venerdì 4 settembre 2009

l’Unità 5.9.09
Intervista a Joumana Haddad, poetetessa e scrittrice libanese
“IO, CHE SCRIVO LA REALTA CON LE UNGHIE”
La poetessa libanese: «Scrivere vuol dire farlo sulla propria pelle, senza farsi sconti e nessuna concessione. La mia è una poesia che si può toccare: è anche andare in qualche modo “contro”, con ferocia e durezza»
Non è utopia: «Anche continuare a credere al bello è una forma di rivolta»
intervista di Francesca Ortalli


Dalle parole alla musica
La poetessa. Joumana Haddad è responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese “An Nahar”, capo redattrice di “Jasad”, rivista in lingua araba specializzata nelle arti e la letteratura del corpo. Ha pubblicato varie raccolte di poesia e diversi racconti. Per il suo “In compagnia dei ladri del fuoco” (An, Nahr 2006) ha intervistato un gran numero di scrittori, fra i quali Eco, Auster, Handke, Jelinek.
Il festival. Il “Settembre dei poeti” si svolge a Seneghe, piccolo paese del centro Sardegna. Allestito dallo scrittore Flavio Soriga ospiterà fino a domenica diversi poeti da tutto il mondo. Tra gli altri, Ascanio Celestini, Marc Porcu, Franco Loi, Lella Costa e Paolo Fresu in un omaggio musicale a Sergio Atzeni.

Poetessa, scrittrice, giornalista e membro del comitato del libro e della lettura presso il ministero della cultura libanese. Sono tanti i volti della libanese Joumana Haddad, artista a tutto tondo dalla scrittura graffiante ed incisiva. Nei suoi versi le parole svelano percorsi dell’anima ed esperienze che vengono da lontano, diventando realtà necessaria che non
ha paura di svelarsi al resto del mondo. Penna instancabile e dalle mille risorse, ha appena terminato il suo ultimo libro che uscirà l’anno prossimo in Italia. E, sorridendo, racconta che il titolo (rigorosamente top secret) l’ha trovato al suo arrivo in Sardegna. Joumana fino a domani sarà a Seneghe, paese nel centro dell’isola, ospite dell’ultima giornata di «Settembre dei poeti», festival allestito dallo scrittore Flavio Soriga.
Qual è il valore della parola nell’epoca della comunicazione di massa? «C’è una grande differenza tra le parole che sono della comunicazione di massa e quelle che appartengono alla poesia. Per me sono queste quelle autentiche, perché, anche se non cambiano il mondo, ci permettono di entrare in fondo alla nostra coscienza. Non sono così utopista e non credo che i versi possano cambiare la realtà, però possono aiutarci a comprenderla meglio nella sua essenza. Il che, alle volte, può farci soffrire». Che cosa intende quando dice di «scrivere con le unghie»?
«Vuol dire farlo sulla propria pelle, senza farsi sconti e nessuna concessione. Per questo la mia è una poesia che si può toccare, quasi una ricerca della fisicità della parola. È anche andare in qualche modo “contro”, con ferocia e durezza. Cerco così di raccontare me stessa, le mie paure, la mia parte nascosta che voglio far emergere senza nessuna ipocrisia». Ne “Il ritorno di Lillith” si rievoca la figura della donna prima di Eva, l’indomabile che rifiutò Adamo...
«Ci ribelliamo sempre, anche senza essere consapevoli. È una battaglia quotidiana che facciamo ogni mattina, quando scegliamo di alzarci e di vivere. Può essere una forma di ribellione anche continuare a credere che c’è qualcosa di bello che ci aspetta ogni giorno. Infatti la vita non ha più senso se pensiamo di avere avuto tutto. Per questo non bisogna accontentarsi ma cercare di andare sempre avanti, assaporando tutto».
Come vede la condizione femminile nel mondo di oggi? «È un disastro dappertutto, tranne forse che in Scandinavia. Nel mondo arabo è peggio ma anche in Italia non mi sembra che vada benissimo. Mi rattrista però il modo in cui i paesi occidentali vedono le donne arabe, come una grande massa compatta ed omogenea. Invece non è così, anche da noi esistono delle differenze, costruite su piccoli e grandi cambiamenti che sono importanti. Per questo bisogna guardare oltre i cliché». Cosa pensa delle politiche sull’immigrazione del governo italiano?
«Non essendo italiana non mi permetto di dare giudizi. In generale penso che ci siano alcune incomprensioni di fondo. Tutto il movimento migratorio che sta interessando l’Europa ha provocato reazioni di diverso tipo. La paura di quello che in qualche modo non ci appartiene e vediamo come “straniero” ha prodotto da un lato, una reazione di difesa e dall’altro, l’esasperazione di alcuni aspetti del mondo islamico. È come se ci si volesse “auto proteggere” dalla società occidentale. Non è un caso che in Europa ci siano moltissime donne velate. Questo è diventato per la coscienza europea un modello assoluto. Un altro aspetto importante riguarda l’atteggiamento di superiorità con cui l’occidente guarda i paesi arabi. Questo ha creato non pochi problemi: torto o ragione non stanno da una sola parte. C’è sempre un atteggiamento sbagliato quando si creano motivi di conflitto così gravi da non poter essere superati con il dialogo».

l’Unità 5.9.09
Sui tetti del provveditorato anche a Roma. Manifestazioni in tutta Italia
Il ministro adesso parla di premi e merito. Ma se non ci sono i soldi per le supplenze
Disastro scuola. Sale la protesta contro i danni della Gelmini
di Laura Matteucci


Scuola nel caos. Sindacati in piazza il 10 e il 14. Monta la protesta contro i tagli previsti da Tremonti e Gelmini. Le tappe di una riforma pensata solo per portare 8 miliardi al Bilancio e ridare prestigio alle private.

MILANO. Lunedì a Bologna si festeggia la riapertura di una scuola materna di periferia tagliata dal governo e finanziata dal Comune. La Regione Lazio stanzia quasi 60 milioni in tre anni per realizzare 5mila nuovi posti nei nidi aziendali e comunali. Nelle sedi regionali di tutta Italia si tengono incontri al vertice per definire (im) possibili reinserimenti e ammortizzatori sociali per le migliaia di docenti, tecnici e amministrativi che da quest’anno oltretutto in piena crisi economica non hanno più un posto di lavoro, nè fisso nè precario. Si fa da sè, cercando di limitare i danni della «riforma Gelmini», che per la scuola pubblica prevede solo tagli, al personale e ai finanziamenti, «ammantati di giustificazioni di efficientismo, razionalizzazione e addirittura formative e pedagogiche», come dice Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil, che si occupa di scuola. Più passano i giorni più la protesta sale. Un gruppo di precari di Roma, emuli dei colleghi di Benevento, è salito sul tetto del-
l’ufficio scolastico provinciale. Ovunque provveditorati occupati, cortei, insegnanti in catene e in mutande, mentre opposizione, sindacati, organizzazioni di docenti e di studenti si preparano ad una mobilitazione estesa e determinata. Sui siti rimbalza il «no Gelmini day», che prevede per oggi manifestazioni in decine di piazze. L’onda nata dopo i primi annunci del governo, era il giugno 2008, è pronta a ricomporsi, anche perché, se non ha travolto la «riforma», è riuscita nel corso di quest’anno almeno ad ostacolarla, rallentarne l’attuazione, e a produrre alcuni aggiustamenti di rotta. Quest’anno si parte «solo» con la scuola dell’obbligo, per le superiori se ne riparla nel 2010.
PRIMO: TAGLIARE
Nel 2008 Giulio Tremonti, appena riconfermato superministro all’Economia, convoca la collega all’Istruzione Mariastella Gelmini e le impone tagli per circa 8 miliardi in tre anni: tradotto, significa una riduzione di 87.400 docenti e 44.500 tra tecnici e amministrativi. Solo quest’anno, si tratta di 42mila docenti e 15mila non docenti, che a valanga travolgono i precari del settore, 18mila insegnanti senza più supplenze e 7mila del personale Ata senza lavoro. Del resto, il testo della prima «riforma» è chiaro: ritorno al maestro unico alle elementari, passando da un’offerta didattica di 40 ore ad una di 24 (anche se la protesta ha indotto Gelmini a ripiegare poi sul «maestro prevalente»), riduzione drastica dell’orario scolastico in tutte le scuole nonchè dei possibili indirizzi alle superiori, eliminazione di fatto delle compresenze degli insegnanti, uno degli elementi più innovativi del nostro sistema. Anche il sottotesto è evidente: impoverire la scuola pubblica per legittimare quella privata, che il governo Berlusconi intende foraggiare in misura sempre crescente. Da nord al sud scoppia la contestazione, che si allarga alle università, con il rettore della Statale di Milano, Enrico Decleva, che spiega: «Intollerabile il taglio di 470 milioni tolti all’università per coprire l’abolizione dell’Ici». Partono azioni giudiziarie, e la Corte dei Conti sentenzia sulla insindacabilità dell’autonomia scolastica. Gelmini è costretta a qualche passo indietro, ma il disastro che porta il suo nome resta tutto.
IL DANNO
Gelmini adesso straparla di premi di carriera ai migliori docenti e agli studenti meritevoli: non un di più in un sistema formativo solido e solidale per tutti, ma il criterio unico in un sistema che premia pochi e lascia indietro (o in mezzo a una strada) la maggior parte. Sindacati e Rete studentesca si stanno mobilitando, la Cgil ha già in calendario una serie di iniziative, le prime il 10 e il 14 per l’apertura dell’anno, e l’intenzione di mettere a punto una piattaforma comune con Cisl e Uil. «Sia chiaro, non stiamo parlando di una riforma, di una riorganizzazione seria chiude Pantaleo ma solo di come attuare dei tagli. Non c’è alcun investimento, e non vengono valorizzate nemmeno le esperienze didattiche più importanti, all’avanguardia in tutta Europa».

il Riformista 5.9.09
Scuola, i precari contro la Gelmini
Caos. Il ministro dell'Istruzione promette scolastici maggiori indennità di disoccupazione e supplenze. Ma agli insegnanti senza lavoro non basta, e occupano gli uffici pubblici.
di Gianmaria Pica



Gli insegnanti precari sono sul piede di guerra. All'indomani del Consiglio dei ministri che ha dato il via libera all'intesa che dovrebbe tutelare il personale scolastico senza lavoro, non si placano le proteste di insegnanti e personale Ata (Ausiliario tecnico amministrativo).
Ieri, alcuni insegnanti iscritti al gruppo Lavoratori precari scuola dei Cobas, sono saliti sul tetto dell'ufficio scolastico della Provincia di Roma, occupando l'edificio. I precari hanno manifestato contro «il farsesco progetto della Gelmini dei contratti di disponibilità». Il portavoce nazionale del sindacato autonomo, Piero Bernocchi, ha spiegato che «i Cobas sono tra i principali promotori della battaglia in corso contro i tagli e sostenitori di tutte le lotte che i precari stanno portando avanti, dopo il sit-in di ieri (giovedì, ndr) al ministero della Pubblica istruzione, solidarizzano e appoggiano i lavoratori impegnati in questo ulteriore momento di mobilitazione e invitano tutti a portare la propria solidarietà agli occupanti».
Solidarietà che non è mancata. L'ex ministro Paolo Ferrero (Rifondazione comunista), incontrando i precari che hanno occupato gli uffici provinciali di Roma, ha detto che «difendono se stessi, ma soprattutto difendono la scuola pubblica». Anche Ferrero è salito sul tetto del provveditorato per solidarizzare con il coordinamento nazionale dei precari della scuola in lotta. L'ex ministro ha spiegato: «Salire sui tetti non solo non è inutile, come pensa e dice il ministro Gelmini, ma anzi è e resta l'unico modo che ha il movimento dei precari di farsi sentire e vedere in tutt'Italia». Per l'assessore al bilancio della Regione Lazio, Luigi Nieri, «quella che stanno mettendo in atto i precari della scuola è una battaglia di civiltà che non riguarda solo i diretti interessati e il loro futuro lavorativo, ma le sorti del Paese intero reso ancora più incivile da una riforma, come quella Gelmini, scellerata e irragionevole».
Ieri si è tenuto anche un incontro tra i tecnici del ministero del Lavoro e la Regione Campania, alla presenza del sottosegretario Pasquale Viespoli. Giovedì, è stato sottoscritto dal ministro Gelmini e dal presidente della Campania, Antonio Bassolino, un accordo attraverso il quale verrà integrato il reddito di oltre 4 mila precari campani. Viespoli, contattato dal Riformista, ha spiegato che l'accordo tra il ministero e la Regione Campania «è una conseguenza dell'intesa raggiunta». Poi sulla misura Gelmini ha detto: «Finalmente, nel corso del Cdm, è stata raggiunta una norma che ritengo sia un'importantissima assicurazione per i precari della scuola ». Il provvedimento voluto dal ministro dell'Istruzione - secondo fonti governative dovrebbe essere varato dal Cdm di mercoledì prossimo - prevede l'offerta prioritaria di supplenze brevi a tutti gli insegnanti precari che hanno avuto solo supplenze annuali nel corso dello scorso anno scolastico. A questa scelta, probabilmente, verrà affiancata una convenzione stipulata con l'Inps con cui si gestirà autonomamente l'attivazione e la cessazione dell'indennità di disoccupazione. Indennità di 8 mesi, che diventerà di 12 per i precari che hanno superato i 50 anni.
Secondo Francesco Scrima, segretario generale della Cisl scuola, le misure straordinarie varate ieri dal Consiglio dei ministri, «forniscono tutele sul piano giuridico ed economico che attenuano, in qualche misura, una situazione di grave e profondo disagio causata dai pesanti tagli agli organici». Per la Cisl scuola, sono provvedimenti presi per dare una risposta immediata e concreta a chi rischia la disoccupazione; sono il risultato di un impegno a lungo sostenuto dalla nostra categoria e dalla Confederazione. Ma il rapporto tra Cisl e Gelmini non è sempre stato roseo. Nei giorni scorsi si è consumato un duro scontro sui numeri dei precari tra la sezione scuola del sindacato guidato da Raffaele Bonanni e il ministero dell'Istruzione. Il Miur ha contestato alla Cisl scuola di diffondere «numeri falsi». Secondo il sindacato, invece, «è falso sostenere che il minor numero di supplenze corrisponderebbe solo alla differenza fra tagli e pensionamenti». Per Scrima, quest'ultimo dato - pari a circa 10 mila posti - non tiene conto del fatto che le persone interessate, a causa del frequente frazionamento delle cattedre. «Sono in realtà molte di più - ha detto Scrima - tra 16 mila e 18 mila, come emerso ripetutamente nelle sedi di confronto con l'amministrazione».
Per l'Flc Cgil, il ministro Gelmini «spaccia il contratto di disponibilità come la panacea per la drammatica situazione dei precari licenziati dopo i tagli previsti da Giulio Tremonti». Il provvedimento «fantasma», per il sindacato di Guglielmo Epifani, non attribuirebbe nessuna risorsa in più per il personale precario: si limiterebbe a garantire l'utilizzo intermittente dell'indennità di disoccupazione («che sarebbe comunque stata erogata a questo personale») e prevede una priorità sulle supplenze temporanee assegnate dalle scuole, «annullando di fatto l'utilizzo delle attuali graduatorie d'istituto».
Tesi sostenuta anche dall'ex ministro dell'Istruzione, Giuseppe Fioroni, che al Riformista ha detto: «La proposta della Gelmini è una farsa fraudolenta. Il ministro diffonde numeri sbagliati: i precari sono circa 28 mila. Dobbiamo sommare il costo dell'indennità di disoccupazione al costo delle supplenze: il risultato è una cifra enorme che quasi permetterebbe a tutti i 28 mila precari di essere assunti».

l’Unità 5.9.09
Netanyahu. Il premier accelera sugli insediamenti prima di dover concedere una moratoria
La protesta dell’Anp: «Inaccettabile, così si congela il processo di pace». Critica anche la Ue
Via a nuove case nelle colonie Israele sfida Usa e palestinesi
di U.D.G.


A parole evoca una moratoria. Nei fatti, Israele rilancia la realizzazione di nuove abitazioni negli insediamenti. A deciderlo è il premier Netanyahu. Suscitando l’ira dei palestinesi e le proteste della Casa Bianca.

«Bibi» prova a giocare d’anticipo. E scatena la reazione furibonda dei palestinesi e la dura presa di distanza della Casa Bianca e dell’Unione Europea. Prima una nuova infornata di permessi di costruzione, poi forse la moratoria.
Sembra essere questa la risposta del premier israeliano, Benyamin «Bibi» Netanyahu, alle pressioni americane per un congelamento degli insediamenti ebraici in territorio palestinese, funzionale alle speranze di ripresa del processo di pace.
GIOCO D’ANTICIPO
Una risposta che mira a rassicurare i molti paladini del movimento dei coloni in seno alla coalizione (a larga maggioranza di destra) che sostiene il suo governo. Ad annunciarne i contenuti è stata ieri una gola profonda interna allo staff del premier, citata in forma anonima da tutti i principali media del Paese. La fonte ha anticipato l’intenzione di Netanyahu di dare il via libera a una sanatoria preventiva che riguarderà «alcune centinaia» di unità abitative, sparse per le colonie della Cisgiordania, prima di qualsiasi moratoria. Il numero esatto non è stato indicato, ma è chiaro ha detto la fonte che saranno permessi aggiuntivi rispetto ai 2500 progetti edilizi già in costruzione sulla base di autorizzazioni rilasciate in passato.
ABU MAZEN INSORGE
Il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen) , ha denunciato da Parigi come «inaccettabili» le intenzioni del premier israeliano, mentre il capo negoziatore Saeb Eerekat ha avvertito che un’ulteriore ondata di permessi di costruzione annuncerebbe soltanto «il congelamento del processo di pace». In serata da Washington arriva la risposta americana. Durissima. Gli Stati Uniti hanno espresso «rammarico» per la decisione israeliana di autorizzare nuovi insediamenti, una iniziativa che considerano «non legittima» e controproducente per il processo di pace in Medio Oriente. Il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs ha sottolineato che l’ampliamento degli insediamenti è «in contraddizione con gli impegni presi da Israele con l’accettazione della Road Map». «L’amministrazione del presidente Barack Obama ha chiesto più volte a Gerusalemme di congelare l’attività degli insediamenti al fine di rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi che appare in fase di stallo.
«Esprimiamo rammarico per i piani d’Israele di approvare la costruzione di nuovi insediamenti», ha commentato ieri la Casa Bianca. «Gli Usa non accettano la legittimità di questa espansione perdurante degli insediamenti e sollecitiamo Israele a bloccare questa attività conclude perentoriamente il portavoce presidenziale -. Stiamo lavorando per creare un clima che favorisca i negoziati di pace e azioni di questo tipo rendono solo più difficile creare questo tipo di clima».
Dura è anche la presa di posizione dell’Europa: tutte le colonie israeliane in Cisgiordania devono essere bloccate, ribadisce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, Javier Solana.❖

l’Unità 5.9.09
La sinistra e i profeti
di Moni Ovadia


L ’infimo livello a cui Berlusconi, i suoi cortigiani e i suoi stipendiati hanno trascinato l’agenda politica del nostro paese e il gravissimo attacco di stampo fascista alla libertà di informazione hanno sottratto attenzione ad un evento internazionale che a mio parere riveste grande portata anche per le nostre prospettive politiche: la straordinaria vittoria elettorale della Linke, il partito della sinistra tedesca. Questo risultato non è un episodio rapsodico, ma è stato costruito sulla base di un preciso progetto politico fondato sui grandi valori e sulle battaglie per la giustizia sociale che da sempre sono patrimonio specifico delle sinistre. I pompieri del giornalismo d’accatto, i becchini reazionari o trasformisti, le prefiche profetizzanti la fine della storia che avevano sentenziato la scomparsa della sinistra in quanto tale faranno bene a diventare più cauti e modesti. La lezione tedesca dimostra che la sinistra in Europa è viva e vegeta e può svolgere un ruolo determinante nella costruzione di un’autentica democrazia attraverso la cultura dell’uguaglianza, della pace, dei diritti sociali e della centralità della dignità della persona e della natura di fronte alla mera logica mercantile e del consumo. Per l’Italia la lezione è particolarmente stringente perché il trionfo del berlusconismo e della sua destra reazionaria populista intrisa di fascistume mediatico ha avuto come controcanto la sistematica demolizione di tutto ciò che è sinistra e non solo da parte della destra. Al coro si è unita certa ex sinistra con vocazione all’apostasia e al centrismo spinto. Personalmente non ho il sottile talento dei profeti che prevedono tutto ma ho il sentore che non ci libereremo dal berlusconismo se non si riattiverà anche da noi una sinistra orgogliosa di sé che invece di baloccarsi con le beghe torni ad occuparsi di
ciò per cui è nata.❖

Repubblica 5.9.09
Una ferita alla democrazia
di Nadia Urbinati


Fatte salve le forme dell´uguaglianza civile e politica, ogni moderna democrazia funzionante è in grado di scegliere, di selezionare classi di governo in senso proprio, e di consentire il formarsi, nella società, di ceti dirigenti in senso lato, sulle basi dell´ingegno, dell´impegno e del merito. Sono le élites – aristocratiche, borghesi, operaie – quelle che hanno anticipato i nuovi orizzonti della società.
L´hubrys dominandi sembra rendere il nostro premier incapace perfino di comprendere il senso del limite e della limitazione. Il fatto preoccupante è che nessun contenimento tradizionale del potere sembra efficace abbastanza. La ragione di questa inefficacia non sta nelle strategie costituzionali, che sono chiare e ottime, ma in un fattore che è culturale e per questo difficile da modificare o contenere. Per dirla in parole povere, i contrappesi costituzionali e ogni azione di contenimento di carattere giuridico e istituzionale funzionano soltanto e fino a quando c´è da parte di chi governa la volontà di rispettarli, fino a quando cioè la costituzione formale e quella materiale coincidono. È proprio questa coincidenza che oggi si è spezzata cosicché alla costituzione scritta, come ha messo in evidenza più volte Gustavo Zagrebelsky, se ne è come sovrapposta un´altra, quella che si riflette nelle leggi, nelle politiche e nei comportamenti del governo e del suo leader. La regola che governa il nostro paese è funzionale a uno scopo molto semplice nella sua brutalità: conservare il potere ed esercitarlo per il bene e l´interesse di chi lo esercita. Qui sta il vulnus dispotico del quale soffre la democrazia italiana oggi. Certo, si tratta di un vulnus che gode della maggioranza dei voti degli italiani; ma è bene essere consapevoli che quello che la maggioranza esercita non è un potere innocente, perché è stato costruito affidandosi in larga parte all´uso spregiudicato e poi al dominio diretto e incontrastato dei media. Ieri Berlusconi ha attaccato l´informazione nel suo complesso: ma quante sono le reti televisive e le testate libere in Italia?
Per questa ragione è fuorviante parlare di tirannia della maggioranza, perché, come ben compresero i liberali ottocenteschi, in un governo rappresentativo è sempre e comunque una minoranza a tenere le fila del potere della parola. Questo vale in maniera spropositata nella nostra democrazia, dove il rischio alle libertà civili primarie – in primis quella della libera formazione e manifestazione delle idee– – viene dai pochi, i molti essendo uno strumento di sostegno passivo. I cittadini sono ridotti a semplici spettatori con l´aggravante che lo spettacolo al quale assistono è scientemente manipolato e decurtato. Gli italiani – quell´80% che si affida alla televisione per informarsi– – vivono come in uno stato di autarchia mediatica, chiusi al mondo del loro paese e a quello che del loro paese il mondo pensa e scrive. Questa è la situazione gravissima nella quale ci troviamo.
Il premier considera e tratta l´Italia come il suo cortile di casa: con collaboratori domestici o addomesticati che si preoccupano di allontanare da lui ogni sospetto di dissenso, che confezionano notizie con lo scopo di nascondere la verità ai cittadini e passano leggi per accomodare il diritto alle necessità del premier; con intrattenitori e intrattenitrici che rallegrano la sua vita; con ministri che come visir sfornano politiche che falcidiano la cosa pubblica, dalla scuola alla sanità, e dirottano risorse non si sa bene dove e per fare cosa. Perché tutto questo si tenga il dissenso deve essere azzerato con tutti i mezzi: dal mercato alle strategie intimidatorie. L´obiettivo è terrorizzare e ridurre al silenzio chi pensa liberamente per infine circondarsi di yes-men e yes-women. Che sia un segno di impotenza invece che di forza è evidente, tuttavia per chi tiene ai diritti e alla libertà gli effetti di questo potere di dominio sono disastrosi. Ora, non c´è da dubitare che il Pdl ospiti molti liberali, persone convinte che i diritti di libertà siano un bene prezioso che non può essere sacrificato a nessuna maggioranza – come possono questi liberali restare in silenzio? Come possono non comprendere che nella nostra Costituzione scritta è anche la loro sicurezza? Si usa dire che le costituzioni sono scritte quando il popolo è sobrio e pensando all´eventualità che potrebbe non esserlo sempre. I liberali hanno voluto legare la volontà della maggioranza con le costituzioni perché sono pessimisti abbastanza da non escludere che si possano formare maggioranze non sobrie che traghettino il paese verso acque pericolose. I liberali tutti non possono non vedere che l´Italia si trova oggi a navigare in un mare in tempesta, battuta da un lato da pericolose ondate di razzismo e intolleranza e dall´altro da un leader che ha in disprezzo i diritti fondamentali. L´attacco frontale a Repubblica, quello subdolo all´Avvenire, la critica durissima alla stampa estera - e l´ultima accusa al sistema informativo tout court - costituiscono un pericolo che nessun liberale serio può sottovalutare.
Le strategie di difesa contro questo esorbitante potere sono molteplici. In primo luogo è urgente che l´opposizione di scrolli dal torpore delle sue solipsistiche diatribe che ne paralizzano l´azione politica e si faccia promotrice di un coerente discorso politico alternativo che rimetta in moto un movimento civile di opinione che chieda a voce alta verità e giustizia, che sappia riportare i cittadini nell´agorà pubblica; in secondo luogo vanno usati tutti gli strumenti giuridici di cui il nostro Stato e l´Ue dispongono: portare il caso italiano davanti al parlamento europeo propone Gianni Vattimo, ma si dovrebbe anche aggiungere, rivolgersi direttamente alla Corte Europea dei Diritti; in fine, mettere in moto tutti gli strumenti dei quali l´opinione politica libera può disporre, e visto che non pare facile strappare il bavaglio imposto dalle televisioni nazionali, occorrerebbe attivare una rete di controinformazione tramite il web, i giornali, le associazioni della società civile, i movimenti. Ci troviamo in una condizione di emergenza e di eccezionale rischio. è la nostra dignità di cittadini che deve essere riscattata da questo clima di docilità e servizievole sudditanza. Ed è la nostra Costituzione scritta che ci legittima a fare quello che dobbiamo per difenderla.

Repubblica 5.9.09
Il cinismo delle élite
di Carlo Galli


Il nostro governo costituisce un serio problema per le libertà civili e l´ordine democratico del nostro paese. E come si è avuto modo di toccare con mano in questi giorni, esso costituisce un serio problema per l´Europa e i fondamenti di libertà sui quali è nata e si fonda l´Unione Europea.
Sono le élite che hanno elaborato categorie, stili, forme, linguaggi, in grado di imporsi in ambiti più vasti. Nella società di oggi, politici, imprenditori, professionisti, docenti, scienziati e intellettuali, gerarchie religiose, alti burocrati, giornalisti, a volte anche artisti - ciascun gruppo con forme diverse di selezione, con diversi gradi di chiusura o di apertura - perseguono il medesimo fine: esercitare influenza o potere nella società, presentando i propri interessi come indispensabili agli interessi generali del Paese. La democrazia di una società complessa si articola nella concorrenza di diverse proposte egemoniche.
Sono le élites ad avere la capacità, e il dovere, di esercitare più consapevolmente le virtù sociali e politiche, di esserne l´esempio concreto. Infatti, i loro membri sono sì orientati al successo, ma anche alla lungimiranza, alla disciplina, al differimento dell´utile, al merito, al decoro, all´efficienza; non per amore della virtù, ma per legittimare le proprie pretese. La loro deontologia - l´insieme dei doveri di ciascuno verso la professione, verso se stesso e verso i pari - è la loro morale civile: è l´assunzione di responsabilità, fondata sul rigore e sul merito, verso la società intera. E´ una morale in cui sono centrali le nozioni di prestigio e di vergogna, di efficienza e di credibilità.
Certo, i processi di democratizzazione e il formarsi di una società di massa, rendono le élites apparentemente meno legittimate davanti al senso comune; eppure, una società moderna ne ha bisogno. La controprova è data da quelle situazioni - fra cui purtroppo rientra, in parte, il nostro Paese - in cui le élites sono in sofferenza. Le nostre élites sembrano non volersi più sobbarcare il peso del rigore disciplinato che è necessario per articolare in chiave universale i propri interessi particolari, per coniugare al futuro, e non nella miopia dell´eterno presente, i verbi dell´agire sociale; per essere esempio civile. A parte le splendide individualità o piccoli gruppi isolati di eccellenza che spesso hanno vita difficile - le élites italiane corrono il rischio di trasformarsi in corporazioni chiuse (a volte dinastiche, con modalità nepotistiche di trasmissione del potere), in un pulviscolo di piccoli o grandi privilegi o di snobismi, in Palazzi e Caste (non solo della politica); lungi dall´esibire l´orgoglio del merito, i membri delle élites aspirano piuttosto a essere vip; anziché vigilare sulle modalità di ingresso, di selezione, di addestramento dei propri membri, rilassano le pratiche di controllo, chiudono un occhio su insufficienze e infrazioni (purché sia garantita la docilità dei nuovi entrati).
È il cinismo delle élites - facilmente trasmesso all´intero corpo sociale - una delle più gravi tare del Paese, l´origine della sconnessione fra morale e politica, della corrosione dello spazio civile, del frammentarsi del discorso pubblico in una congerie di particolarismi dialettali. Ed è anche l´origine - oltre che il prodotto - dei tentativi della politica di polverizzare la società, di governarla attraverso il combinato disposto della propaganda e del populismo. La forma civile complessiva di un Paese è data infatti oltre che dalle istituzioni, anche da quei nuclei di interessi e di sapere, di orgoglio professionale e di autostima, di senso del decoro e di vergogna sociale, che fanno sì che la civile convivenza non consista in un ammasso informe di atomi privi di relazione reciproca, ma sia un complesso e multiforme paesaggio, con un profilo e una fisionomia definiti, non plasmabili a piacere dal potere politico. Non a caso, quindi, le cronache italiane delle ultime settimane mostrano che chi ha come programma di governare senza contrappesi e istanze di controllo si appella con fare plebiscitario a una generica «gente», scavalca quando può le istituzioni e lotta contro quanto resta di élites autorevoli, o contro le loro frange non docili: magistrati, giornalisti, Scuola e Università, gerarchie ecclesiastiche (ultimi, gli economisti).
Né è un caso che Berlusconi resista aggressivamente a uno scandalo che avrebbe travolto (grazie alla reazione della stampa, delle tv, dell´opinione pubblica più qualificata, dei partiti) ogni altro leader politico di ogni altra democrazia occidentale: ha infatti potuto appellarsi alla compiaciuta tolleranza dei «molti», nella impotenza o nella indifferenza o nel cinico silenzio-assenso dei ‘pochi´ che avrebbero dovuto utilizzare il loro sapere e il loro prestigio per criticarlo e per rischiarare il giudizio collettivo.
Perché l´intero Paese non rischi di trasformarsi in un deserto morale, oltre che in una società inerte e inefficiente, e di pagare il proprio deficit collettivo di virtù democratica con la moneta della decadenza, qualcuno dovrà combattere credibilmente contro il cinismo, la rassegnazione, la passività, il conformismo, il mancato rispetto di sé e degli altri. Con un programma - in qualche misura neo-risorgimentale - di una riforma morale degli italiani, si tratta di ricominciare dai pochi (che saranno certo tacciati di moralismo, azionismo, giacobinismo), cioè da élites nuove o rinnovate, la cui rigorosa esemplarità sappia riportare la decenza e la vergogna fra le virtù civili della nostra democrazia.

il Riformista 5.9.09
La "faccia feroce" di Berlusconi e i segnali del declino
Ogni sua mossa vincente (vedi Boffo) aggiunge un surplus di destabilizzazione strategicamente in-sopportabile
di Rina Gagliardi


Berlusconi sta vincendo o no la sua "controffensiva" di fine estate? Ovvero: esce sostanzialmente rafforzato o, all'opposto, seriamente indebolito dagli scontri di queste settimane e di queste giornate? A questi interrogativi sembra difficile offrire una risposta, chiamiamola così, secca. Eppure, al di là e perfino a dispetto delle apparenze, per il Cavaliere è iniziata la stagione del declino - per il Cavaliere, non per il centrodestra. Ce n'est qu'un debut, come si diceva nel '68, e la partita è tutt'altro che predeterminata, nella sua dinamica e nei suoi esiti. Ma questo declino è cominciato, al punto che, ove da esso si prescindesse, nulla di quello che è accaduto e sta accadendo sarebbe davvero comprensibile.
Intendiamoci: è evidente che un presidente del Consiglio, non solo questo premier, è comunque in grado di esercitare un'influenza forte, di muovere pedine e pedoni, di usare poteri anche brutali. La testa, già cruentemente ottenuta, di Dino Boffo, le intimidazioni alla stampa, l'aggressione all'Unione europea sono soltanto le tappe più recenti, non certo le ultime, della strategia berlusconiana di survival. Tutta improntata alla "faccia feroce" e ai fendenti. Tutta protesa a colpire il fronte avversario con ogni mezzo, disarticolandolo e, al limite, schiantandolo. Ma è già qui un primo segno di debolezza: ognuna di queste mosse, anche quando sia vincente (come nello scontro con l'Avvenire), anche quando raggiunga l'obiettivo prefissato, non solo non risolve le contraddizioni, ma le amplifica. Immette nel quadro, cioè, un surplus di destabilizzazione strategicamente "insopportabile". Insomma, non configura una strategia di vittoria e consolidamento.
Questo vale anzitutto per il rapporto tra Berlusconi e mondo cattolico: esso è oramai profondamente "guastato", rotto. Tutti gli sforzi della segreteria di Stato vaticana, e dei vari Bertone e Vian, non basteranno, per ora, a sanare le ferite inferte a Boffo, cioè alla Cei, cioè ai vescovi, cioè al corpo vivo dei "quadri dirigenti" della Chiesa cattolica. È pur vero che siamo in Italia - e che la Chiesa attuale, così "sgovernata" dal suo Pontefice massimo, ha bisogno, per sopravvivere a sua volta, di un potere politico munifico, sia in tema di questioni "eticamente sensibili", sia in fatto di un più terrestre sostegno economico. Non ce lo ha spiegato, con il suo consueto e spassoso cinismo, Francesco Cossiga? Eppure, la Realpolitik ha i suoi limiti: la Chiesa non è un Gheddafi con il quale si può mercanteggiare tutto, anche il Milan. La Chiesa non può tollerare né lo "stile di vita" né la doppia o tripla morale del premier, né, più concretamente, una politica sull'immigrazione che nega in radice tutti i valori basici del cristianesimo (accoglienza, solidarietà, carità). Dunque, lo scontro non appare, nient'affatto, occasionale - né la rottura ricucibile nel breve periodo. E le conseguenze potrebbero non tardare a farsi sentire.
Anche la questione del "credito" internazionale, ovvero del discredito internazionale di cui gode oggi il Cavaliere, sta diventando un handicap rilevante. Tanto più dopo l'ultimo "battibecco" di Berlusconi con il presidente della Ue. Tanto più dopo (e durante) l'intensificarsi delle ottime relazioni con la Libia di Gheddafi e la Russia di Putin. Tanto più in un quadro generale in cui basta prendere in mano - a caso - un quotidiano importante, dal New York Times a El Pais, per capire di quale disistima sia circondato il nostro presidente del Consiglio. Ora, può darsi che il nostro sia un mero wishful thinking: ma come può reggere un capo di governo che ha pessimi rapporti con la Chiesa cattolica, che non ha alcun feeling con i suoi alleati tradizionali (in primis Gran Bretagna e Stati Uniti), che è criticato per i suoi costumi sessuali da tutto il mondo civile, e che forse non gode neppure di una fiducia incondizionata da parte dei famosi "poteri forti"?
A mio modesto parere, una parte di questi "pensieri" circola da tempo anche nello schieramento di centrodestra. All'interno del quale, sia la Lega Nord sia Gianfranco Fini - due soggetti di entità diversa, e per ora molto configgenti - stanno preparandosi a un possibile dopo-Berlusconi. Cioè a un centrodestra "liberato" dal suo laeader e padrone, ma in grado di continuare a esercitare politicamente l'egemonia culturale conquistata nella società italiana. Come spiegare, se no, l'attivismo estivo sia del presidente della Camera sia dei leghisti? L'uno punta, con tutta evidenza, a diventare non solo il leader di una nuova destra "civilizzata" (e riconosciuta dallo schieramento opposto), ma il presidente di quella "Terza Repubblica" presidenziale da tempo teorizzata. Gli altri vanno coltivando una loro specifica "vocazione maggioritaria", nutrita di populismo, razzismo, sicuritarismo, e comunque già oggi non possono più essere considerati una forza "di complemento" del centrodestra. Tremonti potrebbe essere l'uomo della mediazione di questo futuro berlusconiano senza Berlusconi. Oddio, non c'è molto da sognare…

Corriere della Sera 5.9.09
«Atto di barbarie, è allarme democrazia» 
D’Alema: dopo Boffo chi ha una notizia fastidiosa per il premier sa di di rischiare ritorsioni
intervista di Maria Teresa Meli


L’intervista L’ex premier: sono preoccupato per il degrado impressionante della vita pubblica di cui il presidente del Consiglio è il principale responsabile
Querele. Insensati gli accostamenti tra Berlusconi e me: non possiedo tv e giornali e da premier ho rimesso tutte le querele 

Onorevole D’Alema, inevitabil­mente la prima domanda è sul «caso Boffo». Anche lei è convin­to che le dimissioni del direttore dell’«Avvenire» rappresentino un fatto grave?

«È un caso che desta grande pre­occupazione. Come desta preoccu­pazione il degrado impressionan­te della vita pubblica di cui il presi­dente del Consiglio è il principale responsabile».

Secondo lei le frequentazioni femminili del presidente del Con­siglio influiscono sul serio sulla politica del nostro Paese o lo di­ce solo per fare propaganda?

«Essendo Berlusconi capo del governo è ovvio che la sua condot­ta ha una rilevanza politica soprat­tutto per il modo in cui egli ha rea­gito non spiegando i suoi compor­tamenti, non rispondendo a inter­rogativi legittimi, il che avrebbe probabilmente chiuso la questio­ne. Al contrario, Berlusconi ha uti­lizzato il suo potere politico, me­diatico e finanziario per persegui­tare e colpire le voci critiche. Si è creata una situazione pesante e al­larmante: l’episodio del direttore dell’ Avvenire segna uno spartiac­que: un qualsiasi giornalista che abbia una notizia imbarazzante o fastidiosa per il presidente del Consiglio sa che da oggi in poi, se la pubblica, è a rischio di pesanti ritorsioni. Al fondo di questa bar­barie c’è l’anomalìa italiana».

E che cosa mai sarebbe questa anomalìa italiana di cui lei parla, onorevole D’Alema?

«I giornali nel mondo civile con­trollano il potere. Berlusconi, in­vece, utilizza gran parte dei mezzi di informazione per controllare quelli che dovrebbero controllare lui e il suo governo. Questo ormai è un serio problema di carattere democratico».

C’è chi ricorda che anche lei, come altri esponenti del centrosi­nistra, aveva la querela facile e il dente avvelenato contro i giorna­listi. Non sembrerebbe quindi un’esclusiva di Silvio Berlusconi.

«Questo accostamento è insen­sato. Io non posseggo televisioni e giornali e quando sono diventato presidente del Consiglio ho rimes­so tutte le querele».

Ma non è che il Pd sta soprava­lutando queste storie lasciando perdere tutti gli altri problemi del Paese? La crisi economica e quella sociale avanzano, e l’oppo­sizione si occupa delle faccende private del presidente del Consi­glio.

«È sbagliato sottovalutare quel che sta accadendo e dire 'occupia­moci dei problemi veri'. Questo è un problema vero che aggrava tut­ti gli altri, perché, grazie al potere che il governo ha sull’informazio­ne, si indeboliscono il controllo e lo stimolo e peggiora anche la qua­lità stessa dell’azione di gover­no ».

Onorevole D’Alema non le pa­re di esagerare?

«Non credo. Pensi alla realtà del­la crisi economica e sociale: per un anno ci è stato raccontato che non c’era la crisi e quando ormai era impossibile negarla si è detto che c’era stata ma era finita. La ve­rità è che noi siamo i più colpiti tra i Paesi industrializzati. E que­sto governo è l’unico, tra quelli dei Paesi più importanti, che non ha fatto nulla di significativo per fronteggiare la crisi. Si galleggia nella speranza che la ripresa inter­nazionale prima o poi trainerà l’Italia. Ma si tratta di una pura illu­sione, se non si affrontano i pro­blemi reali e non si fanno le rifor­me ».

In compenso, l’opposizione di centrosinistra appare più che ap­pannata. 

«Certo, in questo momento si avverte l’assenza di una voce auto­revole dell’opposizione. Son fidu­cioso che, alla fine di questa sof­ferta e lunghissima discussione interna al Pd, le cose cambieran­no. Bersani è un leader autorevo­le, determinato a costruire un par­tito e un gruppo dirigente, dopo che si è pensato troppo a lungo che bastasse demolire ciò che c’era per costruire il nuovo».

Insomma, onorevole D’Alema, lei vuole ristrutturare il Partito democratico e rimettere in piedi l’allegra comitiva dell’Unione.

«La comitiva di undici sigle del­l’Unione non c’è più. Ora c’è il Pd, che può diventare il perno di una nuova alleanza democratica tra al­cuni partiti che si mettono insie­me sulla base di un programma chiaro e che si vincolano a un co­dice di comportamento».

Scusi ma pensa sul serio di riu­scire a mettere insieme Rifonda­zione comunista e Udc? 

«Rifondazione non sembra ave­re interesse a una prospettiva di governo, ma a sinistra c’è chi vuo­le misurarsi con questa sfida. E poi all’opposizione ci sono Udc e Idv».

L’Udc di Pier Ferdinando Casi­ni, per la verità, potrebbe andare a destra...

«Tra l’Udc e la destra è matura­ta una divergenza profonda che ri­guarda la concezione stessa della democrazia e che non mi pare fa­cilmente ricomponibile. In più, oggi, vi è quell’aspra lacerazione tra Berlusconi e la sensibilità dei cattolici italiani. In ogni caso noi abbiamo già sperimentato delle convergenze con l’Udc alle ammi­nistrative e abbiamo constatato che il suo elettorato ha seguito l’indicazione politica dei gruppi dirigenti di quel partito, dunque non è vero che i nostri elettorati sono incompatibili».

E per il Pd dovrebbe essere Ber­sani, una volta eletto segretario, a occuparsi della creazione di questo nuovo schieramento?

«Bersani è un uomo di governo capace ed è sempre stato fuori dai conflitti personali all’interno del centrosinistra. Lui è di gran lunga la persona più adatta a guidarci in questa fase di ricostruzione del partito, dopo il periodo confuso che ha caratterizzato l’avvio del Pd».

Ma con l’elezione di Pierluigi Bersani alla segreteria del Parti­to democratico non teme una scissione degli ex margheritini, che potrebbero non sentirsi rap­presentati da un ex ds?

«L’ipotesi della scissione non è mai stata seriamente in campo. Con Bersani nel partito ci sarà fi­nalmente la pace».

Onorevole D’Alema, un’ultima domanda: nella sua Puglia il Pd è nei guai con la giustizia, che impressione si è fatto di questa vicenda?

«Ho sempre avuto rispetto del­la magistratura. Se vi sono stati il­leciti è giusto che siano persegui­ti. Finora non ho capito bene di cosa si tratti e ho l’impressione che vi sia una grande esagerazio­ne. Almeno nei titoli di alcuni giornali». 


il Riformista 5.9.09
Mentre continuano le polemiche sulle inchieste giudiziarie i democrat si spaccano Regionali pugliesi
Cercasi candidato alternativo a Vendola
Verso le urne. Emiliano si schiera con il Governatore uscente, ma le correnti dissentono, mentre l'Idv chiede garanzie dopo gli scandali. Anche nel Pdl è caccia ai nomi da mettere in campo: da Dambruoso a Lombardo Pjola.
di Samantha Dell'Edera



Bari. Fermento tra i partiti di centrodestra e di centrosinistra per individuare i candidati alle prossime elezioni regionali in Puglia. Il centrosinistra, Pd in testa, continua a spaccarsi sulla riconferma dell'attuale governatore Nichi Vendola: il sindaco Michele Emiliano che ieri ha presentato la sua mozione per la corsa alla candidatura a segretario regionale, ha ribadito il suo appoggio al presidente Vendola e al suo operato in questi cinque anni.
Ma i dissensi continuano ad accumularsi: con l'Idv che chiede al governatore una presa di responsabilità in seguito alle ultime notizie sull'inchiesta della procura di Bari, e le correnti interne al Pd alla ricerca di alternative. Il centrodestra invece sta tessendo in queste ore la strategia per riconquistare la Regione Puglia. Secondo indiscrezioni il nome del candidato sarà presentato ufficialmente dal premier Silvio Berlusconi durante la cerimonia di inaugurazione della Fiera del Levante, sabato 12 settembre.
In pole position diversi personaggi della società civile come il magistrato Stefano Dambruoso o l'avvocato Fabrizio Lombardo Pjola. La settimana prossima sono previste riunioni presiedute dal senatore Gaetano Quaglairello, delegato da Berlusconi a supervisionare la questione pugliese. Intanto continuano le polemiche da parte soprattutto del centrodestra sulle rivelazioni dell'inchiesta giudiziaria sul malaffare della sanità pugliese e sull'intreccio tra sesso e politica. «Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, prima tenta di intimidire la pm Desirèe Digeronimo che conduce una delle inchieste sulla gestione della sanità in Puglia e poi parte all'attacco dell'informazione»: è quanto ha sostenuto ieri in una nota il capogruppo di An- Pdl alla Regione, Roberto Ruocco. «Prima - scrive Ruocco - Vendola tenta di intimidire la dottoressa Degeronimo, con lettere aperte contenenti oscuri riferimenti a sue parentele ed amicizie, nell'intento neanche tanto recondito di farle sottrarre un'inchiesta peraltro condotta con straordinario scrupolo».
«Poi - continua - parte all'attacco dell'informazione, aggredendo e insultando Il Riformista, Libero e il TG1, che starebbero orchestrando, niente meno che il suo "omicidio politico" soltanto perchè, raccontando quel che si sta quotidianamente disvelando sul "porcilaio" della Regione da lui governata, osano anche trarne qualche inevitabile conclusione politica». E conclude: «Evidentemente il presidente Vendola deve essersi assuefatto all'odore del porcilaio, visto che continua a non sentirlo nonostante gli incomba addosso, e siano i suoi sempre più intollerabili miasmi a politicamente e meritatamente giustiziarlo». Rosa Cicolella, presidente della commissione Pari opportunità della Regione, ha invece puntato il dito contro «la strumentalizzazione del corpo femminile che la politica porcilaio sta compiendo in queste ore in Puglia»: «Le donne, in questa regione hanno avuto per la prima volta la possibilità di essere protagoniste nell'azione di governo e hanno prodotto leggi di cui la Puglia può solo vantarsi. Si sta compiendo una mattanza indegna». Cicolella interviene sulle ultime novità dell'inchiesta dei pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro che stanno indagando su presunti scambi di favori che sarebbero avvenuti tra due ex assessori regionali e giovani donne o disoccupate. Con le quali i politici avrebbero avuto rapporti sessuali, offrendo in cambio posti di lavoro. Per il momento le indagini sono in corso e gli ex assessori non sono iscritti nel registro degli indagati. In totale sono cinque i filoni di inchiesta che la procura di Bari sta portando avanti: indagini che si concentrano soprattutto sull'assessorato regionale alla Sanità, su presunti appalti pilotati e sui finanziamenti illeciti da parte di imprenditori locali e nei confronti di partiti anche a livello nazionale.

Liberazione 4.9.09
Angelo Del Boca: «L’ultima mia storia non piace a Gheddafi, mi ha censurato»
intervista di Vittorio Bonanni



Una vicenda che ha del surreale quella che ha investito Angelo Del Boca, lo storico del colonialismo italiano per eccellenza, da sempre sostenitore del buon diritto della Libia ad ottenere dal governo italiano il giusto risarcimento dei danni subiti durante l'occupazione militare. Da un lato l'ambasciatore libico a Roma lo convoca per ritirare una onorificenza conferitagli del governo di Tripoli e a partecipare il 23 settembre prossimo al ricevimento che si terrà in occasione del quarantesimo anniversario della Rivoluzione del 1° settembre 1969. Dall'altro lo stesso governo, nella veste del Comitato popolare generale per la cultura e l'informazione, decide che l'ultimo libro di Del Boca A un passo dalla forca venga confiscato a tolto dalla circolazione in tutto il territorio libico. 

Una vicenda un po' surreale, vero professore? Dopo i riconoscimenti la censura.
Direi di sì. Il fatto dell'onorificenza era in realtà in qualche modo scontata perché un anno fa, in coincidenza del primo accordo firmato a Bengasi con Berlusconi, avevano conferito un
riconoscimento ad una quindicina di italiani, tra giornalisti e storici, che si erano occupati in maniera abbastanza continuativa delle vicende libiche e che quindi erano considerati "amici della Libia". Tra quei quindici c'ero anch'io che però non ero potuto andare a Tripoli per altri impegni e dunque l'avrei dovuto ritirare a Roma, presso l'ambasciata dove l'avevano portato. 

Lei si è sempre occupato dei danni subiti dalla Libia durante l'occupazione italiana e anche di una biografia di Gheddafi. Nessun problema prima?
Certo, ho dedicato molti libri a questo argomento. Intanto due volumi, pubblicati da Laterza e poi da Mondadori, sugli italiani in Libia. Due testi che sono un po' la storia sulla Libia moderna. E qui voglio dire una cosa che gli altri giornali non sanno: che quando i due libri sono stati tradotti in arabo Gheddafi si faceva dare dal traduttore capitolo per capitolo. E in quello dove si parlava anche di lui, nel libro intitolato Dal fascismo a Gheddafi , ha imposto dei tagli perché ho affrontato il tema del terrorismo e delle squadre mandate ad uccidere i dissidenti in giro per il mondo e anche a Roma. Io però, non conoscendo l'arabo, non l'avrei mai saputo. Un giorno però a Tripoli, ho incontrato il mio traduttore, un uomo anziano, ex diplomatico, il quale per ringraziarmi che l'avevo invitato a cena nel mio hotel a cinque stelle, che i libici ovviamente non si possono permettere perché costerebbe quasi come uno stipendio, mi disse: «adesso le rivelo alcune cose. Il suo ultimo volume è stato in parte censurato». Insomma c'era già stato un precedente, che risale al 1996. Io ho saputo questa notizia proprio in quel periodo lì, quando ero in Libia in occasione di un incontro eccezionale con Gheddafi durato circa due ore. Di solito gli incontri con lui duravano meno ma quella volta fu diverso perché lui sapeva che era finalizzato alla realizzazione di una sua biografia. E io avevo bisogno di incontrarlo non solo perché dovevo porgli delle domande determinanti per la costruzione della biografia, ma avevo in realtà ancor più l'esigenza di vederlo in faccia. E così facendo ho anche scoperto che sapeva l'italiano. Quando lui parlava in arabo e io in italiano c'era un traduttore che secondo me faceva il suo lavoro abbastanza bene. In tre occasioni lo ha fermato ed ha precisato: «No, Del Boca non ha detto questo». Questo per dire che conosceva bene la nostra lingua per aver trovato delle discrepanze tra la traduzione e la mia risposta. 

Insomma la censura libica già l'aveva colpita...
Diciamo che c'era già stato un precedente. Ma io naturalmente di questo episodio non avevo mai fatto cenno ad altri. Poi ero andato dall'editore, presso il Libian Studies Center , da un grande amico, il dottor Jerary, che mi disse che non era vero che c'erano stati dei tagli. Risposi che avrei mandato a chiamare il traduttore mettendolo a confronto con me. Allora davanti ad una richiesta del genere ammise che qualche frase era stata cancellata ma mi promise che, terminate le diecimila copie della prima edizione, avrebbe fatto reintegrare il testo tagliato. 

Poi questo è avvenuto?
Non ho potuto controllare ma lo farò perché in Libia ci andrò ancora.

E ora questo nuovo e più grave episodio...
Quello che mi ha sorpreso in maniera straordinaria di questa vicenda e mi ha indignato riguarda la famiglia Fekini, e in particolare Anwar Fekini, un avvocato di fama internazionale che gestisce le cause tra Stato e Stato. Questo è il nipote del capo della resistenza antitaliana in Libia. Una persona, della quale avevo scritto le memorie nel libro Ad un passo dalla forca . L'uomo di Sciara-Sciat, vale a dire della storica sconfitta degli italiani nel 1911, quando muoiono in combattimento 550 militari. Un combattente di grandi capacità militari ma anche intellettuali. Leggendo i suoi ricordi, cinquecento pagine più altrettante di lettere ed altri documenti, mi sono trovato di fronte ad una miniera di informazioni straordinarie di cui né io né gli altri storici conoscevamo l'esistenza. Vengo a sapere insomma dalla famiglia, e in particolare dall'avvocato Fekini, che vive in California, che c'era stato un rapporto del ministero della cultura libica che, per varie ragioni, aveva deciso che il mio libro era da confiscare. La prima cosa che ho fatto è tentare di entrare in possesso del rapporto tradotto dall'arabo all'italiano. Ho così potuto vedere i motivi di questa censura totale. 

Quali accuse le hanno mosso?
Intanto di essere stato troppo vicino alla famiglia Fekini. Perché? Evidentemente perché la famiglia Fekini fa un po' ombra a Gheddafi. Perché il leader libico intanto non ha fatto la resistenza, lui era un ragazzo, e quando nacque c'era già il regno di Libia. L'ha fatta suo padre ma lui non c'entra affatto. E inoltre questa famiglia che ha fatto la resistenza in Tripolitania è ancora oggi stimata ed onorata, perché ci sono ancora dei Fekini che vivono a Tripoli. E la seconda accusa che mi si fa è di avere in un certo senso dato troppo peso alla Senussia. Lei sa che la Senussia era uno dei più grandi gruppi religiosi libici, che ha fatto la resistenza soprattutto in Cirenaica. Tanto è vero che Omar al-Mukhtàr era il vicario della Senussia. Ma non mi si può dire, attraverso questo rapporto, che ho fatto male a parlar bene della Senussia quando Gheddafi è arrivato in Italia mostrando la fotografia di Omar al-Mukhtàr che era il vicario appunto della Senussia. Quale contraddizione! Ma in realtà Omar al-Mukhtàr era il rappresentante di quello che poi sarebbe diventato il re Idris, il primo re della Libia che lui poi ha detronizzato. 

Professore, ma questi non sembrano essere dei pretesti per cambiare il rapporto positivo che lei aveva con la Libia a fronte di un mutamento dei rapporti internazionali e nello specifico, dei rapporti tra Italia e Libia? 
Non credo. Secondo me ci sono state due volontà contrapposte. La segreteria di Gheddafi mi dà l'onorificenza. Invece quando le prime copie in arabo del mio libro arrivano in Libia vengono percepite in un certo senso come un attacco al regime. Mi attaccano insomma per aver parlato bene della famiglia Fekini e dei senussiti. Accuse limitate a questi due aspetti perché non credo vogliano farmi fuori. Sono comunque molto gravi anche perché oltretutto contraddittorie. Evidentemente c'è molta confusione tra i vertici della Libia. 

Insomma professore, tutto lo scenario al quale abbiamo assistito, Berlusconi, Gheddafi, le frecce tricolori, l'immigrazione, non c'entra nulla, tanto per sgombrare il campo, con quello che è successo a lei?
No assolutamente. Anzi devo dire una cosa. Che io ho appoggiato l'accordo tra Roma e Tripoli, dicendo però che come accordo commerciale è ottimo, ci guadagneranno le industrie italiane, e, soprattutto, ci guadagna la Libia, forse anche troppo. Ritengo inoltre che sia giusto che l'Italia riconosca quello che ha fatto di male in Libia. Centomila morti non sono pochi. E se consideriamo che quelle centomila persone furono uccise in un'epoca in cui in Libia vivevano ottocentomila abitanti quello fu un autentico genocidio. Non va bene invece che in questo accordo non si parla del fatto che il contraente avrebbe dovuto dare garanzie sul rispetto dei valori civili e umanitari. E sappiamo che la Libia da quel punto di vista lì è allo zero totale.

Corriere della Sera 5.9.09
La prova nei geni 
Agricoltori europei Il primo nucleo arrivò 7500 anni fa
di Paola Caruso 



Agricoltori e cacciatori preistorici non erano parenti tra loro. La teoria secondo gli abitanti dell'Europa centrale, i cacciatori-raccoglitori, si siano evoluti imparando a coltivare la terra è smentita da un nuovo studio dei paleogenetisti di Magonza (Germania). La ricerca mostra come l'agricoltura non sia nata in Europa centrale per acculturamento della gente locale, quella formata appunto dai cacciatori vissuti nel continente dopo la scomparsa dell'uomo di Neanderthal, ma sia stata importata qui da popolazioni di migranti, circa 7500 anni fa. E così l'inizio del periodo Neolitico, l'era caratterizzata da un lifestyle organizzato e dai primi allevamenti di bestie e piante, non si è sviluppato per merito degli oriundi, ma grazie ai colonizzatori o se vogliamo agli «extracomunitari» preistorici.

A confermare queste idea è il Dna degli reperti archeologici trovati nella zona, che mostrano come non ci sia mai stato un mescolamento di ceppi genetici tra i «lavoratori dei campi» e i «mangiatori di bacche e selvaggina». «E' probabile che i primi agricoltori siano arrivati in Centro Europa dalla regione dei Carpazi e prima ancora dal Sud-est europeo e dalMedio Oriente, dall’Anatolia, portando nella zona centrale un nuovo stile di vita e le tecniche per l'agricoltura e l'allevamento del bestiame» spiega Barbara Bramanti della Gutenberg University di Magonza e primo autore del paper pubblicato sulla rivista Science.

A questo punto se non c'è corrispondenza genetica tra le due popolazione, noi moderni europei di quale delle due razze siamo figli?

Sicuramente non degli evoluti agricoltori: questo si sa dal 2005, da quando il paleogenetista Joachim Burghes ha scoperto la mancanza di somiglianza genetica tra noi e loro. Allora discendiamo dai più «selvaggi» cacciatori-raccoglitori? Neanche. I test sul Dna mostrano ancora troppe differenze.

«Per rispondere a questa domanda occorrerà eseguire altri studi e altre analisi — precisa la ricercatrice —.

Sulla base delle simulazioni fatte si è stabilito che nessuna delle due popolazioni può essere da sola e direttamente la progenitrice della popolazione europea moderna, quindi resta da definire come si sia evoluta». Le ipotesi sulla nostra origine sono diverse, quelle più accreditate sono: migrazioni successive e/o fenomeni di selezione. In extremis, poi, si può valutare l'ipotesi di un mescolamento. Ma quando sarebbe avvenuto? Non si sa. L'ultimo tassello del puzzle è ancora tutto da scoprire.
Repubblica 4.9.09
La partita con la Chiesa
di Adriano Prosperi


No, non sono affari interni della Chiesa, come ha commentato chi ancora impugna la pistola fumante - e la impugna perché chi l´ha armato non gliel´ha mai tolta di mano. Singolare affermazione, del resto: ma non era questo il governo che si professava più vicino alla Chiesa, quello che aveva avuto fin dall´inizio il soddisfatto via libera delle gerarchie ecclesiastiche? Oggi invece quella destra cattolica obbediente e collaborativa così gradita a eminenti cardinali finge un laico e pudico disinteresse per i problemi della Chiesa.
D´altra parte, la domanda che tutti ci poniamo è: quale Chiesa? Ne abbiamo viste diverse nei giorni scorsi e non abbiamo mai avuto l´impressione di trovarci davanti alla antica istituzione sacrale che immaginavamo capace di rispondere severamente e dal suo più alto livello all´attacco che l´ha ferita. Una cosa almeno è certa: le dimissioni del direttore dell´Avvenire sono un fatto che di per sé esclude qualunque possibilità di chiudere l´episodio a un fatto interno di chicchessia, tanto meno a un fatto interno della Chiesa.
Ci fu all´inizio il tentativo di chiudere tra parentesi le tensioni tra un premier e una chiesa italiana in agitazione facendo ripartire l´antico ron-ron della diplomazia ovattata, dei contatti riservati, magari dei colloqui tra un premier discusso e il segretario di Stato vaticano intorno a un tavolo conviviale all´ombra di un antico rito solenne del perdono. Ma qui il percorso si interruppe: quel premier aveva un giornale di famiglia e il suo direttore fece partire in quel preciso momento un attacco inqualificabile contro l´Avvenire, organo della Conferenza episcopale italiana. Uno scandalo: bisogna che gli scandali avvengano, dice la parola del Cristo dei Vangeli canonici. Non così hanno pensato le menti diplomaticamente esercitate del mondo vaticano, d´accordo col Grande Inquisitore di Dostoevskij nel ritenere che l´ordine del mondo è troppo prezioso per metterlo a rischio con un ritorno della parola di Cristo.
C´era stata una mossa per far rientrare lo scandalo: una proposta di tregua con scambio dei caduti. La Chiesa-Potere aveva calato molto tempestivamente la carta più alta nelle sue mani per dimostrare la sua buona volontà e far rientrare la vicenda «citra sanguinem», senza versare sangue, come dicevano le regole della tortura dell´Inquisizione. L´aveva calata nientemeno che il direttore dell´Osservatore Romano nell´intervista al Corriere della Sera: un bel rimbrotto a Boffo e un´offerta di continuare come nulla fosse. Meglio una sola vittima che uno scontro dagli esiti imprevedibili. Era un prezzo sostenibile per pagare la pace politica e la tranquilla gestione dei problemi etici in discussione nel prossimo autunno - testamento biologico, pillola abortiva e così via. Ma la logica dello scambio richiedeva un passo analogo dall´altra parte: la parallela rimozione di Feltri dalla direzione del Giornale o almeno una smentita adeguatamente sdegnata da parte del suo padrone. Abbiamo visto com´è andata a finire. È finita che Boffo si è dimesso. Perché?
Sul piano umano possiamo ben capirlo: ed è questo l´unico piano comprensibile e condivisibile. La vittima designata non ha accettato il suo destino, non ha aspettato di essere dolcemente rimossa da mani curiali in tempi più tranquilli: si è tolta di mezzo da sola. Diciamo vittima con la piena consapevolezza che qui la parola è quella giusta. L´aggressione contro Boffo ha teso a distruggerne strumentalmente il ruolo sociale e la vita privata, sfruttando cinicamente il clima di linciaggio che il semplice sospetto di scelta o tendenza omosessuale sta scatenando oggi in Italia, indizio questo sì della malattia morale e della regressione nazistoide del paese. Quanto alle dimissioni, era stato monsignor Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del consiglio Cei per gli affari giuridici, che ne aveva formulato per primo l´ipotesi. Mogavero sapeva che le dimissioni sarebbero state intese come ammissione di colpa.
Lo sappiamo tutti: in Italia, fin dai tempi di Dante Alighieri, la parte offesa e ferita diventa nel grido collettivo la parte colpevole. Ma quali saranno da oggi le sedi opportune per accertare i fatti? E quali fatti ancora si dovrebbero accertare? Una cosa sola è chiara: con le dimissioni di Boffo si apre un vuoto: non solo fra le voci autorizzate e autorevoli della Chiesa-Potere e il titolare del potere politico e monopolista dei media italiani, ma anche all´interno dell´arcipelago che si chiama Chiesa in Italia o Chiesa italiana. Adesso forse qualcuno tenterà ancora di chiudere la partita con qualche paroletta di solidarietà. Si potrà sempre battere una pacca consolatoria sulla spalla del dimissionario, contando sul fatto che tanto in Italia chi si dimette ha sempre torto. Si potrà dire che il direttore di Avvenire è stato oggetto di un «inqualificabile attacco mediatico» - questo il commento, per esempio, del cardinale Angelo Bagnasco. Bagnasco è il presidente della Conferenza episcopale italiana e in quanto tale è responsabile della condotta di Avvenire e del suo direttore quasi quanto Silvio Berlusconi è responsabile delle scelte del Giornale di famiglia. L´attacco è inqualificabile ma non viene da un killer ignoto. Viene dall´impero italiano dei media ed è ascrivibile al suo padrone. Il contenzioso opporrà la Chiesa nelle sue molte forme ed espressioni italiane al presidente del Consiglio tanto più direttamente e immediatamente quanto più lo spazio tra i due è rimasto sgombro e vuoto. E c´è qualcosa di grottesco nella scena che si profila: il dialogo tra un´entità teoricamente monolitica e governata da un Papa infallibile e ostile al relativismo, oggi diventata una Babele di linguaggi, e il capo di un governo teoricamente democratico che parla la lingua di un potere intollerante di ogni critica e si immagina nei panni fumettistici di un Super Supeman.

Repubblica 4.9.09
Nel duello Bertone-Bagnasco spunta il "Piano Esterno" per il "Nuovo Centro"
di Massimo Giannini


«E adesso niente sarà più come prima...». Non è un anatema. Piuttosto è una presa d´atto, dura ma netta, quella che si raccoglie Oltre Tevere in queste ore difficili e amare.
La solidarietà tardiva a Boffo e un progetto politico con Casini e Montezemolo

Se è vero che Dino Boffo è «l´ultima vittima di Berlusconi», come scrive persino il New York Times, è chiaro che questa vicenda apre una doppia, profonda ferita. Sul corpo della Chiesa, già attraversato da divisioni latenti. E nel rapporto tra Santa Sede e governo, già destabilizzato da incomprensioni crescenti.
Per la Chiesa, il doloroso sacrificio di Boffo nasconde la frattura che si è aperta tra Segreteria di Stato e Conferenza Episcopale. Per rendersene conto basta ricostruire le tappe che hanno portato alla drammatica uscita di scena del direttore di Avvenire. Venerdì scorso si consuma il primo atto, con l´operazione di killeraggio del Giornale e il conseguente annullamento della Cena della Perdonanza tra Bertone e Berlusconi. Un colpo a freddo, che nelle alte gerarchie nessuno si aspettava, ma che innesca reazioni differenti. Nel fine settimana Boffo comincia a meditare sull´ipotesi delle dimissioni. L´idea prende materialmente corpo lunedì mattina, quando sul Corriere della Sera esce un´intervista al direttore dell´Osservatore Romano. Una sortita altrettanto inaspettata, quella di Gian Maria Vian, che giudica «imprudente ed esagerato» un certo modo di fare giornalismo dell´Avvenire e conclude con un sibillino «noi non ci occupiamo di polemiche politiche contingenti».
Per l´intera mattinata Boffo aspetta una correzione di tiro della Segreteria di Stato. Ma non arriva nulla. Oltre Tevere si racconta di una telefonata di Bagnasco: «Scusate, ma quell´intervista è cosa vostra?», avrebbe chiesto a Bertone. «Non lo è - sarebbe stata la risposta - e ci siamo anche lamentati con Vian, che ha impropriamente parlato in prima persona plurale». Ma questo è tutto. Dalla Segreteria di Stato non esce nulla di pubblico. Così, lunedì pomeriggio Boffo va personalmente da Bagnasco, e gli consegna la sua lettera di dimissioni. Mentre il direttore parla con il cardinale, arriva la telefonata di Ratzinger, che chiede: «Il dottor Boffo come sta? Mi raccomando, deve andare avanti...». Il presidente della Cei riferisce a Boffo, che di fronte al Papa non può certo tirarsi indietro.
Martedì mattina lo scenario in parte cambia. Repubblica dà la notizia: solidarietà del Pontefice a Boffo. Solo a quel punto, molte ore dopo, il direttore della Sala Stampa Vaticana padre Lombardi annuncia che Bertone ha effettivamente telefonato al direttore di Avvenire, per offrirgli il suo sostegno. Ma sono passati ben cinque giorni dal siluro di Feltri, prima che la Segreteria di Stato muovesse un passo ufficiale. Intanto Boffo è rimasto sulla graticola. E nel frattempo persino monsignor Fisichella, nel silenzio della Curia, contesta apertamente il quotidiano per le critiche al governo sull´immigrazione.
Mercoledì Feltri torna all´attacco, e sostiene che la «nota informativa» che getta fango sulla vita privata di Boffo è una velina uscita dal Vaticano. Padre Lombardi smentisce. E aggiunge l´ultima novità: papa Ratzinger ha chiamato il cardinal Bagnasco, per avere notizie «sulla situazione in atto». Ma dalla Segreteria di Stato ancora silenzio. Così si arriva al colpo di scena di ieri: dopo una settimana di fuoco incrociato, il direttore di Avvenire getta la spugna e se ne va.
Ma perché all´offensiva volgare e violenta del Giornale la Santa Sede ha fatto scudo in modo così discontinuo e frammentato? «Qui - secondo la ricostruzione che si raccoglie negli ambienti della Cei - si apre la frattura con l´episcopato». Il cardinal Bertone, due anni fa, aveva lanciato la candidatura di Bagnasco alla Conferenza episcopale con una convinzione, che la realtà dei fatti ha presto svilito in pia illusione: trasformare la conferenza dei vescovi in una «cinghia di trasmissione» della Santa Sede, dopo la stagione troppo lunga dell´autoreferenzialità ruiniana. Il tentativo è fallito, ben prima che scoppiasse il caso Avvenire e che scattasse l´imboscata mediatica ordita dal Cavaliere e dai suoi giornali ai danni del direttore. «Lo stesso Bertone lo ha riconosciuto - raccontano Oltre Tevere - quando qualche settimana fa si è lasciato scappare che la nomina di Bagnasco è stato il suo errore più grave. E certe cose, in questi palazzi, si vengono a sapere molto presto...».
Secondo questa stessa ricostruzione, il caso Boffo precipita proprio in questa faglia, che divide Bertone da Bagnasco. E in questa faglia si inserisce anche l´ultima, clamorosa indiscrezione di queste ore: cioè quello che Oltre Tevere qualcuno definisce «il Piano Esterno». Contrariamente a quello che si pensa - raccontano - «il Segretario di Stato non vuole una Cei schierata con Berlusconi, che considera ormai già fuori dai giochi. Il vero progetto che sta a cuore alla Santa Sede riguarda la nuova aggregazione di centro, che ora avrebbe Pierferdinando Casini come perno politico, e che in futuro vedrebbe Luca di Montezemolo come punto di riferimento finale». A questo «Piano Esterno» si starebbe lavorando da tempo, tra Segreteria di Stato e una piccola, ristretta cerchia di intellettuali esterni, laici e cattolici, che orbitano intorno al Vaticano e allo stesso direttore dell´Osservatore Vian.
Vera o falsa che sia, questa ipotesi spiega molto di quello che è accaduto e può ancora accadere. Bertone - sostengono ambienti vicini alla Cei - potrebbe aver gestito il caso Boffo proprio in questa logica: usare l´aggressione al direttore di Avvenire prima per rimettere in riga l´episcopato, e poi per assestare il colpo finale contro il presidente del Consiglio, aprendo le porte del paradiso alla Cosa Bianca di Casini e Montezemolo. Di qui, fino a ieri, la difesa intermittente e quasi forzata a Boffo. Di qui, da domani in poi, la rottura definitiva e irrimediabile con Berlusconi. «Niente sarà più come prima», appunto. Vale per la Chiesa di Roma, ma vale anche per il Cavaliere di Arcore.

il Riformista 4.9.09
Ora un pezzo di Cei è pronto alla guerra vera col Governo
Scenari. Il compromesso tra Santa Sede ed episcopato che ha portato alle dimissioni di Boffo non ha chiuso le ostilità nella Chiesa. Berlusconi punta al canale privilegiato con Bertone. Oltretevere si confida nel ruolo del Colle. Bossi incontra Bagnasco. Ma il nuovo Avvenire non sarà più indulgente col Cavaliere.
di Stefano Cappellini


«Non è detto che chi ride oggi continuerà a farlo domani». Così dice al Riformista una fonte vicina alla Cei. Come dire: oggi hanno vinto i nemici di Boffo, dentro e fuori la Chiesa. Ma le conseguenze sul lungo periodo di questa vicenda sono ancora tutte da decifrare, sia nei rapporti tra Santa Sede e Conferenza episcopale, sia in quelli tra la politica e le gerarchie cattoliche. Del resto, nel caso Boffo poco è come appare: vinti e vincitori, congiurati e vittime, testimoni e complici.
I vincitori di giornata, Silvio Berlusconi e Vittorio Feltri, sono nell'imbarazzo di non poter celebrare il successo. Non solo per le ovvie ragioni di opportunità e prudenza, ma perché il risultato ottenuto è andato oltre le previsioni: Boffo si è dimesso - e questo era certo messo in preventivo nella campagna stampa contro di lui - ma il terremoto che ha investito la Chiesa italiana è troppo forte per pensare che questa vicenda possa chiudersi con l'uscita di scena del direttore di Avvenire. Non solo: chiunque sia il successore di Boffo al giornale, si può fin d'ora prevedere che non sarà troppo indulgente con il presidente del Consiglio. Perché il vertice dei vescovi italiani può accettare di sacrificare un proprio uomo, sebbene centrale nelle traiettorie di potere degli ultimi tre lustri, ma non si può certo pensare che adesso avalli una linea rinunciataria verso il Governo, trasmettendo l'idea di una resa incondizionata al potere dei media e della politica. Sarebbe la liquidazione definitiva dei tre lustri in cui il cardinale Camillo Ruini ha rifondato il ruolo e l'influenza della Chiesa italiana orfana del partito unico dei cattolici. Ruini ha difeso Boffo con orgoglio e forza. E Bagnasco è ormai esposto quanto il suo predecessore. La principale preoccupazione della Cei sarà di qui in avanti non lasciare che la sconfitta si trasformi in disfatta. Le tensioni con maggioranza e Governo potrebbero addirittura intensificarsi. E, non a caso, dopo aver aperto più di un fronte polemico con la Chiesa, ieri il leader della Lega Nord Umberto Bossi e il ministro Roberto Calderoli si sono precipitati a incontrare Bagnasco. Un'ora di colloquio, a quanto si apprende, per stemperare i toni delle polemiche e provare a siglare una tregua.
Berlusconi, per parte sua, è concentrato a ripartire da dove tutto è iniziato, quando Tarcisio Bertone annullò la cena della Perdonanza per via delle uscite di Feltri. Il premier può ora tornare a concentrarsi sull'obiettivo di una interlocuzione privilegiata con la Segreteria di stato vaticana. Questo, del resto, era anche dall'altra parte un obiettivo di Bertone fin dall'insediamento: semplificare i canali di comunicazione con le istituzioni italiane, centrandoli sul rapporto con le figure del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che sopra tutti è considerato Oltretevere il garante degli equilibri tra Stato italiano e Santa sede.
Ieri - dopo i tuoni e fulmini di padre Lombardi in sala stampa vaticana («Feltri fomenta il caos») - è prevalso Oltretevere un circospetto silenzio. «Il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco prende atto, con rammarico, delle dimissioni irrevocabili del dottor Dino Boffo dalla direzione di Avvenire, Sat2000 e RadioInblu». Così l'Osservatore Romano ha dato ieri la notizia delle dimissioni di Boffo, senza aggiungere altri commenti. Una asciuttezza non certo inedita per il quotidiano vaticano, ma che nel turbine di ricostruzioni legate al caso ha contribuito ad avvalorare la tesi secondo cui la Santa Sede ha ottenuto ciò che voleva: un passo indietro del direttore di Avvenire, per fermare il flusso di indiscrezioni e notizie sulla sua vecchia condanna per molestie e sottrarre la Chiesa a una situazione sempre più imbarazzante.
C'era già due giorni fa un accordo tra segreteria di Stato vaticana e Cei per chiudere la partita con un compromesso? Ovvero da una parte la disponibilità del pontefice a dare solidarietà all'istituzione e dall'altra l'impegno dell'episcopato a convincere Boffo della necessità di dimettersi? Questo è ciò che si sussurra, portando a suffragio della tesi una interpretazione più sottile della solidarietà che Benedetto XVI ha offerto a Bagnasco con la telefonata resa nota martedì scorso dall'ufficio comunicazione della Cei: Boffo non era mai citato nel resoconto della telefonata, mentre si dava conto della volontà di Benedetto XVI di avere informazioni sulla vicenda. Un modo, sottolineano gli esegeti delle liturgie vaticane, per separare il destino della singola persona (e i suoi eventuali errori personali, non troppo eventuali, in questo caso) da quello dell'istituzione.
Pure in Vaticano, comunque, non mancano motivi di preoccupazione. Perché, com'è evidente, questa vicenda è stata gestita senza un piano razionale e meditato. E i suoi esiti sono il frutto di compromessi e scontri ovattati, ma non per questo meno forti. La verità è che l'onda d'urto provocata dagli articoli del Giornale sui trascorsi giudiziari di Boffo ha colto di sorpresa tutti, sia gli amici di Boffo nella Chiesa sia i suoi detrattori. Paradossale, visto che numerosi e consistenti indizi testimoniano del fatto che veleni e veline sul conto del direttore di Avvenire erano a conoscenza di decine e decine di ecclesiastici (e non solo) e che quindi sarebbe stata logica una reazione pronta. Ma, evidentemente, regnava la convinzione generale che le carte - il certificato del casellario giudiziario e il cosiddetto lato B con il dossier sulle inclinazioni sessuali del giornalista - non avrebbero mai visto la luce. Convinzione non priva di qualche speranza dato che il documento, certamente anteriore al marzo 2007 (e cioè al cambio di guardia tra Ruini e Bagnasco alla guida della Cei), era stato diffuso e offerto a molti, ben prima che sul finire della primavera scorsa fosse inviato a decine di vescovi.

il Riformista 4.9.09
Sul biotestamento si può inceppare il congresso del Pd
di Alessandro Calvi


DOPO IL CASO BOFFO. Se il Pdl imprimesse un'accelerazione sul fine-vita alla Camera, potrebbero esplodere le contraddizioni interne alle mozioni. Il detonatore è nelle mani del premier.

Le posizioni sono sempre le stesse di sempre. Nessuno sembra aver cambiato idea. Anche perché, per la verità, da mesi nel Partito democratico di testamento biologico quasi non si parla più. Tema cancellato, sacrificato come altri, del resto, sull'altare delle primarie. E però proprio la corsa alla segreteria e la nascita delle tre mozioni ha rimescolato le carte in tavola, portando gli avversari di un tempo a sedere l'uno accanto all'altro, creando una mistura tendenzialmente instabile, tanto che potrebbe finire per deflagrare in tutta la sua potenza anche sul congresso democrat.
Il Pd, infatti, potrebbe avere ben nascosto in casa propria un candelotto di dinamite pronto ad esplodere. Il detonatore, però, è altrove, è nelle mani del Cavaliere il quale, per le note vicissitudini tra le due sponde del Tevere, potrebbe avere tutto l'interesse ad accenderlo quanto prima.
Sostiene Ignazio Marino che, in questi giorni nei quali sta girando l'Italia, è la chiarezza che la gente chiede al Pd. E aggiunge: «Noi sui diritti civili, come su tutto il resto, siamo stai chiari. Abbiamo costruito la nostra mozione su una comunione di idee, le altre due mozioni hanno costruito una comunione di correnti che però, avendo idee diverse, quella comunione non possono realizzarla». D'altra parte, il primo a lanciare l'allarme era stato proprio Marino. In una recente intervista al Riformista aveva spiegato che «chi guida il partito è in una situazione in cui è impossibile dire dei sì e dei no chiari e dare una identità al partito». «Eppure - aveva aggiunto - i cittadini hanno diritto di sapere cosa propone il Pd». Se per i cittadini questo è un diritto, però, per il partito sembra più che altro un rischio. Soprattutto nel caso in cui i temi della bioetica, sui quali il partito si è sempre diviso, dovessero tornare prepotentemente di attualità e, dalle dichiarazioni rilasciate dagli esponenti delle varie mozioni ai giornali, legittimamente influenzate dalla corsa alla segreteria, si dovesse tornare improvvisamente a esprimere una posizione di partito.
Cosa farebbero, allora, Enrico Letta e Gianni Cuperlo, oggi entrambi sostenitori di Bersani ma su fronti opposti quanto alla bioetica? E lo stesso vale per il fronte opposto. Non sarebbe facile far andare d'accordo due persone così diverse come Debora Serracchiani e Dorina Bianchi, tanto per fare due nomi. Difficile dimenticare l'esordio sulla ribalta nazionale della prima, con quel suo discorso all'assemblea dei circoli a Roma, quando, davanti a Franceschini al quale non riusciva a dare del tu, strappava applausi menando fendenti a destra e a manca fino all'affondo sul testamento biologico. «Trovo che sia un errore assoluto - disse - quello di aver indicato come capogruppo alla commissione sanità del senato chi non è portatore della posizione prevalente». Si riferiva, per l'appunto, proprio a Dorina Bianchi, oggi sua collega di mozione.
Nel Pd, però, le preoccupazioni per ora sembrano essere rivolte a ben altro. E non si fa fatica a crederlo, considerando che il traguardo della nuova segreteria si avvicina sempre più velocemente. Così, Giorgio Tonini, braccio destro del Veltroni segretario e oggi nella trincea di Dario Franceschini, non respinge l'osservazione e, anzi, la accoglie e rilancia la palla a destra. «Il problema vero - dice - non è quello degli schieramenti o delle convenienze tattiche ma di dare al paese la miglior legge possibile. E se ci fosse questa possibilità, io affronterei molto volentieri anche qualche tribolazione al nostro interno». Ma, dice ancora Tonini, «se il Pdl deciderà di accelerare, questo non potrebbe che significare una blindatura sul testo del Senato. E, allora, con un paradosso, potrei dire che questo sarebbe lo scenario meno preoccupante per noi».«Se fossi nella maggioranza - dice ancora, passando di paradosso in paradosso - questa sfida io la lancerei. Se invece decideranno di chiudersi a riccio faranno un pessimo servizio al Paese, non a noi».
Anche Gianni Cuperlo, fronte Bersani, è convinto del fatto che «fino a quando il Pdl è compatto su quella legge sta facendo un danno al paese». E anche Cuperlo prova a tenere distinti i piani, quello parlamentare e quello congressuale anche se, spiega, «la cosa principale è concentrarci sul merito della legge. E il merito continua ad essere irricevibile». Dunque, nessuna preoccupazione per eventuali voti in uscita dal Pd alla Camera che Rocco Bottiglione, ieri sul Riformista, valutava tra i 10 e i 20. E nessuna preoccupazione per eventuali contraddizioni che il percorso parlamentare potrebbe innescare su quello congressuale. «Faremo tutto ciò che possiamo - dice ancora Cuperlo - per modificare gli aspetti più gravi del testo uscito dal Senato, ovvero la sottrazione del corpo alla personalità del malato in nome di una visione etica e di parte che non è conciliabile con la nostra Costituzione».

Repubblica 4.9.09
"Nelle tue mani", il nuovo libro di Ignazio Marino
Da Welby a Eluana il medico e il potere
di Stefano Rodotà


La medicina tra fede, etica e diritti. I casi che hanno suscitato le polemiche più recenti, in una riflessione sulle scelte tragiche tra la vita e la morte

Un libro sul potere, che può divenire prepotenza, ma può anche far nascere una più intensa responsabilità, soprattutto quando viene esercitato nei confronti di chi si trova in una situazione di particolare debolezza, qual è quella di chi affida al medico sé e la propria salute. È questo il filo lungo il quale si dipana la riflessione di Ignazio Marino (Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti, Einaudi, pagg. 227, euro 18), che parte proprio dal "potere di vita e di morte" che il medico si vede attribuito dall´aver scelto una professione che accompagna l´esistenza nell´intero suo ciclo, spesso obbligandolo a "scelte tragiche", a prendere decisioni che possono andare oltre lo stesso paziente, toccano la sua famiglia, possono incidere sulla società, interrogando la stessa politica. Marino unisce esperienza diretta e analisi di questioni generali, componendo un quadro che fa cogliere un insieme di collegamenti e mostrando così quali debbano essere gli interventi necessari per fronteggiare i dilemmi che la medicina pone a ciascuno di noi.
Non è soltanto un espediente narrativo il richiamo ai casi concreti, alle persone con le quali Marino ha stabilito rapporti nella sua attività professionale tra l´Italia e gli Stati Uniti. Solo così è possibile cogliere una realtà sfaccettata, dove ogni vicenda è diversa da tutte le altre e, quindi, sfida le pretese di regole rigidamente uniformi, che impediscano al medico di manifestare proprio la virtù di chi sa cogliere la specificità del singolo caso, e di intervenire nel modo più adeguato. Questo, però, non significa riconsegnare la persona a un potere medico del tutto discrezionale, autoritario. Basta considerare l´attenzione di Marino per la "alleanza terapeutica" tra medico e paziente, ben diversa dal modo in cui altri la prospettano con il fine di imporre una nuova subordinazione della persona al potere del terapeuta. Nel libro, infatti, vi sono due fermi principi di riferimento: la salute come diritto fondamentale dell´individuo; il consenso della persona come condizione ineliminabile per qualsiasi intervento medico.
Questi riferimenti consentono a Marino una ricostruzione attenta dei casi che hanno più influenzato la discussione italiana, quelli di Piergiorgio Welby e di Elauna Englaro. Ma soprattutto gli permettono di indicare il perimetro all´interno del quale non solo si deve svolgere l´attività del medico, ma dove trova regola e limite pure l´intervento della politica, del legislatore. L´andamento del libro è proprio questo: un continuo misurare le affermazioni di carattere generale sulla realtà, quella, ineludibile, della vita delle persone. Ne risulta una argomentazione netta, che non evita le questioni critiche, anzi le mette in evidenza, e che proprio per questo è libera da condizionamenti ideologici.
Si chiarisce così anche uno degli equivoci più pesanti della discussione italiana, che identifica l´attenzione pubblica per i problemi della vita e della salute con l´imposizione di un´etica di Stato. Altro, infatti, è il ruolo del pubblico: apprestare le strutture che consentono ai due principi ricordati prima, salute come diritto e volontà libera della persona, di trovare piena e concreta attuazione. E, via via che si avvicina a questo nodo, il libro assume i toni di una impietosa requisitoria, che mette a nudo i vizi di gestione di una riforma sanitaria che si è allontanata dalla sua ispirazione, garantire a tutti un diritto fondamentale. Marino non fa sconti a nessuno. Né al Parlamento, "provinciale", incapace di un vero contatto con la realtà; né alla classe medica, "orientata più dall´avidità che da un sincero senso di missione"; né a un business della sanità dove troppo spesso il profitto cancella ogni altro criterio.
Se l´indignazione muove la sua denuncia, a essa segue una puntuale indicazione dei rimedi. Non si potrebbe trovare un lavoro più "propositivo", dove è delineata una vera "riforma della riforma". Bisogna tenerne conto, perché la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.

Repubblica 4.9.09
Sfratto esecutivo per la Montalcini "Distruggono il lavoro di una vita"
Roma, istituto di ricerca senza fondi per la sede. Domani decide il giudice
di Carlo Picozza


La sorte di cinquanta tra ricercatori e scienziati è appesa a un filo, anche Napolitano si era detto preoccupato

ROMA - Sotto sfratto esecutivo, rischia di chiudere l´Ebri, l´Istituto di ricerca sul cervello, voluto dal premio Nobel per la Medicina, Rita Levi Montalcini, e nato a Roma nell´aprile del 2005. «Lo sfratto», commenta la centenaria fondatrice, «mette in forse tutto ciò che ho fatto, i risultati scientifici ottenuti e l´impegno del capitale umano eccezionale che lavora in Istituto». La sorte della cinquantina tra scienziati e ricercatori dell´European brain research institute è appesa al pronunciamento del giudice, domani mattina. Ma con la chiusura delle utenze, l´attività di ricerca sugli enigmi del cervello aveva già subito una battuta di arresto.
L´agonia dell´Ebri era cominciata il 2 ottobre 2008 con una lettera della fondazione Santa Lucia che ospita nei sui immobili l´Istituto della Montalcini: «Per la nostra fondazione senza scopi di lucro è indispensabile ricercare una sostanziale parità tra entrate e uscite. Ma questo equilibrio è compromesso dal corrente sistema di ripartizione delle spese di gestione da noi anticipate e restituite dall´Ebri nella misura del 24%, con notevoli ritardi, più volte segnalati».
In giugno ai giovani ricercatori dell´Ebri non erano stati corrisposti gli stipendi. Nel mese successivo era stato sospeso l´uso dei telefoni. Gli inadeguati finanziamenti pubblici non sono bastati a coprire i costi delle ricerche né quelle di gestione. E che l´Ebri navigasse in cattive acque lo aveva fatto intuire, nei mesi scorsi, anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: stringendo la mano alla centenaria promotrice dell´Ebri le aveva rivolto l´augurio di una grande possibilità di sopravvivenza per le sue iniziative di ricerca.
«Nel settembre 2001, in un workshop a Cernobbio», racconta Rita Levi Montalcini, «feci la proposta di far nascere un Istituto sull´organo che presiede pensiero e azione, per fornire l´opportunità a tanti scienziati italiani di rientrare nel loro Paese dal quale erano dovuti emigrare per la scarsità dei centri di ricerca». Lo ricorda ripensando al suo "confino" nella stanza da letto dove aveva impiantato un vero e proprio laboratorio per continuare le ricerche «insieme con Giuseppe Levi, dopo la promulgazione delle leggi razziali» e prima di recarsi in America, a guerra finita, nel 1947, invitata dal chairman del dipartimento di Zoologia della Washington University, Vicktor Hamburger.
Il «Polo delle Neuroscienze» è stato per Montalcini «il sogno di una vita». E per l´esplorazione del cervello, l´Ebri partì insieme con il Cnr e il Santa Lucia. In tutto, 255 tra medici, biologi, biochimici, neurobiologi, fisici, matematici, immunologi, genetisti, informatici, cognitivisti, e 44 laboratori su uno superficie di 25 mila metri quadrati, nella coda metropolitana della capitale, tra l´Ardeatina e la Laurentina, per studiare il funzionamento dell´organo più complesso e misterioso anche in presenza di patologie come l´Alzheimer, il Parkinson, l´ictus, la sclerosi laterale amiotrofica.
L´ingiunzione di sfratto è stata comunicata il 22 luglio scorso, con la richiesta del rilascio dei locali entro il 30 settembre. Il ricorso è già partito, ma il premio Nobel, teme che si interrompa «l´ultimo capitolo della mia vita che si sta rivelando il più importante dal punto di vista scientifico, con i formidabili risultati attraverso l´impiego del Nerve growth factor (il fattore di crescita delle cellule nervose da lei scoperto, ndr)». Un impegno alla sopravvivenza dell´Ebri è arrivato dal presidente del Cnr, Luciano Maiani, che «sta esplorando la possibilità» di accogliere la fondazione della Montalcini in ambienti «da noi utilizzati».

l’Unità 4.9.09
Ieri in tanti a viale Trastevere. Anni di impegno e fatica in una scuola che li allontana
La giungla delle graduatorie. Mille euro al mese, poche speranze di farcela
I precari assediano la Gelmini «Ecco i nostri giorni d’inferno»
La rabbia dei precari della scuola sotto la sede del ministero della Gelmini. Anni di ballo da una scuola all’altra e ora la «fregatura». E la certezza che il «contratto di disponibilità» sarà per pochi.
di Massimo Franchi


Mentre il Consiglio dei ministri discute del loro futuro, i precari della scuola sanno già che rimarranno «fregati». L’unica speranza è chiedere un miracolo alla “Beata assunta”, statua issata sulle scalinate del ministero di viale Trastevere. Dopo anni passati a saltare da una scuola all’altra, da una città all’altra, ora non hanno altre possibilità. Stanno passando giorni d’inferno, tra l’incredulità per i tagli di cattedre, per le graduatorie sbagliate, per (gli inutili) viaggi della speranza lontani da casa. Il loro futuro è scritto: «Siamo a spasso», raccontano in coro. Ognuno ha la sua storia, la rabbia è il comune denominatore.La fregatura la conoscono già. La Gelmini darà una mano solo a quelli di loro che l’anno scorso hanno avuto una cattedra annuale. Per tutti gli altri, e sono una maggioranza, niente di niente.
Gente che da anni manda avanti la scuola italiana. Come Giorgio, 53 anni, nelle graduatorie dall’ormai lontano 1984 in una delle classi più affollate, Scienze motorie, quella dei professori di educazione fisica. «Nonostante un punteggio altissimo e dopo anni di supplenze annuali, l’anno scorso mi sono dovuto accontentare dei 3 segmenti. Giravo tutta Roma con 4 ore in una scuola, 2 in un’altra e 10 nella terza. Per meno di mille euro al mese. Quest’anno invece i tagli hanno fatto una catastrofe». Esistono infatti tre graduatorie. La prima riguarda gli abilitati e viene stilata dai Csa (centri servizi amministrativi), gli ex provveditorati. Da qualche anno si possono richiedere altre tre provincie oltre a quella di residenza. Pur di trovare un posto Paola ha inserito Cagliari. «Alla faccia di Brunetta, noi siamo abituati a muoverci e non siamo dei fannulloni spiega -. Il viaggio della speranza è stato totalmente a carico nostro: nave e pullman. Siamo arrivati all’ufficio e ci hanno detto che il viaggio era inutile: di cattedre non ce n’era neanche una. Ho urlato, mi sono sfogata un po’ e poi sono tornata a casa, ma la rabbia è tanta».
POCHE SPERANZE
Viaggio della speranza che non faraFabrizio, 45 anni. «Io la cattedra annuale la avevo nella stessa scuola nel Viterbese da 5 anni racconta -. E non mi aspettavo proprio di non riaverla quest’anno. Con il mio punteggio la avrei avuta in quasi tutte le altre province d’Italia, ma non ho fatto altre richieste e così rimango fregato. Con due figli e una moglie a carico».
Altri hanno trovato semplici comunicazioni. «Un foglio A4 che semplicemente spiegava come “La disponibilità di cattedre sono terminate, eventuali nomine aggiuntive verranno comunicate nelle prossime settimane”». Altri, come Maria, non hanno trovato il loro nome. «Se lo sono dimenticati e capita quasi tutti gli anni. Succede perché i tagli sugli Ata, gli amministrativi, sono forti come da noi e anche loro sono in difficoltà».
La seconda graduatoria è di passaggio e non dà posti, né problemi. La terza riguarda i non abilitati e la stila ogni scuola. È lì che tutti ora speano di trovare un posto. «Adesso aspettiamo continua Giorgio : se usciranno nuove disponibilità, se ci saranno delle rinunce, se i tagli saranno ridotti. Se, se, se. La nostra è una vitadiseea50anninoncelafai più».
A tagliare le gambe alle sue speranze c’è la certezza che le migliaia di precari che l’anno scorso avevano una cattedra, ora andranno a togliere posti nelle graduatorie temporanee. «E così siamo sicuri di rimanere a casa», sintetizza Paola.
Manuela, 29 anni, una delle più giovani in piazza, sarà una delle poche a poter avere il cosiddetto «contratto di disponibilità», avendo cattedre annuali da anni. Ma non è affatto contenta. «È un ammortizzatore sociale bello e buono. I sindacati dovrebbero rifiutarlo perché in questo modo accettano la politica di tagli che stanno rovinando la scuola italiana».❖

l’Unità 4.9.09
L’allegoria di Maselli e le sue «Ombre rosse» sulla sinistra italiana
di Alberto Crespi


Un film-apologo, piena di stelle come Herlitzka, Lucia Poli e altri, in stile «Lettera aperta a un giornale della sera»: ma di fronte a questi intellettuali dei salotti e questi ragazzi dei centri sociali si sente la stessa distanza...

Prendiamo Citto Maselli in parola – «Le ombre rosse è un’allegoria, una metafora della sinistra italiana» – e diciamo subito che i personaggi del suo film sono esclusivamente simbolici: dovessimo pensare che sono veri, sarebbe un disastro (e soprattutto dovremmo augurarci di non incontrarne mai nemmeno uno, nessuno escluso). Allora: un grande intellettuale di sinistra (Roberto Herlitzka) accetta un invito a parlare in un centro sociale. Una volta lì, non dice un bel nulla (perché l’avranno invitato? Boh!) ma rilascia una secca dichiarazione alla tv privata del centro medesimo: «La vitalità del vostro centro mi ha molto colpito, e come diceva Malraux penso che i centri sociali dovrebbero diventare altrettante case della cultura». Nella realtà, una simile banalità non uscirebbe nemmeno nella cronaca locale, ma è un film allegorico: per cui la cita in prima pagina Le Monde, finisce su tutte le tv del mondo e si accende il dibattito. Un grande architetto-divo viene ingaggiato per ristrutturare il centro, si presentano le Coop rosse per gestire il merchandising, vengono coinvolti i partiti della coalizione di governo (dimenticavamo: c’è il governo Prodi), si fa un gran chiacchierare... ma i ragazzi del centro sociale, duri e puri (e sempre in canotta e anfibi, soprattutto le ragazze) non si lasciano corrompere. Risultato: la sinistra perde le elezioni (lo capisce dal fatto che per strada suonano i clacson, e come dice la direttrice di giornale Lucia Poli – una Rossanda un po’ meno simpatica – «i clacson non sono di sinistra») e i ragazzi trovano un altro rudere in cui costruire il futuro.
Maselli ha rifatto il film-apologo in stile Lettera aperta a un giornale della sera. C’è una differenza sostanziale: allora un simile film era «dentro» il dibattito politico, e l’idea di un gruppo di intellettuali comunisti che si offre provocatoriamente di partire per combattere a fianco dei Vietcong suonava vera come a volte suonano i paradossi; oggi, Le ombre rosse sembra un reperto archeologico. Il dramma, almeno per noi, è vedere queste due metafore – gli intellettuali dei salotti, i giovani no-global – e provare, lì sullo schermo, distanza e disperazione nei confronti di entrambe. Maselli sta con i giovani, e questo è bello: ma uno dei problemi della sinistra italiana (forse non il più grave) è avere ancora, in parte, un Immaginario simile a quello raccontato in questo film.❖

Repubblica 4.9.09
"Le ombre rosse", un pamphlet generazionale
Addio alla sinistra firmato Maselli
di p.d'a.


Non è un film facile Le ombre rosse di Francesco Maselli. Che torna al Lido anche per prendere il Premio Pietro Bianchi dei giornalisti cinematografici. Oltre che per confermare il suo protagonismo di lottatore sul fronte politico/culturale che vedrà schierate tutte le associazioni, il giorno 6 nella sede delle Giornate degli Autori. Dedicato alla memoria di Sandro Curzi (antico compagno di fede e di liceo) e idealmente collegato al suo Lettera aperta a un giornale della sera del 1970, autobiografia dell´intellighenzia cine-comunista sconvolta dalle novità degli anni 60, ne riproduce il doppio binario critico/autocritico. L´impasto di autentica inquietudine e di ipocrisia, cioè di finto adattamento e vero istinto di autoconservazione e di casta. E l´autore qui, come lì, si infila tutto intero nei sentimenti e risentimenti messi in scena.
Mette in scena anche se stesso. Allora c´era il Pci e c´erano le sirene terzomondiste e i richiami dei nuovi estremismi prodotti dalla scia del ´68. Oggi non c´è più il Pci, e nessuna delle espressioni che hanno tentato di riempirne il vuoto soddisfa il pur sempre comunista Maselli; in più il centrosinistra che non gli è mai piaciuto ha riperso e il centrodestra berlusconiano ha rivinto. Tutto ciò fa da sfondo allo psicodramma che si consuma dentro e intorno a un centro sociale, popolato da figure tipiche o ricalcate su personaggi reali: ci si può sbizzarrire nell´immaginare le fonti d´ispirazione (Asor Rosa, Foa, Rossanda, Fuksas?). Si direbbe che il bilancio catastrofista sia non solo l´assenza di sinistra ma anche l´impossibilità di un operare di sinistra qui, oggi. Sul versante stilistico è ancor più difficile pronunciarsi. Immerso nelle questioni di stile dalla testa ai piedi, Citto dà però l´impressione di aver scelto il pamphlet nudo e crudo. Con il rischio di scontentare chi al cinema chiede di più, unito a quello di non farsi capire al di sotto di un´asticella generazionale ormai alta. Coro di interpretazioni non proprio convincenti: Herlitzka, Foà, Lucia Poli, Valentina Carnelutti, Luca Lionello, Fantastichini. ()

il Riformista 4.9.09
L'Onda Rossa sommerge il lido di Venezia
di Luca Mastrantonio


REGIME? Alla Mostra va in scena di nuovo la sinistra, stavolta massimalista. Prima il grottesco anacronismo di "Le Ombre Rosse". Poi è la volta dell'anti Mediaset "Videocracy". Tutto sotto gli occhi di Michael Moore, in attesa del '68 di Placido. Mentre il Cavaliere fa pubblicità a "Baarìa" anche da Marzullo.

Venezia. Fa uno strano effetto seguire questa mostra iperberlusconiana, per lo strapotere di Medusa, per le tele-recensioni del Cavaliere, e vederla tingersi sempre più di rosso shocking, vuoi per il cannibalismo e gli zombie che stanno risvegliandosi, vuoi per il dilagare di opere d'opposizione, antagonista, di sinistra, di denuncia. In alcuni casi, poi zombie e sinistra coincidono, come l'improbabile e improponibile Ombre rosse di Citto Maselli, pieno di idee vecchie, di vecchi militanti, di giovani che s'atteggiano a fare gli attori e intellettuali che intellettualizzano.
Ma facciamo il punto rosso: l'altro-ieri, filmone di Tornatore su un comunista non pentito, un riformista, che non mangia bambini. Ieri sera è stata la volta di Videocracy, il documentario che mette sotto accusa le televisioni di Berlusconi. Ieri è arrivato anche il terribile Michael Moore, con un documentario contro il capitalismo. Prossimamente verrà proiettato il film di Michele Placido - che nel film di Tornatore interpreta un importante politico siciliano comunista, probabilmente Emanuele Macaluso - sul Grande sogno della sinistra. Insomma, rossa è la mostra nei suoi riti, dal red carpet alla facciata tutta vermiglia del vecchio palazzo, rosso sembra il colore politico di questa edizione (tra l'altro al bar della cittadella, quella dove volevano entrare i no-global fermati al decadentista Hotel Des Bains, ci sono le pubblicità per le Primarie del Pd. Vota e fai votare... Curioso davvero).
In "Videocracy", troneggiano uomini similtronisti e veline senza veli, personaggi di cartapesta come Fabrizio Corona e sceicchi biancastri come Lele Mora. Tutti, ovviamente, mostri creati dalla videocrazia di Berlusconi. L'autore, Erik Gandini, è nato a Bergamo ma è svedese di adozione, «dove ha trovato un clima televisivo nettamente diverso», ed è convinto che possa essere «terapeutico» mostrare agli italiani, con un «documentario creativo» (che è un po' un controsenso, come dire il vero artefatto, il reale immaginario), le malefatte televisive e antropologico del signore di Villa Certosa, che viene profeticamente indicata come epicentro di quella corruzione catodica dei corpi ad opera di Berlusconi. L'Italia? Un paese «in cui il passaggio da showgirl a ministro per le Pari opportunità è puramente naturale». Il film si apre con spogliarelli in bianco e nero sulle tv commerciali, l'inizio della rivoluzione sessuale che sarà di Berlusconi e che per i moralisti è una involuzione, una degenerazione, una videocrazia. Come se i Greci non pensassero per immagini, la loro filosofia non avesse condannato l'Occidente a prediligere la vista. E poi non si può incolpare Berlusconi delle malefatte di Corona e Mora, perché è responsabile chiunque ne parli. Gandini e noi, in questo momento, compresi.
Berlusconi Silvio, intanto, incontenibile, continua a fare pubblicità, gratuita, al suo film. Anche sulla Rai, da Marzullo, quando un giorno non è ancora iniziato e l'incubo non è ancora finito, Berlusconi ha rilanciato il suoi apprezzamenti estetico-industriali per Medusa, cioè per se stesso, la sua famiglia, il suo impero. «Baarìa è un'opera che sarà difficilmente eguagliabile, il capolavoro di un grande regista. Non sono un esperto di cinema - ha detto rispondendo ai commenti del regista - perché da troppi anni non riesco ad andare al cinema. Credo che non ci sia mai stato in Italia uno sforzo come questo, costato tre anni di lavoro, per realizzare il capolavoro di un grande regista. Un'opera straordinaria, un film che non si può non vedere. Ho detto a Tornatore che uno, dopo un capolavoro così, potrebbe anche morire». Quante corna avrà fatto il sicilianissimio Tornatore?
Dal riformismo di Tornatore, ieri si è virati al massimalismo. Come quello di Ombre rosse, uno di quei film che ti mette davanti agli occhi la sindrome dei migliori, nel senso morale più che togliattiano, che contagia molti giovani di buona volontà, e vecchi con troppa nostalgia, a sinistra. Il film si apre davanti ad un edicola, è il sequel di Lettera aperta a un giornale della sera, ed è incentrato sulla figura di un intellettuale, Sergio Siniscalchi (un catatonico e incartapecorito Roberto Herlitzka), che intraprende una faticosa avventura all'interno di un ambizioso centro sociale, che si chiama Cambiare il mondo, a Roma Nord. Laboratorio teatrale, dormitorio per senza tetto, si fanno concerti, lezioni a immigrati... insomma, un crogiuolo di buone intenzioni e creatività alternativa. Quello che dovrebbe essere un viaggio, un documento, diventa una gita al museo con guida, un manuale ideologico. L'impegno è dichiarato, ostentato, recitato, dal tono, dalla postura, dai gesti dei corpi celebrati in uno stato di dormiveglia costante, isterico nei risvegli, monotono nel rem. I discorsi sembrano la brutta copia dei dialoghi di Guerra che piombano i film di Antonioni. Il vuoto della società, la paura del futuro, il tutto involgarito da espressioni morettian-verdoniane tipo «abbiamo un sacco di cose da fare», un sacco di gente da aiutare, incontrare, contrastare.
Il film ricorda, in negativo - al peggio non c'è mai fine - Le ragioni dell'aragosta, per la commistione antropologica di documento e reality, per il gusto di filmarsi, di vedersi, mostrarsi in confidenza. Le persone spesso stanno in posa, guardano in camera, hanno un tono di voce solenne, impostato, dichiarato, oppure, di contro, spontaneo al limite del video della comunione. Anche i temi, la sinistra, l'impegno, sono "detti", non "mostrati". C'è un ammiccamento antropologico terribile, un rintanarsi fetale (del pessimo attore, se di attore si tratta, che interpreta il fondatore del centro sociale) a rimpiangere sogni infranti, affidando alla birra una deriva tossica grottesca più che tragica. Abbonda, ovviamente, l'autocelebrazione. Sorella minorata dell'autocritica. Uno dei divertimenti spacciati per tali doveva essere la possibilità di riconoscere chi si nasconda dietro chi. Who's who. Eppure, già solo il protagonista, Sergio, sembra un mix della supponenza intellettuale di Alberto Asor Rosa ed Edoardo Sanguineti o meglio Tronti. Siamo nel 2007, c'è il governo di centrosinistra, anzi, centro-sinistra, e il documentario di Citto Maselli sembra una resa dei conti, anzi, la presentazione del conto a chi non è stato massimalista, a chi ha aperto ai privati, ha cercato mediazioni, non ha accettato la sconfitta di un modello ideologico. Un attacco, che oggi suona maramaldeggiante, per esempio a Veltroni. Credevamo che la cultura fosse un bene comune, come l'acqua, dicono i ragazzi dopo un incontro infruttuoso con il vicesindaco, lo dicevate sempre in campagna elettorale. Già, la cultura è come l'acqua, e c'è chi se la vuole bere per soddisfare la propria sete di nostalgia. Che tutto ciò sia fatto con i soldi dello Stato - fondi del ministero - è un pessimo spot per gli aiuti al cinema. Bisogna aiutare il cinema o Citto Maselli a fare questo sgorbi?

l’Unità 4.9.09
Inchieste. Domenica riparte su Raitre «Presadiretta» di Iacona. Con i rifugiati rispediti in Libia
Censure. Il fotoreporter Dagnino parla di pressioni dall’Interno per non mostrare le sue foto
Respingimenti La tragedia che l’Italia non vede
di Mimmo Torrisi


Domenica su Raitre riparte con i respingimenti «Presadiretta», il programma di inchieste di Iacona. E grazie a un fotoreporter, Dagnino, racconta come vengono trattati i migranti e come l’Italia voglia nascondere i fatti.

Una sola bottiglia d’acqua per 74 uomini ammassati su un gommone da cinque giorni, prima di essere rispediti in Libia da dove erano partiti. Dietro la parola «Respingimenti» c’è anche questo, la faccia cattiva della nuova Italia. Oppure un timbro falso «fai da te» che avvalora una relazione geologica scaricata da internet per costruire in zona sismica (Calabria) e naturalmente ottiene la certificazione delle autorità competenti. Se le case si sbriciolano è anche perché in Italia possono accadere queste cose, per il vecchio vizio di barcamenarsi tra furbizia e compiacenza. Tutte cose che normalmente non si vedono in televisione, tranne rare eccezioni spesso a notte fonda. Cose che, invece, si vedranno a Presadiretta, la serie di inchieste di Riccardo Iacona che torna domenica su Rai3 per la sua seconda stagione. E il programma raddoppia: dopo le prime cinque puntate fino a metà ottobre si replica con altre 6 puntate da febbraio 2010.
Per ogni puntata c’è circa un mese e mezzo di lavoro. Per i respingimenti la squadra di Iacona (gli altri autori sono Francesca Barzini e Domenico Iannacone) ha ottenuto in esclusiva le foto scattate dal fotoreporter Enrico Dagnino per Paris Match che documentano il primo dei famosi respingimenti degli immigrati, gli scorsi 6 e 7 maggio. Si vede un gommone stracarico di uomini e donne assolati e assetati che salutano come una salvezza la motonave della nostra Guardia di Finanza (sulla quale da giorni c’è presente Dagnino per un reportage), festeggiano e pregano con le bibbie in mano, prima di cambiare espressione quando si rendono conto, ormai nei pressi di Tripoli, che la nave ha avuto ordine di invertire la rotta e sono nel porto libico. Qui finalmente si potrà vedere in tv la portata tragica della politica voluta dal ministro Maroni, quello che ha teorizzato che con «i clandestini bisogna essere cattivi». Alla sua cattiveria corrisponde la rassegnazione delle donne che scendono dalla nave per essere caricate su furgoni blindati con delle piccole aperture in alto per far filtrare un po’ di luce e aria. O la disperazione di molti uomini che s’inginocchiano dinanzi ai nostri finanzieri, stringendo le loro mani e pregandoli di non farli tornare indietro, quando hanno la forza di protestare. In altri casi sono talmente stremati da essere portati via a braccia e lasciati sul pontile.
RACCONTI DI STUPRI E TORTURE
Dagnino riferisce di racconti di torture e stupri subiti dai migranti, ma anche di poliziotti libici saliti sulle imbarcazioni della capitaneria di porto italiana per convincere «a colpi di remi» gli immigrati riottosi a scendere. Ma racconta anche di una telefonata persuasiva di un alto ufficiale della Finanza e dal ministero dell’Interno per non pubblicare nulla, «visti i buoni rapporti tra Italia e Libia». L’inchiesta va oltre e si scopre che almeno in 24 venivano da Somalia ed Eritrea, zone di guerra e dittatura e, quindi, avrebbero avuto diritto a chiedere asilo come rifugiati. Se solo fosse stato loro concesso.
La seconda puntata racconta la tragedia annunciata del terremoto in Abruzzo e quella che potrebbe accadere in Calabria, dove per costruire ufficialmente in modo antisismico basta un buon collegamento a internet, un timbro falso e una diffusa compiacenza.❖

Repubblica 4.9.09
La gang dei bambini con il coltello scugnizzi violenti, paura a Napoli
In aumento gli assalti in branco. Rapinano e stuprano
di Dario Del Porto


Eleggono il più matto di tutti come capo, se li incontri non sai cosa ti può accadere
Residenti che nel week end non escono di casa per evitare le risse per uno sguardo

NAPOLI - Vestono firmato e ascoltano neomelodico. In tasca, insieme al cellulare, tengono un coltello o una pistola giocattolo che sembra vera. A sera, montano sul motorino e cominciano a girare. Vorrebbero diventare come i più grandi, che stanno già nel "sistema" e fanno i soldi con la droga. Ma sono ragazzini e intanto sfangano la serata facendo rapine. Spesso non hanno neppure 14 anni, però in branco fanno paura. Picchiano anche se non serve. Possono uccidere, pure se la vittima ha le braccia alzate. E se una ragazza accetta un passaggio, rischia di trovarsene otto che vogliono obbligarla a fare sesso alla luce del cellulare. Poi capita che qualcuno finisce male, in carcere o al cimitero. Ma ce ne sono dieci che nello stesso momento sono in strada a tirare droga pronti a scatenarsi.
Così, ogni giorno che passa, la vita vale un po´ di meno, nelle strade di Napoli dove la generazione Gomorra sembra destinata inesorabilmente a perdersi, risucchiata nella spirale di una violenza che la città vive come un male incurabile. Non è un problema di questo o quel quartiere, ha giustamente avvertito il presidente della municipalità Scampia, Carmine Malinconico, dopo il drammatico episodio della sedicenne costretta a subire atti sessuali da parte di otto giovanissimi, sette dei quali minorenni: «Questi episodi sono la spia di un disagio giovanile che va analizzato in maniera approfondita». Ne è consapevole il sindaco Rosa Russo Iervolino, che commentando lo stupro di Scampia ha richiamato «tutte le agenzie educative, scuole, parrocchie, enti e associazioni ad elevare il livello di attenzione per i ragazzi».
La realtà è fotografata dai numeri: nel 2008 gli arresti di minorenni in provincia di Napoli sono aumentati di oltre il 67 per cento, i processi, prevalentemente per rapine commesse con l´uso di coltelli o per risse, del 20 per cento. «Dati particolarmente preoccupanti, che non lasciano ben sperare», secondo il prefetto di Napoli, Alessandro Pansa.
Ma sono le storie, messe insieme come le sequenze di un film, che spiegano tutto meglio di qualsiasi cifra: mercoledì, ore 17.30, nella Villa Comunale affacciata sul lungomare, un branco composto da sei persone, un maggiorenne con precedenti per rapina, tre ragazzi di età compresa fra i 15 e i 16 anni e due sorelle, una di 17 e l´altra addirittura di 13 anni, aggrediscono una coppia di fidanzati per impossessarsi del lettore MP3. Picchiavano tutti. Maschi e femmine. Racconta una delle vittime: «Abbiamo cominciato a correre, ma ci hanno inseguito. Avevano mazze di legno. Quello più alto ha cominciato a colpire il mio fidanzato alla spalla. Mentre i quattro ragazzi picchiavano lui, le due ragazze hanno schiaffeggiato me al volto, poi mi hanno tirato i capelli fino a farmi cadere a terra. Il più alto gridava: "dacci quel lettore Mp3, altrimenti continuiamo a darti mazzate"». Alla fine si sono fermati, ma solo perché è arrivata la polizia. Il ragazzo adesso è in ospedale con una spalla che guarirà solo fra tre settimane. La ragazza se la caverà in cinque giorni. Poteva finire ancora peggio anche l´aggressione a due turisti gay avvenuta in piazza Bellini otto giorni fa. Cominciata con un diverbio fra i visitatori e cinque ragazzi, proseguita con un gruppo di una quindicina di persone che senza neppure conoscere i contendenti si è scagliata contro i due malcapitati, picchiandoli e insultandoli. A fine giugno, nel quartiere collinare del Vomero uno studente ha scritto una lettera a "Repubblica" per raccontare si essere stato «calunniato e pestato selvaggiamente da un gruppo di ragazzi che neanche conoscevo prima». Il branco lo ha circondato, istigato dalle ragazze che, mentendo, accusavano il giovane di averle toccate. Poi ci sono gli episodi che sui giornali non arrivano neppure, come il caso dei residenti di intere zone che nel fine settimana non escono di casa per evitare di incrociare gli scooter che invadono la carreggiata, le risse per uno sguardo.
«Una volta a Napoli esisteva la mediazione di quartiere - ragiona il maestro di strada Marco Rossi Doria - che aiutava ad allentare le tensioni. Progressivamente questo elemento è venuto a cadere perché le teste pensanti delle fasce più deboli stanno andando via. Per uscire dalla disoccupazione e dall´esclusione sociale, hanno preso la via dell´emigrazione come avevano fatto i loro nonni. Così non ci sono più quei fratelli maggiori, quegli zii, quei cugini che in passato aiutavano, come si dice, a "levare occasione", smorzavano i contrasti e guidavano i più giovani». Sottolinea, Rossi Doria, che il problema di fondo sta «in un´esclusione sociale che a Napoli dura da 40 anni: se per un tempo così lungo togli speranze e prospettive a un territorio, chi può salvarsi va via, gli altri restano senza speranza. Non sono necessariamente cattivi. Li puoi trovare mentre aiutano la mamma a fare i servizi o lavorano come garzoni di bottega. Ma vanno a scuola a intermittenza, se ci vanno. E covano un´energia vitale fortissima, senza avere prospettive. Passano il tempo nelle sale giochi, assumono droghe. Eleggono il più matto di tutti come capo, ma solo per quella sera. E quando li incontri, non sai cosa ti può accadere».

il Riformista 4.9.09
Vendola contro il Riformista: «Cecchini»


Si sente al centro di un complotto Nichi Vendola. Così, ieri, dal palco della Festa democratica di Genova, ha attaccato il Riformista. E, insieme al Riformista, ha attaccato anche Libero e il Tg1 diretto da Augusto Minzolini.
«È in atto un omicidio politico», ha tuonato, costruendo un paragone con il caso che ha travolto il direttore di Avvenire. «L'attacco che ho subito io - ha detto - ha anticipato quello a Boffo». Quanto al Riformista, questo giornale avrebbe, secondo il presidente della Regione Puglia, «una concezione barbarica della lotta politica».
Nel frattempo, da Bari arrivavano altre novità sulla inchiesta giudiziaria che si va allargando. Nel mirino dei magistrati, infatti, non ci sono più soltanto i bilanci dei partiti del centrosinistra nelle sedi regionali ma anche quelli nazionali. Ad indagare è la procura antimafia.

il Riformista 4.9.09
La furia di Vendola contro il Riformista
Sinistra e libertà (di stampa) La furia di Nichi per lesa maestà


Ieri il governatore della Puglia Nichi Vendola, uno al quale non dovrebbero mancare problemi e grattacapi nello svolgimento delle sue funzioni, ha speso buona parte del suo intervento alla Festa democratica di Genova per accusare il Riformista, reo di aver pubblicato il giorno prima un articolo in cui si contestava il fallimento della cosidetta "primavera pugliese" inaugurata dalla sua elezione.Era una stagione iniziata sotto i migliori auspici, implosa sotto il peso delle aspettative non mantenute, dei programmi poetici rimasti carta scritta, nonché di una serie di inchieste giudiziarie che hanno investito la sua (ex) giunta, di cui l'ultima per presunti - presunti, rivendica Vendola, ma questo era scritto anche sul Riformista di ieri - reati da medioevo: sesso ai politici in cambio di un posto di lavoro per madri di famiglia disoccupate.
«La barbarie non ha confini». Così ha commentato Vendola. Ma non ce l'aveva con i suoi ex assessori sospettati del reato. No, ce l'aveva con questo giornale, che «parla con un linguaggio degno di Feltri» e svolge «opere di cecchinaggio su commissione». Commissione dell'editore Angelucci, s'intende, invitato dal governatore a non trarre conclusioni affrettate sul declino della sua giunta.
Vendola è convinto che non possa esistere una stampa libera di valutare un fallimento la sua stagione di governo. Ci deve essere dietro un committente. Allora mettiamola così: ammesso e non concesso che riesca a ricandidarsi (si può scriverlo o è lesa maestà anche dare conto del fatto che metà Pd e un bel pezzo di centrosinistra preferirebbe cambiare candidato?) siamo curiosi di sapere cosa dirà il giorno dopo le elezioni, quando si renderà conto che il committente della sua mancata rielezione è l'elettorato pugliese che aveva creduto in lui.


il Riformista 4.9.09
Guai alla stampa critica
Vendola contro il Riformista «Omicidio politico». È quello che sarebbe in atto secondo il governatore pugliese, tramite «un cecchinaggio politico su commissione». Ce n'è anche per il «servo Minzolini».
di Marco Innocente Furina



Doveva essere uno dei tanti dibattiti politici di fine estate, quello tra Nichi Vendola e Rosy Bindi. Ma, dopo l'apertura di un nuovo filone dell'indagine portata avanti dalla procura di Bari su due assessori della giunta regionale pugliese (già estromessi da Vendola col rimpasto del luglio scorso), per il governatore della Puglia, la Festa democratica di Genova è divenuta la platea ideale per rispondere a tutti coloro che in questi mesi lo hanno messo sulla graticola del banco degli imputati.
Ma più che spiegare cosa pensa dell'inchiesta della magistratura barese che coinvolge due suoi ex assessori indagati per una storiaccia di lavoro in cambio di sesso, Nichi Vendola attacca: il Riformista, Libero, e il loro editore, nonché il Tg1 del «servo Minzolini». E poi rivela: «L'attacco che ho subito io, ha anticipato quello a Boffo (direttore di Avvenire, ndr)».
Il presidente della Regione Puglia sembra proprio sentirsi al centro di un complotto («è in atto un omicidio politico»), e si scaglia contro la prima pagina di ieri del Riformista. «Quella del Riformista - dice ai cronisti - è una concezione barbarica della lotta politica». Si tratta, spiega, di un vero è proprio «cecchinaggio politico su commissione». Concetti poi ripetuti e ampliati dal palco, dialogando con Rosy Bindi e il giornalista di RaiTre, Giuliano Giubilei: «All'editore del Riformista e di Libero, uno dei più indagati nelle inchieste della sanità pugliese, dico due cose: uno, bisogna avere pazienza, e attendere che la magistratura dica come stanno realmente i fatti. Per ora questo sexgate è costruito su delle veline; due, il reato di cui vengono accusati due ex assessori della mia giunta, assessori che io ho provveduto a estromettere due mesi fa, è l'abuso sessuale. Vale a dire, un crimine il cui profilo è totalmente individuale. E dunque, cosa c'entro io?».
Ma non è solo il Riformista a suscitare le ire del leader di Sinistra e Libertà. Perché ormai è il sistema dell'informazione a essere «organizzato servilmente come un poligono di tiro». Davanti a un platea che l'applaude con una generosità di cui pochi hanno goduto fin qui, l'ex militante del Pci, Vendola ricorda quando in un servizio del Tg1 del «servo Minzolini», venne sovrapposta la sua immagine a una notizia su cocaina e prostitute
Vendola, lui «monogamo e fedele», non è «né puttaniere né cocainomane»
Ma c'è di più. Il presidente di una regione meridionale, omosessuale dichiarato, che della sua diversità è riuscito a fare una caratteristica positiva, sente come insopportabili, paradossali e cruelemente ironiche, quelle accuse di mercimonio sessuale avanzate nei confronti di due suoi collaboratori. E lo ribadisce con forza: «Il maschilismo è il lessico ufficiale della politica. La strumentalizzazione del corpo ella donna è inaccettabile». Meno convincente invece, quando afferma: «non sono un direttore di una Asl, non posso sapere tutto, non ho poteri di divinazione».
La realtà è che si sente accerchiato, il governatore Vendola. Una delle prove del complotto per il governatore è nella diversità di trattamento che stampa e tv riservano alle disavventure della sanità lombarda: «Vorrei sapere cosa sarebbe successo in Puglia se ci fossero stati episodi come quello del Santa Rita e del Niguarda. Le notizie su Formigoni finivano in dodicesima pagina».
E poca importa che il deputato Pd Boccia, abbia definito fallimentare la gestione della sanità pugliese. «A Boccia - spiega - non rispondo. L'ho sconfitto alle primarie e non se ne è fatta una ragione. Ha lavorato contro di me, e gode di buona stampa».
E se qualcuno pensava che dopo le recenti polemiche Vendola meditasse un passo indietro nella corsa del prossimo anno per la riconferma a presidente della Regione, resterà deluso. «Sto lavorando a una grande alleanza meridionalista». Poi si ricorda che Genova è una città del Nord e rassicura: «Non sarà un leghismo del Sud, ma un'alleanza per difendere la democrazia». Rosy Bindi lo benedice: «Qualsiasi cosa si farà in Puglia, non si potrà fare prescindendo da Nichi Vendola».

Il Tirreno 4.9.09
Psichiatria. La Basaglia fa altre vittime
di Ugo Catola, neuropsichiatra e criminologo


Ancora due casi sui giornali, con relative vittime innocenti: l’omicidio del meccanico schiacciato a Livorno da uno psicotico schizofrenico alla guida di un autobus rubato e il triplice omicidio d’uno psicotico depresso a Reggio Emilia. Da qui sorge la domanda: dov’è e come funziona la psichiatria pubblica, quella pagata dai contribuenti.
Il vero punto debole della legge Basaglia non è la chiusura dei manicomi, in parte condivisibile perché trasformati in cronicari e discariche sociali, ma nella deresponsabilizzazione della psichiatria pubblica, nella sua abdicazione ad agenzia di controllo sociale. L’abrogazione degli articoli del codice penale, omessa denuncia di malati di mente pericolosi, omessa custodia di malati di mente, contenuta nella legge Basaglia, parla chiaro. Ora la responsabilità dello psichiatra è quasi scomparsa. Tutto dipende dalla sua onestà intellettuale e dal suo arbitrio, dal desiderio d’intervenire nei casi più scabrosi senza paura e senza falsi pietismi, quando è necessaria una terapia, spesso non accettata, o un ricovero.
Però anche chi volesse farlo deve soggiacere alla volontà del sindaco, unica autorità politico-amministrativa (e non medica) in grado di discernere e decidere, essendo venuta meno la procedura d’urgenza, dove era il medico a decidere secondo scienza e coscienza, prevista nella precedente normativa. E poi la legge prevede un ricovero massimo di 7 giorni e non più di 15 posti letto nei servizi psichiatrici ospedalieri, come se il legislatore potesse forgiare a suo piacimento la durata della malattia e delle cure. E che dire delle menti ancora intossicate dall’ideologia basagliana, che nega la vera natura delle malattie mentali e la pericolosità dei pazienti, attribuendo il tutto all’indimostrato assioma: la società li ha fatti ammalare, ricacciamoli a forza nella società! Se succede qualcosa è un prezzo che dobbiamo pagare. Purtroppo a pagare non sono mai gli psichiatri o gli amministratori, ma i vicini (familiari e non) e i pazienti.