preoccupante per una città come Firenze, medaglia d'oro per la Resistenza». I militanti di questa associazione - spiegano Arci e Anpi -, «quasi tutti giovani di età compresa tra i 19 e i 25 anni, si definiscono camerati». La libreria è stata aperta «a pochi metri dall'Istituto Farmaceutico Militare dove il 5 agosto del 1944 si consumò la strage di Castello in cui 10 cittadini innocenti furono fucilati dai soldati tedeschi». «Consideriamo grave e preoccupante - spiegano - che gruppi della destra radicale, come Forza Nuova e Casapound, riescano sempre più a prendere piede a Firenze. La preoccupazione cresce quando si guarda a quanto sta accadendo in Italia: da un lato esponenti del governo e sindaci che non intendono condannare come male assoluto il fascismo e la Repubblica Sociale, dall'altro aggressioni a migranti, ragazzi di sinistra, e omosessuali. Crediamo che le dichiarazioni del ministro La Russa e del sindaco di Roma Alemanno contribuiscano a generare terreno fertile per la proliferazione di idee e pratiche antidemocratiche. Condividiamo l'allarme lanciato dal Presidente Napolitano, sulla mancanza di un’identificazione nei valori alla base della Costituzione Italiana».

l’Unità 12.9.08
Vergassola: Sabina, io ti salverò...
di Toni Jop


SATIRA Non abbiamo badato a spese e abbiamo assunto per Sabina Guzzanti un principe del foro: il professor Dario Vergassola. Egli ci ha esposto la sua linea difensiva da opporre all’ipotesi di reato: ha offeso il Papa oppure no? Leggete...

L’è un lovo, l’è un fogo, l’è un zogo? (Lupo, fuoco, gioco). Scegliere bene, perché dipende tutto dalla risposta. Quando, rilasciando il diaframma ipercompresso come la libertà da questi tempi grigetti, disse al microfono in piazza Navona che il Papa, una volta defunto, sarebbe stato tormentato da «diavoloni frocioni e attivissimi», Sabina Guzzanti commise un reato oppure no? La notizia, secondo noi che non siamo tecnici del diritto, sta nel fatto che il paese sia messo nelle condizioni di affrontare un interrogativo posto esattamente in questi termini. Ovvio che che un magistrato la sa più lunga di noi, ma certo sarebbe strano che Sabina finisse condannata per questioni e proiezioni satiriche che comunque hanno a che fare con una eventuale aldilà. In Italia accade di tutto, specie adesso. Preoccupati, abbiamo chiesto a persona seria e posata, esperta e mentalmente affidabile di rappresentare e difendere gli interessi di Sabina Guzzanti, un avvocato d’ufficio per lei, forte e fragile insieme, furente e insieme gentile. Voi a chi vi sareste rivolti? Noi al professor dottor Dario Vergassola, impagabile, in tutti i sensi.
Allora, dottor Vergassola, lei crede che ci sia spazio per uscirne con la fedina penale pulita, oppure questa volta ci sporcano Sabina?
«Una cosa per volta, prego. Intanto prendiamo in esame la frase incriminata; dunque, ecco: lei parla di “frocioni attivissimi”...Boh! Espressione senza senso, al fondo, poi vediamo. Ma intanto, occorre qui definire la proiezione spazio-temporale cui la nostra assistita ha fatto ricorso. Dice: dopo la morte. Non voglio giocare d’astuzia, né dribblare la giurisprudenza in materia, tuttavia...».
Tuttavia che?
«Ecco non mi risulta, non ci risulta che qualcuno sia tornato indietro da laggiù per dirci come va o in compagnia di chi se la sta passando, se sia finito all’inferno piuttosto che altrove. Mancando una consuetudine concreta, manca un riferimento almeno plausibile di dove possa finire un Papa, una volta che ci ha dolorosamente lasciati su questa terra...».
La seguo. Ma dove porta il suo ragionamento?
«Vede, se non esiste un campo accertato governato da regole particolari di decoro e decenza unanimemente riconosciuti, così come accade dopo la morte, visto che non ne abbiamo testimonianza, non si può nemmeno sostenere che si commetta un reato attribuendo a un Papa, dopo il decesso, una sorte, una compagnia, piuttosto che un’altra».
Quindi, il reato non sussiste, giusto?
«In linea di principio mi pare evidente. Se avesse detto, Sabina, che dopo morto Papa Ratzinger sarebbe finito in una discoteca, una discoteca infernale. Chi avrebbe potuto smentirlo? Chi avrebbe potuto prendere in esame quella discoteca come motore ipotetico di un reato? Chiediamoci anche perché qualcuno avrebbe potuto intraprendere questa strada sotto il profilo giuridico...».
Lei è un genio, dottore. Ma c’è questa questione legata alla parola “frocioni”. Che ne dice? Qualcuno può non gradire...
«Certamente: la definizione non è solo desueta, ma anche talmente nulla-dicente da risultare un banale relitto di archeologia verbale. Nel caso, tuttavia, la si voglia intendere a ogni costo come “contundente”, è del tutto chiaro che ogni ipotesi di risentimento vada comunque attribuito e riconosciuto a chi, infelicemente ed erroneamente si senta male rappresentato da questa definizione. Quindi non certamente il papa da vivo, men che meno una volta defunto. Quel che accadrà in seguito, come abbiamo visto, non è dato di sapere. L’aldilà non è comunque un salotto e non è regolato dalle norme della buona creanza, neanche dalla moglie di Rutelli, chi ha notizie diverse è pregato di farsi avanti...».
Speriamo bene. Poi, forse, benché la giurisdizione non sia mediamente incline ad attribuirgli un ruolo decisivo nelle ipotesi di reato, esiste un contesto...
«Certo: da una parte e dall’altra. Cioè: sia dalla parte dell’ipotetico atto criminoso, sia dalla parte dello sguardo che sintetizza una ipotesi di reato inclinando la legge in direzione di quella che si definisce la “sensibilità dei tempi correnti”...».
Madonna, che difficile...
«Meno di quel che si pensi. Infatti, si può facilmente osservare come l’attenzione e la credibilità siano tributate oggi maggiormente a ciò che sostengono gli autori satirici piuttosto che a ciò che dicono i rappresentanti della politica. È un fatto oppure no, in questo paese?».
Eccellenza, lei è un vero principe del foro...
«Prenda appunti, invece. È vero o no che si tende oggi in Italia a prendere sul serio ciò che dicono i satirici e per niente quel che dicono i politici?».
Sarà vero, anche. Ma questo cosa comporta?
«Comporta che viene chiesto ai satirici di rispondere seriamente dei loro giochi, mentre non si chiede per nulla ai politici di rispondere delle loro affermazioni, promesse etc. etc...Permetta, devo andare, la salveremo».

l’Unità 12.9.08
La Biennale agli architetti. «Adesso costruite utopie»
di Renato Pallavicini


VENEZIA L’arte dell’edificare può davvero fare a meno degli edifici? Nel tunnel dell’Arsenale idee, sensazioni e visioni. Di progetti nemmeno l’ombra. È la linea dettata da Aron Betsky. E Zaha Hadid, Fuksas e Asymptote si adattano

Venezia. Si fa fatica a trovare l’architettura oltre. Sarà perché siamo abituati a un’idea di architettura come costruzione, come edificio (e qui alla Biennale di Venezia di edifici se ne vedono ben pochi) che stentiamo a individuare l’architettura oltre il costruire, come programmaticamente recita il titolo dell’undicesima Mostra Internazionale di Architettura. E del resto il suo direttore, Aaron Betsky (nato negli Usa cinquant’anni fa, formatosi tra Olanda e Stati Uniti, curatore di musei e prestigiose istituzioni internazionali), sostiene che gli edifici sono la «tomba» dell’architettura. E allora, se non edifici, che cosa si trova nel lungo tunnel delle Corderie dell’Arsenale dove è montata la rassegna principale che dà il titolo a questa Biennale 2008: Out there. Architecture beyond Building? Ci trovate idee, memorie, concetti, situazioni, relazioni, sensazioni, visioni, utopie, terreno fertile del linguaggio dell'arte contemporanea: è per questo che la Biennale Architettura assomiglia sempre di più (e la tendenza si è già mostrata nelle edizioni precedenti) alla sua sorella maggiore, la Biennale Arte. Ecco perché Aaron Betsky ha invitato alcuni dei grandi protagonisti dell’architettura contemporanea con il mandato di produrre esclusivamente installazioni pensate per l’occasione e il luogo (site specific si dice) e a lasciare a casa e nei propri studi plastici, modelli, disegni, foto: il campionario del costruito, insomma.
Si entra in questo tunnel di sperimentazioni plastiche e materiche, visive e sonore, incorporee e corporee (Philippe Rham Architects, nel loro spazio, fanno agire corpi nudi di giovani ragazze e ragazzi, come in un happening di qualche decennio fa), introdotti dalla Hall of Fragments, il colpo ad effetto dell’intera Mostra: due pareti concavo-convesse che al passarci in mezzo si animano di suoni e immagini mutanti e cangianti, mentre l’ambiente, immerso nel buio, ci restituisce, attraverso decine di schermi affioranti dal pavimento, sequenze di film celebri che hanno, a loro modo, celebrato l’architettura. Si comincia dal gruppo Asymptote che direttamente dallo spazio digitale scaraventa sul pianeta tre giganteschi gusci per altrettante Case per il subconscio, mentre Coop Himmelb(l)au con Feed Back Space monta un’enorme struttura trasparente: ci si entra dentro, s’impugnano due maniglie e immediatamente battito cardiaco e pressione sanguigna vengono amplificati e tradotti in immagini e colori. Guallart Architects con Hyperhabitat. Riprogrammare il mondo stendono sul pavimento una rete di computer ridotti a scheletri, diafani e trasparenti, di tastiere e consolle (ma perfettamente funzionanti), attraverso i quali muovono su uno schermo-parete oggetti, arredi, parti di edifici. L’architetta anglo-iraniana Zaha Hadid, dal canto suo, coagula in forma di arredi una delle sue tipiche ondulate intuizioni spaziali (ma fa di meglio, nell’altro spazio al Padiglione Italia, esponendo straordinari acrilici e disegni); mentre Massimiliano e Doriana Fuksas allestiscono tre scatoloni verde acido dentro i quali scorrono scene di vita quotidiana: un interno borghese in forme video-olografiche.
Ombre, luci, immagini della mente e del corpo, ma anche aggeggi elettronici, elettrodomestici (il cielo di nuvole-condizionatori d'aria di An Te Liu), giocattoli di plastica riciclati (Greg Lynn Form). Per fortuna che c’è un grande come Frank Gehry (domani riceverà il Leone d'oro alla carriera) che ci riporta alla dimensione dell’artigiano-artista-costruttore svelando il percorso che va dall’idea (i suoi celebri schizzi sono visibili al Padiglione Italia) al modello, all’edificio. L’architetto di Los Angeles qui alle Corderie ha montato un modello ligneo in scala 1:25 di un albergo che il suo studio sta progettando a Mosca: è uno scheletro di legno sul quale, giorno dopo giorno per tutta la durata della Biennale (fino al 23 novembre) verrà applicata dell’argilla a formare la facciata.
Di edifici, come si è detto, nemmeno l’ombra. Eppure di case ce n’è sempre più bisogno, soprattutto da noi. Bene ha fatto, dunque, Francesco Garofalo, curatore del padiglione italiano alle Tese delle Vergini, ad esercitarsi sul tema dell’Italia cerca casa, mostra promossa dalla Parc del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Ci ricorda, attraverso una parete zeppa di progetti che hanno fatto la storia dell’edilizia popolare in Italia, che l’architettura è fatta di case. E nella sezione La casa per ciascuno ha poi messo insieme una dozzina di architetti e di studi che qualche edificio, finalmente, ce lo fanno vedere o intravedere: dall’ecomostro riutilizzato per residenze povere (nei materiali) dello Studio Albori alle case economiche da soli 100.000 euro, dall’ecologica e mistica Casa madre di Andrea Branzi ai megaisolati romani di Riabitare il centro dello studio IAN+, fino alla casa costruita, sempre a Roma, dai nomadi del Casilino 900 assieme al gruppo Stalker/Osservatorio Nomade (di cui si parla qui sotto).
Roma è oggetto ancora della sperimentazione di Uneternal City, altra sezione di questa Biennale, che ripercorrendo le tracce della storica mostra Roma Interrotta degli anni Settanta (ed è una bella sorpresa rivederla riproposta per intero, con i disegni di Rossi, Portoghesi, Stirling, Krier, Sartogo e altri), si esercita su utopiche visioni della capitale che verrà, tra aliene apparizioni di megastrutture (la colossale stella-cristallo di Mad Office) e idilliaci giardini lungo il fiume Aniene (del bravissimo studio olandese West8). E non finisce qui, perché bisognerebbe addentrarsi nel Padiglione Italia, sede di altre e numerose «sperimentazioni», e dare un occhiata ai vari padiglioni nazionali ai Giardini di Castello: ma su questo e tanto altro che c’è in questa Biennale avremo modo di tornare.
La mostra curata da Aaron Betsky, interrogandosi sul senso dell’architettura, solleva molte questioni e certamente lo fa in modo efficace e spettacolare. Diverte, nel senso etimologico della parola: porta da un’altra parte, va oltre, come da programma; mostra un futuro, non necessariamente utopico, ma fortemente immaginato. Temiamo che del presente, dovrà tornare ad occuparsi l'architettura del qui e ora: quella che si ostina a costruire edifici.

Corriere della Sera 12.9.08
La religione c'è sempre stata, in alcune fasi è stata latente od oscurata dalle ideologie. Il comunismo era una religione sostitutiva
Il dibattito Su «Aspenia» dialogo sul rapporto tra il credo e la politica, sul «ritorno» della religione dopo la fine delle ideologie
di Giulio Tremonti e Massimo D’Alema


Tremonti, D'Alema e il Secolo Religioso «Era della coscienza». «Laicità a rischio»
Ministro ed ex premier d'accordo: qui la fede non è confinabile alla dimensione privata
Oggi vengono messi in discussione i fondamenti stessi dello Stato laico europeo, perché libertà e cittadinanza non si fondano sulla verità

Il nuovo numero di Aspenia, la rivista trimestrale diretta da Marta Dassù, ragiona di religione e politica: «Il ritorno della religione nel dibattito pubblico, sul piano della politica globale e della politica tout court». Apre il dibattito il dialogo tra l'ex premier Massimo D'Alema e il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che si confrontano su «Dei, patrie e famiglie». La domanda di partenza è se il XXI secolo si profili come un secolo religioso dopo la crisi delle ideologie. Per entrambi è improprio parlare di ritorno della religione: secondo D'Alema «si presenta in modi e gradi diversi in aree differenti del mondo»; Tremonti giudica «falsa» quest'idea perché «la religione c'è sempre stata, se pure con intensità diverse». Tra i temi toccati anche la «deprivatizzazione» della religione in Europa, su cui D'Alema e Tremonti si trovano concordi nel sostenere che il fenomeno religioso non è mai stato confinabile in una dimensione privata.
Nella sezione Scenario, dedicata a fede e ragione, l'ex premier Giuliano Amato e il presidente della Fondazione Magna Carta Gaetano Quagliariello dialogano su «Il ritorno di Dio».

Aspenia: «Il XXI secolo si profila come un secolo religioso, dopo che la fine della guerra fredda ha segnato la crisi delle ideologie secolari del secolo scorso, non solo il comunismo ma anche le forme estreme di liberalismo economico. Condividete questa impostazione?
MASSIMO D'ALEMA: «Certamente è tramontata l'idea che aveva preso il sopravvento nella fase culminante della secolarizzazione, e cioè che la religione potesse essere confinata in una sfera privata. Il peso che le religioni sono tornate ad assumere nella sfera pubblica è legato al declino delle ideologie e delle grandi narrazioni novecentesche. In fondo, l'ultimo sussulto delle ideologie del Novecento è stata l'ideologia della fine delle ideologie, con la famosa teoria, dopo il crollo del Muro di Berlino, della fine della storia. Inutile dire quanto tale teoria si sia dimostrata fallace. E non c'è dubbio che l'11 settembre abbia aperto un secolo nuovo. Ma non so dire, onestamente, se sarà davvero un secolo religioso. Per la semplice ragione che il ritorno della religione — in quanto bisogno di dare un senso non solo all'esistenza ma alla convivenza umana — si presenta in modi e gradi diversi in aree differenti del mondo. (...) Dominique Moïsi distingue fra tre grandi aree: quella della paura, che saremmo noi, l'Occidente; quella del rancore, e cioè il mondo islamico; e infine l'area della speranza, in cui rientrano la società asiatica e le grandi aree emergenti. È in questa ultima parte del mondo che la religione conta di meno. Naturalmente, l'elemento religioso è comunque importante, per esempio in paesi come l'India; ma quel che voglio dire è che nelle aree emergenti ed economicamente vitali, lo spazio pubblico è dominato da una certa fiducia nel progresso, e quindi nel proprio futuro. La religione, invece, conta moltissimo nel mondo occidentale e nel mondo islamico; nel primo sono nate nuove paure, anche come risultato dei processi di globalizzazione; nel secondo domina la frustrazione».
GIULIO TREMONTI: «L'idea del «ritorno della religione» per me è un'idea falsa. Se l'unità temporale su cui si basa la domanda è quella del secolo, allora non credo proprio che la religione sia mai «scomparsa» e per di più per tutto un secolo, quale che sia il secolo. La religione c'è sempre stata, se pure con intensità diverse: in alcune fasi è stata dominante, in altre latente, in altre ancora — soprattutto nel Novecento— è stata in parte oscurata dalle grandi ideologie, configurate a loro volta come religione sostitutiva. Il comunismo è stato costruito, prospettato e poi vissuto come una religione sostitutiva. Lo stesso partito comunista, del resto, era gerarchicamente e simbolicamente costruito come una chiesa. Tra le tante, una delle follie del nazismo consisteva proprio nella sua cifra di religione pagana. Fuori dalla dimensione temporale (il secolo) c'è piuttosto nella domanda la dimensione dello spazio. Qui, se la dimensione spaziale coincide con la dimensione globale, concordo nel vedere forti asimmetrie e discontinuità. In molte società emergenti, la componente della religione ha, in effetti, una rilevanza abbastanza tenue. Ma non è così in altre parti del mondo. Sarebbe una forzatura dividere il mondo in aree omogenee. Prendiamo per esempio il caso della Cina: pur dentro il nuovo meccanismo comunista/capitalista, la dimensione religiosa è molto forte, l'etica confuciana continua a essere fondamentale.. (...)»
ASPENIA: Benedetto XVI sostiene che «in un mondo senza verità, la libertà perde il suo fondamento e la democrazia senza valori perde la sua anima». Come valutate il messaggio del papa dell'Occidente? È il segno di un'inversione di tendenza, di una sostanziale «deprivatizzazione » della religione nell'Europa postsecolare? L'Europa, insomma, abbandonerebbe il laicismo per diventare più simile all'America, dove la religione è sempre stata considerata una risorsa per la democrazia?
TREMONTI. «L'americanizzazione dell'Europa... lascerei questa formula, un po' novecentesca, a Gramsci e a Ortega y Gasset. Piuttosto, non credo nella separazione tra dimensione privata e dimensione collettiva della religione. Quella della privatizzazione della religione è un'idea laica e perciò un'idea esterna alla religione. La nostra religione, per come è costruita e per come è stata vissuta per secoli da milioni di persone, è sempre stata insieme interna ed esterna: un modo di riferirsi agli altri. Non c'è mai stato, in questa dimensione, l'individuo da solo, ma la persona in rapporto non solo con se stessa, ma anche con la famiglia, e la famiglia in rapporto con la collettività. È stato fatto anche un discorso sul progresso e sulla crisi. In Occidente, il progresso, l'idea del progresso con il crescente benessere che ne è derivato, ha creato un effetto di euforia, a sua volta progressiva. Ora la fase euforica sembra terminata con la crisi. Credo che sarebbe terminata comunque, per il suo stesso eccesso parossistico. Alla fine, quando hai troppe cose e inutili, quando tutto diventa insufficiente in modo paradossale, insufficiente per eccesso, torni a porti interrogativi più fondamentali e per così dire valoriali, sulla tua ragione d'essere esistenziale. Soddisfatta la domanda di beni materiali, torni naturalmente ai valori immateriali. Il crescere del benessere produce prima un'euforia che porta le persone in una dimensione «nuova» rispetto a quella tradizionale. Ma poi, fatalmente, l'euforia termina. La crisi, se c'è, se arriva, accelera solo questo processo. La crisi può rendere evidenti alcuni elementi di rottura, ma al ritorno della religione (che in realtà c'è sempre stata) saremmo arrivati comunque».
D'ALEMA: «Tornerei alla domanda di partenza: se il messaggio del papa sia il segno che il rapporto tra politica pubblica e religione, in Europa, è ormai più simile a quello americano. La mia risposta è semplice: sì. Sono d'accordo con Tremonti quando dice che il fenomeno religioso, in Europa, non è stato mai confinabile in una dimensione privata. Difficile dimenticare, del resto, che il cattolicesimo italiano, in particolare, è stato un grande fenomeno sociale e politico, tanto che ha governato per cinquant'anni l'Italia. Ma oggi, col ritorno della religione nella sfera politica, quella che viene messa in discussione non è la secolarizzazione edonistica. Vengono messi in discussione i fondamenti stessi dello Stato laico europeo, come si è venuto configurando dal XVII secolo in poi. La sfida culturale è a questa altezza. Lo Stato laico europeo nasce infatti dalla considerazione che la libertà non può fondarsi sulla verità. E nasce all'indomani delle guerre di religione, quando si prende atto che la pretesa di fondare la cittadinanza sull'appartenenza religiosa —
cuius regio eius religio — porta alla guerra e da tutto ciò si esce proclamando che lo Stato è laico perché le libertà e la cittadinanza non si fondano sulla verità. Ora, non vi è dubbio che oggi, per la crisi profonda dell'Occidente, che è una crisi culturale e ideale prima che economica, ci troviamo anche di fronte a un ritorno religioso che è legato alla ricerca di senso. Ma esiste anche questa vena integrista, che mette in discussione non l'edonismo, ma il fondamento stesso della laicità dello Stato. E quindi io distinguo tra il ritorno prepotente della fede religiosa come modo per dare un fondamento etico alla propria esistenza individuale, e l'uso politico della religione». (...)
ASPENIA: Di fronte ai dilemmi che pongono la scienza, la biotecnologia, non è un anacronismo paventare una restaurazione del potere temporale della chiesa?
D'ALEMA: «Io non temo la restaurazione del potere temporale della chiesa. È legittimo che i cristiani facciano vivere i loro valori, come disse Aldo Moro all'indomani della sconfitta cattolica al referendum sul divorzio; ma pretendere di imporli per legge urta con la coscienza moderna. Anche perché tutto ciò può rappresentare un impedimento alla libera ricerca scientifica, e questo va evitato. È evidente che il legislatore deve confrontarsi con problemi nuovi, ma il mio timore non è che torni il papa re. La mia paura è un'altra: che in questa sorta di sposalizio con l'Occidente malato, che si volge alla religione in chiave identitaria e che riscopre le radici cristiane in una chiave difensiva, la chiesa rischi di perdere l'universalità del messaggio cristiano. Questa universalità del messaggio cristiano la sentivo di più, devo ammetterlo, nel precedente pontificato, in cui peraltro l'elemento di integrismo religioso era fortissimo e anche molto critico verso gli esiti della globalizzazione, prendendo spesso il posto di una sinistra silente. Mentre nel papato di Ratzinger avverto assai di più il legame con l'Occidente, e l'avverto come un limite all'universalismo cristiano».
TREMONTI: «È corretto iniziare la nostra riflessione su questo punto, proprio, come suggerito, dalla pace di Westfalia, il cui dictum era cuius regio eius religio. Ma appunto: cuius regio eius religio. Religio. Questa parola e non altre. E questo semplice fatto è prova in sé, insieme assoluta e storica, della rilevanza propria della componente religiosa. Nei secoli la "cifra" religiosa sale, scende, viene oscurata, poi riprende, ma non per caso — ripeto — la formula che è usata ancora oggi è cuius regio eius religio, non eius altro. Ciò premesso, una discussione utile va comunque sviluppata, separando la dialettica strumentale da quella sostanziale. La prima utilizza i fatti religiosi in termini polemici. In questi termini, sullo stesso piano degli atei devoti, credo che possano essere messi anche i laici polemici. Zapatero, per esempio, ne è l'eroe eponimo. (...) Detto questo, escludo che, nel tempo presente, ci sia il rischio di un ritorno del potere temporale. La dialettica tra atei devoti e laici polemici, con il relativo apparato di argomenti strumentali, è tuttavia, come dicevo, e per fortuna, relativamente marginale. Sostanziali, sulla dividente "destra"-" sinistra", sono invece altre grandi questioni. Il matrimonio è stato una di queste grandi questioni. E, soprattutto, la scienza. (...) Non ci limitiamo più alla fase gnoseologica, a conoscere la vita, ma agiamo sulla vita, tentando di crearla o di ricrearla. Certo, anche la bomba atomica agiva sulla vita, ma in negativo, la distruggeva. Poneva dilemmi morali drammatici, ma diversi da quelli che si presentano ora. Un conto è infatti distruggere la vita, un conto è crearla. Distruggere la vita è drammatico, ma crearla è diverso e ancora più drammatico. Si sta avverando la profezia di Malthus, la profezia dell'uomo che non dipende da un'origine, ma che è origine esso stesso: la bestiaccia della favola era già la profezia del postumano, la fabbrica di nuovi corpi o di nuovi ectoplasmi. Sono dilemmi che non si pongono solo a destra, si pongono anche a sinistra. Ma è con questo e proprio per questo che la sinistra ha perso un'altra delle sue basi storiche di sicurezza: l'assoluta sicurezza nella scienza come matrice infallibile di progresso. Per come vedo e sento, sono fortemente convinto dell'ipotesi che una maggiore luce della scienza potrà portare con sé una maggiore luce della ragione e, con questa, anche della coscienza. La dialettica profonda è infatti tra ragione e fede, tra scienza e coscienza, sapendo che devono stare tutte insieme». (...)

Corriere della Sera 12.9.08
Conversando con il grande compositore
Le magie di Nyman: la musica dei numeri
di Giulio Giorello


Che privilegio lavorare (e litigare) con Greenaway

«Cinque... dieci... venti... trenta... / Trentasei... quarantatrè». Così esordisce Figaro, l'eroe plebeo di Beaumarchais, nell'opera che Mozart e Da Ponte hanno dedicato alle sue travagliate Nozze. Numeri e suoni scandiscono il tempo, dando ragione a Newton, che ne faceva un attributo di Dio e a Kant, che lo interpretava piuttosto come una condizione di qualsiasi esperienza dell'uomo. Comincia così la mia conversazione con Michael Nyman, protagonista della scena musicale internazionale, domenica prossima all'Auditorium di Roma con la Michael Nyman Band, creatore di «musica minimalista», pianista e fine musicologo. Per la cronaca, proviene da una famiglia ebraica e operaia di Stratford e ha passato la sua fanciullezza nel Nordest londinese. Da ragazzo aveva due hobby: collezionare biglietti dell'autobus e appunto la musica — ma fu espulso dal coro della scuola perché lo avevano dichiarato «stonato come una campana!».
Maestri più sensibili, invece, dovevano fargli abbandonare l'interesse per gli autobus e indirizzarlo a una carriera sempre più prestigiosa. Il grande pubblico lo conosce anche per le colonne sonore di oltre cinquanta film e cortometraggi. In particolare, nel 1982 The Draughtsman's Contract
(in italiano Il mistero dei giardini di Compton House) ha inaugurato la sua collaborazione con il regista gallese Peter Greenaway; qui le musiche di Nyman accompagnavano le complicate geometrie del pittore protagonista della vicenda, assoldato per disegnare dodici vedute di un enigmatico palazzo e destinato a soccombere a intrighi più potenti di tutta la sua arte e scienza. Forse, anche la musica può venire destata da un'esperienza di sconfitta. Quello che Nyman elabora, però, non è un semplice commento, bensì un elemento autonomo, suscettibile di infinite interpretazioni — quasi come una voce disincarnata, che non appartiene a nessun «soggetto» e si intreccia liberamente alle immagini sullo schermo. «Non ho mai pensato che quello che componevo per un film dovesse essere strettamente condizionato dai contenuti. Del resto, anche Peter era uno più interessato alla composizione dei suoi incubi che allo svolgimento della vicenda. E lui mi consentiva di comporre al pianoforte quel che più mi piaceva: lavorare con lui è stato un privilegio». Questo comune senso di indipendenza creativa non ha impedito che, dopo una decina d'anni, venisse meno la collaborazione con Greenaway: «Abbiamo litigato ferocemente ». Resta però la meravigliosa antologia Nyman/Greenaway Soundtracks.
Nyman non ha abbandonato il mondo del cinema: del 1993 è la colonna sonora di Lezioni di piano
dell'australiana Jane Campion. «Se mi chiedi se abbia mai tratto ispirazione — o qualcosa del genere — da questa o quella scena del film, la mia risposta è no. La musica che compongo nasce da una mia disposizione interiore. Da immagini profonde e inconsce, che è compito poi della memoria e della coscienza elaborare ». Ritroviamo qui l'analogia tra matematica e musica: entrambe costituiscono l'espressione elegante e razionale di tensioni drammatiche che lacerano l'animo umano. Keplero ritrovava nell'armonia matematica del mondo l'unica risposta alle sue disavventure su questa Terra. Newton si liberava delle sue ossessioni solo riuscendo a mettere su carta le leggi che reggono «l'elegante compagine del Sole, dei pianeti e delle comete». Il romantico Galois, mentre giocava la sua esistenza tra donne e politica, era consapevole che l'unica sua immortalità era affidata a quelle formule che hanno dato origine alla teoria dei gruppi, chiave di volta della matematica e della fisica...
Ribatte Nyman: «Pensiamo, per la musica, a Mozart. Al Don Giovanni o alle Nozze di Figaro ». La struttura è limpida, ma l'oscuro delle passioni — la materia di cui son fatti i sogni — vi irrompe di continuo. A questo punto, mi ricordo che un'altra colonna sonora per Greenaway — Drowning by numbers, in italiano Giochi nell'acqua —, in cui l'azione è tutta basata sulla scansione numerica del tempo «vero e matematico» da 1 a 100, è costituita da una serie di variazioni mozartiane. «Anche qui amore e morte si intrecciano l'uno all'altra» — e magari sono queste due stesse forze «a muovere il Sole e l'altre stelle». Nessun lieto fine, dunque? Sarebbe conclusione affrettata. Anche se sappiamo che la sfida si rinnova ogni giorno, continuiamo a giocare con numeri e note.

Repubblica 12.9.08
Due secoli di tesori da lunedì a Perugia
Da van Gogh a Picasso a caccia di capolavori
di Paolo Vagheggi


PERUGIA - Da lunedì fino al 18 gennaio 2009 la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia propone, nella propria sede espositiva di Palazzo Baldeschi al Corso, il confronto tra le collezioni degli americani Duncan ed Elisa Phillips e del nobile piacentino Giuseppe Ricci Oddi. Il titolo dell´esposizione, allestita in Corso Vannucci 66, è Da Corot a Picasso, da Fattori a De Pisis. L´orario è dalle 10 alle 18. L´ingresso costa 8 euro, ridotti 6 euro, scuole 3 euro. La mostra è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, a cura di Vittorio Sgarbi. Catalogo Silvana Editoriale. L´organizzazione è di Civita.
Informazioni e prenotazioni: www. fondazionecrpg. it Telefono 199 199 111 E mail: servizicita. it

Due collezionisti a confronto, due uomini dai gusti simili e al contempo assai diversi: l´americano Duncan Phillips e l´italiano Giuseppe Ricci Oddi. Una selezione delle loro raccolte, assai note al pubblico, viene presentata a Perugia, a Palazzo Baldeschi al Corso, nella sede della Fondazione della locale Cassa di Risparmio che quest´anno festeggia un secolo di vita. L´esposizione, aperta al pubblico dal 15 settembre al 18 gennaio, ha un doppio titolo Da Corot a Picasso e Da Fattori a De Pisis. Dagli Stati Uniti arriva una selezione di opere dei maggiori maestri dell´impressionismo e delle avanguardie europee del Novecento, tra cui Corot, Courbet, Manet, Degas, Monet, Bonnard, Van Gogh, Cézanne, Modigliani, Kandinsky, Braque, Picasso.
Questi grandi maestri si confronteranno con le opere dei protagonisti dell´arte italiana tra Ottocento e Novecento tra cui Fattori, Sartorio, Carrà, Casorati, Campigli, De Pisis.

L´americano Phillips prestò attenzione alle radici della contemporaneità dalla luce candida di Corot ai ballerini di Manet
S´apre lunedì a Perugia un´esposizione che raccoglie le opere di due collezionisti di gusto di differente ma di eguale passione
L´italiano Ricci Oddi prediligeva dipinti d´aria divisionista e simbolista, da Previati a Sartorio, da Pellizza a Tito
Il punto d´incontro tra le due diverse raccolte è nel lavoro di Zandomeneghi influenzato dalla pittura impressionista, specie da Edgar Degas
Da Washington arriva anche una splendida "Natura morta" di Cézanne nella quale lo spazio è franto e moltiplicato

Se da una mostra attendete soprattutto il conforto per lo sguardo e l´incontro con il capolavoro, quella che sarà aperta lunedì a Palazzo Baldeschi di Perugia, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio della città umbra (Da Corot a Picasso. Da Fattori a De Pisis. La Phillips Collection di Washington e la Collezione Ricci Oddi di Piacenza, a cura di Vittorio Sgarbi, catalogo Silvana Editoriale), è la vostra mostra. Fianco a fianco vi sono esposte alcune opere di due storiche collezioni, l´una americana e l´altra italiana, che poco hanno in comune quanto a radici, possibilità economiche e prospettive, ma che sono nate entrambe, tanto tempo fa, dalla passione di due collezionisti, i quali le hanno poi donate generosamente alla collettività. Di Duncan Phillips e Giuseppe Ricci Oddi, che rispettivamente a Washington, una delle capitali del mondo, e nell´appartata Piacenza fondarono il loro sogno e le loro istituzioni nei primi decenni del XX secolo, dice più diffusamente in queste pagine Paolo Vagheggi. Vale qui soltanto ribadire il tratto precipuo che caratterizzò i due uomini, e che si riflette nelle loro vaste raccolte: l´uno, Phillips, volto a prestare orecchio alla contemporaneità più arrischiata, e alle radici d´essa più sbilanciate verso una lingua moderna; l´altro, Ricci Oddi, costituzionalmente alieno dagli azzardi di ogni avanguardia, ed anzi «moderatamente conservatore», come ha scritto Stefano Fugazza.
La selezione oggi compiuta rispetta questa distanza, e porta così a Perugia due gruppi d´opere diversamente orientati. Da Washington giungono alcuni capolavori assoluti, a partire da quelli nati nell´alveo della nouvelle peinture parigina. Muove anzi da una delle formulazioni più antiche del nuovo corso della pittura francese dell´Ottocento, con il prezioso Corot del 1826, Veduta dai giardini Farnese, un piccolo olio ancora dipinto su carta, come era d´uso in epoca neoclassica, seguendo una tradizione che risaliva almeno a Valenciennes, e che richiedeva all´artista di compiere rapidamente il primo studio del suo dipinto all´aperto, su un supporto facilmente trasportabile. Il dipinto risale al primo soggiorno a Roma di Corot (che tornerà in Italia altre due volte), e l´aria tersa, la luce candida e piena che lo imbevono ne fanno, già, un piccolo gioiello indimenticabile. Di qui, con un salto di cinquant´anni, si giunge a un Courbet tardo, risalente agli anni del doloroso esilio in Svizzera del pittore, dopo la Comune. Datato al sesto decennio del secolo, invece, un Daumier che basta a dire del grado in cui il maestro di Marsiglia può aver suggestionato la giovinezza di Cézanne.
Poi un nucleo d´impressionisti e postimpressionisti, introdotto dallo straordinario Balletto spagnolo di Manet, che si disse dipinto dal pittore convocando a studio l´intera compagnia di danzatori che, proveniente dal teatro reale di Madrid, aveva sedotto il pubblico parigino nel ‘62. In realtà qui Manet, che aveva assistito con Baudelaire a un loro spettacolo all´Hippodrome, ondeggia fra realtà e sogno, fra splendore e brutalità, seguendo forse la prima volta sino a tal segno la lezione di Velázquez e di Goya, ad una cui stampa egli s´ispira testualmente per alcune figure. Qui, come nella coeva Lola de Valence, Manet intride il pennello nel nero fiammante che sarà sempre suo, e costruisce con esso gli scoppi di luce del dipinto.
Neve a Louveciennes di Sisley (del 1874, l´anno della prima mostra impressionista) prelude poi alla Strada che porta a Vétheuil di Monet, del 1879: di un tempo in cui Monet può finalmente asserire con orgoglio il suo essere capofila del gruppo, ma insieme comincia a dubitare del dogma della pura impressione ottica.
E´ il tempo, questo, in cui la mostra trova un punto di tangenza fra le due collezioni che la costituiscono: viene dalla Ricci Oddi, infatti, la Piazza d´Anversa a Parigi, tela di Federico Zandomeneghi che usualmente s´ascrive al 1880. Il pittore veneziano era da qualche anno, allora, nella capitale francese, ove risentì subito e profondamente della lezione impressionista, soprattutto di quella di Degas e di Renoir. In questa tela importante, però, che segna un apice della sua produzione, Zandomeneghi sembra in più punti, e soprattutto nell´impianto nuovamente prospettico dello spazio, ascoltare la nuova rivoluzione che sarà portata da Seurat nel linguaggio dell´impressionismo, partecipando all´ultima mostra del gruppo, nel 1886, ed esponendovi la Grande Jatte, uno dei quadri cruciali della vicenda pittorica di quegli anni e dell´intera età moderna, di cui Piazza d´Anversa ripete anche molti particolari.
Resta dunque dubbia la data della stesura ultima del dipinto di Zandomeneghi; ma rimane egualmente certo il suo grande interesse.
Da Washington giungono ancora due Cézanne, fra i quali una splendida Natura morta dei primi anni Novanta, nella quale lo spazio è ormai franto e moltiplicato, in uno sguardo concitato sulla realtà che sarà via privilegiata per i cubisti, e - coevo - un bel Van Gogh, Casa ad Auvers. Poi il nuovo secolo: Rousseau e Modigliani, Kandinsky, Picasso, Braque e Juan Gris, Rouault e Utrillo, altri ancora.
A tanto rispondono, in tutt´altro clima, gli italiani della Ricci Oddi. Fra i quali giustamente s´è voluto sottolineare il rilievo che assume nella collezione piacentina il gruppo di dipinti d´aria divisionista e simbolista: del 1887 sono Le fumatrici di oppio di Previati, poi - a cavallo dei due secoli - la Sirena di Sartorio, La colonna di fumo di Nomellini, il Tramonto di Pellizza, Le ninfe di Ettore Tito, fino a L´alba domenicale di Angelo Morbelli e al Boccioni ancora prefuturista del Ritratto della madre. Negli stessi anni d´inizio secolo, fanno da contraltare a queste quasi astratte eleganze dei due dipinti turgidi di foga, di carnale sensualità e di materia di Antonio Mancini (Donna alla toeletta) e di Giacomo Grosso (Allo specchio). E, quasi a chiusura del percorso cronologico in un´Italia che Ricci Oddi vide aliena da troppo bruschi turbamenti, il bel Ritratto di Bruno Barilli d´un giovane Campigli.

Repubblica 12.9.08
Il Papa nella Francia delle chiese vuote
di Marco Politi


Sette viaggi di papa Wojtyla in Francia non hanno prodotto una svolta. Le chiese rimangono vuote, le messe pressoché deserte, il clero in estinzione.
È la prova che il revival religioso, i successi mediatici, i trionfi delle folle convivono con la secolarizzione. Perché l´eclissi del sacro in Europa è irreversibile dal momento che l´esistenza dei credenti, anche dei praticanti, non è più scandita da un calendario sacro come accadeva nei millenni trascorsi. Nel tempo della secolarizzazione c´è spazio per il ritorno di Dio, la nostalgia del trascendente, la ricerca generica di spiritualità. Ma è uno spazio condiviso con altre istanze, altri bisogni, altri desideri.
Il pellegrinaggio di Benedetto XVI nella Francia del XXI secolo è l’appuntamento più importante del suo pontificato. Perché Ratzinger ha sempre ritenuto fondamentale il ruolo della fede nel Vecchio Continente, culla e colonna della «società cristiana».
L´Europa è il banco di prova del suo pontificato, che aspira a salvaguardare l´integrità della fede e diffondere il messaggio di un cristianesimo gioioso e libero e non un mero fardello di regole.
Parlerà di laicità positiva e di cultura il Papa, che Parigi attende di conoscere da vicino. Insisterà nel dire che la religione deve avere un ruolo nella sfera pubblica. La domanda è: per dire cosa? Perché la caratteristica del cristianesimo e la forza speciale del cattolicesimo è consistita sempre nella capacità di reinventare la configurazione del suo messaggio. E allora cresce l´attesa di quanti intendono capire dopo tre anni di pontificato qual è il discorso con cui Joseph Ratzinger intende afferrare le società occidentali. L´organizzazione del viaggio rivela due pecche. Non c´è un vero incontro con le altre confessioni cristiane, segno della crisi dell´ecumenismo. Non c´è un vero confronto con i musulmani, nel paese che ha la più forte rappresentanza islamica europea.
A Parigi, presenti i rappresentanti dell´Unesco, Benedetto XVI parlerà all´Europa intera. Ma il viaggio sarà l´occasione anche per ascoltare. Non basta il richiamo alle tre radici: Gerusalemme, Atene, Roma. L´Europa, continente dinamico per eccellenza, è molto di più. È il Rinascimento, la Riforma protestante, l´Illuminismo, il pensiero liberale e socialista, la nuova soggettività di massa. E in questo humus in evoluzione c´è anche un Islam, che non è ospite di passaggio ma religione coltivata da milioni di cittadini europei.
Non basta più, in questo contesto variegato, denunciare il relativismo. Perché certamente esiste a livello becero una dittatura dell´egocentrismo, che eleva a massima suprema il faccio-come-pare-a-me. Ma certamente non si può tacciare di relativismo una molteplicità di visioni etiche dotate della propria coerenza.
Se nei territori dell´ex Sacro Romano Impero, della Francia «primogenita» della Chiesa, nella Spagna un tempo apostolica il cristianesimo è minoranza, è l´esito di processi profondi che vanno al di là di un Zapatero, di una Merkel, di un Sarkozy. La carenza drammatica di clero non potrà più essere rimossa per molto con l´esortazione a «distribuire meglio» ciò che non c´è.
Serve un´analisi strutturale della situazione ed una riposta all´altezza dei nuovi, drammatici tempi. Ma soprattutto, nel Vecchio Continente in cui c´è un cristianesimo da re-impiantare, è forse maturato il momento che il Papa senta ciò che pensa il popolo di Dio. Diceva Giovanni Paolo II che non solo i vescovi, ma anche i battezzati hanno il compito di «interpretare alla luce di Cristo la storia di questo mondo». Pensare ad un rilancio del cristianesimo in Europa senza un loro reale coinvolgimento, senza dare spazio a come loro nel quotidiano vedono e vivono la dottrina, l´etica, la morale e il messaggio cristiano, alla lunga non sarà possibile.

Repubblica 12.9.08
L´emergenza immigrati come regola. Tra affari illeciti e sofferenza: viaggio dove l´Italia ha perso la sfida dell´accoglienza
di Giampaolo Visetti


LAMPEDUSA. Quando l´Africa dei poveri si è messa in cammino verso l´Europa dei ricchi, all´Italia è tornato in mente un invisibile scoglio caldo, alla deriva nel canale di Sicilia: Lampedusa. È un´isola lontana, arida, in mezzo al mare. Dalle sue coste si vede la Tunisia e s´intuisce la Libia. L´Occidente, a sud, finisce qui. Nessuno ci crederebbe ma, in una ex caserma in contrada Imbriacole, si è deciso di selezionare e smistare tutti gli africani che scappano su una barca.
Nel centro di soccorso, il più grande del continente, passano oltre ventimila migranti vivi all´anno. Uno su venti scompare prima, tra le onde. I morti in acqua, dall´inizio dell´esodo, sono oltre 22 mila. Il doppio cade durante il viaggio a piedi, che dura mesi e anni, per salpare dalle spiagge dell´Africa.
Quelli che riescono a ripartire per un centro che organizza l´espulsione, spariscono nel fiorente mercato degli schiavi che ci circonda. È la strage, pubblicamente condivisa e documentata, più impressionante dalla fine della seconda guerra mondiale. Eppure, in quindici anni, non ha costruito accoglienza e solidarietà. La vergogna della nostra vita è sommersa da un crescente, redditizio muro di rifiuto e di odio razziale.
Lampedusa, sacrificata all´urto dell´ingiustizia, è il concentrato tragico del vuoto devastante scavato dentro l´identità italiana.
Sui massi del molo riservato agli sbarchi degli africani, subito sottratti alla vista dei turisti, c´è il Paese che si guarda allo specchio. Esso riflette il cinismo dei luoghi comuni che lo travolgono, attraverso le famiglie di pescatori reinventati osti e affitta-tutto. Gli abitanti ormai recitano senza pensarci: in giro non si vedono immigrati e nessuno è xenofobo; nessuno ha qualcosa contro i disperati; tutti, in passato, hanno sfamato e vestito i naufraghi; tutti pensano che vadano aiutati a casa loro. È la penosa verità. Ma tutti, oggi, concludono con un medesimo «però»: l´isola vive di turismo e le notizie degli sbarchi, o dei cadaveri, minacciano gli affari; guardia costiera, Finanza e carabinieri devono smetterla di scaricare nel porto gli africani recuperati in mezzo Mediterraneo; giornali e tivù devono piantarla di parlare di Lampedusa ogni volta che qualcuno annega tra l´Africa e l´Europa. Nella confusione di un minuscolo fronte marino meridionale, dotato di undici caserme e seicento militari, monta il vento anacronistico che soffia fino a Nord, infilandosi nel cuore delle Alpi. Si plasma in questo mare bianco, il profilo nero di una nuova anima nazionale: il razzista accogliente, avido e di buon cuore.
«La prima volta che vidi un turco (africano ndr) - dice la vicesindaco Angela Maraventano, senatrice della Lega fatta eleggere in Emilia Romagna - era il 1993. Ai piedi della madonnina c´era un tappeto scuro. Sembravano cani, o sacchi di immondizia. Poi uno ha alzato una mano». Bossi la chiama "la saracena". Gli isolani hanno affidato a lei, «in sciopero fiscale da sempre», la loro difesa. «Il centro dei clandestini - dice - va trasferito in mare, su una nave militare. Diciotto mesi e poi via, espulsi: vediamo se Gheddafi ce ne manda ancora». Il governo, assicura, in cambio di «un po´ di turchi», le ha promesso un indennizzo di 200 milioni. «Se non arrivano - dice - parte la rivolta: zona franca, o annessione alla provincia di Bergamo, o indipendenza».

Repubblica 12.9.08
Lo straniero, la cultura, la legge
Intervista con Tzvetan Todorov
di Fabio Gambaro


Tzvetan Todorov e il suo nuovo saggio, appena uscito in Francia, in cui lo studioso analizza la paura delle diversità
"È barbarie non riconoscere all´altro la piena appartenenza all´umanità"
"La paura dell´islam è un sentimento dominante. Ma la paura è cattiva consigliera"

«Sono uno straniero. Vivo in un paese diverso da quello in cui sono nato e da sempre sono sensibile al problema delle differenze di cultura. La relazione tra unicità e diversità è inerente alla condizione umana, va quindi continuamente ripensata per combattere la paura che trasforma qualsiasi straniero in una fonte di pericolo».
Con queste premesse, Tzvetan Todorov torna ad affrontare uno dei temi che da sempre gli sono più cari, quello delle relazioni tra le culture, a cui in passato ha dedicato libri importantissimi come La conquista dell´America, Noi e gli altri e Le morali della storia (Einaudi). In Italia esce in questi giorni un suo vecchio saggio, Teorie del simbolo (Garzanti), e in Francia sta per uscire La peur des barbares (Robert Laffont pagg. 310, euro 20), un denso lavoro in cui lo studioso francese di origine bulgara - oltre a polemizzare con Huntington e i suoi numerosi seguaci, i quali immaginano un Occidente assediato dalla minaccia islamica - analizza e discute la paura della diversità che attanaglia la nostra società. «Oggi il problema della relazione tra le culture è diventato centrale», spiega Todorov. «Il dibattito ideologico tra destra e sinistra si è spento, lasciando spazio alla problematica dello scontro tra le culture. La mondializzazione rimette in discussione la tradizionale supremazia dell´Occidente, mentre le popolazioni del pianeta comunicano tra loro molto più facilmente che in passato. La rivoluzione delle comunicazioni e dei trasporti moltiplica i contatti tra le culture. Purtroppo però, più che essere considerati una fonte di arricchimento reciproco, tali contatti vengono vissuti dal mondo occidentale come una minaccia che genera paura. La paura dei barbari».
Chi sarebbero i barbari?
«C´è chi pensa che la barbarie esista solo nello sguardo di chi considera tale l´altro perché non lo capisce. Per il mondo occidentale, i barbari sarebbero gli stranieri, coloro che non conoscono la nostra civiltà e la nostra cultura. Da questo punto di vista, la civiltà coinciderebbe con la nostra tradizione culturale. Sappiamo tutti però che persone che conoscevano benissimo la nostra cultura hanno potuto comportarsi come barbari. Ciò dimostra che barbarie e civiltà non possono essere definite attraverso l´assenza o la presenza di una cultura».
Quindi la barbarie non esiste?
«La barbarie esiste, ma per definirla, al posto di un criterio culturale, è bene utilizzare la nostra relazione con gli altri. È civilizzato chi riconosce la piena umanità degli altri e quindi li tratta nella stessa maniera e con la stessa attenzione che vorrebbe per sé. È un barbaro invece chiunque rifiuti di riconoscere agli altri la piena appartenenza all´umanità, considerandoli inferiori o infliggendo loro trattamenti disumani. La barbarie trascende le culture, non dipendente dall´educazione o dalle conoscenze. Non è una categoria culturale, ma una categoria morale. Le culture, invece, sono categorie descrittive senza alcun valore morale. Il fatto che io parli il bulgaro e lei l´italiano non implica alcun valore particolare né per me né per lei. Non è nella cultura che risiede la civiltà, anche perché nessuna cultura protegge definitivamente dalla barbarie. Così, è barbaro l´islamista che compie un attentato terroristico, ma anche l´esercito americano che uccide i civili o tortura i prigionieri. Purtroppo però larga parte dell´opinione pubblica occidentale continua a considerare barbari coloro che non possiedono la nostra cultura».
Soprattutto chi proviene dal mondo musulmano, nei confronti del quale prevale un sentimento di paura...
«La paura dell´islam è oggi un sentimento dominante. Essa è ampiamente diffusa dai media, ma anche da opere come quelle di Oriana Fallaci. A volte la paura resta sullo sfondo, altre volte si manifesta apertamente, tanto che molti governi la sfruttano per governare. A cominciare dagli Stati Uniti. Certo, gli americani hanno subito un attacco terroristico senza precedenti, ma l´amministrazione Bush ha poi sfruttato la paura dell´islam per mantenere la popolazione in uno stato di stupore acritico e far accettare più facilmente le sue decisioni. Purtroppo la paura è sempre cattiva consigliera, tanto che la paura dei barbari rischia di trasformarci in barbari, spingendoci all´intolleranza e alla guerra. Oggi, per la prima volta nella storia delle democrazie occidentali, la tortura è diventata un atto lecito. E la tortura è un atto barbarico».
Il primo a teorizzare lo scontro tra il mondo occidentale e quello islamico è stato Samuel Huntington. Cosa pensa della sua tesi?
«Per lui, la guerra fredda costituiva lo stato normale delle relazioni internazionali. Quindi, sparito il blocco comunista (anche se oggi dovremmo domandarci se il vecchio nemico sia veramente scomparso), l´Occidente si è trovato un nuovo nemico nel mondo islamico. Si tratta di una visione manichea e semplicistica che considera il mondo musulmano come un unico blocco compatto, dimenticando che le culture non sono entità che si tramandano come essenze platoniche. Le culture non sono blocchi monolitici immutabili nel tempo, sono costruzioni in divenire permanente, realtà meticce al cui interno agiscono numerose sottoculture che si trasformano di continuo in funzione delle loro relazioni e dei contatti con le culture esterne. Parlare di un´unica cultura islamica non ha senso».
Dove nasce la diffidenza nei confronti del mondo musulmano?
«Sono diversi da noi, non li capiamo e allora li consideriamo barbari animati esclusivamente da intenzioni ostili. Non ho alcuna simpatia per gli islamisti, ma è un´assurdità pensare che oltre un miliardo di persone siano esclusivamente determinate dal loro Dna culturale e religioso. Come tutti, i musulmani si comportano in base a una quantità di motivazioni, personali, psicologiche, politiche, sociali, ecc. In Occidente, però continuiamo a immaginarci che essi siano esclusivamente mossi dal Corano. Inoltre, non tutti i musulmani sono islamisti e non tutti gli islamisti sono terroristi. La semplificazione nei confronti del mondo musulmano è profondamente ingiusta, frutto di una pigrizia mentale che si accontenta di facili schematismi. Al manicheismo di questa percezione occorre contrapporre la complessità di un mondo ricco di sfumature. Occorre sfuggire al politicamente corretto ma anche al politicamente abietto».
È per questo che lei cerca di articolare relativismo e universalismo, evitando gli eccessi da entrambe le parti?
«Siamo diversi, ma siamo anche tutti umani. I due termini quindi vanno costantemente articolati. Come ci hanno insegnato gli illuministi, dobbiamo riconoscere l´universalità della condizione umana ma al contempo la varietà delle differenze culturali. C´è chi sostiene troppo semplicisticamente che l´illuminismo abbia segnato il trionfo dell´unità della civiltà. In realtà, l´illuminismo riconosce l´universalità della civiltà, ma sempre all´interno della pluralità delle culture».
Sul piano concreto della relazione tra le diverse comunità, lei ipotizza una soluzione pragmatica, vale a dire che la legge prevalga sempre sui costumi. È così?
«Difendere il confronto e il dialogo tra le culture non implica avere una visione ingenua della realtà. So benissimo che i problemi esistono. Ma più che occuparsi delle identità, occorre affrontare le situazioni specifiche. Le identità non sono barbariche, le situazioni invece sì. Quando, ad esempio, ci troviamo di fronte ai crimini d´onore, all´escissione, alle punizioni fisiche, ecc., occorre fare appello alla legge. Questi crimini riguardano spesso le minoranze musulmane, le quali, in nome di un´interpretazione abusiva del Corano, più patriarcale che musulmana, ledono i diritti delle donne. Nei confronti di tali comportamenti, non si deve mostrare alcuna indulgenza. Per questo è necessario ricorrere alla legge, ma anche aiutare le minoranze a conoscere i codici, la lingua e le regole della vita collettiva».
Chiedere di riconoscere la legge significa imporre a tutti un´unica cultura?
«Assolutamente no. Leggi e cultura vanno separate. Anche se in Occidente viviamo in nazioni che tendenzialmente hanno sempre fatto coincidere lo Stato con la cultura, non credo che tutti i francesi o tutti gli italiani abbiano la stessa cultura. Insomma, occorre accettare le culture degli altri senza paura. Dalla pluralità, infatti, si possono trarre grandi vantaggi. E l´identità dell´Europa risiede proprio nella capacità di aver elaborato regole comuni per gestire la diversità. Una lezione che non bisogna mai dimenticare».

Repubblica 12.9.08
Esce una raccolta di saggi di Jacques Derrida
L’uomo e l’esperienza dell’inventare
di Jacques Derrida


L´invenzione si conviene sempre all´uomo. Non si è mai autorizzati a dire di Dio né dell´animale che inventano, mentre noi possiamo inventare dei e animali
Anticipiamo un brano di "Psychè-Invenzioni dell´altro" di (Jaca Book, pagg. 472, euro 46, primo di due volumi) da oggi in libreria

Che cos´è un´invenzione? Che cosa fa? Viene a trovare per la prima volta. Tutto l´equivoco viene a ricadere sulla parola «trovare». Trovare è inventare quando l´esperienza del trovare ha luogo per la prima volta. Evento senza precedenti la cui novità può essere o quella della cosa trovata (inventata), per esempio un dispositivo tecnico che prima non esisteva: la stampa, un vaccino, una forma musicale, un´istituzione - buona o cattiva -, un congegno di telecomunicazione o di distruzione a distanza, ecc.; oppure l´atto e non l´oggetto del «trovare» o dello «scoprire» (per esempio, in un senso ora antiquato, l´Invenzione della Croce - da parte di Elena, la madre dell´imperatore Costantino, a Gerusalemme nel 326 - o l´invenzione del corpo di san Marco, del Tintoretto). Ma nei due casi, secondo i due punti di vista (oggetto o atto), l´invenzione non crea un´esistenza o un mondo come insieme di esistenti, non ha il senso teologico di una creazione dell´esistenza come tale, ex nihilo. Scopre per la prima volta, svela ciò che già si trovava lì, o produce ciò che, in quanto téchne, certo non si trovava lì ma non per questo viene creato, nel senso forte della parola, ma soltanto congegnato, a partire da una riserva di elementi esistenti e disponibili, in una determinata configurazione. Questa configurazione, questa tonalità ordinata che rende possibile un´invenzione e la sua legittimazione pone tutti i problemi che sapete, la si chiami totalità culturale, Weltanschauung, epoca, episteme, paradigma, ecc. Quale che sia l´importanza di tali problemi, e la loro difficoltà, tutti reclamano una delucidazione di che cosa voglia dire e implichi inventare. (...)
In tutti i casi e attraverso tutti gli spostamenti semantici della parola «invenzione», questa rimane il venire, l´evento, di una novità che deve sorprendere: nel momento in cui sopravviene non poteva essere predisposto uno statuto per attenderla e ridurla al medesimo.
Ma questo sopravvenire del nuovo deve essere dovuto a una operazione del soggetto umano. L´invenzione si conviene sempre all´uomo come soggetto. Ecco una determinazione di grandissima stabilità, una quasi invariante semantica di cui si dovrà tener rigorosamente conto.(...)
L´uomo stesso, il mondo umano, è definito dall´attitudine a inventare, nel duplice senso della narrazione fittizia o della favola e dell´innovazione tecnica o tecno-espistemica. Come collego téchne e fabula, così richiamo qui il legame tra historia ed episteme. Non si è mai autorizzati (ne va proprio dello statuto e della convezione) a dire di Dio che inventa, anche se la sua creazione - si è pensato - fonda e garantisce l´invenzione degli uomini; non si è mai autorizzati a dire dell´animale che inventa, anche se la sua produzione e manipolazione di strumenti assomiglia, talvolta si dice, all´invenzione degli uomini. Viceversa, gli uomini possono inventare dei, animali, e soprattutto animali divini.
Questa dimensione tecno-epistemo-antropocentrica iscrive il senso d´invenzione (da intendersi nell´uso dominante e regolato da convenzioni) nell´insieme delle strutture che legano in modo differenziato tecnica e umanesimo metafisico. Se bisogna oggi reinventare l´invenzione, sarà attraverso questioni e performance decostruttive che vertono su questo senso dominante dell´invenzione, sul suo statuto e sulla storia enigmatica che lega, in un sistema di convenzioni, una metafisica alla tecno-scienza e all´umanesimo. (...)
Che cosa si chiede quando ci si interroga sullo stato dell´invenzione? Si chiede anzitutto che cos´è un´invenzione, e quale concetto conviene alla sua essenza. Più precisamente, ci si interroga sull´essenza che ci si accorda a riconoscerle. Ci si chiede qual è il concetto garantito, il concetto ritenuto legittimo al suo riguardo. (...)
Tanto più che il circolo economico dell´invenzione non è altro che un movimento per riappropriarsi precisamente di ciò che lo mette in movimento, la différance dell´altro.
Che non si ricapitola né nel senso, né nell´esistenza, né nella verità.
Passando oltre il possibile, essa è priva di statuto, di legge, di orizzonte di riappropriazione, di programmazione, di legittimazione istituzionale, oltrepassa l´ordine della commessa, del mercato dell´arte o della scienza, non chiede nessun brevetto né mai ne avrà.
Restando, in tutto ciò, assolutamente mite, estranea alla minaccia e alla guerra. Ma tanto più perciò avvertita come un pericolo.
Come lo è l´avvenire, la sua unica preoccupazione: lasciar venire l´avventura o l´evento del tutt´altro. Di un tutt´altro che non può più confondersi con il Dio o l´Uomo dell´onto-teologia né con nessuna delle figure di questa configurazione (il soggetto, la coscienza, l´inconscio, l´io, l´uomo o la donna, ecc.). Dire che qui sta l´unico avvenire non significa invocare l´amnesia. La venuta dell´invenzione non si può rendere estranea alla ripetizione e alla memoria. Del resto l´altro non è il nuovo. Ma la sua venuta porta al di là di questo presente passato che ha potuto costruire (si dovrebbe dire: inventare) il concetto tecno-onto-antropo-teologico dell´invenzione, la sua stessa convenzione il suo statuto, lo statuto dell´invenzione e la statua dell´inventore.
Che cosa posso ancora inventare, vi chiedevate all´inizio, quando era la favola. E ovviamente non avete visto venire nulla. L´altro, non s´inventa più.
Che cosa vuole dire con ciò? Che l´altro non sarà stato altro che un´invenzione, l´invenzione dell´altro? No, che l´altro è ciò che non si inventa mai e che non avrà mai atteso la vostra invenzione. L´altro chiama a venire e questo è solo a più voci che viene.

il Riformista 12.9.08
Bersani: via il ministro della scuola
«Non può parlare di merito chi ha cercato l'esame facile»
di Sonia Oranges


Bersani: è come affidare la Difesa a chi ha eluso la naja. Ma Mariastella non teme critiche e redarguisce la polizia

«La Gelmini può fare tutto quel che vuole, ma non il ministro dell'Istruzione»: erano giorni che il ministro ombra all'Economia, Pierluigi Bersani, ci rimuginava su. Che Mariastella Gelmini avesse traslocato da Brescia a Reggio Calabria per "garantirsi" l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense, ai suoi occhi era già uno scandalo. Ma leggere poi sul Riformista che il ministro rivendica pure questa scelta («Dovevo fare l'avvocato, la mia famiglia spingeva perché lavorassi presto. A differenza di Veltroni, ne avevo bisogno. Che senso aveva perdere anni in concorsi dove passavano solo i figli di avvocati? Veltroni difende per caso gli ordini professionali? Pensa che sia lì che si valuta il merito delle persone?»), lo ha fatto davvero imbestialire. E, senza fronzoli, spiega il perché.
Dunque, secondo lei, il ministro Gelmini dovrebbe dimettersi?
«A me basta che si scambi il posto con Matteoli: lei va alle infrastrutture e Matteoli alla scuola. Ma non può certo parlare di merito, lei che ha cercato l'esame facile. Qui non siamo di fronte a un fatto personale, ma a una questione politica di primo rilievo. Penso che una persona che ragiona così non ha i titoli per rivolgersi ai giovani dalla poltrona di ministro dell'Istruzione. Si sta perdendo il senso della coerenza tra le parole e i fatti».



Lei che si occupa di economia, perché se la prende tanto per la scuola?
«Questo paese, in termini economici e dunque sociali, si può salvare solamente se si recupera il concetto di spirito civico. Oramai i sistemi non accettano più di essere regolati formalmente. Vincono invece le regolazioni implicite: dunque lealtà fiscale, buone pratiche, meriti premiati».
E la Gelmini che cosa c'entra?
«Trovo inaccettabile che, nel silenzio generale, il ministro dell'Istruzione da un lato ci parli di grembiulini, condotta e merito, e dall'altro dica che ha cercato una scorciatoia, una semplificazione sul suo percorso professionale. Giustificando pure questa scelta. Avrei preferito si scusasse, dicesse di aver fatto una sciocchezza. Qui non si tratta di Gelmini o di Bersani, qui è in ballo il messaggio che mandiamo all'opinione pubblica».
Il ministro però punta il dito contro gli ordini professionali. Sembra quasi che il Pd li difenda...
«Scherza? Io ho seguito da vicino la questione degli ordini, ho proposto una riforma che giace in parlamento e che è stata ostacolata in ogni modo dal centrodestra, tetragono difensore degli ordini. La Gelmini li cerchi in casa sua i fiancheggiatori degli albi professionali. Personalmente, trovo scandaloso che i giovani restino anni negli studi professionali a fare qualsiasi cosa, senza beccare un soldo. Cose che mio padre, che faceva l'artigiano, non avrebbe mai permesso».
Che mestiere faceva suo padre?
«Mio padre faceva il meccanico benzinaio. E se penso che ora il ministro ne fa una questione di figli di papà...».
Torniamo agli ordini professionali...
«Ci sono troppi giovani che aspettano invano la promozione all'abilitazione, rimanendo in un limbo. Credo che la chiave risolutiva sia collegare l'università all'accesso alle professioni, utilizzando gli stage invece che il praticantato selvaggio».
Ha ragione la Gelmini, allora.
«Chiariamoci. È come se il ministro della Difesa facesse l'elogio della naja avendola evitata. Per me la naja era inutile, come i praticantati, ma non ho mai pensato di starmene a casa e lasciare al resto del mondo il servizio militare. Io ho fatto il soldato semplice e posso occuparmi di difesa. Al pari, lei non può occuparsi di istruzione».
Non sarà un po' rigido?
«Lo dica alle decine di migliaia di giovani che hanno atteso cinque, sei anni per superare l'esame di abilitazione, a Brescia, Milano, Firenze, sudando sette camicie e contando sul proprio merito. Secondo il ministro, sarebbero tutti figli di papà e reggicoda degli ordini. Oppure deficienti. Se la Gelmini vuole fare la rivoluzione, cominci col proporre la riforma degli ordini».
Lei però sostiene che il problema travalica i confini di viale Trastevere.
«Certo. Ripeto, è una questione politica. Dobbiamo mandare un messaggio che ravvivi lo spirito civico. Gli ostacoli vanno rimossi non aggirati. E sono sicuro che, nel senso comune della gente, non ha ancora attecchito il principio secondo cui la furbizia è sempre vincente. Il paese è molto più reattivo di quel che pensiamo. Le famiglie di tutti quei ragazzi in attesa, sono scandalizzate, ma non hanno voce. Ma per caso è solamente un problema di Bersani questo? Dove sono gli opinionisti? Pensano che la Gelmini sia nel giusto? Anche voi, perché non le avete chiesto se non si sentiva in contraddizione tra il dire e il fare?».
Ma lei, tutto questo, l'ha detto al ministro?
«Voglio proporle una discussione pubblica. Voglio confrontarmi con lei, capire come può sostenere le sue tesi, casomai svolgendo utilmente qualche considerazione sul valore della coerenza personale nell'esercizio delle funzioni pubbliche».
Se vuole, invitiamo entrambi al Riformista.
«Io ci sto. Non so il ministro».
Il ministro è dunque ufficialmente invitato al confronto. I tempi sono duri per lei, che ieri ha incassato anche le sin troppo caustiche critiche del leader della Cgil, Guglielmo Epifani: «Alcune frasi della Gelmini sono da mettersi le mani nei capelli. Come quando pensava che qualche insegnante di storia o geografia potesse fare la guida turistica». Ma lei non sembra temere le contestazioni. Anzi. Ieri ha chiesto alla polizia di non procedere a controlli e identificazioni «se qualche facinoroso alza la voce, anche perché ho sufficienti argomentazioni per rispondere». E annuncia un tour nelle scuole Italiane «per confrontarmi con i ragazzi, raccogliere proposte e chiedere loro se la scuola così com'è li soddisfi o se sia necessario mettere mano a una riforma complessiva del nostro sistema d'istruzione».

il Riformista 12.9.08
Dopo Salò torna pure il caso Sofri
di Stefano Cappellini


Non si è ancora spenta l'eco della diatriba sulle celebrazioni dell'8 settembre che il dibattito pubblico nazionale, da anni specializzato nell'alternare all'ordine del giorno questioni distanti almeno un terzo di secolo, sembra pronto a ruminare di nuovo un altro eclatante caso di memoria lacerata, contesa, negata. Tutto, fuorché condivisa.
«Desidero muovere la più ferma obiezione a questa considerazione dell'omicidio Calabresi», ha scritto ieri Adriano Sofri nelle prime righe della sua rubrica sul Foglio, in un intervento destinato a far discutere per la ricostruzione (qualcuno dice già: la «giustificazione»), svolta con piglio e argomentazioni in parte inedite, delle ragioni che secondo l'ex leader di Lotta continua portarono all'assassinio del commissario a Milano nel maggio del 1972. Del resto, a garantire sulla portata della polemica sono i suoi stessi protagonisti: Sofri è, secondo una sentenza definitiva della giustizia italiana, il mandante di quell'omicidio, sebbene continui a proclamare la sua assoluta innocenza. E la "considerazione" cui si oppone è quella svolta il giorno prima in una corrispondenza su Repubblica da Mario Calabresi, figlio del commissario, il quale ha partecipato, per poi raccontarlo sul quotidiano, a un incontro fra vittime del terrorismo provenienti da tutto il mondo organizzato a New York dal segretario delle Nazioni Unite.
«Non ci si attenti a definire l'omicidio del commissario un atto di terrorismo», contesta però Sofri. E lo dice da un doppio punto di vista: soggettivo, ricordando che nemmeno la sentenza che lo condanna si fonda sull'accusa di terrorismo, e storico-politico, perché «terrorismo è l'impiego oscuro e indiscriminato della violenza al fine di terrorizzare la parte supposta nemica e guadagnare a sé quella di cui ci si pretende paladini». E indiscriminata, secondo Sofri, la violenza che colpì Calabresi non fu. Su questo punto si produce l'interpretazione destinata a sollevare più polemiche: quel delitto, sostiene Sofri, «fu l'azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca... i suoi autori erano mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime».
Difficile dar torto a Sofri quando nega la natura terroristica di Lc, di se stesso che ne era leader, e ricorda che la contestata sentenza lo condanna per «omicidio di privati contro un privato». Più scivoloso è prendere sempre per buona la sua definizione di terrorismo: si farebbe fatica a comprendervi persino via Fani, dato che senza dubbio la «geometrica potenza» brigatista non era né oscura né indiscriminata. E che dire della definizione di «persone non malvagie» attribuita agli assassini di Calabresi? Sulla base delle motivazioni precedenti, della «commozione e dello sdegno» come motore della scelta armata, la si potrebbe applicare a decine di omicidi politici. A meno che con questo giudizio, per la prima volta, Sofri non voglia indirettamente testimoniare la conoscenza diretta dell'identità e dell'animo degli «ex assassini», come li definisce lui, e sempre questa conoscenza intenda confermare quando ricorda di aver avuto in Lc «un ruolo che mi costringe a una responsabilità verso la sua storia intera, anche quando la mia responsabilità personale fu nulla, e così quella penale». E comunque, se davvero non fu Lc in quanto tale a volere il delitto, ma magari sue schegge autonome e in dissenso con la linea di Sofri e della maggioranza, non è logico pensare che lo fecero soprattutto per accelerare i tempi di crescita del partito armato, e quindi del terrorismo?
Resta che il delitto Calabresi «fu un azione terribile» ma quello - aggiunge l'ex Lc - era il contesto, anni di parole e pensieri violenti. Si riaffacciano così a stretto giro le medesime domande del dibattito su fascismo e resistenza appena rilanciato dai casi Alemanno e La Russa. Col paradosso che in questo caso - sia detto senza voler istituire alcun nesso di parentela politica - è l'ultrasinistra sessantottina, quella che si riteneva unica figlia legittima della Resistenza, a sollevare interrogativi di fondo avanzati di solito dai fautori delle "ragioni" saloine. Ovvero: in che conto vanno tenute le ragioni dei vinti, che nel caso specifico sarebbero non solo i responsabili materiali dell'assassinio di Calabresi ma tutti coloro che, convinti a torto di incarnare una giustizia non scritta ma più profonda, «ammettevano per esaltazione o per rassegnazione l'omicidio politico»? Gli anni di piombo furono segnati da una guerra civile? Non in senso stretto, ammette Sofri, ma dopo la strage di piazza Fontana («di cui tutto si sa, salvo che per i servi sciocchi») «molti di noi erano in guerra con qualcuno». Si distinguevano chiaramente in quegli anni una parte della ragione e una del torto? No, risponde Sofri, se è vero che la morte del ferroviere Pino Pinelli («innocente di ogni colpa») negli uffici della Questura di Milano è figlia della «premeditazione e dell'ostinazione» con cui dopo la strage le istituzioni perseguirono la falsa pista anarchica, premeditazione di cui Calabresi «fu attore di primo piano» (anche se «tendo a credere che non fosse in quella stanza»). Nella stagione dell'odio ci sono morti di serie A e di serie B? «Non riesco a impedirmi - scrive Sofri - quando leggo della lettura pubblica della Costituzione svolta dalla signora Gemma Capra al cospetto del Capo dello Stato, di chiedermi se qualcuno, un'autorità qualunque, abbia invitato la signora Licia Pinelli a leggere in pubblico la Costituzione». E ancora: «So che Licia Pinelli non vorrà mai leggere il libro di Mario Calabresi», cioè il fortunato Spingendo la notte più in là, dove il giornalista di Repubblica ha tradotto in lessico familiare la storia pubblica che lo ha privato del padre.
Sofri rimprovera anche agli intellettuali che firmarono l'appello anti-Calabresi di aver trasformato la successiva autocritica in una confessione di «follia collettiva». Quell'appello nasceva «contro una sconvolgente vicenda di terrorismo di Stato e di omertà istituzionali» e per questo, ricorda l'ex lottacontinuista, ancora nel 1998 Norberto Bobbio (filosofo e anche padre di Luigi, tra i fondatori di Lc a Torino) ne ha difeso le ragioni, rimproverando proprio a Sofri, che se ne era scusato con la vedova Calabresi, di essersi fatto indebolire dal carcere. In fondo, nell'autodafé di molti dei firmatari dell'epoca, c'è forse l'unica verità condivisa: in Italia, a scoperchiare il vaso della memoria, si scopre che molti fanno fatica persino a mettersi d'accordo con se stessi, figuriamoci gli uni con gli altri.