sabato 31 maggio 2008

l’Unità 31.5.08
Raid del Pigneto. «Non era Chianelli il capo della banda: il capo era un nazista»
L’unica testimone ripete: «L’ho già detto alla Digos: il capo era giovane, aveva una bandana, un foulard con la svastica».
di Anna Tarquini


Simona, la giornalista dell’Agenzia Italia testimone diretta del raid xenofobo al Pigneto, ha ancora «l’immagine chiara» davanti a se. «Quell’uomo - racconta a l’Unità - avrà avuto sui 25 anni e aveva la svastica, era lui che guidava i violenti». Eppure tutta l’attenzione si è spostata sul pregiudicato Dario Chianelli, e sulla sua versione dei fatti: «Non è razzismo, ma la vendetta di quartiere contro uno scippo». Ma tante cose in questa ricostruzione non tornano: «Ha detto che avevano tutti il casco, ma stranamente - prosegue Simona - quello che ho visto io il casco non ce l’aveva. Dicono che c’era anche un ragazzo di colore tra gli aggressori, ma certo l’avrei notato». Ma forse per tanti - anche giornalisti - è più comodo credere a un balordo...
Ripartiamo dalla svastica. L’aggressore del Pigneto aveva o non aveva la svastica? Simona, la cronista dell’Agi che in diretta, seduta sul sellino del suo motorino, ha dettato il primo lancio di agenzia sul raid ancora oggi è sicura di sì, c’era. Ed è certa anche di un’altra cosa: questa storia è molto brutta e si sta dando più credito alla versione di un uomo che ha pure più di un precedente penale rispetto a quella di una giornalista che suo malgrado è stata testimone diretta. «Io ho visto quello che ho scritto, né più né meno. Ho visto questa bandana o questo foulard con dei segni tra cui la svastica. L’ho già detto anche alla Digos». Simona, lo diciamo subito noi, è stata minacciata. In questi giorni ha mantenuto un rigoroso silenzio sulla vicenda, anche se il suo mestiere è raccontare. Lo ha fatto perché è testimone, naturalmente, ma anche perché qualcuno le ha detto papale papale: «Al Pigneto è meglio che non ti fai rivedere per un po’». Simona non crede alla versione di Dario Chianelli, non ricorda di averlo visto davanti all’alimentari del bengalese. Dice: «può essere pure che ci fosse, ma io ho denunciato un’altra cosa, ho descritto un altro uomo come capobanda».
Ripartiamo dai fatti. La rabbia del quartiere, la violenza, l’intolleranza. Poche ore dopo il pestaggio già gira una versione che dice: «Non è razzismo, ma la storia di uno scippo vendicata dal quartiere». Ma in quelle stesse ore e ancora oggi c’è un altro fatto incontestabile: Simona, sabato 24 maggio, alle 17.15 è seduta sul motorino davanti all’alimentari del bengalese e vede arrivare un uomo seguito da altri dieci ragazzi urlanti. Alza il telefono e cerca, invano, di chiamare il 113. «L’immagine è ancora chiara davanti a me. Avrà avuto 20 forse 25 anni e aveva la svastica». Ecco il suo racconto: «Io in questi giorni non sono intervenuta. Ho fatto il mio dovere di cronista, l’ho detto alla Digos, loro hanno detto la loro verità va bene così. La cosa più bella è che per alcuni giornali, come dire, quello che ha detto una persona che comunque ha precedenti penali è oro colato. È arrivato là da solo, c’era casualmente, insomma. Ha detto che avevano tutti il casco, ma stranamente quello che ho visto io il casco non ce l’aveva. Poi ora dicono che c’era anche un ragazzo di colore tra gli aggressori, ma forse l’avrei notato invece non l’ho notato. Insomma una serie di cose che mi lasciano francamente perplessa. Però, siccome io non faccio la commentatrice, e siccome mi hanno fatto capire che devo stare attenta e non avvicinarmi al Pigneto, allora il mio profilo è ancora più basso. Dopodiché magari venisse fuori, ma a questo punto secondo me non verrà mai fuori». Per carità. Tutto può essere. «Magari - dice Simona - quelli erano veramente un’accozzaglia di gente del quartiere, magari la svastica non sanno nemmeno che vuol dire. Boh. Però so che la svastica uno ce l’aveva, poi figurati se può venir fuori, evidente che no».
Il giorno dopo il pestaggio la Digos offre la sua versione: la politica non c’entra. È uno sgarro mischiato all’intolleranza del quartiere che non ne può più di spaccio e risse. Il responsabile - dice sempre la Digos - è un uomo che cercava di riavere il portafogli da un certo Mustafà. Poi è la vendetta verso i bengalesi a colpi di bastone e di sloga: «Immigrati bastardi».
L’altra versione. Niente slogan, niente frasi come «negri bastardi». I dieci, quindici energumeni che hanno preso a mazzate le vetrine dei bengalesi non parlavano, urlavano, come se la spedizione punitiva fosse studiata da tempo a tavolino e dovesse essere rapida e precisa. Già una settimana fa Simona era stata precisa su questa circostanza. Oggi lo è ancora di più. «Sì, urlava e chiamava gli altri. Tra l’altro io ho letto che quello con la magliettina rossa, quello che si è costituito, Chianelli, dice che era il primo. E che poi gli altri sarebbero arrivati dopo. Ora, io ero seduta sul mio motorino, quindi se lui è venuto, a volto scoperto, passeggiando tranquillamente e si è messo davanti all’alimentari può anche essere che io non l’abbia visto. È possibile. E poi sono arrivati gli esagitati dietro, può essere. Detto questo io però ho davanti l’immagine del primo che arriva urlando come un pazzo, arrivano tutti urlando e insieme come massa di dieci persone, quindici persone si gettano contro quello là, contro il bengalese». Il primo che arriva davanti all’alimentari, il capo, secondo Simona non è Chianelli. «Mi sembrava un giovane. Io ho detto anche alla Digos che, considerato che era abbastanza snello, poteva avere sui 25 anni. Però questa è proprio una deduzione. Non era assolutamente Chianelli, anche perché la magliettina rossa mi avrebbe colpito, no? Invece proprio no, non aveva la maglietta rossa. Chianelli dice che è arrivato da solo, questi non li conosceva, giusto? Però poi lui dice: “però io sono di sinistra quindi non c’entra questo fatto della svastica, il razzismo non c’entra”. Però se tu non li conosci non sai quelli come si sono bardati, no? O forse li conosci perché hai visto che possono essere ragazzotti del quartiere, ma tu, se non li conosci, non lo sai quello che si sono messi addosso. Almeno dovrebbe essere così. C’è qualcosa che non mi torna, dopodiché...». Dopodiché Dario Chianelli si offre alla stampa. Racconta il raid, dice: «Sono stato io e la politica non c’entra». Giovedì 29 a mezzogiorno si costituisce. Viene interrogato e poi viene lasciato libero di tornare a casa, accolto tra gli applausi dal Pigneto. Di più. Ormai rinfrancato il quartiere confessa che tra i mazzieri c’è anche un immigrato. «La cosa più grave è la strumentalizzazione - dice Simona - , nel senso che tu fai una cosa, per me è stato uno choc terribile, e tu vedi poi che i colleghi credono più a un balordo che dice delle cose piuttosto che a una persona che non ha motivo di dirti una cazzata. Perché c’era la svastica o non c’era la svastica, sempre quello è. Sempre violenza è. Quindi non capisco perché se c’è la svastica allora è fascista ed è più grave? Io non scrivo per l’Unità, io lavoro per l’Agi quindi... non avrebbe proprio senso. Una storia proprio brutta, proprio brutta».

l’Unità 31.5.08
Razzismi. Strani «Eroi» di quartiere
di Lidia Ravera


«Er Che Guevara der Pigneto» ha i capelli bianchi, tatuaggi sulla pelle e rapine sulla fedina penale, ha un passato da orfanello e un presente da precario, conserva gelosamente ed espone con piacere tutta la mitologia di chi si nutre di fumetti o di B-movie violenti. Concetti tipo: io so’ bbono e caro ma quanno m’incazzo sfascio tutto. Io per mia madre, mia sorella, mia figlia, mia nonna, la mia donna, il mio quartiere sono capace di fare qualunque cosa, anche la peggiore. Sottotesto: e faccio benissimo a farlo (anche se poi mette in guardia dall’imitarlo), in quanto esercito il punto primo del diritto selvaggio applicato.
Cioè: menare e sfasciare chi, a suo insindacabile giudizio, si comporta male è come pisciare ai quattro angoli del proprio territorio, delimitandolo.
Nel territorio detto «il Pigneto», «Ernesto», al secolo Dario Chianelli, ci è nato, ci è vissuto e ci morirà, nessuno deve pestargli i piedi, perché quelle quattro strade, quei bar, quelle botteghe sono casa sua. Quelli che sono arrivati dopo, sono degli ospiti. E gli ospiti devono comportarsi bene, sono in casa di Dario, perché tutti lo conoscono, perché chi lo conosce lo rispetta, perché chi non lo conosce ancora imparerà a conoscerlo e a rispettarlo, cioè ad aver paura di lui.
Perché lui è buono e caro ma i senegalesi, i bengalesi, i marocchini, i tunisini devono rigare dritto. Come tutti gli altri.
Perché lui può «rubare per fame» e non lavorare («E che uno nato il 1° maggio po’ lavora’?») e restare un santo, ma loro se rubano un portafoglio lui li gonfia. Perché nel quartiere suo non si deve rubare, ci vuole «rispetto». C’è quasi da invidiarlo il Che Guevara del Pigneto per le sue incrollabili certezze, in un momento in cui noi, nutriti da altri film e da altre letture, abbiamo il cuore pesante e la testa piena di dubbi. C’è da invidiare lui e i «pischelli» che gli ronzano attorno perché l’ignoranza e il bisogno di scaricare la rabbia per una vita grama, conferisce loro un’identità collettiva, un sentimento comune, una sorta di epos delle loro loro giornate sgangherate.
C’è da invidiarli perché si sentono eroi del cartone animato che hanno in testa. Per questo rifiutano di etichettare come razzista la spedizione punitiva contro il negozio del nemico. «Razzista» è un aggettivo che non sta nel linguaggio del fumetto. Devi essere proprio un naziskin per accettarlo e gloriartene. Ne ho sentiti tanti (anche certi politici che hanno sempre qualcosa di verde addosso) e tanti ne posso immaginare che, appena finito di dare fuoco a una ipotetica Moschea , già dichiarano al telegiornale che loro rispettano tutti, ma quando è troppo è troppo: questi sono barbari, addirittura pregano col sedere per aria! Fascista io? Ma per carità… Solo perché ho sfasciato il negozio di un bengalese che non mi ha fatto ritrovare il portafiglio di una mia amica? Ma per carità: il nonno della mia ex moglie era socialista, il mio tatuaggio preferito è Che Guevara… come fate a dire che sono fascista? Soltanto perchè mi vendico personalmente dei torti subiti invece di rivolgermi alla giustizia? Solo perchè esercito la violenza e la sopraffazione, mi vendico da me senza disturbare «le guardie», solo perché non credo nelle istituzioni? Solo perché faccio la voce grossa e impongo il rispetto con la forza? Sì, solo per quello. Basta e avanza.
Esistono comportamenti «fascisti» , e chiunque abbia qualche consuetudine con la storia può documentarsi in merito. Non è un’attenuante che le squadracce del presente non abbiano alibi ideologici. È un’aggravante. Se nel ventennio poteva esserci qualche povero gonzo che davvero credeva in Mussolini e si comportava male di conseguenza, oggi, che nessuno crede più in niente e se ne vanta, non ci sono giustificazioni, per assalti, aggressioni, incendi e persecuzioni.
È la nuda e pura responsabilità individuale. È un atto criminale, punto e basta. E, personalmente, riterrei opportuno un giudizio severo anche nei confronti di un eventuale manipolo di giovanotti «di sinistra» , se andassero a randellare in giro questo o quello, a scopo di ritorsione.
Quando, nei tardi anni settanta, alcune teste marce di «Prima Linea» (terroristi e di sinistra) decisero di andare a gambizzare e intimidire a colpi di pistola , qui a Roma, sospetti spacciatori di quartiere, per salvaguardare la peggio gioventù e per continuare a scrivere col sangue la loro stupida epopea, ricordo bene, benchè fossi una ragazzetta, la vergogna che provai per loro e la repulsione, per il fatto che si conclamavano «comunisti». Oggi il comunismo è defunto e la parola «sinistra» è stata pensionata a forza.
Che Guevara, pace all’anima sua, abita stabilmente sulle T-shirt di chiunque, pochi sanno qualcosa del suo pensiero e delle sue azioni, ma molti conoscono la sua barba e la sua motocicletta.
Oggi, forse, se vogliamo provare e tracciare un discrimine fra «noi» e «loro», fra i buoni e i cattivi, è meglio ripartire dai fondamentali, è meglio metter giù, nero su bianco, pochi princìpi, da condividere e, soprattutto, da mettere in pratica. Uno potrebbe essere, se i cattolici mi consentono questa incursione nel loro territorio, questo: «Non fate agli altri quello che non vorresti fosse fatto a voi».
www.lidiaravera.it

l’Unità 31.5.08
«Bella ciao» ora ha la sua Festa
Dal 20 al 22 giugno la prima festa nazionale dell’Anpi. In nome dei fratelli Cervi
di Nedo Canetti


È LA PRIMA Festa nazionale dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani). Si svolgerà nel Parco del Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia) dal 20 al 22 giu-
gno, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. Lo ha annunciato il senatore Armando Cossutta del direttivo nazionale dell’Anpi insieme a Raimondo Ricci, vice presidente vicario. «L’attualità dei valori della Resistenza e della Costituzione - ha sottolineato Cossutta - che hanno assicurato al Paese pace e democrazia per sessant’anni, sarà il filo conduttore della manifestazione, nel corso della quale saranno organizzati quattro laboratori storico- culturali, ai quali parteciperanno studiosi, intellettuali, scrittori, dirigenti politici».
La Festa è stata concepita e organizzata da un gruppo di giovani, iscritti all’Anpi quando l’Associazione, con la modifica dello Statuto, ha aperte le porte anche a chi non ha partecipato direttamente alla Resistenza. La scelta della località nasce dal forte significato simbolico che la terra dei Cervi ed il Museo lì sorto in loro ricordo, hanno rivestito per l’intero movimento resistenziale e per le generazioni successive. È stata, per prima, Maria Cervi, figlia di una del sette fratelli martiri, purtroppo deceduta lo scorso anno, a credere in questo progetto. Con lei hanno inizialmente lavorato questi giovani, che poi hanno portato al traguardo l’ idea, scaturita durante i lavori del 14° Congresso dell’Anpi di Chianciano.
Sarà vera Festa. Non solo convegni, dibattiti e laboratori di studio, sono in programma, infatti, ma anche eventi musicali, ludici, culturali. L’iniziativa, illustrata da Alessandro Frignoli, responsabile della Festa e dalla direttrice del museo e sindaco di Gattatico, Cantoni, sta riscuotendo, in tutto il Paese, larghe adesioni. Da Ciampi a Veltroni, da Epifani a Finocchiaro, da Ingrao a don Ciotti, da Errani a Marazzo, a Vendola, a Soru, da Marina Sereni a Diliberto a Rodotà a Zavoli, da Carla Fracci a Scarpati,al Presidente emerito della Corte Costituzionale, Giuliano Vassalli, presente alla conferenza stampa, sono centinaia le personalità della politica, della cultura (forte l’impegno anche organizzativo dell’Arci), dello spettacolo, del mondo sindacale che hanno già fatto pervenire l’adesione. Alcuni saranno presenti alla Festa. «Mi auguro che i giovani - è il messaggio di Margherita Hack - ritrovino l’entusiasmo per i grandi ideali di solidarietà che hanno animati i giovani di 60 anni fa».
L’iniziativa si colloca in un momento particolare della situazione dell’Italia, nel quale rigurgiti fascisti si stanno materializzando in diverse parte del Paese. «I valori di libertà e giustizia - ha insistito Cossutta - che sono alla base della Costituzione antifascista, sono attualissimi in un momento in cui tendono a prevalere il qualunquismo e l’antipolitica, che aprono la strada agli attacchi alla Resistenza, agli atti di intimidazione razzista e fascista, da Verona a Roma, che chiedono una riconciliazione senza verità, equiparando il torto degli sconfitti alle ragioni dei vincitori». «La festa - ha concluso - vuole anche essere un chiaro no al revisionismo culturale e storico».

l’Unità 31.5.08
Italiana, ha la pelle nera, ride con la figlia. Insultata e minacciata nel centro di Roma


L’ultima aggressione ieri mattina in pieno centro a Roma. Per la terza volta in quindici giorni si è sentita dire frasi come «Sporca negra, che c… vuoi?», «C’avete rotto, tornatevene al vostro Paese». E lei, Annaz, 48 anni, passaporto delle Isole Mauritius ma cittadina italiana, sposata da venticinque anni con un calabrese, due figlie, da sempre impegnata socialmente nella capitale, ieri ha cercato di rispondere. Poi quando uno di quei tre uomini che l’avevano insultata, le si è avvicinato come nel tentativo di darle una testata, ha avuto paura. E sconforto per quelle persone affacciate ai balconi che non dicevano nulla. Anzi ridevano.
«Non so cosa sta succedendo - ci racconta - Temo per le mie figlie. Saranno sempre straniere perché la pelle è quella che parla. Non importa se sei nato qui, se ti sei sempre comportato bene. Dobbiamo scriverci sulla faccia che siamo cittadini italiani?».
Storie di quotidiani soprusi a sfondo razzista. Che colpiscono anche chi come Annaz fa volontariato ad anziani e disabili, la domenica distribuisce i pasti ai senzatetto e non ha mai avuto problemi con la legge. Solo per il colore della pelle, com’è accaduto a Roma per tre volte in quindici giorni. Ieri l’ultimo episodio. Annaz passeggia per le vie del centro con sua figlia. Ridono e scherzano. Tra le due vola qualche sfottò. È a quel punto che si fanno avanti tre uomini. «Che c… hai detto? Guarda che questa non è casa tua. Vedi di tornartene al tuo paese» gli fa uno. Inutile il tentativo di spiegare. L’uomo le si avvicina come per darle una testata. Dai balconi alcuni residenti ridono. Annaz e sua figlia scappano e ora lei non fa che ripetere: «Che futuro avranno i miei figli? Saranno sempre stranieri».

l’Unità 31.5.08
La prima volta del reato di clandestinità. E la legge non è più uguale per tutti
Milano, processo per direttissima, e per accuse diverse, a un cileno, un ucraino, un marocchino e un moldavo
di Giuseppe Caruso


LEGGE È toccata a Milano la «medaglia» per la prima applicazione del reato di clandestinità. L’aggravante, prevista nel decreto Maroni sulla sicurezza, è stata
utilizzata ieri mattina in alcuni processi per direttissima che si sono tenuti nel capoluogo lombardo.
L’aggravante generica, inserita all’articolo 61 del Codice Penale al numero 11 bis, è stat a contestata, nell’ordine, ad un cileno di 18 anni accusato di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale nel pronto soccorso della clinica Santa Rita, ad marocchino di 27 anni sorpreso con 80 grammi di cocaina ed eroina ed infine ad un ucraino di 32 anni e un moldavo di 25, arrestati per il furto aggravato di 6 televisori e 30 paia di scarpe.
Nel loro capo di imputazione si legge che il delitto è aggravato dal fatto che il reato «è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale», esattamente come previsto dal tanto discusso decreto Maroni.
L’avvocato Mario Petta, difensore del diciottenne cileno, ha fatto sapere che assieme ai legali degli altri imputati a cui è stata contestata l’aggravante della clandestinità «solleveremo in aula una questione di legittimità costituzionale della norma, che è contraria all’articolo 3 della Costituzione, per la quale la legge è uguale per tutti. A questa stregua, sarebbe come dire che chiunque abbia i capelli biondi, oppure neri, e commette un reato, dev’ essere condannato a un terzo in più della pena. A mio avviso si tratta di una norma palesemente incostituzionale».
Gennaro Carfagna, che difende il marocchino di 27 anni arrestato per possesso di droga, ha aggiunto che comunque tutti i legali «aspetteranno di vedere cosa farà il giudice, che potrebbe decidere di sollevare lui stesso l’incostituzionalità della norma».
Il processo per direttissima è un procedimento penale non ordinario a cui si ricorre in caso di arresto in flagranza di reato o confessione dell’imputato. L’iter è molto più veloce di un normale processo e vengono saltate le fasi preliminari del processo, sia le indagini che l’udienza. Il giudice dovrebbe già decidere domani. A quel punto si dovrà attendere la decisione della Corte costituzionale sull’aggravante, intanto gli imputati verranno giudicati per gli altri reati. Nel caso in cui i giudici della Consulta dovessero giudicare la norma affetta da illegittimità costituzionale, farebbero decadere il reato di clandestinità.
Il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, ieri ha ribadito come secondo lui «i clandestini devono stare a casa loro, visto che di nullafacenti e accattoni, extracomunitari o comunitari, ne abbiamo già abbastanza dei nostri. L’attuale legge Bossi-Fini prevede che chi non ha casa e lavoro deve fare i bagagli e il pacchetto sicurezza Maroni dice che per questi individui la vacanza è finita».

l’Unità 31.5.08
Zingari, quei lavori negati
di Dijana Pavlovic


Dopo i roghi di Ponticelli, gli sgomberi dei campi nomadi, gli episodi di violenza e intolleranza di questo scorcio di 2008, una delegazione delle maggiori associazioni europee che tutelano i diritti dei Rom sta visitando le città d’Italia nelle quali è più critica la situazione del mio popolo.
Ieri ho accompagnato nel campo «nomadi» di via Triboniano di Milano alcuni membri di questa delegazione che hanno avuto un lungo incontro con le comunità rumene e bosniache che vi sono ospitate.
Mentre raccontavo che chi vuol visitare il campo deve avere il permesso del Comune - qualche giorno fa una giornalista della Rai che mi ha chiesto di portarla nel campo ha dovuto chiedere l’autorizzazione che è stata concessa solo a condizione che la troupe fosse accompagnata dai vigili - i rom si avvicinavano prima diffidenti poi, dopo che ho spiegato chi erano i delegati, con dei documenti in mano.
Documenti di storie penose come quella della donna disperata che ci racconta di suo marito. Aveva avuto una espulsione tempo fa, quando la Romania non era ancora nell’Unione Europea, e adesso durante un controllo è stato arrestato e portato in un Cpt come se non fosse un cittadino comunitario.
Ma perché all’inizio c’era tanta diffidenza e mi chiedevano se quelle persone con me erano giornalisti?
Ce lo spiegano alcuni uomini: ci parlano del loro bisogno di farsi sentire, di raccontare le loro storie, la loro vita in questo Paese e dell’informazione che non è mai a loro favore, ma soprattutto ci raccontano quello che gli succede quando vengono riconosciuti come «zingari» dal loro datore di lavoro. Dieci di loro hanno perso il lavoro perché il loro padrone li ha cacciati dopo aver visto in televisione un servizio sul campo e li ha riconosciuti. E allora? Allora lavoro nero. Mi raccontano che se sei zingaro ti pagano 4 euro all’ora, se sei rumeno 5 euro, se sei albanese 6 euro e così via.
Poi c’è il rom che lavora per una società che smantella l’amianto che ci dice che non vuole perdere il suo lavoro esponendosi o partecipando a iniziative che raccontino che i rom non solo lavorano ma si prendono anche i lavori più schifosi.
Si arriva poi al paradosso dell’uomo che ci fa vedere la sua carta d’identità, rilasciata dal Comune di Milano. C’è scritto: «residenza: via Barzaghi 16 - campo nomadi». Come a dire, se fai vedere il tuo documento nessuno ti prende a lavorare. Poco più di sessant’anni fa ci mettevano il triangolo marrone per identificarci come razza da sterminare. Oggi ci si limita a identificarci come zingari per escluderci dai diritti fondamentali di ogni cittadino come quello al lavoro, che vuol dire alla dignità della vita.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 31.5.08
A Milano il 4 e 5 giugno
Filosofia e scienza pensano insieme


La Società Filosofica Italiana e la Società Italiana di Logica e di Filosofia della Scienza promuovono una due giorni sul tema La filosofia, le scienze (4 e 5 giugno a Milano). A dialogare su mente, cervello, emozioni, linguaggio, passioni, arte, natura, etica, numerosi studiosi, filosofi e scienziati, tra i quali Laura Boella, Fiorenza Toccafondi, Corrado Sinigaglia, Giulio Giorello, Salvatore Natoli, Armando Massarenti, Ivana Bianchi, Maurizio Ferraris, Elena Castellani, Paolo Parrini, Maria Luisa Dalla Chiara, Carla Bagnoli, Mario De Caro, Michele Lenoci, Alessandro Pagnini. Il programma delle due giornate prevede anche una incursione nei rapporti tra cinema e filosofia, con la proiezione di Blade Runner di Ridley Scott e La via Lattea di Luis Buñuel.

l’Unità 31.5.08
Quando la bioetica non ha pregiudizi
di Maurizio Mori


La riflessione proposta in questa pagina oggi riguarda un tema nuovo della bioetica, affrontato da un importante documento che proponiamo in traduzione italiana. Elaborato nell’aprile scorso da una cinquantina di studiosi che si sono riuniti per due giorni a Hinxton, 15 km da Cambridge, il documento è frutto di una discussione approfondita e mostra come procede la riflessione bioetica in campo mondiale. Mentre da noi il dibattito tende ad avvitarsi su questioni antiche che dovrebbero essere ormai risolte, al di là delle Alpi si prendono sul serio le sfide poste dalla ricerca scientifica e si riflette esaminando gli argomenti per dare risposte meditate. La nuova prospettiva aperta dalla ricerca è frutto di una recente scoperta, i cui aspetti tecnici sono chiariti da Giovanna Lazzari e Cesare Galli nell’altro articolo. Si tratta della possibilità di far regredire le cellule adulte allo stadio della pluripotenza (capaci di produrre tutti i tipi di cellule del corpo, ma non quelle della placenta). La scoperta sembrava poter portare un po’ di calma e serenità nel turbolento dibattito sui problemi della ricerca, perché fornisce un “metodo etico” che rende disponibili cellule pluripotenti senza toccare l’embrione. Per questo i cattolici hanno subito acclamato alla scoperta ed in Italia è stata proposta una moratoria per sospendere la ricerca sulle cellule staminali embrionali, essendo ora disponibile un metodo alternativo col sigillo dell’etica. Eppure, lo stesso metodo solleva ora altri problemi etici. Infatti, se si prende ad esempio una cellula della pelle, è possibile farla regredire allo stadio della pluripotenza, e poi di lì farla andare avanti dirigendola in modo tale da ottenere dei gameti, da cui - grazie alla fecondazione in vitro - dar origine ad un nuovo organismo. In breve: in futuro, partendo da una cellula della pelle potrebbe diventare possibile generare un bambino. Di fronte a queste opportunità, s i deve prendere atto che i processi vitali stanno sempre più diventando controllabili come la materia inorganica. Mentre in passato la vita era qualcosa che sembrava sfuggire alla conoscenza ed al controllo umano, qualcosa di avvolto da un mistero che emanava venerazione e sacralità, ora sta diventando un elemento plasmabile. Questo processo di secolarizzazione del biologico ci costringe a rivedere i parametri di accostamento alla riproduzione, che diventa sempre più oggetto di scelta umana: non solo se generare o no, ma anche come generare diventa frutto di responsabilità umana. Soprattutto l’effetto dirompente è che si mostra la vacuità dell’idea che ci siano dinamismi intrinseci alla vita che rivelano un disegno naturale ritenuto inviolabile. Questo diventa un mito analogo a quelli alimentati dall’ingenua conoscenza degli astri precedente la rivoluzione astronomica. Viene da chiedersi se, per quei paradossi che spesso si verificano nella storia, quel metodo Yamanaka acclamato dai cattolici come “etico” non si riveli un boomerang che, tornando al padrone, lo colpisce alla caviglia facendolo sgretolare.
Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino
i due articoli citati che corredano la pagina sono disponibili per chi ne faccia richiesta scrivendo una email a "segnalazioni"

Corriere della Sera 31.5.08
Lecco Per 5 ore nel cortile della scuola. Era il giorno del suo compleanno
«L'ho dimenticata in auto» Muore bimba di due anni
Il parroco: «Sono vicino ai genitori»


MERATE (Lecco) — «Ho dimenticato la bimba in macchina »: al marito, al parroco, ai carabinieri che l'hanno interrogata per tutta la sera, a chiunque Simona ha gridato con la forza della disperazione la sua versione sulla morte della piccola Maria, la sua figlioletta di due anni, trovata in fin di vita all'interno dell'auto di famiglia.
Simona Verzelletti, 39 anni insegnante di scienze al liceo scientifico Agnesi di Merate, ha raccontato di essersi scordata la sua terzogenita — che ieri mattina avrebbe dovuto essere affidata alla baby sitter — sul seggiolino della macchina prima di presentarsi in classe. Dopo cinque ore di permanenza dell'abitacolo, quando la fatale dimenticanza è venuta a galla, mamma e bimba si sono precipitate in ospedale, con Maria ormai cianotica. Ogni tentativo di rianimazione è stato vano. Maria è morta, ma le cause del decesso sono ancora misteriose. Hanno tentato di chiarirle i carabinieri, che ieri fin dopo le 23 hanno interrogato Simona nella caserma di Merate, alla presenza di un avvocato. Ma sull'esito del faccia a faccia, nulla per ora è trapelato.
Il primo a rendersi conto di quanto era accaduto è stato il marito della donna, Sergio Campana, ricercatore all'osservatorio astronomico di Brera a Milano.
Ieri, poco dopo le 13, è rincasato nella villetta di famiglia in via fratelli Cervi a Robbiate (Lecco) e ha trovato nella segreteria telefonica una serie di messaggi, piuttosto preoccupati, della baby sitter. «Perché non mi avete portato Maria? È successo qualcosa?», chiedeva la donna. Sergio ha contattato la moglie, che stava ancora tenendo lezione a scuola; a quel punto Simona è parsa folgorata.
La giornata di ieri in Brianza era tutt'altro che torrida, ha piovuto quasi tutto il giorno e dunque è difficile ipotizzare una disidratazione della piccola. Nessuno comunque si è accorto di lei, forse perché la macchina non era parcheggiata in un punto particolarmente visibile.
Dall'ospedale Simona Verzelletti è stata portata in caserma e da lì ha chiamato don Paolo, il parroco di Robbiate: «Anche a me ha detto piangendo che aveva dimenticato la piccola sulla macchina — racconta il sacerdote —. Lei è insegnante di catechismo qui in parrocchia, tutta la famiglia è molto unita. Starò loro il più vicino possibile». Nella vita di Simona e del marito non ci sono ombre: l'unico motivo di preoccupazione è stato un delicato intervento chirurgico a cui Sergio si era sottoposto di recente ma che si era risolto positivamente. «Forse è stato lo stress per quella malattia », commenta don Paolo. Forse, però non è ancora abbastanza per comprendere quanto accaduto.

Corriere della Sera 31.5.08
E negli Usa il creazionismo torna di moda


È una cifra da brivido quella emersa negli Stati Uniti da un sondaggio tra gli insegnanti di scienze nella scuola superiore: ben il 16 per cento si dichiara creazionista, cioè contrario all'evoluzione di Darwin.
Quindi accade che anche se sono costretti ad insegnarla, tendono a dedicarle sempre meno tempo e a presentarla, di certo, non nel modo più appropriato. Non basta dunque, come era prevedibile, il pronunciamento di diverse corti di giustizia americane che avevano decretato un principio importante: il creazionismo e la teoria del «disegno intelligente» sono una religione non una scienza e quindi non devono trovare posto nell'insegnamento scientifico scolastico. La realtà è un'altra e ben radicata con sfumature di interesse non trascurabili, spesso di natura politica. Lo stesso «ambientalista puro» e democratico Al Gore quando era in campagna elettorale per salire alla Casa Bianca aveva strizzato l'occhio ai creazionisti consapevole del loro prezioso consistente numero. Ora l'indagine in duemila high-school distribuite un po' in tutti gli Stati dice che il 2 per cento degli insegnanti di scienze non insegnano l'evoluzione. Un quarto degli insegnanti precisa che dedicano lo stesso tempo ad insegnare il creazionismo e l'evoluzionismo. Metà di loro, inoltre, afferma convinta che «il disegno intelligente è una valida e scientifica alternativa alla spiegazione di Darwin sull'origine delle specie». E ancora: il 16% dei docenti scientifici sostiene di credere che l'uomo sia stato creato da Dio negli ultimi 10 mila anni.
Il fenomeno, comunque, non è solo un'anomalia americana.
Anche in Italia nei programmi della scuola superiore l'ex-ministro Moratti aveva cancellato l'insegnamento dell'evoluzione. E nonostante le proteste e l'intervento di una commissione di scienziati illustri nulla è accaduto. Il contagio continua.

Repubblica 31.5.08
"Lo sguardo di Giano" di Carlo Galli
Oltre il nazismo di Carl Schmitt
di Franco Volpi


«È ora di smetterla con i toni tribunalizi», si lamentava già negli anni Settanta Hans Blumenberg in merito al caso Carl Schmitt. In seguito a quel lamento il rabbino Jacob Taubes cercò, e ottenne, il contatto personale con Schmitt. Nel vedere ancor oggi
il grande giurista attaccato da mediocri professori, lesti a emettere sentenze senza nemmeno una cognizione precisa della materia, viene alla mente una immagine: quella di cagnolini che, per sentirsi grandi, fanno pipì su una piramide.
Dopo la polemica sollevata dall'opuscolo di Yves Charles Zarka (Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt , il melangolo), sostenuto dallo storico della scienza Paolo Rossi improvvisatosi schmittologo, prende ora la parola Carlo Galli, il più autorevole studioso italiano dell'argomento, ristabilendo le proporzioni e mettendo in chiaro le cose. Nella sua magistrale silloge di studi Galli osserva, intanto, che il nazismo non è affatto un dettaglio nel pensiero di Schmitt, ma un elemento pesante della sua esperienza umana, politica e intellettuale. Sarebbe tuttavia un errore fatale assumerlo come «chiave esclusiva per comprendere il suo pensiero, antecedente e seguente la pur cospicua fase nazista»: bisogna tenere distinti la "dottrina" dal "pensiero" di Schmitt, il lato "ideologico" dall'efficacia "teorica" della sue analisi.
Già nella sua summa sull'opera schmittiana, Genealogia della politica (il Mulino), Galli aveva documentato tutta la capacità del controverso pensatore nell'attingere alla struttura profonda della modernità e nel capire il funzionamento di quella costruzione politica tipicamente moderna che è lo Stato. In questi saggi, Lo sguardo di Giano , egli approfondisce alcune intuizioni della teoria politica schmittiana che sono state recepite perfino a sinistra, determinando la sua vasta fortuna postuma. Tra queste c'è anzitutto l'idea che la forma dello Stato sia una compattazione della comunità politica relativamente recente, avvenuta soltanto in età moderna. In tal senso Schmitt ha dato un contributo essenziale alla relativizzazione storico-concettuale della nozione di Stato, alla ricostruzione della sua nascita e all'analisi della sua attuale crisi di legittimità, con la conseguente critica del parlamentarismo e dei limiti della rappresentanza tradizionale. Strettamente congiunta a ciò è l'ipotesi della "teologia politica", che Schmitt ha riportato in auge e ha sfruttato come chiave ermeneutica per spiegare la genesi dei concetti portanti della scienza politica moderna, procedenti dalla secolarizzazioni di altrettante categorie teologiche. Un'ipotesi, questa, che consente di capire anche perché lo Stato liberale moderno viva di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire.
Nell'ultima sua grande opera, Il nomos della terra , con la diagnosi della crisi dello jus publicum Europeum Schmitt sollevava un lungimirante interrogativo: dopo la fine dell'ordinamento politico-giuridico continentale della vecchia Europa e l'entrata in scena degli Stati Uniti d'America, come è possibile un nuovo nomos su cui basare il governo del mondo? Per quanto attuale appaia la questione, Galli su questo punto si smarca da Schmitt: le categorie e i paradigmi concettuali da lui messi in campo rimangono vincolati alla modernità, e se applicati alla realtà politica attuale perdono il loro carattere stringente. Rispetto al mainstream liberale della politica moderna, effettivamente Schmitt risulta marginale. Certo, si tratta di una marginalità feconda perché apre uno sguardo alternativo sulle logiche politiche della modernità. Ma le nuove dinamiche della realtà globalizzata sembrano spiazzare il suo pensiero politico e consegnarlo all'inattualità.

Repubblica 31.5.08
Jervis contro Basaglia
di Simonetta Fiori


Una rilettura dissacrante dell´antipsichiatria e del suo fondatore Basaglia firmata da Giovanni Jervis, protagonista di quel movimento e stretto collaboratore del medico veneziano. Bollati Boringhieri annuncia per settembre un libro che solleverà non poche discussioni. S´intitola La razionalità negata - proprio a ricalco del celebre L´istituzione negata - ed è un profondo ripensamento di quella esperienza di critica alla psichiatria tradizionale che portò alla chiusura dei manicomi. Il tentativo - spiega nell´introduzione Gilberto Corbellini - è quello di sottrarre l´antipsichiatria dall´alone di mito che l´avvolge, mostrandone anche velleitarismi, contraddizioni, pesanti ideologismi.
Jervis rivela alcuni retroscena a proposito dell´Istituzione negata, apparso nel 1968 da Einaudi con la firma di Basaglia ma curato sostanzialmente da Jervis. Nessuno dei due autori, qualche tempo dopo, voleva farsi carico del titolo. «Ci sentivamo entrambi un po´ a disagio (non in colpa) perché l´istituzione negata era una dizione trionfalistica». Quel titolo pareva suggerire una cosa che nei fatti non era vera, «ossia che una istituzione come un vecchio manicomio di medie dimensioni potesse ribaltare la propria essenza, esistere nel suo rovesciamento. Divenire il luogo dove una rivoluzione culturale aveva creato la possibilità di vivere tutti quanti alla pari, anche i cosiddetti matti, secondo inediti valori umani».
Dopo averne rimarcato l´originalità e il coraggio, Jervis non manca di esprimere riserve verso "l´egocentrismo un po´ esclusivo" mostrato da Basaglia negli anni di Gorizia e, nel periodo successivo, verso quel "romantico protagonismo" che lo rese prigioniero del suo stesso mito. Un vero culto della personalità, scrive Jervis, da cui egli non seppe o non volle liberarsi.

Repubblica 31.5.08
Quando la ricchezza genera la fame
di Amartya Sen


A provocare la crisi alimentare globale c´è per prima cosa una domanda in continua crescita. E ad aggravarla ci sono le scelte politiche sbagliate in primo luogo quelle degli Stati Uniti

Una politica di governo totalmente sbagliata non fece altro che peggiorare il divario: decisi a evitare in pieno conflitto che la popolazione urbana fosse insoddisfatta e irrequieta, i britannici al potere acquistarono nei villaggi i generi alimentari e li rivendettero con forti sussidi nelle città.

Questa loro mossa fece salire ancor più il prezzo dei prodotti delle campagne: nei villaggi chi guadagnava già poco iniziò a patire la fame e nella carestia e nel periodo immediatamente successivo morirono tra i due e i tre milioni di persone.
Si discute molto oggi, e per giusti motivi, del divario creatosi tra chi ha (i ricchi) e chi non ha (i poveri) in un´economia globale, ma di fatto i poveri di questo pianeta si dividono anch´essi in due fronti: quelli che stanno iniziando a migliorare la loro condizione e quelli che non ci riescono. La rapida espansione economica in Paesi quali Cina, India e Vietnam tende ad aumentare fortemente la richiesta di cibo. Di per sé, ovviamente, ciò è positivo e se questi Paesi riuscissero di fatto a ridurre le sperequazioni interne in fatto di crescita, anche chi è nella condizione peggiore riuscirebbe a nutrirsi meglio.
Tuttavia, quella stessa crescita esercita pressioni sui mercati alimentari globali, talvolta tramite l´aumento delle importazioni, altre volte tramite restrizioni o divieti alle esportazioni volti a moderare l´impennarsi dei prezzi dei generi alimentari internamente, come accaduto di recente in vari Paesi, tra i quali India, Cina, Vietnam e Argentina. I più duramente colpiti sono stati ancora una volta i poveri, specialmente in Africa.
Esiste anche una versione più high-tech di questa storia. I raccolti di prodotti agricoli come mais e soia possono essere destinati alla produzione di etanolo, da utilizzare come combustibile per gli autoveicoli. Lo stomaco degli affamati, pertanto, adesso deve competere anche con i serbatoi delle automobili. Anche in questo caso una politica di governo assolutamente sbagliata ha una sua parte di responsabilità: nel 2005 il Congresso degli Stati Uniti ha iniziato a imporre un più ampio uso dell´etanolo come carburante. Questa legge insieme ai relativi sussidi ha creato negli Stati Uniti un florido mercato del granoturco, ma al contempo ha per così dire dirottato le risorse agricole dal mercato alimentare a quello dei combustibili. Per uno stomaco affamato competere con tutto ciò è ancora più difficile.
Usare l´etanolo serve a poco per eludere il riscaldamento globale e precludere un ulteriore degrado ambientale, ma si potrebbe urgentemente porvi rimedio con riforme politiche lungimiranti, se la politica americana lo permettesse. Si potrebbe disincentivare l´uso dell´etanolo, invece di sostenerlo finanziariamente e di caldeggiarlo.
Il problema alimentare globale non è provocato da un calo della produzione mondiale, né, per ciò che può contare, nella produzione di cibo pro capite (cosa che si afferma spesso, senza per altro presentare prove attendibili). È conseguenza, invece, di una domanda in forte crescita. Un problema indotto da un aumento della domanda in ogni caso impone anche una rapida espansione della produzione di generi alimentari, che potrebbe essere realizzata tramite una maggiore collaborazione globale. Se la crescita della popolazione è responsabile soltanto in minima misura dell´aumento della domanda di cibo, può però contribuire al riscaldamento globale e il cambiamento del clima sul lungo periodo può mettere a rischio l´agricoltura. Per fortuna, la crescita della popolazione mondiale sta già rallentando e ci sono ormai prove evidenti che dando maggiori poteri alle donne (ivi compresa una migliore educazione scolastica alle bambine) la si può ridurre ancor più.
Molto più impegnativo è individuare politiche efficaci in grado di gestire le conseguenze di un´espansione incredibilmente asimmetrica dell´economia globale. Le riforme economiche interne sono terribilmente necessarie in molti Paesi a crescita lenta, ma c´è anche bisogno immediato di maggiore collaborazione e di più rilevanti aiuti globali. Il primo passo consiste nel comprendere la natura del problema.

©2008 The New York Times (Distributed by The New York Times Syndicate)
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 31.5.08
La famiglia. Storia di un legame complicato
di Piergiorgio Odifreddi


Per gli Inuit dell´Alaska i rapporti sessuali tra partner istituiscono legami permanenti e permettono unioni intrecciate
Diversamente dalla poliginia la poliandria, diffusa in Congo, Kerala e Tibet, crea problemi per riconoscere la paternità
È stato il Concilio di Trento ad imporre l´indissolubilità del matrimonio ai cattolici: il Vangelo non è così categorico Un pamphlet dell´antropologo Francesco Remotti

Nel 1859 il re Vittorio Emanuele II concesse con Regio Decreto alla sua amante, la Bela Rosin, il casato di Mirafiori e Fontanafredda, il cui motto era ironicamente «Dio, Patria e Famiglia». Nel 1945 il duce Benito Mussolini fu fucilato dai partigiani insieme alla sua amante, Claretta Petacci, dopo che il fascismo aveva proclamato lo stesso motto per un ventennio. E ancora nel 2007 i leader della destra Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, tutti regolarmente divorziati e risposati, hanno partecipato a un Family Day ispirato ancora una volta ai valori dell´imperituro motto.
Passando dai comportamenti individuali ai pronunciamenti ufficiali, l´articolo 29 della Costituzione recita: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», con una formulazione di compromesso raggiunta il 22 dicembre 1947 dall´Assemblea Costituente fra le opposte formulazioni della destra («la famiglia è una società naturale») e della sinistra («la famiglia è un´istituzione morale»).
Dal canto suo, l´articolo 338 del Compendio del Catechismo afferma che «l´unione matrimoniale dell´uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla generazione dei figli ed è indissolubile, secondo l´originario disegno divino». E l´articolo 502 enumera tra le offese alla dignità del matrimonio «l´adulterio, il divorzio, la poligamia, l´incesto, la libera unione (convivenza, concubinato) e l´atto sessuale prima o al di fuori del matrimonio».
Naturalmente, se il matrimonio eterosessuale, monogamico, procreativo e indissolubile fosse veramente espressione di una volontà divina, anche solo nel senso debole di essere stata enunciata esplicitamente da un testo ritenuto sacro, ci sarebbe poco da discutere, almeno per i fedeli. Il fatto è che questa supposta volontà divina non sembra invece essere altro che l´espressione dei desideri delle gerarchie ecclesiastiche: almeno per quanto riguarda la monogamia e l´indissolubilità tutto si può dire, infatti, meno che la Bibbia ebraica impedisse la poligamia e il divorzio, come testimoniano le storie di patriarchi come Abramo o Giacobbe, o di re come Davide o Salomone. E i l comandamento «non desiderare la donna d´altri» intendeva semplicemente preservare i beni del prossimo, in un ordine d´importanza in cui la moglie veniva prima degli schiavi e delle bestie, ma dopo la casa!
Coerentemente, gli Ebrei rimasero poligami a lungo. Verso l´anno 1000 un decreto del rabbino Gershom di Magonza proibì la poliginia agli Aschenaziti (gli Ebrei europei, che vivevano in ambienti cristiani), ma ancora nel 1578 il vescovo di Feltre rilasciava a un ebreo della sua diocesi il permesso di avere una seconda moglie, «secondo la legge del sacrosanto Antico Testamento». I Sefarditi (gli Ebrei della penisola iberica e del Mediterraneo meridionale, che vivevano in ambienti islamici) rimasero invece poligami in teoria, e in molte comunità anche in pratica, fino a che nel 1950 il rabbinato di Israele estese la proibizione a tutti gli Ebrei.
Se anche Dio ha parlato, è chiaro dunque che è stato inteso diversamente da chi l´ha udito. E non solo dagli Ebrei e dagli Islamici, ai quali com´è noto il Corano (IV, 3) permette fino a quattro mogli, ma anche dai Cristiani: ad esempio, nel 1534 gli Anabattisti fondarono a Munster una comunità protosocialista e poliginica, benché di breve durata, e dal 1830 al 1980 la Chiesa dei Santi dell´Ultimo Giorno, cioè la comunità dei Mormoni dello Utah, ha ammesso ufficialmente la poliginia.
Quanto all´indissolubilità del matrimonio, nemmeno il Vangelo è così categorico come il Catechismo», visto che Gesù ammette esplicitamente il concubinato come motivo di divorzio nel Discorso della Montagna, e nel suo commento ad esso Agostino fa lo stesso con l´adulterio. In realtà è stato il Concilio di Trento a imporre nel 1563 l´indissolubilità ai Cattolici, costringendoli a fare i salti mortali nella rimozione di quel passo evangelico: i Protestanti e gli Ortodossi, che leggono invece il testo com´è scritto, accettano il divorzio, ed è proprio su questa questione che si consumò nel 1533 lo scisma tra Anglicani e Cattolici.
Essendo in gravi difficoltà teologiche a proposito della sua dottrina matrimoniale, oggi la Chiesa cerca di difenderla usando un argomento di tipo scientifico, tra l´altro più consono ai tempi moderni: sostenendo, cioè, che il matrimonio eterosessuale, monogamico, procreativo e indissolubile è «naturale», nel senso di essere la vera espressione della natura dell´uomo. Anzi, arrivando più generalmente a sostenere che il Cristianesimo è una religione naturale, il che giustificherebbe le pretese di universalità suggerite dal termine «cattolico».
Ma questa nuova strategia è ancora più fallimentare dell´appello ai testi sacri, perché richiede la rinuncia alla proclamazione delle opinioni e l´accettazione della discussione dei fatti. E ha facile gioco un antropologo come Francesco Remotti a snocciolare in Contro natura. Una lettera al Papa (Laterza, pagg. 281, euro 15) l´evidenza contraria di mezzo mondo, e a mostrare che la supposta «famiglia naturale» non è altro che l´espressione di un particolare relativismo culturale limitato nello spazio e nel tempo, che la Chiesa pretende di elevare ad assolutismo universale ed eterno.
L´aspetto forse più interessante di questa confutazione scientifica è la dimostrazione della mutua indipendenza delle varie caratteristiche del matrimonio cattolico, in genere presentate in un pacchetto ritenuto a sua volta indissolubile. E invece, anzitutto, per la maggioranza delle società al mondo il matrimonio non richiede la monogamia, benché la Chiesa aborrisca la poligamia sia sincronica, che diacronica: cioè, non solo proibisca di avere più coniugi in parallelo, ma scoraggi anche l´averli in serie (ad esempio, il rimatrimonio di vedovi), secondo la formula del «dato antropologico originario sic per cui l´uomo dev´essere unito in modo definitivo a una sola donna e viceversa» (Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, 13 marzo 2007)
Più interessante del fatto ovvio che il matrimonio è compatibile col divorzio, è quello meno ovvio che la poligamia è compatibile con l´indissolubilità: lo dimostrano ad esempio gli Inuit dell´Alaska, per i quali i rapporti sessuali tra partner istituiscono legami permanenti, benché temporaneamente disattivabili con una separazione, e permettono co-matrimoni intrecciati in cui più uomini sono sposati con una stessa donna, e più donne con uno stesso uomo (in Occidente queste situazioni si verificano informalmente negli scambi di coppia duraturi).
Diversamente dalla poliginia, la poliandria (diffusa in molte società, dal Congo al Kerala al Tibet) crea problemi per il riconoscimento della paternità, ed è anzi un mezzo di contenimento della popolazione: spesso essa si realizza quando una stessa donna è sposata da più fratelli, come la Draupadi andata in moglie ai cinque Pandava nel Mahabharata. A volte, addirittura, come nel caso dei Nayar del Malabar indiano o dei Na dello Yunnan cinese, la società è organizzata su famiglie consanguinee di fratelli e sorelle che convivono e cooperano non solo economicamente, ma anche nell´allevamento e nell´educazione dei figli che le donne concepiscono in rapporti sessuali occasionali: il che dimostra che la famiglia procreativa è compatibile con l´assenza sia di coniugi che di genitori (in Occidente l´analogo più vicino è forse quello dei bambini adottati da individui singoli, ma ci sono anche esempi di famiglie consanguinee che vanno dalla natolocalità galizia alla famiglia mezzadrile toscana).
Insomma, a chi tiene gli occhi aperti, o anche solo socchiusi, l´antropologia mostra che «paese che vai, famiglia che trovi». E´ solo chi tiene gli occhi ben chiusi che può illudersi che le proprie usanze siano «naturali», e quelle degli altri «contro natura». Soprattutto se non vede che il matrimonio non richiede la procreazione, come dimostrano gli sposalizi tra bambini, diffusi dalla Siberia alla Nuova Guinea all´America del Sud, o i matrimoni vicari in cui si affida la procreazione a qualcuno che non è il coniuge istituzionale, praticati dai Nuer del Sudan. O se non vede che l´omosessualità non è contro natura, come dimostrano non solo gli atteggiamenti di Greci e Romani, ma soprattutto il fatto che essa sia praticata in natura, appunto, da centinaia di specie animali in un´impressionante molteplicità di forme.
Ironicamente, volendo descrivere la sua memorabile osservazione che non c´è niente di comune fra i vari usi di una parola, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche non trovò di meglio di notare che fra essi c´è solo una «somiglianza di famiglia», appunto.

Liberazione 31.5.08
Il mio lavoro per non dimenticare Basaglia
di Lea Melandri


Una cooperativa che già nel nome evoca uno spazio pubblico ideale - Olinda, la città descritta da Calvino, che si allarga senza creare periferia - e un luogo di reclusione, fino a una quindicina di anni fa - l'ex manicomio Paolo Pini, alla periferia ovest di Milano - che è diventato, per la passione di due operatori eccezionali, Thomas Emmenegger e Rosita Volani, la piazza dove si incontrano artisti e persone con disturbi psichici, impegnati nella costruzione di una socialità insolita, produttiva e creativa al medesimo tempo: un ristorante, un ostello, un giardino botanico e oggi il Teatro ricavato dalla ex-cucina del Pini

Lea Melandri
Una cooperativa che già nel nome evoca uno spazio pubblico ideale - Olinda, la città descritta da Calvino, che si allarga senza creare periferia - e un luogo di reclusione, fino a una quindicina di anni fa - l'ex manicomio Paolo Pini, alla periferia ovest di Milano - che è diventato, per la passione di due operatori eccezionali, Thomas Emmenegger e Rosita Volani, la piazza dove si incontrano artisti e persone con disturbi psichici, impegnati nella costruzione di una socialità insolita, produttiva e creativa al medesimo tempo: un ristorante, un ostello, un giardino botanico e oggi il Teatro ricavato dalla ex-cucina del Pini. E' qui, nella suggestiva cornice del grande parco, tra Affori e Comasina, che si è festeggiato il trentennale compleanno della Legge Basaglia, con uno spettacolo che ne evoca lo spirito, ma sotto certi aspetti anche la lettera. Con il suo Marat-Sade , liberamente ripreso dal dramma di Peter Weiss - l'assassinio di Marat rappresentato dai ricoverati del manicomio di Charenton, dove era rinchiuso anche il Marchese De Sade - Maurizio Lupinelli e i suoi sessanta attori, tra i quali una quarantina di disabili, è come se avesse voluto aprire ancora una volta, con la furia liberatrice del suo teatro, porte che qualcuno oggi vorrebbe tornare a chiudere intorno all'handicap e alla malattia mentale.
Lo incontro dopo aver assistito, coinvolta gioiosamente, a quello che è qualcosa di più di un semplice spettacolo. C'è un riferimento testuale, esile come un canovaccio, che si fa pre-testo, contesto, non-testo, travolto dalla vitalità incontrollabile dei corpi in scena, e che richiama non casualmente, data la precedente esperienza teatrale di "Lupo", la "non-scuola" del Teatro delle Albe di Ravenna, il "teatro impuro" di Marco Martinelli e Ermanna Montanari.

Perché scegliere di lavorare con disabili?
Non avendo fatto scuola di teatro, ho obbedito al mio istinto e alla mia provenienza sociale. Vengo da un quartieraccio di Ravenna, la Darsena, dove ho visto molti miei coetanei morire di droga. E' stato come portarsi dietro l'eco di un rumore silenzioso. Ho lavorato molto con bambini e anziani, e sempre l'attenzione all'altro era schietta, fuori da regole e convenzioni. Poi ho incontrato le Albe, e con Marco ho condiviso il rapporto con la città, il lavoro con gli studenti delle superiori, la "non-scuola". Ma già allora sono andato a cercare un gruppo di ragazzi portatori di handicap, di un Centro di Ravenna, e con loro ho fatto un piccolo spettacolo di un quarto d'ora, il Wojzech . In seguito ho ripreso questa esperienza con disabili di una "casa-famiglia" di Lerici. Nel 2002 ho avuto dal direttore del Festival teatro di Castiglioncello i soldi per il Marat-Sade. Il laboratorio con i ragazzi di Lerici e ragazzi toscani è durato un mese. Nel febbraio scorso c'è stato lo spettacolo: un successo, duemila persone. Si è capito che non facevo un teatro per sfigati, che non volevo mettere al centro il dolore, che si può stare con disabili in un rapporto di reciprocità, anche se può apparire più crudele. E ora siamo qui al Pini, un luogo che è stato di emarginazione e che ora è la piazza di una socialità che ha come slogan: "da vicino nessuno è normale".

E' dunque una comunità che si forma all'interno di un lavoro teatrale, ma che per molti aspetti ne fuoriesce. E' il teatro che si lascia invadere dalla vita, non viceversa. Il teatro ritrova il suo tratto originario, come luogo di una socializzazione vitalizzante e catartica.
Dai a queste persone la possibilità di essere se stessi. Nei Centri, sorti dopo la Legge 180 e presto burocratizzati, li fanno apparire deficienti anche se non lo sono. Si tratta di una composizione molto eterogenea: in gran parte sono down, altri schizofrenici. Ma ci sono anche tre attori professionisti e allievi della scuola Paolo Grassi. La cosa più bella per questi ragazzi è che possono andare fuori dalla loro città. Quanto al testo, l'ho riscritto tutto; dal Marat-Sade di Peter Weiss ho preso l'ambientazione, il manicomio, e alcune figure. L'elemento che più mi interessava per giocarci dentro è l'assassinio di Marat, che però non c'è. Elsa, che impersona Carlotta Corday, si avvicina col coltello in mano, ma sempre constata che Marat non c'è.

Nella parte finale il confine tra lo spettatore e la scena quasi scompare. La festa, il ballo esplode all'improvviso e coinvolge tutti. Ma ci siamo limitati ad applaudire insieme a loro. E' probabilmente forte la tentazione di vederli solo come disabili, lasciando sullo sfondo il lavoro teatrale. C'è il rischio di una curiosità morbosa, che si esprime nei risolini con cui viene accolta la comicità di alcuni dei loro gesti o modi di parlare. Eppure c'è un equilibrio straordinario tra l'improvvisazione e l'adeguamento a una parte, tra l'allegria e la crudeltà, l'esplodere della furia del gruppo e l'immobilità dei corpi, come se una naturale loro teatralità lì avesse modo di esprimersi.
Viene fuori la loro libertà di espressione, che è rappresentata molto bene quando uno di loro dice al Marchese De Sade, che vorrebbe riportare uno di loro dentro la recitazione: "E no maestro, questo è il testo, vogliamo la sua verità". Quando mi chiedono, finito lo spettacolo, se ci sarà un seguito, io non li illudo. Dico siamo qui per fare un atto creativo insieme, indipendentemente che tu sia down o universitario. A quella che chiede se potrà fare l'attrice rispondo: possiamo fare questo, sei contenta? Risposta: Sì. E' questo che conta. E' vero che poi, quando rientrano nei loro Centri, si meravigliano che si torni a far loro infilare collanine. Basaglia ha avuto una grande intuizione, poi tutto viene regolato, irrigimentato in istituzioni pubbliche o private, perché anche il disabile diventa ‘soldo' per i servizi sociali che se ne occupano.

l'Unità 30.5.08
Se la scuola va al mercato
di Marina Boscaino


Il duo Brunetta-Gelmini trova - come era prevedibile - un alleato fedele nei poteri forti che sovrintendono alla scuola nei tempi bui. Giorgio Vittadini, ex presidente nazionale della Compagnia delle Opere, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, un’altra società facente capo a Comunione e Liberazione, dalla prima pagina de il Giornale di qualche tempo fa, ha lanciato «Tre idee per la scuola»: parità, autonomia, valutazione. Una prima osservazione: il centrodestra sembra aver capito il fondamentale ruolo che la scuola può giocare nel panorama del Paese. Nonostante sull’argomento in campagna elettorale non abbiano speso parole diverse da quelle che annunciavano il ritorno della scuola delle “3i”, dopo la vittoria elettorale la scuola ha assunto un ruolo di primo piano nelle esternazioni di molti membri del Governo; oltre alle discutibili anticipazioni dei ministri dell’Istruzione e dell’Università e dell’Amministrazione e Innovazione, il presidente della Camera Fini e lo stesso premier sono tornati diverse volte sull’argomento, direttamente e non. La cosa non può rallegrare chi ha a cuore la sorte della scuola pubblica; né chi crede realmente al fatto che la cura della scuola rappresenti il punto di partenza per una rinascita effettiva - sul piano culturale e civile - del Paese. Tra le tante cose che il “rinnovato” centrodestra sembra aver capito, c’è anche il fatto che la scuola è un vero e proprio albero di trasmissione di istanze e modelli. E che quindi su di essa si debba investire ideologicamente per creare consenso e forgiare coscienze.
Nell’articolo di Vittadini si lascia molto spazio alla parola “libertà”. Il partigiano “morto per la libertà” è uno sbiadito ricordo, che molti tendono a liquidare: non va più di moda. E da qualche tempo, nei fatti, si recita il requiem per il significato che a quella parola ha attribuito una porzione importante della storia del Novecento. L’abuso del termine e l’assimilazione di esso a modelli economici “vincenti” ne limita potenzialità e ne cancella la tradizione, appiattendolo su significati economicisti, individualisti, non solidali. Appellandosi alla legge 62/2000 (la Berlinguer sulla parità scolastica, la madre di tutte le derive privatistiche) Vittadini propone di «attuare anche a livello nazionale, come già preannunciato dal ministro Gelmini, quella parità economica tra scuola dello Stato e privata che, laddove si è cominciato a fare in alcune regioni con l’adozione di voucher, ha raggiunto risultati lusinghieri (...). Occorre dare soldi alle famiglie con parametri di equità e poi riconoscere loro la facoltà di scegliere le scuole che preferiscono per il bene del ragazzo». Requiem anche per l’art. 33 della Costituzione, che come è noto, prevede che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»: lo scardinamento totale della centralità del sistema pubblico. Già, pubblico: un’altra parola che non va più di moda, con la scusa di omologarla ad inefficienza, a demotivazione, a inerzia elefantiaca.
Invece di curare le cause di questo spesso legittimo accostamento, si approfitta per buttare il bambino con l’acqua sporca, liquidando - insieme alla scuola pubblica - i valori che essa configura: tutela di pari opportunità per tutti i cittadini; laicità; garanzia della rimozione degli ostacoli che garantiscono l’uguaglianza; accoglienza, emancipazione, condivisione nella diversità; libertà di insegnamento e diritto allo studio. Gettare frettolosamente tali principi nelle fauci di quell’esigente Minotauro che si chiama mercato, si sa, è una delle massime ambizioni del centro destra; ma una finalità che nemmeno il centro sinistra ha colpevolmente disdegnato. L’operazione porta con sé automaticamente il secondo passaggio del ragionamento di Vittadini: «per favorire un’esperienza di libertà di educazione anche nella scuola statale, occorre conferire alle famiglie pieno autogoverno». L’uso dell’avverbio “anche” non è casuale, e dà un senso ulteriore alla manipolazione del significato della parola libertà cui si accennava. La proposta di Vittadini per rendere le famiglie definitivamente consumatrici della merce-scuola (possibilmente privata), fomentate dall’induzione di bisogni diversificati e illimitati, legittimate e lusingate da un protagonismo mercantile in un servizio a domanda individuale si configura in una curiosa e pericolosissima revisione del concetto di autonomia: «finora è stata data una parziale autonomia di curriculum (20%), un’autonomia didattica paralizzata da enormi rigidità delle cattedre, un’automomia finanziaria bloccata dall’impossibilità di raccogliere soldi sul mercato senza reale autogoverno». Largo dunque alla scuola del Nord, con programmi autonomi e insegnanti reclutati autonomamente; largo al mercato dell’incanto e ponti d’oro al miglior offerente: la concorrenza come criterio privilegiato; largo alla flessibilità lavorativa. Infine la valutazione «esterna della scuola mediante l’accertamento degli apprendimenti e delle competenze dei ragazzi e rilevando le abilità professionali degli insegnanti e dei dirigenti». Questo Mago Merlino del liberismo la fa un po’ troppo facile. Certo, tutto potrebbe essere realmente facile: i numeri ci sono, la determinazione anche. Mi chiedo se, al di là delle buone maniere, del bipartisan a tutti i costi, dei mutamenti di tono, del gentlemen agreement quel che resta dell’opposizione parlamentare vorrà considerare con allarme queste proposte che - ne sono certa - non tarderanno ad essere accolte da Viale Trastevere. Onorevole Maria Pia Garavaglia, ministro ombra della Pubblica Istruzione, se ci sei batti un colpo. Donne e uomini - dentro e fuori dal Parlamento - che avete a cuore il futuro del nostro Paese, di cui la scuola pubblica è garanzia, non scoraggiamoci: l’opposizione siamo anche noi.

venerdì 30 maggio 2008

l’Unità 30.5.08
Sicurezza. Il Rovescio del Diritto
di Giancarlo Ferrero


Il governo non perde tempo: cavalcando la tigre della paura, forte del consenso poco consapevole dell’opinione pubblica spaventata ha già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 maggio il decreto legge sul pacchetto di sicurezza. Essendo ormai entrato, seppure provvisoriamente, nel nostro ordinamento giuridico, i magistrati sono ovviamente tenuti ad applicarlo. Lo faranno con gli occhi rivolti al cielo pensando al tempo e al costo che richiederà la sua applicazione e con la consapevolezza che non darà sostanzialmente alcun risultato.
Mancavano già in passato e mancano tuttora gli strumenti amministrativi, cioè gli uomini ed i mezzi necessari per dare concreta esecuzione agli ordini giurisdizionali di espulsione. Il governo ne è così consapevole che ha espressamente previsto la reclusione per l’immigrato il quale trasgredisca l’ordine di espulsione, trasgressione che presuppone la reale possibilità di non ottemperare all'ordine stesso. Anche perché non sempre è nelle condizioni di dargli spontanea esecuzione per l’elevato costo del viaggio di ritorno e perché i Paesi limitrofi al nostro non gli consentirebbero di certo l’attraversamento del loro territorio e tanto meno la permanenza sullo stesso in virtù di un semplice provvedimento giurisdizionale di un giudice italiano.
L’art. 1 del decreto legge ha molto disinvoltamente sostituito l’art. 235 del codice penale, imponendo ai tribunali di espellere lo straniero od allontanare il cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea (quindi anche un francese) condannato a più di due anni. Il tempo perché si avveri questa condizione, stante la ben nota rapidità della nostra giustizia, non è pudicamente preso in considerazione. Se la persona coinvolta continua a calpestare il nostro sacro suolo, commettendo il reato previsto dal secondo comma dell’articolo, dovrà essere sottoposto a nuovo processo penale (sempre che naturalmente venga colto in flagranza) con ovviamente la piena osservanza di tutte le forme e gli oneri processuali, quindi con i lunghi tempi e costi del processo penale. Se pervicace e attaccato all’ex bel paese, potrebbe arrivare all’età pensionabile senza aver subito il trauma del distacco forzata dalla sua patria adottiva! Delle fatiche e del tempo dedicato al caso dagli uomini delle forze dell’ordine, dai funzionari e magistrati non si tiene alcun conto “de minimis praetor non curat”.
Purtroppo di questi particolari debbono però “curarsi” i dipendenti pubblici indicati che faticano a svolgere il loro lavoro “ordinario”, mentre sempre più arduo si fa la ricerca di nuovi locali adeguati in cui rinchiudere i condannati forestieri (le nostre carceri come è noto sono sovra affollate e prossime al punto di rottura). Girare attorno alla questione, come si fa da anni, serve solo ad incancrenire la piaga; non è compito dei giudici occuparsi delle espulsioni, ma degli organi amministrativi ai quali però debbono essere dati i mezzi e gli strumenti necessari, affrontandone i costi se veramente si vuole limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Il pugno duro è spesso indice di una sostanziale impotenza ed è desti nato a colpire i più deboli ed emarginati con un rovesciamento dell’ottica dei valori statali. Non poche volte poi volendo a tutti i costi seguire la linea della durezza si finisce con l’infrangono i principi della stessa civiltà giuridica. Ne costituisce un significativo esempio l’ultimo comma dell’art. 1 del decreto che introduce una specifica circostanza aggravante (con un aumento della pena sino ad un terzo) se un reato viene commesso “da chi si trovi illegalmente sul territorio nazionale”. In parole povere, uno stesso fatto previsto come reato viene sanzionato più severamente non per le modalità con cui è stato commesso o per le relazioni tra l’autore del reato e la vittima, ma semplicemente per quello che sei: un clandestino, un irregolare, un diversi dai bravi criminali nostrani! Per carità, stiamo tutti attenti che nessuno tocchi la nostra bella Costituzione e la preziosa autonomia e funzione della nostra illuminata Corte Costituzionale!
Molto pericolosa e con profili di incerta legalità è l’estensione ai sindaci del potere di emettere ordinanze con tingibili ed urgenti (la cui inosservanza costituisce un illecito) in materia di sicurezza ed ordine pubblico, su cui di norma sussiste la competenza dei prefetti. Considerato il numero di sindaci, le loro diverse impostazioni ideologiche, è facile prevedere molti difformi interventi sindacali che, oltre aggraveranno il lavoro dei prefetti, saranno causa di ricorsi ai tribunali amministrativi. Non riguarda direttamente gli immigrati la disposizione con tenuta nell’art. 5 che prevede dure sanzioni personali e patrimoniali (la confisca dell’immobile) per coloro che “cedono” a titolo oneroso l’uso degli immobili agli immigrati irregolari (e tali debbono considerarsi anche gli immigrati il cui permesso di soggiorno è scaduto). L’effetto sarà una forte riduzione degli affitti agli immigrati, con notevole peggioramento delle loro condizioni di vita, se non l’illecito ricorso a caro prezzo a prestanomi od a società fittizie.
Non fa per fortuna parte del decreto legge, ma del disegno di legge affidato al Parlamento, la norma che introduce l’atipico reato di immigrazione clandestina. Qui il governo ha voluto chiaramente provare di essere forte, tanto da poter maneggiare con disinvoltura la clava, scavalcando d’impeto sia i principi di solidarietà umana sia quelli minimali del diritto. Viene così punito non un comportamento asociale, ma lo “status” di una persona: l’essere un immigrato non regolare, anche se la sua vita è di specchiata virtù. Una decisione di forza che pone subito in sofferenza coscienze e costituzioni, in modo così sfacciato da provocare più stupore che indignazione. Oltretutto non è ben chiaro quando si commette il delitto: all’atto dell’ingresso (come riportato nel disegno di legge) clandestino nel nostro territorio (ivi compreso il mare territoriale) o nel momento in cui si diventa clandestini perché il permesso di soggiorno è scaduto (ma sarebbe necessario uno specifico emendamento)? Nel primo caso, si pensi agli sbarchi a Lampedusa, l’ingresso può essere dovuto a forza maggiore, mare in tempesta, mancanza di acqua e cibo prostrazione fisica condizioni tutte che non consentirebbero di ritornare indietro, neanche fuori dal mare territoriale senza rischiare la vita (vale a dire dove il reato non c’è, dato che non si arriva a punire l’intenzione). Secondo l’antica legge del mare, non è consentito lasciare in balia delle onde senza mezzi di sostentamento i naviganti sfortunati o improvvidi e per fortuna la nostra Marina ha sempre rispettato questa sacrosanta regola e ha scortato doverosamente gli sventurati superstiti nei porti. Gli immigrati così assistiti essendo, chiaramente clandestini, nel momento in cui entrano nel mare territoriale commettono peraltro il nuovo reato per cui è previsto l’arresto ed il ricorso al rito direttissimo (ovviamente inapplicabile nell’attuale situazione dei nostri uffici giudiziari). Con alta probabilità i magistrati italiani ravviserebbero piuttosto la sussistenza della tipica causa di esclusione della responsabilità penale (aver agito in stato di necessità o per forza maggiore) e procederebbero all’assoluzione dell’imputato.
Stante poi il pacifico principio della non retroattività della legge penale, la disposizione non potrebbe essere applicata a coloro che al momento dell’entrata in vigore del decreto erano già nel territorio italiano. Principio che indurrebbe tutti i clandestini non colti in flagranza a dichiarare che la loro presenza in Italia risale nel tempo. A meno che, in uno slancio di estreme fermezza, il reato non venga fatto consistere nella permanenza clandestina (a permesso di soggiorno scaduto) nel nostro territorio. Decine di migliaia di inutili processi si affollerebbero così nelle aule giudiziarie dove con un po’ di buona volontà ed una manciata di lustri verrebbero smaltiti! Certo, anche in questo caso sorgerebbero le solite questioni di incostituzionalità, vere palle ai piedi dei legislatori decisionisti.
In qualche modo si terrebbero comunque fuori dalla mischia le badanti perché servono alla longevità e dignità dei nostri anziani di pura razza europea. Al Parlamento l’ultima (e speriamo illuminata) parola, al momento non può che consigliarsi a tutti gli addetti al lavoro di muoversi con molta ponderata lentezza e tanta pazienza.

l’Unità 30.5.08
Da Ponticelli a Pisa. Lo choc dell’Italia intollerante
di Massimo Solani


C’È UN CLIMA DI VIOLENZA e razzismo che sembra dilagare in Italia. Un susseguirsi di episodi piccoli e grandi troppo spesso minimizzati dalla maggioranza. Eclatante il caso dell’aggressione xenofoba del Pigneto a Roma, dove una ventina di ragazzi coi
volti coperti e le spranghe, sabato scorso hanno distrutto alcuni locali gestiti da commercianti extracomunitari dileguandosi poi nel nulla. Tutti tranne l’unica persona che si era presentata a volto scoperto che ieri si è presentata spontaneamente in Questura, probabilmente sapendo di essere già stato identificato e temendo l’arresto. Significativi, prima, i roghi dei campi rom a Pnticelli. Inquietante anche quanto successo lunedì all’Università Sapienza della Capitale dove dove quattro neofascisti, due appartenenti a Forza Nuova, hanno aggredito a colpi di spranghe e catene alcuni studenti che stavano “attacchinando” lungo il perimetro della città universitaria. Sei fermi (tre agli arresti domiciliari) e quattro feriti il bilanci dell’aggressione e degli scontri che si sono poi verificati.
Sono serviti invece quasi quattro mesi di indagini alle forze dell’ordine di Pisa per arrestare i sei giovani (fra loro anche una ragazza) che il 1 febbraio picchiarono a sangue un ragazzo livornese in una discoteca causandogli varie fratture, fra le quali anche tre vertebre. Nella casa di uno dei sei, alcuni dei quali vicini a gruppi ultrà del Pisa Calcio, la polizia ha ritrovato coltelli, manganelli telescopici e anche una mazza da baseball con la scritta Dux e il profilo di Benito Mussolini. E nel giorno del raid al Pigneto Christian Floris, uomo immagine del portale Deegay.it molto impegnato in campagne contro la discriminazione sessuale, è stato aggredito da due persone davanti al portone di casa sua. «Devi smetterla, hai capito?», hanno intimato i due al ragazzo dopo averlo picchiato.
È andata un poco meglio a il ballerino albanese Kadiu Kledi che mercoledì pomeriggio è stato aggredito da due persone all’interno della sua accademia di ballo, dove era in corso il saggio di fine corso dei bambini. Kledi, infatti, ha notato due persone che stavano riprendendo con una telecamera, e quando si è avvicinato per chiedere spiegazioni è stato aggredito. «Albanese di merda, ti rimando in Albania», gli ha gridato uno dei due mentre l’altro scappava.
Ma il segnale di quanto l’intolleranza e il razzismo siano ormai veleno quotidiano lo dà anche la storia di Joana Hotea, una giovane donna romena (28 anni) che a Roma è stata insultata a bordo di un autobus di linea dove era salita con in braccio il figlioletto di 15 mesi. «Tu non sali, zingara di merda», l’hanno apostrofata. Joana, che non è una rom ma una giovane donna integrata a Roma dove vive e lavora da 8 anni, non si è data per vinta ed è salita lo stesso. A bordo dopo gli insulti («Per te non c’è posto!») un uomo l’ha spintonata prendendola per i capelli.

l’Unità 30.5.08
Vita di Almirante. Razzismo e fascismo
di Nicola Tranfaglia


Giorgio è stato un giovane precoce.
Nato a Roma l’anno in cui scoppia la prima guerra mondiale (1914) in una famiglia di artisti di teatro e di cinema, pubblica il suo primo articolo sul quotidiano "Il Tevere" di Telesio Interlandi, un giornalista abile con qualità di polemista che viene da "l’Impero" del nazionalista Mario Carli.
Quel giornale esce a Roma il 27 dicembre 1924 per volontà di Roberto Farinacci, leader del fascismo razzista e intransigente.
E polemizza duramente con i quotidiani che non si schierano al fianco del regime come "la Stampa" di Torino o i residui giornali dell’opposizione destinati ad essere chiusi tra il 1925 e il 1926.
Esce a mezzogiorno, a quattro pagine (una volta alla settimana a sei pagine).
E dedica una pagina intera alla letteratura e un’altra alla vita mondana della capitale.
Le idee sono quelle del fascismo integrale come «rivoluzione nazionale» che ha nel razzismo una delle componenti fondamentali.
Almirante è un fascista fervido ed entusiasta come peraltro gran parte di quelli della sua generazione. È troppo giovane per partecipare alla nascita e all’affermazione del movimento e del regime ma fa parte di quella categoria di «fratelli minori» dei protagonisti della rivoluzione fascista che abbracciano con entusiasmo la nuova fede.
Diventa assai presto giornalista professionista e redattore politico del quotidiano di Interlandi. Quando il suo direttore, il 5 agosto 1938, è incaricato di fondare e dirigere il quindicinale «La difesa della razza» per sostenere la politica razziale di Mussolini ne diventa segretario di redazione.
Nell’ottobre 1938 scrive sul quindicinale un’aperta dichiarazione di razzismo. «Il razzismo - si può leggere in un suo articolo - è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato».

l’Unità 30.5.08
Rievocare anni bui per spiegare la violenza di oggi come fa il Viminale è fuorviante
Quella strana «giustificazione»
di Marcella Ciarnelli


Riecheggia con insistenza sospetta, rimbomba, il richiamo ad un tempo della storia recente del Paese segnato da dolore, violenza e sangue. E che non poche conseguenze ha prodotto. Si parla in questi giorni di nuovo di “opposti estremismi”. Due parole in forma di slogan rievocate in modo quanto mai inopportuno per cercare di giustificare l’arroganza e la violenza di chi si sente vincitore e rappresentato e, quindi, più forti degli altri che avverte diversi da sé: i deboli, i perdenti, gli antagonisti politici contro cui si possono mostrare i muscoli ed usare le spranghe in nome di una ritrovata impunità. È un modo ambiguo e subdolo di mistificare la realtà in modo di colpevolizzare anche gli altri, di tirarli dentro dividendo in questo modo le responsabilità e, quindi, dimezzandole. Di creare una spirale che, quella sì, potrebbe se non interrotta creare una forma imitativa capace di riportare a due fazioni contrapposte. Tutti colpevoli, nessun colpevole. O, almeno, due fronti opposti impegnati a colpevolizzarsi a vicenda con le istituzioni tra loro a far da barriera.
Il tentativo appare quanto mai evidente. Scoperto come il bluff di un giocatore che non sa tenere le carte in mano. Eppure c’è chi rievoca il passato per giustificare i fatti dell’oggi. Ricorda anni in cui la strategia della tensione rese cupa e buia la vita di un Paese che con difficoltà aveva superato il dopoguerra e cominciava a guardare verso il futuro con l’ottimismo di chi ha conosciuto povertà e fame ma anche le successive spumeggianti gioie del boom. Ma la fine dei favolosi anni 60 vengono segnati da un buio scenario i cui protagonisti appaiono prima isolati e poi, lo si comprenderà negli anni, figli di ideologie diverse ma pronte a colpire con la stessa inaudita ferocia. A memoria di storico pare che sia stato l’allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, a enunciare per primo la teoria degli opposti estremismi dopo l’omicidio dell’agente di polizia, Antonio Annarumma avvenuto nel novembre del 1969. La spirale prende l’avvio. C’è la strage di piazza Fontana. Il Paese comincia ad avere paura. Un rapporto del prefetto di Milano, Libero Mazza, nel 1970 afferma con certezza l’esistenza degli “opposti estremismi”. Nell’aprile dell’anno successivo il rapporto diventa pubblico e viene fortemente contestato anche in Parlamento. Eugenio Scalfari, allora deputato, presentò un’interrogazione. La democrazia sembra essere messa a rischio dall’attacco concentrico dei terroristi fascisti da un lato e di quelli rossi dall’altro. Bisognerà arrivare dopo tanti anni e tanto sangue alla solidarietà nazionale per cominciare a intravedere uno spiraglio. Ma c’è stato l’atroce ’77. E la dolorosa e crudele uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.
Nomi. Facce. Persone. Una lunga scia di sangue. Vittime a volte casuali che solo ora hanno trovato l’occasione di un ricordo collettivo nella giornata della Memoria che quest’anno li ha visti ricordati tutti al Quirinale dal presidente della Repubblica.
In nome della democrazia minacciata si coagularono le forze rappresentative dello Stato. Oggi la situazione è molto diversa. E appellarsi allo svoligimento tragico di quegli anni è sbagliato. E giustificativo.

l’Unità 30.5.08
Violenza sulle donne, il governo taglia i fondi. Servono per l’Ici
I 20 milioni di euro stanziati da Prodi andranno a coprire il taglio della tassa. Scoppia la rivolta: decisione infamante
di Maria Zegarelli


FATTI E PAROLE Ricordate l’indignazione del centrodestra per la violenza subita da due donne a Tor di Quinto e alla Storta, periferia romana, alla vigilia delle elezioni? Era clima da campagna elettorale, appunto. Il governo, infatti, ha deciso di tagliare il
Fondo per la lotta alla violenza sulle donne previsto dalla Finanziaria 2008 per coprire il taglio dell’Ici. Il governo Prodi aveva stanziato 20 milioni per prevenire la violenza e dare un sostegno alle donne che ne erano rimaste vittime. Dure le reazioni del Pd. Le deputate Emilia De Biasi, Manuela Ghizzoni e Carmen Motta giudicano «incredibile» la decisione del governo. Imbarazzo della ministra delle pari Opportunità, Mara Carfagna, che ha provato a dire: «Per contrastare il doloroso fenomeno servono norme che garantiscano misure di protezione integrale contro la violenza di genere, pene severe e processi più veloci. I fondi che chiederò di stanziare serviranno per il sussidio e l’attuazione di una normativa che è allo studio dei tecnici». Il ministro ombra del Pd, Vittoria Franco, annuncia un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Economia Giulio Tremonti e al premier. «È molto grave - dice - che per coprire il taglio indiscriminato dell’Ici a vantaggio anche delle fasce più abbienti il governo tagli i fondi a tutta una serie di politiche sociali». Barbara Pollastrini, che quel Fondo aveva creato, è «indignata, ma anche amareggiata per i livelli di cinismo che, con questa destra, può raggiungere la politica».
Il Telefono Rosa, associazione impegnata contro la violenza sulle donne, chiede un intervento della ministra. «Decisione infamante - dice la presidente Maria Gabriella Carnieri Moscatelli - siamo di fronte al funerale delle donne visto che le risorse che dovrebbero finanziare i diritti di chi subisce uno dei crimini più orrendi, appunto lo stupro, vanno per l’Ici, a vantaggio di proprietari che magari vanno in giro con una Ferrari... ». Valeria Ajovalasit, presidente di Arcidonna, la definisce «una vergognosa mossa finanziaria che offende milioni di donne». «La scelta del governo» è quella di «non adottare strumenti propagandistici o di facciata», commenta la leghista, Carolina Lussana. Sandra Zampa (deputata Pd) e Albertina Soliani (senatrice Pd) rispondono ricordando che il primo atto del governo Berlusconi contro la violenza è proprio quello di penalizzare le donne che ne sono vittime.

l’Unità 30.5.08
Il Vaticano: è omicidio
«Testamento biologico, fateci scegliere come morire»
Tam tam dei malati dopo la donna che ha rifiutato le cure grazie a una norma del 2004
di Anna Tarquini


IL CASO DI MODENA? «Non ci sono dubbi, è omicidio». È una condanna senza appello quella del cardinale Barragan, ministro vaticano della Salute. «Non c’è
nessuna legge italiana che prevede l’applicazione del testamento biologico. Se una persona decide di togliersi la vita compie un suicidio, se lo fa per un’altra persona commette un omicidio». E Barragan non è il solo a condannare. Anche le parlamentari teodem Baio e Binetti protestano per la decisione della magistratura di accogliere la scelta di Vincenza Santoro Galano. «Se c’era già questa norma è stato del tutto inutile - osservano Baio e Binetti - che il Senato abbia affrontato la questione del testamento biologico per ben due anni. Da parte nostra ribadiamo che deve esistere il rispetto della volontà del paziente ma lo Stato non può arrogarsi il diritto di interrompere la vita. Il nostro è un no fermo ad ogni tentativo di eutanasia e proporremo che sia stabilita un’interpretazione autentica della legge del 2004».
Un vespaio. Il giorno dopo, il caso della signora di Modena che ha ottenuto per legge di morire in pace divide politici e medici. Non i malati che numerosi lasciano un commento sul sito dell’associazione Coscioni. Elisabetta: «Sento di aver ritrovato il MIO presente, pensando al mio futuro...». O come Jeffrey che vuole solo sapere dove può leggere il decreto Stanzani, dal nome del giudice che ha reso possibile una prima applicazione di testamento biologico in Italia. Ci sono poi le parole di Nicasio Galano, il marito della signora Vincenza, l’ammalata di Sla che ha chiesto e ottenuto dal giudice di non essere intubata. Lui è il famoso «Amministratore di sostegno», cioè il tutore nominato per legge con il dovere di far rispettare le volontà dell’ammalata anche contro quelle dei medici. Nicasio Galano che è vedovo da meno di 24 ore dice: «Ora mia moglie è più serena. È stato accolto il suo desiderio di dignità. Alla nostra famiglia, che è credente, la decisione è parsa normale, visto il suo stato».
Questi sono i malati, dall’altra parte ci sono gli altri. I medici, i politici. Contrario il senatore Ignazio Marino relatore di una proposta di legge sul testamento biologico: «C’è una grande differenza tra un singolo caso come questo e una legge organica che permetta di accompagnare ed assistere una persona fino agli ultimi istanti della sua vita - afferma Marino - serve una legge che non porti nei tribunali la cura della persona affidando al giudizio di un singolo magistrato». Secondo l’ordine dei chirurghi «il caso di Modena non rientra affatto nel testamento biologico». È vero, ma solo in parte. Perché la signora Vincenza ha chiesto e ottenuto di non essere intubata, e chiesto e ottenuto un tutor che garantisse le sue volontà, nel momento di passaggio, quando si perde il fiato e si muore (non si è coscienti o capaci di esprimersi dunque) e il medico ha il dovere di intervenire. E perché la legge che ha scardinato il sistema dice che il tutor interviene a far rispettare le volontà nel momento e per il tempo dell’incapacità di intendere e di volere della persona.
Per questo certa politica ieri ha gridato allo scandalo. Come Isabella Bertolini (Pdl) che sul caso di Modeno ieri commentava: «È un pericoloso esempio». Spiegava Mina Welby: «Il caso di Modena sarà apripista per molti malati. E potrebbe anche aiutare a risolvere la vicenda della povera Eluana Englaro. Mi è capitato di incontrare una dottoressa che ha aiutato a morire una donna che non voleva essere tracheotomizzata. Mi disse che l’aveva addormentata perché non sentisse il soffocamento ma poi mi confessò di non sentirsi a posto con la coscienza. Ebbene, massimo rispetto per tutte quelle persone che nonostante gravi malattie vogliono continuare a vivere, ma quando una persona dice basta, il medico deve aiutare fino in fondo».

l’Unità 30.5.08
Testamento biologico, il messaggio di Modena
di Gilda Ferrando


Anche le date contano. A distanza di 30 anni da quel 13 maggio 1978 in cui venne approvata la legge Basaglia, il 13 maggio 2008 il Giudice tutelare del Tribunale di Modena emana un decreto che costituisce un altro importante passo nel riconoscimento dei diritti e delle libertà della persona. C’è un filo rosso che unisce la legge di allora al provvedimento di oggi, attraverso altre decisioni importanti, come i casi Englaro e Welby.
Il decreto di Modena - va chiarito subito - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, vale a dire con la richiesta da parte di un malato senza speranza, afflitto da intollerabili sofferenze, di porre fine alla propria vita mediante la somministrazione di un farmaco letale.
Riguarda invece il diritto del malato di rifiutare trattamenti medici, riguarda i modi in cui garantire questo diritto quando il paziente non sia più in grado di esprimere la propria volontà.
La signora Vincenza, affetta da Sclerosi laterale Amiotrofica (Sla), ormai in condizione di grave insufficienza respiratoria, manifesta al marito, ai suoi quattro figli adulti e ai medici la propria volontà di non essere sottoposta a trattamenti di rianimazione invasivi, compresa la tracheostomia. Il fatto è che il sopraggiungere di una crisi respiratoria grave determina una perdita della coscienza dovuta all’insufficiente afflusso di ossigeno al cervello. È dunque necessario che ci sia qualcuno per dar voce al paziente che non è più in grado di farlo personalmente.
Ci sono differenze tra questo e i casi analoghi che lo hanno preceduto. Rispetto al caso Welby si chiede al medico di non attaccare il respiratore, non di spegnerlo. Rispetto al caso della signora Maria - la paziente diabetica che rifiutò l’amputazione dell’arto - la volontà deve essere fatta valere dopo la perdita della coscienza. Rispetto al caso Englaro - la giovane donna in stato vegetativo permanente - è stato espresso un rifiuto esplicito e formale prima della perdita di coscienza. Pur nella varietà dei casi, in tutti è stato riconosciuto il diritto di rifiutare le cure o di interromperle.
La decisione del giudice tutelare di Modena si inscrive pienamente nel quadro di principi e regole previsti dal nostro ordinamento.
Quanto ai principi, dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione si evince chiaramente che nessun trattamento medico può essere effettuato senza e, a maggior ragione, contro il consenso del paziente. Anche la Carta di Nizza, ora parte del Trattato europeo firmato a Lisbona, impone in modo esplicito il rispetto del «consenso libero e informato della persona interessata» (art. 3). Nell’ottobre scorso la Corte di Cassazione ha fatto applicazione di questi principi nel caso Englaro. In quell’occasione la Corte chiarì che il paziente cosciente e consapevole può legittimamente rifiutare anche un trattamento di sostegno vitale. Si tratta di un diritto fondamentale della persona, espressione di quella inviolabilità fisica che costituisce il nucleo essenziale della libertà personale. Un diritto, dunque, che deve essere garantito incondizionatamente e contro il quale non vale invocare né lo “stato di necessità” - al quale il medico può appellarsi, ma solo in situazioni d’urgenza, e se il paziente è incosciente - né un dovere di curarsi che può talvolta farsi valere sul piano dell’etica, ma non su quello del diritto.
Quanto agli strumenti per dare attuazione a questo diritto fondamentale, nel 2004 è stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova figura di protezione dei soggetti deboli, l’amministratore di sostegno, che ha la funzione di assistere ogni «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi». Si tratta di una risposta, sul piano degli istituti civilistici, alla nuova attenzione che il diritto riserva alle situazioni di debolezza e fragilità e che ha avuto nella legge Basaglia uno dei suoi momenti più alti.
Rispetto al vecchio modello dell’interdizione, l’amministrazione di sostegno intende garantire un maggior rispetto dell’autonomia del disabile ed una maggior attenzione ai profili di cura dei suoi interessi personali. Coerente con questa impostazione è la possibilità che la designazione della persona cui affidare l’incarico sia effettuata dallo stesso interessato «in previsione della propria eventuale futura incapacità».
La legge non lo dice espressamente, ma appare coerente con il suo impianto complessivo ritenere che a questa persona di fiducia il malato possa dare anche direttive anticipate sulle decisioni che più gli stanno a cuore, specie quelle in materia sanitaria. È quanto afferma il giudice tutelare di Modena, nel nominare amministratore di sostegno il marito della donna con lo specifico compito di dare attuazione alla volontà «lucidamente e inequivocabilmente espressa dall'interessata», che non le venga praticata la ventilazione forzata e la tracheostomia «all’atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l’evolversi della malattia imponesse la specifica terapia salvifica».
Questo provvedimento dimostra, una volta di più, che già esistono nel nostro sistema gli strumenti per dare attuazione ai diritti fondamentali della persona. Il fatto che il Parlamento non riesca a fare (buone) leggi sui temi “eticamente sensibili” non impedisce ai giudici di utilizzare le risorse già disponibili. Una legge, se verrà approvata, potrà disciplinare in modo più analitico le direttive anticipate, ma, questo è il messaggio importante che ci viene da Modena, già oggi ciascuno di noi è un po’ più libero, un po’ più padrone di se stesso.
Università di Genova Consulta di Bioetica

l’Unità 30.5.08
In Italia sono 60 i bambini sotto i 3 anni che vivono in carcere con le mamme
Il mondo dei piccoli dietro le sbarre
di Federica Fantozzi


Un portone nero si apre, una ragazza in cappottino spinato lo varca. Dietro trova murales di fiori, Cenerentole e Dumbo. È un mondo a parte, quello dei bambini che vivono in prigione con le mamme detenute. Piccolissimi: a 3 anni vengono «scarcerati». Sono 60 in Italia, 20 nella sezione femminile di Rebibbia a Roma.
Di questi si è occupata la ragazza col cappottino: Luisa Betti, giornalista, autrice della video-inchiesta «Il carcere sotto i 3 anni». Immagini di bambini vivaci, timidi, prepotenti come Sabrina che non vuole far sedere l’amichetta, sfrontati: come ti chiami? «Al Capone a due anni». Testimonianze di mamme, giovanissime, autrici di piccoli reati ma anche espressione di disagio sociale: «Cosa do da mangiare a lui - una ragazza indica il neonato in braccio - Non ho lavoro. Vado a rubare. Per forza». In maggioranza rom e immigrate: a 30 anni hanno 7-8 figli, e il padre, da solo, non è in grado di gestirli. Eugenia Fiorillo è un’educatrice del nido creato a Rebibbia: «Finché il bimbo è qui la relazione con la madre è salvaguardata. Ma i fratellini più grandi sono fuori, c’è una separazione». Lacerante e sempre viva nei cuori materni.
È la domanda centrale: meglio che un piccolino stia con la madre in un ambiente ostile o viva in libertà senza la sua mamma nei primi anni di vita? Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile, intervenuto alla presentazione del documentario, non ha dubbi: «Ho grande rispetto per la giustizia, ma il bambino è sacro. Genitori, giudici, padreterno: tutti devono fare i conti con lui». Bollea parla di «diritto primitivo», vorrebbe le mamme ai domiciliari o almeno i bimbi fuori fino a sera: «I loro occhi non esprimevano felicità né speranza, solo sofferenza anche se la mamma li prendeva in braccio».
Emilio Di Somma, vicecapo del Dap, fa i conti con l’amara realtà: «Per lo Stato, la giustizia, la sicurezza, la burocrazia, un bambino non è protagonista ma un accidente. È un dramma affrontato periodicamente con aggiustamenti e palliativi». Gabriella Pedote, vicedirettrice di Rebibbia, è una giovane donna dall’aria gentile e appassionata, con due figli piccoli: «Conosco le storture del sistema ma sono orgogliosa del nostro asilo. Cerchiamo di non ferire troppo nè mamme né bimbi. Non è giusto che crescano in carcere, ma ne approfittiamo per far crescere le detenute come madri».
Tra le voci dell’inchiesta c’è Lucia Zainaghi, direttrice di Rebibbia, che spera in più flessibilità dei magistrati: «Ora la misura del lavoro esterno è prevista anche per accudire i figli». Eppure, i margini di incertezza sono tanti. La detenzione domiciliare è discrezionale. La casa famiglia è un sogno. Occorre coniugare diritti dei minori e sicurezza: «Si può essere madre e fior di delinquente» sintetizza Di Somma.
Una brutta pagina è quando una mamma, preoccupata perchè il figlioletto ha la febbre alta, non viene creduta e dà in escandescenze. «E’ stata trattata da squilibrata, per fortuna l’ospedale ha rifiutato il ricovero coatto. Ogni madre sa capire se qualcosa non va, è l’istinto». La storia di Barbara è triste e assurda: in carcere da 6 mesi per un reato commesso 10 anni fa, da tossicodipendente. Intanto si è rifatta una vita, ha due figlie: Aurora, di 4 anni, a casa col padre; Gaia, 2, con lei. «È cambiata, confusa, mi chiede dov’è la sorella». Barbara ottiene i domiciliari, ma al primo giorno di asilo tarda mezz’ora e glieli revocano: «Sono venuti a prendermi e hanno sbattuto la porta in faccia ad Aurora. Io l’ho riaperta, ho salutato mia figlia. Poi, andando via, ho sentito il pianto».

Corriere della Sera 30.5.08
Gianni Guido affidato ai servizi sociali. La madre: «Ha pagato»
Fuori dal carcere un assassino del Circeo
di Fabrizio Caccia


ROMA — Anche dopo quella notte di fine settembre 1975, la notte del massacro del Circeo, Angelo Izzo ha continuato a fare il massacratore. Andrea Ghira, invece, è finito sepolto a Melilla, nel cimitero dei legionari spagnoli. Solo di Gianni Guido non si era saputo più nulla. Ma ecco la novità: dall'11 aprile è «affidato ai servizi sociali».
Quindi Gianni Guido non è già più un «detenuto». Dopo il lavoro, cioè, non deve tornare in carcere. La sera rientra nella casa dei genitori (a due passi dalla Nomentana) e dorme nel suo letto. Secondo il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), finirà di pagare del tutto il suo conto con la giustizia tra poco più di un anno, nell'agosto 2009.
Ma intanto è un uomo libero. E non è poco.
Oggi Guido ha 52 anni e gli ultimi 14 li ha passati in cella, ha studiato, si è laureato in Lingue e Letterature Straniere e non ha mai voluto farsi intervistare da nessuno. Il papà Raffaele e la mamma Maria avrebbero preferito ovviamente che la notizia non trapelasse. In cuor loro, è naturale, vorrebbero tanto che questa storia venisse dimenticata per sempre. Ora temono, invece, lo scatenarsi di nuove polemiche, nuovi veleni.
«Mio figlio ha pagato. E comunque non sarà facile rifarsi una vita alla sua età - sospira la signora Maria, discendente di un'importante famiglia di armatori napoletani Noi di sicuro in tutti questi anni non l'abbiamo mai abbandonato ». «Cosa farà Gianni dopo aver espiato fino in fondo la sua pena? Non importa - aggiunge il padre, altissimo dirigente Bnl ora in pensione C'è qui la sua famiglia, ci siamo noi. La famiglia, secondo me, è l'unico posto dove un detenuto possa riuscire a reinserirsi. L'unica vera comunità di recupero, chiamiamola così, per chi esce dal carcere».
Nel momento in cui parliamo con gli anziani genitori, seduti nel salotto di casa, la sensazione fortissima, condivisa da un testimone, è che ci sia anche il figlio, Gianni, presente in una stanza attigua. Papà Raffaele, gentilissimo ma inflessibile, non consente però altre domande.
Dall'11 aprile, dunque, Gianni Guido è diventato uno dei 450 «affidati» (ma prima dell'indulto erano dieci volte di più) in carico all'Ufficio di esecuzione penale esterna di Roma e Latina. Del feroce terzetto che quella notte assassinò Rosaria Lopez e pensava di averlo fatto anche con la sua giovane amica, Donatella Colasanti, soltanto di lui si erano perse in qualche modo le tracce. Nel maggio '94, questa l'ultima notizia disponibile, fu catturato dalla squadra speciale del ministero dell'Interno (Digos, Ucigos e Interpol) a Panama, dove viveva sotto falso nome, quello di Claude Daniel Ibrahim Laurian, con tanto di passaporto libanese. Dopo l'estradizione, infine, fu rinchiuso a Rebibbia.
Il 29 luglio 1976, dopo sette ore di camera di consiglio, i giudici di primo grado condannarono all'ergastolo Izzo, Guido e Ghira (l'unico latitante) per il massacro del Circeo. Le femministe presenti in aula esultarono. Giovani, belli e dannati. Ricchi e spavaldi, fanatici di destra («Ci sentivamo cavalieri in guerra», disse una volta Izzo per descrivere la follia che li animava).
Solo Guido, in appello, ottenne la riduzione e se la cavò con 30 anni. Ma da quel momento, per l'ex studente del San Leone Magno, compagno di classe di Izzo nell'istituto privato più esclusivo di Roma, iniziò un'altra vita, altrettanto pericolosa, fatta di fughe e clandestinità. Nell'81 evase dal carcere di San Gimignano. Due anni dopo fu arrestato in Argentina. Nell'85, dal penitenziario di Buenos Aires, nuova evasione. Poi sei anni di buio, più nessuna traccia.
Finchè il 23 novembre del '91 arriva a Panama, con un nome falso e un passaporto libanese pieno di visti. Ad attenderlo ci sono personaggi influenti. Il 2 dicembre in uno studio notarile costituisce una società finanziaria. Ma è solo una copertura, la società in realtà non opera sul mercato però gli serve per ottenere un permesso di residenza e il porto d'armi.
Quindi, Guido si trasferisce a La Chorrera, sulla carretera interamericana in direzione del Costa Rica. Abita in una casa bassa, non ancora ultimata che ha a fianco quattro capannoni per l'allevamento di migliaia di polli. Ormai, però, gli investigatori italiani sono sulle sue tracce. Hanno captato una telefonata tra il padre e un alto prelato del Vaticano. Il monsignore usa un linguaggio misterioso: «La mamma sta bene». Poi salta fuori anche un estratto conto con movimenti di denaro consistenti. La sua latitanza dorata termina il 28 maggio 1994.
Oggi non c'è più, purtroppo, Donatella Colasanti a cui chiedere un commento su tutta questa storia. Donatella morì a 47 anni, il 30 dicembre 2005, per un tumore al seno. L'ultimo sopruso ricevuto dalla vita. Quando seppe che Izzo, nell'aprile 2005, aveva ammazzato nelle campagne di Mirabello Sannitico, vicino Campobasso, anche Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina, appena una bambina, la superstite del massacro di 30 anni prima tuonò contro la giustizia: «Perché Izzo non era in carcere? Perché la semilibertà?». Aveva scritto per anni al Csm, a tutti i ministri della Giustizia, chiedendo duri interventi per i responsabili. E invece ecco l'unica risposta che aveva avuto: altre due donne seppellite in un campo.
«Ma Gianni non è come Izzo », è l'ultima cosa che dicono i genitori di Guido, prima di salutarci. E lo dicono convinti, quasi protestando, anche se sanno che ormai la partita è chiusa. E tutti in fondo hanno perso.

Corriere della Sera 30.5.08
Benedetto XVI. Un sostegno esplicito a Palazzo Chigi che gela la sinistra
di Massimo Franco


Le parole impegnative scelte da Benedetto XVI sono già un viatico per il nuovo governo. Ma vanno analizzate insieme con l'annuncio, arrivato ieri, dell'udienza che il Papa concederà a Silvio Berlusconi il 6 giugno prossimo. È questa doppia lettura a fornire una cornice completa dei rapporti che la Santa Sede ritiene di costruire con il centrodestra. Si sapeva che il presidente del Consiglio voleva incontrare il Pontefice prima della visita a Roma di George Bush, in programma l'11 giugno: al punto che aveva bussato alle porte del Vaticano subito dopo le elezioni e prima ancora di ricevere l'incarico di formare il governo. E si era parlato di una discussione nella cerchia di Benedetto XVI sull'opportunità di rinviarla un po'.
Ma la contemporaneità fra il discorso alla Cei e l'udienza al premier dice che il Papa ha scelto di appoggiare la scommessa berlusconiana. Sia i consensi ricevuti dal Pdl il 13 aprile, sia i primi passi all'insegna del dialogo con l'opposizione rappresentano una cesura rispetto al precedente governo. Le tensioni accumulate con l'Unione di Prodi sui temi etici, e la scelta di candidati radicali nelle liste del Pd hanno lasciato un'ombra che Benedetto XVI finisce per sottolineare. E favoriscono la strategia di Berlusconi agli occhi di un Papa solidamente conservatore.
Eppure, perfino su questo sfondo i toni usati ieri suonano irrituali. Dire che si avvertono «con particolare gioia i segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo»; e avallare «il profilarsi di rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni», lasciano indovinare la volontà di investire su questa fase. Di più: il Papa appare determinato ad assecondare il tentativo di «risolvere insieme almeno i problemi più urgenti e più gravi». È come se si iscrivesse al «partito» di quell'unità nazionale tacita che cerca di prendere corpo in nome dell'emergenza. L'altro aspetto vistoso, infatti, è l'allarme che arriva da oltre Tevere per la situazione italiana.
Per la Santa Sede fa testo l'inquietudine manifestata dal presidente della Cei, Angelo Bagnasco. Il Papa ha ricordato il senso di insicurezza crescente «per le condizioni di povertà di tante famiglie »; ed insistito su un'«emergenza educativa» che la Chiesa cattolica tende a legare ad un sostegno inadeguato «all'impegno delle istituzioni ecclesiastiche in campo scolastico». Di fatto, si tratta dell'agenda che il Vaticano propone a palazzo Chigi in cambio di un sostegno non d'ufficio. È un'apertura di credito condizionata dagli sviluppi di quella che il sottosegretario Gianni Letta ieri ha continuato a definire «un'avventura difficile».
Perfino sull'immigrazione clandestina, tema controverso nel mondo cattolico, il Pontefice evita l'appoggio acritico a chi è incline a condannare l'approccio del governo. Nel richiamo ad aiutare gli stranieri «nel rispetto delle leggi» si coglie un'eco del «patto di cittadinanza» chiesto da Bagnasco «mettendo in chiaro diritti e doveri». Evidentemente, anche nelle gerarchie ecclesiastiche si avverte l'esigenza di integrare gli immigrati; ma di rispondere in parallelo alla richiesta di sicurezza dell'opinione pubblica. Un dettaglio emblematico: il silenzio pesante col quale fino a ieri sera l'opposizione aveva accolto le parole di Benedetto XVI.

Corriere della Sera 30.5.08
Il senatore dalemiano: crea inquietudini il rapporto con il potere
Latorre: attenti all'«uso» della religione
di Maria Teresa Meli


ROMA — Attenzione all'«uso politico» della religione e della Chiesa: a lanciare quest'allarme è Nicola Latorre, dalemiano, vicecapogruppo del Pd al Senato. A creare delle «inquietudini» nell'esponente del Partito Democratico non è tanto l'apprezzamento che il Papa ha fatto del clima politico che si è creato dopo le elezioni vinte da Silvio Berlusconi, quanto il rischio che comportano i rapporti tra Chiesa e potere.
Senatore, c'è chi dice che Benedetto XVI abbia fatto una sorta di «endorsement » nei confronti di questo governo.
«Commetteremmo un grave errore leggendo il discorso del Pontefice in una chiave tutta politica. Non si può forzare il pensiero del Papa: sarebbe un errore».
Ma non può negare che le sue parole suonano come un apprezzamento di Berlusconi.
«Non si può derubricare il suo discorso a una dichiarazione di appoggio a questo governo. Sostanzialmente ha sottolineato l'importanza di questo clima politico «nuovo », «legato al profilarsi di rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni». E' una cosa auspicabile: il Pd, e non da oggi, si adopera perché il confronto politico sia sempre ispirato alla correttezza e alla serietà, il che non significa in alcun modo rinuncia a far valere le proprie ragioni o fare sconti alla maggioranza».
Che succede, dopo le parole pronunciate dall'ex ministro degli Esteri a Marina di Camerota, i dalemiani hanno deciso di fare retromarcia?
«No, ricordo solo che il Pontefice ha parlato della necessità di "una sana laicità", della lotta alla povertà e all'ingiustizia sociale, dell'immigrazione... Tutti temi su cui abbiamo delle convergenze. Anche se ci sono alcune divergenze».
Quali?
«In un passaggio del suo discorso il Pontefice sostiene che "occorre resistere a ogni tendenza a considerare la religione, e in particolare il cristianesimo, come un fatto soltanto privato". Questa frase ripropone la riflessione di D'Alema sul rapporto tra Chiesa e potere, che ha suscitato tanto scalpore. Se la Chiesa fa un uso politico della religione, se supporta l'ideologia dell'Occidente, rischia, come ha evidenziato D'Alema, di ridimensionare il discorso religioso ».
Insomma, secondo lei quelle parole fanno tornare alla mente il patto demoniaco della Chiesa con il potere evocato da D'Alema a Marina di Camerota. Patto demoniaco... non le sembra un'esagerazione?
«Il rapporto tra religione e potere è ed è stato oggetto di discussione e di grandi inquietudini innanzitutto nel mondo cattolico: da monsignor Coda, presidente dei teologi italiani fino a don Giussani, che non era né un fiancheggiatore di Italianieuropei né un radicale laicista. Le cito un passo di un libro di don Giussani per essere ancora più chiaro: "Quello che abbiamo detto prima sul potere vale come un aspetto vertiginoso per l'autorità come potrebbe essere vissuta nella Chiesa. Se essa non è paterna, e quindi materna, può diventare sorgente di equivoco supremo, strumento subdolo e distruttivo in mano alla menzogna, a Satana padre della menzogna". E allora non capisco il perché di tante polemiche attorno a quella frase di D'Alema sul patto demoniaco. Non spaventa l'ortodossia ma l'uso politico dell'ortodossia».
Ormai sono sempre più rari i politici del Pd che dicono qualcosa di laico.
«I valori della laicità dello Stato sono un punto fondamentale. D'altra parte il Pd, che è impegnato a ridefinire l'impianto politico culturale riformista, dovrebbe farlo proprio nel quadro della laicità. E comunque il tema dei rapporti tra religione e politica, di questi tempi, non è più delegabile solo ai cattolici ma anche al pensiero laico ».
Nelle file Pd c'è molto imbarazzo su questi argomenti. C'è il timore di apparire come degli anticlericali. Timore che evidentemente D'Alema e voi dalemiani non avete.
«Segnalare questo problema dell'uso politico della religione non significa assumere una posizione anticlericale».

Corriere della Sera 30.5.08
Luciano Canfora: «Guevara ormai è soltanto un gadget Chi usa spranghe ha il cuore a destra»
di E. Mu.


MILANO — «Che Guevara non è un'icona di sinistra. La sua immagine ha travalicato la consapevolezza ideologica per entrare nel mito generico, non sempre poi amatissimo dalla sinistra. Basti pensare che a definirlo uno "stratega da farmacia" fu il comunista Giorgio Amendola ». Filologo classico, storico e saggista, Luciano Canfora all'equiparazione tra violenza metropolitana e leggenda rivoluzionaria proprio non ci crede.
Dario Chianelli si è costituito per l'assalto ai tre negozi del Pigneto e ha dichiarato: «Non chiamatemi razzista, ho il Che tatuato sul braccio, io sono di sinistra».
«Chi usa spranghe per farsi giustizia è politicamente un violento e il suo cuore batte sicuramente a destra nonostante dichiari il contrario».
Un gioco a mescolare i simboli?
«Sì, nella destra estrema che si autoproclama rivoluzionaria c'è questo uso costante. Non a caso, ad esempio, occhieggiano con molta simpatia ai palestinesi perché sono rimasti antisemiti e approfittano del momento attuale in funzione antiebraica ».
Ma allora perché Chianelli ha voluto insistere sul tatuaggio?
«Non mi impressiona affatto che una persona politicamente immatura lo abbia esibito come prima cosa».
Quindi il Che non è più appannaggio della sinistra?
«A differenza della svastica, da sempre usata unicamente in una sola direzione, il Che è un gadget: una maglietta, un poster, un simbolo a circolazione turistica e commerciale usato da più fronti. L'eroe solitario e perdente, diventato un richiamo a carattere etico, al quale qualche frangia di destra può anche guardare con simpatia».

Corriere della Sera 30.5.08
Anpi Le celebrazioni si terranno a Gattatico dal 20 al 22 giugno
E Cossutta lancia la Festa dei partigiani: mai una via Almirante
di Monica Guerzoni


ROMA — Non sono ancora stanchi di lottare per la libertà, vogliono che la memoria della Resistenza non si spenga e così i partigiani italiani hanno deciso di passare il testimone ai giovani. Dal 20 al 22 giugno si terrà a Gattatico, Reggio Emilia, la prima festa nazionale dell'Anpi e il luogo — il Parco del Museo Cervi, dove vissero i sette fratelli Cervi trucidati dai nazifascisti — dice già molto. L'idea è venuta agli «eredi» di una lunga storia di passione civile e demo-cratica, cioè ai ragazzi sui quali l'associazione ha investito per non morire, per assicurarsi un futuro di testimonianza.
È con una certa emozione che Armando Cossutta, partigiano nelle Brigate Garibaldi, lancia l'iniziativa nella sala stampa di Montecitorio alla presenza di Giuliano Vassalli, presidente emerito della Consulta ed ex partigiano anche lui. E dice, Cossutta, che la memoria va tenuta viva oggi più che mai, in giorni di «attacchi contro quei principi e quei valori ». A preoccupare l'ex presidente del Pdci non sono soltanto «gli atti violenti, le aggressioni di stampo fascista, nazista e razzista», ma anche la «crescente campagna di revisionismo culturale e storico». Cossutta ritiene «francamente ipocrita» l'idea di una riconciliazione nazionale «senza verità» e sospetta un disegno politico per «screditare e delegittimare la grande epopea della Resistenza antifascista e della guerra di Liberazione nazionale». La polemica su Giorgio Almirante ancora non si spegne e Cossutta, pur senza nominarlo, condanna con forza e sdegno l'idea «politicamente inaccettabile» e «moralmente offensiva» di intitolargli una strada di Roma, città Medaglia d'oro della Resistenza: «Un uomo politico che non è stato semplicemente un esponente della Prima Repubblica ma fucilatore di partigiani e sostenitore del razzismo...».
La prima Festa partigiana si deve anche all'impegno di Maria Cervi, figlia di uno dei sette fratelli uccisi, che per due anni — fino all'improvvisa scomparsa un anno fa — ha lavorato con i giovani dell'Anpi per dare vita all'iniziativa.
Lungo e autorevole l'elenco delle adesioni, da Veltroni a Ciampi, da Epifani a Diliberto, da Ingrao a Rodotà passando per Nichi Vendola e Franco Giordano. La colonna sonora? «Bella ciao», ovviamente.

Corriere della Sera 30.5.08
Una storia complicata
Rom, che cos'è il pane per il popolo senza terra
di Predrag Matvejevic


In alcune regioni i rom formano la maggioranza dei mendicanti ma non godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle cosiddette maggioranze. Faticano a dichiararsi rom per non esporsi ai sospetti, all'avversione dell'ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni. La parola
zingaro è diventata offensiva; per questa ragione essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Un volta non lo era... Intanto per molti europei, e italiani — come Claudio Magris ha ricordato sul Corriere
lunedì 26 maggio — fanno più paura della mafia o della camorra, benché in confronto a quel tumore sociale i disagi che recano possano paragonarsi tutt'al più a un raffreddore.
I rom hanno vissuto la loro Shoah. Spesso si dimentica che furono uccisi a decine di migliaia nei campi di sterminio nazisti, insieme agli ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretti controlli. Questo capita in varie epoche storiche, in diversi Paesi. Non si sa con esattezza quanti siano i rom residenti in ciascuno Stato. Sappiamo però che in alcuni sono numerosi, soprattutto nei Balcani orientali. Ma un numero ancora più consistente di essi è «sempre in cammino ». Chissà da dove vengono o dove vanno; ignoriamo se partano o tornino.
In Europa ce ne sono più di dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio né un proprio governo. Hanno tutti un Paese natale, ma non una patria. Sono parte del popolo in mezzo al quale vivono, ma non di una nazione. Non sono neppure una minoranza nazionale: sono transnazionali.
Arrivarono dall'Asia, sono discendenti di popolazioni dell'India settentrionale. Fin dai remoti tempi dell'esodo, si distinguevano per tribù. Attraverso la Persia, l'Armenia, l'Asia Minore, videro e impararono come si fa il pane. Questo cibo elementare, peraltro, non era sconosciuto ai loro lontani antenati.
Hanno portato con sé dall'antica terra natia alcuni nomi propri, fra cui quello di
rom. Altri gli sono stati attribuiti da gente a loro estranea. Il termine zingaro deriva del greco athinganos. Gli slavi del Sud li indicano con il termine iganin, tsigan, tsigo; in Gran Bretagna li chiamano gipsy da egytios, anche in Spagna, «per il colore bruno della loro pelle ». Sono detti anche maneschi, sinti, gitani, boemi. Un poeta croato di Dubrovnik, intitolò «Jeupka» — vale a dire «Egiziana» — un suo poema che ha per protagonista una bella rom.
Gli uomini si dedicavano spesso all'arte del fabbro, lavorando i metalli, costruendo attrezzi agricoli, coltelli e spade, ferrando i cavalli; all'allevamento e al commercio degli equini; alla musica suonando chitarre o violini per rallegrare o consolare gli innamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le «belle zingare» cantavano, danzavano e seducevano (in alcune regioni lo fanno ancora). E fanno le indovine, senza dimenticare l'«arte» antichissima dell'accattonaggio, tirandosi dietro per mano, attaccati alla gonna, o portati in braccio i loro bambini.
Nella mia terra natale i rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli «zingari» mi rapissero portandomi via chissà dove (correvano voci di rapimenti). Ma nessuno mi ha mai fatto del male; invece, ho imparato dai rom molte cose utili. Essi apprendono facilmente le lingue, forse più degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescano a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici. Essi mi hanno aiutato ad ascoltare e annotare parte del racconto che qui espongo.
I rom hanno diversi termini per indicare il pane; il più frequente è marno che diventa poi manro, maro e mahno nelle varianti. La farina è arho, un nome che nella romanichila, la lingua dei rom, non ha il plurale. E la cosa, forse, non è casuale. Il lievito si dice humer, la fame è bok, essere affamato è bokhalo: queste ultime due parole, sono di uso abbastanza comune. Ch'alo (si pronuncia: cialo) è sazio, panif è l'acqua, jag è il fuoco, lonm è il sale; mangiare si dice hav che è infinito e presente insieme. Conoscendo la povertà, la penuria e la ristrettezza, circondati da tante cose ma privati quasi di tutto, i rom sanno ben distinguere ciò che è pulito (vujo) e quel che è sporco (mariame) non soltanto nel cibo, ma anche negli usi e costumi.
Non si servono di ricette scritte su come si fa il pane o come si prepara qualsiasi altro cibo, ma conservano e si tramandano una lunga tradizione orale che passa di madre in figlia, di generazione in generazione. Il loro modo di vivere non gi permette di servirsi di forni per il pane, ma una focaccia si può cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pitha (una specie di pizza) su una piastra di semplice latta. Sapeste come sono saporite le pagnotte e le focacce dei rom!
Nei loro proverbi sul pane c'è molta saggezza. Ne ho annotati alcuni nella lingua originale e li riporto perché se ne senta il suono; li ho poi tradotti per renderli più comprensibili.
Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi lengo vast ciumidela: «Se il povero venisse bastonato con il pane, egli bacerebbe la mano di chi lo colpisce ».
O marno sciai so o Develni kamel thai so a thagar nasc'tisarel: «Il pane può fare quello che Iddio non vuole e che l'imperatore non riesce a fare».
Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce bi ovena vi e khanghira vi e krisa: «Se vi fosse pane sufficiente per tutti in questo mondo, le chiese e i tribunali sarebbero deserti».
Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe: «Se ci fosse il pane e non ci fossero i furbi, le preghiere sarebbero inutili ».
O bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo dikhel suno pe sune: «L'affamato sogna il pane, il ricco sogna i propri sogni ».
Una giovane zingara, allattando il proprio bimbo al seno, mi recitò quanto trascrivo di seguito, nella sua lingua: una breve canzone dedicata al pane. Me la tradusse persino. Il titolo è « Marno », semplicemente: «Pane». I voghi e iag giuvdarel, / i pani o arko bairarel. O humer i dai longiarel / thai peske ilesa gudgliarel, gudlo thai baro te ovel, / pire c'havoren te ciagliarel.
Ed ecco la traduzione, purtroppo senza la fisarmonica e il tamburello: «Il soffio ravviva il fuoco, / con l'acqua si gonfia la farina. / La mamma versa il sale nella pasta, / la insapora con l'anima sua / perché il pane sia dolce e abbondante / e nutra i suoi bambini».
L'uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto per volontà propria. L'accattonaggio è l'ammonimento agli uomini veri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare il pane a ciascuno, a coloro che non dovrebbero dimenticare la carità. Le armi e le guerre costano molto di più del pane. Gli antichi profeti consigliarono, invano, di sostituire la lancia con il vomere. I rom non possiedono terre da arare. Ed oggi è per loro più facile mendicare, e talvolta, anche un po' rubare. Domani, forse, non sarà più così. «Non dovrebbero essere così» dice il vecchio zingo, come una volta lo chiamavano nei Balcani, usando termini vezzeggiativi.
Traduzione di Giacomo Scotti

Corriere della Sera 30.5.08
Donne fatali. Da Marie Duplessis a Lola Montez, le cortigiane viste da Giuseppe Scaraffia
Eros & potere: il catalogo delle belle e traviate
di Annamaria Andreoli


Marie Duplessis, la «Signora delle camelie», è la più celebre di una folta schiera di prostitute d'alto bordo che il secondo Ottocento farà brillare nel cielo del mito. Parigi, la capitale del secolo borghese, del secolo dell'industria, degli affari e del perbenismo, ha prodotto questo genere di divinità maledetta quale indispensabile valvola di sfogo: è il piacere che trionfa sul dovere, la bellezza sull'utile.
Di quella schiera di traviate, Giuseppe Scaraffia, assiduo frequentatore dell'Ottocento francese, offre alcuni ritratti che guardano però oltre il mito ( Cortigiane. Sedici donne fatali dell'Ottocento, Mondadori). Tutte bellissime, le sue mondane leggendarie usano la testa non meno del corpo per condurre alla rovina i più rispettabili gentiluomini. Al pari degli agenti di borsa esse sanno determinare la propria quotazione puntando sul valore simbolico dell'eros e diventando così, non a caso, protagoniste indiscusse della moda, dello charme e del lusso, contagi quanto mai immateriali a dispetto della merce che vendono. Un bisticcio di parole, coniato da Baudelaire, è il loro monito: «Per adorare bisogna dorare » (ovvero ricoprire letteralmente d'oro), dato che non è desiderabile se non ciò che si paga a caro prezzo.
I medaglioni di Cortigiane contengono un fuoco di fila di battute che sono altrettanti motti di spirito: segno che la femme fatale è qui chiamata in causa direttamente, attraverso memoriali e carteggi, al di fuori dell'ottica di parte maschile a cui si deve l'elaborazione del mito — Alexandre Dumas figlio in testa. Lola Montez o Marguerite Bellanger, Alice Ozy o Léonide Leblanc appaiono, oltre che allegre, accorte e lungimiranti. Donne libere, soprattutto, antesignane dell'emancipazione, le prime a lottare contro i segni dell'invecchiamento, a praticare lo sport e la dieta per conservare la linea. Spesso poi si sposano, e il matrimonio non è per calcolo con qualche decrepito babbeo facoltoso, ma, scelgono riamate un aitante e ricco rampollo di buona famiglia. Anche se fortuita, la morte precoce della tisica Marie Duplessis sembrò invece ai benpensanti il giusto destino sacrificale di ogni prostituta perché il tragico epilogo metteva in salvo la morale borghese. Esclusa la possibilità del riscatto, il mito poteva dunque prosperare, tant'è vero che le mondane si chiameranno «perdute » come i cavalieri erranti dei tempi remoti. Scaraffia le proietta piuttosto nel futuro per ritrarle come «dive» già capaci di servirsi della pubblicità e del feticismo, attrezzi del mestiere che collaudano al riparo della volgarizzazione novecentesca. Se un mito permane è solo quello, condiviso da Proust, della Belle Époque spazzata via dalla prima guerra mondiale.
Marie Duplessis è una delle protagoniste del libro di Giuseppe Scaraffia «Cortigiane», (Mondadori, pp. 288, € 18)

Repubblica 30.5.08
No pasaran. Il leader dei Radicali punta il dito anche contro le fiction sui santi
Pannella: questo Vaticano non ha senso della misura
di Goffredo De Marchis


Il disco pontificio suona la stessa musica a volume sempre più alto. Sommessamente mormoro il mio ‘no pasaran´ e ‘non praevalebunt´

ROMA - Onorevole Pannella, il Papa s´interessa, e lo benedice, anche al dialogo tra gli schieramenti. Non è il sintomo di un´ingerenza della Chiesa ormai a tutto campo?
«Direi che questo semmai è un sintomo minimo, un semplice auspicio quasi di senso comune, più di che di buon senso. E dargli valore significa distrarsi dall´essenziale. La notizia è che il disco pontificio continua a ripetere a volume sempre più alto la solita musica. Io sommessamente mormoro il "no pasaran" e il "non praevalebunt"».
All´intervento di sostegno alle scuole cattoliche invocato da Ratzinger, il Partito democratico deve opporsi o cercare anche in questo caso un confronto con i cattolici, con la Chiesa?
«C´è davvero un problema culturale molto preciso: accettare lo stesso principio del dialogo con i cattolici in quanto tali significa uscir fuori dalla storia civile e religiosa italiana ed europea per rinchiudersi nel ghetto di una cultura clericale da una parte e assolutamente a-liberale, a-laica dall´altra. Il cattolico in quanto tale non va individuato politicamente ma per il suo specifico, la sua fede, la sua libertà di coscienza e di religione. Non come membro di una comunità politica che teorizza e pratica una visione integralista della società e dello Stato».
Ma il Pd cerca disperatamente la sintesi tra laici e cattolici come suo elemento costitutivo e identitario.
«La sintesi professata e ricercata fra cattolici e democratici e laici è una impostazione di per sé destinata a fallire. Il problema non è quello della sintesi fra gli opposti ma, politicamente, scegliere tra questi opposti. Come fra dittatura e democrazia, fra libertà di coscienza e il suo contrario, cioè la pretesa assolutista e anti-relativista. Questa ricerca di sintesi quindi è fra due referenti sbagliati ed evocativi di un modo di intendere valori laici e valori religiosi estranei alla storia della democrazia in tutto il mondo.
È giusto aspettarsi invasioni vaticane meno di buon senso e più pericolose in futuro?
«Vede, quando il messaggio televisivo è totalmente occupato da un potere che viene riconosciuto come una vera e propria religione di Stato non c´è che da prendere atto che ogni giorno lo stesso potere vaticano perde completamente il senso della misura e vive una crisi di identità che lo trasporta indietro di secoli e manifesta una situazione italiana nella quale confluiscono affluenti della storia di un Paese che ha dato al mondo nientedimeno che il fascismo e il più forte partito comunista in un paese democratico durante il periodo stalinista. Quindi fascismo, comunismo e la controriforma ingrossano il fiume in piena di un´Italia in cui non c´è diritto e non c´è democrazia».
Ma i laici sembrano nascondersi, sbandano, non si fanno sentire.
«Stiamo raccogliendo il frutto di due decenni di propaganda massacrante di stampo antiliberale. Voglio fare l´esempio non solo dei telegiornali e del loro assoggettamento al potere vaticano, ma anche della fiction televisiva. Negli ultimi due-tre anni sono passati soprattutto personaggi legati alla Chiesa, preti e "santi". Penso all´ultimo don Zeno, a Padre Pio, a tanti altri. Non è facile recuperare terreno rispetto a questo retaggio».

Repubblica 30.5.08
Ma perché la sinistra dovrebbe vincere?
di Giorgio Ruffolo


Più ci penso più mi convinco che la ormai evidente crisi della sinistra (parlo soprattutto di quella europea) è dovuta, molto più che a gravi errori politici, pure evidenti, a fattori culturali e morali.
In una intervista ripubblicata da Lettera Internazionale, la bella rivista diretta da Federico Coen e Biancamaria Bruno, Cornelius Castoriadis ricordava che i filosofi politici di oggi «ignorano alla grande l´intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare».
È un fatto che nel nostro tempo, diciamo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è profondamente mutato non soltanto il regime sociale (la struttura della economia e delle classi sociali) ma anche il «tipo antropologico» rappresentativo della società. Della prima mutazione i partiti della sinistra (parlo dei grandi partiti «riformisti») si sono, anche se a stento, accorti e hanno tentato di adeguarsi, prevalentemente in modo passivo, e cioè subendo l´iniziativa di un capitalismo vittorioso. Non hanno invece neppure percepito la seconda, il profondo mutamento culturale che la accompagna e che determina i cambiamenti dell´umore politico e del comportamento elettorale.
Parlo di cambiamenti che si rivelano più con manifestazioni apolitiche e apparentemente irrilevanti, ma significative del modo di sentire e di pensare; dei valori esistenziali; degli "attrattori" del comportamento: tutte "spie" di mutamenti antropologici.
Nell´ultimo mezzo secolo, certo, la natura umana profonda, quella che contraddistingue le caratteristiche strutturali costituenti della specie, è cambiata di poco. Essa cambia sì, ma assai lentamente nello spazio dei millenni, anzi dei milioni di anni. Le caratteristiche culturali, che riguardano i comportamenti estrinseci, cambiano invece radicalmente e talvolta rapidamente. Chi potrebbe dire che l´Uomo medievale o l´Uomo del Rinascimento sono vicini al nostro modo di considerare la vita? (con sorpresa constatiamo, talvolta, che ci è molto più vicina la cultura degli antichi romani! il che prova che la nostra non è una evoluzione lineare).
Ora: un cambiamento antropologico radicale è intervenuto tra la società occidentale dell´Ottocento e della prima metà del Novecento e quella attuale. Quella accoppiava un forte materialismo progressista e scientifico con una altrettanto perentoria esibizione di valori etici trascendenti (Dio, Patria, Famiglia); un accoppiamento che ne costituiva insieme la contraddizione e la forza. Questa ha abbandonato la fede nelle magnifiche sorti e progressive ripiegando dal materialismo progressista allo psicologismo scettico; e al tempo stesso ha annegato i valori trascendenti, cui tributa una deferenza sempre più formale e superstiziosa, in una esplosione di edonismo e di egoismo davvero trascendentale. Il che la rende, magari, più coerente, ma intrinsecamente più vulnerabile.
La forza attrattiva della sinistra stava nella sua decisa denuncia delle contraddizioni della società borghese; della sua ipocrisia e della sua ingiustizia: dell´impossibilità di coniugare i suoi valori trascendenti esibiti, con la pratica della sopraffazione e dello sfruttamento. La sinistra di oggi si trova di fronte a classi dirigenti che, grazie al formidabile progresso tecnologico, non hanno più bisogno sistematico di sfruttamento del lavoro (sebbene questo sia tutt´altro che scomparso) essendo in grado di produrre masse enormi di beni di consumo. Viene meno dunque, almeno in parte, la sua missione di denuncia dello sfruttamento del lavoro. Si ingigantisce invece lo sfruttamento della natura, praticato in cambio di utilità sempre più frivole e al costo di distruzione di risorse irreversibili. D´altra parte, le nuove classi dirigenti rinunciano a presentarsi come portatrici di valori trascendenti per identificarsi con quelli decisamente immanenti dell´edonismo materialistico. Sul terreno economico, la virtù ascetica del risparmio è sostituita dalla incentivazione pubblicitaria dell´incontinenza consumistica; e l´ammirazione per i grandi imprenditori costruttori per quella dei grandi maghi speculatori. Di fronte a questa vera e propria conversione a U del vangelo capitalistico, la sinistra, da una parte si trincera combattendo un capitalismo che non c´è più; dall´altra, manca di percepire le nuove contraddizioni del nuovo capitalismo: che sono soprattutto ecologiche e morali.
Ecologiche: l´insostenibilità di una economia basata sul consumo del capitale naturale: una distruzione chiamata crescita.
Morali: l´orientamento della potenza creatrice della tecnica verso le finalità frivole del consumo, anziché verso la realizzazione di una società più giusta, di bisogni collettivi più urgenti, di scopi culturali realmente trascendenti.
La sinistra, da una parte, quella "radicale", recita un vecchio copione inattendibile. Dall´altra, quella "riformista", insegue una rispettabilità politica basata sull´imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.

Repubblica 30.5.08
Se la politica invoca dio
La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna


Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da discutere
Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora

Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica" diretta da Ivano Dionigi

Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica manifestamente cerca l´appoggio della religione e la religione l´appoggio della politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha portato l´Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè nell´epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di fondare il governo dell´esistenza, la comprensione del suo significato e la sua salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane. Questo fallimento dimostrerebbe l´insensatezza di quella pretesa. La parabola storica che, dall´umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell´essere umano nell´universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata, non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato "appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a superare l´impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l´idea tramandata di laicità che abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e contestabili e che non si legano affatto l´una all´altra. È cioè una serie di aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un´atmosfera che, a considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l´esclamazione di Martin Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno all´effetto-serra? Un dio o l´applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nell´atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo a un principio d´ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti religiosi che coincidono con il riconoscimento dell´esistenza di un limite a protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici, che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l´amore del prossimo o l´odio e l´oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la comprensione ma anche per l´incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società, cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo noi stravolgere l´insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth, che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt´altra natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto all´introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione. Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c´è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all´autorità, si oppone all´ordine stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla testimonianza della fede. Solo quando l´ordine di Cesare contraddice la parola del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l´uso della fede cristiana per rafforzare - come anche d´altra parte per indebolire - l´autorità del potere civile. I cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»; «partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E, invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione, quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe aspettati, l´affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la "buona Novella" diventa instrumentum regni.
D´altro canto, si può comprendere che l´autorità politica abbia interesse ad assicurarsi l´appoggio della religione. E si comprende ch´essa, per raggiungere lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si lascerà sfuggire l´occasione: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri», diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in cambio dell´appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto della parte ecclesiastica quanto di quella civile.

L'espresso 30.5.08
Patologie e business. Malati molto immaginari
di Enrico Pedemonte


La timidezza che diventa fobia sociale. La vivacità che diventa sindrome da iperattività. La caduta del desiderio che diventa nevrosi... E tutto per produrre nuove pillole e terapie. La denuncia di un guru Usa
colloquio con Christopher Lane

Una volta si diceva: "È timido e intelligente", e i due aggettivi erano affiancati per descrivere un bambino educato e sensibile. "Ai tempi di mia madre", racconta Christopher Lane, professore di Letteratura alla Northwestern University: "La timidezza era considerata una forma di intensità tranquilla, di lodevole reticenza e capacità introspettiva. Poi le cose sono cambiate, e la timidezza si è trasformata in un problema".

Come questo sia successo Lane lo racconta in un libro appena pubblicato: ('Shyness: How a Normal Behauviour Became a Sickness': timidezza, come un normale comportamento è diventato una malattia) che dimostra con una meticolosa analisi storica come gli interessi economici dell'industria dei farmaci e quelli di una categoria professionale (gli psichiatri) si siano saldati e siano riusciti a modificare in modo radicale la cultura collettiva e i comportamenti delle famiglie. Grazie anche a due alleati formidabili: il mondo del marketing e quello dei media. Lo abbiamo intervistato.

Professor Lane, com'è successo che la timidezza è diventata una malattia?

"La storia comincia nel 1980, quando viene pubblicata la terza edizione del 'Manuale di diagnostica e statistica delle malattie mentali', la Bibbia degli psichiatri. Fu allora che vennero introdotte nuove malattie, per esempio la 'fobia sociale' o il 'disturbo evitante di personalità', che però furono definite in modo così generico da includere anche reazioni comuni come la timidezza".

Come nacque questa scelta?

"Gli psichiatri responsabili del 'Manuale di psichiatria' erano convinti che nelle vecchie edizioni le definizioni di alcuni comportamenti fossero imprecise, con troppi termini, tratti dalla psicologia e dalla psicoanalisi, che gli psichiatri americani non amavano. Soprattutto un termine freudiano come 'nevrosi'. Gli psichiatri americani volevano azzerare l'influenza culturale di Freud e della psicoanalisi per spingere la psichiatria verso la neuro-psichiatria".

Eliminare la parola 'nevrosi' era così importante?

"Cancellando il linguaggio delle nevrosi si mette l'enfasi sulla malattia, e si sposta il focus dalla mente al cervello. In questo modo le sofferenze vengono descritte più come effetto di squilibri chimici nel cervello che di conflitti psicologici o stress ambientali nella mente delle persone. E le pillole prendono il posto delle terapie legate alla parola".

Che ruolo ha avuto l'industria farmaceutica?

"C'è un legame stretto tra aziende e psichiatri. Le prime sponsorizzano gli esperimenti clinici, i secondi sono spesso riluttanti a diffondere i risultati negativi per l'industria. Recentemente il 'New England Journal of Medicine' ha pubblicato uno studio che dimostra come le ricerche divulgate abbiano distorto o esagerato per 17 anni gli effetti di certe medicine. Sto parlando di molte pillole per combattere depressione e ansia".

Sono farmaci dannosi?

"La Glaxo Smith Kline, un'azienda britannica, ottenne l'approvazione del Paxil (in Europa si chiama Seroxat), nel 1996, per ogni tipo di 'ansia sociale' (social anxiety disorder). Si tratta di un farmaco che ha parecchi effetti collaterali, crea dipendenza e può avere conseguenze gravi. È una situazione assurda, perché ci sono milioni di persone che soffrono di ansie limitate e che prendono un farmaco con effetti collaterali gravi, inclusa l'ansia cronica".

Colpa del marketing?

"Il marketing ha giocato un ruolo importante. Quando gli psichiatri inserirono l'ansia sociale tra le patologie, aprirono le porte alle compagnie farmaceutiche che cominciarono a promuovere l'esistenza di questa nuova malattia e a incoraggiare la gente ad analizzare i propri comportamenti e le proprie emozioni per capire se ne soffrivano".

Lei accusa gli psichiatri americani di avere medicalizzato problemi di routine come l'ansia di parlare in pubblico...

"Recentemente ho parlato con Robert Spitzer, che era il capo degli psichiatri che compilarono il 'Manuale'. Gli ho contestato che la definizione di ansia sociale ha causato un eccessivo consumo di farmaci, specie da parte dei bambini. Mi ha risposto di essere consapevole che c'è troppa gente trattata per questo disturbo, anche quelli che sono affetti da semplice timidezza, ma che l'ansia sociale è un disturbo serio, e che gli psichiatri conoscono bene la differenza tra ansia sociale e semplice timidezza".

Lei cosa gli ha risposto?

"Se si analizza la letteratura psichiatrica si capisce che la distinzione tra questi due disturbi è quasi impossibile da definire. Parecchi esperti sostengono che i sintomi dei due disturbi sono quasi identici. È disonesto dire che si possono distinguere. È disonesto non sottolineare i possibili effetti collaterali di certi farmaci utilizzati. A dicembre una bambina di quattro anni del Massachusetts è morta per overdose psichatrica. Le erano stati dati degli antipsicotici. L'ospedale ha avviato un'inchiesta e il primario psichiatra ha dovuto ammettere con qualche imbarazzo di avere sotto cura almeno 955 bambini sotto i sette anni che prendono lo stesso farmaco di cui è morta quella bambina. Come siamo arrivati al punto in cui così tanti bambini piccoli prendono farmaci psichiatrici così seri per problemi che spesso sono normali comportamenti nella fase dello sviluppo?".

Ebbene?

"Se si guarda con attenzione alla definizione di 'ansia sociale' si scopre che i sintomi comprendono l'ansia di mangiare da soli al ristorante, il timore che ci tremi la mano quando firmiamo un assegno, o il desiderio di evitare i gabinetti pubblici. Cose normalissime. È successo qualcosa di assurdo ed estremo nella psichiatria americana. La fiducia in questi farmaci ha eclissato qualunque senso delle proporzioni".

L'industria farmaceutica si sta inventando altre malattie?

"Il prossimo 'Manuale di psichiatria' dovrebbe essere pubblicato nel 2012. Ci sono pressioni per introdurre nell'elenco delle patologie da curare anche l'apatia, l'abuso di Internet, lo shopping eccessivo. Un'altra malattia possibile è 'l'infelicità cronica indifferenziata' che si riferisce alle persone che appaiono generalmente tristi e melanconiche. C'è stato persino chi ha proposto 'la malattia della lagnanza cronica' (Chronic Complaint Disorder) che riguarda chi passa il tempo a lamentarsi del tempo, delle tasse e della propria squadra che ha perso. Per fortuna questa proposta è stata respinta, ma già il fatto che sia stata discussa la dice lunga sul clima culturale esistente. Siamo alla farsa".

Nel libro lei sostiene che la psicofarmacologia ha successo perché promette la perfezione, come la chirurgia plastica...

"L'enfasi sulla perfezione aumenta le sofferenze individuali perché le aspettative crescono ed è impossibile soddisfarle. È una tendenza che andrebbe fermata".

Nel libro lei suggerisce che la fede nei farmaci nasce dal fatto che molti hanno elevato lo scientismo al rango di una religione.

"La scienza ci offre spiegazioni sempre più meccanicistiche di che cosa significa essere umani. Ci spinge a credere che se riusciamo a identificare un problema in modo scientifico si possa trovare una soluzione rapida sotto forma di un farmaco. Il linguaggio stesso usato dai neuropsichiatri ci spinge a pensare che, se una persona ha uno squilibrio chimico nel cervello, questo possa essere corretto da una pillola. Si tratta di una fantasia che evita ogni discussione sugli effetti collaterali e sulle conseguenze impreviste in termini di alterazione della personalità. Ci viene fatto credere che il cervello è un meccanismo talmente semplice che può essere corretto in poco tempo con una pillola ogni volta che si incontra un problema. Questa cultura suggerisce che la neuropsichiatria possa evitare l'infelicità e la sofferenza. Molti neuropsichiatri mostrano un atteggiamento messianico quando parlano del loro lavoro, e quando spiegano come si può intervenire sullo sviluppo dei bambini per salvarli da sofferenze future".

il Riformista 30.5.08
Seminario. Think tank alleati alla guerra sulle riforme istituzionali
D'Alema va alla carica del «modello lombardo»

In principio doveva organizzare solo la Fondazione Italianieruopei. Poi Massimo D'Alema ha chiesto di collaborare all'Astrid di Franco Bassanini e Giuliano Amato. Adesso lo schieramento dei think tank pronti a mettere la firma sul seminario per le riforme istituzionali in preparazione per giugno, alla cui preparazione sta lavorando lo storico Roberto Gualtieri, è un elenco ben nutrito e trasversale di pensatoi: Arel, Istituto Sturzo, Fondazione Basso, Centro per la riforma dello Stato. E non è detto che l'elenco sia finito qui.
La platea degli organizzatori è stata ampliata - su richiesta di Bassanini - per scongiurare un interpretazione dell'appuntamento tutta interna allo scontro di correnti nel Pd. Anche perché l'ordine del giorno si presterebbe non poco a una simile lettura. Sui tre temi in discussione - forma di governo, legge elettorale, riforma federale - il punto di partenza appare infatti distante dalla linea più o meno ufficiale del Loft. E in particolare è sull'ultimo punto che si annuncia battaglia, sia mettendo rigidi paletti sul federalismo fiscale, un dossier sul quale l'ala liberal del veltronismo è invece tentata di collaborare, sia contestando il «modello lombardo», che ha a sua volta incassato il placet di autorevoli dirigenti democrat .
Inoltre l'iniziativa nasce in dichiarata distonia con i progetti di stabilizzazione del bipartitismo Pd-Pdl e contro ogni ipotesi di varare la Terza Repubblica sulla base di soluzioni semipresidenziali o di premierato "forte". Quanto alla legge elettorale, l'orientamento maggioritario tra i soggetti che organizzano è per una soluzione di tipo tedesco che oggi, a differenza della scorsa legislatura, senz'altro non ha i numeri per sfondare in Parlamento. Ma più della conta vale il messaggio (a Veltroni): la leadership del Pd non ha il mandato per allargare a piacere i confini del dialogo con Berlusconi sulle riforme istituzionali.

Repubblica 30.5.08
L’agenda vaticana
di Giancarlo Bosetti


C´era una volta una istituzione del giornalismo italiano che si chiamava "nota politica". Consisteva in una analisi meticolosa, ricca di aggettivi e di formule rituali, delle dichiarazioni dei leader e si apriva di solito con qualche parola sulla "temperatura politica" che dava il tono della giornata, del tipo: «Più distese le relazioni nella maggioranza» oppure: «Si arroventa il confronto tra le correnti dc».
Il discorso del Papa di ieri fa venire in mente la prosa del notista politico che nei giornali non c´è più: «Segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo», «rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni». Il testo che fa da sintesi e termometro delle relazioni politiche è scomparso dai quotidiani, ma si riaffaccia al termine dei lavori della Conferenza episcopale italiana nelle parole del Pontefice.
In verità è l´insieme dei lavori della Conferenza episcopale che ci ricorda la cura nell´analisi della situazione "sociale e politica" che in altri tempi si trovava nella vita dei partiti e dei loro organismi. Le immagini televisive della assemblea dei vescovi, tutti ordinatamente sui loro scranni, chini sui fogli a prendere appunti mentre parla il cardinale Bagnasco, sono un unicum nella nostra vita pubblica. Le riunioni dei partiti sono dei festival con grandi cieli azzurri di cartone e folle vocianti come allo stadio. Oppure non si fanno per niente. Nessuno comunque prende mai appunti. I vescovi invece chiosano e dosano aggettivi (e forse anche "emendano" nel dibattito che non vediamo?) come accadeva nei comitati centrali del Pci o nei consigli nazionali della Dc. A pensarci bene, sono l´unico comitato centrale, l´unica Direzione sopravvissuta. Constatazione che merita riflessione nostalgica o ansioso disappunto, secondo si tema di più il declino della vita politica o il crescere di una aggressiva ingerenza ecclesiastica. E soprattutto: ultimo residuo dei vecchi tempi o preannuncio dei nuovi?
L´auspicio di «una nuova stagione di crescita» è abbastanza ecumenica da non sollevare riserve, ma le sollecitazioni sulla famiglia, la vita, il sostegno alle scuole cattoliche, l´immigrazione suonano come una lista di obiettivi politici pressoché completa preannunciata al governo alla vigilia di un incontro con il primo ministro, come si addice non più a un "notista", a un osservatore, e neppure a un think-tank, o a un gruppo di pressione che sieda al tavolo della concertazione, ma a una autorità investita (dall´Alto) della facoltà di dettare l´agenda. Le parole di ieri sono formulate come "auspici", ma seguono di pochi giorni un violento attacco alla legge sull´aborto, la 194, come una «ferita nelle nostre società», ferita aperta, dunque da rimarginare, da cancellare.
Non sorprende un richiamo ai valori cari alla Chiesa cattolica, scandalizza e viola le regole della laicità liberale che esso prenda la forma di un imperativo rivolto al potere politico, quasi si trattasse di un partito che abbia conquistato la maggioranza alle elezioni e si accinga a mettere in pratica il programma presentato in campagna elettorale. Con un implicito giudizio positivo sul risultato elettorale, Benedetto XVI sembra volerlo fare suo. Ma le due cose – giudizio e risultato – rimangono distinte. Le elezioni – piaccia o non piaccia come sono andate – non sono state affatto un plebiscito sui valori proposti dai vescovi italiani. L´esito si è se mai distinto proprio perché i temi che hanno scatenato forti divisioni tra cattolici e non (aborto, eutanasia, ricerca sugli embrioni) sono finiti ai margini, insieme alle liste che più ci avevano fatto conto, da una parte e dall´altra. Il segnale inviato dagli elettori è esattamente che chi ha vinto ha vinto e chi ha perso ha perso per ragioni diverse da quelle care alla Cei. Se poi si volesse sottilizzare, il successo leghista non depone a favore dell´etica caritatevole dell´accoglienza e dei ricongiungimenti famigliari degli immigrati. Al contrario.
Dunque non si vede su quale base riposi una presunta facoltà della Chiesa romana di dettare l´agenda. Il dialogo tra la fede e la ragione, tra credenti e non credenti in una democrazia liberale, come quello che Ratzinger ha proposto già dall´epoca del suo confronto con il filosofo Jürgen Habermas, nel 2004, si nutre di un reciproco rispetto tra laici e religiosi che richiede un intenso lavoro di "traduzione" del linguaggio religioso in linguaggio della "ragione pubblica". È una buona cosa che si possa ascoltare nella vita pubblica la voce di chi ha fede, buona anche per chi non crede. E può essere anche utile in una fase di mutismo dei partiti. Ma si tratta di un bene da gestire con prudenza, moderazione e con una attenta opera di "traduzione", tra sfera dei valori di fede e sfera dei valori democratici, che la Cei così irresistibilmente attratta dalle funzioni politiche, tende a dimenticare.
Tanta vicinanza della Chiesa all´agenda politica italiana (e solo questa?) è sospetta, specie nelle parole della sua guida più alta. Si tratta di una autorità spirituale planetaria e in questo modo, così legato a una singola locale bottega, non rischia di incoraggiare dei dubbi sulle dimensioni salvifiche e universali del suo messaggio? Il linguaggio delle note politiche di giornata e le analisi tendenziose del voto non si addicono a titolari di progetti bimillenari.