sabato 27 aprile 2019

Corriere 27.4.19
Michele Santoro Dopo un lungo silenzio, il conduttore svela i suoi piani
«La Rai è casa mia, ma ora seguo la Rete. E vorrei comprare L’Unità»
di Stefano Lorenzetto


La mattina Michele Santoro scende dai Parioli, dove abita, e raggiunge l’ufficio in via delle Mantellate, a fianco del carcere romano di Regina Coeli. «Vedo le mamme in fila con i figli per mano, mentre aspettano di portare i bimbi a incontrare i loro padri detenuti, e ogni volta mi commuovo».
La sede della sua Zerostudio’s, al pianterreno di un’ex fabbrica, sembra scelta apposta per stimolare la creatività: ha ospitato l’ufficio di Bernardo Bertolucci e l’atelier di Mario Schifano, che dipingeva circondato da monitor sintonizzati sulle tv di tutto il mondo. A giudicare dai volti, l’età media dei collaboratori non supera i 30 anni. Chissà a quali produzioni televisive stanno lavorando: da giugno 2018, dalla fine di «M», la fiction sul caso Moro trasmessa dalla Rai, il conduttore non compare in video. È sparito pure dai giornali. Forse perché ne sta progettando uno suo, anche se la testata risale al 1924: L’Unità. «Ho presentato un’offerta al proprietario, il costruttore Massimo Pessina».
Ma il virus della tv gli resta in circolo. L’ho intuito da un episodio che mi ha raccontato a registratore spento, accaduto il 10 gennaio 2013 durante la famosa puntata di «Servizio pubblico» su La7 (8.670.000 telespettatori, 33,58 per cento di share, Rai e Mediaset umiliate in prima serata), con lui che si rifiuta di stringere la mano a Silvio Berlusconi e il leader di Forza Italia che, al momento di appoggiarvi le terga, spolvera la poltroncina su cui stava seduto Marco Travaglio. «Poco prima, in una pausa pubblicitaria, il Cavaliere mi aveva detto: “Michele, ma come ci stiamo divertendo!”».
Perché si è candidato per il cda Rai?
«Per costringerli a scegliere persone migliori di me. Ora la Lega ha presentato un’interrogazione alla Camera contro un mio programma che non c’è. Ho scritto al presidente Roberto Fico. Manco mi ha risposto. In Italia si fa così».
Ma il direttore di Rai2 l’ha incontrato.
«Con lui ho parlato del più e del meno. Subito hanno rivisto in Santoro lo spettro del passato. Carlo Freccero mi ricorda una definizione di Giancarlo Pajetta: “È contemporaneamente un opportunista di destra e di sinistra”. Mi limito a gestire il mio sito, un laboratorio che sonda gli umori della Rete e produce contenuti. Finché potrò permettermelo».
Anche lei si è convertito a Internet.
«Quando ideai “Tempo reale”, il Web contava appena 10.000 utenti. Con la Olivetti sperimentai il rapporto fra computer e televisione. Una volta per andare in onda dovevi saper ballare, cantare, presentare. Oggi un ragazzo di borgata diventa una star di YouTube interpretando solo sé stesso».
Gli basta uno smartphone.
«Milioni di lavoratori cliccano per inseguire i loro sogni, alle dipendenze di multinazionali che neanche li pagano. Usano il corpo, come Kim Kardashian. S’improvvisano comici con peti e rutti. Non è che devono saper fare la corsa delle bighe di Ben-Hur. La Rete comanda. La velocità è tutto. La verità non conta. Prevale solo la morbosità».
Deprimente.
«Ma la sinistra che predica di riconnettersi alla realtà, ai poveri e alle periferie non tiene conto di questa rottura. Ha una visione cattolicheggiante del marxismo, e glielo dice uno che Karl Marx non l’ha mai rinnegato: fatte le debite proporzioni, devo pensare a Gesù Cristo per trovarne un altro come lui».
Sbaglia Nicola Zingaretti, neosegretario piddino, a ripartire dallo ius soli?
«C’è un vuoto di proposte. Il Pd non analizza i mutamenti sociali provocati dalla Rete. Resta affezionato al welfare verticale, dal centro alla periferia».
Beppe Grillo ad «Annozero» impazzava sparando su Giorgio Napolitano e Umberto Veronesi. Non sarà che lei ha creato un mostro?
«Più sei famoso e più devi concedere un eccesso di critica a tutti. Io credo moltissimo nelle istituzioni, ma in Italia non sono più in grado di registrare i cambiamenti. E così la comunicazione surroga lo Stato. Il fenomeno Berlusconi è la tv che si fa partito. Il fenomeno Grillo è la Rete che si fa partito. E i partiti che cavolo facevano nel frattempo?».
Le piacerebbe un governo M5S-Pd?
«Di notte non sogno l’incontro Di Maio-Zingaretti. Però non andrei a dire in giro che i 5 Stelle sono uguali alla Lega. Palmiro Togliatti avrebbe osservato che questo è il modo migliore per rafforzare l’attuale governo».
Nel sondaggio per il premio Stercorario i grillini la posero al quinto posto fra i giornalisti più odiati, dietro ad Alessandro Sallusti e davanti a Gad Lerner.
«Ragionano per insulti, non su quello che dici. Gli argomenti complessi li disorientano. I politici al potere non mi hanno mai amato».
Perché ha offerto una ricompensa a un killer affinché uccida Matteo Salvini?
«Che idiozia. Era solo un commento ironico ai sette modi surreali suggeriti dal vignettista Vauro per sbarazzarsi del vicepremier, il primo dei quali prevedeva di recapitare a Salvini un mega barattolo di Nutella».
Chi può fermare Salvini?
«Il buonsenso. Paragonarlo a Benito Mussolini è del tutto inopportuno. Il Duce ha cercato in Africa lo “spazio vitale”. Non ha costruito muri, ma colonie. Questo qui ci fa perdere tempo a parlare di barconi mentre la Libia è in guerra. Intanto arriva la Cina che investe 40 miliardi nel Continente nero. Salvini insegue solo i più beceri che gli danno ragione sui social. Sarò pazzo, ma vorrei un leader che indicasse una prospettiva».
Il capo della Lega non la indica?
«Quando voleva uscire dall’Europa, non avendo ancora capito che la maggioranza degli italiani intende restarci, gli chiesi: scusa, e dopo? “Anche su una zattera, purché fuori dall’Ue”. Testuale».
Mi dia una definizione di Berlusconi.
«Uomo di straordinaria intelligenza, che nel 1994 fu capace come nessun altro d’intuire una svolta epocale. Aveva promesso la rivoluzione liberale e invece è stato ingoiato dalla burocrazia immobile. La stessa fine che farà Grillo».
Celentano le telefonò dieci minuti dopo la spolverata alla sedia: «Quest’uomo non può governare il Paese». Però l’ultimo show, «Adrian», un flop stellare, lo ha venduto a una tv di Berlusconi.
«Se la Rai non lo vuole, che deve fare un artista? Quando sei Michelangelo, è faticoso rinunciare a dipingere».
Il Pd non fa proposte. Un errore
paragonare Salvini al Duce
La burocrazia ingoierà Grillo
La vecchiaia? Una brutta bestia
Le piacerebbe tornare in Rai?
«È la casa dove sono nato, ma vivo bene anche lontano dalle telecamere. A via Teulada avevo un intero piano. Dopo l’editto bulgaro mi lasciarono solo una stanzetta. Due anni senza lavorare. Era la più bella tv d’Europa e divenne la più povera, fatta su misura per Berlusconi».
Il suo maestro chi è stato?
«Angelo Guglielmi, il direttore di Rai3. Tu parlavi e lui intanto soffiava su una carta velina, come se fosse un’armonica. Era il suo modo di ascoltarti».
Il miglior direttore generale della Rai?
«Biagio Agnes. Trattava alla pari con i politici. Impose la terza rete. Al Tg3 prima ci disputavamo le poche macchine per scrivere della redazione».
Mentre Enzo Siciliano, quand’era presidente della Rai, a chi gli faceva il suo nome rispondeva: «Michele chi?».
«Però prima di andarsene mi chiese scusa. Sono l’unico direttore votato all’unanimità, su indicazione del presidente Letizia Moratti, che non fu mai insediato in un tg. Il dg Raffaele Minicucci bloccò la nomina per ordine del Pds. Mi risarcirono garantendo autonomia a “Tempo reale”. Appena Romano Prodi vinse le elezioni, la struttura fu sciolta».
La sua allieva Giulia Innocenzi è ridotta a presentare i riassunti delle «Iene».
«“Le Iene” sono lontane anni luce dal mio modo di fare giornalismo».
Dicono che lei costi un botto.
«Ci sono stati momenti in cui mi sono fatto pagare molto. Altri, come con “Italia” e “M”, quasi niente o molto poco».
Con la televisione si è arricchito?
«No, benché mi descrivano come un plutocrate. Mi sono liberato dal bisogno, anche di lavorare. Un minatore italiano in Belgio mi rimproverò: “Non date del ricco a Berlusconi. Gli fate un complimento. La ricchezza è un valore”».
Ha nostalgia dei politici di ieri?
«Li ho combattuti, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi. Ma non c’è paragone con i nani di oggi».
Si considera obiettivo?
«Onesto. Non racconto cose false».
Si è definito «un uomo ambiguo».
«Ho sfaccettature complicate. Non smentisco chi mi dà del comunista. Ma credo nel mercato e nella meritocrazia».
Giuliano Ferrara la bollò così: «La tv di Santoro è barbarie, un marchingegno in tutto simile alla gogna che intrappola i suoi fedeli spettatori nella festa degli inganni».
«Siamo gemelli diversi. Però io non sono mai entrato in un governo. E ho intrappolato molto più pubblico di lui».
Si ritiene vanitoso?
«No. Tutt’al più presuntuoso».
Eppure si tinse di biondo i capelli per sembrare più giovane.
«Mi ero distratto e il parrucchiere me li schiarì troppo. Ora me li taglia Roberto D’Antonio, che è un mio grande amico».
Come s’immagina da vecchio?
«Cioè come mi vedo oggi? La vecchiaia è una brutta bestia. Non temo la morte, e infatti ho sempre rifiutato la scorta. Mi spaventa la decadenza fisica».
Mi confessi qualcosa che non ha mai detto a nessuno.
«In quella trasmissione con Berlusconi e Travaglio, assunsi una posizione sbagliata. Accettai che salisse la temperatura, come se il duello non mi riguardasse. Rinunciai a fare il mio lavoro. Uno skipper non abbandona mai la barca».

Repubblica 27.4.19
La tragedia davanti agli occhi del paese
"Stasera andiamo dal pazzo" E le risate dopo i pestaggi finivano nei video in chat
"Lo abbiamo fatto per passare il tempo" dice uno degli aguzzini, 17 anni A perseguitare il vecchio erano in tanti, in competizione. E tutti sapevano
di Giuliano Foschini


MANDURIA Perché? «Per passare il tempo».
Lo avete ucciso. «Non è vero, che dite! Ho soltanto girato qualche video su WhatsApp». Non ci sei mai andato? «Qualche volta, fuori di casa. Senza mai entrare».
Perché? «Per ridere». Per capire l’orrore di Manduria è necessario guardare gli occhi vispi ma apparentemente privi di emozione di questo ragazzo che non ha ancora compiuto 17 anni.
Cammina con la testa bassa verso casa. Dice di sognare, da grande, di fare l’attore. E che «si sta facendo troppo casino». Secondo la polizia è uno dei 14 aguzzini di Antonio Cosimo Stano, "lu pacciu" di Manduria, come lo chiamavano tra di loro, l’uomo seviziato a morte da questi ragazzi e ucciso dalla distrazione di un paese, quasi tutto, che ora si indigna ma per anni sapeva e aveva sempre fatto finta di non vedere. «Non abbiamo fatto niente, solo due messaggi» ripete il ragazzo, prima di andare via. Il niente è una lunghissima chat di WhatsApp. Un gruppo chiuso al quale partecipano una dozzina di giovani del paese. Si chiama "Gli orfanelli" ed è una cassetta postale nella quale compulsivamente ogni giorno, durante le lezioni a scuola e così fino a tarda notte, i partecipanti si scambiavano per lo più cose inutili: fotografie, sfottò calcistici, scherzi audio. I partecipanti sono tutti di Manduria e, in un paese come questo, culla della Sacra corona unita, dove il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, sono quelli che si chiamano "bravi ragazzi": uno solo, figlio di un pregiudicato, ha precedenti. Gli altri hanno genitori insegnanti, guardie giurate, imprenditori vinicoli, commercianti. E sono tutti studenti (per dire, nei giorni scorsi la polizia è stata in classe per sequestrare uno smartphone). In comune hanno dunque questa chat. E un’ossessione: Antonio "lu pacciu". L’uomo era un ex dipendente dell’Arsenale militare. Era in pensione da tempo, quasi dieci anni, e da allora aveva avuto problemi di natura mentale. «Tecnicamente era un paziente psichiatrico» spiegano dalla procura di Taranto dove, in queste ore, stanno cercando di mettere ordine all’insensatezza di un crimine senza movente. Se non la violenza stessa. Da anni — c’è chi dice sei, chi un paio — questa banda di ragazzini perseguitava l’uomo. E poi si divertiva a condividere nel gruppo WhatsApp i video delle vessazioni. Per esempio: è febbraio, fa freddo, Antonio ha un lungo cappotto marrone. Gli mettono il cappuccio sulla testa e cominciano a prenderlo a schiaffi. Uno riprende, un paio colpiscono, gli altri ridono.
«Miliardi di persone perché vieni sempre da me!» implora di smetterla Antonio sull’uscio di casa, mentre uno dei ragazzi lo spinge forte per terra e gli altri ridono di gusto. Poi, ancora: calci, sgambetti. «Che facciamo oggi?».
«Stasera sciamu tutti dallu pacciu» e via emoticon, risate, e cenni di approvazione. Entrano anche nella sua casa. Un ragazzo brandisce una scopa verde, come fosse la frusta di un domatore.
Antonio è spaventato, sulla sedia, prova a ripararsi con le mani, viene colpito, tutti ridono. In diretta e nella chat. «Mamma, che hai fattu allu pacciu! Come lo hanno combinato!». Antonio era esausto. A perseguitarlo non c’erano soltanto quelli del gruppo de "Gli orfanelli". Era diventato l’oggetto di una competizione nel paese. Due, tre comitive di coetanei. Che poi si inviavano video tra di loro per vedere chi l’aveva fatta più grossa. Antonio, ormai, non usciva più di casa perché aveva paura di incontrarli. Temeva anche soltanto di aprire la porta per uscire a fare la spesa. Era solo: aveva una sorella più grande, impossibilitata a muoversi di casa. E un nipote, ufficiale di Marina, che si prendeva cura di lui ma viveva lontano, troppo, per rendersi conto di quello che stava accadendo. È impossibile da capire, però, come non abbiano visto quelli che erano vicini ad Antonio. Chi gli abitava accanto, chi ogni giorno assisteva a quelle scene di bullismo. Racconta Roberto Dimitri, educatore nella parrocchia di San Giovanni Bosco, che Antonio frequentava: «Personalmente ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamato i genitori, ma senza risultati». «Non capisco» dice uno degli investigatori, "come sia possibile che non ci sia arrivata mai nemmeno una segnalazione, visto che queste persecuzioni, perché tali sono, andavano avanti da anni». I poliziotti sono stati allertati dai vicini soltanto all’inizio di aprile, perché non vedevano Antonio in giro. Il 6 sono entrati in casa: lo hanno trovato seduto su una sedia, come tramortito. La casa era un porcile. Non c’era nemmeno un letto, un materasso era poggiato a un muro. Antonio dormiva sulla sedia. Non aveva più il televisore: se l’era portato via uno della banda, chiaramente ripreso dai cellulari degli altri. C’erano ancora i segni delle scorribande dei ragazzi. «Non si rendevano conto del male che stavano facendo», è convinto l’avvocato Lorenzo Bullo, che difende sei indagati, cinque minorenni e un maggiorenne. Di orrore se ne intende: ha difeso Cosima Serrano, una delle assassine di Avetrana, che da Manduria dista pochi chilometri. E dove in pochi avevano visto, eppure tutti sapevano. Ora i genitori dei ragazzi piangono. Mentre loro, i ragazzi, chiedono "perdono" ma si dicono «certi di non averlo ucciso». Saranno i medici a stabilire se quella perforazione allo stomaco che sembra aver ammazzato Antonio sia il frutto di un colpo, di una vecchia ulcera o della paura anche solo di uscire di casa e chiedere aiuto. "Ridate i soldi al vecchio" scrivono "Gli orfanelli" in uno degli ultimi messaggi, prima del sequestro dei telefoni. Qualcuno aveva rubato a casa Stano 300 euro, o forse 30. Ma la cifra non importa.
"Lu pacciu" non c’era già più.

Repubblica 27.4.19
La violenza di Manduria
I giovani permale
di Michela Marzano


Cosa può passare per la testa di un ragazzo quando bullizza, umilia o tortura un altro essere umano? È accaduto a Manduria, in provincia di Taranto, dove quattordici ragazzi, di cui dodici minorenni, hanno segregato in casa un uomo di sessantasei anni che soffriva di disagi psichici, sottoponendolo a numerosissime sevizie. Ma, dicevo, cosa può mai spingere dei ragazzi a commettere tali atrocità? Una forma di crudeltà, senz’altro. E di totale assenza di empatia nei confronti della sofferenza altrui — immaginando magari che un disagio psichico renda impermeabili al dolore, oppure meno degni di considerazione e empatia. Ma anche una forma di stupidità, visto che solo chi non è in grado di capire che la persona che ci sta di fronte (indipendentemente dalle differenze specifiche che lo caratterizzano e dalle abilità o disabilità che porta con sé) possiede, in quanto persona, il nostro stesso valore intrinseco, può permettersi di calpestare la dignità altrui. Per non parlare poi dell’indifferenza, madre di ogni male, che porta a tapparsi le orecchie e a bendarsi gli occhi di fronte al dolore di chi ci è davanti. Anzi. Spinge addirittura a moltiplicare all’infinito la violenza, e a filmare le scene con il cellulare. Prima di condividerle su WhatsApp con tutti coloro che, indifferenti pure loro alla vulnerabilità umana, confondono la violenza con l’eroismo e la vigliaccheria con il coraggio.
Ormai viviamo in una società in cui sono molti coloro che pensano che l’unica cosa che conti sia l’"apparire": trovare il modo per ottenere condivisioni e " mi piace" sui social, forse perché non si è in grado di esistere in altro modo, forse perché non si riesce nemmeno più a dare valore alla propria esistenza. E allora si immagina che tutto si equivalga: fare, disfare, distruggere, cancellare. Tanto chi può mai essere turbato dalla morte di un marginale? A chi può mai mancare un uomo anziano e disabile?
Pare che nei video diffusi sulla chat di WhatsApp, i giovani si siano ripresi proprio mentre prendevano a pugni e a calci la vittima. Così come pare che l’anziano signore fosse vittima di bullismo da anni. Anni di soprusi e umiliazioni, quindi. Senza che nessuno sia mai intervenuto per mettere fine alla tragedia. Perché è di una tragedia che stiamo parlano, non di un videogioco né di un film di Tarantino. Ma forse il problema è proprio questo: aver a tal punto sdoganato la violenza che il messaggio secondo cui, in fondo, tutto è gioco, tutto è possibile, e niente è irreparabile, è ormai parte del Dna di troppi giovani. Mentre la caratteristica della crudeltà è proprio l’irreparabilità: quando il bersaglio è un essere umano, ogni gesto resta, ogni umiliazione si iscrive sulla carne, ogni calcio e ogni pugno calpestano la dignità personale. E non è vero che basti punire i colpevoli per risolvere questo tipo di problemi ed evitare che, in futuro, possano di nuovo accadere tragedie come questa. Finché non si ricomincerà dall’Abc del rispetto e dalle basi della compassione — che non è innata, ce lo spiega bene Freud: se i più piccoli non vengono educati all’empatia, la crudeltà non ha limiti, e non c’è modo di arginarla — sarà difficile immaginare un futuro in cui i giovani sentano sulla propria pelle il dolore altrui, e capiscano il significato dei propri gesti.
Il mondo delle relazioni, oggi, necessita di essere riparato. Ce lo spiega l’etica della cura, che sposta l’asse dall’individuo alle relazioni, e mostra come il vivere- insieme può essere preservato solo ricostruendo la capacità dell’"io" a riconoscere il "tu". Ma soprattutto ce lo impone la realtà, ogniqualvolta ci costringe a fare i conti con i drammi generati dall’indifferenza, dalla stupidità e dalla crudeltà di alcuni ragazzini e a domandarci, un’altra volta, se questo è un uomo.

La Stampa 27.4.19
La Corte di Cassazione
Per negare l’asilo ai migranti bisogna provare l’assenza di rischi
di Andrea Carugati


La Corte di Cassazione riallarga le maglie per la concessione dell’asilo politico, in netta controtendenza con il decreto sicurezza varato nei mesi scorsi dal governo. Il no alle richieste di asilo politico dovrà essere motivato dai giudici dopo un accurato esame della situazione del paese di origine del richiedente. Per dire no a un migrante che dichiara di essere in pericolo in patria, non basteranno più «formule generiche» o «stereotipate», o il richiamo a non specificate «fonti internazionali». I giudici dovranno produrre «informazioni aggiornate» sulla situazione socio politica dello stato in questione. A dirlo è la Corte di Cassazione, che ha dichiarato «fondato» il reclamo di Alì S., cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere in Italia con la protezione internazionale.
Alì - difeso dall’avvocato Nicola Lonoce - ha fatto presente che la decisione era stata presa «in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili» e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine. Il reclamo ha avuto esito positivo, e la Cassazione ha sottolineato che il giudice «è tenuto ad accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate». E deve indicare le fonti prese in esame. In particolare, la sesta sezione civile della Cassazione sostiene che il giudice di merito dovrà valutare se nel paese di origine del richiedente asilo «si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave o individuale alla vita o alla persona». «Senza una simile specificazione - avverte la Cassazione- sarebbe vano discettare di avvenuto concreto esercizio di un potere di indagine aggiornato».
L’asilo ad Alì era stato negato sulla base di «fonti internazionali» che parlavano di conflitto in Pakistan nelle zone del Fata e del Khyber Pakthunkwa, mentre per la sua regione di provenienza - non citata - si faceva riferimento a fonti Easo, l’Agenzia europea per l’asilo, che comunque definiva la situazione «assai instabile». Per la Cassazione, non è chiaro perché non sia stata riconosciuta «una specifica rilevanza, alla stregua di conflitto generalizzato», al «suddetto livello di instabilità». E non si capisce «se tale sia l’opinione del tribunale ovvero l’attestazione tradotta dalle suddette fonti». Ora il tribunale di Lecce dovrà riesaminare il caso.

Corriere 27.4.19
La decisione
La Cassazione: stop alla stretta sull’asilo senza prove certe


Basta con la stretta sulle richieste di asilo motivate, dai giudici di merito, sulla base di generiche «fonti internazionali» che attesterebbero l’assenza di conflitti nei Paesi di provenienza dei migranti che chiedono di rimanere in Italia perché in patria la loro vita è a rischio. Lo chiede la Cassazione che esorta i magistrati a evitare «formule stereotipate». Sulla base di questa sentenza — inviata al Massimario — la Suprema Corte ha dichiarato «fondato» il reclamo di un cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale sulla base di generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan. Per la Cassazione il giudice «è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate», e non di «formule generiche» come il richiamo a non specificate «fonti internazionali».

Corriere 27.4.19
Il messaggio
L’argine del Quirinale a quelle regole sul filo della costituzionalità
di Marzio Breda


Non è troppo un mese per analizzare una legge di appena otto articoli? No, se si tratta della legittima difesa presentata da Matteo Salvini come «legittima sempre» (sottinteso: e comunque), facendo leva sull’ambigua logica dei provvedimenti eccezionali. E no, se quel pacchetto di norme fa temere scenari da Far West ai molti che lo contestano, una ferita alla civiltà del diritto. Era dunque un esame delicato su due piani, politico e giuridico, quello che ha impegnato il presidente della Repubblica per trenta giorni e che si è concluso ieri con la promulga della riforma. Una firma obbligata, la sua, dato che non vi ha individuato vizi di incostituzionalità tali da giustificare il rinvio alle Camere (le quali potrebbero riportargliela in fotocopia, forti di una larghissima maggioranza, costringendolo a sottomettersi). Tuttavia ha associato al proprio avallo una lettera al Parlamento e al governo che evidenzia alcune criticità da sanare e interpretazioni diciamo così, abusive, da non permettersi di dare.
Già nel preambolo Mattarella introduce una sottolineatura esplicitamente politica, ricordando che spetta allo Stato la responsabilità «primaria ed esclusiva» di tutelare «l’incolumità e la sicurezza dei cittadini». Un modo per sgombrare subito eventuali smanie d’improvvisarsi cowboy della frontiera, smanie che nessuno può quindi legittimare, rimarcando il ruolo delle istituzioni. Poi vengono i chiarimenti tecnici. Il primo dei quali, forse il più importante, quando evoca la «condizione di necessità» (prevista dall’articolo 52 del Codice penale, il Codice Rocco del 1930, tutt’ora vigente) che non può esser abolita dalla nuova legge perché sarebbe contraria ai principi costituzionali. In sostanza: perché la difesa sia legittima deve continuare a sussistere «la necessità» di difendersi da «un pericolo attuale (vale a dire contemporaneo) di un’offesa ingiusta», e la sussistenza di questa condizione va verificata.
Un altro rilievo riguarda il concetto di «grave turbamento», che presuppone «una concreta situazione di pericolo in atto» e non può essere invocato con criteri di automatismo, «soggettivamente», da chi ha per esempio sparato. Se fosse una scriminante, colui che ha sparato potrebbe sostenere sempre e comunque di essere stato in «grave turbamento» per evitare di esser giudicato per eccesso di legittima difesa. Mentre occorre invece che tale stato sia riconosciuto in base a elementi oggettivi. E questo dovrebbe spettare ai tribunali stabilirlo.
Infine un paio di errori materiali. Il primo mette in luce una non spiegabile disparità di disciplina rispetto a colui al quale venga riconosciuta la legittima difesa «domiciliare», con spese del giudizio che si prevedono a carico dello Stato, ad esempio nell’ipotesi di una aggressione per strada o di un reato di rapina attraverso un furto o lo scippo. Analoga, e per il capo dello Stato «non ragionevole», differenza di trattamento da correggere quella sulla possibilità di concedere la sospensione della pena che scatterebbe nel caso di condanna per furto in appartamento e non per il delitto di rapina.

Corriere 27.4.19
Il neurologo
Le reazioni imprevedibili del cervello in pericolo
di Rosario Sorrentino


Un rumore, un altro ancora, e la percezione di un passo che avanza; poi il silenzio, e all’improvviso una luce nel buio che spunta dal nulla. La sensazione è agghiacciante, un tuffo nel petto, con l’adrenalina che zampilla e il cuore che batte come un tamburo; la tensione è alle stelle. È il segnale che il cervello ci invia, lo scontro è imminente e può fare la differenza tra la vita e la morte. «Se entra un ladro in casa ho il diritto di difendermi, so già cosa farò!». Facile a dirsi, a mente fredda. Questa affermazione, con o senza pistola, ha in sé una grande illusione. Perché nessuno di noi sa fino in fondo come reagirà veramente in momenti così drammatici. Possiamo solo immaginare una serie di opzioni, ma non è detto che poi le cose andranno veramente così, anzi. Di fronte a un pericolo improvviso, vissuto con una forte paura, il nostro cervello dispone di due strade, a volte tre. La prima velocissima, istintiva e impulsiva, che non ci chiede certo il permesso di agire, è da mettere in relazione con le amigdale, i radar a forma di mandorla, quei sensori che nel cervello scattano in modo automatico, per segnalarci un pericolo in atto, immediato; grazie a loro il corpo risponde con la fuga o l’attacco. La seconda molto più lenta, quasi riflessiva, è riconducibile invece alla corteccia prefrontale, il luogo della ragione; è qui che la minaccia viene «processata», sottoposta a una valutazione più attenta. Infine, l’ultima, piuttosto rara, quella che induce il corpo a rimanere paralizzato, quasi senza respiro. A volte, per salvarsi, la tattica migliore è fingersi morti. Nel momento di un pericolo improvviso è l’istinto di sopravvivenza, qualcosa di innato, a guidarci, ma non è detto che poi faccia la cosa più giusta per evitare che ci sia sproporzione rispetto alla circostanza vissuta. Per evitarlo, dovremmo tenere conto in un intervallo di tempo ristretto, frazioni di secondo, di una moltitudine di fattori. Ma è quasi impossibile! Per non parlare poi, se in quei frangenti non siamo soli, ma con i nostri familiari. Questo può marcare la differenza sulle nostre reazioni, per garantire ad ogni costo la sicurezza delle persone che amiamo di più arrivando a rinunciare alla vita pur di salvarle.

Corriere 27.4.19
Stare nella Ue è positivo?
Il sì del 45% degli italiani batte gli scettici (24%)
Fiducia in lieve crescita: l’indice è al 40 per cento
di Nando Pagnoncelli


La fiducia nell’Unione Europea da parte degli italiani si mantiene su livelli piuttosto bassi (36%), soprattutto se raffrontati al passato (nei primi anni 2000 superava l’85%) e in confronto ai valori espressi dagli altri Paesi europei (siamo quintultimi tra i 28). L’indice di fiducia, calcolato escludendo coloro che non si esprimono, si attesta a 40 e fa segnare una lieve crescita (+2) rispetto al biennio 2017-2018. La frattura tra fiducia e sfiducia è soprattutto di carattere politico: la prima infatti prevale solo tra gli elettori di centrosinistra (71%), mentre la sfiducia prevale nettamente tra i pentastellati (69%) e i leghisti (68%), come pure tra gli elettori dell’opposizione di centrodestra (59%) e gli astensionisti (47%).
Pur tuttavia, il 45% dei nostri connazionali ritiene che l’appartenenza dell’Italia alla Ue sia una cosa positiva, contro il 24% di parere opposto e un altro 24% che non la considera né positiva né negativa. In questo caso, oltre alle contrapposizioni legate all’area politica di appartenenza, è interessante osservare che il consenso aumenta significativamente tra coloro che hanno occasione di viaggiare più o meno frequentemente in Europa. Dunque, più la conosci e più la apprezzi, ma va osservato che, secondo Eurobarometro, gli italiani sono tra coloro che hanno meno occasione di viaggiare in Europa: siamo quartultimi.
Di fronte alla crescita dei sovranismi e delle posizioni apertamente critiche nei confronti della Ue, ci si aspettava che nell’attuale campagna elettorale si parlasse di Europa e del suo futuro. In realtà solo il 23% degli italiani ritiene che stia andando in questo modo, mentre la maggioranza assoluta è convinta che, come di consueto, le elezioni Europee rappresentino una competizione nazionale, una sorta di test per misurare i rapporti di forza tra i partiti.
Le elezioni
Per la maggioranza
il voto europeo di maggio è una sorta di test sui partiti nazionali
La composizione del futuro Parlamento europeo rappresenta un’incognita per il 41% degli intervistati, mentre il 34% si attende una maggioranza composta da un blocco di partiti sovranisti ed euroscettici e solo il 25% pronostica l’affermazione di popolari, socialdemocratici e liberali che, al momento, appare l’esito elettorale più probabile. Tra questi ultimi le opinioni si dividono riguardo alle politiche che verrebbero adottate: il 49%, infatti, pensa che questa maggioranza continuerebbe a governare l’Europa come ha fatto finora, mentre il 41% ritiene che saprà rinnovare profondamente l’Europa. Tra coloro che si attendono la vittoria del blocco sovranista, il 56% prevede cambiamenti molto importanti che però non minacceranno la sopravvivenza dell’Unione, il 25% non si aspetta novità di rilievo, mentre il 12% immagina l’inizio della fine della Ue. Insomma, tra gli italiani prevalgono una fiducia bassa, la convinzione che l’appartenenza alla Ue sia più positiva che negativa e che la competizione elettorale sia in larga misura orientata alle dinamiche politiche interne.
La campagna elettorale si prospetta come un’occasione perduta, dato che si è parlato poco di Europa. Finora è mancata una riflessione seria sulle ragioni dell’appartenenza o meno alla Ue, spesso ci si è limitati ad affermazioni apodittiche o all’evocazione di emozioni negative pro o contro la Ue: all’immagine di un’Europa fredda, distante e arcigna si è contrapposta la paura della fine del progetto europeo. Nessun accenno al ruolo dell’Europa nel contesto globale e multipolare, nessun riferimento a una possibile riforma della governance dell’Unione, o all’impegno a rafforzare l’Europa, come pure la maggioranza dei cittadini europei invoca, agendo di concerto su temi come la gestione dell’immigrazione, la politica energetica e ambientale, il lavoro, il fisco, la sicurezza, la politica estera, la protezione sociale.
Le previsioni
Tra chi si aspetta una vittoria dei sovranisti, solo il 12% immagina l’inizio della fine della Ue
Tra gli italiani prevale un atteggiamento tiepido soprattutto perché l’unico parametro di valutazione del progetto europeo è rappresentato dal principio del tornaconto: lo era quando la fiducia si attestava su valori altissimi, spesso come reazione alla sfiducia nei governanti italiani, e lo è oggi che l’immagine della Ue appare piuttosto malconcia. Molti si chiedono cosa guadagniamo dalla nostra appartenenza all’Europa, nessuno si chiede cosa portiamo in dote in Europa e qual è il nostro ruolo nella prossima Ue.

il manifesto 27.4.19
Lega e 5s pari sono, vadano a casa». Perché Zingaretti ora parla come Renzi
Il Pd e la richiesta di tornare al voto. Il leader: mozione di sfiducia e poi una raccolta di firme, questa ipocrisia deve finire
di Daniela Preziosi


Il governo gialloverde fa «una danza macabra sull’Italia: litiga su tutto, e non cambia i problemi del Paese», Di Maio e Salvini «sono due opportunisti che fanno finta di litigare e intanto stanno bloccando l’Italia», è «il trionfo dell’ipocrisia» di chi «poi resta incollato alla poltrona del potere». A un mese esatto dal voto delle europee Nicola Zingaretti alza al massimo i decibel contro l’esecutivo.
Ieri a Roma, alla presentazione dei candidati al Tempio di Adriano (ci sono i capolista Pisapia, Calenda, Bonafé, Roberti e Chinnici, ma parlano anche altri, come Pietro Bartolo, il medico dei migranti di Lampedusa) segna la direzione di marcia del Pd: ed è lo scontro totale con il governo. M5s e Lega sono uguali, è il senso continuamente ripetuto, se i 5 stelle vogliono davvero distinguersi dall’alleato stacchino la spina all’esecutivo. «Siamo stanchi di continui litigi per difendere le poltrone. Abbiamo presentato la mozione di sfiducia per vedere se i litigi veri o finti», spiega Zingaretti.
In effetti la mozione di sfiducia al governo, depositata nei giorni scorsi al senato con possibilità di essere approvata pari a zero, è stata preferita – su indicazione dello stesso segretario – alla mozione di censura individuale contro il sottosegretario Armando Siri. Quella che le altre opposizioni avrebbero preferito e che avrebbe anche raccolto i voti dei 5 stelle. Avrebbe creato una spaccatura nella maggioranza, poteva essere approvata.
Ma Zingaretti non vuole concedere nessuno spazio e nessun alibi ai grillini. Innanzitutto per ragioni di competizione elettorale. Secondo i sondaggi il Pd sta tenendo testa al movimento 5 stelle, il vero avversario del 26 maggio, ma con fatica crescente. Perché snello scontro fra i due alleati di governo i dem stentano a ricavarsi uno spazio anche comunicativo.
Ma Zingaretti attacca i 5 stelle anche per un’altra ragione, non meno importante. Tutta interna. In questi giorni, complici le feste pasquali e qualche suggeritore interessato , ha ricominciato a circolare il «retroscena» secondo cui una parte del Pd, dopo il voto, chiederebbe di aprire un confronto con i 5 stelle.
Un’ipotesi inesistente. Che in ogni caso Zingaretti vuole seppellire anche nella versione di fantapolitica. Intanto per rendere chiaro che anche in caso di crisi di governo il suo Pd non sarà «responsabile» cioè non si accollerà le macerie dell’esecutivo gialloverde. «Abbiamo presentato la mozione di sfiducia e così vedremo se i loro litigi sono veri o finti», spiega durante la kermesse, «Dal giorno dopo poi lanceremo una raccolta firme perché se ne vadano a casa, questi show sulla pelle degli italiani devono finire».
C’è anche però una ragione interna al Pd se Zingaretti, che ha vinto il congresso sull’analisi differenziata di Lega e M5s, oggi si è improvvisamente trasformato in quello del «pari sono», che è la posizione di Matteo Renzi sin dall’inizio.
La ragione è proprio Renzi. L’ex segretario si è tenuto alla larga dalla campagna per le europee. Ha assicurato che non farà un suo partito, si è dileguato ed ora è andato in vacanza. Ma nessuno crede alla inattività. In questi giorni al Nazareno viene notata l’ inerzia dei turborenziani sia nella campagna elettorale – dove però sostengono i loro candidati, – sia nelle questioni organizzative del partito. Il dubbio che circola è che l’ex segretario stia ancora aspettando un passo falso di Zingaretti per dare il via alla scissione. Non è un caso che lui invece, Zingaretti, spinge sul tasto dell’unità: «La lista unitaria ce l’hanno chiesta gli italiani, ci hanno detto ’unite le forze più belle’. Non ci credeva nessuno e invece l’abbiamo costruita».
E non è un caso che Carlo Calenda, il liberal che ha le posizioni più simili a Renzi, quello dei mille conflitti, ora venga esibito come una garanzia di unità del partito: «Sono fianco a fianco di Zingaretti», ha detto ieri, «A quelli che mi dicono ‘ma Zingaretti è comunista, io rispondo: ma scherziamo? Guarda la realtà, le cose concrete, qui è in pericolo la democrazia. Io sarò al tuo fianco Nicola fino alla fine»

Repubblica 27.4.19
Le parole che vogliamo dalla sinistra
di Guido Crainz


È diventato difficile seguire da vicino lo scomposto implodere del governo nel succedersi di incompetenze e scelte demagogiche, pulsioni di destra e imperizie, irresponsabilità in campo economico e falsificazioni.
Accompagnate dall’insofferenza per regole e vincoli costituzionali, e dall’occupazione spartitoria di ogni anfratto del potere (anche senza evocare qui le indagini giudiziarie). Altro che governo del cambiamento, c’è da chiedersi se la compagine giallo-verde non sia una desolante "autobiografia della nazione", o di una parte di essa. Di quel che la nazione è diventata negli ultimi decenni: dall’affondare del sistema dei partiti all’irrompere di una destra smoderata tenuta a freno sin lì dal moderatismo cattolico; dal crollo dell’illusionismo berlusconiano alle difficoltà della transizione che allora si aprì, e sino al rapido implodere della stagione di Renzi. La "rivelazione" non è data solo dall’assenza di una vera classe dirigente ma da un impazzire delle bussole in cui trovano alimento le più radicate pulsioni di destra del Paese. E come nella commedia di Ionesco un numero crescente di persone sembra assumere le sembianze dei rinoceronti che hanno invaso la città.
Per molti versi l’affondare senza gloria del Movimento Cinque Stelle e della sua urlata proposta di rinnovamento rischia di aprire nuove voragini. Quella parte del Paese che vi aveva creduto non sarà illuminata sulla via di Damasco per il crollo delle illusioni: sarà sempre più esposta alle pulsioni del rancore e del qualunquismo rabbioso. E il compito di una sinistra riformatrice non sarà solo "conquistare voti" ma riconquistare i cittadini alla fiducia nella democrazia.
Se così è, il Pd sembra debole su tutti i terreni. È in difficoltà nel contrastare il governo con proposte alternative e chiare, ed è in difficoltà — ben al di là della vicenda umbra — per l’incapacità di rinnovare in modo radicale il proprio modo di essere. «Cambiare la politica e cambiare il Pd» era stato l’impegno iniziale di Renzi e contribuì non poco ai suoi primi successi: fu fatto il contrario, con quel che ne seguì. Eppure quel compito appare da tempo necessario e urgente: qualcuno ricorda il preoccupante panorama del partito che era emerso dall’indagine su Roma coordinata da Fabrizio Barca? Avrebbe dovuto estendersi anche ad altre realtà, quell’indagine, ma non è avvenuto.
Su un ultimo e decisivo terreno, infine, il Pd è chiamato a misurarsi. La grande partecipazione alle primarie, mossa dalla volontà di fare argine alle derive, ha appannato per un attimo i limiti del percorso precedente. Si era dissolto infatti per via l’impegno ad avviare una discussione programmatica di ampio respiro: non se ne trovavano grandi tracce nelle mozioni congressuali che si contrapponevano e si giustapponevano senza accendere un vero confronto.
Quasi non fossimo nel vivo di una crisi radicale del mondo occidentale, delle sue forme di democrazia e del sistema di welfare che le ha sorrette. E come se sullo scenario italiano non incombesse da tempo l’aggravarsi di questioni antiche, dal Mezzogiorno al lavoro. Si pensi anche al grande nodo dell’Europa: quali sono le ragioni della crisi attuale?
Quali vie percorrere per invertire la rotta? Questioni ineludibili, come si vede, e c’è solo da sperare che siano riprese con forza mettendo in campo energie, intelligenze e passioni capaci di ridare un’anima al riformismo italiano.
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Guido Crainz ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Teramo. Tra i suoi ultimi libri "Il sessantotto sequestrato" (Donzelli Editore, 2018)

La Stampa 27.4.19
Razzismo e populismo proliferano nei Paesi dei “senza memoria”
di Mirella Serri


«Per la patria pronti!». Oggi in Croazia atleti, calciatori, tifosi e gruppi di intellettuali vorrebbero che venisse adottato come saluto ufficiale dell’esercito questo slogan degli ustascia che, durante la Seconda guerra mondiale, si dedicarono allo sterminio dei serbi, degli ebrei e dei rom. Un modo per sottolineare il legame tra l’attuale governo e il nazionalismo fascista. In Slovacchia il leader del Partito Popolare Slovacchia Nostra, Marian Kotleba, si fa chiamare «Vodca» (Duce) e si esprime con toni molto ostili nei confronti dell’Unione Europea. In Ungheria Viktor Orbán, esponente di spicco dei sovranisti del Vecchio Continente, ha definito «incomparabile statista» il persecutore degli ebrei Miklós Horthy, elogia spesso Albert Wass, scrittore antisemita condannato come criminale di guerra, e l’artista Jozsef Nyirő gran estimatore di Joseph Göbbels. In Italia gli adepti di Casa Pound non sono da meno dei colleghi europei in quanto a rievocazione positiva dei trascorsi fascisti: amano lo scontro fisico, si esercitano nel saluto romano e inneggiano ai gagliardetti.
Sembra così ritagliato proprio su questi nostri recenti giorni il saggio di Geraldine Schwarz I senza memoria. Storia di una famiglia europea (in uscita la prossima settimana per Einaudi, pp. 333, € 21), dedicato al ritorno del passato in Europa: per il 25 aprile, festa della Liberazione, i neofascisti hanno esposto striscioni con scritto «Onore a Benito Mussolini» e hanno animato manifestazioni con il braccio teso, in un revival che da anni non si vedeva tanto diffuso e appassionato. Nel suo dotto lavoro, che si è conquistato il riconoscimento per il «Libro europeo«, l’autrice espone la tesi che sovranismo, razzismo e populismo proliferano nelle nazioni più «smemorate», in quei Paesi che alla fine del secondo conflitto mondiale non si sono impegnati in un serio ripensamento della loro storia.
In questa mappa del vuoto mentale e di memoria, che parte dal 1938 e arriva ai nostri giorni, all’Italia, per la Schwarz, tocca in senso letterale la maglia nera. Nel dopoguerra nessun governo della Penisola si è assunto l’onere di un mea culpa per la violenza praticata contro gli slavi nei Balcani («Di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica dello zuccherino ma del bastone», sentenziava Mussolini), né ha avuto l’accortezza di imporre nelle scuole l’insegnamento delle stragi compiute dagli italiani in Grecia e soprattutto in Africa (alla Libia sono stati versati risarcimenti ma non all’Etiopia). Da noi non si è avviato alcun processo di Norimberga, nemmeno per l’applicazione delle leggi razziali, realizzata anche con il contributo di solerti funzionari italiani durante l’occupazione tedesca.
Nell’Europa dei «senza memoria» l’Italia è comunque in buona compagnia: in Francia il collaborazionismo è stato cancellato (persino il presidente François Mitterrand era stato un funzionario del governo di Vichy) e solo all’inizio degli anni Ottanta s’iniziò il primo processo per crimini contro l’umanità. Ma aveva fatto in tempo a rinascere circa dieci anni prima la destra razzista e antidemocratica di Jean-Marie Le Pen che ha poi passato il testimone alla figlia Marine. Tra le nazioni colpite da dimenticanza è anche l’Austria, che non ha fatto i conti con l’apporto dato all’Olocausto dopo l’annessione al Reich: Jörg Haider, capo del partito conservatore (scomparso nel 2008), e il suo successore Heinz-Christian Strache hanno ottenuto grandi consensi proprio elogiando il Terzo Reich. La Polonia non ha praticato alcuno scavo sulle nefandezze degli anni Quaranta compiute in collaborazione con i nazisti: a Varsavia si svolge ogni anno la più imponente «marcia dell’indipendenza» d’Europa al grido di «Orgoglio nazionale» e «Polonia bianca». Ma è tutta così nera la mappa del Vecchio Continente?
In Germania, alle prime elezioni democratiche, esattamente settanta anni fa, Konrad Adenauer smantellò il percorso di rieducazione del popolo tedesco avviato dagli Alleati. Ma per fortuna, osserva la saggista, nel 1968 gli studenti misero sotto accusa gli ex filo-hitleriani che erano al potere come, per esempio, il cancelliere Kurt Kiesinger. Si avviò lo studio della Shoah nelle scuole e furono promulgate leggi per la messa al bando delle organizzazioni politiche antidemocratiche. Queste misure, sostiene la Schwarz, sarebbero un efficace baluardo contro i proclami della destra estrema, anche se la sua tesi è parzialmente contraddetta dai recenti successi di Alternative für Deutschland, partito euroscettico, sovranista e razzista.
I Paesi baltici, dopo aver trascorso un anno sotto il giogo dei sovietici, nel giugno del 1941 accolsero i soldati tedeschi come liberatori e li affiancarono nella persecuzione antiebraica. Negli ultimi anni, obbedendo ai richiami dell’Unione Europea, hanno affrontato le proprie responsabilità. La Lituania si è scusata con la comunità ebraica e ha promulgato una serie di leggi sulla restituzione dei beni, mentre film e romanzi hanno risvegliato l’interesse della popolazione sulla Shoah. La Romania, che aveva vissuto gli anni di guerra sotto il dittatore Ion Antonescu, ha rinominato le vie a lui intitolate, ne ha rimosso le statue, ha riconosciuto la propria collaborazione nello sterminio avviando con i giovani la rivisitazione dei crimini del passato.
Il culto della memoria, insomma, come dimostra la lunga carrellata storica della Schwarz, è oggi il miglior scudo per le nostre democrazie. Bisogna dunque potenziare questo serbatoio di valori inestimabili e il legame con l’Unione Europea. Al Vecchio Continente va il merito di aver saputo sconfiggere il nazifascismo e di aver contribuito al mantenimento della pace per oltre 70 anni.

il manifesto 27.4.19
Giuseppe Conte, in Cina, prova a capire cosa ha firmato con la Cina
Via della Seta 2.0. Il presidente cinese nel suo discorso prova a rassicurare tutti: la Bri sarà verde, sostenibile e trasparente
di Simone Pieranni


Al secondo forum della Bri a Pechino, unico leader del G7, c’è anche Giuseppe Conte, fresco di firma di memorandum of understanding con la Cina. «L’Italia – ha detto il primo ministro italiano – non solo sta creando opportunità per sé ma per l’Europa intera: ci aspettiamo per questo anche maggiori investimenti cinesi in Italia».
Nel corso di un incontro con una rappresentanza della comunità italiana in Cina – definita «fra le più giovani che abbia incontrato fino ad ora» – presso l’ambasciata d’Italia nella capitale cinese, Conte ha poi sottolineato che l’Italia può ottenere grandi opportunità dall’adesione all’iniziativa cinese della Via della seta e, in riferimento alla questione delle infrastrutture tecnologiche (5G), ha ribadito che «saranno garantiti i massimi standard di sicurezza: l’Italia vuole essere presente, vuole accelerare ma entro le garanzie dell’Ue». Giusto, peccato non averci pensato o non averlo sottolineato a sufficienza prima di firmare un MoU nel quale le telecomunicazioni sono presenti.
Ma non solo, perché Conte ha specificato di aspettarsi più investimenti cinesi in Italia, pensando forse di avere firmato un accordo commerciale e non una serie di accordi, a latere del MoU, per un valore attuale di poco più di due miliardi (e alcuni dei quali, frutto di trattative già in atto da tempo).
Insomma, non solo la Cina sembra sentire l’esigenza di rassicurare un po’ tutti, come ha tentato di fare Xi Jinping nel suo discorso al forum Bri; pare – infatti – che anche Conte abbia bisogno di conferme, o rassicurazioni, circa il memorandum of understanding, firmato e venduto come un accordo commerciale da Roma, ma concepito fin da subito come politico da Pechino, tanto che Conte a Pechino è andato sostanzialmente da solo (con Rocco Casalino): non ci sono né il sottosegretario allo sviluppo Michele Geraci (uno degli artefici del recente riavvicinamento di Roma a Pechino) né seguito di imprenditori e aziende.
E tra il MoU e la visita a Pechino, il primo ministro ha “appoggiato” anche le iniziative commerciali con il Giappone. E naturalmente ha rassicurato più volte gli Usa. E l’Ue.
Nella giornata di ieri, oltre alla parentesi italiana, si è registrato anche l’intervento del presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping.
Verde, sostenibile, trasparente, rispettosa, non predatoria: Xi Jinping utilizza il palcoscenico del secondo forum sulla Nuova via della seta per smorzare le polemiche e lo scetticismo sul progetto cinese, provando a dimostrare la consueta capacità camaleontica di fronte agli imprevisti.
Il suo discorso, più breve e non di poco di quello della ben più frizzante prima edizione del forum, ha toccato anche i temi relativi alla proprietà intellettuale e alla forza, o meno, della moneta nazionale lo yuan: si tratta di parole che sembrano più rivolte agli Stati uniti che non ai partner cinesi, che forse neanche avrebbero troppi problemi di fronte al consueto atteggiamento cinese. La questione è legata a una sorta di «sentimento» che Xi ha captato e che ha pensato bene di dissuadere.
In realtà potremmo aspettarci una Cina più sorniona nel futuro imminente, non tanto per condizioni particolarmente avverse (la Bri tutto sommato ha avuto alcuni progetti ridimensionati ma è un piano talmente ampio che qualche intoppo era previsto dalla stessa dirigenza cinese) quanto per un’attenzione maggiore che probabilmente Xi Jinping vuole porre all’interno: la questione dei dazi con gli Usa e la crescita economica (con la necessità di dedicare davvero risorse e tempo alle diseguaglianze che ancora esistono in Cina) richiedono un impegno diretto di Xi Jinping.
Non esiste un’opposizione al suo potere, così come non si registrano neanche clamorose contestazioni, ma i recenti «malumori» emersi dagli ambiti universitari hanno sicuramente consigliato il numero uno cinese a recuperare il controllo di quanto accade all’interno del paese; del resto la sua nuova spinta internazionale ha ottenuto tutta una serie di risultati e – soprattutto – ha cambiato la percezione di gran parte del mondo sull’attuale rilevanza globale della Cina.

Corriere 27.4.19
Diplomazie
Via della seta, se l’Europa segue l’Italia
di Guido Santevecchi


Infrastrutture di alta qualità, rispettose dell’ambiente, sostenibili finanziariamente, costruite alla luce del sole senza alcuno spazio per la corruzione. È con queste promesse che Xi Jinping ha aperto il secondo Forum sulla Belt and Road Initiative, il gigantesco piano per le Nuove Vie della seta che nella sua ambizione deve segnare questo secolo. Un discorso di mezz’ora, breve per le abitudini cinesi, tenuto davanti a 37 capi di Stato e di governo, al segretario generale dell’Onu, alla direttrice del Fmi, un centinaio di ministri stranieri, 5 mila delegati. Un intervento difensivo, senza esibizione di progetti faraonici e nuovi investimenti miliardari nelle sue parole, ma rassicurazioni alla comunità internazionale dopo l’ondata di critiche per un piano sospettato di alimentare la «trappola del debito» in Paesi in via di sviluppo e di nascondere mire egemoniche. Poi la promessa di «importare di più perché i cinesi vogliono consumare di più». Xi ha usato anche un’espressione del gergo economico internazionale: «Non useremo la tattica del vicino mendicante»: significa che la Cina promette di non rimediare ai suoi problemi economici aggravando quelli degli altri Paesi. Tra i 37 leader di governo un posto speciale è riservato a Giuseppe Conte, dopo la firma in marzo a Roma del memorandum d’intesa sulla Belt and Road. Il premier questa sera sarà a cena con Xi. Fonti di Pechino dicono al Corriere che sono proprio i nostri standard internazionali e trasparenti di Paese membro del G7 la merce più pregiata che i cinesi si sono voluti assicurare con l’intesa. Il premier rivendica che l’azione italiana ha fatto introdurre nelle Vie della seta i principi di trasparenza e sostenibilità enunciati da Xi nel discorso. Aggiunge che nel comunicato finale del vertice compariranno su nostro impulso i diritti umani. «L’Italia ha agito da avamposto dei principi europei, oltre che per garantire più spazio per le nostre imprese in Cina», sostiene Conte.
In effetti, il ministro tedesco dell’Economia, inviato a Pechino da Angela Merkel, annuncia che Germania, Francia, Spagna e Regno Unito ora vogliono firmare il memorandum sulla Belt and Road «ma uniti, come europei». A questo punto sono sottigliezze diplomatiche, resta la sostanza: dopo Roma, si incamminano sulle Vie della seta altri grandi Paesi europei. Il Grande Gioco è solo all’inizio.

La Stampa 27.4.19
Sánchez e Casado sotto assedio
Destini in mano ad alleati ingestibili
di F. Oli.


Succeda quel che succeda domani sera, nessuno potrà dire: vinco e governo da solo. I due grandi partiti spagnoli arrivano all’ultimo miglio con l’assedio dei piccoli. Le situazioni sono, certo, molto diverse. I socialisti vogliono vincere bene, ovvero senza dover mendicare voti troppo cari, mentre i popolari tentano di resistere a una tempesta che arriva da lontano. «Non rilassarsi, la destra è un pericolo», Pedro Sánchez nell’ultima ora tenta la carta della paura: «Avete visto cosa è successo in America? Trump ha vinto quando nessuno se lo aspettava».
Nella giornata conclusiva di una campagna lunga e molto aspra i timori del premier sono molti. Le ultime tappe sono a Toledo, nella periferia di Madrid e a Valencia. I sondaggi sono buoni, gli ultimi pubblicabili dicono che il Psoe potrebbe sfiorare il 30%, passando dagli attuali 84 deputati a 128. «Financial Times» ed «Economist» auspicano un suo successo in nome della stabilità. Cosa c’è da temere allora? Per governare non basta e nelle ultime ore i sondaggi segreti che circolano mostrano tendenze preoccupanti: Podemos sta recuperando terreno, grazie alle buone prestazioni del leader Pablo Iglesias, che durante i due dibattiti tv ha mostrato un’inedita versione moderata e di buon senso. Mentre gli altri tre si davano del bugiardo a vicenda, lui cercava di argomentare con uno stile più costruttivo.
Ma l’altra preoccupazione di Sánchez è dover dipendere dagli indipendentisti catalani, un appoggio che pare certo, lo ha detto chiaramente il leader di Esquerra Republicana, Oriol Junqueras nelle interviste dal carcere dove si trova rinchiuso, ma allo stesso tempo non sarà gratis. «Non c’è da fidarsi degli indipendentisti - ha detto ieri il premier alla Cadena Ser - in privato dicono una cosa e in pubblico un’altra. Hanno paura di mostrarsi traditori davanti alla loro gente». La prospettiva migliore che Sánchez può trovarsi domani notte è una doppia possibilità di maggioranza: a sinistra, con Podemos più i partiti nazionalisti (baschi, valenciani e catalani) e centrista con Ciudadanos. L’accordo con Rivera appare fantapolitica visto le accuse che i “Cittadini” hanno lanciato contro i socialisti, ma buona parte del partito non vede male questa possibilità.
La vigilia più cupa però la sta trascorrendo Pablo Casado, il giovane leader del Pp, con la benedizione di Aznar, ha due nemici molto insidiosi: Ciudadanos e Vox. Il vecchio Partito popolare, un tempo contenitore unico della destra, ma anche dell’europeismo spagnolo, si trova nell’angolo. Eppure, pur nella fase peggiore della sua storia, il segretario del Pp potrebbe ritrovarsi a capo del governo. I sondaggi non lo prevedono, ma bastano pochi seggi strappati al blocco progressista per poter governare, come successo già in Andalusia, il bastione rosso, finito nelle mani della destra in dicembre. Come a Siviglia, però, servirà l’appoggio di Vox. In pochi dubitano del fatto che il partito dell’ultradestra farà parte di una maggioranza, nel caso in cui ci fossero i numeri. Un’alleanza che crea qualche imbarazzo europeo (soprattutto a Ciudadanos, alleato di Macron), ma che Casado auspica ormai apertamente. Ieri, il presidente del Pp si è spinto a immaginare il partito nazionalista dentro a un suo governo, «Vox e Ciudadanos, sia che ottengano 10 o 40 seggi, avranno l’influenza che riterranno opportuna per entrare nell’esecutivo e decidere il destino della legislatura». Quasi un modo per dire: perderò, ma sarò capo del governo.

La Stampa 27.4.19
Razzismo e populismo proliferano
nei Paesi dei “senza memoria”
di Mirella Serri

«Per la patria pronti!». Oggi in Croazia atleti, calciatori, tifosi e gruppi di intellettuali vorrebbero che venisse adottato come saluto ufficiale dell’esercito questo slogan degli ustascia che, durante la Seconda guerra mondiale, si dedicarono allo sterminio dei serbi, degli ebrei e dei rom. Un modo per sottolineare il legame tra l’attuale governo e il nazionalismo fascista. In Slovacchia il leader del Partito Popolare Slovacchia Nostra, Marian Kotleba, si fa chiamare «Vodca» (Duce) e si esprime con toni molto ostili nei confronti dell’Unione Europea. In Ungheria Viktor Orbán, esponente di spicco dei sovranisti del Vecchio Continente, ha definito «incomparabile statista» il persecutore degli ebrei Miklós Horthy, elogia spesso Albert Wass, scrittore antisemita condannato come criminale di guerra, e l’artista Jozsef Nyirő gran estimatore di Joseph Göbbels. In Italia gli adepti di Casa Pound non sono da meno dei colleghi europei in quanto a rievocazione positiva dei trascorsi fascisti: amano lo scontro fisico, si esercitano nel saluto romano e inneggiano ai gagliardetti.
Sembra così ritagliato proprio su questi nostri recenti giorni il saggio di Geraldine Schwarz I senza memoria. Storia di una famiglia europea (in uscita la prossima settimana per Einaudi, pp. 333, € 21), dedicato al ritorno del passato in Europa: per il 25 aprile, festa della Liberazione, i neofascisti hanno esposto striscioni con scritto «Onore a Benito Mussolini» e hanno animato manifestazioni con il braccio teso, in un revival che da anni non si vedeva tanto diffuso e appassionato. Nel suo dotto lavoro, che si è conquistato il riconoscimento per il «Libro europeo«, l’autrice espone la tesi che sovranismo, razzismo e populismo proliferano nelle nazioni più «smemorate», in quei Paesi che alla fine del secondo conflitto mondiale non si sono impegnati in un serio ripensamento della loro storia.
In questa mappa del vuoto mentale e di memoria, che parte dal 1938 e arriva ai nostri giorni, all’Italia, per la Schwarz, tocca in senso letterale la maglia nera. Nel dopoguerra nessun governo della Penisola si è assunto l’onere di un mea culpa per la violenza praticata contro gli slavi nei Balcani («Di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica dello zuccherino ma del bastone», sentenziava Mussolini), né ha avuto l’accortezza di imporre nelle scuole l’insegnamento delle stragi compiute dagli italiani in Grecia e soprattutto in Africa (alla Libia sono stati versati risarcimenti ma non all’Etiopia). Da noi non si è avviato alcun processo di Norimberga, nemmeno per l’applicazione delle leggi razziali, realizzata anche con il contributo di solerti funzionari italiani durante l’occupazione tedesca.
Nell’Europa dei «senza memoria» l’Italia è comunque in buona compagnia: in Francia il collaborazionismo è stato cancellato (persino il presidente François Mitterrand era stato un funzionario del governo di Vichy) e solo all’inizio degli anni Ottanta s’iniziò il primo processo per crimini contro l’umanità. Ma aveva fatto in tempo a rinascere circa dieci anni prima la destra razzista e antidemocratica di Jean-Marie Le Pen che ha poi passato il testimone alla figlia Marine. Tra le nazioni colpite da dimenticanza è anche l’Austria, che non ha fatto i conti con l’apporto dato all’Olocausto dopo l’annessione al Reich: Jörg Haider, capo del partito conservatore (scomparso nel 2008), e il suo successore Heinz-Christian Strache hanno ottenuto grandi consensi proprio elogiando il Terzo Reich. La Polonia non ha praticato alcuno scavo sulle nefandezze degli anni Quaranta compiute in collaborazione con i nazisti: a Varsavia si svolge ogni anno la più imponente «marcia dell’indipendenza» d’Europa al grido di «Orgoglio nazionale» e «Polonia bianca». Ma è tutta così nera la mappa del Vecchio Continente?
In Germania, alle prime elezioni democratiche, esattamente settanta anni fa, Konrad Adenauer smantellò il percorso di rieducazione del popolo tedesco avviato dagli Alleati. Ma per fortuna, osserva la saggista, nel 1968 gli studenti misero sotto accusa gli ex filo-hitleriani che erano al potere come, per esempio, il cancelliere Kurt Kiesinger. Si avviò lo studio della Shoah nelle scuole e furono promulgate leggi per la messa al bando delle organizzazioni politiche antidemocratiche. Queste misure, sostiene la Schwarz, sarebbero un efficace baluardo contro i proclami della destra estrema, anche se la sua tesi è parzialmente contraddetta dai recenti successi di Alternative für Deutschland, partito euroscettico, sovranista e razzista.
I Paesi baltici, dopo aver trascorso un anno sotto il giogo dei sovietici, nel giugno del 1941 accolsero i soldati tedeschi come liberatori e li affiancarono nella persecuzione antiebraica. Negli ultimi anni, obbedendo ai richiami dell’Unione Europea, hanno affrontato le proprie responsabilità. La Lituania si è scusata con la comunità ebraica e ha promulgato una serie di leggi sulla restituzione dei beni, mentre film e romanzi hanno risvegliato l’interesse della popolazione sulla Shoah. La Romania, che aveva vissuto gli anni di guerra sotto il dittatore Ion Antonescu, ha rinominato le vie a lui intitolate, ne ha rimosso le statue, ha riconosciuto la propria collaborazione nello sterminio avviando con i giovani la rivisitazione dei crimini del passato.
Il culto della memoria, insomma, come dimostra la lunga carrellata storica della Schwarz, è oggi il miglior scudo per le nostre democrazie. Bisogna dunque potenziare questo serbatoio di valori inestimabili e il legame con l’Unione Europea. Al Vecchio Continente va il merito di aver saputo sconfiggere il nazifascismo e di aver contribuito al mantenimento della pace per oltre 70 anni.

Focus
BRI – Belt & Road Initiative
Un mese fa, il 24 marzo, l’Italia ha formalmente aderito alla Via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri), un programma lanciato da Pechino nel 2013 per rafforzare la proiezione internazionale del Paese attraverso una serie di investimenti infrastrutturali, energetici e commerciali. Gli Stati Uniti guardano con preoccupazione all’iniziativa: la Cina è il principale rivale strategico di Washington, l’unico soggetto capace di contendere la (declinante) egemonia americana sulla globalizzazione. Per questo ha suscitato tanto clamore che l’Italia, unico Paese del G7, abbia aderito alla Bri: agli americani è parsa una scelta di campo, il passaggio dall’orbita atlantica a quella cinese. La visita del presidente Xi Jinping in Italia ha sancito l’alleanza tra i due Paesi, oltreché la firma di alcuni memorandum of understanding (accordi non vincolanti) tra grandi imprese italiane e omologhe cinesi, da Intesa Sanpaolo a Snam alla Cassa Depositi e Prestiti. Ma la rilevanza del vertice è stata soprattutto politica

il manifesto 27.4.19
Cuba è sotto attacco: «Fermate Trump, prima che sia troppo tardi»
L'appello del governo alla comunità internazionale. Il nuovo pacchetto di sanzioni e limitazioni si somma alle menzogne sul ruolo delle missioni umanitarie cubane in Venezuela. Ma l'isola teme lo strangolamento anche per effetto della battaglia per le presidenziali Usa. Una «politica insensata e irresponsabile», come denuncia dall'Avana il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez - che rischia di incendiare tutta l'America latina
di Roberto Livi


L'AVANA Gli Stati uniti mentono per giustificare nuovi attacchi a Cuba. È la sostanza di un allarmato intervento del ministro degli esteri Bruno Rodríguez di fronte alla stampa estera nel quale ha rivolto un appello «alla comunità internazionale» perché «contenga la politica irresponsabile» dell’Amministrazione Trump «prima che sia troppo tardi».
IL RESPONSABILE della diplomazia cubana ha rivelato che, assieme al nuovo pacchetto di sanzioni per «asfissiare l’economia cubana», il dipartimento di Stato ha «inviato un memorandum segreto ai diplomatici accreditati a Washington» nel quale si chiede di «condannare pubblicamente» la politica di di Cuba in appoggio al governo bolivariano del Venezuela e di «utilizzare tutti gli strumenti a disposizione dei loro governi .. per giungere a dichiarazioni congiunte in ambito multilaterale» contro L’Avana o per fare pressioni sul governo dell’isola nel corso di trattative bilaterali.
IL NUOVO TENTATIVO di isolare Cuba è stato promosso soprattutto dal responsabile alla Sicurezza nazionale, John Bolton, il quale nel memorandum sostiene che Cuba ha inviato in Venezuela un nutrito contingente di militari e di agenti segreti, affiancati da truppe speciali schierate al confine con la Colombia. Quelli che Bolton ha definito «20.000 killers» sono in realtà i membri delle varie missioni di assistenza medica, scolare e sportiva composti «per il 60% da donne», ha ribattuto Rodríguez, affermando che quelle del consigliere alla Sicurezza Usa «sono volgari menzogne prive di ogni evidenza».
Quello che però mette in allarme il vertice politico dell’isola non sono né le menzogne, né il nuovo pacchetto di sanzioni che rendono ancora più duro l’embargo degli Usa per «strangolare Cuba» e far cedere il suo governo socialista. «È una politica che dura da più di sessant’anni – ha affermato il capo della diplomazia cubana – solo che ora lo fanno in modo piiù svergognato».
IL VERO PERICOLO dell’attuale escalation dell’Amministrazione Trump è che questa ha inserito la sua azione globale contro Cuba «all’interno della lotta politica contro il partito democratico». In sostanza la politica estera Usa, sia in America latina sia nel resto del mondo – con particolare riferimento a Russia e Cina – diventa, secondo il vertice politico cubano, un elemento essenziale della campagna per le presidenziali dell’anno prossimo. Campagna già iniziata (l’ex vicepresidente democratico Biden ha appena annunciato la sua partecipazione) e che si prospetta assai dura.
IL LIMITE ALLE RIMESSE dei cubano-americani, le sanzioni alle compagnie navali che traspostano il greggio venezuelano a Cuba, l’autorizzazione a tutti i cittadini americani di rivendicare le proprietà confiscate nell’isola dopo il trionfo della Rivoluzione di Fidel Castro vengono dunque percepite come misure che fanno parte di un’escalation contro i governi socialisti dell’isola e del Venezuela che continuerà. E che potrà aggravarsi fino anche a possibili interventi militari diretti o indiretti.
SI TRATTA DI UNA «POLITICA insensata e anche irresponsabile» ha affermato Rodríguez che può infiammare tutto il sub continente latinoamericano. Cuba è un elemento di stabilità, non di destabilizzazione della regione e persegue una politica di pace e di dialogo come è provato dalla sua azione nei vari organismi regionali. Una politica di dialogo rivolta anche, e soprattutto, nei confronti degli Stati uniti: «Mentre Washington pretende di rinforzare il suo embargo – ha affermato il ministro degli Esteri- Cuba si apre e offre una relazione sana, colta e rispettosa… a distinti settori della popolazione nordamericana». Il dialogo, però, che deve essere basato sul riconoscimento della sovranità nazionale e condotto su un piano di parità.
QUESTO OGGI NON AVVIENE. Quella dell’Amministrazione Trump è una politica di destablizzazione attuata per fini elettorali. Dunque che danneggia anche i cittadini statunitensi. Per questa ragione deve essere fermata.
«Rivolgo un appello alla comunità internazionale perché sia messo un freno alla insensatezza e irresponsabilità – ha dichiarato Rodríguez -. Bisogna agire prima che sia troppo tardi, per il bene dei popoli di Cuba, degli Usa, della regione e del mondo».

La Stampa 27.4.19
Bertolucci, l’inconscio della nostra storia
di Antonio Scurati


Io sono un ragazzo degli anni ’80, cresciuto in provincia - perché Venezia, sotto la patina di città internazionale, è una piccola città della decadente provincia italiana - affacciatosi al mondo negli anni del riflusso, del disimpegno, dell’edonismo, della smobilitazione ideologica e per me, dunque, la scoperta di Bernardo Bertolucci coincide con la stagione dei suoi kolossal concepiti e realizzati per le platee mondiali. Per me Bernardo Bertolucci è stato dapprima il manierismo sublime di L’ultimo imperatore ed Il tè nel deserto, la apparente messa in scena hollywoodiana goduta a pieno, senza riserve, senza retropensieri, senza la minima consapevolezza critica, da un’adolescente di provincia degli anni ’80. Forse, alla fin dei conti, la forma più sovrana di esperienza estetica che l’arte del racconto in generale, e il cinema in particolare, possano regalare.
Quando nel 1987, a diciotto anni, andai al cinema con i miei amici a vedere L’ultimo imperatore non ero nemmeno sfiorato dal sospetto che si trattasse di un film del regista comunista, del regista tardo-freudiano, del regista maledetto e controverso dei suoi capolavori del decennio precedente. Quando nel 1990 vidi Il tè nel deserto ignoravo Paul Bowles, però, in quella medesima estate partii per un viaggio in Marocco e mi ammalai di una febbre intestinale a Erfoud (allora ancora località sperduta, ultimo avamposto abitato prima dello sconfinato deserto algerino), la medesima località in cui il protagonista del film si aggira delirante preda di febbri letali. Fu per me purissima proiezione di sé sullo schermo, semplicissima immedesimazione, impollinazione tra realtà vissuta e immaginario cinematografico. Ancora una volta cinema dell’uomo immaginario alla massima potenza.
Creatore di immagini
Ora, trent’anni dopo, ovviamente, dati i miei interessi letterari e culturali, l’aspetto centrale della filmografia di Bertolucci mi appare il suo pionieristico e seminale ruolo di potente narratore popolare del substrato inconscio della storia d’Italia. Già negli anni degli studi universitari (filosofia alla Statale di Milano) percorsi a ritroso la filmografia di Bertolucci nelle scomode, quasi pretecnologiche ma preziose postazioni della cineteca della Biblioteca Sormani. Allora scoprii l’ideologo, il comunista, il post-freudiano, il maledetto, il controverso, lo scandaloso Bertolucci. Lo scoprii come poteva farlo uno degli ultimi ragazzi del secolo, un membro della generazione che fu l’ultima a essere raggiunta dall’eco della deflagrazione politica novecentesca e la prima a non restarne ferita. Mi esaltai allora per le bandiere rosse di Novecento (si recitava ancora lo stanco rito dei pugni chiusi, per l’ultima volta) ma ne amai, in verità, profondamente, non la lezione di Marx ma quella di Verdi, la sottile partitura melodrammatica come più alta espressione di arte popolare.
Apprezzai anche la squisita perfezione stilistica di Il conformista, le inquadrature sghembe, i lunghi piani sequenza, il montaggio in continui slittamenti temporali tra flashback concentrici. Soltanto adesso, però, vent’anni dopo, dopo aver scritto il mio romanzo sul fascismo, e a causa di ciò, Il conformista mi appare come il capolavoro assoluto di Bertolucci.
Ci raccontò, già nel 1970, in pieno mito resistenziale, che noi italiani eravamo stati fascisti, che il genus italico aveva generato il fascismo. Ci svelava che l’identità nazionale italiana repubblicana si era fondata su una narrazione edificante, su un meccanismo psichico d’identificazione positiva, su una memoria del bene, sulla realtà gloriosa della Resistenza antifascista. Sulla sua realtà e, in parte, anche sul suo mito. E che era stato giusto che così fosse, era stato opportuno, era stato perfino bello. Ancor di più: era stato necessario che l’Italia democratica, repubblicana, civile si raccontasse di discendere dalle donne e dagli uomini che nel 1943 avevano imbracciato le armi contro la «barbarie» nazifascista, di essere figli e nipoti dei partigiani della montagna.
Ma ci ammoniva anche sul fatto che questa potente, mirabile, benigna narrazione - a cui lo stesso Bertolucci avrebbe enormemente contribuito con Novecento - comportava, però, una rimozione: la nostra discendenza dal fascismo ne risultava parzialmente obliata, il lato oscuro della forza veniva proiettato ai margini della nostra coscienza storica. Nel suo straordinario dittico sul fascismo, Bernardo Bertolucci è riuscito a fare entrambe le cose. Per un verso ha alimentato il mito resistenziale, per altro verso ha anticipato di mezzo secolo la narrazione dell’Italia fascista.
Se mi chiedessero quale scena di Bertolucci mi ha più colpito, potrei mentire e nominare scene che sono entrate nella antologia del cinefilo, nella storia magistrale del cinema, dissezionate da intellettuali professionali. La verità è che la scena di tutto il suo cinema che mi è rimasta più impressa è quella di Novecento in cui una prostituta masturba contemporaneamente Robert De Niro e Gérard Depardieu. La ricordo ancora con gli occhi di quando la vidi per la prima volta, con puro fervore libidinale. Il cinema è anche questo. Forse soprattutto questo.
Non ho mai conosciuto Bernardo Bertolucci di persona. Purtroppo. Credo di avergli inviato con dedica ossequiosa e sincera ogni mio libro ma non ho mai avuto il piacere di stabilire il benché minimo rapporto personale con lui. Fino a un minuto dalla fine. A settembre dello scorso anno, con grande sorpresa e gioia, ricevetti al mio indirizzo di posta elettronica dell’università una sua mail. Molto asciutta. Poche righe in cui mi diceva che stava leggendo M - Il figlio del secolo con grande interesse e che gli avrebbe fatto piacere incontrarmi di persona, ma che era sul punto di immergersi per alcune settimane in un nuovo progetto di sceneggiatura e si sarebbe fatto vivo lui. Ha mantenuto la promessa a inizio novembre. Mi ha scritto di nuovo aggiornandomi sulle sue impressioni di lettura del mio romanzo su Mussolini. Ci siamo dati appuntamento a presto. Custodisco con struggimento la sua ultima mail. Data a una settimana dalla sua morte.

Repubblica 27.4.19
Dashiell Hammett, processo all’America in formato noir
di Giancarlo De Cataldo


I romanzi del grande scrittore statunitense, ambientati tra le strade violente e specchio della crisi del 1929, hanno cambiato per sempre il genere Perché qui a essere colpevole non è il solito maggiordomo ma l’intera società
«Hammett», ha scritto Raymond Chandler, «restituì il delitto alla gente che lo commette per ragioni vere e solide, e non semplicemente per procurare un cadavere ai lettori, e lo fece compiere con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali. Mise sulla carta i suoi personaggi com’erano e li fece parlare e pensare nella lingua che si usa, di solito, per questi scopi». C’è un prima Hammett e un dopo Hammett, nella storia del romanzo poliziesco. E c’è una data precisa, che fa da spartiacque fra il classico e il moderno: il 1929. L’anno in cui William Burnett, un giovane contabile, e Armitage Trail, più o meno suo coetaneo, scoprono la mafia italo-americana di Chicago e ne raccontano il suo massimo esponente, Al Capone, in due romanzi di grande successo, Piccolo Cesare e Scarface, sui quali immediatamente si avventa Hollywood. Ma niente di questo avrebbe influito sul futuro del romanzo poliziesco quanto le opere di Dashiell Hammett. Originario del Maryland, famiglia metà francese e metà scozzese, Hammett scriveva racconti da anni ed era approdato alla corte dell’editore Joe Shaw e della rivista Black Mask, la maschera nera a cui va il merito — cronologico — dell’invenzione della "scuola dei duri". Hammett era stato dipendente dell’agenzia investigativa Pinkerton, e girava voce che si fosse dimesso quando gli era stato proposto di uccidere un sindacalista: alla Pinkerton non si respirava propriamente un clima progressista. Piombo e sangue, Il bacio della violenza e Il falcone maltese, editi fra il 1927 e il 1930, costituiscono una formidabile trilogia, nel corso della quale l’originario protagonista, un anonimo Continental Op evolve in Sam Spade, il primo dei detective moderni. Hammett immagina Sam Spade molto diverso dall’Humphrey Bogart che lo avrebbe interpretato. Spade ha «il mento come una V appuntita sotto la mobile V della bocca. Le narici disegnano un’altra V più piccola. Ha occhi giallo-grigi, orizzontali» ed è stempiato, e rassomiglia «in modo abbastanza attraente a un diavolo biondo».
Se mai uno scrittore ha incarnato lo spirito del tempo, quello è stato Hammett: perché non è un caso se l’hard boiled nasce nell’anno della crisi di Wall Street, quando il crollo della Borsa convince anche i più scettici che non si vive nel migliore dei mondi possibili e che accanto al buon vecchio assassino di un volta (magari il maggiordomo) sul banco degli imputati rischia di finirci l’intera società.
Non a caso Piombo e Sangue è ambientato in un immaginario luogo denominato Poisonville: la città avvelenata. Molto simile alla Mahagonny di Bertolt Brecht e Kurt Weill, così come l’alleanza fra malavitosi e potenti corrotti di un altro romanzo di Hammett,
La chiave di vetro, ricorda assai da vicino L’opera da tre soldi. È ancora una volta Chandler a cogliere il punto, quando osserva che Hammett «descrive un mondo in cui i gangster possono governare le nazioni (...) alberghi e famosi ristoranti appartengono a individui che si sono arricchiti con le case chiuse (...) una diva dello schermo può essere l’agente segnalatore di una banda di malviventi (...) un giudice con una cantina traboccante di alcool di contrabbando può mandare in galera un uomo che ne aveva mezzo litro in tasca (...) e in ogni caso l’azzeccagarbugli della difesa ha il diritto di insultarvi e coprirvi di fango di fronte a una giuria di minchioni assortiti, senza il benché minimo intervento da parte di un giudice impegolato con la politica». Un mondo «poco fragrante», ma è «il mondo in cui viviamo», e quindi non raccontarlo sarebbe delittuoso. All’apice della fama, Hammett si trasferisce a Hollywood. Dai suoi romanzi vengono tratti film, e L’Uomo Ombra, felice incursione nella commedia, origina una serie molto amata dal pubblico. Negli anni della caccia alle streghe scatenata dal senatore McCarthy paga l’iscrizione al Partito Comunista e il coraggioso rifiuto della delazione, per morire, stanco e malato, nel 1961. Post mortem, nel 1977, Hammett è protagonista di Giulia, il film di Fred Zinnemann che rievoca la sua passionale love story con la commediografa Lilian Hellman (lo scrittore è impersonato da Jason Robards, dinoccolato e con whisky d’ordinanza) e di Hammett - Indagine a Chinatown
(1982), commosso omaggio di Wim Wenders (interprete Frederic Forrest). A suoi romanzi si ispirano i fratelli Coen per Crocevia della Morte, e, secondo alcuni, Kurosawa per La sfida del Samurai. A lungo, infine, Bertolucci vagheggiò il progetto — ahinoi mai realizzato — di portare sullo schermo Piombo e sangue.

Repubblica 27.4.19
L’iniziativa
"Non cancellerete lo studio della storia" L’appello lanciato su "Repubblica" da Andrea Camilleri, Andrea Giardina e Liliana Segre è al centro del festival organizzato da Laterza che si è aperto a Napoli. Studiosi di diverso orientamento da Canfora a Cardini, da Barbero a Cantarella aderiscono: la politica restituisca il valore civile alla disciplina
di Simonetta Fiori


NAPOLI La storia a Napoli non devi andare a cercarla.
La storia ti invade da ogni parte, anche dalle volte secentesche dell’oratorio gesuitico che ospita il liceo Genovesi. «La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini...»: Alessandro Laterza legge il manifesto lanciato da Repubblica davanti a una platea di storici e insegnanti.
Ed è subito un applauso lungo, ostinato, quasi uno scatto di orgoglio civile nel riprendere il filo d’un discorso che in questi ultimi anni è andato smarrito. «Perché la storia non è una disciplina come un’altra, ma è esercizio di cittadinanza», dice l’editore che firma l’appello insieme al cugino Giuseppe Laterza. E allora bisogna mettere via dispute accademiche e piccole competizioni inutili per concentrarsi sui vuoti di memoria della contemporaneità.
Le cose non accadono mai per caso. Ed è significativa la coincidenza temporale tra l’appello di Repubblica e il primo festival di storia organizzato da Laterza a Napoli, con le sale del Madre e del Teatro Bellini affollate da persone che vogliono sapere dell’Italia araba o della "xenia" classica celebrata da Omero.
Perché il bisogno di storia è oggi enorme, la necessità di mappe e bussole per orientarsi nella complessità, ma paradossalmente è proprio la risposta delle istituzioni a essere inadeguata. «Le ore a scuola sono insufficienti», interviene la grecista Eva Cantarella che aderisce al manifesto insieme alla sua allieva Laura Pepe. «E certo l’abolizione del tema storico è stato un pessimo segnale. Mi piacerebbe che il ministro Bussetti parlasse di più non solo di storia ma anche di scuola pubblica: perché è da qui che si deve ripartire».
Bisogna ripartire dai banchi di scuola, dai luoghi dove si formano coscienza e conoscenza storica delle nuove generazioni. Firmano il manifesto presidi e insegnanti, da Maria Filippone al timone del liceo Genovesi a Maria Luisa Buono che dirige un liceo di frontiera dove non ci sono gli affreschi del Caracciolo, ma un altro genere di bellezza costruita pazientemente ogni giorno.
«La formazione non è stata mai la prima preoccupazione delle classi politiche al governo dell’Italia repubblicana», dice la contemporaneista Simona Colarizi. «Ma oggi con la cancellazione della storia stiamo toccando il fondo, anche perché non è una materia uguale alle altre, ma il punto di raccordo dei saperi umanistici».
Per gli storici di professione, l’appello firmato da Andrea Giardina con Liliana Segre e Andrea Camilleri è anche un’occasione di autocritica. «Il manifesto ci ricorda che la storia è un bene comune», dice Luigi Mascilli Migliorini, presidente della Società dei modernisti. «Ci dice in sostanza che occorre superare le vecchie contese tra noi accademici. Ma ora è necessaria anche una grande alleanza con chi fa divulgazione al di fuori della cittadella universitaria.
Perfino il Trono di spade può essere un alleato prezioso in questa battaglia di civiltà». Da una prospettiva diversa invita all’autocritica Andrea Graziosi, ex presidente dell’Anvur e contemporaneista con esperienza internazionale.
«Giustamente nell’appello è scritto che anche le distorsioni rivelano un bisogno di storia e nascono da curiosità e desideri di esplorazione che non trovano appagamento altrove. Ed è qui che ci dobbiamo chiedere: siamo stati capaci di soddisfare le nuove domande dei più giovani? Io credo che questa sfida si possa vincere solo cambiando modo di fare didattica e ricerca, e quindi anche spingendosi oltre l’orizzonte nazionale». E ben venga la buona divulgazione, aggiunge Graziosi, «ma essa si nutre delle ricerche storiche che non devono mai rinunciare a rigore e complessità».
Tra gli ospiti del festival di storia, sono tanti i medievisti che aderiscono all’iniziativa di Repubblica, da Franco Cardini ad Alessandro Barbero, da Amedeo Feniello a Giuseppina Muzzarelli. «Oggi c’è un’urgenza civile che ci invita a rivalutare la storia», dice Cardini. «In una società che non è più capace di essere valutativa, ossia non è più capace di definire dei valori, la storia assume una funzione civica irrinunciabile».
Conoscere la storia significa anche capire la gravità di certi gesti, come l’aggressione ai simboli della Resistenza ad opera dei gruppi neofascisti.
In occasione del 25 aprile Liliana Segre su questo giornale non si è limitata a lamentare l’ignoranza della storia da parte della classe politica. Si è anche chiesta se dalla diffusa ignoranza della storia la politica non tragga convenienza: il popolo ignaro non oppone resistenza. Ne è convinto Luciano Canfora, atteso oggi al festival di Napoli per una lezione sulla democrazia ateniese: «Vengo invitato in molte scuole per spiegare cosa è stato il fascismo. E i presidi lanciano un comune allarme: tra i banchi ci sono diciottenni che salutano con il braccio teso. La storia serve ad educare. E non è poco». Anche la sua firma sotto il manifesto.

Repubblica 27.4.19
Il testo in difesa dello studio della Storia
Il manifesto ll passato è un bene comune Ecco le prime firme


La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini. È un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione.
Ci appelliamo a tutti i cittadini e alle loro rappresentanze politiche e istituzionali per la difesa e il progresso della ricerca storica in un momento di grave pericolo per la sopravvivenza stessa della conoscenza critica del passato e delle esperienze che la storia fornisce al presente e al futuro del nostro Paese.
Sono diffusi, in molte società contemporanee, sentimenti di rifiuto e diffidenza nei confronti degli "esperti", a qualunque settore appartengano, la medicina come l’astronomia, l’economia come la storia. La comunicazione semplificata tipica dei social media fa nascere la figura del contro-esperto che rappresenta una presunta opinione del popolo, una sorta di sapienza mistica che attinge a giacimenti di verità che i professori, i maestri e i competenti occulterebbero per proteggere interessi e privilegi.
I pericoli sono sotto gli occhi di tutti: si negano fatti ampiamente documentati; si costruiscono fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste in nome della deideologizzazione. Ciò nonostante, queste stesse distorsioni celano un bisogno di storia e nascono anche da sensibilità autentiche, curiosità, desideri di esplorazione che non trovano appagamento altrove. È necessario quindi rafforzare l’impegno, rinnovare le parole, trovare vie di contatto, moltiplicare i luoghi di incontro per la trasmissione della conoscenza.
Ma nulla di questo può farsi se la storia, come sta avvenendo precipitosamente, viene soffocata già nelle scuole e nelle università, esautorata dal suo ruolo essenziale, rappresentata come una conoscenza residuale, dove reperire al massimo qualche passatempo. I ragazzi europei che giocano sui binari di Auschwitz offendono certo le vittime, ma sono al tempo stesso vittime dell’incuria e dei fallimenti educativi.
Il ridimensionamento della prova di storia nell’esame di maturità, l’avvenuta riduzione delle ore di insegnamento nelle scuole, il vertiginoso decremento delle cattedre universitarie, il blocco del reclutamento degli studiosi più giovani, la situazione precaria degli archivi e delle biblioteche, rappresentano un attentato alla vita culturale e civile del nostro Paese.
Ignorare la nostra storia vuol dire smarrire noi stessi, la nostra nazione, l’Europa e il mondo. Vuol dire vivere ignari in uno spazio fittizio, proprio nel momento in cui i fenomeni di globalizzazione impongono panorami sconfinati alla coscienza e all’azione dei singoli e delle comunità.
Per questo cittadini di vario orientamento politico ma uniti da un condiviso sentimento di allarme si rivolgono al governo e ai partiti, alle istituzioni pubbliche e alle associazioni private perché si protegga e si faccia progredire quel bene comune che si chiama storia e chiedono

https://spogli.blogspot.com/2019/04/corriere-27.html

venerdì 26 aprile 2019

Il Fatto 26.4.19
Disturbava i genitori in intimità, perciò la mamma lo ha ucciso


Il piccolo Antonio è stato ucciso perché avrebbe disturbato un rapporto intimo dei suoi genitori, separati e da poco tornati insieme. È questa la terribile verità che emerge dai primi atti d’indagine: secondo quanto riportato dal quotidiano Repubblica, il bambino di due anni avrebbe cominciato a piangere mentre la coppia si era appartata in un campo poco fuori Cassino.
Disturbata dal pianto, la madre l’avrebbe soffocato, davanti al marito che assisteva senza fare nulla. Poi rientrati a casa i due avrebbero inscenato il falso investimento del bimbo, con la madre che sosteneva fosse stato travolto da un auto pirata, mentre il padre si era allontanato. Hanno anche mentito sugli spostamenti, senza però riuscire a ingannare la polizia, che dopo aver arrestato la donna negli scorsi giorni aveva fermato anche il padre, con l’accusa di essere stato presente al momento dell’omicidio.
Mercoledì ai funerali del bambino tutto il paesino di Piedimonte e i centri limitrofi si sono fermati, per l’ultimo ricordo del piccolo.

Corriere 26.4.19
Roma, la madre confessa: «Lui gli ha dato due schiaffi, ma sono stata io a ucciderlo»
di Rinaldo Frignani


ROMA «Il bambino piangeva, e lui gli ha dato due schiaffi». Donatella Di Bona lo racconta nella sua confessione davanti al pm e ai carabinieri. Accusa l’amante Nicola Feroleto di aver assistito senza fare nulla mentre lei strangolava il piccolo Gabriel nel pomeriggio del 17 aprile scorso. Un omicidio agghiacciante con un movente assurdo: il bimbo disturbava la coppia che si era appartata in auto per fare sesso. Ma prima il padre, in carcere con la donna per concorso in omicidio aggravato, avrebbe picchiato il piccolo colpevole soltanto di piangere.
Giorno dopo giorno emergono particolari sconvolgenti sulla tragica fine riservata al bambino nelle campagne di Piedimonte San Germano, in provincia di Frosinone. Per fare chiarezza su alcuni aspetti e individuare le effettive responsabilità di Feroleto, lunedì prossimo scenderà in campo anche il Ris dei carabinieri per accertamenti tecnici irripetibili sul telefonino del 48enne che ha cercato di costruirsi un alibi, poi smontato dagli investigatori dell’Arma, chiedendo alla compagna, Anna Vacca (con la quale convive con un altro figlio quindicenne a Villa Santa Lucia, vicino a Piedimonte), di riferire a chi indaga che lui era rimasto con lei dalle 14 alle 16.30 di quel pomeriggio. Una bugia che ha resistito 48 ore. Poi Feroleto è finito in carcere.
Per il gip Salvatore Scalera avrebbe solo assistito all’omicidio senza fare nulla per salvare il bimbo, pur sussurrando all’amante e al bambino: «Vi levo dal mondo». Mentre la madre uccideva il piccolo dopo essere scesa dall’auto, lui, secondo la versione di Donatella, «un po’ guardava, un po’ si voltava. Guardava in alto, di lato, verso la macchina. No, lui non ha fatto niente, non gli importava. Non gli ha messo una mano addosso per non essere incolpato». Eppure lo avrebbe fatto appena qualche minuto prima. Scene che mettono i brividi solo a pensarci.
Minacce
La nonna del piccolo invece accusa Feroleto «È lui l’assassino e ci ha pure minacciati»
Per la madre di Donatella, Rocca Di Branco, la nonna del piccolo, distrutta dal dolore, il coinvolgimento di Nicola Feroleto sarebbe stato diretto. «Mia figlia non sarebbe mai stata capace di fare una cosa del genere, quell’uomo è un assassino, ha minacciato di bruciarci tutti se avessimo parlato», ha detto la donna, ora assistita dai servizi sociali del Comune. Davanti al gip Feroleto è apparso molto confuso. Ha fornito quattro diverse versioni, ha ripetuto di non essere stato presente al fatto. Ma una testimone lo colloca in borgata Volla dove abitava la famiglia del piccolo Gabriel, un’ora e mezza prima della morte del bambino. Ci era arrivato in auto, una Punto, con la quale si sarebbe poi allontanato proprio assieme a Donatella e al figlioletto. Che alle 16 circa lei ha riportato indietro, a piedi e da sola, ormai esanime.

Repubblica 26.4.19
Migranti, per negare l'asilo i giudici devono provare che nel Paese d'origine non ci sia rischio per la vita
Sentenza della Corte di Cassazione rischia di incidere sulla stretta nella concessione dei permessi. Non bastano più generiche "fonti internazionali"
di Alessandra Ziniti


Migranti, per negare l'asilo i giudici devono provare che nel Paese d'origine non ci sia rischio per la vita
Il caso di un cittadino pakistano potrebbe mettere a serio rischio la stretta sulle concessioni dell'asilo ai mighranti che ne fanno richiesta. E' la Corte di Cassazione ad intervenire disponendo che per negare l'asilo a un richiedente bisogna provare che tornando nel suo Paese non rischierebe la vita. E l'onere della prova è ribaltato e tocca ai magistrati che non possono più basarsi su generiche "fonti internazionali".
Una sentenza che potrebbe allargare le maglie dell'asilo in controtendenza con  le indicazioni che arrivano dalla legge Salvini. Con queste motivazioni i giudici della Suprema Corte hanno accolto il ricorso di un cittadino pakistano che si era visto negare l'asilo sulla base di generiche "fonti internazionali" che attesterebbero l'assenza di conflitti nel paese di provenienza. Adesso la Cassazione esorta i magistrati a evitare "formule stereotipate" e a "specificare sulla scorta di quali fonti" abbiano acquisito "informazioni aggiornate sul Paese di origine" dei richiedenti asilo. Accolto ricorso di un pakistano.
Sulla base di questi principi - inviati al Massimario - la Suprema Corte ha dichiarato "fondato" il reclamo di Alì S., cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale.
Alì - difeso dall'avvocato Nicola Lonoce - ha fatto presente che la decisione era stata presa "in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili" e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine.
Il reclamo ha fatto 'centro', e la Cassazione ha sottolineato che il giudice "è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate", e non di "formule generiche" come il richiamo a non specificate "fonti internazionali". Il caso sarà riesaminato a Lecce.

La Stampa 26.4.19
Il 25 aprile di Mattarella
“Non si baratta la libertà con promesse di ordine”
Il presidente contro la narrazione del derby tra comunisti e fascisti “Non solo partigiani, la Resistenza fu serbatoio di valori morali e civili”
di Ugo Magri


Sergio Mattarella ha smontato un paio di «fake» che da qualche tempo circolano nella politica. Anzitutto la leggenda di un fascismo «buono», che fece opere benemerite tipo le bonifiche, ma commise l’errore di entrare in guerra dalla parte sbagliata; e poi la grossolana rappresentazione della Resistenza che qualche leader (da ultimo ci è cascato Matteo Salvini) riduce a un sanguinoso derby tra comunisti e fascisti, con gli italiani spettatori o vittime. Non andò affatto così, spiega il presidente della Repubblica da Vittorio Veneto, dove ieri mattina ha festeggiato il 25 aprile. Anzitutto il fascismo fu una pessima dittatura che si racconta da sé: «Niente libertà di opinione, di espressione, di pensiero. Abolite le elezioni, banditi i giornali e i partiti di opposizione. Gli oppositori bastonati, incarcerati, costretti all’esilio o uccisi. Bisognava obbedire agli ordini più insensati e crudeli che impartivano di odiare gli ebrei, i dissidenti, i paesi stranieri. Ma soprattutto si doveva combattere, non per difendersi ma per aggredire, per conquistare e per soggiogare». Tradotto nel linguaggio di ogni giorno: il regime fascista fu una vera schifezza morale. Portava ordine, è vero. Ma «la storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». Maneggiare i mitra è sempre fonte di guai.
Non solo partigiani
Quanto alla Resistenza, è falso dire che mobilitò al massimo 300 mila partigiani. Loro, certo, furono in prima fila. Ma per Mattarella contribuirono anche «i soldati italiani che combatterono fianco a fianco con l’esercito alleato coprendosi di valore». E dei resistenti fecero parte i 600 mila militari, catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, che «rifiutarono l’onta di servire sotto la bandiera di Salò e dell’esercito occupante preferendo l’internamento nei campi di prigionia nazisti», dove morirono in 50 mila. Né va dimenticato, sostiene il presidente, l’apporto «delle centinaia di migliaia di persone che offrirono aiuti, cibo, informazioni ai partigiani», e il contributo «dei tanti giusti delle Nazioni che si prodigarono per salvare la vita degli ebrei, rischiando la propria». La Resistenza fu un vasto movimento capace di affratellare donne e uomini di diversissime tendenze: azionisti, socialisti, liberali, comunisti, cattolici, monarchici e perfino molti ex fascisti delusi. Una rete che ricollegò l’Italia agli «alti ideali del Risorgimento», permettendole di riprendere posto tra le nazioni democratiche e libere.
Le pagine oscure
Poi, certo, ci furono degli eccessi. Al 25 aprile 1945 seguirono «vendette e brutalità inaccettabili contro i nemici di un tempo». Anche quella violenza va condannata, e Mattarella non si tira indietro. L’operazione verità va condotta a 360 gradi. Ma una volta fatta luce sulle pagine oscure, resta il giudizio complessivo: «La Resistenza fu un fecondo serbatoio di valori morali e civili». Chi li snobba rischia di ritrovarsi, come compagni di strada, i camerati di Forza Nuova e di CasaPound. Nemmeno la Lega si pone in alternativa a quei valori, come ha testimoniato ieri la vicinanza a Mattarella del governatore veneto Luca Zaia, insieme a quella di tanta gente.

La Stampa 26.4.19
Il linguaggio della Costituzione
di Giovanni Sabbatucci


«La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». È uno dei passaggi centrali del discorso che Sergio Mattarella ha tenuto ieri a Vittorio Veneto, a conclusione delle celebrazioni del 25 aprile: l’ultimo di una serie di interventi in cui il presidente della Repubblica sembra aver tracciato una sorta di perimetro ideale della legittimità democratica e dell’etica repubblicana. Qualcosa di simile avevano fatto i suoi predecessori, soprattutto gli ultimi due. Ma in questo caso il riferimento è più puntuale e tutt’altro che neutro, visto che cade in una fase di accesa conflittualità politica: una fase in cui il dibattito pubblico tende a tracimare dall’alveo del fisiologico confronto fra idee e programmi per investire i principi di fondo in base ai quali siamo soliti definire le democrazie.
Vista in tale contesto, l’esortazione del capo dello Stato a non subordinare la difesa degli spazi di libertà alla ricerca di una maggiore tutela, o l’invito a non cedere alle sirene del nazionalismo sovranista (già evocato e condannato in numerosi interventi presidenziali) non possono non richiamare come modello negativo le democrazie illiberali e i regimi securitari dell’Est Europa. Ma il discorso suona anche come ammonimento implicito alle forze politiche italiane (Lega e Fratelli d’Italia) che a quei modelli dichiaratamente si ispirano.
Vanno nello stesso senso – anche se i destinatari politici del messaggio non coincidono specularmente – la condanna della violenza, seppur consumata in uno scenario bellico e in risposta ad altre violenze, e del ricorso alla giustizia sommaria, sempre incompatibile con la democrazia. Un accenno non casuale, in un discorso pronunciato nel giorno della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, in una terra di confine già teatro di conflitti e di violenze e in un paese che ricorda col suo nome la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, riproponendo quel filo di continuità (simbolica più che storica) fra Risorgimento, Grande Guerra e Resistenza che già fu caro a Carlo Azeglio Ciampi. Ma è difficile non cogliere in quella condanna anche un’eco delle recenti polemiche politiche sull’uso delle armi e sulla legittima difesa.
Non credo sia il caso di spingersi troppo oltre nella lettura in chiave politica degli ultimi interventi di Sergio Mattarella. O di ipotizzare anche per il suo settennato – come per quelli dei suoi predecessori, da Francesco Cossiga a Giorgio Napolitano – un secondo tempo di accentuato interventismo, che seguirebbe un primo tempo caratterizzato da stretto riserbo istituzionale. Certo la stessa situazione che l’Italia sta vivendo, segnata da una doppia conflittualità fra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa maggioranza, potrebbe determinare, quasi per legge fisica, un ulteriore allargamento degli spazi di intervento presidenziale. Finora, però, Mattarella si è tenuto rigorosamente nei limiti del suo mandato. Ha espresso pareri e formulato giudizi anche gravi, ma sempre usando il lessico della democrazia liberale ed evitando ogni riferimento esplicito al confronto fra i partiti e all’azione di governo.
La Costituzione repubblicana, del resto, non si limita a condannare le dittature e i fascismi propriamente detti. Ma contiene in alcuni suoi articoli (vanno ricordati almeno il 9 sulle norme del diritto internazionale e sulla condizione degli stranieri e il 10 sulla guerra e sull’adesione agli organismi internazionali) norme difficilmente compatibili con i modelli nazionalisti e sovranisti. Finché non sarà cambiata, andrà rispettata nello spirito oltre che nella lettera.

il manifesto 26.4.19
La Nuova via della Seta 2.0
Cina. È iniziato a Pechino il 2° summit del progetto cinese. La parola d’ordine è «ribilanciamento». La Cina prova a rassicurare gli scettici sui rischi in tema di trasparenza e «trappola del debito»
di Simone Pieranni


È in corso da ieri a Pechino il secondo summit della Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative nella sua sigla internazionale), il progetto mondiale guidato da Pechino nel quale è sostanzialmente coinvolto tutto il mondo. Tra i partecipanti anche Giuseppe Conte (giunto da solo e senza il seguito aziendale che era previsto) e svariati capi di stato a rappresentare centinaia di paesi. Quando la Bri venne presentata ufficialmente – due anni fa con un analogo forum nella capitale cinese, benché il presidente cinese Xi Jinping ne avesse già parlato nel 2013 – fu definita «il progetto di infrastrutture e connessioni più grande mai attuato nella storia dell’umanità».
NEL CORSO DI QUESTI DUE ANNI la Bri ha ottenuto importanti successi e si è completata con alcuni organi di natura economico-finanziaria, per quanto la Cina non ami definire la Aiib (la banca di investimenti asiatici creata ad hoc) «il braccio economico» della nuova via della Seta. Insieme all’Aiib c’è anche il Silk Road Fund.
Si è discusso e detto molto su questo progetto: un tentativo egemonico da parte di Pechino, una nuova idea di ordine mondiale a guida cinese, la globalizzazione con caratteristiche cinesi. In generale si è sottolineato il carattere di natura geopolitica del progetto di Pechino, considerando che in gran parte si tratta di una fitta rete di infrastrutture, porti, pipeline e ferrovie, in grado di provvedere ad alcuni presupposti fondamentali per la Cina: consentire la circolazione più rapida delle merci, permettere alla Cina di scovare nuovi mercati per il surplus manifatturiero, controllare gli snodi più importanti delle rotte, tanto terresti quanto marittime.
SECONDO LA CINA si tratta di un progetto «win-win», a disposizione di tutti e senza alcuna volontà egemonica da parte cinese.
Ben presto, del resto, il progetto ha superato ampiamente i «confini» iniziali, finendo per porre sotto il cappello della Nuova via della seta anche investimenti e accordi in Africa e America Latina.
    Insieme al dilatare di questa rete mondiale commerciale, sono cominciati anche a sorgere alcuni problemi: Pechino ha potuto così apprendere che la propria presenza – soprattutto in alcuni paesi asiatici – ha sollevato diverse problematiche, dando vita a ribaltamenti politici che hanno finito per mettere in discussione gli accordi sottoscritti.
GLI ESEMPI PIÙ PRECISI in questo senso sono quelli del Myanmar, del Pakistan e della Malaysia: accordi sottoscritti ma poi rivisti alla luce di cambi di governo e delle rinnovate volontà nazionali per ridefinire i contorni economici. Si è così cominciato a discutere della cosiddetta «trappola del debito» e di manovre poco «trasparenti» da parte di Pechino.
QUESTO SECONDO FORUM punta a presentare il progetto sotto altre ottiche, di diversa natura rispetto al passato. Le ragioni sono molte, ma partono tutte da una prima considerazione. La Cina è in una fase interna piuttosto complicata, perché rallenta l’economia e l’accentramento di potere di Xi e del suo gruppo (tutti funzionari che hanno collaborato con lui nel corso della sua carriera) comporta problematiche nuove per la dirigenza cinese. Ma è indubbia la capacità di Pechino di annusare alcune diffidenze e provvedere subito a riadattarsi alla situazione.
    Ecco allora che si parla di «ribilanciamento» del progetto della Nuova via della seta, un termine che esprime una minima rivisitazione del piano, con Pechino forse più cauta in futuro ad allargare la propria influenza, o quanto meno a inserire all’interno della Nuova via della seta qualsiasi progetto che la veda protagonista, in qualsiasi parte del mondo.
Allo stesso tempo questa «ricalibrazione» della Bri sembra una risposta per chi ancora nutre dubbi, legittimi, sulla natura del progetto. La Cina in queste situazioni dimostra straordinaria capacità di modificare i piani in corsa e di farlo velocemente, indubbiamente favorita dalla propria natura politica, con un partito comunista solitario e bel saldo nel controllo totale del paese.
Ma questa ridefinizione dei contorni del progetto, dovrebbe anche favorire Pechino, di recente infastidita dal tentativo di tanti paesi di legittimare propri piani sotto l’insegna della Bri.

Il Fatto  26.4.19
Caro ministro Salvini, sul 25 aprile mi ricorda chi a Palermo non dice “la mafia fa schifo”: la lotta a Cosa nostra e la Resistenza si somigliano
Promemoria per la visita del vicepremier leghista oggi a Corleone: da un radical chic di sinistra con portafogli a destra (ma senza attico). La Liberazione è simile a chi ha combattuto le cosche: patriota è chi, osteggiato dai più, decise di sconfiggere l'impossibile. Al prezzo della propria vita. Probabilmente troverà una parte di Corleone che sottovoce che la mafia è nelle istituzioni e che alla fine Cosa nostra "ha fatto anche cose buone". Le ricorda qualcosa?


Caro ministro Salvini,
qualche giorno fa lei ha dichiarato che considera la festa del 25 Aprile un derby tra fascisti e comunisti, e che non è interessato a questo tipo di derby. Oggi, infatti, sarà a Corleone perché il suo interesse è quello di liberare il Paese dalle mafie e guardare al futuro e non al passato. Se mi permette le voglio raccontare una storia. La storia di alcuni uomini e di alcune donne che anni fa presero una decisione: combattere per la libertà.
Sapevano che mettersi contro un’organizzazione ben strutturata, che aveva ormai preso possesso di ogni parte dello Stato, avrebbe complicato loro la vita e quella dei loro familiari. Ciononostante decisero di andare avanti. Sapevano anche quanto la possibilità di venire uccisi fosse alta. Ciononostante decisero di non indietreggiare. E se uno di loro veniva ucciso, la staffetta non si fermava.
Politicamente la pensavano in maniera diversa, fra loro c’erano molti cattolici, ma anche comunisti e repubblicani. Ma quello che li univa era il bisogno di libertà.
Non tutta la popolazione, purtroppo, sostenne queste persone. Anzi, spesso, una parte del popolo prese le distanze o addirittura gli si mise contro. Ma loro non si arresero.
Molti protagonisti di questa storia sono morti, altri sono sopravvissuti e spesso passano il loro tempo a ricordare il sacrificio di chi non c’è più.
Lei penserà di certo che si tratti dell’ennesimo retorico racconto sui partigiani di un radical chic con il cuore a sinistra e il portafogli a destra, che scrive dal terrazzo del suo attico e che non conosce i problemi reali del Paese. Se è così, si sbaglia. Innanzitutto perché non le sto scrivendo dal terrazzo del mio attico: purtroppo non ne possiedo uno, anche se mi piacerebbe tanto averlo (ma mai tanto quanto una villa a Mondello!). No, le scrivo da un banale primo piano con balconcino. E si sbaglia, anche, perché ciò che in realtà le ho appena raccontato è la storia della lotta alla mafia.
Le ho parlato di persone che politicamente la pensavano in maniera diversa (chi di sinistra e chi di destra) e che, nonostante fossero osteggiati da gran parte della cittadinanza, decisero di prendere una posizione e realizzare l’impossibile: sconfiggere la mafia per vivere in libertà. E lo fecero con l’aiuto di Dio, se credenti, per la loro famiglia e per la loro Patria.
È incredibile. La storia dei partigiani, di chi ha combattuto il fascismo, somiglia molto a quella di chi ha combattuto la mafia. Allora dire che la festa del 25 Aprile è un “derby tra fascisti e comunisti” ricorda tanto ciò che si diceva negli anni Ottanta sul Maxiprocesso, e cioè che fosse un derby che riguardava la mafia e l’antimafia, un derby fra mafiosi e magistrati. E noi normali cittadini non dovevamo curarcene. Falcone e Borsellino, cito loro per tutti, incominciarono a morire in quegli anni, proprio per questo nostro disinteressarci.
Non capire chi sono i veri patrioti di un Paese – o probabilmente fingere di non capirlo – è gravissimo, perché non si può progettare un futuro senza ricordare il passato.
Dare un colore politico alla Resistenza italiana è profondamente ingiusto, sbagliato e storicamente falso: gli unici colori che possiamo attribuirle sono rosso, bianco e verde. Quelli del tricolore.
Quando lei, signor ministro, non riesce a dire che il fascismo fa schifo (e in quelle poche volte in cui lo fa aggiunge sempre frasi del tipo: “Ma anche il comunismo ha ucciso molte persone”), mi ricorda tanto quelli che a Palermo non riescono a dire che la mafia fa schifo e, quando costretti ad ammetterlo, aggiungono: “Ma la vera mafia è a Roma” (con la variante: “La mafia è nelle istituzioni”).
Tutte le riflessioni sono ben accette e spesso necessarie, ma soltanto se si parte dall’assunto di base, che è uno solo. Altrimenti la riflessione rischia di essere esclusivamente una collusione culturale.
Ogni 25 aprile, ogni 23 maggio, ogni 19 luglio (e anche qui purtroppo le date da citare sarebbero tantissime!) ricordiamo i Patrioti morti per la libertà del nostro Paese, a prescindere dal colore politico, anzi, al di là del colore politico.
Lei forse ha le idee poco chiare, perché per anni ha ricordato, e lo raffigura ancora nel simbolo del suo partito, Alberto da Giussano, il patriota della Padania. Ecco, immagini la stessa situazione, ma con patrioti realmente esistiti, spesso realmente morti, che hanno difeso una nazione reale.
Probabilmente, una volta giunto a Corleone, troverà una parte del paese che sottovoce le dirà che la mafia è nelle istituzioni, che il vero nemico è lo Stato e che alla fine “la mafia ha fatto anche cose buone”. Una frase che dovrebbe ricordarle qualcosa… Poi incontrerà l’altra parte del paese che farà una coraggiosa e instancabile “RESISTENZA” alla mafia, senza equivoci e senza esitazione, per difendere la democrazia e la libertà, faticosamente conquistate.
E temo che lo spirito della RESISTENZA la “perseguiterà” anche lì. Perché, che piaccia o meno, signor ministro, lo spirito della RESISTENZA è stato e sempre sarà la salvezza di questo Paese!
*Se avessi avuto un attico con terrazzo, oggi avrei fatto sventolare con fierezza la bandiera italiana. La stessa che voi leghisti, sovranisti dell’ultima ora, qualche anno fa volevate usare per “pulirvi il culo”. Fortunatamente la cacca dei vostri “culi” non ha mai sfiorato il nostro Tricolore, rimanendo così solo nei vostri “culetti” padani.

Il Fatto 26.4.19
Brescia aspetta il 28: riti e incontri in onore del Duce
La città di piazza della Loggia celebra la morte di Mussolini: non solo sottobosco nero ma imprenditori e gente che conta
di Urbano Croce


L’ombra nera che poi tanto ombra non è. Siamo a Brescia: in una città che tra un mese celebrerà il 45esimo anniversario della bomba in piazza della Loggia, c’è ancora un sottobosco fascista, fatto di appuntamenti fissi, incontri più o meno segreti, celebrazioni pubbliche. Come quella che si ripete ogni anno il 28 aprile, quando un necrologio dell’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana annuncia una messa per Benito Mussolini. Per il mondo dell’estrema destra nazionale, il 28 aprile è un giorno listato a lutto: è l’anniversario di Piazzale Loreto del 1945.
Tutti sanno, ma nessuno pare scandalizzarsi. Accadrà anche domenica prossima, e nella chiesetta sotto il colle Cidneo, zona nobile della città, si daranno appuntamento pezzi della “Brescia che conta”. Dal dirigente della sanità lombarda, a piccoli e medi imprenditori, ex militanti di Msi prima e An poi. E storici camerati, che nello stesso giorno difenderanno la formella posizionata lungo la salita che porta al Castello, in ricordo di Sergio Ramelli, e che puntualmente ad aprile – raccontano le cronache dei giornali locali – viene sporcata di vernice rossa dai centri sociali che cancellano così la data di morte del militante del Fronte della Gioventù.
Dicono non manchi mai, tra i banchi della chiesetta, nella ricorrenza del 28 aprile, Marco Bonometti, ex presidente degli industriali bresciani, ora a capo di quelli lombardi, che sogna la scalata in Confindustria nazionale e che non ha mai negato le proprie simpatie fasciste, bene rappresentate dalla collezioni di busti del Duce presente nel suo ufficio (nonostante da qualche tempo si sia trasformato in renziano doc, con il sostegno anche economico alle campagne elettorali dell’ex premier e di Maria Elena Boschi, mentre per le Europee strizzerebbe invece l’occhio alla forzista Lara Comi).
Soffia da destra anche il vento che porta un gruppetto, almeno un giovedì al mese, a trovarsi in un ristorante di Brescia, spesso lo stesso, attorno a un tavolo con alle spalle la bandiera di Avanguardia Nazionale. Movimento ufficialmente sciolto nel 1976, evidentemente non per tutti. E tra i reduci di una stagione nera, in tutti i sensi, nostalgici del passato che ritorna, c’è chi come il bresciano Kim Borromeo, a inizio marzo del 1974, venne arrestato sulla strada per la Val Camonica mentre trasportava in auto mezzo quintale di esplosivo.
Questo se si guarda a volti e nomi datati. Ma c’è anche un presente. Qui Forza Nuova e CasaPound (rispettivamente 0,7% e 0,4% un anno fa alle amministrative in città) sono presenti con iniziative “a sostegno degli italiani”, come l’abitazione che CasaPound sta ristrutturando in città “per italiani in difficoltà, solo per italiani”, raccontano dal movimento che prima di Pasqua ha organizzato una cena per raccolta fondi nella sede con vetri oscurati. È legato a CasaPound anche Mirko Mancini, candidato in città alle ultime elezioni e leader dei “Brixia Blue Boys”, un’associazione i cui responsabili sono stati tutti indagati un anno fa dalla Procura bresciana, perché utilizzavano divise non autorizzate, con simboli fascisti e facce del Duce cuciti sulle maniche, durante ronde notturne nella zona della stazione. È invece in una delle vie più multietniche di Brescia la sede di Forza Nuova. L’hanno chiamata l’Ambasciata: è qui che è atteso Roberto Fiore che tornerà nelle prossime settimane in vista delle Europee a Brescia. Probabilmente il giovedì prima del voto, proprio a ridosso dell’anniversario della strage nera di piazza della Loggia.

Il Fatto 26.4.19
Crimini di guerra nazisti: “La Germania deve ancora all’Italia 100 miliardi di euro”
La stima - Dopo la richiesta della Grecia, anche Roma potrebbe pretendere i risarcimenti
di Maria Cristina Fraddosio


La Seconda guerra mondiale – almeno nelle aule dei tribunali civili – non è mai finita. La Germania, infatti, non ha mai risarcito le decine di migliaia di vittime civili dei crimini di guerra compiuti dai nazisti tra il 1939 e il 1945. Il conto – dopo la il voto del Parlamento greco che reclama il pagamento di 290 miliardi di euro e i 500 chiesti nel 2017 dalla Polonia – ha raggiunto i 1.000 miliardi e rischia di salire ancora. Anche l’Italia – infatti – potrebbe avanzare la sua richiesta che, secondo le stime del giudice militare Luca Braida, raggiungerebbe i 100 miliardi di euro per i 23 mila italiani vittime dei rastrellamenti nazisti tra il 1943 e il 1945: “Si tratta – dichiara il magistrato – di una cifra congetturale che manca del calcolo dei risarcimenti per i deportati tornati vivi. L’abbiamo ipotizzata per difetto”. Il credito sarebbe superiore, se non fosse che la Germania non ha mai adempiuto alle sentenze emesse nel nostro Paese che le impongono il pagamento. Una situazione abbastanza critica, in cui è coinvolta anche l’avvocatura di Stato.
A partire dal vertice Italia-Germania, a Trieste nel 2008, gli accordi raggiunti hanno favorito Berlino. L’esito di quell’incontro tra l’ex premier Silvio Berlusconi e la cancelliera tedesca Angela Merkel ha portato il governo tedesco a finanziare monumenti, restauri ed eventi culturali. Nulla invece in merito ai risarcimenti dovuti agli eredi delle vittime. Ma i processi penali conclusi nel 2015 e civili (molti dei quali ancora in corso) li impongono. L’avvocatura di Stato, a favore delle vittime nel penale, dopo quel vertice avrebbe cambiato rotta intervenendo spontaneamente nelle cause civili a favore del governo tedesco per conto della Presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri.
Il motivo di tale condotta è stato oggetto di una richiesta di accesso agli atti avanzata dal magistrato Luca Baiada, in qualità di cittadino. L’avvocatura però ha rigettato appellandosi al “segreto professionale”. Baiada, che ha emesso le sentenze per le stragi di Padule di Fucecchio e di Forlì, non ci sta. La controversia è finita al Tar Lazio e l’8 maggio è fissata l’udienza. Anche l’ex presidente della Corte costituzionale Giuseppe Tesauro, che ribaltò la sentenza dell’Aia relativa all’immunità della Germania considerandola incostituzionale, ha recentemente affermato che in quel vertice del 2008 “l’Italia in ginocchio e con entusiasmo accettò” le richieste di Berlino di non risarcire nessuno. Deportazioni e fucilazioni di massa di civili, tra cui migliaia di donne e bambini, avvennero soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna. Ma anche in Abruzzo e Campania. Gli imputati condannati all’ergastolo non sono mai stati consegnati dalla Germania. In Italia ne sono finiti in carcere solo due, perché estromessi da Paesi terzi. Quelli che, allora bambini, sopravvissero vedendosi sottrarre con atroci violenze i familiari più cari non si sono mai arresi. Antonio, all’epoca, aveva poco più di un anno. Vittoria, otto. Tosca, sei. Era il 23 agosto 1944 e nel Padule di Fucecchio quel giorno videro le persone ardere vive. Oggi reclamano ancora giustizia. Le sentenze emesse in loro favore sono rimaste inapplicate.

Corriere 26.4.19
Crisi libica e profughi l’Italia è troppo isolata
di Goffredo Buccini


Stavolta più dei numeri peserà lo status di coloro che tentano di raggiungere le nostre coste: e l’ennesimo scontro acceso da giorni nella maggioranza di governo pare dimostrarlo. Tuttavia, nella ridda di slogan che gravano sempre più sulla questione migratoria, le cifre restano un appiglio razionale. E da lì conviene ripartire. Nonostante i distinguo e (persino) le ironie, quella che Fayez al Sarraj ha gettato di recente sul tavolo della geopolitica — 800 mila fuggiaschi pronti a invadere l’Italia e l’Europa — non è affatto tirata a casaccio.
Non c’è dubbio, certo, che i toni ultimativi (e l’aggiunta dei «terroristi Isis» mischiati ai migranti) servano soprattutto pro domo sua, a smuovere noi e la comunità internazionale contro il «traditore» Haftar. Lo spauracchio di sbarchi biblici è peraltro un grande classico dei regimi nordafricani. Testimoni dell’incontro tra Al Sisi e l’allora ministra Federica Guidi in Egitto (nei giorni in cui venne ritrovato il corpo di Giulio Regeni) raccontarono che il rais ammonì la nostra delegazione con toni quasi sprezzanti, ricordando come potesse scaraventarci sulle coste due milioni di immigrati che lui, magnanimo, tratteneva. Sull’altra sponda del Mediterraneo la disperazione dei popoli è la migliore alleata dei tiranni.
Ciò premesso, la cifra di Sarraj è alta ma plausibile, perché coincide con quella contenuta in un rapporto dell’Onu (pubblicato proprio sul Corriere di recente). Il report del 18 dicembre 2018 dell’Alto commissariato per i diritti umani (Unhchr) e della Missione di supporto (Unsmil) afferma infatti che ci sono in Libia in questo momento tra i 700 mila e il milione di stranieri provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana e dal Nord Africa. Di questi, 53 mila si troverebbero nei campi di detenzione governativi: ma nei lager «informali» ce ne potrebbe stare il triplo.
Emergenza
Le cifre fatte da Sarraj sono plausibili perché coincidono con quelle
di un rapporto dell’Onu
Parlare di «poche migliaia» come fa il ministro Moavero appare davvero ottimistico. Giusto invece prendere con le molle la tempistica dell’«invasione». Quand’anche saltassero tutte le precarie strutture di quel simulacro di Stato, i famosi 800 mila non sono certo tutti ammassati sulla costa con un piede su un barcone: sono al momento sparsi in un territorio immenso e difficile da attraversare, forse nel mezzo di percorsi che durano mesi o anni. È sensato inoltre pensare che una parte di questi, soprattutto molti libici, cercherebbero rifugio negli Stati nordafricani vicini (in primis proprio l’Egitto) come già accadde durante i tumulti che portarono alla caduta di Gheddafi. Ne resterebbe comunque un numero sufficiente a provocare sulle nostre coste un impatto critico importante. Basti pensare che il picco migratorio di questi ultimi anni è stato di 181 mila arrivi nel 2016 e che nel 2017, poiché se ne prevedevano 250 mila, Marco Minniti fu costretto ad aprire la via dei controversi accordi con i «sindaci» libici, che hanno avuto quale risultato un drastico calo delle partenze ben prima dell’era di Matteo Salvini.
C’è da considerare, poi, il problema più serio: in questo caso i respingimenti sarebbero esclusi dalle norme internazionali (e dalla nostra Costituzione) poiché ci troveremmo di fronte, senza bisogno di grandi indagini, non a cosiddetti «migranti economici» ma a un flusso di profughi che scappano dalla guerra e hanno diritto, ictu oculi, allo status di rifugiato. Costoro arriverebbero in condizioni che renderebbero impensabile bloccarli. Salvini, cogliendo la portata del rischio, ha aperto per tempo il fuoco di sbarramento, sostenendo che non vi sarebbero rifugiati in questa umanità dolente e rilanciando l’allarme terrorismo paventato da Sarraj: ma applicare a donne e bambini, feriti e fuggiaschi traumatizzati un’etichetta da miliziano dell’Isis è operazione complicata anche per un formidabile giocoliere della politica come il ministro dell’Interno (che ha peraltro appena ridotto «d’ufficio» il numero degli irregolari in Italia da 600 mila a 90 mila). La sua (asserita) policy dei porti chiusi verrebbe spazzata via, infliggendo forse il primo colpo all’uomo forte del governo italiano. Resterebbero tuttavia gli effetti della sua predicazione. Va soppesata infatti l’ulteriore variabile di un’opinione pubblica ormai isterizzata sul tema migratorio rispetto a tre o quattro anni fa e che, dunque, reagirebbe presumibilmente assai male a un’impennata di sbarchi: le conseguenze sulla nostra convivenza civile potrebbero essere notevoli.
Fuga dalla guerra
La politica dei respingimenti verrebbe esclusa dalle norme internazionali
In un quadro simile, l’invito all’unità delle forze politiche lanciato di recente dal premier Conte è apprezzabile, ma rischia di cadere nel vuoto se neppure le forze politiche al governo appaiono unite, mentre, fuori dall’Italia, paghiamo un perdurante isolamento che potrebbe costarci carissimo. Di fronte a una possibile estate di sbarchi e a una sicura crisi umanitaria aperta in Libia, avremmo bisogno, se non della solidarietà di tutta l’Unione, almeno del sostegno degli Stati mediterranei con cui condividere il fardello, Francia e Spagna in prima linea. Ma, con la battaglia per le istituzioni Ue che sarà aperta dopo il 26 maggio, anche questa appare una pia illusione.

Il Fatto 26.4.19
Burgess, vendetta all’Arancia (filosofica)
Ritrovato un dattiloscritto sulla “condizione umana”: la risposta dell’autore alla trasposizione di Kubrick
di Federico Pontiggia


Un’altra spremuta di ultraviolenza? Per ora c’è solo la notizia del rinvenimento di un seguito di Arancia meccanica (A Clockwork Orange) nell’archivio dello scrittore inglese Anthony Burgess. Ad annunciarlo la Fondazione che prende il suo nome, il manoscritto venne scoperto tra le carte della casa di Burgess sul lago di Bracciano, quindi alla morte del romanziere nel 1993 fu trasferito a Manchester, sede della fondazione, con tutto l’archivio: recentemente è saltato fuori, è stato catalogato e si avvia a una prossima pubblicazione. La fama di Arancia meccanica, edito nel 1962, non è solo letteraria, ma sopra tutto cinematografica: Stanley Kubrick nel 1971 ne trasse il cult omonimo, veicolo e spia insieme della violenza metropolitana perpetrata da Alex (Malcom McDowell) e i Drughi.
Dopo stupri, pestaggi e sadismo vario ed eventuale, il giovane subirà la rieducazione coatta da parte dello Stato, con tanto di Cura Ludovico nata nella distopia più crudele per la “redenzione” dei delinquenti abituali ed entrata di diritto nell’immaginario collettivo: violenza chiama violenza, la pena viene somministrata per via oculare, e ogni riferimento al seriale binge-watching attuale è puramente sorprendente.
Le conseguenze dell’uscita del film nel Regno Unito – negli Usa viceversa fu un successo anche commerciale, e si guadagnò la nomination quale miglior film agli Oscar nel 1972 – furono imponderabili, gli episodi di emulazione delle infami gesta dei Drughi non si contarono, e alcuni consigli comunali inglesi lo misero al bando. Non andò meglio al suo autore: Kubrick e famiglia vennero addirittura minacciati di morte, e il regista infine ottenne dalla Warner Bros il ritiro del film dalle sale inglesi, dove venne distribuito solo dopo la sua morte nel 1999.
Nel resto del mondo la misura prevalente per far fronte alla carica virale dell’adattamento è stato il divieto ai minori: in Italia è stato abbassato a 14 anni solo nel 1998, per dire della tenuta dello scandalo. Che conosce oggi un’inedita tappa con A Clockwork Condition, un testo di circa duecento pagine che s’interrompe all’improvviso, tanto da palesarsi incompleto, e raccoglie pensieri dello stesso Burgess sulla condizione umana. In “parte riflessione filosofica e in parte autobiografia” dell’autore, promette il direttore dell’International Anthony Burgess Foundation, Andrew Biswell, “getterebbe nuova luce su Burgess, Kubrick e le controversie sul celebre libro”, risolvendosi tra fogli dattiloscritti, note e schemi in un compendio “sul crimine, la punizione e i possibili effetti corruttivi della cultura visuale”, in particolare film e televisione.
Aggiornando la lezione, solo apparentemente immorale, di Arancia meccanica, che mai domo né soddisfatto continuò a revisionare fino alla morte, con The Clockwork Condition, scritto tra il 1972 e il 1973 e citato unicamente in un’intervista di due anni più tardi, Burgess prende consapevolezza dei propri limiti – “Il saggio era oltre le proprie capacità, giacché era un romanziere e non un filosofo” – e decide di mollare il colpo, ma non prima di averne inflitti di devastanti agli anni Settanta, descritti quali “un inferno meccanico”, con gli esseri umani ridotti a meri ingranaggi, “non più naturalmente sviluppati, non più organicamente umani”.
Intenzionalmente suddiviso in sezioni di chiara derivazione dantesca, ovvero Infernal Man, l’uomo intrappolato in un mondo di macchine, e Purgatorial Man, quello che tenta la fuga, il lavoro rivela anche l’origine del titolo A Clockwork Orange, che Burgess cercò disperatamente di applicare a qualcosa per un ventennio e infine affibbiò a un’opera “sul lavaggio del cervello”.
“Sentii quell’espressione in un pub londinese, per bocca di un ottantenne Cockney che parlava di qualcuno ‘matto’ (queer in originale, ndr) come un’arancia meccanica”, e rimase avvinto dalla miscela di surreale e popolare, facendone quindi uno dei titoli più icastici e fortunati della letteratura mondiale. Mentre oggi al Design Museum di Londra inaugura un’imponente mostra di Kubrick, che include materiale di Arancia Meccanica, la comparsa del seguito di Burgess rinverdisce la loro dialettica: Stanley prese il libro e ne dispose a propria immagine e somiglianza, Anthony non gradì, del resto, esistono due arance uguali?

La Stampa 26.6.19
Sudan
Un milione di manifestanti in piazza contro i militari
di Lorenzo Simoncelli


Non si ferma la marcia dei manifestanti per le strade di Khartoum, capitale del Sudan, che chiedono a gran voce le dimissioni della Giunta militare attualmente al potere dopo la destituzione dell’ex Presidente Omar al-Bashir. Attivisti e opposizioni l’hanno ormai definita «la marcia del milione», dato che si stima che, i manifestanti arrivati da tutto il Paese con ogni mezzo, abbiano incrementato notevolmente il numero di quanti sfilano per le strade della capitale da circa due settimane. «È un momento storico, siamo pronti ad aspettare anche 100 anni, i militari stanno solo perdendo tempo» ha detto un manifestante alla Bbc. Per la prima volta nella storia del Paese è arrivato l’appoggio anche da parte della magistratura, scesa in piazza dicendosi «pronta a lottare per l’indipendenza».
Abdel Fattah Burhan, leader della Commissione militare, attualmente alla guida del Paese, a seguito delle continue pressioni popolari ha incontrato i rappresentanti delle principali sigle dell’opposizione che chiedono una rapida transizione di potere democratica. Tante ancora le differenze da limare. Al momento l’unica concessione della Giunta prevede la decisione di mettere da parte altre figure considerate troppo vicine all’ex Presidente al-Bashir. Si tratta di tre generali dell’esercito, Omar Zain al-Abideen, Jalal al-Deen al-Sheik e Al-Tayeb Babakar Ali Fadeel, accusati anche di avere un approccio all’Islam eccessivamente rigido.
Ad inizio settimana, il Presidente egiziano Al-Sisi, nella sua funzione di Presidente di turno dell’Unione Africana, aveva riunito i principali Capi di Stato del Continente per decidere come muoversi, scegliendo una via conservativa, concedendo una finestra temporale ulteriore di due settimane per risolvere l’impasse internamente. Rispetto a due settimane fa, la mobilitazione civile ha dato un grande contributo a fare piazza pulita non solo di al-Bashir, ma anche dei suoi principali alleati, molti dei quali accusati di crimini contro l’umanità nei 30 anni al potere. Manca, tuttavia, una figura alternativa credibile, capace di coordinare le proteste di piazza e questo non aiuta a velocizzare la transizione. Anche se ormai sembra difficile che la Giunta militare possa rimanere in carica per due anni prima di indire nuove elezioni. In attesa di capire i prossimi sviluppi, è emerso da alcune fonti russe, che se non fosse intervenuto l’esercito, l’ex Presidente al-Bashir, sarebbe stato pronto ad intervenire con le maniere forti sui manifestanti. Attualmente si trova detenuto nel carcere di Kobar.

La Stampa 26.4.19
Quel velo che confonde le tre grandi religioni
Il sondaggio. Per 2 italiani su 3 il trasferimento dei ragazzi all’estero è una minaccia pari o superiore all’arrivo dei migranti
di Federico Fubini


Una donna, velata di nero dalla testa ai piedi, sbuca dalle strade di Mea Shearim, il quartiere haredi (ultraortodosso) di Gerusalemme. Entra in Città Vecchia dalla porta di Damasco e si ferma davanti al portone del monastero greco-ortodosso sulla via Dolorosa. Da dietro è quasi impossibile dire se sia una suora, una donna musulmana o un’ebrea ortodossa.
Negli ultimi vent’anni è sempre più frequente vedere donne ebree e musulmane nascondersi sotto strati di scialli, tuniche e veli che richiamano le monache ortodosse per aderire a regole religiose di modestia. La nuova mostra all’Israel Museum di Gerusalemme, Veiled Women of the Holy Land: New Trends in modest dress (Donne velate della Terra Santa. Nuove tendenze nell’abito modesto), racconta questa tendenza con oggetti, interviste e conversazioni condotte dalla curatrice No’am Bar’am-Ben Yossef sul significato del velo nel contesto interculturale israeliano. «Per 4 anni - racconta - ho cercato di individuare somiglianze e significati religiosi, politici, di protesta o provocazione di questo look estremo. Ci vuole una grande sensibilità per ottenere la fiducia delle donne, perché si aprano».
Confessioni video
L’esposizione solleva molte questioni: gli strati che coprono il corpo della donna proteggono o riflettono secoli di oppressione? E quali reazioni provocano? Oltre a manichini, fotografie e testi, la mostra cerca di rispondere alle domande con una video-installazione dell’artista Ari Teperberg, You Need to be Ready to Let Go of What the Eye Sees (Devi essere pronto a lasciar andare ciò che l’occhio vede). Se le similitudini derivano dal desiderio comune di assomigliare alle matriarche - Sarah, Rebecca, Rachele e Lea per l’ebraismo, le mogli di Maometto per l’islam e la Vergine Maria per il cristianesimo - quello che emerge dalla mostra sono soprattutto contraddizioni e paradossi. Anche all’interno dello stesso gruppo religioso. «Siamo tutti esseri umani con le nostre debolezze. Nel mio monastero - racconta una suora nel video in mostra - siamo in venti e sempre in conflitto. Alcune dormono con il velo, io lo tolgo. Questo mi rende meno suora delle altre? Certo che no. Vivere in convento è importante perché insegna a rispettare le altre».
L’«halakha», la legge religiosa ebraica, obbliga le donne sposate a coprire il capo ma non l’intero corpo. Tuttavia negli anni Duemila, dopo la seconda Intifada, alcune donne «haredi» hanno cominciato a indossare tuniche sempre più lunghe e scure. «Finché una donna si mantiene modesta e fa attenzione a non attirare lo sguardo degli uomini, eccetto suo marito - spiega un’ebrea ortodossa -, li salva, impedendo loro di peccare. Mi sento come se Dio mi avvolgesse con il suo amore, come se camminassi scortata».
A Mea Shearim, dove ci sono un’ottantina di famiglie in cui le donne si velano e la tendenza è in crescita, la loro comparsa ha suscitato reazioni violente. L’establishment «haredi» le percepisce come ribelli e la modestia diventa paradossalmente provocazione. Spesso i mariti, in imbarazzo, negoziano un compromesso, ottenendo che le mogli si coprano completamente solo quando escono da sole. In alcuni casi il velo è stato motivo di rottura familiare. «Nel momento in cui ho indossato il niqab ero sia eccitata sia spaventata. Temevo che la mia vita finisse ma ora le persone mi trattano con rispetto. Mi sento al sicuro come una perla dentro l’ostrica». «Ciascuno di noi - fa notare la curatrice - ha un velo virtuale sugli occhi, quello del pregiudizio. La mostra è un invito a calarlo e ascoltare senza giudicare».

Corriere 26.4.19
La fuga dei giovani è la nuova paura


Alcuni dei governi europei più ostili all’immigrazione hanno dietro di sé elettori impensieriti da un fenomeno un po’ diverso: i loro amici e i loro familiari che, anno dopo anno, gettano la spugna e vanno all’estero. Per numeri crescenti di italiani, polacchi, ungheresi — ma anche di spagnoli o rumeni — l’emigrazione dei propri connazionali preoccupa più dell’arrivo degli stranieri. Nel caso dell’Italia, sono due su tre gli abitanti che vedono nella fuga dei propri giovani all’estero una minaccia superiore o almeno altrettanto grande rispetto all’immigrazione.
Qualcosa si sta muovendo in profondità negli umori del Paese e dell’intera fascia di fragilità sociale lungo il fianco sud e orientale dell’Unione europea. Ma la politica, di governo e opposizione, per ora non sembra in grado di capirlo e non riesce a dar voce alle nuove paure dei cittadini. Almeno questo emerge in un sondaggio che, per la prima volta, pone agli elettori in Italia e in altri tredici Paesi dell’Unione una domanda impensabile fino a pochi anni fa: è più l’immigrazione o l’emigrazione che li tiene svegli la notte? L’indagine è condotta fra fine gennaio e fine febbraio su 46 mila europei (dei quali 5 mila italiani) da YouGov per conto dello European Council on Foreign Relations. E i risultati fanno emergere ragioni di stress fra gli elettori che non rispecchiano gli slogan della campagna elettorale per le europee. In Italia il 32% degli elettori è più preoccupato dall’emigrazione dei connazionali, mentre solo il 24% lo è per l’ingresso di sempre nuovi stranieri. In Romania, che vede ormai un quinto della popolazione all’estero, il rapporto è di 55% a 10%. In Ungheria il 39% è più impensierito dall’emigrazione dei propri figli e solo il 20% lo è dall’immigrazione: poco importa che dell’ostilità agli stranieri Fidesz, il partito al potere, faccia ormai la propria ideologia ufficiale. Persino in Spagna, malgrado anni di ripresa, coloro che sono più impensieriti dalla fuga all’estero dei propri connazionali sono il doppio rispetto all’altro gruppo. E in Polonia, anch’essa guidata da un governo dagli accenti xenofobi, la dinamica è simile.
È come se gli elettori in Italia e altrove stessero cercando di dire ai loro politici che le linee di frattura non sono quelle fra sovranisti e liberali di cui molti parlano. Emergono paradossi invisibili al dibattito fra partiti, assenti dai talk show della sera. Gli stessi leader che in Europa si sono imposti promettendo di «chiudere le frontiere» oggi si vedono chiedere dai cittadini di fare esattamente quello. Solo, per la ragione opposta: impedire ai giovani di andarsene altrove, tenerli vicino a sé. Il 52% degli italiani, il 50% dei polacchi e il 49% degli ungheresi si dichiara a favore di «misure che impediscano ai connazionali di lasciare il Paese per lunghi periodi come risposta all’emigrazione». Vorrebbero fermarli, chiuderli dentro, non essere lasciati indietro in periferie urbane sempre più popolate di anziani e di appartamenti vuoti.
I dati Istat
Secondo l’Istat sono 738 mila gli italiani emigrati all’estero fra il 2008 e il 2017
Gli ultimi dieci anni evidentemente hanno lasciato il segno nella coscienza degli elettori. Secondo l’istituto statistico Istat sono 738 mila gli italiani emigrati all’estero fra il 2008 e il 2017. Secondo dati di Eurostat riportati dal Centre for European Policy Studies, il 3,1% della popolazione italiana adulta vive e lavora altrove nel mondo. È praticamente certo però che i numeri reali siano molto più alti, per il semplice fatto che molti italiani non cancellano la residenza prima di espatriare e dunque non sono catturati nelle statistiche. Nel 2017 secondo l’Istat 14.200 sono andati in Germania, ma l’istituto statistico tedesco Destatis ne ha registrati in arrivo quattro volte e mezzo di più. Sempre secondo l’Istat 22 mila italiani sono andati in Gran Bretagna due anni fa, ma il governo di Londra ne ha contati più del doppio. Per la Spagna, i numeri degli emigrati italiani del 2017 sono ottomila fotografati dall’Istat e più di ventimila contati dalle autorità a Madrid.
Anni di opportunità scarse e malpagate — o di maggiore dignità sul lavoro altrove — stanno scavando così un trauma non solo nei giovani: anche negli amici e nei genitori che restano ad aspettarli. Rispondere proibendo i deflussi non ha mai funzionato e infatti nel 1989 innescò il collasso l’intero blocco del socialismo reale. Ma mettere la testa nella sabbia di fronte alle paure reali degli italiani e di tanti milioni di europei non è sicuramente una ricetta migliore.

Repubblica 26.4.19
In vista delle elezioni di domenica, è diventato virale il video di un lavoratore che parteggia per Abascal, leader del partito filofranchista. Non è il solo. E chi sceglie la sinistra si vergogna
L’operaio e la destra
Viaggio nella periferia di Madrid alla ricerca degli elettori di Vox “Difende le donne e l’unità spagnola”
di Concita De Gregorio


MADRID Non si parla d’altro. Nei bar di periferia, in coda alle poste, persino sul marciapiedi aspettando il verde. Hai visto il video?, chiede lui a lei. Sì, certo, mi è arrivato su Facebook: forte, no? Un tizio alle spalle della coppia si inserisce nel dialogo: ma sarà autentico? Claro que sì.
Certo. Sicuri? Non sarà una trovata elettorale? No, non lo è.
Il video di cui tutti parlano, in Spagna, a tre giorni dal voto, è l’intervista che un reporter di Ctxt (autorevole giornale online fondato da Miguel Mora e, tra gli altri, da Soledad Gallego-Díaz, attuale direttrice de El País) ha fatto a un operaio, l’altro ieri.
L’uomo, piegato sotto il peso di un grande oggetto imballato, senza fermarsi — continuando a camminare, mentre lavora — dice: «Io voglio solo che vinca Vox». Poi dice anche: «Mia moglie, che lavora in un supermercato, anche lei vota Vox senza dubbio: perché è l’unico partito che protegge le donne, è quello che promuove l’ergastolo per chi le aggredisce».
Santiago Abascal, il leader del partito di estrema destra, lo ha condiviso sui suoi profili social con questo commento: «Ecco cosa succede quando un progressista tocca il naso a un operaio». Mezzo milione di condivisioni in mezza giornata.
Willy Veleta, il giornalista che ha realizzato l’intervista, ha dovuto cancellarsi da Twitter e da altri social. Lo bombardavano di insulti e minacce, gravi.
Quattro ore dopo la moltiplicazione epidemica del video dell’operaio ne è comparso un altro, in Rete. Un camionista, questa volta. Un video-selfie. Dice: «Con tutti gli studi che avete fatto avete il cervello come una noce. Gli operai secondo voi stanno col coda? (Pablo Iglesias, leader di Podemos, ndr). Ma andate a dormire, dai. Andate in spiaggia, che è meglio. Evviva il presidente Santi (Abascal, Santi per Santiago)».
Tema, quindi. Compito del giorno per chi voglia provare a capire cosa sta succedendo in Spagna, dove governa il Psoe di Pedro Sánchez e dove domenica si vota. Vox e il voto degli ultimi, delle periferie, delle classi sociali più povere. Vox e le donne. Il partito di estrema destra, neo-franchista, ha già vinto e governa in Andalusia, con il Partito Popolare e Ciudadanos. Il suo leader, Abascal, non ha partecipato ai confronti pubblici degli ultimi giorni. Non poteva, secondo le regole dei dibattiti televisivi, non avendo rappresentanza parlamentare. Alle ultime elezioni politiche, quattro anni fa, ha infatti avuto solo lo 0,5 percento. I sondaggi oggi lo accreditano al 12, ma la voce del popolo dice che arriverà oltre, sopra il 15: dice che potrebbe, addirittura, superare il Partito Popolare. Ieri sera Abascal era a Valencia, in comizio: la coda per entrare in sala pareva quella per il concerto di una rockstar.
Stasera chiude la campagna a Madrid.
C’è un modo sicuro, in questo Paese, per sapere come stanno le cose: andare a chiedere a chi ha già votato. Qui difatti chi non può andare alle urne la domenica (per qualsiasi motivo, anche per una gita di piacere fuori porta) ha la possibilità di andare alle poste e votare per corrispondenza. Un milione e trecentomila persone, su 24 milioni di votanti, lo hanno fatto alle ultime elezioni. Molti di più promettono di essere questa volta, tanto che la possibilità di votare per correo è stata estesa di due giorni, fino a stasera. Le code negli uffici postali occupano interi isolati. Le foto sono sulle prime pagine dei giornali, dei siti online: il 40 percento di indecisi sembra avviato a decidere.
Quindi vediamo. Proprio in compagnia di Willy Veleta — che molti riconoscono, «Sei tu quello dei video?» — andiamo a Vallecas, quartiere popolare “fuori raccordo”, fortissima presenza di immigrati, zona operaia storicamente di sinistra. Fra chi ha già votato o si appresta a votare, è interessante registrare che chi sceglie la destra lo afferma con orgoglio, si lascia volentieri filmare. Chi ha scelto la sinistra prima si nega, poi dietro insistenza lo “confessa” ma chiede di non essere ripreso. Accade cioè il contrario di quel che — anche dalla fallacia dei sondaggi — abbiamo imparato negli anni: il voto a destra è ora dichiarato con fierezza, quello per il Psoe o per Podemos malvolentieri e sottovoce. Molte le donne tra le elettrici di Vox, all’uscita dall’ufficio postale. Tre amiche, Pilar, Gloria e Ana. Votano per Vox: «Abbiamo bisogno di un cambio, vogliamo più aiuti alla gente di Spagna, vogliamo gli aiuti alle piccole e medie imprese. Non è vero che questo partito sia contro le donne, al contrario: vuole condanne più dure per chi maltratta le donne», dicono. Soprattutto: apprezzano il piglio di Abascal, l’uomo che cavalca i purosangue a pelo, senza sella, che ama le corride, che porta la pistola.
«Quei due sembrano due commessi del Corte Inglés » .
Quei due sono Pablo Casado, il leader del Partito Popolare, e Alberto Rivera, presidente di Ciudadanos. La “ destrucola codarda”, secondo Abascal. Due commessi di un grande magazzino. Anonimi, scambiabili. “ I gemelli”, li chiamano anche.
Una ragazza con un brillantino piercing al naso, Laura, 26 anni, disoccupata: « Ho votato Vox perché chiede il permesso di maternità di sei mesi » . Non pensi che sia una via indiretta per scoraggiare le donne che lavorano? « Per nulla. I neonati hanno bisogno delle madri e non è questo il problema: le donne che lavorano non sono state aiutate da nessuno, in questi anni, e comunque il lavoro non c’è » . Escono ora madre e figlia, tutte e due si chiamano Macarena. La figlia, 30 anni, ha votato Pp, la madre ha votato Vox: « Perché è dalla parte delle donne, perché Abascal è uno che sa quello che vuole, perché la Spagna è una e deve restare unita » . La questione catalana, grande motore della campagna elettorale: l’hispanidad, l’identità e la fierezza della bandiera della nuova- antica destra, contro le ragioni indipendentiste.
Mentre in Rete continua a moltiplicarsi la condivisione del video dell’operaio che vuole “ andare tranquillo alla corrida, e Vox è per la tauromachia” nella vita reale, in piazza, in fila alle poste, al banco del verduraio e alla formata dell’autobus, in periferie, sono le donne, soprattutto, quelle che con fierezza rivendicano di votare, di aver già votato per Vox. Un partito contrario all’aborto, al divorzio. Ci sono i sondaggi, i giornali, ci sono i dibattiti tv. Poi c’è la strada, conviene stare a sentire.
Oggi Abascal chiude la campagna elettorale a Madrid, Plaza de Colón. A casa del nemico. Nei luoghi dove Podemos è nata, dalla protesta degli indignati. Conviene non fidarsi dei talk show, davvero. La rumba della strada dice altro.
Conviene andare a vedere.


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