sabato 7 novembre 2015

Repubblica 7.11.15
Giorgio Agamben dedica il nuovo saggio alla maschera e ai suoi significati
La filosofia è un segreto di nome Pulcinella
di Melania Mazzucco


Negli ultimi anni della sua vita, il pittore Giandomenico Tiepolo, che aveva soggiornato nelle corti d’Europa (in Germania e in Spagna) insieme al padre Giambattista, si trasferì nella villa che questi gli aveva lasciato in eredità, nella terraferma veneziana: a Zianigo,
presso Mirano. Aveva decorato quella modesta villetta con la massima libertà – che un pittore del XVIII secolo poteva regalarsi solo dipingendo per se stesso. Aveva iniziato affrescando scene vagamente neoclassicheggianti di satiri e centauri, e quindi scene di vita contemporanea. Col Mondo Novo nel portego, la sala grande del pianterreno (1791), si offrì una meditazione sorridente e malinconica sul tempo tumultuoso che stava vivendo. La folla si accalca davanti al baraccone in cui un ciarlatano promette di mostrare le immagini del ‘mondo novo’; egli incombe su di loro, come il burattinaio sulle marionette. Tutti mostrano le spalle agli spettatori, ignari della nostra presenza (e della nostra ironia). Soltanto uno di essi ci guarda: un bambino che in quel mondo novo vivrà. Ma tre di loro, raffigurati di profilo, sembrano immuni dalle illusioni e dal rumore del mondo: un uomo anziano in cui si è sempre riconosciuto Giambattista Tiepolo, Giandomenico stesso, e Pulcinella. Il pittore manovra il suo occhialino: disorientato, ha bisogno di una lente, ma non rinuncia a capire. Infine (1793-97), Giandomenico affrescò le pareti della stanza di nord est – forse il suo studiolo – con una serie di scene aventi un solo protagonista: Pulcinella, che volle come unico compagno e alter ago dei suoi anni estremi. Fra il 1797 e la morte, avvenuta nel 1804, Giandomenico creò il Divertimento per li regazzi – un album di disegni in 104 fogli, un “incunabolo del fumetto”, interamente dedicato a Pulcinella. L’enigmatico napoletano di bianco vestito, dal cappello a cono mozzato e dal volto nero a becco di uccello, da quasi due secoli stregava gli spettatori, nobili, borghesi e plebei, di tutta Europa. Ma veniva da ancor più lontano, dalle atellane, dai drammi satireschi. Animato da una irresistibile energia vitale, disponibile a ogni avventura, citrullo per natura e strategia di sopravvivenza, refrattario a ogni autorità, dovere, morale, sempre bastonato e però invincibile, sostanzialmente immortale, il proteiforme Pulcinella era diventato la maschera più popolare del teatro all’italiana. Era comparso in numerose pitture. Lo stesso Tiepolo padre ne era stato ossessionato (disegnandolo per lo più come un gobbo, nano e mostruoso, mentre mangia, digerisce, orina ed evacua). Ma nessuno come Giandomenico ne fece il proprio riflesso spettrale. Che Pulcinella fosse per lui assai più di una comica maschera di Carnevale lo svela già il frontespizio del Divertimento, quasi blasfema citazione di quello della giovanile raccolta di incisioni
La Via Crucis: al sepolcro vuoto di Cristo e alle insegne della Passione, sostituisce il sepolcro vuoto di Pulcinella, e le sue insegne (la pentola, i maccheroni), contemplate da lui stesso. In questo povero Cristo senza miracoli, chino sull’assurdità della propria vita e di quella di tutti, si riconobbe: ne disegnò nascita, crescita, amori, avventure, erranze, lavori, gozzoviglie, morte – facendone lo specchio di ogni esistenza umana.
Alla straordinaria impresa artistica del Divertimento – poco conosciuta, perché sventuratamente smembrata fra troppe collezioni sparse in vari continenti – il filosofo Giorgio Agamben, tra i principali pensatori del nostro tempo, dedica la sua ultima opera: “ilare e scherzevole” ma solo apparentemente meno densa e “laboriosa” delle altre sue. Giacché, come fin dalla prima pagina ci ricorda, la commedia è filosofia: Platone teneva sotto il cuscino i mimi di Sofrone, e la commedia è più antica e profonda della tragedia. Nell’“oscurità dei tempi” in cui a entrambi è stato dato vivere – il pittore veneziano costretto ad assistere alla dissoluzione ingloriosa della Repubblica di Venezia, il filosofo italiano e cosmopolita a quella della nostra e dell’occidente – Pulcinella si rivela l’interlocutore più stimolante per una ricapitolazione, una “sobria meditazione sulla fine”. Non sarà futile notare che entrambi lo scelgono dopo aver valicato la soglia dei settanta anni.
Diviso in quattro scene scandite da corsivi ora autobiografici ora storicizzanti, e da frammenti di un’operetta morale (fulminanti dialoghi in napoletano fra Pulcinella e Tiepolo, ma in realtà fra Pulcinella e Agamben), accompagnato da alcuni disegni dell’album nonché da illustrazioni di altri quadri e ritratti (impaginate con finezza, in modo anti- didascalico, cosa di cui va reso merito anche alla casa editrice Nottetempo), costruito per brevi capitoli e divagazioni dotte che spaziano dall’antropologia al folclore, alla filosofia classica, alla linguistica, alla storia del teatro, dal dettaglio tecnico all’astrazione teoretica, il Divertimento delizierà i lettori abituali del filosofo Agamben, ma forse potrà avvicinargli anche qualcuno dei ‘regazzi’ che ha esitato davanti all’Homo sacer o Nudità. Regazzi si intenda in senso lato – come del resto intendeva Tiepolo: ché il suo album non era dedicato ai bambini, o ai fanciulli, ma agli spiriti liberi dalle costrizioni e dai conformismi. Il Divertimento di Agamben è insomma una lezione socratica sul significato di una maschera che è insieme singola e solitaria, e plurima come gli angeli e la plebe (una “masnada”, un popolo, una collezione di repliche). Né personaggio né carattere né tipo, Pulcinella è un’idea: «che qualcuno o qualcosa sia irreparabilmente com’è; questo è Pulcinella» (l’idea dell’irreparabile, apparentemente tragica, riflette Agamben, è invece in se stessa comica). Non sostantivo ma un avverbio: Pulcinella «non è un che ma soltanto un come »; non ha scelto di essere com’è, o di fare qualcosa, non ha volontà alcuna e le sue azioni, lungi dal mirare a un fine, sono insensate, lazzi senz’altro scopo che interrompere l’azione e vanificarla. Perfino il suo corpo, gallinaceo, ornitomorfo, non del tutto umano, cessa ogni rapporto col “logos”. Vivere la propria vita come Pulcinella può solo significare «per ogni uomo – afferrare la propria impossibilità di vivere ». Tuttavia Agamben ci consegna anche la risposta a una domanda che tutti ci siamo posti. Qual è, alla fine, il segreto di Pulcinella? Non, come l’uso comune del linguaggio induce a credere, la cosa che tutti sanno. Ma che «nella commedia della vita non vi è un segreto, ma solo, in ogni istante, una via d’uscita».
IL LIBRO Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi di Giorgio Agamben ( nottetempo, pagg. 144 euro 27) Sopra, Pulcinella innamorato di Giambattista Tiepolo
Corriere 7.11.15
Cambiare sesso? Si può anche senza chirurgo
di Carlo Rimini
Ordinario di diritto privato all’Università di Milano


La Corte Costituzionale ha definitivamente affermato che non è necessario un intervento chirurgico perché possa essere attribuito ad una persona un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita.
La rettificazione di sesso può essere quindi disposta dal tribunale anche se una persona non ha cambiato con un intervento i suoi «caratteri sessuali primari», che rimangono quelli propri del sesso opposto a quello acquisito. La Corte fissa però qualche limite che può aiutare a superare un certo disorientamento.
Per cercare di capire, partiamo dalle norme che si applicano alla rettificazione dell’attribuzione di sesso. La legge n. 164 del 1982 afferma che il sesso attribuito ad una persona al momento della nascita può essere cambiato solo se il tribunale accerta che sono intervenute «modificazioni dei suoi caratteri sessuali». È dunque necessaria una modificazione oggettiva degli elementi che, nell’esperienza comune, indicano a quale sesso appartiene una persona. Tuttavia, il d. legisl. n. 150 del 2011 ha introdotto una precisazione: «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare tramite trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza». Il fatto che il legislatore utilizzi la congiunzione “quando”, significa – secondo la Corte Costituzionale – che il giudice è libero di ritenere non necessario il trattamento chirurgico pur considerando modificati i caratteri sessuali di una persona. Dunque – conclude la Corte – il trattamento chirurgico «costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali». La sentenza rammenta che i supremi valori costituzionali impongono di rimettere al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che compongono l’identità di genere.
E quindi? È tutto possibile? Basta che un uomo dica di sentirsi una donna (e viceversa) per ottenere la rettificazione di sesso? Se è un «percorso di transizione» affidato al singolo, egli può poi percorrere a ritroso la strada che definisce la sua «identità di genere»? Può insomma cambiare idea? No. Questo è il limite posto dalla Corte costituzionale: è «ineludibile un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo».
Proviamo a tirare le fila del ragionamento: non è necessario un intervento chirurgico che incida sugli organi sessuali di una persona, ma il giudice deve comunque accertare una radicale, profonda, irreversibile, modificazione dei suoi caratteri sessuali. Viene da chiedersi se il giudice debba anche accertare che la persona ha definitivamente perso la capacità di procreare propria del sesso attribuito alla nascita. La Corte non risponde a questa domanda che apre prospettive piuttosto bizzarre.
La Stampa 7.11.15
“Tagliare le pensioni troppo alte è un tema da affrontare”
Il Nobel Deaton: “Ma serve equilibrio tra prestazioni ai giovani e quelle agli anziani La scarsa crescita dell’Italia? In gran parte colpa delle politiche di austerity”
intervista di Alessandro Barbera


Fino a un mese fa ai più non era noto. Non è un amante dei riflettori e non frequenta granché lo star system degli economisti. Al di là dei meriti accademici, i giurati del Nobel l’hanno scelto per aver rimesso al centro del dibattito mondiale il tema della disuguaglianza. Angus Deaton risponde alle domande de La Stampa dalla sua casa di Princeton. Si scusa per la tosse, dialoga con i dubbi dell’economista ma in realtà pensa ai problemi della politica: dice che rendere il mondo meno diseguale non sarebbe poi così difficile, il punto è che alla gente interessa poco, soprattutto negli Stati Uniti.
Professor Deaton, le immagini dei barconi stipati di migranti sulle coste del Mediterraneo somigliano a un viaggio nel tempo, all’epoca in cui suo padre viveva povero nello Yorkshire, e dall’Europa si partiva per cercare fortuna in America. Il mondo di oggi è più ingiusto?
«No. Molti nel corso della storia recente hanno realizzato quella che io chiamo la grande fuga dalla povertà, allo stesso tempo ci sono milioni di persone che vivono ancora in condizioni terribili. Ma sono convinto che il mondo sia più eguale di 50 anni fa».
Lei scrive che nei Paesi sviluppati le persone più ricche usano la propria influenza per spingere i politici a fare i loro interessi piuttosto che occuparsi dei meno abbienti. Siamo di fronte ad una crisi irreversibile delle democrazie?
«Non parlerei di crisi irreversibile, ma l’eccesso di diseguaglianza può essere una minaccia seria alla democrazia. La minaccia è più forte negli Stati Uniti, ma lo è anche in Europa».
Nel corso del Novecento la vera minaccia alla libertà è stata l’utopia dell’egualitarismo comunista. Non crede che se siamo diseguali in fondo siamo anche più liberi?
«Ma esiste anche la qualità della libertà, così come esistono forme di democrazia in cui contano solo alcune persone. Il libero mercato è molto importante, ma l’argomento per il quale sia di per sé moralmente giustificato non è corretto. È uno strumento potente per muovere le persone, per renderle più ricche, è l’auto che gli permette di fare una lunga strada verso il benessere, ma deve essere regolato».
L’economista Larry Summers è convinto che il mondo attraversa un’epoca di stagnazione globale. Angela Merkel dice spesso che l’Europa ha il 7 per cento della popolazione globale, produce un quarto della ricchezza, consuma metà della spesa per welfare. È una delle ragioni per cui l’America cresce più dell’Europa?
«E’ possibile che nel lungo termine una forte rete di regole e di sicurezza sociale possano rallentare la crescita. Non ne sono convinto, ma questa ipotesi va presa in considerazione. Ciò detto, non è la ragione che spiega ciò che sta accadendo. Oggi, in Italia e non solo, la scarsa crescita la si deve in gran parte alle scelte politiche di austerità successive alla grande recessione. Tornando al ragionamento di prima: troppa uguaglianza è un male, ma lo è anche l’eccesso di disuguaglianza. Occorre decidere quale sia l’equilibrio che vogliamo raggiungere. Le scelte della politica servono a questo».
Parte dei problemi dell’Europa però hanno a che fare con l’enorme montagna di debiti accumulati, anche a causa delle crisi bancarie del 2007-2008. La Grecia, ad esempio: lei crede inevitabile la soluzione di un taglio di quel debito?
«Non c’è alcun dubbio che i greci non saranno mai in grado di ripagarlo, perché è ad un livello del tutto insostenibile. Prima o poi dovrà essere tagliato».
A proposito di welfare e di equità: in questi giorni in Italia si dibatte molto la proposta del presidente Inps Tito Boeri, che chiede di ridurre l’assegno pensionistico a chi riceve trattamenti troppo generosi rispetto ai contributi versati. Lei è d’accordo?
«Temi del genere dovrebbero essere sempre in agenda ovunque, ma ogni caso fa storia a sé: tutto dipende dall’equilibrio fra le prestazioni concesse ai più giovani e ai più anziani».
Lei sostiene anche che la forbice sociale, le differenze fra ricchi e poveri oggi sono più pronunciate all’interno dei confini nazionali. A cosa attribuisce questo fenomeno?
«Le ragioni sono molte, ma in modo particolare lo si deve alla globalizzazione e all’innovazione tecnologica, che lasciano indietro le persone senza istruzione universitaria. Pesa il declino dei sindacati, un fenomeno che probabilmente ha reso gli Stati Uniti un Paese più efficiente, ma anche più disuguale. E pesa il fatto che il mondo è pieno di star internazionali dello sport, dello spettacolo, e d’impresa con redditi altissimi».
Propone di alzare le tasse a questi ultimi?
«Le soluzioni per rendere il mondo meno disuguale sono note e non sono nemmeno difficili da attuare. Il problema oggi è se esistono le condizioni politiche per farlo. Certamente negli Stati Uniti queste condizioni non ci sono, perché alla gente non interessa».
Leggo dal suo libro: «I miei colleghi pensano che le persone stanno meglio se hanno un po’ di soldi in più nelle tasche. Se poi alcuni ne hanno molti di più, altri ne ricevono meno o per nulla, ciò é sufficiente a rendere il mondo un posto migliore». C’è chi propone di rinunciare al Pil e di introdurre un indice del benessere. Che ne pensa?
«Non possiamo abbandonare il Pil, è un indicatore troppo importante. Un indice del benessere potrebbe dare un contributo a migliori valutazioni, ma introdurre uno standard non è semplice. Ciò che conta è avere chiaro il principio: al di là della ricchezza prodotta nella vita delle persone ci sono altre cose che non andrebbero trascurate, come ad esempio il loro stato di salute. Di questo gli economisti dovrebbero tenere conto».
Repubblica 7.11.15
Il virus dell’antipolitica e il rischio autoritario
di Marc Lazar

LA sottile analisi politica delle contraddizioni e delle difficoltà della democrazia italiana che Ilvo Diamanti ci ha offerto nel suo articolo “La controdemocrazia” pubblicato su La Repubblica del 3 novembre potrebbe servire per numerosi altri paesi europei, a cominciare dalla Francia, spesso presentata come un modello politico al quale l’Italia potrebbe ispirarsi.
Ma a che cosa assistiamo oggi sull’altro versante delle Alpi? La disaffezione nei confronti delle istituzioni, dei partiti politici e della classe politica non è mai stata così elevata. Un sondaggio condotto nell’aprile scorso ha messo in luce che soltanto il 9 per cento dei francesi ha fiducia nei partiti, il 26 per cento nei deputati, il 30 per cento nel Senato e il 31 nell’Assemblée Nationale. Per di più, il forte astensionismo e i voti per il Front National dimostrano in maniera eclatante, di votazione in votazione, il baratro che si va scavando tra ciò che in passato si chiamava il “paese reale” e il “paese legale”. Per le presidenziali che si svolgeranno nel 2017, la stragrande maggioranza dei francesi dichiara di non volere come presidente nessuno dei tre potenziali candidati più in vista, François Hollande, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen. I primi due perché ne hanno già fatto un’esperienza deludente e amara, e la dirigente del Front National perché ai loro occhi continua a mancare di credibilità per poter ricoprire la carica più alta. Tutto ciò equivale a dire che se si andasse alle urne oggi e se fossero loro tre i candidati, gli elettori farebbero una scelta di default. Si tratta di una situazione del tutto nuova nella storia delle elezioni per la presidenza con suffragio universale, la prima delle quali si svolse esattamente cinquant’anni fa. E si tratta di una situazione di rottura rispetto all’idea di fondo che ne ebbe il fondatore della Quinta repubblica, il generale de Gaulle nel 1958.
Il rifiuto nei confronti della classe politica — come, del resto, dell’insieme delle élite, siano esse economiche, sociali, culturali o mediatiche — ha effetti deleteri sul concetto stesso di democrazia. Di conseguenza, in un sondaggio condotto di recente, è stata rivolta agli intervistati una lunga domanda che vale la pena riportare nella sua interezza: “Alcuni pensano che la Francia debba riformarsi in profondità, ma che nessun uomo politico eletto col suffragio universale avrà mai il coraggio di varare tali riforme e che, in tale contesto, sarebbe dunque necessario affidare la direzione del Paese a esperti non eletti che portino a compimento riforme indispensabili per quanto impopolari». Il 67 per cento degli intervistati ha risposto in modo favorevole, più gli intervistati che votano a destra (l’80 per cento dei simpatizzanti dei “repubblicani”, il partito di Sarkozy, e il 76 per cento di chi si sente vicino a Marine Le Pen) che quanti votano a sinistra (anche se il 54 per cento dei simpatizzanti dei socialisti condivide pur sempre questa opinione).
Quando poi chi ha condotto il sondaggio al posto degli esperti ha evocato la possibilità di ricorrere a un «potere politico autoritario, pronto a sbarazzarsi dei meccanismi di controllo democratico esercitato sul governo», il 40 per cento dei francesi si è detto d’accordo, molto più gli intervistati di estrema destra che gli intervistati di destra e di sinistra. In entrambi i casi, ad accettare di buon grado queste soluzioni sono stati i francesi appartenenti a ceti popolari e con un basso livello di istruzione.
Ecco chiaramente, dunque, che al di là delle molteplici differenze che esistono tra Francia e Italia, i due Paesi sono alle prese con sfide democratiche identiche.
Questo punto di vista sulla Francia ha un merito ulteriore per l’Italia, quello di illustrare almeno due dati di fatto molto utili. Disporre di solide istituzioni che permettono al presidente Hollande di governare malgrado la sua impopolarità record e di un sistema elettorale maggioritario su due turni temibilmente efficace per le elezioni presidenziali e le politiche, non mette al riparo dalla crisi della rappresentanza politica. Questi due strumenti non sono equiparabili a vaccini per il virus dell’antipolitica, né costituiscono di per sé validi medicamenti. È dunque indispensabile — ecco la seconda lezione — ricostruire un rapporto di fiducia tra responsabili politici e popolazione. Tale rapporto presuppone partiti completamente rifondati, ripensati, rinnovati, come dice Ilvo Diamanti nel suo articolo, ma anche altri elementi, per esempio una classe politica competente e onesta. Oppure, ancora, leader capaci di indicare un destino, di proporre una visione, di rispondere alle esigenze contraddittorie che si vanno presentando in Francia, in Italia e ovunque in Europa, di una maggiore partecipazione politica, di trasparenza e di autorevolezza. In mancanza di tutto ciò, i cittadini richiederanno senza mezzi termini l’autoritarismo. Già adesso l’85 per cento dei francesi dice di “avvertire il bisogno di un capo che sappia mettere un po’ d’ordine”…
Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 7.11.15
Alla Corte dei conti gli scontrini di Renzi
di Luca Serranò e Massimo Vanni


FIRENZE Palazzo Vecchio consegna alla Corte dei conti le fatture e le ricevute fiscali sostenute in quasi cinque anni dal Matteo Renzi al tempo in cui era sindaco di Firenze. Lo fa a poche settimane dall’apertura di un fascicolo sul caso da parte della magistratura contabile. E il capogruppo di Sel Tommaso Grassi, che da mesi chiede la copia degli scontrini, arrivando perfino a minacciare l’occupazione di una sala del Comune, rimane all’asciutto.
«La procura della Corte dei conti ha aperto un fascicolo sulla questione e pertanto fino alla chiusura delle indagini tutto è coperto da riservatezza», scrive il direttore generale di Palazzo Vecchio in risposta alla richiesta del capogruppo di Sel. Nella sostanza, niente scontrini. All’asciutto però rimangono anche i 5 Stelle, che come Sel aveva presentato una formale richiesta di accesso agli atti.
E subito arrivano le reazioni. Lo stesso capogruppo di Sel lancia via Facebook un appuntamento per stamani in piazza Signoria «per raccontare perché non riusciamo ad avere gli scontrini? di Renzi». E aggiunge: «Pretendiamo trasparenza». Mentre i 5 Stelle annunciano mobilitazione per i prossimi giorni.
Del caso degli scontrini di Renzi sindaco se ne sta occupando direttamente il procuratore regionale della Corte dei Conti della Toscana Andrea Lupi. E la sua richiesta era arrivata a Palazzo Vecchio solo qualche settimana fa, a ruota della bufera sollevata dalle dichiarazioni di alcuni ristoratori fiorentini .
La magistratura contabile chiedeva di andare oltre la semplice elencazione delle spese del sindaco Renzi, così com’è oggi consultabile “on line” sul sito del Comune di Firenze, dove si parla soltanto di «colazioni istituzionali » e «incontri di rappresentanza istituzionale». Senza cioè specificare né il numero né il nome dei partecipanti, dal momento che «la legge non lo richiede ». E Palazzo Vecchio, oggi guidato dalla giunta di Dario Nardella, si è deciso a consegnare alla Corte dei conti tutti gli «enormi faldoni», contenenti centinaia e centinaia di documenti fiscali corredati dalle giustificative di spesa. Ovvero, chi e in quali occasioni. Il presidente del consiglio ha sempre dichiarato di non aver nulla da nascondere e che tutto può essere rapidamente chiarito.
La Stampa 7.11.15
“Faremo il ponte sullo stretto di Messina”
Matteo rovescia i “non si può” della sinistra
Dalla Tav all’Expo,lo strappo contro la minoranza del Pd e il fascino delle grandi opere
Il segretario-presidente e l’arma della modernità contro la vecchia sinistra
Ma l’obiettivo non è solo quello di far fare un altro salto al Pd: velocità, crescita e immagine internazionale sono essenziali
di Federico Geremicca


Il primo commento è stato di Pippo Civati: «Quello che non ha fatto Berlusconi, lo fa il Pd». Il secondo, di Paolo Ferrero, leader di quel che resta di Rifondazione comunista: «Parole vergognose». Ecco, se uno degli obiettivi per i quali Matteo Renzi ha ritirato fuori da cassetti polverosissimi il progetto-chimera del Ponte sullo Stretto era far infuriare la sinistra-sinistra (per tornare a marcarne la distanza e la diversità) bene: l’obiettivo è raggiunto.
Da stamattina, insomma, i «nemici a sinistra» di Matteo Renzi - e in testa a tutti i democratici delusi, che oggi fondano «Sinistra italiana» - hanno un altro argomento per caricare il premier-segretario a testa bassa: vuole il Ponte sullo Stretto. Una bestemmia, un alto tradimento, simile - se non più grave - ad altri sfregi compiuti da Renzi a danno di quella sorta di immutabile Pantheon ideal-programmatico della sinistra storica italiana.
Degli esempi? La fine dell’intoccabilità di sindacati e magistratura; il concetto di «merito» che prende il posto di quello di «uguaglianza»; e poi l’attacco all’articolo 18, l’abolizione della tassa sulla casa, il tetto dei contanti spendibili innalzato fino a 3mila euro e via elencando. Uno choc dietro l’altro per una sinistra che - per tanti versi - sembra avere ancora i piedi impantanati nel secolo scorso. E svolte, correzioni di rotta e perfino polemiche feroci e traumi che Matteo Renzi sembra quasi studiare e ricercare a tavolino...
L’obiettivo di una tale ricerca può essere doppio. Quello meno contundente potrebbe consistere nel tentativo (giusto o sbagliato lo diranno prima gli elettori e poi la storia...) di far fare un salto in avanti al Pd - ed alla sua sinistra, prima di tutto - sulla via di posizioni e programmi che siano meno segnati dall’ideologia e dalla tradizione. In questo senso, il riferimento quasi obbligato, naturalmente, è la «rivoluzione» che Tony Blair impose ad un Labour confuso, affaticato ed in declino.
Da questo punto di vista, bisogna dire che le innovazioni - di stile, di programma e perfino di linguaggio - che Renzi sta tentando di imporre al maggior partito-contenitore di quella che fu la sinistra storica italiana, sono profonde ed evidentissime: tanto profonde da poter essere considerate addirittura più dolorose e radicali di quelle (e non furono né poche né irrilevanti) che vennero imposte al vecchio Pci dal declino dell’ideologia comunista e dal crollo del muro di Berlino.
L’altro possibile obiettivo di Matteo Renzi, se perseguito fino in fondo, potrebbe - al contrario - produrre un vero e proprio terremoto politico (e le prime scosse già si avvertono forti e chiare): dimostrare l’impossibilità di una convivenza sotto lo stesso tetto dell’antico e del moderno, del tradizionale e del post-ideologico, dell’ala storica e di sinistra del Pd - insomma - e di quella renziana e moderata. E’ una ipotesi non da escludere e sostenuta, anzi, dall’apertura delle porte del Pd a gruppi e singoli del tutto estranei alla storia ed alle tradizioni del centrosinistra italiano: quasi la ricerca di una contaminazione per allargare l’orizzonte (e il consenso elettorale) del Partito democratico.
Ma c’è probabilmente dell’altro nella prudente apertura renziana al Ponte sullo Stretto («Si farà, il problema è quando...»). Si tratta di quella sorta di fascinazione che Renzi non fa mistero di subire - e di indicare come obiettivo - rispetto alle sorti magnifiche e progressive del nostro Paese: la crescita, lo sviluppo e perfino l’identificabilità dell’Italia da rappresentare e mostrare - appunto - attraverso le grandi opere. Sono certo importanti il Colosseo e Firenze, Pompei ed altri capolavori dell’arte e della storia per far grande l’Italia: ma non basta. Nell’idea del premier-segretario (40 anni: e l’anagrafe in questo caso non è indifferente) la sfida del futuro si gioca sulla velocità, sulla modernità e sulla crescita: che le grandi opere, appunto, possono sintetizzare al meglio.
Non ce ne è una - realizzata o da realizzare - che non venga sostenuta e spiegata dal premier in questa chiave. L’Expo (pure grande opera transitoria, per dir così) è stato trasformato in un modello, in un esempio delle «capacità italiane». E lo stesso discorso - nonostante denunce, proteste e scandali - vale per la Tav o per il Mose. Il lavoro di Renzo Piano a Genova è un altro esempio da seguire, perchè un Paese che cresce e che cambia può dimostrarlo - anzi, deve dimostrarlo, secondo il premier - anche attraverso la trasformazione del suo profilo architettonico e urbano.
Perché la Francia deve avere la torre Eiffel - simbolo potente ma opera inutile - e l’Italia non può avere il Ponte sullo Stretto, che in fondo servirebbe pure? Adesso, dice Renzi, il Sud ha altre emergenze: ma quando saranno superate «la storia, la tecnologia e l’ingegneria andranno nella direzione del Ponte, che diventerà un altro bellissimo simbolo dell’Italia». Il futuro insomma è scritto: e appartiene alle grandi opere. Alla faccia di quel che pensano quei gufi tristanzuoli della sinistra pd. E anzi della sinistra tutta, più in generale...
Corriere 7.11.15
La sinistra si ritrova ma è già divisa. Oggi la nuova iniziativa con i fuoriusciti del Pd e i vertici di Sel Landini sta a guardare. I dubbi di Civati
di Alessandro Trocino

ROMA Si riparte. Ma come nella migliore tradizione della sinistra italiana, si riparte divisi. E così, oggi, all’appuntamento al Quirino di Roma che lancerà un nuovo soggetto politico, la «Sinistra italiana», mancherà Pippo Civati, poco convinto dall’accelerazione. Ci saranno invece i fuoriusciti del Pd, recenti e non, a cominciare da Alfredo D’Attorre. E ci sarà lo stato maggiore di Sel, pronto a battezzare i nuovi gruppi parlamentari allargati. Nichi Vendola lancia l’appuntamento e sfida Renzi: «La sinistra che cambia è quella che propone una strada alternativa, praticabile e concreta, capace di trovare soluzioni ai grandi problemi del Paese: disuguaglianza, povertà, disoccupazione, mancanza di innovazione nel sistema d’impresa».
Il legame più forte di questo nuovo rassemblement è l’antirenzismo. Non va giù, per esempio, a D’Attorre, l’atteggiamento morbido di Pier Luigi Bersani, che è critico ma resta legato al Pd: «Stimo e sono grato a Bersani, ma dobbiamo guardare in faccia la realtà: la sinistra interna nel Pd di Renzi non è riuscita a toccare palla».
I malumori antirenziani nel Pd hanno portato a un piccolo esodo, che va a confluire ora nel gruppo di Sel (una trentina alla Camera e una decina al Senato, compresi alcuni ex M5s). Ma che si propone un progetto più ampio: «Finora — dice D’Attorre — gli orfani del Pd sembravano destinati alla frammentazione. Ora non è più così e parte un grande processo per una sinistra plurale, larga, popolare».
Per ora non lo è ancora, larga e popolare, ma presto ci dovrà essere una costituente che proverà a riunire quel resta della vecchia sinistra, rivitalizzandola. All’appello per una nuova Sinistra (ma non ai gruppi) hanno risposto, oltre a Sel, Possibile di Civati, Futuro a sinistra di Stefano Fassina, Prc di Paolo Ferrero e l’Altra Europa con Tsipras di Marco Revelli. Mancano all’appello Maurizio Landini, che ieri ha incontrato Luigi Zanda, il Partito comunista di Marco Rizzo e i Verdi di Angelo Bonelli.
Civati è scettico: «È sbagliato partire così. Sel ha aderito alle primarie del Pd e quindi appoggerà il suo candidato. Ma io e il resto della sinistra, no. Mi pare difficile fare un partito con due candidati sindaci. E poi hanno confuso il passaggio parlamentare con quello politico. Vediamo che succederà».
Insomma, per ora non ci siamo. La distanza è di approccio politico, oltre che di guerra per la leadership. D’Attorre ribadisce che l’ispirazione del nuovo soggetto dovrà essere «ulivista». E quindi, a sinistra del Pd, ma potenzialmente suo alleato. Dato che, per Civati, è anche in contraddizione con una partenza che in sostanza crea una «Sel allargata». Ribatte D’Attorre: «Vogliono dipingerci come il solito partitino radicale di sinistra, ma non è così. Vogliamo coprire uno spazio di centrosinistra ulivista, con un nuovo gruppo dirigente».
Al Quirino chiuderà Arturo Scotto, capogruppo Sel alla Camera. Prima ci sarà spazio per molti. Ci saranno il saluto inviato da Sergio Cofferati e dalla presidente della Camera Laura Boldrini. Un messaggio video dell’economista di sinistra Mariana Mazzucato e interventi di rappresentanti della società civile. Citatissimo Stefano Rodotà, che non potrà dare la sua benedizione, perché in Brasile per un ciclo di conferenze. Così come non dovrebbe esserci Corradino Mineo, dopo la dura polemica dei giorni scorsi. Ci sarà, invece, Claudio Fava, di rientro nel gruppo di Sel, dopo esserne uscito insieme a Gennaro Migliore. Non manca un appello di intellettuali per una nuova sinistra, firmato tra gli altri da Remo Bodei, Nadia Urbinati e Michele Prospero .
Corriere 7.11.15
Politico e filosofo, senatore e docente ha fondato i «Quaderni rossi»

Mario Tronti (Roma, 1931) filosofo e politico, è senatore del Pd (era già entrato a Palazzo Madama nel 1992 con il Pds) e presidente della Fondazione Centro per la riforma dello Stato. Considerato il padre dell’operaismo italiano, ha insegnato per trent’anni Filosofia politica all’Università di Siena. Militante del Partito Comunista durante gli anni Cinquanta, con Raniero Panzieri è stato tra i fondatori della rivista «Quaderni Rossi», da cui si separò nel 1963 per fondare e dirigere la rivista «Classe operaia». Operai e capitale , il suo libro del 1966 (Einaudi), ha profondamente influenzato la contestazione giovanile ed è stato inserito tra le 2.250 opere del Dizionario delle opere della Letteratura Italiana Einaudi .
Corriere 7.11.15
Così il Cristianesimo salverà la borghesia
Per Mario Tronti il capitalismo ha omologato la società: solo la religione può arginare la volgarizzazione della vita
di Ernesto Galli della Loggia


Se mezzo secolo fa, nel 1966, Operai e capitale fu sul piano ideologico il segnale d’inizio di una stagione di scontro sociale con al centro l’operaio-massa — una stagione in cui avvenne la più grande trasformazione sociale e politica attraversata dal nostro Paese — quest’ultimo libro di Mario Tronti ( Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero , Il Saggiatore) appare innanzi tutto il referto dell’esito di quello scontro: alla fine, tra gli operai e il capitale ha vinto il capitale (sebbene oggi in vesti assai diverse da quelle di ieri). O meglio, e per dirla con maggiore completezza, ha vinto quella che l’autore trascina sul banco degli accusati senza alcun tabù reverenziale: ha vinto la democrazia.
Con toni che suonano a metà tra Tocquevile (esplicitamente richiamato) e un radicalismo di sapore francofortese, Tronti descrive la democrazia come la tirannia del senso comune che concede la libertà di pensiero per meglio impedire un «pensiero di libertà», un regime nemico di ogni differenza perché in realtà animato dalla tendenza al più totale organicismo. Non a caso, dopo aver «fatto del popolo una borghesia, e non (come avrebbe dovuto) della borghesia un popolo, (...) essa è riuscita dove là dove è fallito il socialismo reale: ha creato l’uomo nuovo», il «borghese-massa». Non solo, ma paradossalmente, mentre il socialismo reale, che in teoria doveva produrne l’estinzione, ha provocato di fatto la crescita esponenziale dello Stato, è proprio la democrazia, invece, che attraverso la progressiva spoliticizzazione della società sta lentamente realizzando l’antico obiettivo del marxismo. Certo, Tronti pure riconosce che è meglio avere diritti che non averne. Ma chi l’ha detto, osserva, che non essere democratico voglia dire per forza essere antidemocratico?
Al nostro autore evidentemente non sembra interessare molto il problema, forse non proprio trascurabile, che solo la democrazia, però, si è dimostrata capace storicamente di assicurare i diritti ora detti. La storia, del resto, è la grande assente di questo libro, il cui procedere, invece, si svolge per intero entro il recinto chiuso di una dozzina di «grandi pensatori» (per lo più filosofi) e dei loro sistemi concettuali chiamati a testimoniare del fallimento del Moderno e del Progresso, e dunque del fallimento del Novecento, «il secolo in cui tutto finisce». Nel quale il trionfo della Zivilisation sulla Kultur («qui sta il fondo della nostra sconfitta», si legge) annuncia una «devastazione spirituale» senza pari.
La storia dicevo è la grande assente: nella crisi del politico e nella vittoria della vituperanda democrazia qui lamentate nulla sembrano contare, ad esempio, cose come — enumero le prime che mi vengono alla mente — la sconfitta dell’Europa nel 1945, la sua nessuna tradizione culturale di tipo realmente liberale, il ruolo del Welfare State , la qualità delle nuove élite postbelliche e della loro cultura, lontana ormai anni luce dagli alti orizzonti umanistici d’un tempo. Tutto in queste pagine, infatti, sembra ridursi a una sorta di arena metafisica in cui si affrontano in singolar tenzone il Movimento Operaio, il Moderno, il Politico, il Capitalismo e quant’altro, astratti da ogni loro specificità storica, cioè da ogni loro concreta e vivente realtà.
«Stiamo dentro una storia nemica» scrive Tronti, con un pessimismo culturale davvero molto novecentesco. Una conclusione che nella sua prospettiva si spiega, innanzitutto, con la sconfitta della Rivoluzione: a cominciare da quella del 1917, la rivoluzione per antonomasia, la cui presenza da sola, si dice, segnerebbe comunque positivamente il Novecento rispetto al nostro tempo.
È a questo proposito soprattutto che l’indifferenza per la storia, per la storia vera, rischia di divenire accecamento: che cosa s’intende per rivoluzione? In che senso quella russa lo fu? E quando e perché smise di esserlo o «fallì»? E per fare un esempio: i massacri di migliaia di ostaggi (non controrivoluzionari: ostaggi) ordinati da Lenin, o le camere di tortura della Ceka, erano la rivoluzione? O in che rapporto erano con essa? Sono domande e questioni che l’autore non si cura neppure di porsi, perduto com’egli è dietro una raffigurazione mitica del Movimento Operaio quale agente della Storia Universale. Agente che viene presunto tuttora all’opera (magari a dispetto dell’esistenza degli operai veri) e comunque senza prendere mai nella minima considerazione l’ipotesi che forse il suddetto Movimento, più che esistere in quanto tale, spesso sia consistito in qualcuno che credeva di parlare e agire in nome e per conto del medesimo. (Ma non a caso: infatti l’idea che il Novecento possa, anzi debba, essere necessariamente letto anche in chiave di rapporti massa/élite è un’idea che Tronti non si pone mai neppure come ipotesi).
Ci si chiederà a questo punto, perché mai occuparsi di un libro così pieno di contraddizioni. Perché si tratta a suo modo, io credo, di un libro che ha il valore di un sintomo. Il sintomo di un fuoco che cova sotto la cenere, di un’insofferenza che sta crescendo nelle società secolarizzate dell’Occidente per un modello di vita che, enfatizzando all’estremo tutti gli aspetti materiali dell’esistenza, facendo dell’economia e delle sue compatibilità un metro pressoché assoluto, relegando nell’insignificanza le grandi domande di senso, infligge quotidianamente ferite profonde a quella sostanza umana che ancora è la nostra. Ferite tanto più profonde in quanto non sembrano aver diritto ad alcuna adeguata rappresentazione pubblica. Certamente ha il forte valore di un sintomo la direzione verso cui Tronti spinge la sua ricerca di una possibile alternativa.
Verso la lotta, verso la speranza rivoluzionaria, com’è ovvio: in una parola verso la politica. Ma — e sta qui la parte a mio giudizio più nuova e interessante del libro — verso una politica che si dimostri capace di accettare come sua parte essenziale la spiritualità. La spiritualità oggi, infatti, si presenterebbe come l’unico argine possibile alla «crescente volgarizzazione della vita»; di più: essa costituirebbe la sostanza per eccellenza di un vero e proprio «linguaggio della crisi». Dove alla fine spiritualità significa null’altro che la religione, e per essere più chiari il Cristianesimo.
La contrapposizione tra l’orizzonte cristiano e il comunismo, si legge, «è stata una sciagura per la modernità: una differenza è stata trasformata in una incompatibilità»; e la colpa è stata del comunismo stesso, il quale invece di scegliere Feuerbach — come esso ha fatto seguendo Marx (il cui vero e massimo errore fu secondo Tronti quello di prevedere per l’appunto la fine della religione) — avrebbe piuttosto dovuto scegliere Kierkegaard. Sta di fatto che la libertà dal potere promessa dai liberali, leggiamo, non porterà mai alla libertà dello spirito, e dunque non sarà mai «vera libertà umana». Solo la libertà del cristiano è, sì, «libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, ma, nel Moderno, è libertà radicale, dirompente degli equilibri dati, sovversiva dell’ordine costituito, libertà liberante l’umanità fin qui oppressa».
Poco varrebbe obiettare che la «liberazione» cristiana o la metanoia predicata dal Vangelo sono di una sostanza fondamentalmente diversa dalle rotture richieste dal Comunismo. Ciò che importa agli occhi di Tronti è che Cristianesimo e Rivoluzione abbiano un’identica sostanza di «follia», com’egli scrive — a quella cristiana della morte di Dio per la resurrezione dell’uomo corrispondendo la «follia» dell’abbattimento del dominio per la liberazione umana. Due follie non integrabili dall’omologazione democratico-capitalistica, e che per questo si contrappongono radicalmente al «buon senso borghese progressista» a cui oggi si è ridotta la Sinistra.
Sarebbe facile concludere ironizzando sul comunismo che, cacciato dal mondo, si rifugia in sacrestia. Troppo facile, ma soprattutto sbagliato. Infatti — a parte le perduranti ingenuità della mitografia leninista, a parte tutte le ormai francamente insopportabili supponenze «rivoluzionarie» che le costellano — le pagine di Tronti esprimono al fondo, come ho già detto, qualcosa di profondamente vero: un disagio, un malessere, che ormai appaiono i tratti di un’intera fase storica. Quella che stiamo vivendo. Sopra le nostre società, infatti, la democrazia sembra avere steso una cappa di grigio buon senso, sembra ormai identificarsi con l’assenza di speranze, di ideali e di progetti forti, con una sorta di narcosi della mente e dello spirito che troppo spesso ci impedisce di vedere il male e l’ingiustizia che sono tra noi, e di chiamarli con il loro nome. Ma una fase storica che, proprio per questo, forse prepara un’inaspettata ripresa del pensiero antagonista, della divisione e dell’opposizione politiche oggi spente. E insieme prepara, forse, un ruolo nuovamente attivo del Cristianesimo sul piano sociale, una sua rinnovata capacità di richiamo. La storia non è finita, ogni partita può essere sempre riaperta.
Ben venga allora chiunque ci riporti a pensare tutto questo: anche se mostra di credere tuttora a fallite utopie dei cui misfatti è solito disfarsi con un po’ troppa facilità, chiamandoli pudicamente «fallimenti».

venerdì 6 novembre 2015

Corriere 6.11.15
«Ma con l’Isis non stiamo perdendo Bombardare in Iraq? Non è un tabù»
Riteniamo che non ci sia nessun motivo per cui Girone debba rimanere in India
La ministra della Difesa, in un forum al «Corriere», parla di Libia, migranti, marò
E del perché restiamo in Afghanistan
I droni? Non abbiamo bisogno di badanti per decidere come usarli L’Italia ha un ruolo importante nell’analisi dei flussi finanziari dello Stato Islamico
di Paolo Lepri


«Con l’Isis non stiamo perdendo», dice Roberta Pinotti nel corso di un incontro-intervista nella redazione del Corriere. I dossier internazionali di cui si sta occupando sono molti, ed enormemente delicati — dall’emergenza migranti alla minaccia del terrorismo internazionale, dal rafforzamento dell’impegno in Iraq al proseguimento della missione in Afghanistan — ma la ministra della Difesa del governo Renzi non sembra smarrire mai lucidità e concretezza. E si rende conto delle preoccupazioni delle «persone normali» per le tante crisi di un mondo instabile, in cui «rompere è facile, aggiustare difficile». Sta esaminando gli ultimi rapporti sull’aereo russo precipitato nel Sinai e osserva come non sia ancora certo che siano stati proprio i miliziani del califfato a provocare la morte dei 224 passeggeri.
Quando arriverà la decisione italiana di bombardare in Iraq?
«I Paesi che compiono raid aerei sono tanti. Quindi se l’Italia scegliesse di fare gli strike , lo scenario non cambierebbe molto. Il lavoro di ricognizione che stiamo effettuando è molto utile perché i terroristi si infiltrano tra la popolazione civile. L’Italia ha già effettuato raid aerei in passato. Lo ha fatto nei Balcani, lo ha fatto in Libia. Quindi questo non deve essere un tabù. Anzi, sarebbe ipocrita pensare che possiamo fare tutto senza arrivare a quel punto. Ma nello stesso tempo i bombardamenti non devono nemmeno diventare il totem e non bisogna ritenere che siano la cosa più importante da fare. A Erbil abbiamo addestrato la metà del personale militare che ne aveva bisogno e ci stanno chiedendo di mandare altri uomini. Non diamo certo l’idea di una nazione che non c’è. È sempre importante, poi, che ci sia un sostegno alle operazione militari riconosciuto da un’ampia maggioranza parlamentare. Non c’è dubbio che tutti i passaggi vadano rispettati. La decisione non è presa, ma non è escluso che possa arrivare in futuro».
Come valuta gli sviluppi della situazioni sul terreno?
«Ricordiamoci che in Iraq combattiamo l’Isis. Non sottovaluto le dimensioni di questa sfida. Ho chiesto per questa ragione che il nostro fosse un contingente significativo. E capisco le paure della gente. Ma non credo che stiamo perdendo. Mentre prima abbiamo assistito ad una cavalcata dell’Isis, ora la sua presenza è circoscritta in aree specifiche. Come Italia abbiamo anche un ruolo importante nell’analisi dei flussi finanziari, che a volte sono stati intercettati, e sui quali si sta agendo. È un lavoro che sta dando frutti. Certo, non abbiamo già vinto. Anzi, dobbiamo essere più forti, più determinati e più veloci».
Manterremo l’attuale contingente in Afghanistan?
«Abbiamo 800 uomini perché la Spagna ha deciso di ritirarsi e non potevano non aumentare le nostre forze. La missione doveva finire nel 2015 per volontà statunitense, con molte perplessità dei militari italiani sul fatto di aver annunciato la decisione con anticipo. La recrudescenza dei combattimenti è stata così alta che alcuni dei plotoni che stiamo addestrando sono stati dimezzati. Ci sono 650 morti al mese nelle forze afghane. Stanno combattendo e con coraggio. Se non continuiamo il nostro lavoro si rischia di creare un vuoto di sicurezza».
Qual è la sua valutazione sulle notizia secondo cui il mediatore Onu in Libia Bernardino León avrebbe accettato un incarico negli Emirati Arabi, un Paese che appoggia una delle parti in causa nel negoziato?
«Non posso esprimermi e vorrei sospendere il giudizio. L’Italia ha sempre sostenuto la mediazione Onu. Non era un sostegno personale a León ma alla funzione che il diplomatico spagnolo ha incarnato».
Si è sempre detto che un’iniziativa internazionale in Libia sarebbe potuta avvenire solo dopo un accordo negoziale tra le due fazioni. Secondo alcune indiscrezioni, invece, Italia Francia, Germania e Gran Bretagna starebbero studiando un passo diplomatico per forzare questo circolo chiuso. Lo può confermare?
«Seguo da tempo con il mio collega Gentiloni la trattativa e constato che effettivamente i passi avanti sono stati più proclamati che realizzati. Ci stiamo consultando con gli altri Paesi. Il confronto è in corso. È in atto un lavoro di progettazione per avere un quadro della situazione qualsiasi siano le necessità».
Gli Usa hanno dato via libera alla richiesta italiana di armare due droni Reaper. Abbiamo intenzione di usarli ?
«La richiesta italiana agli americani è stata motivata anche da un sentimento di dignità nell’alleanza. L’abbiamo reiterata perché pensiamo di essere abbastanza adulti per decidere noi come usarli. Non abbiamo bisogno di badanti. Naturalmente effettueremo uno studio tecnico e i passaggi parlamentari che si dovessero rendere necessari».
Mentre si va avanti sulla strada dell’arbitrato per risolvere la vicenda dei due marò, possiamo dire di avere ottenuto risultati con alcune iniziative di «ostruzionismo diplomatico» nei confronti del governo indiano? Tutto questo potrebbe avere effetti sulla posizione di Girone in India?
«Non sempre è facile leggere le diverse voci che arrivano dai ministeri indiani. Per quanto riguarda Girone, noi riteniamo che non sussista nessun motivo perché debba restare in India».
Qual è il suo giudizio sul ruolo della Russia ?
«Il messaggio che arriva da Putin è quello di chi vuole entrare in campo come un interlocutore. Mi ha molto preoccupata, al primo vertice dei ministri della Difesa della Nato cui ho partecipato, del clima “incendiato” che si registrava con la Russia. Si è rivelato giusto il nostro sforzo di tenere le porte socchiuse. Se quanto sta facendo Mosca si tradurrà in una nuova corsa agli armamenti ci dobbiamo certamente spaventare tutti. I segnali sono ancora contraddittori».

il manifesto 6.11.15
Renzi cambia verso: droni con «licenza di uccidere»
Guerra. Storico sì di Washington alla vendita di missili e bombe per i Reaper tricolore. L'Italia è il primo paese europeo dopo la Gran Bretagna a poter usare gli aerei killer americani. La prima fattura sarà da 150 milioni. Primo obiettivo: Libia e «scafisti». Silenzio dal Pd. Sel: Pinotti in parlamento
di Matteo Bartocci


ROMA Il Dipartimento di stato e il Pentagono hanno detto sì. L’Italia sarà l’unico paese del mondo, dopo la Gran Bretagna, a ricevere dagli Stati uniti missili e bombe per armare i propri droni, rendendoli in grado di uccidere. La notizia, raccolta dalla Reuters e ripresa dai principali giornali italiani, cade nel più totale silenzio della politica.
Sponsor forte dell’operazione è il segretario di stato John Kerry, che fin dal 2012, quando era senatore, si espresse ufficialmente a favore della vendita all’Italia. Il Congresso, secondo il principio del silenzio assenso ha ora 15 giorni per opporsi alla decisione del governo Obama ma è decisamente improbabile che lo faccia.
Da quel momento, la palla sarà tutta in mano a Palazzo Chigi, che presumibilmente dovrà firmare i numerosi protocolli «riservati» previsti nella vendita. Secondo Reuters il governo degli Stati uniti acquisterà da General Atomic e poi rivenderà all’Italia 156 missili AGM-114R2 Hellfire (prodotti dalla Lockheed Martin), 20 bombe GBU-12 a guida laser, 30 bombe GBU-38 JDAM e altri armamenti per un contratto stimato inizialmente in 129,6 milioni di dollari (119 milioni di euro). L’Italia potrà così armare 2 droni Mq-9 Reaper con 14 missili aria-terra e 2 bombe per ogni missione. I Reaper sono 9 volte più potenti e il doppio più veloci dei più conosciuti Predator.
Alle munizioni, vanno aggiunti almeno altri 30 milioni di euro per l’addestramento del personale e l’aggiornamento del software impiegato. Ed è praticamente certo che, vista la palese considerazione del nostro paese a Washington, saremo casualmente anche tra i primi ad acquistare dal 2018–2020 l’evoluzione del Reaper, il Predator B-RPA, spendendo altre centinaia di milioni di euro in armamenti d’attacco. Inoltre, va ricordato che la richiesta italiana riguardava 6 Reaper e dunque non è escluso che le fatture verso Washington possano lievitare nel prossimo futuro dopo il primo via libera.
Sono quattro anni che l’aeronautica aspetta. La richiesta fu avanzata dal governo Berlusconi nel 2011 ed è stata ripetuta da tutti gli esecutivi successivi (Monti, Letta e Renzi) nel silenzio totale del parlamento.
Oggi l’unica voce critica viene da Donatella Duranti di Sel: «Siamo contrari – dice la capogruppo in commissione Difesa alla camera — all’acquisto di strumenti di guerra che hanno poco a che fare con la difesa e che hanno un margine di errore tra obiettivi militari e civili molto alto. Chiediamo al ministro Pinotti di venire a riferire urgentemente in aula perché il Parlamento e il Paese hanno il diritto di valutare l’opportunità di acquistare droni armati, sapere a cosa serviranno e come e per quali finalità verranno impiegati».
L’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Leonardo Tricarico esulta: «Non si ha ancora la percezione del ruolo fondamentale che i droni ricoprono nei moderni conflitti asimmetrici. La dottrina militare andrà sicuramente riscritta da capo. I droni possono agevolmente svolgere missioni di contrasto alle organizzazioni criminali che lucrano sull’immigrazione». Tricarico è sicuro: «Sarebbe un gioco da ragazzi per l’Aeronautica, che utilizza i droni da undici anni, distinguere le unità impiegate per la pesca da quelle usate per organizzare i viaggi dei migranti, grazie alle capacità di intelligence assicurate da mezzi che possono garantire una permanenza praticamente illimitata sopra l’obiettivo».
Peccato per il generale, però, che i Drone papers pubblicati qualche giorno fa da the Intercept dimostrino esattamente il contrario. Il bilancio della guerra «senza pilota» è desolante secondo i documenti riservati dello stesso Pentagono diffusi da Greenwald e Poitras: il 90% delle vittime è non identificato o errato, certamente non l’obiettivo originario.
Recentemente, anche Mario Platero sul Sole 24 Ore ha rilanciato tutte le critiche nell’uso militare dei droni, che l’Italia potrà usare per uccidere solo in stretto raccordo con gli Usa.
L’impiego dei droni killer nel Mediterraneo, almeno nel breve termine, è avvalorato da un’altra decisione di ieri degli Stati uniti riportata da El Pais: il dislocamento di 5 enormi droni Global Hawk da ricognizione nella base (guarda caso) di Sigonella.
In Europa i Reaper ce l’hanno solo Italia, Francia, Germania e Gb. La Francia li ha dislocati, disarmati, in Sahel e Londra li usa in Iraq.
L’autorizzazione di Washington a Roma sembra spezzare questo fronte politico-economico, facendo dell’Italia un rompighiaccio, come già accaduto per F35 e Eurofighter.
Non è un caso, forse, che a maggio i ministri della Difesa di Italia, Francia e Germania hanno firmato un protocollo  che prevede entro il 2025 la produzione di un drone militare tutto made in Europe, la prima embrionale dichiarazione di affrancamento dalla tecnologia militare Usa.
I Reaper italiani sono guidati dal 28° gruppo «Streghe» del 32° Stormo dell’Aeronautica Militare di Amendola, nel Gargano (Foggia).
Hanno alle spalle un’attività molto intensa per la quale  il 4 novembre scorso sono stati premiati dal presidente Mattarella: Afghanistan, Iraq, Mare Nostrum, Kosovo, monitoraggio anti Isis dal Kuwait, perlustrazioni anti-pirateria nell’Oceano Indiano e Corno d’Africa da Gibuti. Ma contrariamente al senso comune hanno già volato anche nei cieli italiani. Anzi, secondo un accordo siglato un anno fa tra Aeronautica Militare, Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri i Predator (non armati) possono essere impiegati «per controllare manifestazioni, stadi, strade, autostrade e sorvegliare aree specifiche». Nel 2007 i Predator hanno sorvegliato il vertice Russia-Italia a Bari e nel 2009 il G8 all’Aquila (qui la scheda su come funziona un drone militare).
Secondo fonti americane non confermate, sarebbero stati impiegati anche in Sicilia in operazioni anti-mafia.
Amendola e Sigonella sono insomma le due basi italiane dei droni.
Ma è sulla Puglia, soprattutto, che punta l’Aeronautica. Lavori di potenziamento e adattamento al volo notturno avviati a maggio scorso renderanno Amendola uno dei più importanti aeroporti militari italiani.
Se la politica fa finta di non sapere, la Difesa invece si muove per tempo.
Aggiornamento del 6 novembre alle ore 10
La ministra Roberta Pinotti ha risposto così in una intervista al Corriere della Sera.
Domanda: Gli Usa hanno dato il via libera all’armamento di due droni Reaper. Abbiamo intenzione di usarli?
Risposta: “La richiesta italiana agli americani è stata motivata anche da un sentimento di dignità nell’alleanza. L’abbiamo reiterata perché pensiamo di essere abbastanza adulti per decidere noi come usarli. Non abbiamo bisogno di badanti. Naturalmente effettueremo uno studio tecnico e i passaggi parlamentari che si dovessero rendere necessari”.

Il Sole 6.11.15
L’Isis (purtroppo) canta vittoria comunque
di Ugo Tramballi


Riusciremo a sconfiggere e debellare l'Isis? È la domanda che sottilmente angoscia le opinioni pubbliche del mondo civile. La risposta è forse no, se chi dovrebbe fare questa guerra e vincerla litiga nell’accertamento delle cause di un disastro aereo: incidente contro attentato. Il califfo e i suoi accoliti del Sinai non avrebbero potuto sperare di meglio: dal loro punto di vista sarà un successo, qualsiasi cosa diranno i tecnici.
I primi a dare con convinzione una versione dei fatti sono stati gli amministratori della compagnia aerea siberiana alla quale apparteneva l’Airbus precipitato: la causa era esterna, una bomba o un missile, perché l’aereo era in perfette condizioni e i piloti esperti. Non fosse così, la compagnia dovrebbe pagare danni per milioni. Ma questo non c’entra con la geopolitica mediorientale. Vi ha più attinenza il satellite spia americano nello spazio sopra il Sinai, che avrebbe rilevato un lampo, prova di un’esplosione. Sono seguite le dichiarazioni di David Cameron: l’attentato, probabilmente un ordigno a bordo, sembra sempre più evidente; e un crescente numero di compagnie occidentali decide di non volare più sul Sinai né di atterrare a Sharm el-Sheikh, ultimo fortino del turismo egiziano che ancora resisteva alle minacce della regione.
Al fronte della pista terroristica si oppone quello sempre più convinto del guasto tecnico o dell’errore umano: egiziani e russi. Di più: Abdel Fattah al-Sisi e Vladimir Vladimirovich Putin, i presidenti di due sistemi politici molto simili, nei quali comandano loro e nessun altro, e la cui parola non può essere messa in discussione. Anche l’eventuale spiegazione politica di questa determinazione è comune: al-Sisi sta cercando di dare dell’Egitto un’immagine di sicurezza e di crescita economica; Putin non vuole che il suo intervento in Siria abbia già 224 caduti russi, molti dei quali donne e bambini.
Sovente il caso sa essere sgradevole: proprio ieri il presidente egiziano compiva la sua prima visita ufficiale a Londra. La data era stata fissata in epoca non sospetta ma quale fosse l’agenda degli incontri, la tragedia del Sinai se ne è impadronita, raffreddando relazioni già non calorose. La Gran Bretagna e la Germania (non l’Italia e la Francia) non hanno mai smesso di criticare la repressione del governo egiziano verso gli oppositori e soprattutto i Fratelli musulmani. Rilasciando alla Bbc un’intervista prima della visita, al-Sisi aveva rimproverato l’Occidente di non capire che l’Egitto è sotto attacco e che contro il terrorismo bisogna usare ogni mezzo disponibile perché è una lotta di vita o di morte. Lo aveva già detto Anwar Sadat una quarantina d’anni fa.
Così, quando il deputato della Duma Konstantin Kosachev afferma che le convinzioni inglesi sulla tragedia aerea «sono politicamente motivate dalla loro opposizione alle azioni russe in Siria», alla fine hanno perso tutti, a cominciare dalla verità dei fatti. È di relativa importanza scoprire chi abbia ragione, se sia stato incidente o attentato terroristico. Anche senza muovere un dito, l’Isis porta a casa un successo, dividendo il fronte dei suoi nemici.
Il disastro aereo in qualche modo rafforza una tendenza geopolitica in Medio Oriente, le similitudini crescenti dei regimi e la coincidenza d’interessi fra Egitto e Russia. Acquistando dalla Francia le due grandi porta elicotteri della Classe Mistral, che prima della crisi ucraina e delle sanzioni dovevano andare alla Marina di Mosca, l’Egitto ha chiesto che venissero lasciati tutti gli equipaggiamenti e i sistemi d’arma russi che erano già stati montati. Dunque, al Sisi dovrà comprare da Putin e non dagli americani gli elicotteri, le armi, i mezzi e tutto il materiale necessario per far navigare e rendere temibili le due navi.

Corriere 6.11.15
Mondo di Mezzo, lo scontro finale
Il cuore della disputa (mediatica più che giudiziaria) che ruota intorno al processo è la divisione tra sostenitori dell’associazione mafiosa e detrattori dell’accusa («è solo una banda di cravattari romani»)
di Giovanni Bianconi


ROMA In fila per depositare la richiesta di costituirsi parte civile, con l’obiettivo di ottenere il risarcimento danni dai condannati, tra cinquanta e più avvocati ce n’è uno che trent’anni fa fece la stessa cosa nell’aula-bunker dell’Ucciardone, a Palermo, nel maxiprocesso a Cosa nostra. È Alfredo Galasso, ormai settantacinquenne, ex deputato tornato a frequentare i palazzi di giustizia. Nel 1986 assisteva i familiari di un morto ammazzato, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; oggi è qui per conto di Confindustria, che lamenta la violazione della libertà d’impresa e della libera concorrenza da parte degli imputati di Mafia Capitale.
«Anche a Palermo c’era chi negava l’esistenza di Cosa nostra, proprio come adesso c’è chi afferma che Mafia Capitale è solo un’invenzione — dice Galasso, a proposito di paragoni tra passato e presente —. La differenza è che allora si processava solo il primo livello, la manovalanza, qui invece compaiono anche il secondo e il terzo: i collusi nella pubblica amministrazione e i politici, tra assessori e consiglieri regionali. Altro che mondo di mezzo, qui c’è il mondo intero!».
Avvocato Galasso a parte, a ricordare il processo alla mafia siciliana (che era maxi davvero, 468 imputati; qui sono appena un decimo) c’è la folla delle grandi occasioni: tanti avvocati, pubblico di curiosi, frotte di giornalisti, compresi alcuni che abitualmente frequentano il Transatlantico di Montecitorio; del resto da mesi la cronaca politica s’intreccia con l’indagine ora sfociata nel dibattimento. Mancano gli imputati nelle gabbie; all’Ucciardone c’era Liggio che dietro le sbarre sfoggiava il sigaro cubano e il cappotto di cammello, mentre oggi i detenuti sono tutti collegati in videoconferenza. A cominciare dal presunto capo dell’organizzazione, Massimo Carminati; la sua sagoma appare sfocata nel teleschermo che riprende una saletta del carcere di Parma.
L’aula che ospita la prima udienza è intitolata a Vittorio Occorsio, il magistrato che negli anni Settanta conduceva in solitudine le inchieste sull’estremismo nero ma non fece in tempo a indagare su Carminati perché il killer neofascista Pierluigi Concutelli lo tolse di mezzo nel 1976. Quarant’anni dopo Carminati è alla sbarra per una vicenda che tocca ancora la politica, ma per tutt’altra strada: non contrapposizione al potere bensì collusione, di qualunque colore esso sia, attraverso la corruzione e l’assegnazione pilotata degli appalti. Un sistema talmente pervasivo e condizionante che s’è fatto mafia, secondo l’accusa. Tuttavia l’avvocato dell’ex estremista nero, Bruno Naso evoca «il cosiddetto terrorismo» quando ricorda che a Roma si sono fatti fior di dibattimenti con centinaia di imputati pericolosi e detenuti, regolarmente presenti, senza ricorrere a questa diavoleria delle videoconferenze. «Erano fatti e processi molto, ma molto più seri di questo», provoca Naso.
Parla per rivendicare il diritto di altri due suoi assistiti (Carminati non può per legge, essendo ristretto ai rigori del «41 bis») di venire in aula, ma soprattutto per sminuire la costruzione dei pubblici ministeri. E l’accusa di mafia. «Questo è un processetto, appositamente dopato, montato da una campagna mediatico-giudiziaria con precise finalità, ma sempre processetto resta!», si accalora. Gli replicherà il pubblico ministero Giuseppe Cascini: «Io vorrei discutere di diritto, ma finora non ne ho sentito parlare».
È il cuore della disputa (questa sì mediatica, molto più che giudiziaria come invece dovrebbe essere) che si agita intorno al processo; ci si divide tra sostenitori dell’associazione mafiosa e detrattori dell’accusa («è solo una banda di cravattari romani») come se fosse una discussione da bar. Invece è un processo penale, sebbene la prima udienza assomigli più a un convegno con centinaia di invitati, quelli dove uno parla, pochi ascoltano e in platea si chiacchiera. Accade da subito, durante l’appello degli imputati, con i tre giudici del tribunale — due donne e un uomo — che a fatica riescono a vedere qualcosa oltre la prima fila di toghe assiepate davanti a loro; e poi quando si affrontano le questioni preliminari.
A proposito delle riprese televisive l’avvocato Filippo Dinacci, difensore dell’ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti (assente), proclama la sua contrarietà: «Non capisco tutta questa attenzione, non vedo nessun interesse sociale in questo dibattimento, è uno dei tanti che si celebrano ogni giorno per reati di criminalità organizzata». Parole che suonano come uno sberleffo alle conseguenze politiche provocate dall’inchiesta, prima ancora che approdasse in aula. È la strategia di molti difensori: abbassare il profilo per provare a spegnere telecamere e riflettori accesi con gli arresti di un anno fa, riportare tutto a un normale processo di corruzione. Ma nella kermesse della prima udienza è difficile.
«Sembra un grande show, forse ci voleva un teatro», commenta il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi, consigliere comunale uscente venuto anche lui a costituirsi parte civile. Lo dice per paradosso, ma la giustizia italiana ha visto anche questo: un processo in un teatro, quello per il naufragio della Concordia. Qui almeno siamo all’interno del tribunale. E dalla prossima volta ci si trasferisce a Rebibbia, nell’aula costruita accanto al carcere ai tempi del terrorismo. Un altro tocco da maxiprocesso .

Il Sole 6.11.15
Non è una questione di metodo
L’idea pericolosa di Roma «solo» corrotta e non mafiosa
di Lionello Mancini


Mafia capitale o Capitale “solo” corrotta? Questo avverbio, utilizzato per sminuire la portata del dibattimento iniziato ieri a Roma, marca il confine tra visioni contrapposte della buona amministrazione, della buona economia, della buona politica.
Davvero, come è stato ripetuto, ieri è iniziato un «processetto dopato» di cui non resterà nulla, se non lo smacco dei Pm che hanno inventato una teoria, utilizzato i media per sostenerla e non hanno esitato a sporcare con il 416bis dei “rubagalline” per trasformarli in “capibastone”? Sorvolando sull’aggressività (unilaterale) del linguaggio, questa tesi è del tutto legittima in aula per limitare il peso di un’eventuale condanna. E questo è esattamente il compito degli avvocati. Ma se, come si afferma, la battaglia intrapresa è di carattere generale, intende salvaguardare garanzie e principi di civiltà giuridica, svelare manipolazioni e forzature a danno di imputati “al massimo” corrotti, allora questa idea del mondo diventa incomprensibile e persino inaccettabile.
Dopo decenni, sconfitte e stragi, gli italiani hanno capito che le mafie vanno combattute e vinte per il bene di tutti. Più faticosamente, dopo l’occasione persa di Mani pulite, si sta facendo strada l’idea che i danni della corruzione siano persino più gravi di quelli delle cosche, perché questo cancro è infinitamente più capillare, diffuso e persino favorito da leggi e procedure inadeguate o peggio.
Su un punto nessuno muove obiezioni: la corruzione, il clientelismo, il nepotismo, l’inefficienza svelati dall’inchiesta su Buzzi e soci, non sono fenomeni recenti, né sotterranei e nemmeno locali, poiché alcune ruberie riguardavano temi di rilievo nazionale, dato che Roma è Roma. Varrebbe dunque la pena di chiarire, come intende fare la Procura se convincerà i giudici, quanto di questi intrighi milionari sulle nostre spalle siano stati intrecciati, affiancati, rafforzati dal metodo mafioso. Ma questo tentativo viene rifiutato come impossibile anche solo da pensare.
La stessa reazione di ripulsa si è potuta registrare quando sono stati scoperti i danni provocati dalla ’ndrangheta su affari e amministrazioni locali del Nord. In Lombardia o in Liguria non ha mai sparato un mitra, ai tagliagole bastavano la fama o il cognome a intimidire, a controllare appalti o imporre assunzioni. Proprio come a Roma.
La miscela corruzione-metodo mafioso ha un potenziale distruttivo enorme. Giocherellarci non per disinnescarla, ma per dimostrare che è innocua, è un esercizio pericoloso che riporta indietro di decenni la cultura del Paese e contribuisce a sterilizzare i risultati di contrasto e prevenzione fin qui conseguiti.
Teorizzare per convenienza o snobismo una Capitale “solo” corrotta, implica la responsabilità di accettare una Nazione infetta.

Repubblica 6.11.15
Le metropoli della messa in scena
di Stefano Bartezzaghi


MAFIE e grandi mostre; sindaci, sindaci «autosospesi», candidati a sindaco, commissari, prefetti, sindaci giubilati; Giubilei; immigrati; «La grande bellezza» e «#Romafaschifo»; capitali reali e capitali morali; appalti truccati e tagli ai servizi... Le contingenze della politica investono con particolare accanimento la dimensione della città. Arrivano addirittura a rispolverare il campanilismo più frusto tra Milano e Roma, le due città maggiori che fra l’altro, grazie a Frecciarossa e Italo, sono oggi molto più a contatto di quanto lo siano state mai.
Oggi, nelle diverse situazioni e forse per motivi persino opposti, Milano e Roma sembrano destinate ad adeguare i loro assetti politici alla vigente governance nazionale. Entrambe sono state amministrate da maggioranze di centrosinistra, ma un centrosinistra eterodosso, soprattutto negli evidenti elementi di autonomia dal Pd. Lo spostamento dei rispettivi assi verso il centro è vistoso, come è peraltro chiara la tendenza al ricorso a commissari — secondo il modello collaudato della Bologna, già vetrina amministrativa del Pci e quindi preda di rivincita della destra, infine commissariata da Annamaria Cancellieri. Il fare non ha più bisogno dell’essere, in termini di identità politica? L’esecuzione tecnica può prendere posto della scelta?
In ogni caso pare di poter dire che la dimensione della città metropolitana abbia guadagnato, nel bene e nel male, una nuova centralità, nel discorso pubblico e nella contesa politica. Eppure, per un altro verso, l’Italia che funziona è ancora quella delle città di provincia e dei centri minori. Dal modello anni ‘80 dei «sciur Brambilla» a quello successivo del Nord-Est sembrava di dover ricavare la convinzione che, almeno in Italia, «piccolo, è bello». Crisi dei grandi centri produttivi, successo delle aziendine, magari non proprio in regola col fisco ma dinamiche e agili soprattutto nel salto dal locale al globale transnazionale. Nella cultura poi da quindici anni si riscontra che i cosiddetti eventi — festival culturali e manifestazioni varie — hanno come sede pressoché naturale i centri storici di città come Sarzana, Mantova, Pordenone, Cagliari, Viterbo, Pistoia, mentre nelle metropoli funzionano eventi diffusi e senza un profilo culturale unitario (Bookcity, a Milano) o programmaticamente periferici (Libri Come e Più libri, più liberi, a Roma). I grandi centri vengono investiti casomai da mega-eventi come Anni Santi, Expo o Olimpiadi, da realizzarsi perlopiù con affanni emergenziali e difficilmente integrabili alla vita ordinaria dei cittadini.
Una spiegazione per il fatto che le metropoli non sono definite dagli eventi che le hanno attraversate è che Milano e Roma sono, di per sé stesse, i grandi eventi nazionali. Zone pedonali e grattacieli sono la scenografia degli eventi che esse incarnano. Ancora prima che spazi e «location », le metropoli sono attrici, le protagoniste necessarie dello storytelling di una nazione.
Da lì la politica vuole vedere emergere lo straordinario, con i relativi suspense e colpi di scena.
Attraversate crisi e cambiamenti di forma, la metropoli è rimasta il luogo di massima densità di significazione e quindi costituisce una sfida forse impossibile ma certo irresistibile per la politica. Mettere le mani sulla città non significa soltanto decidere sui flussi finanziari degli appalti e sulla spartizione delle utilities. Sono, queste, le poste in gioco dei «mondi di mezzo»: il potere come metodo per fare soldi. Sul piano, ampiamente simbolico, del potere per il potere, controllare Milano e Roma significa scrivere la sceneggiatura della narrazione nazionale decidendo dei ruoli fondamentali. Christian Salmon ha parlato del passaggio della politica da «Statecraft» a «Stagecraft», da arte di governo ad arte di messa in scena. Nel caso delle metropoli, la politica non si occupa di dare senso all’amministrazione cittadina, ma di estrarre senso dall’entropia che le città producono. L’amministrazione consisterà nel tenere appena sotto il livello di guardia i problemi strutturali a volte drammatici (raccolta di rifiuti, vulnerabilità alle emergenze meteorologiche, minimo decoro dei palazzi e minima manutenzione delle strade, contrattazione con le lobbies capaci di causare paralisi, per esempio nei trasporti...), per avere l’agio di spendere la fiche della metropoli al tavolo dello storytelling globale.
I sindaci della legge del ‘93 sono diventate figure intermedie imbarazzanti, poiché la loro investitura procede direttamente dall’elettorato, e la loro opera non è direttamente funzionale allo storytelling nazionale. Milanesi e romani vivono come in una casa che periodicamente viene affittata per grandi feste a cui a malapena sono invitati. La loro vita quotidiana, quello che vi si produce in fatto di economia e cultura, non fa notizia. Alla fine dei conti l’identità reale di Milano e Roma non è rappresentata, non è parte della storia che sono convocate a raccontare, con il ruolo di interpreti.

La Stampa 6.11.15
“Sussidi ai più poveri col taglio delle pensioni a 250 mila ricchi”
Il presidente Inps svela il suo piano. Renzi però lo blocca
di Paolo Baroni


Il presidente dell’Inps continua il suo pressing e rende pubblica la sua proposta di riforma delle pensioni illustrata a giugno al governo e tenuta fino ad ora coperta. E subito scoppia un vespaio di polemiche. «Bene le sue proposte, ma è meglio evitare confusione nei ruoli», commenta il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti. Più esplicito l’ex viceministro all’Economia ed ex Pd Stefano Fassina: «Boeri si dovrebbe ricordare qual è il suo ruolo. Oppure si faccia nominare ministro». Fredda la reazione che filtra dalle stanze del titolare della materia, il ministro del Lavoro Poletti. «Contributo utile, ma non realizzabile adesso».
Renzi prende tempo
Con Palazzo Chigi si è addirittura rischiato il corto circuito mediatico, perché quasi in contemporanea con la proposta-Boeri le agenzie ieri hanno diffuso nuovi stralci dell’intervista rilasciata da Renzi a Bruno Vespa per il suo ultimo libro in cui il premier spiega perché ha bloccato ogni piano sulla previdenza. «Noi paghiamo ogni anno 250 miliardi di euro di pensioni. Tagliamo lì? Io penso sia un errore - sostiene Renzi -. Alcuni correttivi proposti dall’Inps di Tito Boeri avevano un valore di equità: si sarebbe chiesto un contributo a chi ha avuto più di quanto versato, ma non mi è sembrato il momento: dobbiamo dare fiducia agli italiani. Se metti le mani sulle pensioni di gente che prende 2.000 euro al mese, non è una manovra che dà serenità e fiducia». E così in serata fonti del governo si sono affrettate a precisare che non c’è nessuno scontro tra governo e Inps, aggiungendo che anzi «la diffusione della proposta era concordata». Risposta che non convince Annamaria Furlan (Cisl) che invece chiede al governo «di fare chiarezza».
Un ddl in 16 articoli
Boeri, intanto, tira dritto per la sua strada. «Non per cassa, ma per equità» si intitola la sua proposta, già tratteggiata a grandi linee ai primi di luglio, e che ora prende la forma di un disegno di legge vero e proprio, composto da 16 articoli, 2 allegati e 9 schede tecniche. L’obiettivo è abbattere la povertà che colpisce soprattutto gli over 55 introducendo un prelievo su pensioni e vitalizi elevati. Oltre a ciò si prevede di unificare i trattamenti (la ricongiunzione sarà gratis), di intervenire sui trattamenti erogati all’estero e, soprattutto, pr favorire il ricambio generazionale viene introdotta la flessibilità in uscita prevedendo un sistema a partire da 63 e 7 mesi con penalizzazioni al massimo del 10% a fronte di un minino di 20 anni di contributi ed un assegno non inferiore ai 1500 euro. Per quanto riguarda i tagli, nel mirino finirebbero le circa 230 mila famiglie che si collocano nelle fasce a più alto reddito a cui si pensa di ridurre i trasferimenti assistenziali (pensioni e assegni sociali, integrazioni al minimo, ecc) fino ad ora destinati a loro «in virtù di una cattiva selettività degli strumenti esistenti»: il décalage parte dai 32 mila euro per azzerare ogni sussidio sopra quota 37 mila (55 mila per una coppia).
I «potenziali perdenti»
In particolare tra i «potenziali perdenti» Boeri indica anche circa 250.000 pensionati d’oro (con assegni non giustificati dai contributi versati), oltre a più di 4.000 percettori di vitalizi per cariche elettive. Tra 3.500 e 5.000 euro lordi mensili verrebbe bloccata l’indicizzazione fino a quando l’assegno non raggiunge il livello che avrebbe avuto col calcolo contributivo, mentre sopra quota 5.000 viene richiesto un contributo vero e proprio. Per i vitalizi la pensione verrebbe invece ricalcolata interamente col metodo contributivo (taglio medio del 34%).
L’aiuto ai poveri over 55
Una parte delle risorse, secondo questo piano, servirebbe ad istituire il «Sia55», ovvero il «Sostengo di inclusione attiva per gli ultra 55enni», che poi altro non è che la fascia d’età che da qualche anno patisce di più la povertà. L’idea, in questo caso, è quella di introdurre un reddito minino garantito di 500 euro al mese (400 nel 2016-2017) per ogni famiglia con almeno un componente ultra 55enne. Il contributo, che punta a dimezzare la povertà in queste fasce, sarebbe però subordinato alla stipula di un patto da parte dei membri del nucleo familiare beneficiario finalizzato all’inserimento lavorativo.
Poletti: costi non equi
L’operazione-Boeri nel suo complesso in parte si autofinanzia ed in parte richiede nuove risorse anche cospicue di qui ai prossimi anni. Tranchant il giudizio del ministero del Lavoro: «Al momento si è deciso di rinviare perché, oltre a misure utili come la flessibilità in uscita, il piano Boeri ne contiene altre che mettono le mani nel portafoglio a milioni di pensionati, con costi sociali non indifferenti e non equi. Per non far pagare questi costi ai pensionati servono risorse che, al momento, non ci sono. Si vedrà presto come intervenire in modo organico sul tema. Ma senza effetti collaterali».

Corriere 6.11.15
«Tagli a pensioni alte» Resta il no del governo
di A. Bac.


«Reddito minimo ai 55enni. Uscita flessibile oltre tre volte il minimo, ricalcolo con il contributivo». Il piano sulle pensioni (fino a ieri riservato) del presidente dell’Inps, Tito Boeri, parte dal prelievo sulle pensioni d’oro e suscita polemiche. Tanto che il governo ha già accantonato l’ipotesi: «Non è attuabile, ci sono costi sociali ed economici troppo alti». Secondo Boeri le risorse per la lotta alla povertà dovrebbero venire da 250 mila pensionati d’oro.
ROMA «Abbattere la povertà, riducendola almeno del 50%, fra chi ha più di 55 anni di età e garantire una transizione più flessibile dal lavoro al non lavoro e viceversa». Il piano sulle pensioni, che il presidente dell’Inps, Tito Boeri, aveva presentato riservatamente al governo, ieri ha conquistato visibilità sul sito dell’istituto. Destando polemiche. E mettendo il governo nelle condizioni di ribadire il suo «no».
Due le proposte forti contenute nelle 69 pagine intitolate «Non per cassa ma per equità» e confezionate in un vero e proprio disegno di legge in 16 articoli. La prima: un «reddito minimo garantito» di 500 euro (400 € nel 2016 e nel 2017) al mese per una famiglia con almeno un componente ultra 55enne. Piano, finalizzato al reinserimento lavorativo, finanziabile con gli 1,2 miliardi che deriverebbero dalla rimodulazione delle prestazioni assistenziali percepite al di sopra dei 65 anni di età da quel 10% di popolazione che percepisce redditi più elevati, circa 230 mila famiglie. «Questo capitolo assistenziale della proposta è diventato in parte materiale per la delega povertà collegata alla Stabilità, che sarà chiusa entro l’estate» spiega il capoeconomista di Palazzo Chigi, Tommaso Nannicini.
L’altro capitolo invece, quello previdenziale sulla flessibilità in uscita, è stato per ora respinto: «La flessibilità resta una nostra priorità - prosegue Nannicini -. Ma ha un costo finanziario e dei costi politici che non vogliamo sostenere ora, oltre ad avere un impatto redistributivo un po’ perverso».
La proposta prevede per i trattamenti più elevati che fanno capo a gestioni speciali, quelle che di più si sono giovate del calcolo retributivo, circa 250 mila percettori, un contributo «equo» ottenuto attraverso l’immediato ricalcolo della pensione col sistema contributivo per gli assegni sopra i 5 mila euro. Ricalcolo più graduale tra i 3.500 e i 5 mila euro. Stesso metodo per circa 4 mila percettori di vitalizi per cariche elettive. Ulteriori risparmi verrebbero dal ricalcolo parziale delle pensioni delle persone con carriere sindacali e politiche.
I risparmi così ottenuti servirebbero anche a consentire l’uscita anticipata con penalizzazioni sul trattamento, ma solo per quelli sopra la soglia delle tre volte il minimo (1.500 euro), con una revisione al ribasso della quota retributiva. Penalizzazioni che, per 30 mila pensionati di lunga anzianità, potrebbero arrivare al 10% dell’assegno. Nel provvedimento c’è spazio per l’unificazione senza oneri delle pensioni tra le diverse gestioni e una forma di previdenza complementare volontaria. Risultato atteso: un abbattimento del 4% del debito pensionistico. Costi netti: 1,4 miliardi nel 2016, 2,7 nel 2017, 3,6 nel 2018 e il picco, 4,1 miliardi nel 2019.

Corriere 6.11.15
La mossa dell’Inps e quel confronto con Palazzo Chigi
di Antonella Baccaro


Da Palazzo Chigi, verso sera, fanno sapere che l’uscita del piano Boeri sul sito dell’Inps era stata concordata da qualche giorno, proprio per disinnescare eventuali polemiche, sempre in agguato con la Stabilità in Parlamento. Spiegano che la proposta dell’economista era già stata presa in considerazione e valutata. E anche respinta, «per motivi politici, economici, giuridici e di opportunità». Insomma è vecchia e superata. Soprattutto per la parte che riguarda il ricalcolo delle pensioni sopra tre volte il minimo che appare una soglia troppo elevata, per abbassare la quale, però, i costi esploderebbero.
Insomma nessuno atto di sfida di Boeri, quella pubblicazione. E nessuno scontro con il premier. Perché lo scontro (che c’è stato) è già chiuso. Con Boeri che in effetti si prepara ad attuare la prima parte della sua proposta, quella sull’assistenza. E Palazzo Chigi impegnato a far passare il messaggio che «le pensioni non si toccano».
E allora, perché tutto questo clamore? Perché solo un paio d’ore prima della pubblicazione concordata del piano, le agenzie hanno sfornato alcune dichiarazioni di Renzi, tratte dal libro di Vespa, in cui spiegava che «alcuni correttivi proposti da Boeri avevano un valore di equità: si sarebbe chiesto un contributo a chi ha avuto più di quanto versato. Non mi è sembrato il momento: dobbiamo dare fiducia agli italiani». Dopo questa bocciatura, l’incauta pubblicazione del piano Boeri è suonata come un atto di sfida che ha diviso i commentatori tra tifosi e detrattori dell’economista. In un crescendo cui le precisazioni di Palazzo Chigi hanno cercato di porre fine. Almeno fino a quando non è entrato in campo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che per tagliare la polemica ha tagliato un po’ corto: «Si è deciso di rinviare perché quel piano, oltre a misure utili come la flessibilità in uscita, ne contiene altre che mettono le mani nel portafoglio a milioni di pensionati, con costi sociali non indifferenti e non equi».

Corriere 6.11.15
Draghi: disoccupazione a livelli inaccettabili
Il presidente della Bce a Milano: serve un nuovo patto per rafforzare l’architettura dell’euro «Il quadro è ancora incerto, a dicembre valuteremo se intensificare l’accomodamento monetario»
di Francesca Basso


MILANO «Abbiamo bisogno di un nuovo patto che impedisca il riemergere delle sfide appena affrontate e che, soprattutto, rafforzi l’architettura costituzionale dell’area dell’euro». Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, parla all’apertura dell’anno accademico all’Università Cattolica e la sua prolusione è l’occasione per spiegare ai giovani (ovviamente non solo) «la risposta che la Bce ha dato alle sfide eccezionali emerse durante la crisi», e nello stesso tempo per indicare gli obiettivi futuri: «Dobbiamo guardare avanti muovendo dalla stabilità per avanzare verso la prosperità».
Dalla crisi economica, «durata troppo», stiamo «gradualmente emergendo», il lascito è il numero dei disoccupati «inaccettabile»: «Le generazioni più giovani hanno pagato un prezzo molto elevato». Draghi indica le cause degli squilibri che la crisi ha reso evidenti: i «gravi errori nelle politiche economiche degli Stati nazionali» e le «manchevolezze nell’architettura istituzionale europea». In questa situazione si è dovuta muovere la Bce «per ricostruire la fiducia, riportare la prosperità, ripristinare la stabilità dei prezzi» e lo ha fatto nel rispetto del suo mandato, che «poggia su un consenso radicato nella società»: «I politici ricevono il loro mandato nell’ambito di elezioni che riflettono voto dopo voto le preferenze degli elettori. Il mandato delle Bce è invece inscritto in un testo che ha valenza costituzionale: il Trattato». Da qui deriva «l’elevato grado di indipendenza nelle nostre decisioni di politica monetaria», che Draghi ha sempre rivendicato. E ieri ha ricordato la conferma della Corte europea di Giustizia.
Se due giorni fa a Francoforte, per il primo anniversario del Meccanismo unico di supervisione bancaria, il presidente della Bce si è concentrato sulle prossime tappe che deve percorrere la Ue per completare il mercato comune dei capitali e realizzare l’assicurazione europea per i depositi, la prolusione alla Cattolica è stata una sorta di bilancio: «Siamo stati costretti a sventare i rischi che corrodevano sia l’integrità della moneta nel tempo (la stabilità dei prezzi), sia quella nello spazio, riferita alle varie parti dell’area, specialmente quando sono emersi dubbi sulla permanenza di alcuni Paesi membri nell’eurozona». Draghi ha spiegato le mosse per evitare la Grexit e i finanziamenti mirati e condizionati avviati nell’estate dello scorso anno, che hanno consentito alle banche di prendere a prestito quasi 400 miliardi da destinare a imprese e famiglie. Il programma finora attuato, il cui cuore è il quantitative easing che prevede il riacquisto di titoli di Stato, «è stato senza dubbio efficace». Ma la dinamica dei prezzi è «molto debole», il quadro macroeconomico «ancora incerto» e in più c’è «l’indebolirsi dell’economia mondiale». Dunque nella riunione del 2 dicembre il consiglio direttivo valuterà «il grado di accomodamento monetario» e se fosse necessario esaminerà «le modalità con cui intensificarlo».
Il Bollettino economico della Bce conferma che l’inflazione nel breve rimarrà molto bassa. I mercati hanno registrato «una certa volatilità» ora in «graduale calo». Quanto alle politiche degli Stati, il Bollettino raccomanda che la flessibilità dei conti pubblici, concessa dalla Commissione Ue, sia «usata con cautela per preservare la sostenibilità di bilancio e applicare in modo credibile le disposizioni del patto di Stabilità».

dall’articolo di Monica Guerzoni sul Corsera di oggi:
I «dem» sono in rivolta. Laura Cantini racconta che le donne del Pd «sono schifate dalle allusioni di Mineo, pizzini senza senso». Roberto Giachetti condanna «la volgarità e il delirio», che rendono necessaria «la Croce Rossa, più che la Cosa Rossa». Andrea Marcucci respinge le «bassezze» di Mineo. Il senatore ricorda che «il Pd è pieno di donne belle e decise» e invita a stendere un pietoso velo: «Spero che la Cosa Rossa abbia altri temi di confronto». E la senatrice Francesca Puglisi, su Twitter: «Per Mineo il termine donna deve suonare come una disgrazia».
Molto irritati anche i tre deputati fuoriusciti giusto ieri, Alfredo D’Attorre, Carlo Galli e Vincenzo Folino, ai quali Mineo ha rubato la scena. Irritati sia per il merito, sia perché l’insultante nota del senatore approda sulle agenzie poco dopo la fine della conferenza stampa di addio al Pd, alla quale lo stesso Mineo aveva assistito. E che era stata convocata per spiegare il documento «Ricostruire la sinistra» e annunciare i nuovi gruppi parlamentari con Sel, che avranno nel nome la parola sinistra. «Mineo ha sbagliato, si scusi» è la preghiera di Stefano Fassina, l’ex viceministro che sabato sarà sul palco del teatro Quirino per lanciare la nuova forza politica.

La Stampa 6.11.15
Guerini: “Chi esce dal Pd fa il gioco della destra. E l’Italicum non cambia”
Il vicesegretario stoppa il tormentone sul premio di coalizione Sull’ipotesi Marchini: non faremo ammucchiate contro Grillo
di Carlo Bertini


«L’Italicum garantisce rappresentanza e governabilità e una sua modifica non è all’ordine del giorno». Lorenzo Guerini fissa un paletto a terra per stoppare il tormentone e smorzare le aspettative di quelli che hanno letto nelle parole di Renzi sull’assenza di totem ideologici riguardo la legge elettorale una possibile apertura alle loro aspettative. Un alt anche a quella nuova formazione di sinistra che potrebbe avere interesse a veder rispuntare un premio di coalizione.
Tutti questi addii dal Pd non possono produrre un esodo di elettori anche alle comunali?
«A parte il rammarico per le scelte di alcuni colleghi che rispetto, ma non condivido, non credo che il giudizio degli elettori verso il Pd sia condizionato dalle uscite di singoli parlamentari, ma che maturi invece sulla base della capacità del partito di intestarsi fino in fondo la fase di cambiamento che stiamo attuando nel Paese».
Non temete gli effetti nefasti di avere nemici a sinistra?
«No, sono loro che devono temere il rischio di restare una presenza di pura testimonianza. Come ha già detto Renzi, stiamo realizzando l’intuizione originaria del Pd, una grande forza del centrosinistra riformista che sa assumersi fino in fondo la sfida del governo. Non vedo grandi spazi per ciò che nasce a sinistra fuori da questa prospettiva. E la domanda inevasa che dovrebbe esser loro rivolta è: come e con chi vorrebbero governare il Paese?».
Evidente che con voi non si potrebbero alleare, giusto?
«Mi pare che i primi indizi della nascita di questo nuovo soggetto siano caratterizzati da una forte polemica col Pd. Siamo noi il nemico individuato, più che la destra. E ciò mi pare indice di velleitarismo e della ripetizione di un vizio antico, di cui la sinistra italiana non si è liberata fino in fondo».
Anche alle comunali andranno da soli. Una scommessa su Roma e Milano la farebbe?
«Ricordo che alle europee si parlava del sorpasso dei 5Stelle sul Pd, poi abbiamo visto come è finita. Poi tanto per essere chiari anche sull’ipotesi Marchini, a Roma non faremo ammucchiate contro Grillo anche perché non abbiamo paura di nessuno. E in generale sono fiducioso dei risultati che otterremo, sapendo che i comuni sono molto diversi e che arriviamo con percorsi differenti nelle varie città».
Ci arriverete con le primarie?
«Le primarie sono uno strumento, si possono usare o no, laddove i candidati sono molto condivisi se ne può fare a meno. Dopodiché hanno una regola fondamentale: che tutti accettino il verdetto, insomma laddove le faremo chi perde poi sostiene chi vince».
Non rischierete comunque altri casi come quello di Genova? Sconfitte dovute alle divisioni?
«Le uscite a sinistra spesso hanno portato come risultato di favorire gli avversari e loro così stanno facendo il gioco della destra, ma penso che il Pd abbia la forza per non correre questo rischio. Da quando Renzi è segretario, mi pare che l’obiettivo fondamentale di conquistare nuovi elettori lo abbiamo centrato».
A proposito. Gli altri della sinistra, quelli che restano nel Pd, dicono che la manovra puzza di partito della nazione. Falso?
«Assolutamente sì. Altro che partito della nazione! La manovra supera la stagione di austerità, stimola la crescita, abbassa la pressione fiscale e affronta la lotta alla povertà. Una legge che ha connotati di sinistra».
Non alzare il contante a 3 mila euro, far pagare la Tasi a un terzo degli italiani. Accetterete qualcosa della contromanovra della minoranza Pd?
«La premessa è che vorrei che tutto il Pd approvi la svolta che contiene questa legge di stabilità. Il confronto potrebbe portare ad alcune modifiche, ovviamente senza stravolgerne l’impianto. Ma su certi punti non torniamo indietro».

Repubblica 6.11.15
Alfano: quelli della sinistra dem io e Matteo non li facciamo parlare


ROMA «Alcune misure non ci convincono. E non ci convincono perché vediamo la traccia, il profumo del Partito della nazione». Roberto Speranza e gli altri esponenti della minoranza del Pd attaccano la legge di Stabilità e propongono dieci modifiche. «Abbiamo voluto fare la conferenza stampa qui al Nazareno - spiega l’ex capogruppo perché noi siamo il Pd, ci sentiamo parte del Pd». Una risposta polemica ai compagni di partito che hanno lasciato nei giorni scorsi. Ma su questo Speranza è polemico anche con Matteo Renzi: « Il bivio non può essere sempre: o l’applauso o esci dal Pd. Io voglio anche battermi per difendere le mie idee». Linea condivisa da Gianni Cuperlo, che scherzando dice «la minoranza ha sposato la linea dell’allegria del premier, abbiamo innovato e preparato anche noi delle slide, abbiamo imparato che schiacciando un pulsante il televisore si accende a distanza». Battute a parte, resta il giudizio negativo su una parte della manovra, associata all’odiato Partito della Nazione. Ed ecco dieci proposte, illustrate da Cecilia Guerra, che dovrebbero riportare più a sinistra la Stabilità preparata dal governo. La richiesta più forte riguarda Imu e Tasi. Alla minoranza dem non basta il “ravvedimento” di Renzi su ville e castelli. Propone di allargare la platea dei contribuenti alle case di valore e di recuperare così un miliardo e mezzo. Soldi che verrebbero dirottati verso la sanità, tra l’altro per fare accedere tutti ai farmaci innovativi contro epatite C e malattie rare. In questo dibattito si inserisce Angelino Alfano e non è certo di aiuto a Renzi; « Nel Consiglio mi fa parlare sempre, non come ai ministri della sinistra Pd che non li fa neanche parlare», rivela il leader del Ncd. Felice perché il «governo fa esattamente ciò che volevamo e dovevamo fare noi».

il manifesto 6.11.15
La piattaforma c’è. A gennaio la prima assemblea comune
Raggiunto accordo al tavolo della 'cosa rossa'
Domani Sel ed ex Pd presentano il nuovo gruppo a Montecitorio, si chiamerà Sinistra italiana
di Daniela Preziosi


Un po’ di suspence c’è stata fino all’ultimo, almeno per gli amanti del genere, ma alla fine tutto è filato liscio. Al documento intitolato «Noi ci siamo, lanciamo la sfida» (di cui il manifesto ha dato notizia il 4 novembre) ieri hanno detto sì tutte le ’anime’ della ’costituente di sinistra’ (la definizione ’cosa rossa’ ormai è respinta da tutti). Il testo annuncia «l’avvio di una fase costituente» del «nuovo soggetto politico di sinistra». L’ok arriva da sei sigle: Sel, Prc, Altra Europa con Tsipras, Possibile (quella di Pippo Civati), Futuro a Sinistra (l’associazione di Stefano Fassina), Act; ma alla discussione hanno partecipato in molti di più, fra personalità e associazioni, da Sergio Cofferati a Sinistra e Lavoro.
La corsa parte, dunque. Presto partirà anche la «Carovana dell’alternativa» per «innervare il processo nei territori, per portare in tutte le città i nostri contenuti, con una logica capillare», come spiega il professore Marco Revelli a nome dell’Altra Europa. Il primo passo è fatto. Anche se non tutte le tessere del mosaico sono già al loro posto. Su come si presenterà quest’area alle amministrative del 2016, per esempio, c’è ancora un pezzo di strada da fare. Secondo il testo approvato ci sarà una «valutazione in comune» e «ovunque» della «possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo». Non è detto però che in tutte le città questa valutazione comune porti a candidati unitari: ma ogni giorno ha la sua pena, si vedrà più avanti.
Ieri il tavolo ha anche deciso che la prima assemblea unitaria si svolgerà dal 15 al 17 gennaio. Sulle data si registra la perplessità del civatiano Gianni Principe: il periodo coincide con la campagna per le primarie del centrosinistra in alcune importanti città. Come Milano, sulla quale fin qui gli orientamenti di Sel non coincidono con quelli del Prc e di Civati. Scaramucce fra Possibile e Sel anche sul nuovo gruppo parlametare «Sinistra italiana», che domani sarà presentato al Teatro Quirino di Roma. Un’esperienza spiegata da alcuni come il braccio parlamentare del nuovo soggetto della sinistra; un’equivalenza invece «micidiale» per i civatiani, che non ci stanno. Nicola Fratoianni (Sel) li ha rassicurati: «I nuovi gruppi non si sostituiscono al processo politico né da loro nasce il nuovo soggetto. Proveranno ad essere piuttosto un ’terminale sociale’ (la definizione è di Stefano Rodotà, ndr) che si mette a disposizione della sinistra». Per Civati si tratta comunque di «un’operazione di palazzo». Anche se da Montecitorio filtra un’altra imminente «operazione», la nascita di un sottogruppo fra civatiani ed ex M5S, oggi nel misto.

Corriere 6.11.15
Lo scandalo in Vaticano: Monica Cirinnà

La relatrice pd sulle unioni civili e la casa di Propaganda Fide
Chiamata in causa per una casa di 100 mq, su due livelli, in via dell’Orso, a due passi da piazza Navona, presa in affitto da Propaganda Fide a soli 360 euro al mese
La senatrice dem: «Falso, mi vogliono screditare. I preti ci dissero che se avessimo ristrutturato ci avrebbero spalmato il costo per 12 anni: sborsammo 150 milioni»

Corriere 6.11.15
Politici e manager finiti nella rete dei ricatti vaticani
di Fiorenza Sarzanini


Dalle rivelazioni di Francesca Chaouqui si arriva ai conti «laici» dello Ior, ai depositi cifrati utilizzati per veicolare proventi di attività illecite.
ROMA Parlava con ministri e alti prelati, giornalisti e imprenditori, a tutti assicurava di poter risolvere problemi, fare favori, ottenere vantaggi. Ma il sospetto è che poi utilizzasse quelle informazioni per ottenere incarichi prestigiosi per sé e per le persone a lei vicine. Per questo adesso sono in molti a temere le rivelazioni di Francesca Chaouqui, la lobbista finita sotto inchiesta per i documenti trafugati in Vaticano insieme con monsignor Lucio Angel Vallejo Balda. Si intrecciano le indagini. Gli elementi raccolti dal pubblico ministero di Terni Elisabetta Massini — che accusa di estorsione e intrusione informatica insieme con il marito Corrado Lanino — saranno trasmessi la prossima settimana ai magistrati di Roma e probabilmente anche al promotore di giustizia della Santa Sede. Sono numerosi i filoni aperti e quello più concreto porta ai conti «laici» dello Ior, ai depositi cifrati utilizzati per veicolare proventi di attività illecite. E adesso si scopre che le tangenti pagate per velocizzare le pratiche di beatificazione e canonizzazione hanno generato un giro d’affari da milioni di euro nel quale si sarebbe inserito anche don Evaldo Biasini, il prete che si era trasformato in una sorta di bancomat a disposizione degli uomini della «cricca» arrestati nel 2011 per aver gestito in maniera illegale gli appalti del G8: dal costruttore Diego Anemone al provveditore alle opere pubbliche Angelo Balducci, all’epoca gentiluomo di sua Santità.
Le intercettazioni e i soldi per la Curia
I filoni investigativi sono diversi, ma spesso collegati. Indagando sul dissesto della Curia di Terni e la vendita «pilotata» di alcuni beni il pm decide di attivare una serie di intercettazioni. Anche la Santa Sede avvia un’inchiesta interna e i risultati sono sorprendenti. Perché Chaouqui si propone a monsignor Vincenzo Paglia, all’epoca vescovo della città, per un piano di risanamento. La girandola dei contatti fa impressione. La donna ha dimestichezza con numerosi prelati, parla spesso al telefono con il fondatore della comunità di sant’Egidio Andrea Riccardi molto legato a Paglia, contatta imprenditori, avvocati, altri politici. Mostra di voler risanare i bilanci ma poi fa sapere di aver ottenuto informazioni riservate, le utilizza per fare «pressioni». Gli accertamenti svolti dal nucleo Valutario della Guardia di Finanza dimostrano come sia riuscita ad «accedere» ad alcuni computer grazie alle capacità del marito di utilizzare tecniche di intrusione. Non è la prima volta, in passato la coppia era addirittura entrata di notte in uno studio legale per carpire carte riservate: a tradirla le telecamere a circuito chiuso. Un metodo che la donna avrebbe utilizzato dopo essere stata nominata membro della Cosea, la Commissione referente per lo studio dei problemi economici e amministrativi voluta da papa Francesco. Un luogo strategico per l’accesso ai dossier sulla gestione delle finanze della Santa Sede.
E don Evaldo custodiva i soldi
Secondo i controlli della gendarmeria sono centinaia gli atti rubati. Ci sono relazioni su Apsa, sui conti degli alti prelati, sulle spese personali da centinaia di migliaia di euro, su sprechi e abusi, ma soprattutto sullo Ior. Ed è proprio questo a generare la preoccupazione maggiore perché risultano sottratti documenti che non sono stati ancora utilizzati pubblicamente e ciò fa tremare le gerarchie vaticane. Si tratta di carte sui conti cifrati, sulla movimentazione occulta di alcuni depositi. La verifica disposta sui conti dei «postulatori» ha consentito di svelare l’identità di alcuni personaggi finiti nelle inchieste avviate dalla magistratura italiana. Tra loro Francesco Ricci, domenicano rettore della chiesa Santa Sabina all’Aventino che, tra il 2000 e il 2007, ha affidato un milione e 600 mila euro al broker Gianfranco Lande. Ma soprattutto don Evaldo che avrebbe movimentato due miliardi e mezzo di lire proprio per pagare chi poteva accelerare le cause di beatificazione dei dominicani, l’ordine di cui faceva parte. E questo consente di aprire nuovi scenari visto che proprio le indagini sugli appalti del G8 avevano rivelato come alcuni imprenditori e funzionari coinvolti in quell’indagine fossero titolari diretti o beneficiari dei depositi attivi presso l’Istituto per le opere religiose anche grazie ai loro legami con alcuni prelati. Rapporti stretti coltivati soprattutto da Balducci che aveva un ruolo strategico anche all’interno di Propaganda Fide, che gestiva e affittava centinaia di immobili e poteva disporre di case e terreni come fossero propri.

il manifesto 6.11.15
Berlino ammette la crisi: «arrivi ingovernabili»
Germania. Il collasso del sistema di accoglienza dei migranti rimanda la rottura all’interno della Koalition
di Sebastiano Canetta


BERLINO Oscurato dalla baruffa tra Cdu e Spd sugli hot-spot per i migranti, offuscato dalla crisi bavarese e dalla rivolta sassone, congelato perfino nell’agenda dell’opposizione. Eppure il collasso del sistema dell’accoglienza in Germania è più che conclamato, e il default tedesco, non solo organizzativo, misurabile anche dai non addetti ai lavori.
Sarà per questo che, per ora, nessuno nella Koalition ha (davvero) intenzione di aprire la crisi di governo e neppure i falchi della minoranza, al di là delle dichiarazioni, possono permettersi di sparare politicamente ad alzo zero. Di fatto il crollo della «struttura» — tutt’altro che imprevedibile — è il vero incubo di tutti i partiti e fa più paura delle elezioni nei Land (a marzo 2016 si vota in tre Stati) e a livello federale (2017). Così, nella capitale si naviga a vista, nell’incapacità di gestire, sul serio, il milione di profughi presenti nel Paese entro la fine dell’anno.
Flusso impossibile da controllare, a Berlino «arrestato» a fatica perfino dalla Bundespolizei che il 26 ottobre ha fermato «casualmente» 65 tra siriani, eritrei e arabi sfuggiti alla registrazione nel Brandeburgo. Aspettavano sui binari della stazione di Südkreuz un treno diretto in Svezia, senza le carte e i bolli giusti. Gli agenti li hanno rispediti subito oltre confine, girando la «pratica» al Land di provenienza. Finora il «federalismo reale» ha funzionato così: facendo rimbalzare il problema qualche decina di chilometri più in là.
Un tampone, in tutti i sensi, spinto ben oltre la capacità di assorbimento del sistema e anche del buon senso, come a Sumte, borgo di 102 abitanti nella Bassa Sassonia, destinato a ospitare il… quintuplo di rifugiati. I primi 50 sono arrivati tre giorni fa a bordo di un bus, accolti dal comitato di residenti e dai 4 poliziotti di stanza nel comune. Ora l’«integrazione» è affare loro e il caso, anche se solo sotto il profilo della competenza, è risolto.
Del resto, non ci sono alternative: i centri riservati all’accoglienza dei migranti sono letteralmente implosi, soprattutto nella capitale che si scopre impreparata a ricevere i 20.000 profughi previsti nei prossimi due mesi. A Berlino la situazione è già insostenibile: basta fare un giro nel quartiere di Moabit, a tre fermate di metropolitana dalla cancelleria di Angela Merkel, davanti alla sede del Lageso, l’ufficio socio-sanitario predisposto alla registrazione dei richiedenti asilo. Qui da agosto la situazione è fuori controllo, anche se il livello di guardia viene superato ufficialmente solo il 24 ottobre: a passare il limite è un addetto della security (privata) che «stende» violentemente a terra due profughi usciti dalla fila. E’«la legge del più forte» che rimbalza fin sulla stampa, la gestione «pratica» dell’emergenza, la norma quotidiana che affonda ogni regola.
Un disastro, peggio «una catastrofe» per dirla con le parole dei volontari dell’associazione Moabit Hilft dal 2013 in prima linea sul fronte dell’aiuto ai rifugiati. Appena «tollerati dalle autorità», puntano l’indice contro le istituzioni che «non collaborano» e denunciano l’imbarazzante stato del principale hub della città.
«Il Senato è politicamente responsabile della situazione catastrofica del Lageso» riassumono, prima di elencare i buchi neri dell’accoglienza di Stato: «L’ufficio sociale non assicura le cure sanitarie: nelle strutture ci sono solo i medici volontari, l’assistenza ufficiale non esiste». Si somma ai disservizi igienici forniti ai 500 profughi che ogni giorno affollano il Lageso (un wc chimico, costo: 50 cent a seduta) e alla sospensione dei diritti stabiliti dalla legge sull’asilo «con turni di attesa per il rilascio del primo documento fino a 57 giorni».
In più «chi arriva nel fine settimana non può accedere ai rifugi, le famiglie trovano tetto e cibo solo negli alloggi privati». Fallisce la prova dei fatti pure la distribuzione dei profughi negli ostelli: a Berlino anche chi è dotato del voucher garantito dal Land viene messo alla porta «a causa di ingenti arretrati o di modalità di pagamento non accettate». Il risultato è che «i rifugi stabiliti dal Senato respingono gli sfollati» rimarca chi li assiste sul campo.
Fa il paio con l’implosione burocratica confermata dallo stesso personale del Lageso: «Negli uffici mancano 200 impiegati fra traduttori, mediatori, addetti alle registrazioni» mentre il reclutamento dei pensionati, richiamati per tappare le falle in organico, al massimo serve a guadagnare tempo.
Quello che manca però è soprattutto lo spazio. Non si trova nei quartieri «sovietici» di Berlino est come Marzahn dove l’opposizione frontale dell’ultradestra e dei populisti filo-Pegida appare scontata, ma nemmeno a Reinickendorf, nel nord-ovest, dove gli abitanti «resistono» alla trasformazione dell’ex fabbrica di Tetrapak in un Asylheim per 1.000 migranti. Procede più o meno secondo i piani solo il riallestimento del vecchio aeroporto di Tempelhof (quello del «ponte-aereo») con il montaggio dei letti a castello per circa 2.000 persone affidato all’esercito. Da solo però non basta, al punto che il Senato da una settimana è costretto a scandagliare gli annunci immobiliari su internet, come qualsiasi privato cittadino.
Forse, avvertono i volontari di Moabit, per risolvere il problema «le autorità aspettano che congeli il primo bambino o il gesto di disperazione di qualche profugo». Poco importa se il dramma a Berlino si è già consumato e per qualcuno la coda infinita davanti al Lageso è diventata davvero infernale: è il caso di Mohamed Januzi, bosniaco, 4 anni, perso di vista dalla madre il 1 ottobre nel caos delle registrazioni, ritrovato cadavere un mese dopo nel bagagliaio dell’auto di una guardia giurata (tedesca) con segni di abusi e tortura. Tutto mentre al Bundestag si discuteva dei controlli, per gli stranieri.

il manifesto 6.11.15
Il ministro greco Mouzàlas: «L’Europa illuminista batterà quella medievale»
Intervista. Parla il viceministro greco all'Immigrazione Janis Mouzalas
intervista di Teodoro Andreadis Synghellakis


«La Grecia sta affrontando un’emergenza immigrazione dalle dimensioni vastissime: sulle nostre coste arrivano dai 10 ai 12 mila profughi e migranti al giorno» dice al manifesto Janis Mouzàlas, il ministro greco responsabile per le politiche dell’immigrazione.
Medico, per anni in prima linea con l’associazione Medici del Mondo, è stato nominato ministro nel governo elettorale formatosi a fine agosto e riconfermato nel nuovo esecutivo di Syriza. Ieri a Roma ha incontrato Angelino Alfano, e nelle stesse ore, vicino all’isola di Kos, due bambini sono morti nell’ennesimo naufragio. Oggi Mouzalas visiterà il centro di accoglienza dell’isola di Lampedusa.
Lei ha parlato spesso dell’importanza della collaborazione con la Turchia, per affrontare meglio il fenomeno delle ondate migratorie e il primo ministro Alexis Tsipras sarà a breve in visita ad Ankara.Pensa si possa collaborare sulla questione dei profughi e degli immigrati, nonostante i metodi usati da Erdogan?
Credo che senza la Turchia non possa esserci una soluzione, neanche un inizio. La vera via d’uscita, ovviamente, sarebbe quella di fermare le guerre, ed è una cosa che spesso dimentichiamo. Ma l’Europa deve comunque trovare il modo di arrivare a risolvere questo problema. Penso che sia pessimistico dire solo che la situazione politica in Turchia, sulla quale ciascuno ha la sua opinione, non è di aiuto. Non possiamo dimenticare il dato di fatto che, per arrivare a una soluzione, si devono riuscire a controllare i flussi da quel paese.
Cosa chiede la Grecia?
La Grecia partecipa con spirito di responsabilità alle riallocazioni, e ha già effettuato la prima, ma crede che la soluzione principale arriverà attraverso la proposta Juncker per il reinsediamento. Stiamo parlando di permettere ai profughi di insediarsi in Europa, attraverso un procedimento e scelte fatte nei paesi dove giungono prima di entrare nell’Ue: Turchia, Giordania e Libano. È necessario dal punto di vista pratico, ma è anche moralmente giusto. Queste persone, per arrivare in Europa, mettono a repentaglio la loro vita e a volte muoiono. Tutto ciò deve finire, l’Europa deve difendere quella parte della sua identità che la rende un punto di riferimento dei diritti umani e della democrazia.
Alexis Tsipras, dopo l’incontro con Martin Schulz, ha dichiarato che, mentre gli abitanti delle isole greche accolgono a braccia aperte i profughi, l’Europa chiede al governo di Atene di aumentare l’Iva per queste stesse isole.
Con l’emergenza profughi e migranti, l’Ue è davanti a un dilemma esistenziale: l’Europa dell’illuminismo e del romanticismo lotta contro quella del Medio Evo. Noi siamo, ovviamente, con la prima, siamo per i diritti umani, lo stato sociale, la Convenzione di Ginevra. Ci sono anche le forze contrarie, e parlo di nazioni ma anche di parte delle popolazioni. Dal risultato di questa lotta capiremo se l’Europa diventerà un’unione di nazioni xenofobe o un grande paese che difende i suoi valori. Quanto alle dichiarazioni di Alexis Tsipras, un’isola come Lesbo, che affronta continui arrivi di migranti e ha speso tutti i fondi a disposizione, credo sia logico che possa avere diritto a una riduzione dell’Iva. È normale, dopo spese del genere, chiedere un alleggerimento degli obblighi in materia economica. Ma non è questa la cosa determinante. La cosa principale è che l’Unione assuma su di sé il peso economico della gestione dell’emergenza profughi.
All’interno di Syriza c’è chi chiede di abbattere la barriera creata nella regione dell’Evros, al confine con la Turchia, e di creare corridoi legali per il passaggio dei migranti. Qual è la sua posizione?
La richiesta di abbattere il muro ha un carattere soprattutto simbolico. Su un totale di 122 km, ne copre solo 10. La sostanza è di aprire dei passaggi nella zona dell’Evros, e dal punto di vista teorico e logico è giusto. Quello che dico, basandomi sulla mia esperienza, è che nella fase attuale non ci sono le condizioni necessarie. Una posizione sostenuta anche dal governo greco. Sarebbe necessaria una collaborazione con la Turchia per fare in modo che si possa controllare chi arriva al confine, anche dal punto di vista numerico. Per non arrivare a scene viste in altri paesi, con violenze e condizioni estreme. L’Europa, poi, deve smettere di funzionare à la carte, con i paesi membri che decidono, quando vogliono, di costruire barriere, muri, di aprire e chiudere i propri confini. Senza queste condizioni, i profughi rischiano di rimanere intrappolati a decine di migliaia nel nostro paese, di perdere una gran parte dei loro diritti, imboccando una strada senza uscita.
Quello greco è l’esecutivo più a sinistra in tutta l’Ue. Da cosa emerge, secondo lei, questa identità, nella vostra politica sull’immigrazione?
Vogliamo che vengano rispettati i diritti dei profughi, che venga attuato il Trattato di Ginevra e che per la popolazione locale ci siano le minori conseguenze possibili. Perché, se in un’isola con 10 mila abitanti arrivano, ogni notte, 20 mila profughi e migranti, capiamo che per la comunità locale è impossibile riuscire a sostenere questo peso. Il popolo greco ha mostrato una solidarietà incredibile, non ci sono stati fenomeni di razzismo e xenofobia. È stata chiesta solo una distribuzione più equa del peso complessivo per ridurre la pressione, il che è comprensibile. Ed è quello che stiamo cercando di fare

il manifesto 6.11.15
L’Ue chiede aiuto all’Africa
Profughi. 1.5 miliardi di euro per i paesi africani che fermeranno il flusso di migranti
di Carlo Lania


La crisi dei profughi che negli ultimi mesi ha quasi messo in ginocchio l’Europa e fatto sorgere nuovi muri fino al punto di mettere a rischio uno dei suoi principi fondamentali come il trattato di Schengen, potrebbe non essere niente se paragonata a quanto si starebbe preparando per il futuro. L’allarme arriva dalla Commissione europea che ha corretto al rialzo le stime degli arrivi di nuove masse di rifugiati nel vecchio continente, ipotizzando altri tre milioni di richiedenti asilo entro la fine del 2017. Per ora si tratta di stime che non terrebbero conto di alcune variabili fondamentali — come ad esempio un auspicabile fine dei conflitti in Siria e Libia o il raggiungimento di accordi con Paesi terzi per fermare i flussi di migranti — ma considerate comunque attendibili, tanto da essere inserite dalla commissione guidata da Jean Claude Juncker nelle previsioni economiche dell’autunno. Stime che, spiegano a Bruxelles, se confermate corrisponderebbero a «un aumento della popolazione dello 0,4%, tenendo conto che alcuni richiedenti asilo non riceveranno la protezione internazionale».
Non si tratta dell’unica notizia preoccupante. Un altro allarme, ben più importante e urgente, arriva infatti dall’Unhcr e riguarda i profughi che cercano di raggiungere il nord Europa attraverso la rotta balcanica. Stando all’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati tra novembre e il prossimo mese di febbraio sarebbero almeno 600 mila le persone che intraprenderanno il viaggi partendo dalla Turchia e dalla Grecia. 5.000 al giorno, costrette a marciare spesso a piedi e al freddo. «Le condizioni atmosferiche avverse della regione rischiano di aggravare le sofferenze di migliaia di rifugiati e migranti e potrebbero causare ulteriori perdite di vite se non verranno prese con urgenza le adeguate misure», avverte l’Unhcr chiedendo ai paesi donatori di fare uno sforzo economico per scongiurare il peggio: «Servono altri 96 milioni di dollari per rifugi a prova d’inverno, abbigliamento caldo, cibo e trasporto».
L’attenzione su quanto potrebbe accadere fin dalle prossime settimane è quindi massima. E le previsioni di queste ore non potranno non pesare sul vertice che l’11 e il 12 novembre riunirà a La Valletta i capi di Stato e di governo dell’Ue e di un nutrito gruppo di paesi africani e con cui l’Europa spera di trovare nuove forme, anche economiche, per fermare i flussi di migranti. «Sarà un momento importante per alzare il livello della cooperazione e per proseguire nei processi di Rabat e Khartoum, coordinando la lotta ai trafficanti di uomini a una gestione più ordinata dei flussi migratori» spiega il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, appena tornato da un viaggio i Germania dove ha fatto il punto sulla crisi dei migranti con esponenti del governo di Berlino. «L’obiettivo è quello di preparare un trust fund per aumentare la cooperazione, con aiuti fino a 1,5 miliardi di euro. L’Italia ha già contribuito con 10 milioni di euro».
Un vertice non privo di contraddizioni per l’Europa, visto che, tra gli altri, è prevista la partecipazione anche di esponenti del regime eritreo.
Ulteriore segno della gravità del momento è la decisione annunciata nei giorni scorsi da Donald Tusk di far seguire al summit con i paesi africani un vertice informale dei capi di Stato e di governo dell’Ue, sempre a Malta. Nella lettera di invito inviata nei giorni scorsi a paesi membri, il presidente del consiglio europeo ha ricordato come la situazione sia ancora grave: «Il flusso migratorio continua a un ritmo senza precedenti», ha scritto. «A ottobre abbiamo raggiunto il livello record di 218 mila rifugiati e migranti che hanno attraversato il Mediterraneo». Ma soprattutto ha messo in evidenza i rischi per l’Unione derivanti dalla decisione di alcuni paesi di erigere nuove barriere per fermare i migranti. «L’unico modo per evitare lo smantellamento di Schengen — ha avvertito Tusk — è il rinforzo della frontiera esterna europea». Ed è proprio questa la partita che Bruxelles si prepara a giocare con la Turchia e i paesi africani.

Repubblica 6.11.15
Amos Oz “boicotta” le ambasciate di Israele
Lo scrittore: “Così contesto Netanyahu”


TEL AVIV In polemica con il governo di Benyamin Netanyahu, Amos Oz, uno dei più grandi scrittori israeliani, fino a nuovo ordine non accetterà più inviti per eventi da parte delle ambasciate del suo Paese quando si trova all’estero per presentare i suoi libri. Da sempre su posizioni progressiste e pacifiste – nelle ultime elezioni si è apertamente schierato con la sinistra del Meretz – Oz ha motivato la sua decisione con «la radicalizzazione della politica dell’attuale governo» di Netanyahu. «Mi sento a disagio – ha detto parlando con il sito
Ynet – a partecipare ad eventi di cui sia promotore il governo ». Una scelta netta che però, come ha precisato lui stesso al sito, non vuole avere nulla in comune con il boicottaggio di Israele propugnato a livello internazionale dal movimento Bds. Amos Oz si è detto convinto che si debba raggiungere la pace con l’Anp e che Israele deve accettare l’Iniziativa di pace dei paesi arabi del 2002. Per Oz, Netanyahu ha portato «il popolo di Israele in guerra con il mondo».

La Stampa 6.11.15
Marijuana legale in Messico, una svolta per le Americhe
Ma la decisione della Corte Suprema non darà un colpo decisivo ai narcos
di Federico Varese


Vi sono due modi di leggere la decisione della Corte suprema messicana che accoglie il ricorso di un gruppo di attivisti favorevoli alla legalizzazione della marijuana.
Una versione vorrebbe che la sentenza sancisca lo status quo, è solo un passo insignificante in una direzione che non verrà mai intrapresa poiché non lo vuole la maggioranza della popolazione messicana, né la classe politica, incluso il Presidente. Un’altra interpretazione suggerisce che il regime proibizionista stia per crollare in tutta l’America Latina, Messico incluso.
Cosa dice esattamente la sentenza dei cinque giudici, quattro a favore e uno contrario? In risposta al ricorso di una associazione chiamata Smart, la Corte ha sancito che «coltivare, possedere e fare uso di marijuana a scopo ricreativo» è un diritto costituzionale. Oggi questi atti sono illegali, ma depenalizzati. A questo punto le opinioni si dividono: per il Presidente Enrique Peña Nieto, la sentenza non apre le porte alla legalizzazione del consumo, del commercio o del trasporto della marijuana. Non fa altro che confermare quello che già avviene in pratica. Il Presidente ha dalla sua parte l’opinione pubblica: secondo un sondaggio recente, solo il 20% della popolazione è favorevole a un cambiamento della legge e l’opposizione della Chiesa cattolica è netta. Gli esperti aggiungono che la Corte deve confermare questa decisione in altri cinque casi simili affinché la sentenza stabilisca un precedente in grado di cambiare la legge.
Punto critico vicino
L’interpretazione minimalista dimentica che i cambiamenti epocali non avvengono in maniera graduale. Il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est è stato repentino, come l’emergere della norma contro il fumo nei luoghi pubblici, l’accettazione delle relazioni tra persone dello stesso sesso e l’aborto. Minoranze con lo sguardo rivolto al passato sono dure a morire, ma diventano sempre più marginali. Oltre un certo punto, il cambiamento è inarrestabile, come spiega Malcol Gladwell nel suo saggio magistrale «Il punto critico» (2000).
L’America Latina sta per raggiungere il suo punto critico. L’Uruguay ha legalizzato il consumo nel 2013, in Cile da quest’anno si può produrre cannabis per scopi medici, in Brasile la corte suprema sta dibattendo la depenalizzazione, mentre in Bolivia è legittimo l’uso tradizionale di foglie di coca. In Colombia, il presidente Santos, un fautore della legalizzazione, ha ordinato la fine del programma di fumigazione aerea di glisofato. Lo stesso Messico ha di recente introdotto l’uso della marijuana per motivi sanitari. Una bambina di otto anni, che soffre di convulsioni a causa di una rara malattia, è stata il paziente zero. Fino a qui gli sviluppi recenti in America Latina, ma non dimentichiamo che quel continente include anche altri due Paesi, Canada e Stati Uniti.
Il programma elettorale del primo ministro canadese, Justin Trudeau, non potrebbe essere più chiaro: «Siamo a favore di legalizzare, regolamentare e ridurre l’accesso alla marijuana». Solo a Vancouver – una città da anni all’avanguardia su questi temi – vi sono 176 negozi che vendono cannabis, ma solo 11 hanno l’autorizzazione. Nondimeno, nessuno è intervenuto per chiuderli e adesso il capo della polizia locale si è detto pronto a collaborare col governo per scrivere una nuova legge, molto probabilmente sul modello di quella in vigore nello stato americano del Colorado.
Il Canada sarà il prossimo
Nelle fasi di transizione si assiste a molti paradossi. Negli Stati Uniti, ventiquattro Stati hanno legalizzato l’uso della cannabis, ma per il governo federale il consumo rimane illegale, anche per ragioni mediche. Hillary Clinton ha fino ad ora rifiutato di prendere posizione a favore di un cambiamento della legge, ma ha detto chiaramente che, se eletta, non si opporrà alle decisioni di stati che intendono seguire l’esempio del Colorado e dell’Alaska, dove il consumo è libero. Un Presidente repubblicano potrebbe rallentare, ma non bloccare del tutto, questa valanga.
Solo gli osservatori più ingenui credono che la legalizzazione possa dare un colpo mortale ai cartelli messicani. Questi ultimi subiranno sì una riduzione dei loro profitti, ma continueranno a prosperare attraverso il controllo di altri mercati, di altre merci, di altre droghe. E non vi è dubbio che un consumo smodato possa avere conseguenze negative, come avviene per molti cibi e bevande. È solo giunto il momento di accettare che le persone possono fare scelte diverse dalle nostre e nondimeno meritano rispetto e protezione. I giudici messicani lo hanno capito.

Corriere 6.11.15
Effetto domino della cannabis liberalizzata in America


Ventiquattro ore dopo il no dell’Ohio alla liberalizzazione della marijuana, la Corte Suprema del Messico ha aperto alla legalizzazione della cannabis. Decisioni opposte che sembrano maturate in due mondi lontani. In realtà è proprio quello che sta accadendo nella frastagliata realtà degli Stati Uniti, dove i conservatori dell’Ohio si oppongono a un’apertura che è già fatto compiuto in altri Stati (dal Colorado all’Oregon, da Washington all’Alaska) a spingere il Messico e altri Paesi a rivedere le norme in materia di droghe leggere.
Il Messico è uno dei Paesi con le leggi antidroga più severe e quello dei suoi giudici è solo un primo passo: il riconoscimento che i cittadini possono coltivare e distribuire marijuana per uso personale apre la strada alla modifica di un sistema repressivo che non ha impedito la nascita di un immenso business criminale e la diffusione della corruzione tra i politici.
Il tutto per combattere la produzione di droghe pesanti, ma anche quella della cannabis che rappresenta tuttora un quinto del giro d’affari dei trafficanti, salvo poi essere liberamente venduta almeno in parte degli Usa. Che senso ha continuare a mantenere norme restrittive a questo punto? È quello che si sono chiesti i giudici messicani.
Depenalizzare non è una soluzione, anche perché le droghe più pesanti restano proibite ovunque, ma è evidente che il clima sta cambiando. E se anche Obama cerca di ridurre il sovraffollamento dei penitenziari con scarcerazioni anticipate per i crimini di droga meno gravi, altri Paesi sudamericani si sono già mossi: dall’Uruguay che ha legalizzato la marijuana due anni fa al Brasile che sta per depenalizzare anche la cocaina. In Colombia il presidente Santos, grande alleato degli Usa nella lotta contro il narcotraffico, si chiede perché continuare a imprigionare poveri coltivatori di un’erba che può essere legalmente venduta negli Stati Uniti .

Il Sole 6.11.15
Le contese del Mar cinese meridionale
La strategia di Pechino con i vicini di casa
di Rita Fatiguso


Gestire i rapporti con i vicini di casa, un manipolo di Paesi piccoli ma estremamente conflittuali, è diventata una priorità diplomatica del presidente cinese Xi Jinping da ieri in visita in Vietnam. È la prima di un presidente cinese in dieci anni in un altro Paese comunista con il quale, però, Pechino è in urto per divergenze territoriali nelle acque del Mar della Cina Meridionale. Nei giorni scorsi Xi ha incassato la scomoda decisione della Corte permanente di arbitrato che ha emanato il parere sul ricorso delle Filippine contro la Cina, stabilendo che la giurisdizione c’è e che adesso si può entrare nel merito delle eccezioni di Manila sulle pretese cinesi nello stesso Mar della Cina. D’obbligo, quindi, per Xi Jinping cercare di ammorbidire i rapporti con Hanoi che hanno toccato il fondo proprio l’anno scorso quando la Cina ha piazzato una gigantesca piattaforma petrolifera nei pressi di un’isola nell’arcipelago delle Paracelse rivendicato, appunto, dai vietnamiti. L’iniziativa ha innescato brutali reazioni da parte dei vietnamiti contro i cinesi residenti nel Paese. Pechino reclama la sovranità sulla base di una “linea dei nove punti” che passa a poche miglia dalle coste di una serie di Paesi tra cui il Vietnam. Non c’è solo Hanoi, le rivendicazioni cinesi si scontrano, come è noto, con quelle di Filippine ma anche Malesia, Brunei e Taiwan. Non a caso terminata la visita in Vietnam Xi Jinping andrà a Singapore dove sabato prossimo incontrerà in un vertice definito storico – è il primo in 66 anni - il presidente taiwanese Ma Ying-jeou.
Con il Vietnam la Cina ha il suo bel lavoro da fare, il segretario del partito comunista, il generale Nguyen Phu Trong, è stato il primo capo del partito vietnamita a visitare gli Stati Uniti quest’anno, mentre il Vietnam ha firmato storici accordi di cooperazione di difesa con Washington (in pratica è caduto il divieto di compravendita di armi) mentre Hanoi è stata cruciale nei colloqui per arrivare alla sigla del TPP, il Trans Pacific Partnership voluto fortemente da Washington. Nulla di strano, nonostante la storia controversa tra Vietnam e Stati Uniti, se non fosse che il Paese è legato economicamente a doppio filo alla Cina, dalla quale importa materiali e macchinari. Per quanto strabica, la politica di Hanoi punta a fare in modo di mantenere buone relazioni con la Cina, anche mentre si lavora alla costruzione di forti legami con gli Stati Uniti. Dopo lo sconfinamento nelle 12 miglia da parte del cacciatorpediniere nelle isole artificiali Spratly, si è anche registrato l’arrivo dell’ammiraglio Henry Harris il quale in buona sostanza ha fatto capire, durante il ciclo di lezioni e visite tra Corea del Sud e Cina che i pattugliamenti in quell’area continueranno, anzi diventeranno una routine. Pechino in queste ore ha anche incassato la dichiarazione ostile di alcuni Paesi Asean sul concetto di libertà di navigazione che non coincide con la versione cinese, a Kuala Lumpur si è svolto infatti il terzo incontro dei ministri Asean della Difesa. Il fatto che tre navi cinesi siano in visita amichevole in Florida non è sufficiente a far abbassare i toni né le tensioni in questa parte estremamente agitata del mondo.

Repubblica 6.11.15
Arundhati Roy : “Basta violenza e intolleranza questa non è la mia India”
La scrittrice restituisce un premio letterario per protesta contro la politica del governo Modi, accusato di essere complice dell’ondata di soprusi e assassinii contro la comunità musulmana
di Arundhati Roy


Arundhati Roy è una dei maggiori scrittori indiani contemporanei: il suo libro più famoso è “Il Dio delle piccole cose”. In Italia i suoi libri sono pubblicati da Guanda

Anche se non penso che i premi siano una misura del lavoro che facciamo, mi piacerebbe aggiungere il premio nazionale per la migliore sceneggiatura, che ho vinto nel 1989, alla pila sempre più alta di premi che ho restituito. E voglio anche mettere in chiaro che non sto restituendo questo premio perché sono «scioccata» da quella che viene definita la «crescente intolleranza» incoraggiata dal governo in carica.
Prima di tutto, «intolleranza» non è la parola esatta per definire i linciaggi, le sparatorie, gli incendi e le stragi di altri esseri umani.
In secondo luogo, avevamo già abbondanti indizi di quello che ci aspettava, perciò non posso sostenere di essere scioccata da quello che è successo dopo che questo esecutivo è arrivato entusiasticamente al potere sull’onda di una maggioranza schiacciante.
In terzo luogo, questi orrendi omicidi sono solo un sintomo di un malessere più profondo. La vita è un incubo anche per chi non viene ucciso. Intere popolazioni – milioni di intoccabili, membri delle tribù indigene, cittadini di fede musulmana e cristiana – sono costrette a vivere nel terrore, senza sapere quando e da quale direzione arriverà l’aggressione.
Oggi viviamo in un Paese dove quando sicari e apparatcik del Nuovo Ordine parlano di «massacro illegale» si riferiscono alla mucca immaginaria ammazzata, non all’uomo reale assassinato. Quando parlano di raccogliere «prove per l’esame giudiziario » dalla scena del crimine intendono il cibo nel frigorifero, non il cadavere dell’uomo linciato. Diciamo che siamo «progrediti », ma quando i Dalit, gli intoccabili, vengono macellati e i loro figli bruciati vivi, quale scrittore può liberamente dire, come fece una volta Babasaheb Ambedkar, che «per gli intoccabili, l’induismo è una vera e propria camera degli orrori» senza essere attaccato, linciato, assassinato o incarcerato? Quale scrittore può scrivere quello che scrisse Saadat Hasan Manto nelle sue «Lettere allo Zio Sam»?
Non importa se siamo o non siamo d’accordo con quello che viene detto. Se non abbiamo il diritto di parlare liberamente ci trasformeremo in una società affetta da malnutrizione intellettuale, una nazione di pazzi.
Tutto il subcontinente è impegnato in una corsa verso il basso, e la Nuova India si è unita alla gara con entusiasmo. Anche qui, ormai, la censura è stata esternalizzata alle folle inferocite.
Sono molto felice di aver trovato (da un lontano passato) un premio nazionale da restituire, perché mi consente di essere parte di un movimento politico messo in moto da scrittori, cineasti e studiosi di questo Paese, che insorgono contro una brutalità intellettuale e un’aggressione contro il nostro QI collettivo che ci farà a pezzi e ci seppellirà fin nel profondo se non ci opponiamo adesso. Quello che stanno facendo artisti e intellettuali è senza precedenti e non ha paralleli con nessun altro periodo storico. È politica con altri mezzi. Sono orgogliosissima di prendervi parte. E mi vergogno di quello che sta succedendo oggi in questo Paese.
Post scriptum: per la cronaca, ho restituito il premio della Sahitya Akademi nel 2005, quando al potere c’era il Partito del Congresso. Perciò, per favore risparmiatemi il dibattito Congresso contro Bjp. Ormai siamo ben oltre.

Repubblica 6.11.15
Raid e linciaggi in strada il terrore dei fanatici hindu
Nel Paese aumentano gli omicidi di “infedeli” Un uomo ucciso per aver mangiato vitello
di Raimondo Bultrini


BANGKOK La scintilla della ribellione tra le file dell’India secolare e gandhiana è scattata il 30 settembre, dopo che una folla di induisti in un villaggio a un’ora da Delhi ha ucciso un musulmano di 50 anni a colpi di mattoni, ferito gravemente il figlio e picchiato selvaggiamente il resto della famiglia sospettata di mangiare fettine di vitello.
In realtà nel loro frigo c’era solo carne di capra, ma il raid scatenato dai fanatici di Manipur è stato solo il riflesso di un fenomeno ben più vasto di intolleranza religiosa all’origine di numerosi altri omicidi in vari Stati della più grande democrazia del mondo, e non solo in nome dell’animale sacro per eccellenza degli hindu. Un intellettuale razionalista e uno scrittore contrario all’adorazione degli idoli sono stati uccisi negli ultimi mesi a sangue freddo per aver esposto pubblicamente le loro idee “blasfeme”.
La blanda reazione del governo a base religiosa del Bjp e la lentezza delle indagini per scoprire i responsabili tra le file dei gruppi fondamentalisti hindu, hanno convinto la comunità degli intellettuali ed artisti a raccogliersi per una protesta comune, diventata clamorosa con la decisione di 30 scrittori e filmaker di restituire i premi statali ottenuti durante la loro carriera. Per ultimo è stato uno dei più idolatrati attori di Bollywood, Shah Ruk Khan, a mettere tutto il peso della sua popolarità dalla parte del movimento progressista: «L’intolleranza religiosa – ha detto – e l’intolleranza di ogni genere, è la cosa peggiore e ci porta verso le ere oscure».
Per tutta risposta il potente ministro delle Finanze, Arun Jaitley, su Facebook ha definito il premier Narendra Modi «la peggiore vittima dell’intolleranza ideologica del Congresso, degli intellettuali di sinistra e degli attivisti». Ma gli episodi inquietanti come quello che del 30 settembre sono continuati, e lunedì scorso un altro musulmano è stato picchiato a morte in un villaggio vicino Manipur, nel Nord est, con l’accusa di aver rubato una mucca. Due settimane fa una delle numerose “pattuglie di difesa” dell’animale sacro costituite in diversi Stati dai devoti dei Veda, ha linciato l’autista di un camion che trasportava una mandria lungo le strade dell’Himachal Pradesh.
E ancora, il 18 ottobre, nel Kashmir del sud, folle inferocite hanno lanciato un ordigno incendiario contro un automezzo e ustionato a morte un ragazzo sospettato di commerciare bovini, provocando uno sciopero generale in tutta la delicata regione a maggioranza islamica contesa con il Pakistan. In questo caso il Bjp è sceso direttamente in campo con i suoi deputati locali che hanno assaltato un collega musulmano mentre reclamava provocatoriamente in aula il diritto di mangiare carne di mucca.
La lista degli episodi di violenza registrati da nord a sud è lunga e comprende intimidazioni, ronde notturne contro il “vizio”, stupri di ragazze colpevoli di sposare uomini di altre caste e fedi, boicottaggi di film e libri giudicati irriguardosi verso gli dèi e gli eroi dell’India. Ma l’assassinio dell’attivista sociale e razionalista Govind Pansare nel febbraio scorso in Maharastra, e quello dello scrittore Malleshappa M. Kalburgi, ucciso ad agosto in Karnataka, hanno alzato il livello di allarme contro la minaccia costante posta dai gruppi più estremi dello schieramento politico e religioso che supporta il governo.
La stessa Sonia Gandhi, leader del Congresso, ha guidato una marcia fino al palazzo presidenziale per accusare direttamente Modi di essere responsabile, con il suo silenzio, del clima di “paura e intimidazione” che regna nel Paese.

Corriere 6.11.15
1917: un passo falso della diplomazia tedesca
risponde Sergio Romano


Ero convinto che l’ingresso degli Stati Uniti nella Grande guerra fosse opera di uno scambio di cortesie tra i sionisti e gli inglesi. Ma il professor Emilio Gentile è di diversa opinione e
«ubi maior minor cessat». Gli Stati Uniti sarebbero intervenuti perché i tedeschi imprudentemente avevano sobillato i messicani con la proposta di formare un’alleanza contro gli Usa. Ne è una prova il telegramma Zimmermann. Può descriverci quelle vicende?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Arthur Zimmermann era il ministro degli Esteri del governo tedesco e il suo telegramma, intercettato e decifrato dai servizi britannici,conteneva istruzioni per l’ambasciatore di Germania a Città del Messico. Se il governo messicano avesse dichiarato guerra agli Stati Uniti, quello del Reich si sarebbe impegnato ad ottenere che l’America restituisse alla grande Repubblica latino-americana i territori (circa due milioni di chilometri quadrati) che le aveva strappato con la guerra del 1846. È certamente vero che il caso Zimmermann ebbe l’effetto di indebolire i settori isolazionisti della pubblica opinione americana e di mettere in serio imbarazzo la forte comunità tedesca degli Stati Uniti. Ma quell’episodio non sarebbe bastato a provocare il conflitto se non vi fossero state altre ragioni, più decisive.
Hans Morgenthau, uno dei maggiori studiosi della storia diplomatica europea e capofila della scuola realista, spiegava ai suoi allievi che le vere ragioni dell’intervento americano nella Grande guerra erano altre. Approdato all’Università di Chicago durante l’esilio americano, Morgenthau sosteneva nelle sue lezioni che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nonostante la guerra d’indipendenza e i loro frequenti bisticci negli anni successivi, erano uniti da un patto tacito. Gli Stati Uniti avrebbero rispettato la presenza britannica in Canada ma avrebbero considerato il resto del grande continente americano un’area d’influenza dove qualsiasi intervento europeo sarebbe stato sgradito e mal tollerato. Mentre la Gran Bretagna, d’altra parte, avrebbe garantito la libertà dei traffici nell’Oceano Atlantico. Lo sviluppo della flotta tedesca nel Novecento, quindi, non aveva preoccupato soltanto la Gran Bretagna. Anche gli Stati Uniti avevano assistito con timore alle ambizioni marittime di una potenza che stava acquistando in Europa una posizione dominante.
Queste preoccupazioni rispecchiavano gli interessi della classe dirigente, vale a dire un minoranza. Per portare il Paese in guerra, tuttavia, occorrevano altri argomenti, più adatti a suscitare le emozioni della pubblica opinione. Il caso Zimmermann dopo l’indignazione provocata dall’affondamento del Lusitania (un transatlantico britannico con molti passeggeri americani, silurato da un sommergibile tedesco al largo della costa britannica nel maggio 1915) ebbe questo effetto.

La Stampa 6.11.15
Addio a René Girard, denunciò l’origine violenta della società
Antropologo e filosofo, accademico di Francia, ha insegnato negli Stati Uniti
di Massimiliano Panarari


Ultranovantenne, si è spento René Girard, e con lui se ne va un’altra figura centrale delle scienze sociali del Secolo breve. Nonché uno di quegli intellettuali francesi che hanno dominato il dibattito culturale del secondo Novecento, portando nelle università statunitensi le teorie e le metodologie dello strutturalismo (e del post-strutturalismo), re-impacchettate Oltreoceano con l’etichetta di French Theory. Nato ad Avignone il giorno di Natale del 1923, fece – nemo propheta in patria – una carriera accademica quasi tutta a stelle strisce, tra Duke University, Johns Hopkins e Stanford, fino ad ascendere infine, nel 2005, al ristrettissimo «club» (un autentico Olimpo) degli «immortali» dell’Académie française.
Girard, che aveva esordito come archivista-paleografo, è stato un pensatore eclettico ed estremamente influente, in grado di attraversare gli steccati disciplinari nello sforzo di fondare un’antropologia volta all’interpretazione generale e «razionalistica» dei comportamenti dell’umanità, mettendo insieme critica letteraria, psicologia, etnologia e studio delle religioni. Ed è proprio il fenomeno religioso, letto sulla scorta di Durkheim e di Freud (che tanto hanno pesato sulla sua formazione, ma dai quali poi si separò, diventando altresì l’antagonista di Claude Lévi-Strauss), a risultare al centro delle sue riflessioni, che muovono dall’intuizione del desiderio mimetico e «triangolare», esplicitata nel libro seminale del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca.
Il desiderio si rivela appunto «triangolare» dal momento che tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si colloca un mediatore – il modello – che indica gli oggetti verso cui indirizzarlo. Ma è anche, piuttosto di frequente, un rivale; e Girard approda così all’altra idea fondamentale, quella della rivalità mimetica, tra capro espiatorio e cristianesimo (al quale si converte) che fa saltare la struttura omicidiaria delle società antiche con il paradigma della vittima innocente (Gesù Cristo).
«Intellettualmente» cristiano (poiché il sacro e le istituzioni religiose assicurano la coesione della società) e, al tempo stesso, «Darwin delle scienze umane», come lo celebra la «sua» Università di Stanford; se difatti la teoria della selezione naturale delle specie costituisce il fondamento razionale per la comprensione della varietà delle forme di vita, col meccanismo vittimario lo studioso francese ha inteso offrire il principio esplicativo razionale e unitario della pluralissima diversità delle forme sociali e culturali dell’umanità.
Il «girardismo» (ipotesi non suscettibile di verifica empirica a causa dei tempi lunghissimi, precisamente come il darwinismo) rappresenta dunque, per molti versi, un’estensione della biologia al dominio sociale, che ha peraltro trovato un insperato e insospettabile sostegno nella scoperta scientifica dei neuroni specchio. E Girard, per rimanere nel grande regno della natura (citando un suo editore italiano, Roberto Calasso, che citava a sua volta Isaiah Berlin), è stato uno degli ultimi «porcospini» che sanno, impareggiabilmente, «una sola grande cosa». A giorni uscirà Il tragico e la pietà (Edizioni Dehoniane, Bologna), il suo libro con un altro «grande di Francia», Michel Serres.

Repubblica 6.11.15
Addio René Girard, l’ultimo degli umanisti
È morto a 91 anni lo studioso che rilesse i miti fondando la teoria del capro espiatorio
di Roberto Esposito

Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. Si può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi
dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana. Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio. Come fin dalla sua prima grande opera,
Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare. Diversamente da quanto pensava Freud – che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato – Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.
Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione. Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti – naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale. Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo. I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima. Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” – è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) – si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare. Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile. Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.
Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio. Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.

Repubblica 6.11.15
Un diffidente che preferiva Don Chisciotte ai filosofi
di Roberto Calasso


Di René Girard si può dire che è stato l’ultimo dei grandi “ricci”, secondo la parola di Archiloco, su cui Isaiah Berlin ha intessuto una mirabile divagazione. Il “riccio”, a differenza della molteplice “volpe”, ha un’idea fondamentale, da cui trae un filo inesauribile di pensiero. Così Girard è stato capace di sviluppare un singolo pensiero – quello del “desiderio mimetico” – sino alle estreme conseguenze, coinvolgendo in successione alcuni grandi romanzieri dell’Ottocento, i Vangeli, Shakespeare, Clausewitz e toccando, fra l’uno e l’altro degli immani intervalli che separano questi continenti, una quantità di altri temi. Primo fra tutti quello che subito viene evocato dal suo nome: il capro espiatorio, su cui Girard ha scritto pagine che non si dimenticano.
Girard era un uomo roccioso, spigoloso, diffidente – con buone ragioni – sia della filosofia che dell’antropologia. Il vero terreno amato era per lui la letteratura, soprattutto quella dove l’intreccio è essenziale. Quindi il romanzo ottocentesco. Ma anche Shakespeare e Cervantes. Credo che Girard abbia detto, da qualche parte, che tutta la sua opera è nata da una copia del Don Chisciotte che leggeva da bambino.
Girard apparve sulla scena negli anni in cui fiorivano a Parigi, con eccessiva abbondanza, quelli che venivano definiti maîtres à penser. Fu un atto di alta saggezza, da parte sua, quello di fissare la sua base di vita negli Stati Uniti e non a Parigi. La sua fisiologia intellettuale lo rendeva piuttosto inadatto al clima ondivago degli ultimi decenni del secolo scorso. Così ebbe la fortuna di non essere mai veramente di moda. Eppure la sua opera, se confrontata con quella di altri maîtres à penser, e petits maîtres à penser, che sono stati in voga negli stessi anni, ha la certezza di rimanere viva, perché Girard è uno di quei rari scrittori che, anche contrastandoli, si dovrebbe esser sempre felici di incontrare.

Corriere 6.11.15
L’importanza di fare i conti con Croce
di Umberto Curi


Con il titolo Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel , nel 1907, compariva presso la casa editrice Laterza un’opera destinata a costituirsi come punto di riferimento obbligato. Autore era Benedetto Croce. La formula impiegata dal pensatore idealista — «ciò che è vivo e ciò che è morto» — era destinata ad essere imitata o parafrasata più volte, perché configurava un «metodo» di analisi estremamente incisivo. Nella lettura critica di qualunque filosofo (e dunque non solo di Hegel), non si trattava di limitarsi a ricostruirne l’articolazione concettuale. Ciò di cui si sottolineava l’esigenza era la formulazione di un giudizio, teso a cogliere quanto vi fosse ancora di attuale e intramontabile, e quanto vi fosse, invece, di irrimediabilmente caduco. Un vaglio severo ed esigente, quindi, lontano da ogni atteggiamento diplomatico e da ogni servilismo accademico.
Si potrebbe impiegare la stessa fortunata formula per compendiare in estrema sintesi il «taglio» della monumentale opera di Giuseppe Galasso, La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani (a cura di Emma Giammattei, Istituto italiano per gli studi storici, Il Mulino, pp. 551, e 60). A Croce, nel corso degli ultimi cinquant’anni, Galasso aveva già dedicato un gran numero di saggi. Ma nel testo ora pubblicato, pur essendo programmaticamente escluso ogni intento di delineazione complessiva e unitaria della filosofia crociana, Galasso sembra essere attratto dalla prospettiva di individuare, una volta per tutte, «ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Croce», procedendo dunque anche oltre gli importanti risultati raggiunti mediante i lavori precedenti.
Attraverso le tre parole indicate nel titolo, vengono raccolti e ordinati contributi originariamente comparsi in sedi e anni diversi, ricondotti dall’intelligente lavoro della curatrice ad alcuni assi tematici fondamentali, dalla storiografia alla politica, dall’etica all’estetica. Ne risulta un quadro generale mosso e variegato, dal quale balza fuori una figura irriducibile agli schemi tuttora prevalenti.
A Croce è infatti accaduto qualcosa di simile — fatte le debite differenze — alla sorte toccata a un autore da lui assai valorizzato, Karl Marx. Dopo aver dominato in maniera incontrastata la cultura italiana (e non solo filosofica) per oltre mezzo secolo, ed essere stato il «maestro», sia pure in forma indiretta, di legioni di intellettuali, come il pensatore di Treviri, travolto dal crollo del comunismo, così Croce nel secondo Dopoguerra è stato frettolosamente archiviato, liquidando la dialettica dei distinti, originale riformulazione della dialettica hegeliana, con l’etichetta sarcastica della «filosofia delle quattro parolette».
Nella grande maggioranza dei casi, questo passaggio non ha corrisposto a un capovolgimento dell’impostazione critica, ma semplicemente a una sua riconferma: dalla dogmatica soggezione all’autorità di un protagonista inattaccabile, si è transitati a una liquidazione sommaria, non meno aprioristica del consenso precedentemente espresso. Mentre ciò che ancora è utile e per certi aspetti necessario fare è instaurare un atteggiamento opposto, quale è quello che ci pare di cogliere nell’opera di Galasso: ritornare sulle pagine crociane restando al di fuori di ogni prospettiva apologetica, come di ogni attitudine unilateralmente demolitrice. Cercando, insomma, con obbiettività e rigore, di individuare davvero quel non poco e non marginale che è ancora «vivo», senza avere ritegno a denunciare insieme ciò che appare irrimediabilmente «morto».
Dobbiamo essere grati a Galasso per averci offerto una guida preziosa per inoltrarci in un’esplorazione che si preannuncia potenzialmente ricca di importanti scoperte.

La Stampa 6.11.15
“Neruda sarebbe stato assassinato”


È «altamente probabile» che il grande poeta Pablo Neruda, morto 42 anni fa, non sia stato ucciso dal cancro alla prostata ma sia stato assassinato. È quanto rivela un documento del ministero degli interni cileno, di cui riferisce il quotidiano spagnolo El Pais. Il rapporto afferma che poco prima della morte di Neruda il 23 settembre 1973 gli sarebbe stata praticata una iniezione, o avrebbe ingerito qualcosa, che avrebbe precipitato la sua morte sei ore e mezzo dopo. Neruda, che soffriva di un tumore alla prostata, avrebbe dovuto lasciare nei giorni successivi il paese per recarsi in Messico, forse per costituire un governo in esilio e denunciare le atrocità della giunta militare guidata dal generale Pinochet che aveva preso il potere con un golpe l’11 settembre. Il documento è pubblicato nella biografia «Neruda, il principe dei poeti» dello storico spagnolo Mario Amoros in uscita a Madrid.

Corriere 6.11.15
Addio ad Adele Cambria Giornalista femminista nella stagione dell’impegno


Piccola, grande Adele. E non è un modo di dire: bassina, minuta, occhi lampeggianti. Intelligente, anticonformista e femminista (nella stagione migliore), «la Cambria», 84 anni (nella foto Bianchi/Azimut), si è spenta ieri a Roma dopo una grave malattia. «Una donna in redazione c’è già», ripeteva Gaetano Afeltra, quando era direttore del «Giorno», alle aspiranti redattrici, esibendo la firma di Adele Cambria come fiore all’occhiello. Era l’epoca in cui il mestiere di giornalista non confaceva alle donne. Eccezioni a parte: Camilla Cederna, Oriana Fallaci. E lei, Adele. Il cui percorso professionale, però, si sarebbe caratterizzato nell’impegno civile e politico. Fu tra le fondatrici di «Noi Donne»; ma la sua «creatura» è «Effe» , la rivista di punta del Movimento di Liberazione della Donna, negli anni Settanta. Era grande amica di Pier Paolo Pasolini. Tanto da recitare in Accattone , Comizi d’amore e Teorema . Avendo prestato la sua firma, come direttore responsabile, a «Lotta Continua», con Adriano Sofri direttore politico, finì sotto processo (poi assolta) per un articolo sul delitto Calabresi. Il suo romanzo più recente è Storia d’amore e di schiavitù (Marsilio, 2000)