l’Unità 10.9.11
«Basta autolesionismo
Solo un Pd unito può battere la destra»
Appello di dirigenti e amministratori locali del Partito democratico a sostegno del segretario. «Necessario essere determinati, di fronte a un governo tanto irresponsabile»
Alcuni dirigenti locali e amministratori del Pd hanno promosso questa lettera aperta, indirizzata al gruppo dirigente del partito. La lettera, già sottoscritta da oltre 250 persone, è stata pubblicata on line con il titolo: “Non siamo mica qui a pettinar Bersani”.
Abbiamo a cuore il Partito Democratico. Alcuni di noi sono semplici iscritti o militanti, altri dirigenti locali, altri ancora amministratori. Abbiamo età diverse: “siamo solo noi”, col nostro bagaglio di passioni, speranze, idee e progetti. Orgogliosamente, gente del Pd.
Riteniamo che in una fase drammatica come quella che sta vivendo il Paese, a fronte di un Governo incapace e irresponsabile, si accresca la necessità di un Pd unito e determinato in grado di mostrarsi forte verso quelle "cricche" della società che godono nell’illustrare il Pd come forza labile, consapevoli che il vivacchiare di un governo debole e incapace sia il miglior modo di sopravvivere politicamente e che trovano come fantastici alleati tutti quelli che minano l’unità, e quindi la forza, della principale alternativa di governo.
Per questo ci sconcerta e sorprende l’atteggiamento di chi ogni giorno privilegiando la propria visibilità personale mette in discussione, con distinguo rispetto alla linea condivisa, il progetto del Pd, senza rendersi conto che si fa involontariamente complice di chi punta a indebolirci..
La democrazia in genere ha delle proprie sedi di confronto, che non sono le pagine dei giornali (sulle quali solo i nomi noti possono trovare spazio). Le discussioni politiche, in un partito “democratico”, si svolgono all’interno degli organismi dirigenti eletti da tutta la base del partito, è quello il luogo naturale in cui si manifestano differenze culturali e di pensiero che sono elemento vitale di una organizzazione politica, ma che in quello stesso luogo devono trovare un momento di sintesi e di condivisione.
È quello il luogo in cui cimentarsi nel merito delle questioni. Parliamo di merito perché sentiamo la necessità che il nostro progetto politico sia sostenuto dalla conoscenza. Per fare esempi concreti, vogliamo riferirci alle difficoltà che abbiamo incontrato nella campagna referendaria e nella discussione intorno al riassetto istituzionale dello Stato, in cui spesso è prevalso il rincorrere le sensazioni e gli umori a scapito del ragionamento e anche del sostegno alle proposte del Pd approvate in direzione e presentate in Parlamento.
La linea di Bersani, che ha saputo miscelare ciò che alle primarie era diviso, mettendo in primo piano i progetti e i programmi per l’Italia, ha fatto crescere inequivocabilmente il Pd, portandolo a importanti successi amministrativi e proponendosi come forza in grado di scardinare le incrostazioni che hanno portato il Paese a scivolare così in basso. Abbiamo finalmente un segretario che dimostra di voler interpretare il proprio ruolo di leader come coordinatore di un collettivo, solerte e scrupoloso, senza manie di protagonismo.
È un atteggiamento conservatore? È vecchio? Superato? A noi risulta soprattutto che sia vincente. E siccome a noi un Pd vincente piace, abbiamo deciso di dire basta. Che non siam mica qui a pettinar Bersani! Ma a tendergli la mano per tornare al governo insieme.
Firmatari: Gessica Allegni Elena Belletti Maria Grazia Bonicelli Ilaria Visani Seguono altre 254 firme
l’Unità 10.9.11
Pd, regole più dure Stretta sui tre mandati e no ai doppi incarichi
Sanzioni per chi non si dimette da incarichi giudicati incompatibili e stretta sul limite dei tre mandati sono alcune delle proposte di modifica allo Statuto e al Codice etico del Pd ipotizzate dalle commissioni garanzia riunite ieri a Pesaro.
di Simone Collini
Sanzioni per chi ricopre più incarichi, incompatibilità tra ruoli dirigenziali nel partito e in enti pubblici, stretta alle deroghe per i tre mandati, precisi limiti e nuove regole per garantire la trasparenza nelle spese per le campagne elettorali, nonché norme più stringenti per far rispettare quelle già vigenti. Pena, di nuovo, sanzioni che vanno dalla censura, alla sospensione dai gruppi, a quella dal partito. Sono alcune tra le ipotesi di modifica allo Statuto e al Codice etico che le commissioni di garanzia del Pd (la nazionale e le locali) hanno discusso ieri. E che se il confronto proseguirà sulla linea tracciata si tramuteranno in proposte da presentare alla Conferenza sul partito che Bersani convocherà a novembre.
«Non siamo un partito di francescani», dice Luigi Berlinguer con un sorriso dopo quattro ore di discussione a porte chiuse. «Abbiamo delle norme, nello Statuto e nel Codice etico, severe, robuste, come non le ha nessun altro partito. Ma qui ci siamo detti che non basta, che vanno migliora-
te». È appena finita una riunione fiume a cui hanno partecipato i membri della Commissione di garanzia nazionale insieme a quelli di analoghi organismi regionali e provinciali. L'incontro è servito a fare il punto sulle misure disciplinari di cui si è dotato il Pd, un confronto con accenti anche problematici perché si è trattato di valutare se finora si siano dimostrate sufficienti ad intervenire con efficacia nei confronti di persone coinvolte in vicende che riguardano la moralità pubblica. E la conclusione, condivisa da un po' tutti quelli che ora escono dalla sala consigliare del Comune di Pesaro e si vanno a disperdere tra le vie della Festa democratica, è che no, non si sono dimostrate sufficienti. E quindi verranno presentate una serie di modifiche allo Statuto e al Codice etico che poi chiederanno di approvare alla Conferenza sul partito che, salvo scenari eclatanti (leggi la caduta del governo), si terrà a Roma tra un paio di mesi.
Paradossalmente il caso più spinoso di tutti quelli discussi nel corso della riunione – il coinvolgimento di Filippo Penati nelle inchieste per la ex area Falck e per la Serravalle – è stato giudicato quello meno problematico, dal loro punto di vista. «Lo abbiamo risolto”, dice Berlinguer facendo riferimento all'espulsione e alla cancellazione dall'Albo degli iscritti per l'ex presidente della Provincia di Milano. «Il nostro compito è quello di difendere il partito», dice il presidente della Commissione di garanzia del Pd sottolineando comunque che questo incontro è stato convocato ben prima che si scatenasse la vicenda Penati. «Noi crediamo nella magistratura, al contrario di altri che invece fanno di tutto per eludere la giustizia, aspettiamo di ascoltare il giudice, ma attraverso la norma molto seria della sospensione manteniamo la singola persona distinta dal partito per tutto il periodo del procedimento processuale». Da questo punto di vista, per i Democratici che hanno partecipato alla riunione, non servirebbe neanche una stretta e l'espulsione dovrebbe essere mantenuta per i casi di sentenza definitiva, patteggiamento (perché equivarrebbe a un'ammissione di colpa, viene spiegato) o per accuse di particolare gravità (mafia, criminalità organizzata).
LE PROPOSTE DI MODIFICA
I membri delle commissioni di garanzia, nazionale e regionali, giudicano invece necessarie delle modifiche allo Statuto e al Codice etico sul fronte delle incompatibilità, del limite dei mandati e della trasparenza per le spese elettorali. Non tanto per inserire nuove norme, ma per rendere più stringenti quelle esistenti. Così hanno ragionato sull'opportunità di prevedere delle sanzioni per chi non si dimette da incarichi giudicati incompatibili nelle istituzioni (ad esempio parlamentari e presidenti di provincia) o ruoli dirigenziali nel partito e fuori (tipo le società partecipate dagli enti locali), così come hanno ragionati sull' ipotesi di dare una stretta al limite dei tre mandati (potrebbero essere conteggiate non solo le legislature in Parlamento ma anche l'elezione in organi di rappresentanza locale) e anche alla percentuale di deroghe consentite (oggi è fissata dallo Statuto “al 10% degli eletti del Pd nella corrispondente tornata elettorale precedente”). Una misura che rientra nel capitolo rinnovamento, mentre è del tutto attinente alla questione moralità pubblica quella ipotizzata per fissare precisi limiti e garantire maggiore trasparenza alle spese per le campagne elettorali. Anche in questo caso, per chi non presenta un bilancio consuntivo delle entrate e delle spese, sarebbe prevista una sanzione come l'esclusione dai gruppi del Pd e dall'Anagrafe degli iscritti.
a cura di Fabio Luppino
Corriere della Sera 10.9.11
Conservatori e immobilisti
di Ernesto Galli della Loggia
Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo.
Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese. Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.
Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino — con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire — mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.
Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.
Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.
In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.
l’Unità 10.9.11
il Dossier
L’anno che verrà. La scuola
Istruzione, orizzonti perduti
il pdf di 6 pagine qui
Repubblica 10.9.11
Le nostre scuole sono soprattutto raccoglitori di aule. Molto di quello che diciamo importante non c´è nella simbolica degli spazi: riceviamo i genitori in piedi
Dalle aule finlandesi ai maestri di Napoli quelle lezioni da mandare a memoria
di Mariapia Veladiano
Colpita dai tagli, stremata da continue riforme che le hanno tolto centralità e ruolo, la scuola resta decisiva per il futuro del Paese. Così nonostante le difficoltà, alla vigilia del ritorno in classe, è bello immaginare come insegnanti, ragazzi e genitori possano provare a salvarla. Copiando esperienze importanti, dalla Finlandia a Napoli, o rinnovando modelli perduti. Perché la scuola è di tutti: dall´impegno dei maestri precari ai desideri degli studenti, è ancora possibile trovare energie e passioni da spendere in un progetto di rinnovamento.
Lo scenario attuale è scoraggiante, eppure vale la pena cercare idee per ripensare i programmi, ricostruire il rapporto con le nuove generazioni, progettare spazi diversi da quelli burocratici. Dalle bocciature al voto di condotta, dalle letture in classe al rapporto con i genitori fino alla costruzione di un archivio di storie della scuola fatte dai ragazzi, ecco alcune proposte per una buona educazione.
Non può rinunciare a essere il luogo delle opportunità per tutti Non si può bocciare uno studente per una o due materie. Meglio un sistema di crediti
La scuola è nostra. Di tutti noi. Non mia, non loro. È di chi non ha figli nelle aule e di chi ce li ha, di chi la frequenta e di chi insegna, di chi se ne occupa e di chi non ne sa niente. È il nostro bene comune. Non si buttano pietre contro il nostro bene. Che cosa vogliamo dalla scuola?
Oggi l´infelice fastello di norme-dispositivi-razionalizzazioni, in effetti solo tagli e ancora tagli, che ci si ostina a chiamare riforma della scuola, sta andando "a regime", come si dice con una metafora vagamente minacciosa nella sua statica definitività. E allora: che cosa possiamo fare?
Ora che la scuola è più povera di persone e risorse, più mortificata nel prestigio di cui ha bisogno, con gli studenti e nella società, più attaccata, più sola?
La moltiplicazione delle esperienze. Bisogna impedire l´incosciente dissipazione delle esperienze positive che i tagli vorrebbero cancellare. Così a Napoli è stata fatta morire la storia di Chance, la scuola dei maestri di strada. Cercava, inseguiva e dava un´altra opportunità a ragazzi bocciatissimi delle scuole del regno. Gli insegnanti che ci lavoravano hanno trovato piccoli finanziamenti privati e hanno disseminato l´esperienza: ora undici istituti collaborano fra loro per conservare il buono già messo da parte. «È morta una scuola e ne sono nate undici», ha scritto Cesare Moreno, maestro di strada, rispondendo a un ex studente di Chance. Così quel che prima viveva una separatezza sospettosa, quasi Chance fosse una scuola dei privilegi, è diventato condivisione capace di moltiplicare il bene.
Una scuola del patto. La scuola può stringere patti. Fra studente e docente, scuola e famiglia, scuola e società. Tutte le indagini ci dicono che la fiducia delle famiglie verso la scuola tiene, sorprendentemente. È inutile rimpiangere la stagione della rappresentanza, che è in crisi ovunque. I genitori oggi devono partecipare direttamente alla vita della scuola in un´alleanza di trasparenze che non lasci spazio al sospetto. Credo che la scuola abbia il compito di smascherare ogni "gerarchia nascosta delle relazioni". I problemi, le difficoltà, i disagi non vanno "comunicati" ai genitori, ma condivisi con loro e i figli. Dal bullismo al cattivo risultato scolastico, ci si trova, insieme, seduti intorno a un banco, si stende un impegno in pochi punti, sottoscritto dal ragazzo (che ripara il danno nella forma del servizio, oppure recupera le insufficienze attraverso un impegno scandito da tappe condivise), dal genitore (che si impegna a seguire giorno per giorno e a firmare il calendario degli impegni assunti), dal docente (che accompagna, verifica passo passo, riconosce i progressi e li mette in comune). Lo si fa da anni in molte scuole. Ciascuno esce dalla solitudine del suo ruolo, si condivide il successo. E anche l´insuccesso, che non può più essere buttato addosso all´uno o all´altro.
Il patto più efficace è quello con gli studenti. Perché li riconosce, è fra pari, dà fiducia davvero. E non può avere la forma rituale, all´inizio dell´anno, di una firma in fondo a un elenco altrettanto rituale di impegni. Deve essere di volta in volta, preciso, condiviso, scritto insieme (per quale risultato ci accordiamo? cosa fai tu? cosa fa la scuola? quanto tempo ci diamo? come verifichiamo?).
Lo spazio simbolico. Le nostre scuole sono soprattutto raccoglitori d´aule. E che aule. Molto di quello che diciamo importante non si ritrova nella "simbolica" degli spazi: i genitori devono partecipare, ma li riceviamo in piedi nei corridoi; i ragazzi devono leggere, ma i libri sono nascosti in armadi chiusi, nelle aule meno appetibili; i ragazzi devono studiare, ma quante scuole hanno spazi adatti? I confronti con l´Europa e con il mondo non possono riguardare solo i risultati, ma anche le risorse. Le scuole finlandesi hanno la struttura del campus: poche ore di lezione, laboratori, mensa, aule per lo studio, biblioteche, impianti sportivi. Le aule sono attrezzate con videoproiettore, collegamento Internet, biblioteca essenziale della disciplina. I ragazzi si spostano da un edificio all´altro dentro lo spazio della scuola. Scuola e vita si mescolano.
Il potere delle parole. Ci servono parole condivise che dicano le verità della scuola. La famigerata "condotta" che ha fatto da catalizzatore demagogico di tante discussioni, nella legge trentina sulla scuola si chiama invece "capacità relazionale". La metafora militare lascia il posto a una costellazione di significati che riconoscono lo studente e i suoi comportamenti dentro un rapporto. Se la relazione è cattiva, la colpa non sta mai da una sola parte. E restituisce, questa espressione felice, la dimensione della responsabilità di tutti. E così, sempre a Trento, la disabilità è ricompresa, come insegna l´Europa, entro l´espressione "bisogni educativi speciali". Che ha più declinazioni, che non richiedono tutte necessariamente la certificazione. Si tratta di misure integrative e compensative che possono riguardare per un certo periodo molti ragazzi. L´effetto è sfumare il confine fra normalità e disabilità, in un accordo con le famiglie che faccia uscire dalla guerra per le risorse (le ore di sostegno) e liberi le energie per arrivare agli obiettivi.
Un mondo di storie. La scuola può raccontarsi, per smontare pezzo dopo pezzo il cliché deresponsabilizzante dello sfascio educativo. Deve trovare la misura di un´immagine. Una strada può essere quella di usare i siti delle scuole: accanto ai link di servizio, farne trovare altri di storie vere, divertenti, struggenti. Raccontare: negli incontri con i genitori, nei Consigli di istituto, durante gli open day, sui giornali di scuola e no. Storie di vita d´aula che regalino un immaginario collettivo dei giorni, della convivenza, dello studio. Oggi la letteratura, il cinema, il teatro non frequentano molto la scuola e manca un´"epica dell´insegnamento" paragonabile a quella che proprio i romanzi hanno saputo creare per il mondo degli ospedali, ad esempio, oppure dei tribunali.
Le opportunità. La scuola non può rinunciare ad essere il luogo delle opportunità per tutti. Legare il prestigio della scuola alla selettività, alla bocciatura, è facile, demagogico e indecente. Bisogna dire ai genitori, ai ragazzi, alla società che il voto di condotta che fa media ha prodotto situazioni di intollerabile iniquità perché di fatto rischia di alzare il profitto dei "buoni" mediocri e di mortificare i "cattivi" capaci. Ma la scuola dovrebbe invece riconoscere e trovare un modo per accogliere e valorizzare intelligenze e personalità originali, divergenti, non allineate. Invece arriviamo a nascondere un´ingiustizia persino nell´attuale normativa sui recuperi di settembre e sull´ammissione all´esame di stato "con la sufficienza in tutte le discipline". Di fatto non si può bocciare uno studente per una o due materie, anche se si tratta di insufficienze gravi: vorrebbe dire dissipare un anno a ripetere insieme alle materie insufficienti anche le altre. Dietro ai sei di tante pagelle ci sono voragini invisibili e ingiuste rispetto ai tanti sei conquistati con fatica. Non va bene. Cosa ci vuole a fare un sistema di crediti come all´università, che permetta di andare avanti nello studio ma con l´obbligo di avere alla fine davvero tutte le discipline sufficienti?
E poi: una scuola più povera è sempre anche più iniqua. Soprattutto in tempo di crisi. Vogliamo rassegnarci davvero?
Gli insegnanti. All´ultimo atto della riforma ci si può contrapporre solo con iniziative vitali, concrete. È un´azione prima di resistenza e poi di alleanza con chi si sente responsabile. E soprattutto conosce ciò di cui parla. Non si può fare una riforma della scuola senza la sapienza dei docenti. «Non si può costruire una resistente (oltre che bella) cupola o sinfonia, senza conoscere certe regole della statica o dell´acustica». Questo ha scritto Giorgio Caproni, ed era un poeta.
Repubblica 10.9.11
Perché la storia dell´arte può offrire lo spunto per inventare la didattica futura E fondare così una "paideia" del XXI secolo da contrapporre al mercato dei gadget
Creiamo un regno delle immagini come gli umanisti del Quattrocento
di Marc Fumaroli
l maestro di color che sanno, Aristotele, chiama schole, scuola, il periodo di vacatio che viene concesso all´infanzia e all´adolescenza degli uomini liberi prima dell´inizio della vita attiva, e durante gli anni in cui le giovani facoltà sono più ricettive. È allora che bisogna seminare il buon grano che lieviterà per tutta la vita e che verrà raccolto in una vecchiaia felice. Spetta dunque alla scuola gettare le basi della maturità libera e civilizzata. Dal Medioevo di Alcuino al Novecento di Alain, questa definizione aristotelica della scuola non è mai stata smentita.
La democrazia moderna ha voluto estendere a tutti i cittadini la possibilità di godere del privilegio ateniese della schole. Oggi questa logica generosa non è più oggetto di un´adesione unanime ed entusiastica. Qualcuno ormai vede nella schole aristotelica o nell´Università del cardinale Newman (l´idea è la stessa) solo un lusso inutile. La scuola utilitaria, al servizio del mercato, serve a procurare un lavoro, non a formare uno spirito libero e critico, a educare un gusto, a risvegliare delle doti. Altri farebbero volentieri a meno di qualsiasi a scuola, utile o meno: sono i padroni di un mercato onnipresente, le cui immagini e i cui gadget, rinnovati costantemente, hanno i bambini e gli adolescenti per clientela e per target. Così è la scuola di oggi e di domani: è ovunque e da nessuna parte. A che serve, ci si domanda, la scuola arcaica? In questa nuova scuola non si inseminano le facoltà naturali, le si rimpiazza con una memoria, un´immaginazione, un´intelligenza artificiali. I videogiochi di guerra si prendono perfino la briga di sostituire il senso morale elementare con un´indifferenza calcolata nei confronti della sofferenza e della morte di altre persone. Sì, sono questi i barbari, numerosi, miliardari, che prosperano fra di noi.
Dunque il problema della scuola non è mai stato tanto scottante. La sfida è gigantesca. Come gli umanisti del Quattrocento, ma con ben altra urgenza e con nemici ben più attrezzati, abbiamo il dovere di inventare, contro gli utilitaristi e contro gli stregoni, la schole, l´università e le scienze umanistiche di oggi e di domani. Dobbiamo ritorcere contro i barbari le loro stesse armi. Hanno conquistato l´impero delle immagini? Dobbiamo contrapporgli i regni dell´immagine! A mio parere sarà intorno alla storia dell´arte, capace di unire tutte le scienze umanistiche, che dovrà emergere questa paideia novantica (nuova e antica insieme, n.d.r.) di cui oggi sentiamo tanto crudelmente la mancanza. L´Italia è nella posizione adatta per ricominciare in circostanze nuove l´avventura della Villa Giocosa e delle Accademie fiorentine.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
l’Unità 10.9.11
Occasione da non perdere
di Moni Ovadia
Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, il 21 settembre, parlerà alle Nazioni Unite in seduta plenaria per chiedere il riconoscimento formale dello Stato palestinese.
La comunità internazionale ha un'opportunità preziosa per riparare ad uno dei più gravi torti commessi nella seconda metà del Novecento nei confronti di un piccolo popolo esemplare nella sua dignità e nel suo coraggio, il popolo palestinese che vive sotto occupazione militare israeliana da quasi cinquant'anni, con milioni dei suoi figli dispersi nell' esilio, espulsi dalle loro terre, con la sua gente privata di ogni diritto, vessata quotidianamente da una colonizzazione perversa ed espropriatrice.
La comunità internazionale non può perdere l'occasione di dare avvio ad un processo riparatore dei guasti e delle devastazioni del colonialismo che sono state all'origine del dramma mediorientale.
La decisione di accogliere lo Stato di Palestina nella comunità delle nazioni non potrà non mettere alle corde la politica del governo Netanyahu che mira alla strisciante e progressiva espropriazione dell'identità palestinese attraverso la compressione dei suoi spazi di esistenza e di cultura fino a ridurla ad una marginalità impotente.
Proprio in questi giorni un milione di israeliani chiedono giustizia sociale, sono gli indignados. Costoro, in risonanza con le primavere arabe potrebbero rimettere in moto un'energia virtuosa che faccia uscire gli israeliani dalla palude del discredito e dell'isolamento al quale li condannano il reaganiano Bibi e il razzista Lieberman, per farli entrare in un futuro migliore di quello del «ghetto» supermilitarizzato.
l’Unità 10.9.11
Israele ha innalzato in questi giorni al massimo il livello di allerta e sigillato le frontiere
Favorevoli alla proposta le potenze emergenti India, Cina, Brasile e molti stati europei
È intifada diplomatica per il riconoscimento dello Stato di Palestina
L’Olp prosegue la campagna per l’ingresso dello Stato di Palestina, come 194 ̊ membro, nelle Nazioni Unite. Nonostante il veto annunciato dagli Usa, potrebbe ottenere il sì di 2/3 dell’Assemblea generale
Il voto all’Assemblea Onu sarà tra 10 giorni Già 118 Stati per il sì
di Umberto De Giovannangeli
Indietro non si ritorna. La terza Intifada è alle porte ma usa l’arma della politica e ha una data d’inizio: il 20 settembre. Il giorno in cui un intero popolo avrà gli occhi puntati sul Palazzo di Vetro. L’Intifada diplomatica ha un obiettivo dichiarato: ottenere i due terzi dei consensi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla richiesta ufficiale di adesione all’Onu dello Stato di Palestina, indipendente e sovrano accanto ad un Israele confinato alle frontiere del 1967. L’attesa nei Territori cresce con l’avvicinarsi della data fatidica. I palestinesi rilanciano, gli Stati Uniti fanno muro. Il «no» ribadito dall’amministrazione Usa, su questo punto cruciale decisamente schierata con Israele, non ha incrinato la determinazione della leadership palestinese. Nei giorni scorsi il Comitato esecutivo dell'Olp si è riunito insieme ai capi di tutte le componenti palestinesi a Ramallah con il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ribadendo la propria decisione di chiedere per la Palestina lo status di «194 ̊ Stato membro delle Nazioni Unite», limitato dai confini del 4 giugno 1967 e con Gerusalemme Est come capitale. Una scelta, afferma un dirigente dell'Olp, Azzam al-Ahmed, «definitiva e irreversibile». Nella convinzione, dice a l’Unità il segretario generale dell'Olp, Yasser Abdel Rabbo, che «arrivare a questo obiettivo favorirà il rilancio di un processo di pace serio e di nuovi negoziati, con il chiaro obiettivo di una soluzione con due Stati sulle frontiere del 1967. Ma c'è il muro di Washington: la nascita di uno Stato palestinese, rimarca la portavoce del Dipartimento di Stato Usa Victoria Nuland, «può avvenire solo attraverso negoziati» e non con un'iniziativa unilaterale. Pertanto, a «qualunque» iniziativa in tal senso che venisse sottoposta al Consiglio di sicurezza, «gli Stati Uniti opporranno il veto», taglia corto la portavoce, aggiungendo che la cosa «non dovrebbe sorprendere». Un muro che rischia ora di creare un'ondata di indignazione in tutto il mondo arabo.A supporto del gesto unilaterale davanti all'Assemblea dell'Onu la leadership palestinese ha chiesto «una vasta mobilitazione in Palestina, nei campi profughi, nel mondo arabo e in tutti i Paesi del mondo per sostenere il passo alle Nazioni Unite. Tanto che in quei giorni “caldissimi”, Israele intende sigillare i Territori e decretare lo stato di massima allerta su tutto il territorio nazionale.
Mentre il Consiglio dell'Olp era riunito, un centinaio di palestinesi con bandiere e cartelli ha sfilato per le strade di Ramallah fino al quartier generale delle Nazioni Unite, dove è stata consegnata la lettera con la richiesta di adesione indirizzata al segretario generale Onu, Ban Ki-moon. A consegnarla è stata Latifa Abu Hamed, 60 anni, rifugiata del vicino campo di Al-Amari, che ha avuto un figlio ucciso dagli israeliani e altri quattro detenuti nello Stato ebraico. «Rivolgo questo messaggio all'Onu per dire che noi abbiamo diritto ad avere il nostro Stato come tutti nel mondo e abbiamo diritto alla fine dell'occupazione».
IL ROUND FINALE
«Al momento possiamo contare sul voto favorevole di almeno 118 Stati membri delle Nazioni Unite, ma riteniamo di arrivare ad oltre 140 superando così i 2/3», degli Stati membri dell’Onu, dice Nabil Abu Rudeinah, raggiunto telefonicamente alla Muqata, il quartier generale dell’Anp a Ramallah. La risoluzione può contare sul sostegno di potenze globali come Cina, Brasile, Sud Africa, India. A sostegno si schierano, compatti, i Paesi arabi e musulmani, dal Pakistan all’Iran, dall’Egitto post-Mubarak alla Turchia di Erdogan. Quel voto è invece destinato a spaccare l’Europa: a favore si sono già dichiarati la Spagna, i Paesi scandinavi, verso il sì sembrano orientarsi la Francia, il Belgio, l’Irlanda e il Lussemburgo, incerta resta la Gran Bretagna, contrari la Germania, la Polonia, l’Olanda. L’Italia, ultima ruota del carro europeo anche stavolta: l’orientamento è verso il no, ma senza sbandierarlo troppo. Un no a bassa voce. Il tono che più si addice al profilo undergronud del Cavaliere nello scenario internazionale.
l’Unità 10.9.11
Turchia
Il premier Erdogan: «Scorteremo le flottiglie per Gaza»
La marina militare turca ha ricevuto mandato di proteggere e scortare le navi cariche di aiuti umanitari destinate alla Striscia di Gaza. Lo ha annunciato ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan all’emittente satellitare Al Jazeera. «D’ora in poi ha dichiarato Erdogan , che ha rinunciato alla visita a Gaza non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele come avvenne con la Freedom Flottilla». Non si placa la crisi diplomatica scaturita tra Turchia e Israele, che per bocca del suo ministro dell’informazione ha giudicato «gravi e difficili» le parole del primo ministro turco. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu invita entrambi i paesi ad una maggiore responsabilità. Ma non sembra intenzionato a porre scuse ufficiali per le 9 vittime turche causate dall’arrembaggio del convoglio umanitario del 2010.
l’Unità 10.9.11
Lacrime e standing ovation per Bellocchio e Bertolucci
Maestri. Marco Bellocchio riceve dalle mani di Bernardo Bertolucci il Leone d'oro alla carriera e si commuove. «Le nostre vite si sono sfiorate», afferma il regista di «Ultimo tango a Parigi». Poi prende la parola Bellocchio: « Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista. Non la libertà civile che è garantita in questo paese, ma la libertà d'immaginazione. Il “devo” o il “non devo” paralizza l'artista. che ha bisogno di libertà e questo premio è il riconoscimento della mia libertà». È standing ovation.
Alberto Crespi:
Oggi è il giorno dei premi, ma nessun possibile vincitore eguaglierà in talento e in commozione il duo che si è esibito ieri sera sul palco del Palazzo del cinema. Marco Bellocchio ha ricevuto il Leone alla carriera dalle mani di Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo ha raccontato che un po’ di anni fa, all’Accademia di Brera di Milano, un ammiratore gli disse: «La seguo da quando ha girato I pugni in tasca» che come è noto è il film d’esordio di Bellocchio. «Magari avessi girato io I pugni in tasca», ha concluso Bertolucci.
Bellocchio ha tenuto un bellissimo discorso, molto applaudito: «Non sono più il rivoluzionario e il ribelle di I pugni in tasca ha detto -, i protagonisti delle mie storie non sono più assassini o suicidi, la mia vita è cambiata. Ciò che non cambia è la voglia di stare dalla parte degli oppressi, di chi è vittima della violenza. Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista». E ha annunciato il ritorno al progetto su Eluana Englaro, a suo tempo accantonato. Si intitolerà Bella addormentata, sarà il suo prossimo film. Farà discutere. E noi ci saremo, a difendere se necessario la libertà di cui sopra.
Il Fatto 10.9.11
Quei Pugni in tasca che restano nel tempo
“Ricorrente è la domanda: Ma la tua rabbia dei Pugni in tasca, dove è finita? Da allora le mie immagini sono cambiate, perché la mia vita è cambiata. Ciò che non è cambiato è una naturale inclinazione a stare dalla parte di chi è oppresso, di chi è vittima di qualsiasi violenza, di chi accetta passivamente la sconfitta e predica la rassegnazione”. E ancora: “Questo premio alla carriera non è una riconciliazione istituzionale, ma il riconoscimento di una coerenza che in tutti questi anni ho cercato sempre di difendere”. Così parlò Marco Bellocchio ritirando ieri il Leone d’oro. Oltre al discorso ufficiale, il regista ha parlato del suo prossimo film su Eluana Englaro (titolo provvisorio, La bella addormentata) e dei giovani che vogliono fare i registi. “Li scoraggerei – ha detto – oggi è diverso da quando ho iniziato io”. E del cinema italiano dice: “È povero e misero. Tutti si buttano sulla commedia perché ha successo, mentre bisogna cercare strade nuove”.
La Stampa 10.9.11
Bellocchio cuor di Leone
Standing ovation per il regista premiato da Bertolucci: “Resto un ribelle non smetto di stare dalla parte dei deboli. Girerò un film su Eluana Englaro”
di Fulvia Caprara
il pdf della pagina qui
«Lui amava il free cinema io la nouvelle vague, siamo coetanei e conterranei ci siamo sfiorati, provando gli stessi brividi psicanalitici» Bernardo Bertolucci
Sono i due grandi rivoluzionari del cinema italiano, maestri della contestazione a suon di immagini e di storie, un tempo amici-nemici, oggi solidali perché, certe volte, gli anni non passano inutilmente: «Tra noi c’è sempre stata una vicinanza di affetti, abbiamo avuto tante cose in comune, amici come Pasolini, Moravia, la Betti, ma anche tante differenze. Negli Anni Settanta ci fu anche rivalità, e invidia, lui firmava grandi film di successo come Ultimo tango Parigi , io invece avevo problemi a girare. Con il passare del tempo ci siamo ritrovati, e il fatto che oggi sia lui a darmi questo premio, mi commuove».
Bernardo Bertolucci consegna il Leone d’oro alla carriera a Marco Bellocchio, la platea della Sala Grande scatta in piedi e ci resta per molto tempo, mentre in alto ondeggia uno striscione che gioca con il titolo dell’ultimo film del premiato: «Sorelle mai, amici sempre». Il Leone non è il segno di una riparazione, e non vuol dire che il regista dei Pugni in tasca abbia fatto un passo indietro nel suo cammino, sempre dissacrante, sempre provocatorio: «Non è una riconciliazione istituzionale, né un risarcimento, ma il riconoscimento di una libertà e di una coerenza che vanno sempre riconquistate». Bertolucci ascolta e annuisce: «Magari avessi fatto io I pugni in tasca , magari avessi avuto io quella rabbia». Bellocchio gli ha portato in dono uno schizzo con dei suoi pensieri, un inno alla «libertà d’immaginazione, bene prezioso per ogni artista». Ha gli occhi rossi, il maestro nato a Piacenza, pochi chilometri di distanza da Parma, patria di Bertolucci, che ricorda: «Siamo nati in due città vicine, e negli stessi anni, per tanto tempo le nostre vite si sono sfiorate, ci incontravamo, e siamo anche stati percorsi entrambi da brividi psicanalitici, lui amava il free cinema inglese, io la nouvelle vague francese...».
Adesso, per tutti e due, è l’ora di tornare dietro la macchina da presa, curiosa coincidenza anche questa. Bertolucci dirigerà Io e te , Bellocchio, a gennaio, inizierà la lavorazione di un film che ruota intorno alla vicenda di Eluana Englaro: «Ho trovato una chiave che m’interessa, con personaggi in crisi di coscienza, scontri, e storie che si relazionano con il dramma centrale». In quei giorni terribili il padre di Eluana non rilasciò interviste: «Ci siamo incontrati e parlati a lungo, è una persona che stimo enormemente, sono dalla sua parte, e lui ha approvato il mio progetto».
Nel film scorreranno immagini di repertorio, anche materiali ritrovati su Youtube, ma nessuna attrice interpreterà Eluana: «Ci sarà soprattutto la cronaca di quei giorni cruciali, ricostruita attraverso i media e i personaggi in lotta fra loro». Ancora una volta, una presa di posizione netta, che farà sicuramente discutere: «Raccontare per immagini mi viene naturale», dice Bellocchio, la forma cinematografica non si esaurisce, anche se c’è «superficialità», e anche se certi giovani «imitano i padri, girando commedie, che, in questa povertà, finiscono per essere la brutta copia di quelle che facevano Risi e Monicelli». Pessimista? No, anzi. Le moderne tecnologie, dice l’autore, «consentono di lavorare con poco e questo è un gran vantaggio. Oggi si può girare con oggetti piccoli, leggeri, vicini allo sguardo umano». Quello che dispiace è l’assenza di «scapigliatura, la mancanza di immaginazione, il cinema di denuncia è finito». Ai ragazzi che sognano di diventare registi, Bellocchio raccomanda la ricerca di «strade nuove. Per prima cosa tendo a scoraggiarli, a spiegare loro che questo è un lavoro faticoso, dove pochi riescono davvero».
Guardandolo, però, viene in mente tutt’altro, Bellocchio è un giovane settantenne animato dall’energia della coerenza: «Il presente non ha tradito il passato, ho cercato di restare fedele alle mie idee, anche se credo nel cambiamento e, ovviamente, non sono lo stesso di quando ho girato In nome del padre ». Del film, ieri sera, è stata proiettata la nuova versione, sforbiciata rispetto alla prima (uscita in sala nel 1971) 90 minuti contro gli iniziali 105: «Non è una rilettura ammorbidita, è stato fatto, invece, un lavoro di liberazione dell’immagine, direi che oggi il film, che allora non aveva conquistato il grande pubblico, corre molto di più».
Nessun cambio di rotta. Quando qualcuno chiede a Marco Bellocchio se si definisce ancora «di sinistra» lui prima ridacchia e poi gentilmente replica: «Sono ancora di sinistra, non sono berlusconiano, ma sono diventato molto più tollerante, un tempo, a questa sua domanda, avrei risposto mandandola a quel paese».
Corriere della Sera 10.9.11
Bellocchio e i giovani registi: troppe brutte copie di Monicelli
«Spesso pigri, si buttano sulle commedie miseramente»
di Giuseppina Manin
VENEZIA — «Ho sempre cercato di restare fedele alle mie idee, alle mie immagini. Ma con il tempo si cambia. E oggi non sono più lo stesso che ha fatto I pugni in tasca o Nel nome del padre. Sono diventato più tollerante. Non mi sono ancora riconciliato con il mondo, ma verso l'antica rabbia provo una certa diffidenza». Marco Bellocchio ragiona su se stesso, su una lunga militanza di vita e di cinema.
Ieri, a 71 anni, il regista piacentino ha ricevuto il suo primo Leone, direttamente alla carriera pur essendo stato alla Mostra 11 volte, due in gara, nel 1982 con Gli occhi, la bocca, nel 2003 con Buongiorno notte. «Un riconoscimento sì, un risarcimento no — avverte —. Non ho rancori né rimpianti. Forse non sono un rivoluzionario, ma il potere e le istituzioni non mi sono mai piaciuti. Logico che mi abbiano ripagato con la stessa moneta».
Dice che è cambiato. Non è più di sinistra? E questo premio allude a una sua prossima pensione? chiede un giornalista. «In altri tempi l'avrei mandata a quel paese — lo folgora Bellocchio —. Ma visto che sono più tollerante, rispondo: sono di sinistra e antiberlusconiano. Anche se essere di sinistra non è lo stesso di 40-50 anni fa. Quanto alla pensione… voglio fare tanti altri film. Questo Leone lo considero un auspicio per un lungo futuro di cinema».
Cosa direbbe a un ragazzo che oggi volesse fare il regista? «Tenterei di scoraggiarlo. È un lavoro faticosissimo, pochi riescono, tanti s'arrabattano».
E se insistesse? «Il vantaggio è che oggi si può fare cinema con poco. Quando ho cominciato io si usavano macchinari pesanti, adesso sono diventati leggeri, piccoli, a portata di sguardo. Una straordinaria libertà tecnica che dovrebbe andare di pari passo con una scapigliatura dell'immaginazione. Invece i giovani finiscono spesso per ricalcare pigramente le orme altrui. Si buttano sulle commedie poveramente, miseramente. I loro film non saranno mai all'altezza dei Risi e Monicelli. Non è necessario uccidere i padri, ma staccarsi da loro sì».
Lui però i padri li ha uccisi davvero. Metaforicamente e realmente sullo schermo. Basta rivedere Nel nome del padre, del 1972, qui ripresentato nella nuova versione 2011, finanziata dall'Istituto Luce. «Una ventina di minuti in meno, ho tagliato la parte più ideologica, legata all'epoca. Ma non ho ammorbidito nulla, resta intatta la carica provocatoria, la disperata ribellione».
A consegnargli il Leone, un altro maestro del cinema, amico da sempre e da sempre «rivale», Bernardo Bertolucci, premiato a Cannes con l'analogo riconoscimento alla carriera. Accolti da applausi lunghissimi e standing ovation i due registi si sono abbracciati scambiandosi ricordi e affetti. Marco ha regalato a Bernardo un suo disegno con un inno alla libertà.
«Per un artista la cosa più preziosa, non la libertà dei diritti civili, che pure ci sono nel nostro Paese, ma quella dell'immaginazione». E Bertolucci: «Il destino ha voluto che nascessimo in due città vicine, Piacenza e Parma, e negli stessi anni. Per tanto tempo le nostre vite si sono sfiorate e siamo stati entrambi percorsi da brividi psicanalitici». «Avevamo grandi amici comuni, Moravia, Pasolini, Laura Betti — riprende Bellocchio —. Bernardo ha sempre avuto un impatto più internazionale, io più legato all'Italia. Nello stesso anno di Nel nome del padre lui è diventato famoso nel mondo con Ultimo tango a Parigi. Oggi lo sento misteriosamente più vicino. Ricevere questo Leone da lui mi onora e mi commuove».
Infine, entrambi stanno per partire con un nuovo film. Bertolucci farà Io e te, da Ammaniti, Bellocchio Bella Addormentata sul caso Englaro.
«Ho trovato la chiave, raccontare i suoi ultimi sette giorni di vita attraverso l'ossessiva invasione della tv, mentre in parlamento si faceva la corsa per bloccare la sentenza del giudice. Tre storie si intrecceranno, tra cui quella di un onorevole socialista passato alle file berlusconiane e lacerato tra la sua coscienza laica e la linea del partito. Inizierò a gennaio, riprese a Udine, alla clinica dov'era ricoverata Eluana. Nessuna attrice per interpretarla, solo materiali di repertorio». E il progetto Italia mia? «Rimandato sine die. Doveva essere un burlesque sul presidente del consiglio. Tutti i produttori si sono ritirati».
Repubblica 10.9.11
Bertolucci incorona Bellocchio "Sono un ribelle ma moderato"
Leone alla carriera per l´autore di "Nel nome del padre"
Il potere continua a non piacermi e penso di essere ricambiato. E a molti non piacerà il mio prossimo film sul caso Englaro
di Maria Pia Fusco
Bellocchio bacia sulla testa Bertolucci sulla sedia a rotelle: è l´immagine più bella ed emozionante della Mostra 68, un´immagine da storia del cinema. Il pubblico della Sala Grande gremita applaude in piedi per una decina di minuti. Una scelta felice quella di Bertolucci per la consegna del Leone d´oro alla carriera a Bellocchio. «Siamo nati a poca distanza, io a Parma lui a Piacenza, abbiamo cominciato negli anni 60, siamo andati avanti in parallelo, entrambi percorsi da brividi psicanalitici», dice Bertolucci e racconta di quando, laureato ad honorem a Brera, un signore lo avvicinò. «"Adoro il suo cinema, la seguo fin da I pugni in tasca". "Magari lo avessi fatto io", risposi».
Bellocchio è emozionato, perciò legge i ringraziamenti e subito tocca il tema che gli sta a cuore, il cambiamento. «Ho perso la rabbia, ora sono rivoluzionario moderato, un ribelle che ha rinunciato alla violenza. Ma non sono pacificato, non ho perso la naturale inclinazione a stare dalla parte di chi subisce la violenza - non dei rassegnati - e la libertà di immaginazione che va sempre conquistata, mi ha permesso un falso storico clamoroso, Aldo Moro che passeggia sorridendo». Su quella sequenza, interviene Bertolucci: «Mi ha sollevato dai sensi di colpa che provavo per Moro».
Alla fine della cerimonia Bellocchio lo abbraccia e gli consegna un suo disegno: due pagliacci. «Lo farò incorniciare». Ancora un´ondata di applausi, poi comincia la proiezione del film Nel nome del padre nel nuovo montaggio di Francesca Calvelli. Curata dall´Istituto Luce, la versione 2011 del film sarà presentata in vari eventi e distribuita in diverse sale italiane. «C´è un taglio di circa 20 minuti, ma lo spirito è rimasto lo stesso», dice Bellocchio e ricorda che il film nel ‘72 fu a Venezia «non nella Mostra di Rondi come voleva il produttore Cristaldi, ma nell´antifestival dell´Anac, che allora era legata al Pci. Erano tempi complicati, la politica era importante, di quei decenni non è rimasto nulla, io sono ancora di sinistra, ma è cambiato l´impegno». In quegli anni «c´era rivalità con Bernardo, e un po´ di invidia, lui con il suo successo nel mondo con Ultimo tango, io che faticavo a trovare i soldi per Nel nome del padre. Oggi lo sento molto vicino, una vicinanza di affetti».
Il Leone per Bellocchio «non è un risarcimento, implica un risentimento che non ho, lo vedo come un premo alla coerenza e alla fedeltà ai miei principi. Non sono più un rivoluzionario ma il Potere non mi piace e penso di essere ricambiato». E se ha rinviato il progetto "Italia mia" su Berlusconi - «ho bisogno di una maggiore distanza» - parla a lungo di "Bella addormentata", «il prossimo film che girerò, raccontando tre storie legate al caso Englaro. E non sarà un film che piacerà al Potere».
Repubblica 10.9.11
Il giorno di Panahi
Io, regista fantasma vi porto il sogno dell´Iran
di Maurizio Braucci
Il regista è stato incarcerato dal regime di Teheran Oggi è fuori in attesa d´appello
Mi accusano di aver tramato contro la repubblica islamica e sono sicuro che mi faranno tornare in carcere dopo il nuovo processo
Sono sceso in piazza durante le proteste proprio perché sono un regista, non potevo chiudere gli occhi, era un mio dovere
Ho già tre sceneggiature pronte, ma i miei film li voglio fare qui, mi sembrerebbe una menzogna raccontare l´Iran da fuori
Finalmente arrivo ad Elahiyè, la zona residenziale a nord di Teheran dove, prima di essere scacciato dalla rivoluzione del 1979, lo scià Mohammad Reza viveva circondato dalle proprie passioni per l´Occidente e per lo sfarzo. Sono qui per incontrare nella sua abitazione Jafar Panahi.
È il regista di Il Cerchio e di Il palloncino bianco, ed è stato arrestato nel 2010 per aver progettato un film sulle manifestazioni antigovernative e condannato a 6 anni di reclusione e a 20 di interdizione dal fare film. Panahi ha da poco ottenuto la libertà su cauzione, ma è una libertà vigilata o meglio: spiata. Malgrado la condanna, al Museo del Cinema di Teheran c´è una grande teca dedicata a lui. Il giorno prima al telefono, per non insospettire le autorità, ho finto di essere un suo ammiratore, sotto il regime di Ahmadinejad la parola scrittore è pericolosa, specie se vieni dall´Occidente, specialmente dopo le violente repressioni di piazza del 2009 e 2011. La verità è che sono qui per intervistare Panahi e consegnargli un premio, quello della rivista "Lo Straniero".
Una voce al citofono mi dice in inglese di salire, ho sottobraccio il disegno di Toccafondo con cui premierò Panahi, entro così nella rete di controlli che il regime iraniano ha steso intorno a questo artista coraggioso e disperato. Nel caso mi arrestassero, sarà Cristina, la mia compagna rimasta in albergo, ad avvertire l´ambasciata italiana. Jafar mi accoglie con un sorriso, parla solo iraniano ma per capirci ci aiuterà un traduttore, la casa è elegante e luminosa, non potendo più lavorare, il regista ha ristrutturato il soggiorno con le proprie mani, lo racconta This is not a film il suo lungometraggio fatto uscire clandestinamente dall´Iran pochi mesi fa e che, dopo Cannes, verrà presentato oggi alla Mostra di Venezia. E ancora una volta, Panahi sarà un "regista fantasma", perché le autorità iraniane gli proibiscono di lasciare il paese.
Panahi fa sparire i nostri cellulari in un´altra stanza «Attraverso questi ci intercettano», dice. «Posso parlare liberamente adesso?» chiedo, lui mi fa segno di no, in casa ci sono delle microspie, mi porta in cucina dove sembra più sicuro, ma per l´intervista ci dobbiamo spostare su un terrazzino, conversando a bassa voce, come se ci confidassimo con le vicine montagne dell´Alborz.
Di cosa l´accusano?
«Di due cose: di aver tramato contro la Repubblica Islamica e di aver messo in pericolo il popolo iraniano. Dopo 3 mesi di reclusione ho iniziato lo sciopero della fame e ho costretto le autorità a concedermi la libertà su cauzione, posso muovermi liberamente in Iran ma non espatriare. Tra due mesi ci sarà l´appello ma sono quasi sicuro che mi faranno tornare in carcere, ho poche possibilità».
Avrebbe potuto fare qualcosa per evitare l´arresto?
«Non intendevo fare delle denunce politiche, sono sceso in strada durante le manifestazioni perché era mio dovere, non potevo chiudere gli occhi, sono un regista. Da allora mi perseguitano, sono sotto pressione psicologica, ogni mia azione o parola può diventare un pretesto per accusarmi. Questa è la sorte di tutti quelli che erano in piazza in quei giorni, o il carcere o la caduta in uno stato di depressione e di incertezza».
L´aiuta la solidarietà che riceve dall´estero?
«Sì e ringrazio tutti coloro che mi hanno dimostrato la loro amicizia. Quando Bernando Bertolucci ha letto pubblicamente la mia lettera a Roma, quelle immagini sono arrivate alla popolazione iraniana attraverso la tv satellitare, è importante perché la mia vicenda viene tenuta nascosta all´opinione pubblica locale».
Qual è stata la reazione del governo a This is not a film che ha girato insieme a Mojtaba Mirtahmasb?
«Nessuna reazione, silenzio, ma sono certo che il film verrà allegato ai capi d´accusa durante il processo d´appello».
Se la liberassero quale sarebbe la prima cosa che farebbe?
«Un film, ho tre sceneggiature già pronte, il cinema è la mia vita. Ma lo farei qui, nel mio paese, raccontare l´Iran da fuori mi sembrerebbe una menzogna. Non sono d´accordo con chi se ne va. Nel 2001 ero in transito negli USA diretto in Argentina, lì volevano prendermi le impronte digitali ma io mi sono rifiutato, così sono stato costretto a tornarmene indietro. Non riuscirei vivere in un paese che ti obbliga a cose del genere. Sono legato all´Iran, alla sua gente, ho una grande curiosità per il mio paese, per le storie che vi si annidano».
In Iran non c´è solo la segregazione per i due sessi, la gente non può ballare o suonare liberamente, alle donne è proibito cantare.
«La gente non condivide il modo in cui è costretta a vivere ma tace per paura, nel privato fa cose che in pubblico non potrebbe, il modo in cui parla, si veste, si relaziona, viene costretta ad una doppia vita, come se vivesse in guerra, nascondendosi da un nemico. Quello che sta facendo il governo di Ahmadinejad non può durare a lungo perché è incompatibile con la vita moderna, ma gli attuali governanti tireranno avanti finchè potranno. Alcuni di loro credono davvero nelle leggi del Corano, altri invece le usano solo per il loro potere personale. Da alcuni mesi i capi religiosi sono entrati in conflitto con il governo, nel Paese c´è insoddisfazione, Ahmadinejad era stato eletto per le sue promesse soprattutto verso i più poveri ma ora è chiaro a tutti che non le manterrà. Il suo gioco è diventato quello di creare situazioni complicate, di fare dichiarazioni roboanti per poterne poi gestire gli effetti mediatici e celare il fallimento delle politiche economiche e sociali».
Cosa accadrà nei mesi a venire?
«Il futuro è imprevedibile. L´Iran ha una situazione etnica molto complessa, ci sono azeri, curdi, arabi, turkmeni etc... e tanti conflitti latenti tra loro. Io mi auspico per il mio Paese una soluzione democratica, graduale ma profonda. Siamo una nazione piena di giovani e tanti di essi nutrono speranza per il futuro, la loro speranza è la speranza del nostro Paese».
*scrittore, collaboratore della rivista "Lo Straniero"
La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Foucault, la follia che canta nelle ossa
Storia. A cinquant’anni dalla prima edizione, una nuova versione italiana (integrale) del classico, ripristinata la «Préface» del 1961
di Mario Galzigna
il pdf della pagina è qui: http://www.scribd.com/doc/64464622
Il filosofo francese Michel Foucault: studiò la storia della follia, del crimine e della sessualità
Michel Foucault STORIA DELLA FOLLIA nuova edizione a cura di Mario Galzigna Rizzoli-BUR, pp. 809, 12,90
Michel Foucault, nato nel 1926 a Poitiers, studiò filosofia e psicologia all'Ecole Normale Supèrieure di Parigi. Nel 1970 fu nominato professore di storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Morì a Parigi nel 1984. Tra le sue opere: «Sorvegliare e punire. Nascita della prigione» (Einaudi), «La prosa del mondo» (Bur), «La vita degli uomini infami» (Il Mulino).
È ora in libreria, a cinquant'anni dalla sua prima edizione francese (Plon, Paris 1961), una nuova versione italiana integrale della Storia della follia (ST) che Michel Foucault pubblicò come tesi di dottorato all'età di 35 anni. Un libro - oramai un classico - che finalmente il lettore italiano potrà ora leggere integralmente. La prima traduzione italiana, uscita da Rizzoli, risale al 1963. Questa traduzione venne ristampata nel 1976, dopo la seconda edizione francese del 1972, dalla quale, per volontà dello stesso Foucault, la Préface del 1961 era stata eliminata e sostituita con una nuova e breve prefazione di due pagine, in cui si polemizza contro la «monarchia dell'autore»: contro ogni sua inaccettabile pretesa di «donner la loi» (di dare la legge) ai lettori del libro. La nuova edizione italiana ripropone al lettore la versione italiana della Préface del 1961, presente solo nella prima traduzione italiana del 1963, ora introvabile. Sono stati inoltre tradotti i numerosi passaggi omessi nella prima traduzione italiana e, assieme a questi, due capitoli importanti del libro («Il folle nel giardino delle specie» e «Isteria e ipocondria»).
Tra le parti omesse, molte riguardano il confronto di Foucault con le fonti mediche del ’600 e del ’700. Un confronto serrato, che mostra, in maniera problematica, sia l'affermarsi di un punto di vista psicologico sulla follia già all'interno del discorso medico, sia l'irriducibile dimensione storica e culturale delle «esperienze» che, in vario modo, mettono in scena le figure moderne dell'alienazione. Lo scarto tra la follia e la sua confisca medica, e quindi la curvatura storico-sociale di ogni psicopatologia: è questo il solco entro il quale si muove la ricerca di Foucault nei primi Anni 60: in particolar modo in ST , ma anche in Maladie mentale et psychologie (1962), che rielabora e rinnova un testo del 1954 ( Maladie mentale et personnalité ), facendo già emergere un tema molto presente in ST e nelle opere successive: il tema del rapporto fondamentale che la follia intrattiene con la verità.
Nell'Introduzione si è cercato di soffermarsi criticamente sulla struttura interna del libro. In particolar modo sulla presenza e sull'importanza della letteratura, molto evidente nella Préface del 1961. La letteratura è un luogo privilegiato (assieme alla pittura: frequenti sono infatti i richiami a Van Gogh) in cui, attorno ad esperienze estreme come quella di Artaud, la follia si afferma al di là del «lungo silenzio classico» prodotto dalla confisca medico-patologica; un luogo in cui la follia si presenta come esperienza-limite, che lavora al di sotto e ai margini della storia ma che al tempo stesso la rende possibile. La struttura dell'esperienza della follia «appartiene interamente alla storia», ma «sta ai suoi confini» ed è lì che «essa si decide». Ed ancora: lo «studio strutturale» della follia «deve risalire verso la decisione che lega e insieme separa ragione e follia; esso deve tendere a scoprire lo scambio perpetuo, l'oscura radice comune, il fronteggiarsi originario che dà senso all' unità, come all'opposizione, del sensato e dell'insensato. Così potrà riapparire la decisione folgorante, eterogenea al tempo della storia ma inafferrabile al di fuori di esso, che separa dal linguaggio della ragione e dalle promesse del tempo questo mormorio di insetti oscuri». Questa citazione mette in evidenza un'importante cifra espressiva di ST : quella che ci piace definire cifra lirica, ovvero stile lirico-poetico. Il lirismo, d'altro canto, è anche, per Foucault, un momento essenziale e irriducibile della follia concepita - al di là della sua dimensione costruita e indotta di «cosa medica» - come «esperienza-limite», come «tema di riconoscimento» (un' espressione che rinvia, implicitamente, alla Fenomenologia di Hegel).
Nella Préface del 1961 una posizione privilegiata viene assegnata al discorso poetico. Viene citato esplicitamente, con una nota a fondo pagina, il poeta ed amico René Char. Altre tre citazioni poetiche attraversano il testo, senza che tuttavia Foucault ne menzioni l'autore. Queste presenze senza nome, lo si sa, sono René Char e Yves Bonnefoy, che il Foucault degli anni che precedono ST conosceva e utilizzava. Lo stile - l'atmosfera, la stimmung - dei versi citati si rivela, ad un lettore attento, molto omogenea, molto «risonante», potremmo dire, con lo stile e con la stimmung della Préface. Per questa ragione, è quasi irrilevante l'attribuzione di identità al soggetto dell'enunciazione poetica: i versi realizzano infatti una continuità con la tonalità espressiva della pagina foucaultiana e con il suo contenuto ideativo. Significativo, al proposito, il finale della Préface, ritmato da un folgorante passaggio tratto da Fureur et mystère , di René Char: «Compagni patetici che a pena sussurrate, andate con la lampada spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza». Versi, come ha ben detto un critico americano, che potrebbero funzionare efficacemente come epigrafe dell'intero percorso di Michel Foucault.
Tra le parti che furono omesse molte riguardano il confronto con le fonti mediche del ’600 e del ’700 Un ruolo privilegiato ha la letteratura (con la pittura: frequenti sono i richiami a Van Gogh)
La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Se l’evoluzione è una catastrofe
Pievani contrasta il «disegno intelligente»
di Federico Vercellone
Telmo Pievani LA VITA INASPETTATA. IL FASCINO DI UN'EVOLUZIONE CHE NON CI AVEVA PREVISTO Raffaello Cortina, pp. 254, 21
L’ universo è stato creato in vista della nostra comparsa? L'uomo corona il creato come sembra annunciare il libro della Genesi? Scienziati, teologi e filosofi si sono accaniti nei secoli ad inseguire questo sogno. E'apparsa l'unica ipotesi in grado di garantire un senso all'esistenza umana. E' un ipotesi che è stata rinnovata in tempi abbastanza recenti, in chiave fraudolenta e pseudoscientifica, negli Stati Uniti dove si è tentato, per fortuna senza grande successo, di propagandare l'idea di un «intelligent design», di un orientamento finalistico che costituisce il termine ultimo cui il creato sarebbe nel suo complesso rivolto. L'ultimo libro di Telmo Pievani, filosofo della scienza a Milano-Bicocca, La vita inaspettata , è molto significativo a questo proposito. Pievani ci mostra, in modo affascinante e del tutto persuasivo, che non ci è consentito fare alcuna inferenza per individuare sul piano scientifico un senso ulteriore del mondo. La vita inaspettata ci fornisce così nella prima parte un'appassionante e molto documentata prospettiva sull'evoluzione della vita e dell'uomo. Qui apprendiamo che il modello darwiniano originariofondato sull'idea che sia il più adatto ad affermarsi nella competizioneper la sopravvivenza, pur valido, richiede di essere integrato in una visione «pluralista» che riconosce anche altre cause determinanti dell'evoluzione. Non è invece fondata l’idea di un’evoluzione che procede linearmente e senza discontinuità. A questa luce non ha neppure senso andare alla ricerca dell'«anello mancante» tra gli ominidi e la specie umana nella sua forma attuale. In realtà varie specie di ominidi hanno vissuto sulla terra prima e accanto a noi, e nulla prova che fossimo proprio noi i più adatti a sopravvivere. Un evento del tutto imprevedibile a priori, un'enorme catastrofe naturale fece probabilmentesì che le altre specie umane andassero distrutte e la nostra, del tutto inopinatamente, sia sopravvissuta. L'evoluzione non percorre dunque affatto un cammino precostituito, ma è figlia di contingenze che, a priori, non si potevano pronosticare e sono ricostruibili solo a posteriori. Questo tuttavia non significa che ogni nostro agire sia vano e privo di senso. Pievani sottolinea, a questo proposito, che la riflessione di natura etica e filosofica deve fondarsi sul sapere scientifico e non discostarsi da questo nelle sue prospettive. E' un «naturalismo critico». Qui si affaccia a mio avviso qualche problema. In quanto figli della contingenza, secondo Pievani dobbiamo darci un'etica fondata sulla responsabilità e non su orientamenti metafisici o fideistici. Tutto bene. Ma se la natura non fosse aperta al possibile e fosse invece inesorabilmente votata alla distruzione e al male, dovremmo invece comportarci come delinquenziali figli del fato? In questo quadro l'etica non ha alcuna autonomia e dunque neppure una fondazione sufficiente.
Una prospettiva di questo tipo priva inoltre, agli occhi di Pievani, di ogni significato positivo anche il discorso religioso che ha, in quest' ottica, più o meno lo stesso significato della fede nei dischi volanti o in creature immaginarie come fate e ippogrifi. Su questa via Pievani, che ha ragioni da vendere nei confronti dell'intelligent design e nei riguardi dell'atteggiamento invadente della gerarchia cattolica nelle questioni etiche, rischia nondimeno di trascurare molte posizioni che hanno animato il dibattito teologico novecentesco e quello contemporaneo.
La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Vecchioni: “Sartre mi serve per vivere non per pensare”
di Bruno Quaranta
Una vita «di parola»: dalla cattedra liceale al trionfo di Sanremo, alla narrativa, sempre dalla parte di chi difende «un libro vero»
Qualche ruga di ridente nostalgia si allunga sul viso. E forse non solo «qualche». Ma non è stanco il bandolero, il nordico scugnizzo, Vecchioni. Bandolero, sì, sempre, irriducibilmente, insofferente di questa o di quella main street, calamitato da altre vie, le vie del cuore, dove sale il vento, dove non ristagnano i luoghi comuni, i logori copioni, i discorsi comme il faut .
Stanno riaprendo le scuole, ma il professor Vecchioni, non da oggi, va su e giù lungo altre predelle, inanellando un’Italia (una certa Italia, sempre più vasta) che si è scrollata di dosso gli evirati cantori o - come sferzava Faber - «voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio».
«Chiamami ancora amore / Chiamami sempre amore / Che questa maledetta notte / dovrà pur finire / perché la riempiremo noi da qui di musica e di parole...»: di concerto in concerto, ininterrottamente, dopo il trionfo sanremese. Perché l’esperienza del verbum e del logos (latino e greco, le lingue insegnate da Roberto Vecchioni) sfarina lo slogan, lo strafalcione, il greve refuso, il turpiloquio. Perché il canto (Orfeo docet) è un antidoto contro le sirene, nei secoli dei secoli, fino alle vestali, così incartapecorite, di questo nostro Paese da bere, di ciò che vi resta.
Aosta è fra le stazioni del tour. I tecnici «accordano» il palco, in piazza Chanoux. La notte è vicina. Le luci risplenderanno. Le luci inesauribili. Luci a San Siro... Rievocare il capo d’opera può, potrebbe, risultare uggioso a Vecchioni? Ma perché? Ogni artista - come rammentava Montale, scomparso giusto trent’anni fa nella capitale “morale” del letterato cantautore - non ha forse la sua «Cavalleria rusticana», l’intramontabile leitmotiv?
Piuttosto, si passi finalmente in cavalleria, con il professor Roberto Vecchioni, almeno, la logora questione canzone-poesia, se la canzone è poesia, riandando alle origini, alle radici, all’etimo, lyrikós ogni canto eseguito con l’accompagnamento della lira.
Canzone-poesia, sottobraccio al premio Montale, assegnato, fra gli altri, a Conte e a Dylan. Trent’anni fa se ne andava il signore degli «Ossi».
«Un grande artefice di parole momentanee. Componeva ovunque - vi ripensavo nelle visite ad Alda Merini, il mio Nobel -: sui fazzoletti, sui tovaglioli, sulle scatole di fiammiferi, una costruzione logica del pensiero immediata e istintiva. Era la sua terra, la Liguria dei calanchi, il mare che si vede attraverso i buchi, la verità che si afferra di là delle feritoie. Come non accostare Eusebio al Pascoli del Lampo , la casa che nella notte nera apparì sparì d’un tratto...?».
Montale, un vertice, fra i vertici del Novecento.
«Tra i miei primi libri, l’antologia Guanda di Giacinto Spagnoletti sulla poesia italiana del secolo scorso. Mi si rivelò la poesia come libertà, smentendo, o scalfendo, come dire?, la patina scientifica che la ipotecava, propria della lezione liceale».
Montale...
«E un ulteriore, straordinario ligure, Italo Calvino. Ne abbraccio l’opera omnia, dal Sentiero dei nidi di ragno alle Lezioni americane , alle Città invisibili . Va - eccone la pregiata costante - oltre le invenzioni dell’uomo, crea, prefigura, scenari che non ci sono, dove, se non la felicità, si potrà gustare la serenità».
Le «Lezioni americane» sono un continuo vis-à-vis con i classici, a cominciare dagli antichi, i suoi ferri del mestiere, dalla lontana università all’insegnamento nei licei.
«Mi laureai in letteratura latina alla Cattolica nel 1968 con monsignor Benedetto Riposati. Discussi una tesi su Tibullo, in particolare approfondendo il quarto libro del corpus tibulliano, il più incerto circa la paternità. Lo attribuii a Properzio. Riposati, da parte sua, non voleva attribuire a me il lavoro che gli presentai. Di lì a un’ora tornai con tutte le carte autografe: “La calligrafia è la mia!”».
Romain Rolland, dei classici, diceva: «Sono la mia famiglia». Quale il suo albero genealogico, chi riconosce, per esempio, come padre?
«In primis, i tragici greci. Eschilo: il padre della tradizione ancestrale, immensa, anche spaventosa. Sofocle: il padre del diritto di dubitare, suprema Antigone. Euripide: il padre delle donne, del sentimento, va oltre la tragedia, è una voce che si riverbererà nel romanticismo».
Il liceo, come luogo dove si leggono i classici...
«Come accostare i giovani ai classici? Come fargliene sentire la necessità? Non mettendoli sotto vuoto, ma calandoli, radicandoli, innestandoli nella vita quotidiana. Conoscerli è salvifico, impedisce i passi falsi. Ci si soffermi, per esempio, sull’epistola in cui Orazio sollecita: “... torna indietro quando ti accorgi che le cose desiderate valgono meno di quelle perdute”».
Vecchioni, una «vita di parola». Come insegnante, come cantaprofessore, secondo la definizione di Michele Serra, come scrittore, «Scacco a Dio» l’ultimo, per ora, titolo.
«Sto lavorando a un romanzo epistolare. Un genere che, come il diario, prediligo».
Einaudi è il suo editore, la casa di Pavese. A Pavese rende omaggio con una canzone: «Verrà la notte e avrà i tuoi occhi».
«I porti sicuri che sono i piemontesi. Da Fenoglio ad Arpino, a Pavese. Il Pavese di Dialoghi con Leucò . Ne apprezzo l’interpretazione del mito. Non separato dagli uomini, ma assiso, fermentante, in loro. Junghianamente. E, con i Dialoghi , Il mestiere di vivere , là dove, a risaltare, sono una grande disperazione e una grande sincerità. Un sicuro modello».
Non c’è compositore che, come lei, conversi con la letteratura. Il suo canzoniere è affollato di carissime ombre, da Saffo a Rimbaud, da Thomas Mann alla Merini, a Dante Alighieri, l’Alighieri che “troneggia”».
«Sì, la Firenze di Cacciaguida e antecedente. Dove si potevano lasciare gli usci aperti, dove le donne non venivano importunate, dove si poteva girare con un saio, perché contava essere, non apparire. Una città sobria e pudica, finché non arrivò Sardanapalo, ossia l’immondo che di erede in erede si è sin qui, in questa Italia, perpetuato».
Risaltano nel suo salotto letterario Sartre, Baudelaire, Jarry, un trio che le detta il verso: “... è tempo di riaccendere le stelle consigliere”». Anche Sartre, ancora Sartre?
«For ever Sartre. Mi serve per vivere, non per pensare. La paura di vivere, in che modo superarla, o convivervi, non rifugiandosi in una divinità».
Ma forse l’apice è Fernando Pessoa, a cui «sfuggì che il senso delle stelle / non è quello di un uomo, / e si rivide nella pena di quel brillare inutile, / di quel brillare lontano...».
«Pessoa è il compendio del Novecento. Il buio, il dolore, l’assurdità, la fede che va e che viene, l’egoespressionismo. Un pessimismo infinito, una sofferenza che si riteneva inimmaginabile dopo Leopardi. No, non credo al dolore infinito, ma alla buona fede del maggiore portoghese, sì».
I libri. Il suo libraio, «Il libraio di Selinunte», non li vende, ma li legge ad alta voce. Un elogio dell’oralità...
«L’oralità, la forma di comunicazione degli aedi. Chi ascolta deve essere fantasticamente dotato, capace di immaginare (di tradurre in visioni) ciò che sente». Il concerto si avvicina. Roberto Vecchioni è un crogiuolo di eteronimi. Gli occhiali cerchiati di Fernando Pessoa («... chiese gli occhiali / e si addormentò / e quelli che scrivevano per lui / lo lasciarono solo / finalmente solo...»). Il sigaro, forse un montaliano sigaro di Brissago (il «volubile fumo dei miei sigari di Brissago...»). Lo sguardo febbrile, febbrilmente vagabondo, sconfinato, dell’angelo di Charleville («... ricordo a malapena quale nome ho: / Arthur Rimbaud, Arthur Rimbaud, / Arthur Rimbaud...»). L’antico ragazzo che è Vecchioni, il professore di «tutti i ragazzi e le ragazze / che difendono un libro, un libro vero». Scoprendo, accudendo, inventando, sillabando parole che vogliano smisuratamente dire «vivere, vivere».
«Montale, come la mia Marini, artefice di parole istantanee, il mare (la verità) vista attraverso i buchi» «Calvino va oltre le invenzioni dell’uomo, prefigura scenari dove gustare la serenità, se non la felicità» «Sono i tragici greci i miei padri, Euripide in particolare, il padre delle donne, dei sentimenti» «L’apice è Pessoa: un compendio del Novecento, c’è il buio, il dolore, l’assurdità, la fede che va e viene»
La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Il caso. Rebecca Skloot
La “cavia” Henrietta costretta all’immortalità
di Claudio Gorlier
Henrietta Lacks morì nel 1951 ma le sue cellule sono state manipolate dall’industria scientifica milionaria
E’ il 29 gennaio 1951, e in un celebrato ospedale americano viene ricoverata una donna tormentata da dolori addominali che le fanno pensare di essere incinta. Si chiama Henrietta Lacks, nata Pleasant nel 1920. Attenzione: nata in Virginia, Henrietta è africano-americana, o, come si diceva allora, «negra» ( nigger ). E allora, dal momento che la desegregazione non era stata ancora ufficialmente sancita - avvenne l’anno successivo, con la presidenza Eisenhower Henrietta dovette subire tutte le pratiche umilianti destinate ai colored , che mi è toccato di studiare tristemente in prima persona.
Henrietta era una donna minuta, dotata di una grazia modesta, e lo possiamo constatare in una sua fotografia che letteralmente apre il volume dedicatole da una autorevole e brillante giornalista americana, Rebecca Skloot, La vita immortale di Henrietta Lacks . Fine scrittrice, la Skloot ha scelto questo titolo emblematico perché la vicenda di Henrietta Lacks, nella sua drammatica intensità, sembra davvero trascendere la pura e semplice esistenza. L’immortalità acquista nel corso del libro almeno due livelli. Il primo investe la scienza, o se si vuole una manipolazione persino criminale della scienza. Infatti, quando a Henrietta viene diagnosticato in ospedale un tumore, medici di nessuno scrupolo, paragonati qui addirittura a sperimentatori nazisti, si avvalgono delle cellule estratte all’inferma per servirsene ai propri fini. Sono le emblematiche HeLa, chiamate così dalle iniziali dell’inferma, e soltanto molti anni dopo i responsabili dovranno rispondere alla giustizia delle loro manipolazioni. Il secondo, decisivo livello, proietta la realtà concreta della scienza a un livello quasi metafisico. Lo apprendiamo dalla morte quasi mistica di Henrietta, ma soprattutto dalla vita e essa pure dalla morte della figlia Deborah, a sua volta protagonista di un’esistenza travagliata ma risoluta a scrutare a fondo in una vicenda oscura e a porre le domande cruciali che la rendono quasi tragicamente esemplare. E’ questo, forse, il segreto misterioso dell’immortalità. Una scrittrice inequivocabilmente bianca si affaccia sulla storia alternativa di donne «altre», e da loro impara una lezione, riceve un messaggio quasi lapidario affidatole da Deborah prima della sua morte repentina: «Sei pronta a lavarti l’anima?».
La Stampa 10.9.11
Il ministero agli archeologi: “Andate a scavare in tram”
Stop retroattivo ai rimborsi benzina: ispezioni paralizzate
di Giuseppe Salvaggiulo
Il funzionario della soprintendenza deve andare a fare un sopralluogo sull’Appia Antica, a decine di chilometri dal centro di Roma e ben oltre il Grande Raccordo Anulare? Che ci vada in tram. O in autobus, se preferisce. Peccato che gli antichi romani, ignari del declino civile dei discendenti italici, costruendo la Regina Viarum 2250 anni fa non pensarono di affiancare alle basole in pietra rotaie per tram e corsie preferenziali per autobus. Al ministero dei Beni culturali non importa. Bisogna risparmiare e non è il caso di andare per il sottile: ispettori, funzionari, archeologi in giro per l’Italia a bordo della propria auto non si vedranno più rimborsate le spese di benzina. Se le paghino da sole, come mecenati o volontari, oppure si arrangino con i mezzi pubblici.
Tutti in tram, dunque. Anche se la missione sui cantieri comporta il trasporto di pesanti zaini con attrezzature e vestiti di ricambio. Anche dove i mezzi di trasporto pubblico non arrivano, come in genere capita sulle rovine di civiltà antiche. Anche se la località da raggiungere dista centinaia di chilometri, con due o tre cambi di treno e diverse ore di viaggio, quando in autostrada basterebbe mezz’ora. Anche se la missione richiede più spostamenti in una giornata, incompatibili con le coincidenze dei bus locali. Il risultato, come paventato in un’assemblea di funzionari a Roma, è la paralisi. Ieri qualcuno ha già annullato missioni programmate da tempo per l’impossibilità di raggiungere la destinazione.
Le nuove disposizioni nascono da una norma della manovra finanziaria del 2010 che vieta i rimborsi delle missioni. Il ministero aveva cercato di eluderla, ma esponendosi alla scure della Corte dei Conti, che ad aprile ha interpretato la regola senza eccezioni. Il ministero si è adeguato con una circolare rivolta a tutte le soprintendenze, gli organi sul territorio che tutelano quelle bellezze archeologiche, paesaggistiche e architettoniche di cui lo stesso governo si vanta negli spot televisivi.
I soprintendenti, a loro volta, devono obbedire per non esporsi a processi davanti alla Corte dei Conti per danno erariale. Anna Maria Moretti, capo della Soprintendenza archeologica di Roma, l’ha fatto con una laconica nota che ha lasciato sbigottiti gli archeologi che ogni giorni macinano chilometri per raggiungere musei, ruderi, scavi: «Si comunica a tutto il personale che a decorrere dal 5 aprile 2011 non potrà essere riconosciuto il rimborso per l’utilizzo del mezzo proprio». Al massimo, un euro: il costo del biglietto integrato a tempo da 75 minuti dell’Atac. La disposizione è retroattiva: per le spese sostenute dal 5 aprile a oggi, regolarmente autorizzate, vale la strofa della tarantella napoletana: «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce ‘o ppassato...».
Oltre al danno, la beffa. Non solo le soprintendenze, prive di quell’autonomia che consentirebbe di aumentare gli introiti promuovendo le gestioni virtuose, vengono strangolate dai tagli lineari (20/30% ogni anno) e, cancellando i rimborsi, ai tecnici viene impedito di svolgere metà delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale. Il governo che non vuole imporre un balzello agli evasori che hanno beneficiato dello scudo fiscale perché «lo Stato violerebbe il patto di lealtà», rifiuta di rimborsare ai suoi dipendenti spese già effettuate nel suo interesse, violando il patto con cui aveva garantito il ristoro.
Cose che capitano, perché come spiegano al ministero «alla fine i tagli incidono sulla carne di chi lavora». I numeri sono implacabili, in un settore che ha il record di siti Unesco, produce oltre 40 miliardi di euro l’anno con 550 mila lavoratori. In un decennio, il budget culturale ha perso 500 milioni di euro su 2 miliardi, riducendosi dal già esiguo 0,39% del bilancio statale al misero 0,21%. Un decimo di quanto spendono Francia, Gran Bretagna e Germania. Senza l’Appia Antica da raggiungere in tram.
Il Fatto 10.9.11
La Disneyland dell’arte
di Tomaso Montanari
À Rome, c’est Le Bernin qu’on assassine”. L’enfasi drammatica del titolo di Le Figaro (“A Roma si uccide Bernini”) può dare un’idea dell’emozione suscitata in tutta Europa dall’atto vandalico di Piazza Navona, una settimana fa. Un’emozione che appare tuttavia fuori luogo, o almeno assai curiosamente indirizzata. E non solo perché Bernini, in verità, c’entra poco (il mascherone colpito è infatti una copia ottocentesca di un originale che preesisteva alla risistemazione berniniana della fontana): ma perché ogni giorno il nostro patrimonio artistico subisce attacchi infinitamente più gravi di quelli provocati dal povero romano senza fissa dimora.
CI SONO, innanzitutto, i danni veri e propri. Basta citare i furti e i crolli che quotidianamente cancellano per sempre interi brani delle chiese del centro di Napoli: e ognuna di queste perdite vale, da sola, mille volte quella romana. Ma di fronte agli occhi scorrono le immagini desolanti dell’abbandono della mirabile Catania barocca o di Cosenza vecchia, del centro de L’Aquila che rischia di non sopravvivere alla sua ricostruzione, dei crolli della Domus Aurea e delle Mura Aureliane a Roma, dell’antico Tempio di Mitra a Marino allagato dai liquami durante lavori che minacciano di distruggerlo, della chiesa di Orbetello venduta a privati e lasciata andare in rovina, del degrado della pisana Certosa di Calci e mille altri ancora: un rosario di gravissimi lutti artistici che non trovano sulla stampa nemmeno un centesimo dell’eco che ha avuto il folle di Piazza Navona. Intendiamoci, è vitale innanzitutto prevenire e quindi punire severamente qualunque atto vandalico contro il patrimonio: ma è incomprensibile che l’atto isolato di un folle conquisti pagine e pagine e muova le penne degli editorialisti più fini, mentre quegli stessi giornali fanno un’enorme fatica a coprire, raccontare e interpretare i danni perpetrati sistematicamente dall’interesse venale o dall’ignoranza di migliaia di nostri concittadini tutt’altro che folli.
Per non parlare della diffusa incapacità di comprendere il potenziale distruttivo di una politica di tutela inadeguata, o peggio dolosamente passiva: quasi non si vedesse che varare un condono edilizio, tagliare i fondi del ministero per i Beni culturali, bloccare le assunzioni del personale di soprintendenza, o alienare indiscriminatamente gli immobili pubblici equivale a infliggere al patrimonio danni sideralmente superiori alla somma di tutti quelli causati da tutti gli atti vandalici dell’ultimo secolo. Ma questo vandalismo politico e culturale incontra esegeti molto meno numerosi e acuti.
La vicenda di Piazza Navona un lato educativo, tuttavia, ce l’ha. Molti italiani si sono quasi sentiti traditi apprendendo che l’opera danneggiata era “solo” una copia. In effetti, alcune delle più importanti sculture nate per vivere nelle nostre strade sono state trasferite al chiuso e sostituite da copie: a cominciare dal San Giorgio di Donatello e dal David di Michelangelo, musealizzati già nel-l’Ottocento. A Roma il vero Marc’Aurelio ondeggia su un orribile trampolino nei nuovi Musei Capitolini, mentre sul piedistallo disegnato da Michelangelo poggia una copia imbarazzante. I veri Cavalli di San Marco non sono quelli che si vedono sulla facciata della basilica veneziana, e le statue dei santi patroni che sovrastano la folla dei turisti dalle nicchie della fiorentina Orsanmichele sono cloni moderni di superbi originali chiusi in un museo quasi sconosciuto. Proprio a Firenze si raggiungono vette di particolare perversione: le riproduzioni dei battenti della Porta del Paradiso sono incorniciate tra gli stipiti e l’architrave originali di Lorenzo Ghiberti, e il vero Perseo di Benvenuto Cellini sormonta una copia assai malriuscita del piedistallo, sempre celliniano, che sta ormai al Museo del Bargello. Tutte queste sostituzioni sono motivate da ragioni di conservazione: in alcuni casi cogenti, in altri invece (come per il Mar-c’Aurelio) assai meno. Il risultato, in ogni caso, è assai triste: le grandi opere d’arte del passato escono dalla nostra vita quotidiana, confinandosi in uno spazio artificiale e lasciando che le nostre città assomiglino sempre di più a una Disneyland della storia dell’arte. Ma esiste una soluzione, almeno in prospettiva, ed è quella conservazione programmata per molto tempo propugnata invano da Giovanni Urbani (1925-1994), un funzionario dei Beni culturali così intelligente e morale da essere prima emarginato e poi costretto alle dimissioni.
URBANI non pensava il restauro come un intervento volto a migliorare la percezione estetica di un singolo oggetto, ma come una strategia, insieme culturale e operativa, che assicurasse la conservazione della presenza materiale, e contemporaneamente del ruolo morale, dell’arte del passato nel mondo di oggi. Se un Paese come l’Italia si decidesse a investire seriamente nella ricerca scientifica e tecnologica relativa al restauro, l’obiettivo di conservare le sculture nei luoghi pubblici e nella funzione civile per cui sono nate non sarebbe certo irraggiungibile. Ma occorrerebbero una volontà politica, una prospettiva culturale e un’opinione pubblica educata a conoscere davvero la storia dell’arte: tutte cose assai meno comode del rassicurante pensiero che ad “assassinare Bernini” sia il povero squilibrato di Piazza Navona.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 9 settembre 2011
l’Unità 9.9.11
Un 32enne a Roma ha colpito la madre alla testa con una bilancia. Poi ha chiamato la polizia
Il ragazzo era sotto effetto di psicofarmaci. I vicini: «Incredibile, è sempre stato tranquillo»
«Era diventata il Diavolo Per questo l’ho uccisa»
Un’allucinazione poi il «buio». A Roma, nel quartiere Aurelio, dopo una lite iniziata all’alba, un giovane affetto da problemi psichici ha ucciso la madre dopo averla inseguita in camera da letto e poi in bagno.
di Pino Bartoli
«Era il diavolo». Con questa delirante giustificazione, a seguito di una lite furiosa, ha colpito violentemente al capo la propria madre lasciando il corpo senza vita nel bagno di casa. La follia ha preso il sopravvento su Alessandro D., romano di 32 anni, affetto da problemi psichici. Nonostante gli effetti degli psicofarmaci, ha perso il controllo e ucciso la madre picchiandola ripetutamente con una bilancia. La vittima, una pensionata di 69 anni, ha chiamato fino all’ultimo aiuto senza alcun possibilità di scampo. I vicini di casa, allertati dalle urla provenienti dall’appartamento, hanno chiamato il 113. Quando ormai lo stesso matricida aveva avvertito la polizia, dopo aver telefonato anche ad un amico per tentare di spiegargli quanto era avvenuto. Gli agenti, raggiunti l’abitazione, hanno trovato il corpo della donna senza vita. La discussione, terribile nel suo svolgimento, era già cominciato all’alba di ieri mattina. Solo dopo alcune ore, all’incirca alle 8 del mattino, il giovane ha perso definitivamente il controllo scatenando tutta la propria furia sulla madre. In quegli istanti i due erano soli in casa, dal momento che il padre era lontano dalle mura di casa. L’omicidio è avvenuto nel seminterrato di una palazzina di quattro piani in via Sisto IV, nel quartiere Aurelio.
«L’ho vista trasformarsi in un diavolo ha raccontato il giovane e l’ho uccisa». Alessandro, che segue cure specifiche per il suo problemi psichici, ha dapprima aggredito malmenando la madre. In seguito, dopo averla raggiunta in bagno, l’ha colpita con forza alla testa con una bilancia fino ad ucciderla. «È una tragedia ha commentato lo sconvolto zio di Alessandro non so come sia potuto succedere, nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato». Sotto choc tutti i parenti. In primis il padre di famiglia, che durante l’episodio di ieri mattina si trovava nella casa di campagna della famiglia in provincia di Rieti. L’uomo, tranviere in pensione, è molto conosciuto nel quartiere per la sua praticità nella risoluzione dei piccoli lavori manuali di casa. «Gente tranquilla e riservata» spiega la gente della zona. Sorpreso il vicinato che descrive Alessandro come un ragazzo per bene: «Lui è stato sempre molto gentile, salutava tutti, ogni tanto lo vedevamo con degli amici, pare che lavorasse come odontotecnico. Non crediamo avesse problemi di denaro».
Concitata la testimonianza di una vicina di casa che ha definito «insolito» il litigio tra madre e figlio. «Ho sentito litigare Alessandro e la madre fin dall’alba, erano le 6.45 circa ha raccontato la signora in genere è una famiglia tranquilla e silenziosa». Solo al ritorno ha appreso dalla televisione quanto era avvenuto. L’opinione del quartiere e dei conoscenti di Alessandro è unanime: «È sempre stato un ragazzo tranquillo, l’ho visto fino a ieri ha spiegato una sua amica nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe potuta succedere una cosa del genere».
In realtà Alessandro era stato ricoverato in diverse occasioni nel corso delle ultime settimane. L’ultimo ricovero, in particolare, era avvenuto proprio perchè il 32 enne, in preda alle allucinazioni, vedeva la madre trasformarsi in diavolo. «Dopo il ricovero nell'ultimo periodo stava meglio ha detto disperato il padre del ragazzo agli agenti lavorava regolarmente e in questi giorni era andato a lavoro, dove faceva l'impiegato ai beni culturali». Da due giorni non riusciva più a dormire. Nella mattinata di ieri la tragedia. L’uomo, raccontano gli inquirenti, avrebbe colpito con tale forza la testa della madre da procurarsi una slogatura ad una spalla.
La Stampa 9.9.11
Critiche dal Consiglio d’Europa per il linguaggio usato verso rom e sinti
La politica italiana bocciata in razzismo
di Vladimiro Zagrebelsky
Chi aprisse in questi giorni la pagina web del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, sarebbe subito colpito dal primo grande titolo, che dice: «L’Italia deve proteggere meglio i diritti dei rom e dei migranti». Esso è accompagnato da una fotografia, che riproduce un manifesto, divenuto ben noto, largamente affisso sui muri di Milano durante la recente campagna elettorale per l’elezione del sindaco. Vi si legge: «Milano Zingaropoli con Pisapia» e nel testo si stigmatizza anche il progetto di costruzione di una moschea. Dunque l’Italia, la cui immagine già per altro verso non brilla ora in Europa, è nuovamente e negativamente esposta all’attenzione. E’ possibile che in Italia a pochi interessi cosa dice il Consiglio d’Europa e che le questioni legate ai diritti fondamentali siano da molti trattate con sufficienza e fastidio. Ma così non è nell’Europa di cui l’Italia è parte. E tout se tient quanto ad immagine e a opinione che gli altri hanno della sua credibilità e affidabilità.
Il documento reso noto dal Commissario ai diritti umani contiene le sue valutazioni dopo una visita in Italia nello scorso maggio.
Esso riguarda vari aspetti della situazione dei rom e dei sinti e della condizione degli immigrati nel difficile periodo legato al conflitto in Libia.
Tra le tante di cui il governo e la società civile italiana dovranno tener conto, merita attenzione quella cui si riferisce il titolo di apertura del sito del Commissario: la qualità del discorso politico e la frequenza di un tono razzista con riferimento ai rom e sinti (ma anche ai musulmani).
Sperimentiamo ogni giorno la volgarità del lessico (e dei gesti) di tanti politici. Essa caratterizza non solo le loro chiacchiere al telefono con amici e amiche (un aspetto da non trascurare di ciò che emerge dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ordinate dalla magistratura), ma anche i loro discorsi pubblici. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Ma non di questo si occupa il Commissario ai diritti umani. Egli è preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici, hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, con il pericolo che essi stimolino e legittimino atteggiamenti razzisti e discriminatori. Il rapporto del Commissario cita una dichiarazione del ministro dell’Interno Maroni, riportata l’anno scorso dal Corriere della Sera nel periodo in cui la Francia espelleva i rom di nazionalità bulgara e romena. Il ministro esprimeva disappunto poiché molti rom e sinti sono cittadini italiani «e quindi non ci si può far niente». E’ solo un esempio, ma noi sappiamo quanto frequente e spesso anche aggressivo sia il linguaggio denigratorio. Qui è la posizione ufficiale e autorevole del ministro che viene in considerazione e quanto la frase sottintenda su ciò che bisognerebbe fare, se solo fosse possibile. E sul disvalore, che non è nemmeno il caso di dire, delle persone cui si riferisce. La loro dignità (che è un diritto fondamentale, proclamato dal primo articolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) è offesa ed è coltivato il terreno propizio a politiche discriminatorie e di esclusione sociale.
In un mondo che vede gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle persone, potrebbe sembrare eccessiva l’attenzione del Commissario al linguaggio. Ma così non è. Intanto il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa non è isolato in questa sua denunzia. La stessa preoccupazione e condanna sono già state espresse dal Comitato della Convenzione europea per la protezione delle minoranze e dal Comitato della Carta sociale europea. E poi, chi non vede che il disprezzo che cola, esplicito o implicito, dal linguaggio scelto per esprimersi lascia il segno, offende e discrimina, suggerisce che si tratta di estranei, di gente di poco o nullo valore, che non merita la considerazione che meritiamo «noi»? Razzismo dunque, tanto più condannabile e pericoloso quando si coglie nel discorso politico che in una democrazia dovrebbe essere degno e rispettoso.
La Stampa 9.9.11
Asserragliati nel fortino dei privilegi
di Massimo Gramellini
Quando Berlusconi annunciò l’imminente dimezzamento dei parlamentari, due cose furono subito chiare a tutti gli italiani. Che moriva dalla voglia di farlo, se non altro per dimezzare le spese, visto che li mantiene quasi tutti lui. E che non ci sarebbe riuscito, perché nessuno ha mai visto la forfora votare a favore dello shampoo.
Ricordate? Per addolcire il bicarbonato della Manovra, a fine agosto il governo pensò bene di regalarci una caramella al miele. La promessa di un disegno di legge costituzionale che avrebbe dimezzato i parlamentari e cancellato le province. La Casta più obesa del mondo si sarebbe messa in cura dimagrante. Un segnale per i contribuenti: mentre voi stringete la cinghia, noi ci rimettiamo almeno la camicia dentro i pantaloni.
Qualche giorno dopo il segretario del partito del premier scartò la caramella al miele e la distribuì sull’autorevole palco della Berghemfest (sembra uno stopper del Bayern, ma immagino voglia dire Festa di Bergamo): ai primi di settembre, garantì, presenteremo un disegno di legge costituzionale per dimezzare il numero dei parlamentari e abolire le province.
Il disegno di legge costituzionale è stato presentato ieri e prevede soltanto l’abolizione delle province. Il dimezzamento dei parlamentari è stato inghiottito da un buco nero. Chi lo avrebbe mai detto? Stupiti quanto voi, ci siamo messi sulle tracce dello scomparso, interpellandone il padre putativo: Calderoli. L’illustre giurista ci ha tranquillizzati: il dimezzamento non è nel disegno di legge perché era già stato varato dal consiglio dei ministri del 22 luglio scorso. E allora come mai Berlusconi e Alfano, oltre un mese dopo, lo promettevano ai cittadini? Uno promette quel che deve ancora fare, non quel che ha appena fatto. L’ipotesi che il consiglio del 22 luglio avesse approvato il dimezzamento dei parlamentari all’insaputa del premier è stata presa seriamente in considerazione, ma non ha retto alla prova dei fatti. Che sono questi. Il dimezzamento è stato votato dal governo «salvo intese», una formula furbetta che consente di spacciare la riforma come già avvenuta, mentre nella realtà deve ancora passare per le forche caudine di una trattativa con i singoli ministri.
Per farla breve: la proposta di dimezzare gli onorevoli e i senatori non è stata inserita nel disegno di legge di ieri perché si trova già altrove, ma quell’altrove è un provvedimento che giace sepolto in un cassetto di Palazzo Chigi e non è mai stato trasmesso ai due rami del Parlamento. Per farla brevissima: ci hanno preso in giro un’altra volta. La seconda in due giorni, dopo la farsa dello sconto sui tagli alle indennità degli onorevoli muniti di doppio lavoro (e doppia pensione) festosamente promessi dal governo non più tardi di due settimane fa.
Neanche a dire che non si rendano conto di essere detestati. Lo sanno benissimo, tanto che ormai si vergognano di dichiarare in pubblico il mestiere che fanno. Semplicemente se ne infischiano delle reazioni. Asserragliati nel fortino dei loro privilegi, mentre intorno tutto crolla. Senza nemmeno salvare le apparenze e prendere qualche precauzione, come quella di placare la furia dei cittadini compiendo un sacrificio personale. Adesso pensano di cavarsela con la sola abolizione delle province, facendo pagare a un grado più basso della Casta il prezzo della loro eterna intangibilità.
Una classe dirigente si può disfare in tanti modi. Persino con uno scatto finale di orgoglio. La nostra invece - fra ruberie sistematiche, intercettazioni grottesche, barzellette sulle suore stuprate e raccolte di firme bipartisan per la conservazione delle feste dei santi Ambrogio e Gennaro ha compiuto la scelta più consona alla propria mediocrità, decidendo di dissolversi in una bolla infinita di squallore.
il Fatto 9.9.11
Palestina Addio speranze gli Usa dicono no all’autoproclamazione
di Roberta Zunini
Che Barack Obama e il Parlamento statunitense - a maggioranza repubblicana - fossero contrari all’iniziativa del presidente palestinese, Abu Mazen, di chiedere il riconoscimento della Cisgiordania (e di Gaza) come Stato membro delle Nazioni Unite, lo si sapeva. Ma da ieri ne siamo certi. Nonostante i tentativi di dissuasione da parte degli Stati Uniti e del Quartetto, e la netta opposizione di Israele, il Comitato esecutivo dell’Olp ieri si è riunito assieme ai capi di tutte le componenti palestinesi a Ramallah con il presidente dell’Anp, ribadendo la decisione di chiedere per la Palestina lo status di “194° membro delle Nazioni Unite”, limitata dai confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale, il prossimo 20 settembre all’assemblea generale delle. Una scelta, descritta da un dirigente dell’Olp, Azzam al-Ahmed, come “definitiva e irreversibile”. Nella convinzione, ha scritto al termine della riunione il segretario generale dell’Olp, Yasser Abdel Rabbo, che “arrivare a questo obiettivo favorirà il rilancio di un processo di pace serio e di nuovi negoziati, con lo scopo dichiarato di una soluzione con due Stati disegnati sulle frontiere del 1967”, cioè prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza. Un’occupazione avvenuta durante la Guerra dei Sei Giorni di 44 anni fa e diventata permanente grazie all’escamotage dell’ampliamento costante delle colonie ebraiche in Cisgiordania.
DUE EMISSARI statunitensi - l'inviato del Dipartimento di Stato, David Hale, e l’ambasciatore Dennis Ross - oltre all’inviato del Quartetto, l’ex premier inglese Tony Blair avevano provato fino a due giorni fa a convincere Abu Mazen a desistere, minacciando anche sanzioni contro i palestinesi. Ma il presidente dell’Anp non ha cambiato idea e ha sottolineato, che è disposto a rinunciare alla presentazione della richiesta solo se gli israeliani riapriranno i colloqui diretti, fermo restando il prericonoscimento da parte israeliana delle frontiere del ‘67 con Gerusalemme Est come capitale palestinese.
Dopo aver annunciato di aver incontrato in segreto sia il capo di Stato israeliano, Shimon Peres, sia il ministro della difesa, Ehud Barak, ai quali ha assicurato la volontà di tenere aperto il dialogo, Abu Mazen ha fatto sapere che in assenza di uno stop nella colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, la leadership palestinese si appellerà all’Onu. Se davanti all’assemblea generale non dovesse aver successo, come probabile, nessuno potrà più far finta di nulla e continuare a posticipare all’infinito la questione dello Stato palestinese. Se invece avesse successo, il pieno status di Stato membro non verrebbe comunque conferito subito perché ci sarebbe ancora bisogno del voto del Consiglio di sicurezza, sul quale Washington farà valere il suo diritto di veto. Gli Usa però vorrebbero evitare di esibire al mondo la loro contrarietà, poiché non sarebbero più credibili come mediatori cardine del processo di pace. Rischierebbero di inimicarsi le nomenclature dei pochi Paesi dell’area che ancora gli sono amici: in primis Arabia Saudita e Giordania. Egitto e Turchia ormai non lo sono più.
il Fatto 9.9.11
Mussolini al soldo degli inglesi e i misteri del delitto Matteotti
Un libro svela il controllo di Londra sul nostro Paese
di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella
Ogni volta che gli italiani hanno provato a decidere del proprio destino, gli inglesi sono intervenuti. Ora i documenti desecretati, che i due autori del libro “Il golpe inglese” hanno consultato negli archivi londinesi di Kew Gardens, lo dimostrano. Da quelle carte emerge che non è Washington a ordire piani eversivi per l’Italia, ma soprattutto Londra. Pubblichiamo uno stralcio del capitolo “E Churchill ordinò: ‘Insabbiare il delitto Matteotti’”.
La prima tessera è proprio l’ambigua figura di Dumini, l’uomo della Ceka che ha guidato il commando dei rapitori e degli assassini di Matteotti. Massone iscritto alla Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù con il terzo grado, quello di Maestro, vanta con il regime rapporti stretti almeno quanto quelli che intrattiene con il mondo anglosassone. [...]. Qualche tempo dopo il delitto (Matteotti, ndr), nel 1933 – racconta Peter Tompkins, l’uomo dell’Oss (ovvero l’Office of Strategic Services, il servizio segreto Usa in tempo di guerra, poi ribattezzato Cia) in Italia –, Dumini, forse sentendosi abbandonato dal regime, scrive un memoriale e lo invia a due legali di estrema fiducia, uno in America e l’altro in Inghilterra, con l’invito a renderlo pubblico nel caso in cui venga assassinato. Ma non gli succede nulla. Anzi, viene inserito nei ranghi dei servizi italiani e inviato in Libia. Scoppiata la no a Derna, nel 1941, lo arrestano e lo fucilano. Viene solo ferito, però, e riesce a scappare dopo essersi finto morto. [...]
NEL 1943 Dumini segue Mussolini a Salò, dove continua a svolgere il suo ruolo di agente segreto per conto dell’intelligence della Repubblica sociale e con ogni probabilità anche di Londra. Arrestato nuovamente dagli inglesi nel 1945, a guerra conclusa, due anni dopo viene processato e condannato all’ergastolo per il delitto Matteotti. Ma la pena è prima ridotta a trent’anni e poi, grazie a una serie di indulti, praticamente annullata. [...]
Quando gli inglesi conquistano Derna, in Libia, la prima cosa che fanno gli uomini dell’intelligence è raggiungere l’abitazione di Dumini. La ragione di tanta fretta è che gli agenti di Sua Maestà cercano qualcosa che per loro è di enorme importanza. Infatti, dietro una finta parete, il tenente Duff e i suoi uomini del Naval Service trovano l’archivio segreto del sicario di Matteotti. Materiale scottante, con molte lettere di Mussolini e altri documenti su quel delitto assai pericolosi per il duce. Ma solo per lui? Dumini, con le sue carte, viene subito trasferito al Cairo, dove valuta con i servizi britannici quale possa essere il modo migliore di gestire la faccenda. Le sue controparti sono il colonnello George Pollock (Special Operations) e l’agente Rex Leeper. Molto probabilmente Dumini si assicura l’incolumità offrendo il suo archivio all’intelligence in cambio della protezione inglese. [...] Qualche mese dopo, ai primi di novembre, le autorità militari britanniche al Cairo, assieme all’ambasciatore in Egitto Sir Miles Lampson, propongono un piano al Foreign Office (il ministero degli Esteri britannico): redigere un falso certificato di morte dell’agente italiano, la cui “fucilazione” sarebbe avvenuta il 7 aprile 1941. Si punta a ottenere due risultati. Da un lato, la sua scomparsa allontanerà ogni sospetto sui suoi rapporti con l’intelligence britannica, che anzi potrà continuare a servire anche negli anni successivi. Dall’altro, sapendo che il sicario di Matteotti ha inviato un memoriale a due legali in America e in Inghilterra, pregandoli di renderlo pubblico in caso di morte, la diplomazia britannica è certa che la notizia del suo decesso indurrà gli avvocati a diffondere quel documento, con effetti propagandistici devastanti per l’immagine del duce. Londra approva il piano il 13 novembre 1941. Ma l’ambasciatore in Egitto e il Foreign Office, che probabilmente non sono informati su tutti i retroscena dell’affaire Dumini, non hanno messo in conto la reazione di Churchill. [...]
PERCHÉ CHURCHILL ha tanta paura di quello che potrebbe saltar fuori dalle carte sul delitto Matteotti? [...] Ad angosciare il premier ci sarebbe innanzitutto il rischio che venga alla luce che Dumini fosse al servizio dell’intelligence britannica già dal 1919-1924, cioè nel periodo che va dall’ascesa al potere di Mussolini fino al delitto Matteotti. [...] Intanto, in quello stesso periodo, anche il duce intrattiene rapporti con i servizi segreti di Londra. Nel gennaio del 1918, subito dopo la disfatta italiana a Caporetto, il diplomatico inglese Samuel Hoare apre a Roma una sede dell’MI5 (Military Intelligence, Sezione 5, ovvero l’agenzia britannica per la sicurezza e il controspionaggio). [...] Nella fase finale della prima guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di stampa a favore di Gran Bretagna e Francia. E tra costoro c’è anche Benito Mussolini, ex esponente di punta del Partito socialista, che percepisce 100 sterline alla settimana da Sir Hoare. Churchill evidentemente sa che il duce è un uomo degli inglesi. Di più: è un suo ammiratore e intrattiene con lui intensi rapporti epistolari. Ne favorirà l’ascesa al potere per contenere non solo il pericolo social-comunista in Italia, ma anche quello bolscevico in Europa. [...] L’assassinio di Matteotti, proprio alla vigilia del suo importante discorso alla Camera, quello in cui avrebbe denunciato le tangenti legate alla convenzione con la Sinclair, risolve ogni problema. A Mussolini. Alla britannica Apoc. E a Churchill che, attraverso le carte di De Bono e quelle di Dumini, può continuare a tenere in pugno il duce. Gli americani sono messi da parte, Mussolini non cade perché Matteotti non riesce a pronunciare la denuncia in parlamento, e gli interessi inglesi sono salvi. Churchill insomma sceglie il male minore, pur di salvare il duce da una catastrofe annunciata.
il Fatto Saturno 9.9.11
Revisionare i revisionisti
Le mani rosse sulla storia
A dispetto delle letture di parte, la ricerca di Gilda Zazzara sfata il mito della egemonia culturale marxista
di Raffaele Liucci
IL TITOLO, purtroppo, ha la vivacità di un dolmen e non promette nulla di intrigante (La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo). E tuttavia, questo libro di Gilda Zazzara, edito da Laterza, è uno dei lavori più originali sfornati negli ultimi mesi. Racconta l’affascinante nascita della Storia contemporanea in Italia come disciplina autonoma. Siamo negli anni Cinquanta, e un’agguerrita pattuglia di giovani ricercatori, allora quasi tutti bordeggianti a sinistra (da Ernesto Ragionieri a Rosario Villari e Renzo De Felice), si mette a studiare la «storia del proprio tempo». Non è un compito agevole. Innanzitutto, il passato più recente è assai spinoso (il fascismo non era certo stato quell’innocua «parentesi» immaginata da Benedetto Croce). Poi, occorre combattere contro un pregiudizio assai diffuso fra i colleghi più paludati: «la distanza temporale come prerequisito irrinunciabile dell’opera storiografica». Infine, il clima da guerra fredda che si respira anche nel nostro paese non favorisce la serenità degli studi. Insomma, una bella sfida.
Secondo alcuni giornali (dal “Corriere”, per la penna di Paolo Mieli, a “Libero”), questo libro - firmato da un’insospettabile studiosa di sinistra - finalmente documenterebbe le «mani rosse» calate sulla storiografia italiana nel secondo dopoguerra. Ma forse la questione è più sfaccettata. Come spiegare, altrimenti, che nel 1960 a vincere le prime tre cattedre di Storia contemporanea furono un repubblicano (Giovanni Spadolini), un cattolico (Gabriele De Rosa) e un socialdemocratico anticomunista (Aldo Garosci)? Non proprio una squadra di cosacchi assatanati, smaniosi di portare i loro destrieri ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro. In realtà, gli storici di sinistra faticarono non poco ad infrangere una sotterranea conventio ad excludendum. Non a caso molti di loro, prima di entrare nei ruoli universitari, lavorarono in istituti extra-accademici, come la Fondazione Gramsci, la Biblioteca Feltrinelli e l’Istituto Nazionale di storia del movimento di Liberazione. Che furono centri operosi e influenti, ma non certo gli snodi di quella fantomatica Spectre vermiglia ancor oggi dipinta dall’opinione moderata.
Attenzione, però. Quell’epoca ormai remota non fu affatto l’età dell’oro. Il marxismo italiano significò anche settarismo, manicheismo, sovietismo. «Una stagione arida», come la ricorderà Furio Diaz, docente alla Normale, uscito dal Pci dopo l’invasione dell’Ungheria nel ’56. Forse l’unico limite di questo libro sta nell’ingenuità di fondo con cui viene affrontato l’intreccio fra ricerca e politica, come se essere degli storici militanti garantisca una marcia in più. Spesso non fu così. Però il problema della storiografia «faziosa» non riguardò soltanto gli storici comunisti, ma anche quelli socialisti, cattolici e liberali. Tutti studiarono, in prevalenza, le vicende della propria area politica di riferimento. E si capisce che non è sempre facile essere i migliori giudici di se stessi.
Cosa resta di quegli anni pionieristici? Riviste, dibattiti, libri ormai rintracciabili soltanto in biblioteca. Oggi uno studente faticherebbe a orientarsi fra quelle pagine troppo vissute. Eppure, non bisogna dimenticare, come ha scritto Giovanni Scirocco, che «quella generazione di storici militanti è stata una generazione di grandissimi storici, di cui ai nostri giorni non si vedono gli eredi (come in molti altri campi della cultura)». Ormai la storiografia è diventata sinonimo di «specializzazione estrema, affascinante ma fredda», incapace di padroneggiare le ampie scansioni cronologiche. Scirocco è stato allievo di Gaetano Arfé : insigne storico socialista, quando quell’aggettivo significava ancora qualcosa, nonché autore di una celebre Storia dell’“Avanti!”. Un tempo, quel quotidiano (fondato nel 1896) rappresentò il cuore pulsante dell’Italia onesta e lavoratrice. Tanto che uno dei suoi primi abbonati fu Benedetto Croce. Poi arrivarono Craxi, De Michelis e altri pregiudicati. Buon ultimo, Valter Lavitola.
Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, pagg. 195, • 20,00
il Fatto 9.9.11
Deboli e forti
Cari filosofi, non idolatrate la scienza
IlmatchestivotraFerraris,VattimoeSeverino sul“nuovorealismo”nascondetroppeconcessioni alloscientismo.Ildubbioèessenzialeperlaconoscenza
di Nicla Vassallo
IL COSIDDETTO “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente “pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”, “oggettività”, “nichilismo”, “post–moderno”, “senso comune”, “valori”, e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a proposito.
Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che consente di sposare (per esempio) la neuro–filosofia, senza saper quasi nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora, a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo. Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo, consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla, misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a tutte le imprese conoscitive.
Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che spaccia teorie scientifiche (pure pseudo–scientifiche, con pseudo–scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a proposito dei pseudo–filosofi) per verità incontrovertibili dalle giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze, progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele, nell’aspirare alla conoscenza. Saggiamolo noi stessi con un “esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la democrazia, insieme all’autorevolezza – a ognuno il proprio lavoro, con coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques Derrida “il n’y a pas de hors–texte”, sempre che si disponga delle competenze.
Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza. Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione scientifica inclusa, risulti “theory–laden”.
Corriere della Sera 9.9.11
A vent’anni dalla morte di Pareyson
Il filosofo e l’idea di ripensare il male
di Armando Torno
qui
http://www.scribd.com/doc/64349537
ai Giardini di San Servolo, ex ricovero per matti, isola del silenzio
il Fatto 9.9.11
Rai Cinema da matti
Dirigenti, vip e spiedini per il party sull’isola di San Servolo, sede dell’ex manicomio
di Carlo Tecce
Giardini di San Servolo, ex ricovero per matti, isola del silenzio. Qui Rai Cinema indossa eleganza e stile veneziano per festeggiare Quando la notte di Cristina Comencini, già ripassato in padella con fischi spontanei e applausi tattici. Aperitivo di robiola fresca, sformato di riso, salame cotto, prodotti tipici del Piemonte con tanto di marchio pubblicitario. Luci soffuse, quasi drammatiche, candele profumate. Ascoltate il vento che spinge le banchine contro la riva, il rumore doloroso del ferro, le paranoie di attori disoccupati, e un brivido di mondanità vi assale: “Caro, sarà una serata indimenticabile”. Momento di autentica leggerezza.
LA RAI CERCA RIFUGIO lontana dal Lido e dai tappeti. Poi un urlo rompe l'incatesimo: “Tutti a magnà. Nnamo de là, che ve devo spignè?”. Sono quei mattacchioni di Viale Mazzini. Paolo Del Brocco, numero 1 di Rai Cinema, intuito il richiamo di guerra, liquida le attrici che omaggiano il potere. Fa un gesto di sublime autorità ruotando il polsino sinistro e pensare che Carlotta Natoli correva sfilandosi la giacca per mostrare la casacca nera col pizzo. Semplicemente, Del Brocco aveva fame.
È l'astuto dirigente, lui. L'amministratore delegato di Rai Cinema, ex direttore generale, che comprò per un milione di euro i diritti in esclusiva di Goodbye Mama di Michelle Bonev prima del montaggio, ma di più: prima di girare l'ultima scena. Del Brocco maneggia affari: “Paga la Regione Piemonte”, ripete per l'intera serata organizzata dal produttore Cattleya, Rai Cinema con 01 Distribution. L'ad ha ingegno e talento, senza offendere una bionda, concede a Lorena Bianchetti il tavolo d'onore, addobbato con Adriano Coni, presidente di 01 Distribution e mezzo Cda di Rai Cinema, inclusa Angiola Filipponio Tatarella, il secondo cognome vale una biografia. La Bianchetti oscura persino Claudia Pandolfi , la protagonista incazzata. Non è più la ragazza compunta che introduceva la parola di Dio nelle case italiane, affabile conduttrice di A sua immagine. Non è più la maestrina che bacchettava il Mago Silvan perché osava citare il suo illustre omonimo, Silvio Berlusconi, in tema di cilindri e conigli. Nota: non conigliette. Adesso la Bianchetti è conduttrice, autrice, attrice, giurata al Festival del Cinema. Sfrutta la fila che porta ai paccheri con l'aragosta per praticare il mestiere: “Tu hai fatto un film d’azione – dice a un ragazzo – Peccato perché il mio premio è una vita per il cinema”. Corona consegnata a Cristina Capotondi, ennesima statuetta che crea confusione più che splendore. Come la targa del ministero per le Pari opportunità ai “valori sociali”, a San Servolo degnamente anticipata da una bionda funzionaria del ministro Mara Carfagna. Il re dei nostri è sempre Del Brocco, costretto in trincea: appena muove un passo, c'è ressa per una preghiera o una benedizione. Vince il nervosismo con sforzo immane, la selva di questuanti gli impedisce di raggiungere i camerieri e strappare un piatto di polipetti all'insalata e brasato in umido. Un attore o un avventore, comparso dal nulla, blocca l'ad di Rai Cinema mentre allunga le mani per uno spiedino di calamari fritti: “Dottore, carissimo, lei deve vedere. La fotografia è l'arte per eccellenza. Uno scatto ruba l'essenza, lo spirito, l'anima”. Del Brocco è stremato, annuisce: “Domani faremo qualcosa”, e vede fuggire un vassoio di pesce. Quando due ragazzi recitano un siparietto, “Non sopporti le scarpe? Queste devi tenerle anche per l'anno prossimo. Cammina scalza”, Del Brocco, rassegnato, torna al suo posto. E Coni fa il galante con le donne: “Noi facciamo Venezia, Torino, Sanremo...”.
BELLA LA VITA, brutto il brindisi. Quei calici rasenti il suolo, tenuti male da 250 eletti al rango supremo, i fortunati con l'invito “strettamente personale” che trasportava il salotto dal Casinò a San Servolo con barche private. La squadra speciale di Rai Cinema, trenta dirigenti che ruotano in dieci giorni , batte in ritirata con il dolce meringato ancora in bocca. Non c'è ribalta per un Festival vissuto in seconda fila. Hanno sofferto persino i graduati di Viale Mazzini, capitanati dal presidente Paolo Garimberti (due notti), sistemati a turno all'Excelsior dove un caffè costa 5 euro: 20 mila euro per ospitare a giorni alterni il Cda in tre stanze, per ora rappresentato da Massimo Gorla e Antonio Verro (Pdl), Giorgio Van Straten (Pd) e Rodolfo De Laurentiis (Udc), comparse senza motivo. Scolata una bottiglia di champagne, Rai Cinema al completo scappa via col primo battello. Il finale è incomprensibile, per nulla emozionante come la saga Bonev. Aeroporto di Venezia, ore 9 e 30, annuncio disperato: “Il signor Del Brocco è atteso all'imbarco con urgenza”. Forse è ancora in coda per l'antipasto.
Repubblica 9.9.11
Agile e intelligente ecco il vero antenato dell´homo sapiens
di Elena Dusi
Pollice opponibile e cervello già dotato di lobo frontale, anche se ancora piccolo
La nuova specie è l´anello mancante, un ibrido perfetto tra uomo e primate
In Sudafrica ritrovati e studiati con tecniche innovative i resti di un´intera famiglia di cinque individui Secondo i ricercatori l´Australopithecus sediba, vissuto 2 milioni di anni fa, è l’ominide più vicino a noi
Precipitando in quella grotta dalla quale non sarebbero più usciti, quasi due milioni di anni fa, sono finiti anche nella rete degli antropologi moderni. Li hanno ritrovati lì, in un anfratto naturale a Malapa, in Sudafrica: 5 individui uno accanto all´altro, con gli scheletri quasi perfettamente integri. «Una miniera d´oro, il ritrovamento che ogni ricercatore sogna nella vita» dice Giorgio Manzi, che insegna paleoantropologia alla Sapienza di Roma.
Era il 2008 quando il piccolo Matthew, 9 anni, figlio del ricercatore Lee Berger dell´università sudafricana di Witwatersrand, indicò al padre un osso che spuntava dal terreno. Da allora, grazie a quei resti, la storia dei nostri antenati è stata riscritta, tanto da far titolare alla rivista Science di oggi: "È lui l´antenato del genere Homo". Alla specie scoperta a Malapa sono dedicate la copertina e cinque studi.
Per analizzare il più antico dei nostri antenati diretti sono state usate le tecniche più moderne. Uno scanner a luce di sincrotone capace di una risoluzione di 19 micron (millesimi di millimetro) che si trova a Grenoble ha ricostruito la forma interna del cranio senza bisogno di spaccarlo. Il decadimento dell´uranio e la cronologia delle inversioni del campo magnetico hanno permesso di collocare la sfortunata famiglia di Malapa 1,977 milioni di anni fa, con un´incertezza di soli 3mila anni. Mai resti così antichi erano stati datati con tanta precisione.
Alla nuova specie è stato dato il nome di Australopithecus sediba (sediba in lingua sotho vuol dire "sorgente"). Nessuno più di lei merita la definizione di "anello mancante" fra i generi Australopithecus e Homo. «Se non avessimo ritrovato gli scheletri così composti - dice infatti Bernard Zipfel dell´università di Witwatersrand a Johannesburg - avremmo detto che le ossa appartenevano a due specie diverse».
Sediba è un perfetto ibrido fra uomo e primate. Ha le braccia lunghe e muscolose di una scimmia perché all´occorrenza si arrampicava sugli alberi e non raggiungeva il metro e mezzo di altezza. Ma era perfettamente in grado di camminare in posizione eretta, sfruttando le mani per manipolare oggetti. Dita agili e pollice opponibile sono caratteristiche di chi è in grado di effettuare movimenti di precisione e costruire manufatti. Il cervello è grande come un pompelmo: solo un terzo rispetto a noi. Ma la sua struttura è uguale a quella attuale e dietro agli occhi si è già iniziata a formare quella parte del lobo frontale che - molti anni più tardi - avrebbe dato vita al linguaggio, ai neuroni specchio responsabili dell´empatia e quindi di molti processi di socializzazione e al ragionamento astratto. E che, secondo Manzi, già a quell´epoca «rappresenta l´indizio di una capacità raffinata di manipolare gli oggetti, confermata dal pollice opponibile».
L´ominide-mosaico, l´ibrido perfetto fra Homo e Australopithecus, è stato battezzato con il nome di quest´ultimo genere, quello cui apparteneva anche Lucy. «Ma viste le sue caratteristiche, potrebbe benissimo essere una primordiale varietà di Homo» spiega il paleoantropologo della Sapienza. Fra i nostri antenati diretti, Sediba sarebbe dunque il più antico. «Tracce poco chiare di manufatti risalenti a più di 2 milioni di anni fa esistono anche in Africa orientale, ma con pochi e discussi resti scheletrici». E per trovare le prime mani adatte alla lavorazione della pietra bisogna arrivare fino a 1,7 milioni di anni fa, epoca in cui visse l´Homo habilis, considerato fino a ieri il nostro antenato più antico.
Dei 5 individui scoperti a Malapa, 40 chilometri a nord di Johannesburg, finora sono stati studiati (e solo in parte) solo una donna tra i 20 e i 30 anni e un bambino intorno ai 10. Alla ricerca dei connotati embrionali dell´umanità, i circa 80 scienziati in tutto il mondo impegnati nelle analisi dei resti si sono concentrati su testa, mani, caviglie e bacino. Su quest´ultimo si raccolgono le perplessità. Le sue proporzioni infatti sono simili a uomini e donne moderni, ma finora si era creduto che l´allargamento delle ossa pelviche fosse un frutto dell´evoluzione per permettere di venire al mondo a bambini con un cranio di grandi dimensioni. Sediba al contrario aveva un cervello piccolo come un primate. Ma già pronto a lanciarsi lungo quella china che lo avrebbe reso sempre più esteso e sempre più Sapiens.
Repubblica 9.9.11
Per una nuova teologia
Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell´Obbedienza
Un libro che farà discutere, dove lo studioso sostiene la libertà del credente verso i dogmi
Dice l´autore: "Credo a una dimensione dell´essere, capace di produrre energia vitale più preziosa"
Il passo decisivo è il rifiuto di un Dio che comanda, giudica, condanna esercitando un potere esterno
di Gustavo Zagrebelsky
Su questo libro non mancheranno discussioni e polemiche. Che sia ignorato è impossibile, se non altro perché esprime intelligenza e sensibilità che è di molti nel mondo cattolico, più di quanti si palesino. Le sue tesi si sviluppano dall´interno del messaggio cristiano, della "buona novella". Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera "dentro"; ma l´ortodossia lo colloca "fuori". Tutto si svolge con rispetto, ma l´accusa mossa al discorso ch´egli va svolgendo da tempo è radicale. La sua sarebbe, negli esiti, una teologia confortevole e consolatoria, segno di tempi permissivi, relativisti e ostili alle durezze della verità cristiana; nelle premesse, sarebbe la riproposizione di un, nella storia del cristianesimo, mai sopito spirito gnostico. Uno "gnostico à la page"?
Il motivo conduttore del libro Io e Dio (Garzanti) è il primato della coscienza e dell´autenticità sulla gerarchia e sulla tradizione, nei discorsi sul "divino". Siamo nel campo della "teologia fondamentale", cioè dell´atteggiamento verso a ciò che chiamiamo Dio e delle "vie" e dei mezzi per conoscerlo: in breve, delle ragioni a priori della fede religiosa. Ma, la teologia fondamentale è la base di ogni altra teologia. La teologia morale, in particolare, riguarda l´agire giusto, ovunque la presenza di Dio possa essere rilevante: la politica, l´economia, la cultura, il tempo libero, l´amore e la sessualità, la scienza... La teologia aspira alla totalità della vita. Si comprende così la portata del rovesciamento, dall´autorità che vincola alla coscienza che libera. Quella di Mancuso vuole essere, tanto nel conoscere quanto nell´agire, una teologia liberante, non opprimente. Le sue categorie non sono il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Sullo sfondo, non c´è il terrore dell´inferno ma la chiamata alla vita buona.
Il passo decisivo è forse il rigetto dell´idea di un dio come "persona": un Dio che comanda, giudica, condanna, cioè esercita un potere esterno, assoluto e irresistibile. Il sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di sgozzare il figlio, vittima sacrificale; Abramo non obbietta; Dio all´ultimo ferma il coltello) è di solito presentato come esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l´immagine d´un dio spietato (la mano omicida, comunque, viene trattenuta in tempo), sia per la disumanità d´un padre capace di tanto delitto. Quel padre, però, è immagine della perfetta fedeltà al "divino", lodata nei secoli da una tradizione in cui fede e violenza si danno facilmente la mano. Quando poi sulla parola di Dio (il "Dio lo vuole") si crea il potere d´una chiesa, la violenza sulle coscienze è sempre di nuovo possibile da parte di "uomini di Dio". La perfezione cristiana per Ignazio di Loyola – se vedo bianco e la Chiesa dice nero, è nero – nasce da una concezione del divino che, invece di ravvivare, spegne.
«Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch´io sono dio per me stesso? Per nulla. «Credendo in Dio, io non credo all´esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell´essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l´attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l´esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Credere in Dio, allora, non è lo "status del credente"; non è dire: "Signore, Signore" a un deus ex machina che ci salva dai pericoli – qui Mancuso è Bonhöffer –. È agire per colmare lo scarto tra il mondo, così com´è, e la sua perfezione, alla cui realizzazione la fede chiama i credenti. Con un´espressione di Teilhard de Chardin, credere è amouriser le monde. È un modo di ridire le parole di Gesù che chiama i suoi discepoli a essere "sale della terra" Si può essere sale sacrificando la libertà? Al più, si può essere soldati di Cristo.
Questa teologia è insieme gioiosa e tragica: gioiosa perché indica, come senso della vita, il bene – sintesi di giustizia, verità e bellezza –; tragica, perché è consapevole dell´enormità del compito. Dice Mancuso: «Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come "ottimismo drammatico´": vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all´interno di un processo da cui non è assente il negativo e l´assurdo». È questa un´accomodante e confortevole giustificazione delle coscienze, l´autorizzazione alla creazione di "dei di comodo"? Per nulla. Al contrario, è un appello al rigore morale come risposta onesta, autentica, al senso del divino che sta nell´essere umano. Ma qui viene la seconda accusa: gnosticismo.
La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell´orgoglio di chi si considera "illuminato" da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d´orgoglio luciferino. Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s´insiste sull´intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest´unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire.
Dal rigetto del dualismo materia-spirito, deriva il rifiuto d´una fede di élite ,contrapposta alla fede di massa. Certo, se il turismo religioso del nostro tempo si scambia per manifestazione di fede, si può pensare che la seria introspezione di coscienza che chiama al vero, bello e giusto sia cosa per pochi. Questa tensione è il carattere della moltitudine degli "uomini di onesto sentire" (gli ánthropoi eudokías dell´angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù, in Lc 2, 14). La teologia di Mancuso non è affatto da accademia, per pochi iniziati. Il suo libro, al contrario, distrugge il pregiudizio che la teologia sia questione astrusa, per ciò stesso riservata a una cerchia di iniziati, sospetti di astruseria, fumisteria, esoterismo, presunzione. Parliamo di quei teologi che costruiscono sul nulla, a partire da cose inconoscibili, immense cattedrali di pensieri che si arrampicano gli uni sugli altri fino ad altezze inarrivabili, oltre le quali essi stessi, presi dalla vertigine, cercano la salvezza si rifugiano nel mistero. Al contrario, se c´è una materia che dev´essere aperta a tutti, secondo coscienza, questa è la teologia.
Nella "vita buona" di Mancuso, il primato è della coscienza; nella "vita buona" della Chiesa il primato è dell´ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell´accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus. La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull´obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. "Dentro" vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti "di onesto sentire", secondo l´insegnamento di G. E. Lessing, l´Autore di Nathan il saggio, al quale Mancuso di frequente ricorre.
Ora, si tratta del passo ulteriore: la "teologia sistematica", cioè la rilettura d´insieme del messaggio cristiano alla stregua di queste premesse. Dimostrare che una tale rilettura sia possibile è la sfida che Mancuso, con questo libro, dichiara di accettare.
Repubblica 9.9.11
Il "Cuore di cane" proibito dal regime sovietico
di Valerio Magrelli
Domani in uscita con "Repubblica" il romanzo satirico del grande autore russo introdotto da Adriano Sofri
Nel 1930, le critiche al governo scatenano una violenta campagna contro lo scrittore
Una telefonata e un telegramma marchiano a fuoco la vita di Michail Bulgakov, nato nel 1891 a Kiev da una famiglia dell´intelligencija: il padre era professore di teologia. Laureatosi in medicina, il giovane esercitò per pochi, terribili anni, durante la guerra civile. Solo dal 1920 poté dedicarsi alla letteratura. Stabilitosi a Mosca, trascorse un periodo felice, che culminò nel successo della pièce I giorni dei Turbin (1926). In quei mesi, ha spiegato Boris Gasparov, compose alcuni racconti «combinando fantastico, utopia tecnocratica e critica sociale, in un genere assai popolare a quell´epoca». Si trattava di Diavoleide (dedicato agli assurdi guasti della macchina burocratica), Le uova fatali (dove un geniale scienziato crea mostri spaventosi, da vero apprendista stregone) e Cuore di cane. Proprio le critiche al regime bolscevico espresse in questo testo, scateneranno una violenta campagna contro Bulgakov. Già nel 1930 tutte le sue opere saranno proibite. Disperato, chiese che gli si offrisse la possibilità di lavorare o lo si lasciasse partire. Dalla profonda depressione, lo salvò la miracolosa "apparizione" telefonica di Stalin, che gli confessò la sua ammirazione, nominandolo aiutoregista al Teatro d´Arte. Magra consolazione: Bulgakov non potrà pubblicare nulla fino alla morte, consacrando gli ultimi dodici anni al suo capolavoro, Il Maestro e Margherita. Nel dicembre del 1939 sembrò aprirsi una via d´uscita, con una pièce, Batum, sulla vita di Stalin. Il pubblico reagì con entusiasmo, e l´autore fu invitato nella città di Batum. Lungo il tragitto, però, un misterioso telegramma annullò tutto: il tiranno era apparso di nuovo, ma questa volta come forza ostile. Era la fine. Bulgakov morì nel marzo del 1940. In Cuore di cane troviamo un brillante e inquietante esempio della sua scrittura. Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1967, il racconto narra di un celebre professore di medicina che decide di trapiantare nel cane Pallino i testicoli e l´ipofisi di un uomo morto. Dopo l´operazione, la bestiola inizia a camminare su due zampe, perde i peli e gli artigli, parla, ma purtoppo eredita il carattere del donatore, un simpatizzante del partito comunista, di professione suonatore di balalajka, accoltellato in una bettola moscovita. Non sveliamo il finale. Al lettore il piacere di scoprire fatti e misfatti di questo irresistibile mascalzone, una via di mezzo tra il Frankenstein di Mary Shelley e il Boudu salvato dalle acque di Jean Renoir. Cuore di cane, insomma, dimostra la grandezza di un artista che seppe immergere la grande tradizione fantastica e grottesca di Gogol´, Puskin e certo Dostoevskij, nel buio panorama della censura sovietica.
Repubblica Roma 9.9.11
Sapienza, tra i quiz spunta il quesito sulla grattachecca
Al test per la laurea in professioni sanitarie. Frati: "Giusto disorientare, è un lavoro fatto di rapidità"
Lo sconcerto dei ragazzi su internet: "Assurdo Questa non è cultura generale"
di Viola Giannoli
«Nei pressi del noto liceo Tacito di Roma si trova la "grattachecca di Sora Maria", molto nota tra i giovani romani. Sapresti indicare con quali gusti viene realizzata? Menta, limone, amarena oppure cioccolato?». A trovarsi davanti alla curiosa domanda sono stati, tra disorientamento e stupore, gli studenti iscritti al test d´ingresso del corso di laurea in Professioni sanitarie della Sapienza, che si è svolto ieri mattina nelle aule della clinica pediatrica del policlinico Umberto I.
Tra quesiti sulla fotosintesi, quiz sulla composizione del carbonio e immancabili prove sulle opere di Leopardi, era nascosto il test sulla "formula" della grattachecca perfetta, quella della Sora Maria appunto, in zona Trionfale, tra le più frequentate nella capitale, con eterne file estive di ragazzi e famiglie. Un successo del gusto che però poco si accorda con le conoscenze tradizionali e la preparazione canonica delle aspiranti matricole. E che ha scatenato un tam tam su blog e social network. Su Facebook, in poche ore è nato un carteggio con centinaia di commenti, alcuni divertiti, altri ironici, altri inviperiti. «È assurdo che mettano una domanda del genere in un test di medicina! Non è cultura generale. Non posso essere giudicato in base alla mia conoscenza dei paninari e grattacheccari di Roma!» ha scritto qualcuno. E subito dopo: «Concordo con te, l´ho pensato anch´io che è un´ingiustizia. Pensa che non so manco cos´è "Sora Maria"». E ancora: «Ma poi quali erano i gusti tipici?». Risponde un romano: «Era limone!».
A preparare il quiz sono stati però numerosi docenti della stessa facoltà riuniti in commissione che hanno passato l´estate a leggere gli inserti dei principali quotidiani. Tra le altre domande di cultura generale spuntavano infatti Dan Brown, Vasco Rossi, Bill Clinton, la Gioconda e Peter Pan.
«Disorientare fa bene - si difende il rettore della Sapienza Luigi Frati - Un infermiere o un medico devono saper prendere decisioni rapide anche davanti a situazioni impreviste o sconosciute». E i fuori sede? Chi è arrivato in treno giusto per il test da Bari o da Milano come può conoscere la romanissima Sora Maria? «Il chiosco al Trionfale era solo un pretesto - precisa Frati - Gli studenti dovevano capire con quali ingredienti è fatta la grattachecca, così come devono sapere come è fatta una supposta».
Repubblica 9.9.11
Facebook raddoppia i ricavi a 1,6 miliardi di dollari
Nel primo semestre utile di 500 milioni grazie all´impennata della pubblicità online
di Arturo Zampaglione
NEW YORK - In vista del collocamento azionario e dello sbarco a Wall Street, previsto per il 2012, Facebook, il sito globale di social network fondato da Mark Zuckerberg, ha fatto sapere di aver raddoppiato i suoi introiti nei primi sei mesi di quest´anno e ha nominato nel suo board Erskine Bowles, ex-capo di gabinetto di Bill Clinton e personaggio di spicco del mondo politico e finanziario. Grazie all´impennata del business pubblicitario on- line, trainato da società e marchi che hanno scoperto nel sito di Zuckerberg un prezioso strumento di interazione con i consumatori, Facebook ha incassato da gennaio a giugno 1,6 miliardi di dollari, rispetto agli 800 milioni dello stesso periodo del 2010 (e secondo il Wall Street Journal, l´utile netto sarebbe vicino ai 500 milioni). Il dato, che non è ufficiale, perché l´azienda non è tenuta a pubblicare cifre prima dell´avvio delle procedure per la quotazione, è particolarmente importante per gli investitori. Dimostra infatti la capacità del gruppo di far leva sui 750 milioni di utenti, secondo le rilevazioni di luglio, per aumentare gli introiti, offrire nuovi prodotti (come quelli legati ai giuochi) e macinare utili. Del resto Facebook trasporta già un terzo delle pubblicità online negli Stati Uniti.
Intanto le valutazioni economiche di Facebook continuano a salire a dispetto delle turbolenze nei mercati mondiali e dei rischi di una ricaduta nella recessione. Un anno fa le stime sul valore della società si aggiravano sui 50 miliardi di dollari, adesso sono sugli 80 milioni, cioè il 60 per cento in più della capitalizzazione di Borsa di un gruppo come l´Eni. Viste comunque le peculiarità di Facebook, creato solo nel 2004 e guidato da un chief executive che ha appena 27 anni, il cammino verso Wall Street presenta non poche incognite. Zuckerberg ha cercato prima l´aiuto della Goldman Sachs, che ha già piazzato privatamente alcuni pacchetti di azioni tra i suoi clienti, conquistando così la pole position per la quotazione, e poi ha allargato il cda a sette membri, facendo entrare a giugno Reed Hastings, capo di Netflix, e ora Bowles. I due vanno ad aggiungersi allo stesso Zuckeberg, a Donald Graham del Washington Post e a tre celebri venture capitalists (Marc Andreessen, Jim Breyer e Peter Thiel). «Erskine ha ricoperto incarichi importanti nel governo, nel mondo universitario e in quello degli affari, imparando come ci costruiscono maxi-organizzazioni e come si affrontano problemi complessi», ha spiegato Zuckerberg annunciando la nomina del nuovo consigliere. In effetti Bowles ha un curriculum vitae di tutto rispetto e non a caso è considerato il più probabile successore di Tim Geithner al ministero del Tesoro.
Un 32enne a Roma ha colpito la madre alla testa con una bilancia. Poi ha chiamato la polizia
Il ragazzo era sotto effetto di psicofarmaci. I vicini: «Incredibile, è sempre stato tranquillo»
«Era diventata il Diavolo Per questo l’ho uccisa»
Un’allucinazione poi il «buio». A Roma, nel quartiere Aurelio, dopo una lite iniziata all’alba, un giovane affetto da problemi psichici ha ucciso la madre dopo averla inseguita in camera da letto e poi in bagno.
di Pino Bartoli
«Era il diavolo». Con questa delirante giustificazione, a seguito di una lite furiosa, ha colpito violentemente al capo la propria madre lasciando il corpo senza vita nel bagno di casa. La follia ha preso il sopravvento su Alessandro D., romano di 32 anni, affetto da problemi psichici. Nonostante gli effetti degli psicofarmaci, ha perso il controllo e ucciso la madre picchiandola ripetutamente con una bilancia. La vittima, una pensionata di 69 anni, ha chiamato fino all’ultimo aiuto senza alcun possibilità di scampo. I vicini di casa, allertati dalle urla provenienti dall’appartamento, hanno chiamato il 113. Quando ormai lo stesso matricida aveva avvertito la polizia, dopo aver telefonato anche ad un amico per tentare di spiegargli quanto era avvenuto. Gli agenti, raggiunti l’abitazione, hanno trovato il corpo della donna senza vita. La discussione, terribile nel suo svolgimento, era già cominciato all’alba di ieri mattina. Solo dopo alcune ore, all’incirca alle 8 del mattino, il giovane ha perso definitivamente il controllo scatenando tutta la propria furia sulla madre. In quegli istanti i due erano soli in casa, dal momento che il padre era lontano dalle mura di casa. L’omicidio è avvenuto nel seminterrato di una palazzina di quattro piani in via Sisto IV, nel quartiere Aurelio.
«L’ho vista trasformarsi in un diavolo ha raccontato il giovane e l’ho uccisa». Alessandro, che segue cure specifiche per il suo problemi psichici, ha dapprima aggredito malmenando la madre. In seguito, dopo averla raggiunta in bagno, l’ha colpita con forza alla testa con una bilancia fino ad ucciderla. «È una tragedia ha commentato lo sconvolto zio di Alessandro non so come sia potuto succedere, nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato». Sotto choc tutti i parenti. In primis il padre di famiglia, che durante l’episodio di ieri mattina si trovava nella casa di campagna della famiglia in provincia di Rieti. L’uomo, tranviere in pensione, è molto conosciuto nel quartiere per la sua praticità nella risoluzione dei piccoli lavori manuali di casa. «Gente tranquilla e riservata» spiega la gente della zona. Sorpreso il vicinato che descrive Alessandro come un ragazzo per bene: «Lui è stato sempre molto gentile, salutava tutti, ogni tanto lo vedevamo con degli amici, pare che lavorasse come odontotecnico. Non crediamo avesse problemi di denaro».
Concitata la testimonianza di una vicina di casa che ha definito «insolito» il litigio tra madre e figlio. «Ho sentito litigare Alessandro e la madre fin dall’alba, erano le 6.45 circa ha raccontato la signora in genere è una famiglia tranquilla e silenziosa». Solo al ritorno ha appreso dalla televisione quanto era avvenuto. L’opinione del quartiere e dei conoscenti di Alessandro è unanime: «È sempre stato un ragazzo tranquillo, l’ho visto fino a ieri ha spiegato una sua amica nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe potuta succedere una cosa del genere».
In realtà Alessandro era stato ricoverato in diverse occasioni nel corso delle ultime settimane. L’ultimo ricovero, in particolare, era avvenuto proprio perchè il 32 enne, in preda alle allucinazioni, vedeva la madre trasformarsi in diavolo. «Dopo il ricovero nell'ultimo periodo stava meglio ha detto disperato il padre del ragazzo agli agenti lavorava regolarmente e in questi giorni era andato a lavoro, dove faceva l'impiegato ai beni culturali». Da due giorni non riusciva più a dormire. Nella mattinata di ieri la tragedia. L’uomo, raccontano gli inquirenti, avrebbe colpito con tale forza la testa della madre da procurarsi una slogatura ad una spalla.
La Stampa 9.9.11
Critiche dal Consiglio d’Europa per il linguaggio usato verso rom e sinti
La politica italiana bocciata in razzismo
di Vladimiro Zagrebelsky
Chi aprisse in questi giorni la pagina web del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, sarebbe subito colpito dal primo grande titolo, che dice: «L’Italia deve proteggere meglio i diritti dei rom e dei migranti». Esso è accompagnato da una fotografia, che riproduce un manifesto, divenuto ben noto, largamente affisso sui muri di Milano durante la recente campagna elettorale per l’elezione del sindaco. Vi si legge: «Milano Zingaropoli con Pisapia» e nel testo si stigmatizza anche il progetto di costruzione di una moschea. Dunque l’Italia, la cui immagine già per altro verso non brilla ora in Europa, è nuovamente e negativamente esposta all’attenzione. E’ possibile che in Italia a pochi interessi cosa dice il Consiglio d’Europa e che le questioni legate ai diritti fondamentali siano da molti trattate con sufficienza e fastidio. Ma così non è nell’Europa di cui l’Italia è parte. E tout se tient quanto ad immagine e a opinione che gli altri hanno della sua credibilità e affidabilità.
Il documento reso noto dal Commissario ai diritti umani contiene le sue valutazioni dopo una visita in Italia nello scorso maggio.
Esso riguarda vari aspetti della situazione dei rom e dei sinti e della condizione degli immigrati nel difficile periodo legato al conflitto in Libia.
Tra le tante di cui il governo e la società civile italiana dovranno tener conto, merita attenzione quella cui si riferisce il titolo di apertura del sito del Commissario: la qualità del discorso politico e la frequenza di un tono razzista con riferimento ai rom e sinti (ma anche ai musulmani).
Sperimentiamo ogni giorno la volgarità del lessico (e dei gesti) di tanti politici. Essa caratterizza non solo le loro chiacchiere al telefono con amici e amiche (un aspetto da non trascurare di ciò che emerge dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ordinate dalla magistratura), ma anche i loro discorsi pubblici. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Ma non di questo si occupa il Commissario ai diritti umani. Egli è preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici, hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, con il pericolo che essi stimolino e legittimino atteggiamenti razzisti e discriminatori. Il rapporto del Commissario cita una dichiarazione del ministro dell’Interno Maroni, riportata l’anno scorso dal Corriere della Sera nel periodo in cui la Francia espelleva i rom di nazionalità bulgara e romena. Il ministro esprimeva disappunto poiché molti rom e sinti sono cittadini italiani «e quindi non ci si può far niente». E’ solo un esempio, ma noi sappiamo quanto frequente e spesso anche aggressivo sia il linguaggio denigratorio. Qui è la posizione ufficiale e autorevole del ministro che viene in considerazione e quanto la frase sottintenda su ciò che bisognerebbe fare, se solo fosse possibile. E sul disvalore, che non è nemmeno il caso di dire, delle persone cui si riferisce. La loro dignità (che è un diritto fondamentale, proclamato dal primo articolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) è offesa ed è coltivato il terreno propizio a politiche discriminatorie e di esclusione sociale.
In un mondo che vede gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle persone, potrebbe sembrare eccessiva l’attenzione del Commissario al linguaggio. Ma così non è. Intanto il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa non è isolato in questa sua denunzia. La stessa preoccupazione e condanna sono già state espresse dal Comitato della Convenzione europea per la protezione delle minoranze e dal Comitato della Carta sociale europea. E poi, chi non vede che il disprezzo che cola, esplicito o implicito, dal linguaggio scelto per esprimersi lascia il segno, offende e discrimina, suggerisce che si tratta di estranei, di gente di poco o nullo valore, che non merita la considerazione che meritiamo «noi»? Razzismo dunque, tanto più condannabile e pericoloso quando si coglie nel discorso politico che in una democrazia dovrebbe essere degno e rispettoso.
La Stampa 9.9.11
Asserragliati nel fortino dei privilegi
di Massimo Gramellini
Quando Berlusconi annunciò l’imminente dimezzamento dei parlamentari, due cose furono subito chiare a tutti gli italiani. Che moriva dalla voglia di farlo, se non altro per dimezzare le spese, visto che li mantiene quasi tutti lui. E che non ci sarebbe riuscito, perché nessuno ha mai visto la forfora votare a favore dello shampoo.
Ricordate? Per addolcire il bicarbonato della Manovra, a fine agosto il governo pensò bene di regalarci una caramella al miele. La promessa di un disegno di legge costituzionale che avrebbe dimezzato i parlamentari e cancellato le province. La Casta più obesa del mondo si sarebbe messa in cura dimagrante. Un segnale per i contribuenti: mentre voi stringete la cinghia, noi ci rimettiamo almeno la camicia dentro i pantaloni.
Qualche giorno dopo il segretario del partito del premier scartò la caramella al miele e la distribuì sull’autorevole palco della Berghemfest (sembra uno stopper del Bayern, ma immagino voglia dire Festa di Bergamo): ai primi di settembre, garantì, presenteremo un disegno di legge costituzionale per dimezzare il numero dei parlamentari e abolire le province.
Il disegno di legge costituzionale è stato presentato ieri e prevede soltanto l’abolizione delle province. Il dimezzamento dei parlamentari è stato inghiottito da un buco nero. Chi lo avrebbe mai detto? Stupiti quanto voi, ci siamo messi sulle tracce dello scomparso, interpellandone il padre putativo: Calderoli. L’illustre giurista ci ha tranquillizzati: il dimezzamento non è nel disegno di legge perché era già stato varato dal consiglio dei ministri del 22 luglio scorso. E allora come mai Berlusconi e Alfano, oltre un mese dopo, lo promettevano ai cittadini? Uno promette quel che deve ancora fare, non quel che ha appena fatto. L’ipotesi che il consiglio del 22 luglio avesse approvato il dimezzamento dei parlamentari all’insaputa del premier è stata presa seriamente in considerazione, ma non ha retto alla prova dei fatti. Che sono questi. Il dimezzamento è stato votato dal governo «salvo intese», una formula furbetta che consente di spacciare la riforma come già avvenuta, mentre nella realtà deve ancora passare per le forche caudine di una trattativa con i singoli ministri.
Per farla breve: la proposta di dimezzare gli onorevoli e i senatori non è stata inserita nel disegno di legge di ieri perché si trova già altrove, ma quell’altrove è un provvedimento che giace sepolto in un cassetto di Palazzo Chigi e non è mai stato trasmesso ai due rami del Parlamento. Per farla brevissima: ci hanno preso in giro un’altra volta. La seconda in due giorni, dopo la farsa dello sconto sui tagli alle indennità degli onorevoli muniti di doppio lavoro (e doppia pensione) festosamente promessi dal governo non più tardi di due settimane fa.
Neanche a dire che non si rendano conto di essere detestati. Lo sanno benissimo, tanto che ormai si vergognano di dichiarare in pubblico il mestiere che fanno. Semplicemente se ne infischiano delle reazioni. Asserragliati nel fortino dei loro privilegi, mentre intorno tutto crolla. Senza nemmeno salvare le apparenze e prendere qualche precauzione, come quella di placare la furia dei cittadini compiendo un sacrificio personale. Adesso pensano di cavarsela con la sola abolizione delle province, facendo pagare a un grado più basso della Casta il prezzo della loro eterna intangibilità.
Una classe dirigente si può disfare in tanti modi. Persino con uno scatto finale di orgoglio. La nostra invece - fra ruberie sistematiche, intercettazioni grottesche, barzellette sulle suore stuprate e raccolte di firme bipartisan per la conservazione delle feste dei santi Ambrogio e Gennaro ha compiuto la scelta più consona alla propria mediocrità, decidendo di dissolversi in una bolla infinita di squallore.
il Fatto 9.9.11
Palestina Addio speranze gli Usa dicono no all’autoproclamazione
di Roberta Zunini
Che Barack Obama e il Parlamento statunitense - a maggioranza repubblicana - fossero contrari all’iniziativa del presidente palestinese, Abu Mazen, di chiedere il riconoscimento della Cisgiordania (e di Gaza) come Stato membro delle Nazioni Unite, lo si sapeva. Ma da ieri ne siamo certi. Nonostante i tentativi di dissuasione da parte degli Stati Uniti e del Quartetto, e la netta opposizione di Israele, il Comitato esecutivo dell’Olp ieri si è riunito assieme ai capi di tutte le componenti palestinesi a Ramallah con il presidente dell’Anp, ribadendo la decisione di chiedere per la Palestina lo status di “194° membro delle Nazioni Unite”, limitata dai confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale, il prossimo 20 settembre all’assemblea generale delle. Una scelta, descritta da un dirigente dell’Olp, Azzam al-Ahmed, come “definitiva e irreversibile”. Nella convinzione, ha scritto al termine della riunione il segretario generale dell’Olp, Yasser Abdel Rabbo, che “arrivare a questo obiettivo favorirà il rilancio di un processo di pace serio e di nuovi negoziati, con lo scopo dichiarato di una soluzione con due Stati disegnati sulle frontiere del 1967”, cioè prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza. Un’occupazione avvenuta durante la Guerra dei Sei Giorni di 44 anni fa e diventata permanente grazie all’escamotage dell’ampliamento costante delle colonie ebraiche in Cisgiordania.
DUE EMISSARI statunitensi - l'inviato del Dipartimento di Stato, David Hale, e l’ambasciatore Dennis Ross - oltre all’inviato del Quartetto, l’ex premier inglese Tony Blair avevano provato fino a due giorni fa a convincere Abu Mazen a desistere, minacciando anche sanzioni contro i palestinesi. Ma il presidente dell’Anp non ha cambiato idea e ha sottolineato, che è disposto a rinunciare alla presentazione della richiesta solo se gli israeliani riapriranno i colloqui diretti, fermo restando il prericonoscimento da parte israeliana delle frontiere del ‘67 con Gerusalemme Est come capitale palestinese.
Dopo aver annunciato di aver incontrato in segreto sia il capo di Stato israeliano, Shimon Peres, sia il ministro della difesa, Ehud Barak, ai quali ha assicurato la volontà di tenere aperto il dialogo, Abu Mazen ha fatto sapere che in assenza di uno stop nella colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, la leadership palestinese si appellerà all’Onu. Se davanti all’assemblea generale non dovesse aver successo, come probabile, nessuno potrà più far finta di nulla e continuare a posticipare all’infinito la questione dello Stato palestinese. Se invece avesse successo, il pieno status di Stato membro non verrebbe comunque conferito subito perché ci sarebbe ancora bisogno del voto del Consiglio di sicurezza, sul quale Washington farà valere il suo diritto di veto. Gli Usa però vorrebbero evitare di esibire al mondo la loro contrarietà, poiché non sarebbero più credibili come mediatori cardine del processo di pace. Rischierebbero di inimicarsi le nomenclature dei pochi Paesi dell’area che ancora gli sono amici: in primis Arabia Saudita e Giordania. Egitto e Turchia ormai non lo sono più.
il Fatto 9.9.11
Mussolini al soldo degli inglesi e i misteri del delitto Matteotti
Un libro svela il controllo di Londra sul nostro Paese
di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella
Ogni volta che gli italiani hanno provato a decidere del proprio destino, gli inglesi sono intervenuti. Ora i documenti desecretati, che i due autori del libro “Il golpe inglese” hanno consultato negli archivi londinesi di Kew Gardens, lo dimostrano. Da quelle carte emerge che non è Washington a ordire piani eversivi per l’Italia, ma soprattutto Londra. Pubblichiamo uno stralcio del capitolo “E Churchill ordinò: ‘Insabbiare il delitto Matteotti’”.
La prima tessera è proprio l’ambigua figura di Dumini, l’uomo della Ceka che ha guidato il commando dei rapitori e degli assassini di Matteotti. Massone iscritto alla Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù con il terzo grado, quello di Maestro, vanta con il regime rapporti stretti almeno quanto quelli che intrattiene con il mondo anglosassone. [...]. Qualche tempo dopo il delitto (Matteotti, ndr), nel 1933 – racconta Peter Tompkins, l’uomo dell’Oss (ovvero l’Office of Strategic Services, il servizio segreto Usa in tempo di guerra, poi ribattezzato Cia) in Italia –, Dumini, forse sentendosi abbandonato dal regime, scrive un memoriale e lo invia a due legali di estrema fiducia, uno in America e l’altro in Inghilterra, con l’invito a renderlo pubblico nel caso in cui venga assassinato. Ma non gli succede nulla. Anzi, viene inserito nei ranghi dei servizi italiani e inviato in Libia. Scoppiata la no a Derna, nel 1941, lo arrestano e lo fucilano. Viene solo ferito, però, e riesce a scappare dopo essersi finto morto. [...]
NEL 1943 Dumini segue Mussolini a Salò, dove continua a svolgere il suo ruolo di agente segreto per conto dell’intelligence della Repubblica sociale e con ogni probabilità anche di Londra. Arrestato nuovamente dagli inglesi nel 1945, a guerra conclusa, due anni dopo viene processato e condannato all’ergastolo per il delitto Matteotti. Ma la pena è prima ridotta a trent’anni e poi, grazie a una serie di indulti, praticamente annullata. [...]
Quando gli inglesi conquistano Derna, in Libia, la prima cosa che fanno gli uomini dell’intelligence è raggiungere l’abitazione di Dumini. La ragione di tanta fretta è che gli agenti di Sua Maestà cercano qualcosa che per loro è di enorme importanza. Infatti, dietro una finta parete, il tenente Duff e i suoi uomini del Naval Service trovano l’archivio segreto del sicario di Matteotti. Materiale scottante, con molte lettere di Mussolini e altri documenti su quel delitto assai pericolosi per il duce. Ma solo per lui? Dumini, con le sue carte, viene subito trasferito al Cairo, dove valuta con i servizi britannici quale possa essere il modo migliore di gestire la faccenda. Le sue controparti sono il colonnello George Pollock (Special Operations) e l’agente Rex Leeper. Molto probabilmente Dumini si assicura l’incolumità offrendo il suo archivio all’intelligence in cambio della protezione inglese. [...] Qualche mese dopo, ai primi di novembre, le autorità militari britanniche al Cairo, assieme all’ambasciatore in Egitto Sir Miles Lampson, propongono un piano al Foreign Office (il ministero degli Esteri britannico): redigere un falso certificato di morte dell’agente italiano, la cui “fucilazione” sarebbe avvenuta il 7 aprile 1941. Si punta a ottenere due risultati. Da un lato, la sua scomparsa allontanerà ogni sospetto sui suoi rapporti con l’intelligence britannica, che anzi potrà continuare a servire anche negli anni successivi. Dall’altro, sapendo che il sicario di Matteotti ha inviato un memoriale a due legali in America e in Inghilterra, pregandoli di renderlo pubblico in caso di morte, la diplomazia britannica è certa che la notizia del suo decesso indurrà gli avvocati a diffondere quel documento, con effetti propagandistici devastanti per l’immagine del duce. Londra approva il piano il 13 novembre 1941. Ma l’ambasciatore in Egitto e il Foreign Office, che probabilmente non sono informati su tutti i retroscena dell’affaire Dumini, non hanno messo in conto la reazione di Churchill. [...]
PERCHÉ CHURCHILL ha tanta paura di quello che potrebbe saltar fuori dalle carte sul delitto Matteotti? [...] Ad angosciare il premier ci sarebbe innanzitutto il rischio che venga alla luce che Dumini fosse al servizio dell’intelligence britannica già dal 1919-1924, cioè nel periodo che va dall’ascesa al potere di Mussolini fino al delitto Matteotti. [...] Intanto, in quello stesso periodo, anche il duce intrattiene rapporti con i servizi segreti di Londra. Nel gennaio del 1918, subito dopo la disfatta italiana a Caporetto, il diplomatico inglese Samuel Hoare apre a Roma una sede dell’MI5 (Military Intelligence, Sezione 5, ovvero l’agenzia britannica per la sicurezza e il controspionaggio). [...] Nella fase finale della prima guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di stampa a favore di Gran Bretagna e Francia. E tra costoro c’è anche Benito Mussolini, ex esponente di punta del Partito socialista, che percepisce 100 sterline alla settimana da Sir Hoare. Churchill evidentemente sa che il duce è un uomo degli inglesi. Di più: è un suo ammiratore e intrattiene con lui intensi rapporti epistolari. Ne favorirà l’ascesa al potere per contenere non solo il pericolo social-comunista in Italia, ma anche quello bolscevico in Europa. [...] L’assassinio di Matteotti, proprio alla vigilia del suo importante discorso alla Camera, quello in cui avrebbe denunciato le tangenti legate alla convenzione con la Sinclair, risolve ogni problema. A Mussolini. Alla britannica Apoc. E a Churchill che, attraverso le carte di De Bono e quelle di Dumini, può continuare a tenere in pugno il duce. Gli americani sono messi da parte, Mussolini non cade perché Matteotti non riesce a pronunciare la denuncia in parlamento, e gli interessi inglesi sono salvi. Churchill insomma sceglie il male minore, pur di salvare il duce da una catastrofe annunciata.
il Fatto Saturno 9.9.11
Revisionare i revisionisti
Le mani rosse sulla storia
A dispetto delle letture di parte, la ricerca di Gilda Zazzara sfata il mito della egemonia culturale marxista
di Raffaele Liucci
IL TITOLO, purtroppo, ha la vivacità di un dolmen e non promette nulla di intrigante (La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo). E tuttavia, questo libro di Gilda Zazzara, edito da Laterza, è uno dei lavori più originali sfornati negli ultimi mesi. Racconta l’affascinante nascita della Storia contemporanea in Italia come disciplina autonoma. Siamo negli anni Cinquanta, e un’agguerrita pattuglia di giovani ricercatori, allora quasi tutti bordeggianti a sinistra (da Ernesto Ragionieri a Rosario Villari e Renzo De Felice), si mette a studiare la «storia del proprio tempo». Non è un compito agevole. Innanzitutto, il passato più recente è assai spinoso (il fascismo non era certo stato quell’innocua «parentesi» immaginata da Benedetto Croce). Poi, occorre combattere contro un pregiudizio assai diffuso fra i colleghi più paludati: «la distanza temporale come prerequisito irrinunciabile dell’opera storiografica». Infine, il clima da guerra fredda che si respira anche nel nostro paese non favorisce la serenità degli studi. Insomma, una bella sfida.
Secondo alcuni giornali (dal “Corriere”, per la penna di Paolo Mieli, a “Libero”), questo libro - firmato da un’insospettabile studiosa di sinistra - finalmente documenterebbe le «mani rosse» calate sulla storiografia italiana nel secondo dopoguerra. Ma forse la questione è più sfaccettata. Come spiegare, altrimenti, che nel 1960 a vincere le prime tre cattedre di Storia contemporanea furono un repubblicano (Giovanni Spadolini), un cattolico (Gabriele De Rosa) e un socialdemocratico anticomunista (Aldo Garosci)? Non proprio una squadra di cosacchi assatanati, smaniosi di portare i loro destrieri ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro. In realtà, gli storici di sinistra faticarono non poco ad infrangere una sotterranea conventio ad excludendum. Non a caso molti di loro, prima di entrare nei ruoli universitari, lavorarono in istituti extra-accademici, come la Fondazione Gramsci, la Biblioteca Feltrinelli e l’Istituto Nazionale di storia del movimento di Liberazione. Che furono centri operosi e influenti, ma non certo gli snodi di quella fantomatica Spectre vermiglia ancor oggi dipinta dall’opinione moderata.
Attenzione, però. Quell’epoca ormai remota non fu affatto l’età dell’oro. Il marxismo italiano significò anche settarismo, manicheismo, sovietismo. «Una stagione arida», come la ricorderà Furio Diaz, docente alla Normale, uscito dal Pci dopo l’invasione dell’Ungheria nel ’56. Forse l’unico limite di questo libro sta nell’ingenuità di fondo con cui viene affrontato l’intreccio fra ricerca e politica, come se essere degli storici militanti garantisca una marcia in più. Spesso non fu così. Però il problema della storiografia «faziosa» non riguardò soltanto gli storici comunisti, ma anche quelli socialisti, cattolici e liberali. Tutti studiarono, in prevalenza, le vicende della propria area politica di riferimento. E si capisce che non è sempre facile essere i migliori giudici di se stessi.
Cosa resta di quegli anni pionieristici? Riviste, dibattiti, libri ormai rintracciabili soltanto in biblioteca. Oggi uno studente faticherebbe a orientarsi fra quelle pagine troppo vissute. Eppure, non bisogna dimenticare, come ha scritto Giovanni Scirocco, che «quella generazione di storici militanti è stata una generazione di grandissimi storici, di cui ai nostri giorni non si vedono gli eredi (come in molti altri campi della cultura)». Ormai la storiografia è diventata sinonimo di «specializzazione estrema, affascinante ma fredda», incapace di padroneggiare le ampie scansioni cronologiche. Scirocco è stato allievo di Gaetano Arfé : insigne storico socialista, quando quell’aggettivo significava ancora qualcosa, nonché autore di una celebre Storia dell’“Avanti!”. Un tempo, quel quotidiano (fondato nel 1896) rappresentò il cuore pulsante dell’Italia onesta e lavoratrice. Tanto che uno dei suoi primi abbonati fu Benedetto Croce. Poi arrivarono Craxi, De Michelis e altri pregiudicati. Buon ultimo, Valter Lavitola.
Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, pagg. 195, • 20,00
il Fatto 9.9.11
Deboli e forti
Cari filosofi, non idolatrate la scienza
IlmatchestivotraFerraris,VattimoeSeverino sul“nuovorealismo”nascondetroppeconcessioni alloscientismo.Ildubbioèessenzialeperlaconoscenza
di Nicla Vassallo
IL COSIDDETTO “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente “pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”, “oggettività”, “nichilismo”, “post–moderno”, “senso comune”, “valori”, e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a proposito.
Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che consente di sposare (per esempio) la neuro–filosofia, senza saper quasi nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora, a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo. Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo, consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla, misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a tutte le imprese conoscitive.
Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che spaccia teorie scientifiche (pure pseudo–scientifiche, con pseudo–scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a proposito dei pseudo–filosofi) per verità incontrovertibili dalle giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze, progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele, nell’aspirare alla conoscenza. Saggiamolo noi stessi con un “esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la democrazia, insieme all’autorevolezza – a ognuno il proprio lavoro, con coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques Derrida “il n’y a pas de hors–texte”, sempre che si disponga delle competenze.
Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza. Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione scientifica inclusa, risulti “theory–laden”.
Corriere della Sera 9.9.11
A vent’anni dalla morte di Pareyson
Il filosofo e l’idea di ripensare il male
di Armando Torno
qui
http://www.scribd.com/doc/64349537
ai Giardini di San Servolo, ex ricovero per matti, isola del silenzio
il Fatto 9.9.11
Rai Cinema da matti
Dirigenti, vip e spiedini per il party sull’isola di San Servolo, sede dell’ex manicomio
di Carlo Tecce
Giardini di San Servolo, ex ricovero per matti, isola del silenzio. Qui Rai Cinema indossa eleganza e stile veneziano per festeggiare Quando la notte di Cristina Comencini, già ripassato in padella con fischi spontanei e applausi tattici. Aperitivo di robiola fresca, sformato di riso, salame cotto, prodotti tipici del Piemonte con tanto di marchio pubblicitario. Luci soffuse, quasi drammatiche, candele profumate. Ascoltate il vento che spinge le banchine contro la riva, il rumore doloroso del ferro, le paranoie di attori disoccupati, e un brivido di mondanità vi assale: “Caro, sarà una serata indimenticabile”. Momento di autentica leggerezza.
LA RAI CERCA RIFUGIO lontana dal Lido e dai tappeti. Poi un urlo rompe l'incatesimo: “Tutti a magnà. Nnamo de là, che ve devo spignè?”. Sono quei mattacchioni di Viale Mazzini. Paolo Del Brocco, numero 1 di Rai Cinema, intuito il richiamo di guerra, liquida le attrici che omaggiano il potere. Fa un gesto di sublime autorità ruotando il polsino sinistro e pensare che Carlotta Natoli correva sfilandosi la giacca per mostrare la casacca nera col pizzo. Semplicemente, Del Brocco aveva fame.
È l'astuto dirigente, lui. L'amministratore delegato di Rai Cinema, ex direttore generale, che comprò per un milione di euro i diritti in esclusiva di Goodbye Mama di Michelle Bonev prima del montaggio, ma di più: prima di girare l'ultima scena. Del Brocco maneggia affari: “Paga la Regione Piemonte”, ripete per l'intera serata organizzata dal produttore Cattleya, Rai Cinema con 01 Distribution. L'ad ha ingegno e talento, senza offendere una bionda, concede a Lorena Bianchetti il tavolo d'onore, addobbato con Adriano Coni, presidente di 01 Distribution e mezzo Cda di Rai Cinema, inclusa Angiola Filipponio Tatarella, il secondo cognome vale una biografia. La Bianchetti oscura persino Claudia Pandolfi , la protagonista incazzata. Non è più la ragazza compunta che introduceva la parola di Dio nelle case italiane, affabile conduttrice di A sua immagine. Non è più la maestrina che bacchettava il Mago Silvan perché osava citare il suo illustre omonimo, Silvio Berlusconi, in tema di cilindri e conigli. Nota: non conigliette. Adesso la Bianchetti è conduttrice, autrice, attrice, giurata al Festival del Cinema. Sfrutta la fila che porta ai paccheri con l'aragosta per praticare il mestiere: “Tu hai fatto un film d’azione – dice a un ragazzo – Peccato perché il mio premio è una vita per il cinema”. Corona consegnata a Cristina Capotondi, ennesima statuetta che crea confusione più che splendore. Come la targa del ministero per le Pari opportunità ai “valori sociali”, a San Servolo degnamente anticipata da una bionda funzionaria del ministro Mara Carfagna. Il re dei nostri è sempre Del Brocco, costretto in trincea: appena muove un passo, c'è ressa per una preghiera o una benedizione. Vince il nervosismo con sforzo immane, la selva di questuanti gli impedisce di raggiungere i camerieri e strappare un piatto di polipetti all'insalata e brasato in umido. Un attore o un avventore, comparso dal nulla, blocca l'ad di Rai Cinema mentre allunga le mani per uno spiedino di calamari fritti: “Dottore, carissimo, lei deve vedere. La fotografia è l'arte per eccellenza. Uno scatto ruba l'essenza, lo spirito, l'anima”. Del Brocco è stremato, annuisce: “Domani faremo qualcosa”, e vede fuggire un vassoio di pesce. Quando due ragazzi recitano un siparietto, “Non sopporti le scarpe? Queste devi tenerle anche per l'anno prossimo. Cammina scalza”, Del Brocco, rassegnato, torna al suo posto. E Coni fa il galante con le donne: “Noi facciamo Venezia, Torino, Sanremo...”.
BELLA LA VITA, brutto il brindisi. Quei calici rasenti il suolo, tenuti male da 250 eletti al rango supremo, i fortunati con l'invito “strettamente personale” che trasportava il salotto dal Casinò a San Servolo con barche private. La squadra speciale di Rai Cinema, trenta dirigenti che ruotano in dieci giorni , batte in ritirata con il dolce meringato ancora in bocca. Non c'è ribalta per un Festival vissuto in seconda fila. Hanno sofferto persino i graduati di Viale Mazzini, capitanati dal presidente Paolo Garimberti (due notti), sistemati a turno all'Excelsior dove un caffè costa 5 euro: 20 mila euro per ospitare a giorni alterni il Cda in tre stanze, per ora rappresentato da Massimo Gorla e Antonio Verro (Pdl), Giorgio Van Straten (Pd) e Rodolfo De Laurentiis (Udc), comparse senza motivo. Scolata una bottiglia di champagne, Rai Cinema al completo scappa via col primo battello. Il finale è incomprensibile, per nulla emozionante come la saga Bonev. Aeroporto di Venezia, ore 9 e 30, annuncio disperato: “Il signor Del Brocco è atteso all'imbarco con urgenza”. Forse è ancora in coda per l'antipasto.
Repubblica 9.9.11
Agile e intelligente ecco il vero antenato dell´homo sapiens
di Elena Dusi
Pollice opponibile e cervello già dotato di lobo frontale, anche se ancora piccolo
La nuova specie è l´anello mancante, un ibrido perfetto tra uomo e primate
In Sudafrica ritrovati e studiati con tecniche innovative i resti di un´intera famiglia di cinque individui Secondo i ricercatori l´Australopithecus sediba, vissuto 2 milioni di anni fa, è l’ominide più vicino a noi
Precipitando in quella grotta dalla quale non sarebbero più usciti, quasi due milioni di anni fa, sono finiti anche nella rete degli antropologi moderni. Li hanno ritrovati lì, in un anfratto naturale a Malapa, in Sudafrica: 5 individui uno accanto all´altro, con gli scheletri quasi perfettamente integri. «Una miniera d´oro, il ritrovamento che ogni ricercatore sogna nella vita» dice Giorgio Manzi, che insegna paleoantropologia alla Sapienza di Roma.
Era il 2008 quando il piccolo Matthew, 9 anni, figlio del ricercatore Lee Berger dell´università sudafricana di Witwatersrand, indicò al padre un osso che spuntava dal terreno. Da allora, grazie a quei resti, la storia dei nostri antenati è stata riscritta, tanto da far titolare alla rivista Science di oggi: "È lui l´antenato del genere Homo". Alla specie scoperta a Malapa sono dedicate la copertina e cinque studi.
Per analizzare il più antico dei nostri antenati diretti sono state usate le tecniche più moderne. Uno scanner a luce di sincrotone capace di una risoluzione di 19 micron (millesimi di millimetro) che si trova a Grenoble ha ricostruito la forma interna del cranio senza bisogno di spaccarlo. Il decadimento dell´uranio e la cronologia delle inversioni del campo magnetico hanno permesso di collocare la sfortunata famiglia di Malapa 1,977 milioni di anni fa, con un´incertezza di soli 3mila anni. Mai resti così antichi erano stati datati con tanta precisione.
Alla nuova specie è stato dato il nome di Australopithecus sediba (sediba in lingua sotho vuol dire "sorgente"). Nessuno più di lei merita la definizione di "anello mancante" fra i generi Australopithecus e Homo. «Se non avessimo ritrovato gli scheletri così composti - dice infatti Bernard Zipfel dell´università di Witwatersrand a Johannesburg - avremmo detto che le ossa appartenevano a due specie diverse».
Sediba è un perfetto ibrido fra uomo e primate. Ha le braccia lunghe e muscolose di una scimmia perché all´occorrenza si arrampicava sugli alberi e non raggiungeva il metro e mezzo di altezza. Ma era perfettamente in grado di camminare in posizione eretta, sfruttando le mani per manipolare oggetti. Dita agili e pollice opponibile sono caratteristiche di chi è in grado di effettuare movimenti di precisione e costruire manufatti. Il cervello è grande come un pompelmo: solo un terzo rispetto a noi. Ma la sua struttura è uguale a quella attuale e dietro agli occhi si è già iniziata a formare quella parte del lobo frontale che - molti anni più tardi - avrebbe dato vita al linguaggio, ai neuroni specchio responsabili dell´empatia e quindi di molti processi di socializzazione e al ragionamento astratto. E che, secondo Manzi, già a quell´epoca «rappresenta l´indizio di una capacità raffinata di manipolare gli oggetti, confermata dal pollice opponibile».
L´ominide-mosaico, l´ibrido perfetto fra Homo e Australopithecus, è stato battezzato con il nome di quest´ultimo genere, quello cui apparteneva anche Lucy. «Ma viste le sue caratteristiche, potrebbe benissimo essere una primordiale varietà di Homo» spiega il paleoantropologo della Sapienza. Fra i nostri antenati diretti, Sediba sarebbe dunque il più antico. «Tracce poco chiare di manufatti risalenti a più di 2 milioni di anni fa esistono anche in Africa orientale, ma con pochi e discussi resti scheletrici». E per trovare le prime mani adatte alla lavorazione della pietra bisogna arrivare fino a 1,7 milioni di anni fa, epoca in cui visse l´Homo habilis, considerato fino a ieri il nostro antenato più antico.
Dei 5 individui scoperti a Malapa, 40 chilometri a nord di Johannesburg, finora sono stati studiati (e solo in parte) solo una donna tra i 20 e i 30 anni e un bambino intorno ai 10. Alla ricerca dei connotati embrionali dell´umanità, i circa 80 scienziati in tutto il mondo impegnati nelle analisi dei resti si sono concentrati su testa, mani, caviglie e bacino. Su quest´ultimo si raccolgono le perplessità. Le sue proporzioni infatti sono simili a uomini e donne moderni, ma finora si era creduto che l´allargamento delle ossa pelviche fosse un frutto dell´evoluzione per permettere di venire al mondo a bambini con un cranio di grandi dimensioni. Sediba al contrario aveva un cervello piccolo come un primate. Ma già pronto a lanciarsi lungo quella china che lo avrebbe reso sempre più esteso e sempre più Sapiens.
Repubblica 9.9.11
Per una nuova teologia
Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell´Obbedienza
Un libro che farà discutere, dove lo studioso sostiene la libertà del credente verso i dogmi
Dice l´autore: "Credo a una dimensione dell´essere, capace di produrre energia vitale più preziosa"
Il passo decisivo è il rifiuto di un Dio che comanda, giudica, condanna esercitando un potere esterno
di Gustavo Zagrebelsky
Su questo libro non mancheranno discussioni e polemiche. Che sia ignorato è impossibile, se non altro perché esprime intelligenza e sensibilità che è di molti nel mondo cattolico, più di quanti si palesino. Le sue tesi si sviluppano dall´interno del messaggio cristiano, della "buona novella". Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera "dentro"; ma l´ortodossia lo colloca "fuori". Tutto si svolge con rispetto, ma l´accusa mossa al discorso ch´egli va svolgendo da tempo è radicale. La sua sarebbe, negli esiti, una teologia confortevole e consolatoria, segno di tempi permissivi, relativisti e ostili alle durezze della verità cristiana; nelle premesse, sarebbe la riproposizione di un, nella storia del cristianesimo, mai sopito spirito gnostico. Uno "gnostico à la page"?
Il motivo conduttore del libro Io e Dio (Garzanti) è il primato della coscienza e dell´autenticità sulla gerarchia e sulla tradizione, nei discorsi sul "divino". Siamo nel campo della "teologia fondamentale", cioè dell´atteggiamento verso a ciò che chiamiamo Dio e delle "vie" e dei mezzi per conoscerlo: in breve, delle ragioni a priori della fede religiosa. Ma, la teologia fondamentale è la base di ogni altra teologia. La teologia morale, in particolare, riguarda l´agire giusto, ovunque la presenza di Dio possa essere rilevante: la politica, l´economia, la cultura, il tempo libero, l´amore e la sessualità, la scienza... La teologia aspira alla totalità della vita. Si comprende così la portata del rovesciamento, dall´autorità che vincola alla coscienza che libera. Quella di Mancuso vuole essere, tanto nel conoscere quanto nell´agire, una teologia liberante, non opprimente. Le sue categorie non sono il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Sullo sfondo, non c´è il terrore dell´inferno ma la chiamata alla vita buona.
Il passo decisivo è forse il rigetto dell´idea di un dio come "persona": un Dio che comanda, giudica, condanna, cioè esercita un potere esterno, assoluto e irresistibile. Il sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di sgozzare il figlio, vittima sacrificale; Abramo non obbietta; Dio all´ultimo ferma il coltello) è di solito presentato come esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l´immagine d´un dio spietato (la mano omicida, comunque, viene trattenuta in tempo), sia per la disumanità d´un padre capace di tanto delitto. Quel padre, però, è immagine della perfetta fedeltà al "divino", lodata nei secoli da una tradizione in cui fede e violenza si danno facilmente la mano. Quando poi sulla parola di Dio (il "Dio lo vuole") si crea il potere d´una chiesa, la violenza sulle coscienze è sempre di nuovo possibile da parte di "uomini di Dio". La perfezione cristiana per Ignazio di Loyola – se vedo bianco e la Chiesa dice nero, è nero – nasce da una concezione del divino che, invece di ravvivare, spegne.
«Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch´io sono dio per me stesso? Per nulla. «Credendo in Dio, io non credo all´esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell´essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l´attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l´esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Credere in Dio, allora, non è lo "status del credente"; non è dire: "Signore, Signore" a un deus ex machina che ci salva dai pericoli – qui Mancuso è Bonhöffer –. È agire per colmare lo scarto tra il mondo, così com´è, e la sua perfezione, alla cui realizzazione la fede chiama i credenti. Con un´espressione di Teilhard de Chardin, credere è amouriser le monde. È un modo di ridire le parole di Gesù che chiama i suoi discepoli a essere "sale della terra" Si può essere sale sacrificando la libertà? Al più, si può essere soldati di Cristo.
Questa teologia è insieme gioiosa e tragica: gioiosa perché indica, come senso della vita, il bene – sintesi di giustizia, verità e bellezza –; tragica, perché è consapevole dell´enormità del compito. Dice Mancuso: «Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come "ottimismo drammatico´": vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all´interno di un processo da cui non è assente il negativo e l´assurdo». È questa un´accomodante e confortevole giustificazione delle coscienze, l´autorizzazione alla creazione di "dei di comodo"? Per nulla. Al contrario, è un appello al rigore morale come risposta onesta, autentica, al senso del divino che sta nell´essere umano. Ma qui viene la seconda accusa: gnosticismo.
La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell´orgoglio di chi si considera "illuminato" da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d´orgoglio luciferino. Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s´insiste sull´intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest´unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire.
Dal rigetto del dualismo materia-spirito, deriva il rifiuto d´una fede di élite ,contrapposta alla fede di massa. Certo, se il turismo religioso del nostro tempo si scambia per manifestazione di fede, si può pensare che la seria introspezione di coscienza che chiama al vero, bello e giusto sia cosa per pochi. Questa tensione è il carattere della moltitudine degli "uomini di onesto sentire" (gli ánthropoi eudokías dell´angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù, in Lc 2, 14). La teologia di Mancuso non è affatto da accademia, per pochi iniziati. Il suo libro, al contrario, distrugge il pregiudizio che la teologia sia questione astrusa, per ciò stesso riservata a una cerchia di iniziati, sospetti di astruseria, fumisteria, esoterismo, presunzione. Parliamo di quei teologi che costruiscono sul nulla, a partire da cose inconoscibili, immense cattedrali di pensieri che si arrampicano gli uni sugli altri fino ad altezze inarrivabili, oltre le quali essi stessi, presi dalla vertigine, cercano la salvezza si rifugiano nel mistero. Al contrario, se c´è una materia che dev´essere aperta a tutti, secondo coscienza, questa è la teologia.
Nella "vita buona" di Mancuso, il primato è della coscienza; nella "vita buona" della Chiesa il primato è dell´ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell´accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus. La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull´obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. "Dentro" vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti "di onesto sentire", secondo l´insegnamento di G. E. Lessing, l´Autore di Nathan il saggio, al quale Mancuso di frequente ricorre.
Ora, si tratta del passo ulteriore: la "teologia sistematica", cioè la rilettura d´insieme del messaggio cristiano alla stregua di queste premesse. Dimostrare che una tale rilettura sia possibile è la sfida che Mancuso, con questo libro, dichiara di accettare.
Repubblica 9.9.11
Il "Cuore di cane" proibito dal regime sovietico
di Valerio Magrelli
Domani in uscita con "Repubblica" il romanzo satirico del grande autore russo introdotto da Adriano Sofri
Nel 1930, le critiche al governo scatenano una violenta campagna contro lo scrittore
Una telefonata e un telegramma marchiano a fuoco la vita di Michail Bulgakov, nato nel 1891 a Kiev da una famiglia dell´intelligencija: il padre era professore di teologia. Laureatosi in medicina, il giovane esercitò per pochi, terribili anni, durante la guerra civile. Solo dal 1920 poté dedicarsi alla letteratura. Stabilitosi a Mosca, trascorse un periodo felice, che culminò nel successo della pièce I giorni dei Turbin (1926). In quei mesi, ha spiegato Boris Gasparov, compose alcuni racconti «combinando fantastico, utopia tecnocratica e critica sociale, in un genere assai popolare a quell´epoca». Si trattava di Diavoleide (dedicato agli assurdi guasti della macchina burocratica), Le uova fatali (dove un geniale scienziato crea mostri spaventosi, da vero apprendista stregone) e Cuore di cane. Proprio le critiche al regime bolscevico espresse in questo testo, scateneranno una violenta campagna contro Bulgakov. Già nel 1930 tutte le sue opere saranno proibite. Disperato, chiese che gli si offrisse la possibilità di lavorare o lo si lasciasse partire. Dalla profonda depressione, lo salvò la miracolosa "apparizione" telefonica di Stalin, che gli confessò la sua ammirazione, nominandolo aiutoregista al Teatro d´Arte. Magra consolazione: Bulgakov non potrà pubblicare nulla fino alla morte, consacrando gli ultimi dodici anni al suo capolavoro, Il Maestro e Margherita. Nel dicembre del 1939 sembrò aprirsi una via d´uscita, con una pièce, Batum, sulla vita di Stalin. Il pubblico reagì con entusiasmo, e l´autore fu invitato nella città di Batum. Lungo il tragitto, però, un misterioso telegramma annullò tutto: il tiranno era apparso di nuovo, ma questa volta come forza ostile. Era la fine. Bulgakov morì nel marzo del 1940. In Cuore di cane troviamo un brillante e inquietante esempio della sua scrittura. Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1967, il racconto narra di un celebre professore di medicina che decide di trapiantare nel cane Pallino i testicoli e l´ipofisi di un uomo morto. Dopo l´operazione, la bestiola inizia a camminare su due zampe, perde i peli e gli artigli, parla, ma purtoppo eredita il carattere del donatore, un simpatizzante del partito comunista, di professione suonatore di balalajka, accoltellato in una bettola moscovita. Non sveliamo il finale. Al lettore il piacere di scoprire fatti e misfatti di questo irresistibile mascalzone, una via di mezzo tra il Frankenstein di Mary Shelley e il Boudu salvato dalle acque di Jean Renoir. Cuore di cane, insomma, dimostra la grandezza di un artista che seppe immergere la grande tradizione fantastica e grottesca di Gogol´, Puskin e certo Dostoevskij, nel buio panorama della censura sovietica.
Repubblica Roma 9.9.11
Sapienza, tra i quiz spunta il quesito sulla grattachecca
Al test per la laurea in professioni sanitarie. Frati: "Giusto disorientare, è un lavoro fatto di rapidità"
Lo sconcerto dei ragazzi su internet: "Assurdo Questa non è cultura generale"
di Viola Giannoli
«Nei pressi del noto liceo Tacito di Roma si trova la "grattachecca di Sora Maria", molto nota tra i giovani romani. Sapresti indicare con quali gusti viene realizzata? Menta, limone, amarena oppure cioccolato?». A trovarsi davanti alla curiosa domanda sono stati, tra disorientamento e stupore, gli studenti iscritti al test d´ingresso del corso di laurea in Professioni sanitarie della Sapienza, che si è svolto ieri mattina nelle aule della clinica pediatrica del policlinico Umberto I.
Tra quesiti sulla fotosintesi, quiz sulla composizione del carbonio e immancabili prove sulle opere di Leopardi, era nascosto il test sulla "formula" della grattachecca perfetta, quella della Sora Maria appunto, in zona Trionfale, tra le più frequentate nella capitale, con eterne file estive di ragazzi e famiglie. Un successo del gusto che però poco si accorda con le conoscenze tradizionali e la preparazione canonica delle aspiranti matricole. E che ha scatenato un tam tam su blog e social network. Su Facebook, in poche ore è nato un carteggio con centinaia di commenti, alcuni divertiti, altri ironici, altri inviperiti. «È assurdo che mettano una domanda del genere in un test di medicina! Non è cultura generale. Non posso essere giudicato in base alla mia conoscenza dei paninari e grattacheccari di Roma!» ha scritto qualcuno. E subito dopo: «Concordo con te, l´ho pensato anch´io che è un´ingiustizia. Pensa che non so manco cos´è "Sora Maria"». E ancora: «Ma poi quali erano i gusti tipici?». Risponde un romano: «Era limone!».
A preparare il quiz sono stati però numerosi docenti della stessa facoltà riuniti in commissione che hanno passato l´estate a leggere gli inserti dei principali quotidiani. Tra le altre domande di cultura generale spuntavano infatti Dan Brown, Vasco Rossi, Bill Clinton, la Gioconda e Peter Pan.
«Disorientare fa bene - si difende il rettore della Sapienza Luigi Frati - Un infermiere o un medico devono saper prendere decisioni rapide anche davanti a situazioni impreviste o sconosciute». E i fuori sede? Chi è arrivato in treno giusto per il test da Bari o da Milano come può conoscere la romanissima Sora Maria? «Il chiosco al Trionfale era solo un pretesto - precisa Frati - Gli studenti dovevano capire con quali ingredienti è fatta la grattachecca, così come devono sapere come è fatta una supposta».
Repubblica 9.9.11
Facebook raddoppia i ricavi a 1,6 miliardi di dollari
Nel primo semestre utile di 500 milioni grazie all´impennata della pubblicità online
di Arturo Zampaglione
NEW YORK - In vista del collocamento azionario e dello sbarco a Wall Street, previsto per il 2012, Facebook, il sito globale di social network fondato da Mark Zuckerberg, ha fatto sapere di aver raddoppiato i suoi introiti nei primi sei mesi di quest´anno e ha nominato nel suo board Erskine Bowles, ex-capo di gabinetto di Bill Clinton e personaggio di spicco del mondo politico e finanziario. Grazie all´impennata del business pubblicitario on- line, trainato da società e marchi che hanno scoperto nel sito di Zuckerberg un prezioso strumento di interazione con i consumatori, Facebook ha incassato da gennaio a giugno 1,6 miliardi di dollari, rispetto agli 800 milioni dello stesso periodo del 2010 (e secondo il Wall Street Journal, l´utile netto sarebbe vicino ai 500 milioni). Il dato, che non è ufficiale, perché l´azienda non è tenuta a pubblicare cifre prima dell´avvio delle procedure per la quotazione, è particolarmente importante per gli investitori. Dimostra infatti la capacità del gruppo di far leva sui 750 milioni di utenti, secondo le rilevazioni di luglio, per aumentare gli introiti, offrire nuovi prodotti (come quelli legati ai giuochi) e macinare utili. Del resto Facebook trasporta già un terzo delle pubblicità online negli Stati Uniti.
Intanto le valutazioni economiche di Facebook continuano a salire a dispetto delle turbolenze nei mercati mondiali e dei rischi di una ricaduta nella recessione. Un anno fa le stime sul valore della società si aggiravano sui 50 miliardi di dollari, adesso sono sugli 80 milioni, cioè il 60 per cento in più della capitalizzazione di Borsa di un gruppo come l´Eni. Viste comunque le peculiarità di Facebook, creato solo nel 2004 e guidato da un chief executive che ha appena 27 anni, il cammino verso Wall Street presenta non poche incognite. Zuckerberg ha cercato prima l´aiuto della Goldman Sachs, che ha già piazzato privatamente alcuni pacchetti di azioni tra i suoi clienti, conquistando così la pole position per la quotazione, e poi ha allargato il cda a sette membri, facendo entrare a giugno Reed Hastings, capo di Netflix, e ora Bowles. I due vanno ad aggiungersi allo stesso Zuckeberg, a Donald Graham del Washington Post e a tre celebri venture capitalists (Marc Andreessen, Jim Breyer e Peter Thiel). «Erskine ha ricoperto incarichi importanti nel governo, nel mondo universitario e in quello degli affari, imparando come ci costruiscono maxi-organizzazioni e come si affrontano problemi complessi», ha spiegato Zuckerberg annunciando la nomina del nuovo consigliere. In effetti Bowles ha un curriculum vitae di tutto rispetto e non a caso è considerato il più probabile successore di Tim Geithner al ministero del Tesoro.