sabato 2 dicembre 2017

Repubblica 2.12.17
Diplomazia
L’ultimo azzardo di Trump “Gerusalemme capitale di Israele”

Washington Donald Trump si prepara a infiammare il Medio Oriente: secondo diverse fonti di stampa, il presidente americano, terrà mercoledì un discorso in cui riconoscerà Gerusalemme come capitale di Israele. Lo ha fatto sapere un funzionario della Casa Bianca.
L’annuncio potrebbe rovesciare decenni di politica americana: per i palestinesi infatti Gerusalemme Est deve diventare la capitale del loro Stato e non può quindi essere riconosciuta come parte della capitale israeliana.
Oggi la città è di fatto divisa in due: dal 1967, dopo l’annessione da parte di Israele della parte orientale della città che era sotto sovranità giordana, c’è un Est, abitato da circa 200mila palestinesi e un Ovest, dove vivono oltre mezzo milione di israeliani.
Sul tema di Gerusalemme si sono arenati molti dei tentativi di pace degli ultimi decenni.
L’ultima polemica sul tema ha toccato anche l’Italia. «Il Giro d’Italia tenta di compiacere Israele presentando Gerusalemme come una città unificata sotto sovranità israeliana » , ha detto l’esponente dell’Olp Hanan Ashrawi dopo che gli organizzatori della corsa, in seguito alle proteste dei ministri israeliani dello Sport e del Turismo hanno cambiato il comunicato in cui si diceva che il Giro sarebbe partito da Gerusalemme Ovest. Tolto, ” Ovest” è rimasto soltanto Gerusalemme. Tutti contenti, o quasi.

La Stampa 2.12.17
Prete arrestato per abusi sui minori
di Fabio Albanese

Nel quartiere Villaggio Sant’Agata, degradata periferia sud di Catania, «Padre Pio» lo conoscono tutti: affabulatore, abile nel coinvolgere, «un bravo prete» avrebbero detto fino a qualche tempo fa i parrocchiani. Ora però che don Pio Guidolin, prete missionario originario del Veneto e catanese d’adozione, è finito in galera con la terribile accusa di violenza sessuale aggravata su minori, sono in tanti a dire che in quella chiesa, che il sacerdote lasciò improvvisamente un anno fa quando cominciarono a girare le prime voci, succedevano cose strane.
Il prete è stato arrestato dai carabineri dopo un’indagine della procura di Catania nella quale ci sono le dichiarazioni di ragazzini sotto i 14 anni che frequentavano la parrocchia e dei loro genitori. Padre Pio mascherava i rapporti con «atti purificatori» perfino con l’uso dell’olio santo della chiesa; ai genitori che volevano denunciarlo avrebbe millantato conoscenze nella mafia. La Curia catanese lo ha messo sotto processo già l’anno scorso per ridurlo allo stato laicale.

Repubblica 2.12.17
Viaggio nell’ultradestra
Scuole e periferie così l’onda fascista marcia su Milano
Da San Babila a Quarto Oggiaro, dal calcio all’hockey. Come cambia la strategia nera per conquistare la “ capitale morale”
La saldatura di CasaPound con gli skinhead e la ricerca di nuovi bacini negli sport minori
di Paolo Berizzi

MILANO Gianluca ormai sta più a Milano che a Roma».
20 novembre, Pala Agorà. Partita Hockey Milano Rossoblu contro Pergine. Nella curva dello stadio del ghiaccio milanese la paranza di militanti di CasaPound e di Lealtà Azione è schierata dietro gli striscioni “Santa Teppa” e “Morgi fuggi e vinci”. Sono una settantina.
Bomber, cappellini. Qualche tatuaggio spunta ad altezza carotide. Il capo è un ultrà di professione, Ivan Luraschi.
Migrato verso l’hockey (e il basket) dalla curva Nord interista di San Siro, indagato per estorsione e arrestato ieri per violazione del Daspo. Un tipo scaltro. L’anno scorso, a 47 anni, in piena attività, ha dato alle stampe un libro intitolato La violenza negli stadi. Quello che i media non vogliono far sapere.
«Gianluca» invece è Gianluca Iannone. Il romanissimo presidente di CasaPound.
Ricordate il caporione in felpa azzurra con scritta “Italia” che il 29 aprile guidava il corteo nero delle mille braccia tese al Campo X del cimitero maggiore? È di lui che parla il giovane “lealista”. Si chiamano così i “lupi” di Lealtà Azione (che di CPI a Milano sono un po’ alleati e un po’ competitor). Del resto che il leader dei “fascisti del terzo millennio” - un passato da naziskin in quel Movimento politico occidentale sciolto nel ‘93 perchè istigava all’odio razziale - passi ormai «più tempo a Milano», negli ambienti “identitari” lombardi è un segreto di Pulcinella. Dov’è il problema? «Male non fare paura non avere» ripete sempre Nina Moric, neomilitante casapoundina. Secondo gli investigatori il “distaccamento” milanese di Iannone è strategico. Ha un obiettivo preciso. Estendere le radici di Casa Pound sotto la Madonnina.
«Vogliono avere un ruolo forte anche qui - ragionano all’Osservatorio sulle nuove destre - Prima hanno cercato l’incidente mediatico (l’irruzione a palazzo Marino il 29 giugno per chiedere le dimissioni del sindaco Beppe Sala, definito “falsario”, ndr).
Adesso tentano un radicamento vero. Come a Roma. Sul territorio e nelle scuole, sempre più permeabili alla propaganda neofascista». Il pub si chiama “Rocca Bruna” (in onore di Emilio di Roccabruna, il vero nome del Corsaro Nero di Salgari). È al civico 18 di via Longarone. Per la sua prima sede a Milano, era il 2011, CasaPound ha scelto questo luogo non facile, lontano dalla San Babila degli anni Settanta: Quarto Oggiaro. Il quartiere un tempo chiamato “Bronx”, o “Barbon city”. Oppure “Quarto Raggio”. Feudo dei clan legati alle famiglie della ‘ndrangheta attivissime nel narcotraffico (il 12 ottobre la Procura ha chiesto 500 anni di carcere per una quarantina di imputati tra cui il boss Biagio Crisafulli). Una tradizione di criminalità che raggiunge l’apice negli anni ‘90 e che adesso, tra nuovo vecchio spaccio, degrado, racket degli alloggi comunali, riemerge con vigore. Una piccola Ostia senza il mare. Con i suoi padroni.
Chiediamo di Marco Clemente, il capo milanese di CasaPound appena nominato vicepresidente del partito. «È al ristorante». Un’insegna. “da Angelino dal 1899”. Siamo in via Fabio Filzi, tra la stazione centrale e la sede della Regione Lombardia. “Da Angelino” è una delle quattro trattorie romane di proprietà della moglie di Iannone (e soci): le altre sono a Roma, a Malaga e a Lima. Questa la gestisce Clemente che ci ha pure messo a lavorare l’ex moglie Roberta Capotosti. Fiuto per gli affari, già candidato col Pdl ai tempi del sindaco Letizia Moratti, il dirigente di CPI è finito (non indagato) negli atti di un’inchiesta della Dda per delle conversazioni con dei malavitosi. I pacchi alimentari lui li compra per il locale. Altri militanti li distribuiscono fuori dai supermercati delle periferie: tendenza “sociale” modello Alba Dorata. Ma la vera scommessa delle “tartarughe nere” , a Milano, sono le scuole e le università. I baby neri di “Blocco studentesco” (in competizione con Lotta studentesca che fa capo a Forza Nuova) volantinano a tappeto; aiutano gli studenti in difficoltà; marciano. Anche sotto Palazzo Lombardia.
Il marchio di abbigliamento preferito? “Pivert”, una catena che ha negozio in Chinatown. Il titolare del brand è Francesco Polacchi, ex capo nazionale del “Blocco”. Un imprenditore di successo. «Noi siamo presenti anche alla Bocconi», rivendica con orgoglio Iannone criticando lo stereotipo del sottoproletariato romano affibbiato a CPI dai media.
«Siamo tartarughe. Lentamente, ma arriviamo». E allora non bisogna stupirsi se, nella nuova geografia dell’estrema destra milanese, a fianco delle sedi storiche - la Skinhouse di Bollate, roccaforte degli Hammerskin, il presidio di Forza Nuova in piazza Aspromonte - sono entrati luoghi nuovi. È il segno di una progressiva occupazione del territorio. Inversamente proporzionale allo spopolamento di alcuni centri sociali. E del travaso in sordina dalle curve dello stadio a quella del Forum di Assago (Armani Milano) e del Pala Agorà dell’hockey: sport minori, dove l’ultradestra “coltiva” nuovi bacini. E’ “simpatizzante di LA e CPI” Ivan Luraschi: secondo i pm chiedeva un pizzo di 150 euro a partita ai gestori del bar del palazzo del ghiaccio.
Interessante, questo nuovo contesto dell’hockey. Conferma un investigatore: «Molti militanti si stanno spostando lì». Tra i 150 “lupi” milanesi di LA emanazione degli hammerskin antisemiti fuoriusciti dal Ku Klux Klan - c’è Stefano Pavesi.
Anche lui ultrà interista. Alle ultime amministrative è stato eletto consigliere nel Municipio 8 (lista Lega Nord). L’11 novembre la polizia l’ha colto nel pieno di un’attività extrapolitica: stava vendendo tre biglietti fuori dal Pala Agorà.
Risultato: Daspo per bagarinaggio. Siccome LA ha come modelli gente del calibro di Cornelius Codreanu, antisemita e fondatore della Guardia di ferro rumena, e Leon Degrelle, ex generale delle SS, è probabile che Pavesi non abbia avuto grosse lavate di capo dai suoi superiori. Ufficialmente LA è un’ “associazione di promozione culturale e sociale”. Dietro la facciata “buona” composta da una sfilza di associazioni collaterali - le più attive sono Bran.Co. che aiuta le famiglie italiane povere e Memento che tramanda la memoria dei gerarci fascisti e dei combattenti della Rsi - operano i capi “lealisti”. Si chiamano Stefano Del Miglio e Giacomo Pedrazzoli. Pregiudicati, nel 2004 hanno tentato di uccidere dei giovani di sinistra sui Navigli (poi l’accusa di tentato omicidio è stata derubricata in lesioni gravi). Adesso pare si siano dati una calmata. L’ultimo show dei “lealisti”? Il 26 ottobre. Hanno preso la testa di un corteo di 300 persone che ha manifestato per la sicurezza al Gallaratese. Torce rosse. Uno striscione con la scritta: “Zona 8 rialza la testa”.
Letterale. Quello che sta facendo la nuova Milano nera.

Corriere 2.12.17
L’italia nel rapporto Censis
Le radici del rancore
di Dario Di Vico

Rancore e blocco della mobilità sociale. Nel giorno in cui l’Istat ha rivisto al ribasso di un decimale le stime del Pil per il terzo trimestre (+0,4% sul secondo e +1,7% su base annua) arriva dal Rapporto annuale del Censis, presentato per la prima volta da Giorgio De Rita, un potente segnale d’allarme.
C’ è uno stretto nesso causale tra l’ascensore sociale che ha smesso di andare verso l’alto e il profondo sentimento di deprivazione che anima la nostra società, dice il Censis. E aggiunge: «Il blocco non è solo un dato oggettivo ma è anche un’atmosfera percepita, crea rabbia repressa che non riesce più a sfogare nemmeno lungo le linee del conflitto sociale tradizionale». L’ascensore fermo è anche una componente costitutiva «della psicologia dei millennials», permeata dalla convinzione che le opportunità di crescere socialmente sono poche. Sia sui padri che sui figli incombe il rischio della retromarcia sociale e così il rancore ha potuto/saputo mettere radici nella composizione sociale del Paese e nella sua psicologia collettiva tanto da diventare «un sottofondo emotivo continuamente sollecitato da imprenditorie politiche dedicate». Stando così le cose «non bastano gli appelli a parole per sciogliere i grumi rancorosi», deve entrare in gioco il fluidificante sociale per eccellenza. Ovvero la possibilità di migliorare effettivamente la propria condizione socio-economica, di realizzare i propri progetti di vita.
Non è certo la prima volta che si leggono analisi di questo tenore e solo per fare un esempio Aldo Bonomi ha parlato sovente delle «comunità del rancore», colpisce però che il Censis operi una sorta di riduzione della complessità e «scommetta» sull’ambo secco rancore-mobilità. Accettiamola come ipotesi di lavoro e proviamo a trarne le conseguenze sia di breve che di lungo periodo. Nell’immediato non ci si può non interrogare sul riflesso che questo risentimento può avere sugli esiti della competizione elettorale. Mi è capitato di chiedere di recente a una sondaggista attenta come Alessandra Ghisleri quale potesse essere secondo lei la issue decisiva (capace cioè di spostare voti) della prossima campagna elettorale e la risposta che ho avuto si può sintetizzare in una parola-chiave, «periferie». Intese sia come luoghi fisici sia come auto-percezione della propria condizione sociale. Ma se questo è il mood prevalente del Paese è assai difficile che possa cambiare nel giro di 90 giorni e che nello stesso periodo possano dispiegarsi convincenti iniziative di «fluidificazione sociale». La partita quindi finirebbe per giocarsi solo sui messaggi capaci di intercettare, o se preferite intermediare, la rabbia. Non è una prospettiva incoraggiante.
Spostiamoci adesso sul medio periodo. Come si possono ricercare le condizioni di un ciclo di mobilità sociale? La chiave in questo caso non si trova esclusivamente nei cassetti della politica, anzi. Occorre una ricognizione sui mutamenti della struttura economica e sulla loro interazione con i modelli di riorganizzazione delle imprese. Stiamo assistendo purtroppo a una configurazione di un terziario italiano low cost nel quale molte attività professionali vengono trattate come delle prestazioni indifferenziate e questo avviene persino a Milano. Un quarto dei professionisti ha commesse certe e margini interessanti mentre gli altri tre quarti trovano spazi di mercato ristretti e con i loro redditi faticano persino a finanziare le spese per aggiornare le competenze.
E’ chiaro che in queste condizioni più che un ascensore all’orizzonte intravediamo un montacarichi. Vanno nella stessa direzione le discontinuità operate dalle multinazionali e dalle imprese medio-grandi che ristrutturandosi sono diventate più snelle e piatte ma nel contempo hanno tagliato diversi «piani alti», hanno abolito alcune fermate dell’ascensore. So bene che nel campo dell’economia moderna esistono anche i cento fiori e le filiere ad elevato valore aggiunto promettono impieghi ad alta professionalità, dobbiamo solo interrogarci sulla quantità di occasioni che saranno in grado di produrre.
Non possiamo permetterci di riposizionare in alto e con successo il sistema delle imprese ma di restringere drasticamente gli accessi. Riflessioni di questo tipo riguardano mutatis mutandis anche le pubbliche amministrazioni e la loro capacità nel medio periodo di saper/poter attrarre i migliori talenti. Alla luce però dell’allarme suonato dal Censis la domanda finale è doverosamente tranchant: il rancore ci concederà il tempo necessario per organizzare questi percorsi?

Corriere 2.12.17
La sinistra in piazza con la Cgil. E domani incorona Grasso
L’assemblea di Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Sul nome della «cosa rossa» però non c’è intesa
di Monica Guerzoni

ROMA Ancora poche ore e Pietro Grasso scioglierà ufficialmente la riserva. Con un discorso tutto incentrato su valori e diritti costituzionali, dal lavoro alla libertà, il presidente del Senato accetterà di guidare la lista unitaria alla sinistra del Pd e inizierà la sua avventura di «capo» politico. Chi è andato da lui lo ha trovato «tonicissimo», pronto alla discesa in campo e incline, per dirla con una battuta di Enrico Rossi, «a una leadership naturalmente pop».
Licenziata la legge di Bilancio, Grasso si è chiuso nel suo studio a Palazzo Giustiniani e ha buttato giù una prima bozza dell’intervento, che limerà fino a notte fonda. Domani il debutto dal palco dell’Atlantico Live, grande spazio per concerti ai confini del quartiere Eur. «La giornata sarà incentrata sulla figura di Grasso, lo aspettiamo tutti», sospira di sollievo Miguel Gotor. Ieri Roberto Speranza e Nicola Fratoianni hanno visto il leader in pectore e gli hanno consigliato di «far parlare la sua storia». La storia di un «ragazzo di sinistra» che, divenuto magistrato e poi procuratore nazionale antimafia, lavorò al fianco di Giovanni Falcone.
Pippo Civati era assente per ragioni familiari e anche per questo il via libera al nome della lista ancora non c’è. L’agenzia milanese di comunicazione Leftloft sta lavorando a vari bozzetti e quello che convince di più i leader della sinistra è il logo rosso Liberi e Uguali con Pietro Grasso. I dubbi e i mugugni però sono tanti e non si escludono sorprese: c’è chi trova il logo troppo ottocentesco e chi vi ravvisa l’eco della Congiura degli uguali contro il Direttorio, la rivolta che nel 1796 provò (con esiti non felici) ad abolire la proprietà privata in Francia. Si lavora anche su Futura, Italia solidale, Italia progressista e Libertà e Uguaglianza, ma quest’ultima ipotesi fa arrabbiare Enrico Morando e Stefano Ceccanti, fondatori dell’associazione LibertàEguale.
Civati ha proposto L’Italia di Tutti e spera che il suo lodo venga accolto: «L’assemblea dovrà dare il via a un processo politico più grande, che viva nella società e non dentro i movimenti fondatori. Ci vuole slancio, coraggio... Insomma, deve scattare qualcosa». La rotta, sulla carta, porta a un grande partito del lavoro, che abbia D’Alema e Bersani tra i «padri nobili» e la Cgil come pilastro. Oggi Speranza e Fratoianni saranno in piazza a Roma con Susanna Camusso, per gridare in diretta video che «sulle pensioni i conti non tornano».

Repubblica 2.12.17
Il personaggio
Il sì di Grasso alla sinistra: sarò il vostro leader
Ancora incertezza sul simbolo. Forse la lista si chiamerà “Liberi e uguali” o “Libertà e uguaglianza”
Incontro con i vertici di Mdp e Si per preparare l’assemblea che domani lo incoronerà. E oggi Cgil in piazza sulle pensioni
di Liana Milella

Di che cosa stiamo parlando
Prossime elezioni politiche in Italia, probabilmente a marzo. Camere sciolte a gennaio. Tra i partiti in lizza ci sarà anche una nuova formazione politica, il cui battesimo ufficiale avverrà domani a Roma e avrà l’attuale presidente del Senato Piero Grasso come figura leader. Raccoglie Mdp, Si, Possibile, gruppi a sinistra del Pd e frutto della scissione dello stesso Pd, che in queste settimane, in numerosi incontri, hanno rifiutato l’ipotesi di costruire un unico cartello con il Pd renziano.
roma
« Allora ci vediamo domenica » . Non c’erano dubbi ormai sul fatto che Piero Grasso sarebbe stato la star della convention che domattina, dalle 10 in avanti, vedrà nascere all’Atlantico Live dell’Eur, luogo di concerti, il nuovo soggetto politico oltre il Pd, che vede assieme Mdp di Bersani, D’Alema e Speranza, Sinistra italiana di Fratoianni e Possibile di Civati. E che, come scopriremo solo domani, calamiterà anche uomini della società civile e dell’associazionismo, pronti a unire la loro voce e la loro testimonianza a quella del magistrato dal momento stesso in cui, nel dicembre 2012, ha detto sì all’allora segretario del Pd Bersani. Un’area politica che oggi debutta anche in piazza, alla manifestazione della Cgil a Roma sulle pensioni.
Da ieri l’adesione di Grasso – che sarà il protagonista e l’uomo di punta del nuovo partito – è divenuta ufficiale e definitiva. Quel « ci vediamo domenica » l’ha pronunciato proprio Grasso, poco dopo le 11, di fronte a Roberto Speranza e Nicola Fratoianni ( assente Civati per ragioni private) che erano andati a trovarlo
GIUSEPPE
per definire nei dettagli il film dell’incontro e per parlare del simbolo e del nome del futuro gruppo. Dunque la nuova vita di Grasso sta per cominciare. E l’incontro di ieri segna il giorno dell’avvio. È avvenuto nel suo studio privato a palazzo Giustiniani, la residenza che gli è stata imposta quando è diventato presidente del Senato perché gli spostamenti dalla sua abitazione privata a Roma, in periferia, sarebbero stati troppo pericolosi e avrebbero comportato un’ulteriore blindatura dell’appartamento che Grasso e sua moglie Maria hanno ritenuto dispendiosa e quindi inopportuna. Un appuntamento preso non a caso, perché giusto ieri si è chiusa in aula la kermesse della manovra, dibattito che Grasso ha voluto rispettare e presiedere senza interferenze. Ma ormai, con la manovra in cammino verso Montecitorio, Grasso è libero di “ fare politica”.
Che significa pianificare la manifestazione di domani, scrivere l’intervento, definire le figure dei “ testimoni”, coloro che Grasso ha voluto sul palco – protagonisti dell’associazionismo di sinistra, dei movimenti cattolici, del mondo del lavoro, della società civile – per declinare anche fisicamente e con esperienze di vita vissuta il senso della sua sfida politica. Protagonisti il cui ruolo è dimostrare che la sfida di Grasso va oltre la Cosa rossa, e comprende un’ampia galassia progressista. I nomi sono top secret. Ne corrono molti, ma non vengono confermati. Di certo non saranno uomini e donne “famosi”, ma gente che ha fatto una scelta di vita per la legalità e il rispetto delle regole.
Dalle 14 di ieri Grasso sta scrivendo il suo discorso, nel quale spiegherà il senso della sua sfida politica, la grande incognita della prossima campagna elettorale, che per il « ragazzo di sinistra » – autodefinizione fatta a Napoli alla festa di Mdp – si apre domani. Ma ancora ieri sera la scaletta non era pronta.
Così come non è ancora pronto il simbolo del partito, per via dei due fronti che ci stanno lavorando, il primo convinto che sarà difficile legare mediaticamente la scritta col nome di Grasso – « per Grasso presidente » – al nome stesso della lista. L’altro persuaso che una sintonia tra i due elementi si possa trovare. Tra le varie ipotesi (Italia progressista, Italia solidale, Futura, Liberi e uguali, Libertà e uguaglianza) potrebbe prevalere una delle ultime due.

il manifesto 2.12.17
Cinque piazze con tutta la sinistra, niente Pd
Cgil In Piazza. Il segretario del Pd Renzi alimenta la fakenews sul fatto che ci sarà anche la Lega.
In piazza per le pensioni
di M. Fr.

Cinque piazze e il primo comizio virtuale. La manifestazione della Cgil «Pensioni, i conti non tornano» punta a «cambiare il sistema previdenziale, per sostenere sviluppo e occupazione, per garantire futuro ai giovani». Sono cinque le manifestazioni organizzate. A Roma l’appuntamento è per le ore 9 in piazza della Repubblica, da dove partirà il corteo fino a piazza del Popolo. A Torino il concentramento è previsto alle ore 9.30 a Porta Susa e si arriverà in piazza San Carlo. A Bari si sfilerà da piazza Massari, ore 9.30, a piazza Prefettura. A Palermo da piazza Croci a piazza Verdi alle ore 8.30 e a Cagliari da viale Regina Elena (giardini pubblici) a piazza Garibaldi, a partire dalle 9.30. A concludere tutte le iniziative sarà Susanna Camusso, che alle ore 12.30 prenderà la parola dal palco della capitale, in collegamento video con le altre città per la prima volta nella storia del sindacato.
Ieri la vigilia è stata dominata da una fake news alimentata da Matteo Renzi. Rispondendo ad una domanda che sottolineava come oggi in piazza ci sarà anche la Lega contro lo Ius soli, il segretario Pd ha risposto: «Non do un giudizio politico, se si trovano bene loro…». In realtà in nessuna delle 5 manifestazioni della Cgil ci sarà la Lega. In piazza invece tutte le forze di sinistra che domani daranno vita al soggetto unico (Mdp, Si e Possibile) e perfino una delegazione di Campo Progressista guidata da Ciccio Ferrara. Sfilerà con la Cgil anche Rifondazione comunista.

il manifesto 2.12.17
Carlassare: «Un successo dagli effetti modesti. La colpa è del Pd»
Intervista. «Renzi è ancora lì e sta portando a compimento la sua opera: devastare la sinistra e riconsegnare il paese a Berlusconi»
intervista di Andrea Fabozzi

«Il 4 dicembre abbiamo ottenuto una vittoria schiacciante. Ma ha prodotto un effetto molto modesto sul sistema politico. Naturalmente abbiamo evitato guai peggiori, eppure dietro quei tantissimi “No” al referendum costituzionale c’erano delle richieste che sono andate deluse. Non c’è stato il cambiamento che era lecito sperare. Se devo cercare le ragioni di questa delusione non posso che partire dal ruolo di Renzi».
Professoressa Lorenza Carlassare, un anno fa, appena fu chiara la vittoria del No, lei disse al manifesto che si augurava le dimissioni di Renzi da segretario del Pd, prima che da presidente del Consiglio.
Invece è ancora lì e sta portando a compimento la sua opera: devastare la sinistra e riconsegnare il paese a Berlusconi. Il fatto che Renzi sia rimasto al centro del quadro politico immobilizza il Pd in una posizione che non è certo di sinistra. E impedisce qualsiasi vera riunificazione di centrosinistra. Guardiamo a questa campagna elettorale. Non c’è alcun progetto politico serio in campo. Mi irrita che si possano presentare alcune misure isolate – che al massimo potrebbero essere provvedimento applicativi – come un programma politico definito. I bonus ad esempio. È forse di sinistra distribuire soldi a tutte le famiglie, anche a quelle dei milionari? Quando le risorse sono limitate andrebbero concentrate sui redditi più bassi. Altro esempio, il bonus bebè. Non è proposto come una misura di giustizia sociale, ma come un’iniziativa in favore dell’aumento delle nascite. Era stata una misura fascista, altro che di sinistra.
La legislatura che sta finendo ha visto due diversi tentativi di cambiare profondamente la Costituzione. Secondo lei succederà ancora nella prossima? O il 4 dicembre ha chiuso il discorso?
Intanto bisognerebbe dire che i partiti, ai quali manca totalmente un progetto di società, potrebbero rifarsi alla Costituzione. Invece il Pd considera un proclama massimalista dire che bisogna cominciare ad applicarla. Dimenticando o ignorando quello che spiegava Norberto Bobbio: la nostra Costituzione ha una trama liberale con apporti del pensiero cattolico e del pensiero socialista. Pensano che sia una Costituzione pericolosamente di sinistra . E non credo che rinunceranno, nemmeno dopo la sconfitta del 4 dicembre, a cambiarla. Non bisogna meravigliarsi. Nel nostro paese ci sono sempre state forze che hanno vissuto con fastidio la carta fondamentale proprio perché è una costituzione sociale. All’inizio c’è stata una resistenza ad applicarla, poi per un lungo periodo si è fatto come se la Costituzione non esistesse, infine è cominciata la fase delle grandi riforme: volevano cambiarla. Non escludo nuovi attacchi.
Dal suo punto di vista la Costituzione non andrebbe toccata?
Non dico affatto che non si possa rivedere. Anche il ruolo del senato si può rivedere. Ma che si facciano proposte razionali, si spieghino bene obiettivi e vantaggi. Si propongano interventi mirati, le idee non mancano. Quello che abbiamo respinto con il referendum non era un progetto organico, era solo un tentativo di blindare il potere. Assistiamo adesso a una precisa manovra per dare la colpa della instabilità politica a noi che abbiamo sostenuto il “No”. Una critica che arriva dai sostenitori del modello maggioritario, quello in cui c’è un solo partito che domina e che impone agli altri le sue volontà. In quel modello non sono previste mediazioni. Devo dire sinceramente che non mi preoccupa se nella prossima legislatura ci vorrà del tempo per formare un governo. Non mi ha mai preoccupato. In un sistema parlamentare è abbastanza normale che un accordo di governo passi per delle mediazioni politiche. È la democrazia a prevederlo. Teniamocela stretta.

La Stampa 2.12.17
Mdp, il debutto di Grasso
“Non è la Cosa rossa”
Il suo nome nel simbolo
Domani l’alleanza di sinistra lancia la candidatura
di Andrea Carugati

Sarà un discorso all’Italia, fatto dal presidente del Senato che decide di proporsi come leader al Paese. Ma anche un discorso rivolto al popolo del centrosinistra deluso da questi anni di governo, orfano di quei valori che Pietro Grasso aveva visto nel vecchio Pd, ma non in quello di Renzi. Starà dentro a questo «delicato equilibrio» il discorso con cui Grasso domenica attorno a mezzogiorno scioglierà la riserva e si metterà alla guida del nuovo partito del lavoro. Il nome ancora oscilla tra «Liberi e uguali», «Libertà e uguaglianza», «Italia solidale» e altre formule che hanno al centro la parola «lavoro». Il vertice di ieri a palazzo Giustiniani con Roberto Speranza e Nicola Fratoianni non ha ancora sciolto la riserva. Di certo c’è che il simbolo domani non sarà presentato, ma conterrà la formula «con Grasso presidente».
Bersani, D’Alema, Vendola e gli altri big saranno in platea, insieme con la leader Cgil Susanna Camusso (invitati anche i segretari di Cisl e Uil). Una scelta per sottolineare che al palazzetto Atlantico dell’Eur di Roma nascerà una «proposta nuova», non un cartello delle sinistre radicali. «Non sarà l’ennesima Cosa rossa», spiegano da Mdp. Domenica non sarà il giorno dei vecchi leader che hanno rotto con Renzi, ma il «Grasso day». Una formula che sta a indicare «non la nascita di un partito personale», raccontano, «ma un progetto per l’Italia che avrà Grasso come guida e garante». Il presidente del Senato, dopo il varo della manovra giovedì, sera si è messo al lavoro sul discorso. Un intervento che arriverà dopo quelli dei tre segretari Roberto Speranza (Mdp), Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) e Giuseppe Civati (Possibile), ma soprattutto dopo alcune testimonianze del mondo del lavoro.
Sul palco ci saranno operai impegnati in delicate vertenze (Melegatti, Fiat), ricercatori precari del Cnr, le tre segretarie di Arci, Anpi e Legambiente, Francesca Chiavacci, Carla Nespolo, e Rossella Muroni. Presenti anche esponenti del mondo dell’impresa perché, come ha sottolineato Guglielmo Epifani, «noi ci rivolgiamo anche agli artigiani, ai piccoli imprenditori, ai professionisti, non saremo il “Partito del no”».
Sei-sette interventi in tutto, per porre sul tavolo le principali questioni cui il nuovo partito intende dare risposte. Grasso sta lavorando sugli appunti presi nelle ultime settimane, forte dell’esperienza di cinque anni alla guida del Senato che gli ha consentito di farsi un’idea chiara dell’Italia e dei suoi problemi. Solo in un secondo piano il tema di come «riorganizzare il campo del centrosinistra». Grasso ha già spiegato in varie occasioni cosa non condivide del Pd a guida renziana, cosa lo distingue da quella leadership in termini di contenuti e anche di cultura istituzionale. Al centro ci sarà la lotte alle diseguaglianze, «un tema che coinvolge anche larghe fette del ceto medio impoverito e spaventato dal futuro», spiegano da Mdp. E la necessità di un riequilibrio che è «indispensabile per far ripartire l’economia». Ad ascoltarlo ci saranno circa 2 mila persone (1500 i delegati eletti lo scorso fine settimana), previsti anche maxischermi all’esterno del palazzetto, lo stesso dove Mario Monti tenne una delle principali convention di Scelta civica prima delle elezioni del 2013.
La tappa di domani sarà solo il primo passo. Da lunedì il nuovo leader si doterà di una piccola struttura organizzativa, e inizierà un tour dell’Italia, una campagna di ascolto. Sarà a lui a dire l’ultima parola sulle liste, e a indicare cinque-sei candidati di peso della società civile che saranno utili a «delineare il profilo della lista». Un lavoro che sarà fatto da qui a gennaio, quando partirà la campagna elettorale vera e propria.

il manifesto 2.12.17
Le disuguaglianze esplodono. Le risposte nella Costituzione
Sistema fiscale e spesa pubblica. Nel complesso, più di un italiano su cinque è povero o rischia di diventarlo. Tra i bambini il rapporto sale a uno su tre. Come invertire la rotta? È questione di rapporto tra risorse e diritti. La Costituzione indica due vie
di Francesco Pallante

La soddisfazione per la vittoria referendaria dello scorso anno non può far dimenticare il problema della mancata attuazione di parti importanti della Costituzione. A destare allarme è, in particolare, la crescita della diseguaglianza: le politiche legislative degli ultimi decenni sono servite a incoraggiarla invece che a contrastarla. Il 20 per cento delle famiglie italiane più ricche è oramai cinque volte più benestante del 20 per cento di quelle più povere, certifica l’Istat, mentre per Oxfam i sette italiani più facoltosi possiedono la stessa ricchezza dei 18 milioni più indigenti. Negli ultimi cinque anni, nonostante la crisi, le risorse affidate ai gestori di fondi privati sono sempre aumentate, sino a toccare la cifra record di 1.937 miliardi di euro nel 2016: mille miliardi in più che nel 2011. Nel contempo, 4,7 milioni di italiani versano in condizioni di miseria, in dieci anni sono più che raddoppiati, e siamo al terzo posto in Europa per numero di poveri (sono ancora dati Istat). Altri 9,3 milioni di persone sono sulla soglia dell’indigenza, non di rado nonostante abbiano un lavoro. Nel complesso, più di un italiano su cinque è povero o rischia di diventarlo. Tra i bambini il rapporto sale a uno su tre.
Come invertire la rotta? È questione di rapporto tra risorse e diritti. La Costituzione indica due vie.
LA PRIMA, sul lato delle entrate, è ritornare a un sistema fiscale realmente progressivo. Quando nel 1973 venne istituita l’Irpef, l’imposta era articolata su trentadue scaglioni, dai 2 ai 500 milioni di lire, con aliquote che andavano dal 10 per cento al 72 per cento. Oggi, dopo la riforma Visco del 1998 (primo governo Prodi), gli scaglioni sono cinque – il più basso a 15mila euro, il più alto a 75mila euro – con aliquota minima al 23 per cento e massima al 43 per cento. Negli anni, sono state aumentate le tasse ai poveri per diminuirle ai ricchi.
Il discorso vale anche per i patrimoni, a iniziare dall’imposizione sugli immobili che persino l’Unione europea ritiene inadeguata (specie se si pensa alla mole di abitazioni inutilizzate). E non si può dimenticare la vergogna dell’imposta di successione: in una società dominata dalla retorica del merito, è inaccettabile che l’aliquota italiana più elevata sia equivalente alla più bassa aliquota tedesca. Il discorso sull’insostenibilità della pressione fiscale è mistificatorio. Le tasse vanno abbassate a chi versa oltre la propria capacità contributiva: ai redditi bassi e ai redditi medi. Agli altri vanno aumentate. Senza dimenticare il recupero dell’evasione fiscale, oltre 100 miliardi all’anno. Le risorse per fare politiche sociali ci sono, eccome.
LA SECONDA VIA, sul lato delle uscite, è riconoscere che non tutte le spese pubbliche sono uguali. Alcune sono necessarie, altre facoltative, altre ancora vietate. Non è accettabile che 4,1 miliardi di euro siano stati spesi nell’acquisto di aerei da guerra e che altri 14 stiano per esserlo. L’Italia «ripudia la guerra», dice la Costituzione: l’acquisto di armamenti idonei a «proiettare» le nostre forze armate oltre i confini nazionali è incostituzionale.
Altre spese non incontrano questo limite assoluto, ma vanno ritenute ammissibili solo a condizione che prima siano state soddisfatte tutte le esigenze di attuazione, quantomeno, del nucleo essenziale dei diritti costituzionali. Così, per fare un solo esempio, l’impiego di oltre 10 miliardi di euro nel Tav Torino-Lione deve essere considerato incostituzionale, se poi mancano i 7 miliardi necessari a combattere la povertà assoluta. Analogo discorso vale per salute, casa, assistenza, istruzione, università, lavoro, previdenza: tutte spese prioritarie.
Diversi sono gli strumenti utilizzabili per imporre il rispetto della giusta priorità: dal controllo di ragionevolezza sulle leggi di bilancio prefigurato da Lorenza Carlassare, all’introduzione di una riserva di bilancio in favore dei diritti sociali proposto da Gianni Ferrara su questo giornale alcuni anni fa.
Rovesciare le politiche che producono diseguaglianza: questa la sfida che va raccolta per festeggiare davvero la Costituzione uscita vittoriosa dal voto popolare di un anno fa.

Corriere 2.12.17
Il dossier
Etruria e Vicenza. La verità di Bankitalia sulla fusione
di Fiorenza Sarzanini

Sul crac di Banca Etruria e la fusione con PopVicenza restano molti punti da chiarire. Dubbi sulle versioni del procuratore di Arezzo. Verifiche della commissione d’inchiesta e sul ruolo di Bankitalia.
ROMA La commissione parlamentare d’inchiesta dovrà svolgere nuove verifiche su quanto accaduto nel crac di Banca Etruria. In vista dell’ufficio di presidenza fissato per martedì che deciderà sulle audizioni del governatore di Bankitalia Vincenzo Visco e dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni, saranno acquisiti nuovi documenti che riguardano i rapporti tra l’istituto di credito aretino e Bankitalia. Le carte già a disposizione mostrano infatti che durante l’audizione di giovedì il procuratore Roberto Rossi, titolare dell’indagine, avrebbe fornito versioni diverse da quelle che risultano agli atti. Tanto che alcuni esponenti dell’opposizione lo accusano addirittura di «aver mentito prospettando una situazione ben diversa da quella che invece ha portato al fallimento».
Sono proprio le relazioni, gli scambi di lettere e le citazioni per le azioni di responsabilità a fornire il quadro che stride con le dichiarazioni dell’alto magistrato. Anche tenendo conto che Rossi ha dichiarato di avere tuttora in corso «approfondimenti sul ruolo di Bankitalia e Consob», pur consapevole che si tratta di attività per le quali è competente la procura di Roma.
L’operazione con PopVicenza
«Ci è sembrato un poco strano — attacca Rossi — che la Banca d’Italia avesse inoltrato a Banca Etruria un invito di integrazione con la Banca Popolare di Vicenza che era in condizioni simili». In realtà la sequenza emersa dagli atti racconta una storia diversa. Il 3 dicembre 2013 l’allora governatore Visco scrive una lettera al presidente del cda di Etruria Giuseppe Fornasari per evidenziare le «rilevanti criticità» dovute tra l’altro «alle dimensioni del portafoglio deteriorato» e sottolinea la convinzione che la Banca «non sia più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento». Dunque «dispone la convocazione del cda entro 10 giorni dal ricevimento della missiva con all’ordine del giorno l’integrazione della Popolare in un gruppo di adeguato standing in grado di apportare le necessarie risorse patrimoniali, manageriali e professionali». Per questo Etruria nomina come advisor «per il supporto» nella ricerca Rothschild e Lazard che contattano 27 gruppi.
Si fa avanti soltanto PopVicenza che il 29 gennaio 2014 formalizza il proprio interesse. Il direttore generale chiede un incontro in Bankitalia per illustrare la strategia: procedere con «un’Opa per cassa su almeno il 90 per cento del capitale». Bankitalia dà conto delle trattative in corso con numerosi verbali. L’ultimo, datato 18 giugno 2014, è un «appunto per il direttorio» in cui il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo dà atto che il negoziato è fallito «perché Etruria ha formalmente respinto la proposta di Opa». E quindi propone «un’approfondita ed estesa opera di revisione degli impieghi riguardante la corretta classificazione di vigilanza e un’aggiornata valutazione del grado di recuperabilità».
La posizione di Pier Luigi Boschi
Il secondo punto sul quale saranno effettuati ulteriori controlli riguarda la posizione dell’ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena. Durante la sua audizione il procuratore Rossi ha dichiarato che Boschi e gli altri componenti dei Cda a partire dal 2010 non sono tra gli indagati per bancarotta «perché non hanno partecipato alle riunioni degli organi della banca che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza». Ma anche perché «non avevano informazioni sufficienti sulle operazioni». Una posizione che ha scatenato le opposizioni. Con una richiesta formale il senatore di Idea Andrea Augello accusa il magistrato di «non aver detto la verità, esponendo una tesi falsa» e per questo ha chiesto al presidente Pier Ferdinando Casini di sollecitare Bankitalia alla trasmissione di nuovi documenti.
E spiega: «Tutte le linee di credito e richiedono un formale rinnovo, generalmente ogni 18 mesi. È impossibile che il nuovo cda si sia baloccato solo con crediti insolventi, ma deve aver rinnovato tra il 2010 e il 2012 tutti i crediti privi di garanzie erogati nel biennio precedente. E questo è peggio di quanto fatto da chi li ha concessi anche perché ha ritardato la possibilità di avviare una procedura di recupero, finché la situazione non è divenuta insostenibile e il cda ha proceduto ad una serie di svalutazioni, azzerando il patrimonio aziendale».

il manifesto 2.12.17
La via aperta dal No: partecipazione e rappresentanza
4 dicembre 2016. Riavvicinare il popolo alla politica per dare forma alla democrazia. Anche il miglior sistema elettorale è inutile se poi vince l’astensione
di Gaetano Azzariti

Il 4 dicembre 2016 sarà ricordato come l’inizio del cambiamento se saprà porsi all’origine di una lunga fase di riflessione critica sul passato e di lenta ricostruzione del futuro. Una data di svolta, a condizione di essere in grado di ricostruire dalle macerie del presente. Il più grave errore sarebbe quello di accontentarsi dell’esito referendario: abbiamo suscitato enormi aspettative e deluderle sarebbe letale. Dopo tanto nuovismo regressivo, dovremmo ora cominciare a costruire un altro futuro possibile.
Per intraprendere quest’impresa è necessario avere chiaro il senso di quel che è stata la realtà dello scontro sulla costituzione. Nel referendum si sono combattute due diverse visioni di democrazia: da un lato, le prospettive identitarie che ritengono necessario semplificare la complessità sociale, rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative, concentrare i poteri nelle mani degli esecutivi; dall’altro, le prospettive pluraliste che credono necessario estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo del compromesso politico. La prima prospettiva è quella perseguita da oltre vent’anni, non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.
IL COMPITO CHE ORA abbiamo davanti è quello, difficile, di dare forma ad un modello complesso di democrazia pluralista. Da dove partire? Dalla rappresentanza politica e dal ruolo del Parlamento, ad esempio. Sul primo fronte è evidente la crisi, ma il dibattito pubblico sembra preoccuparsi esclusivamente della questione della legge elettorale. Tema politico decisivo, s’intende, ma che rischia di oscurare quel che viene prima e che appare ancor più importante. A che serve, infatti, il migliore dei sistemi di voto se il popolo diserta e non riconosce più i propri rappresentanti?
Se si vuole il rinnovamento della democrazia la madre di tutte le battaglie è la questione della partecipazione attiva dei cittadini.
Non sarà né facile né immediato riavvicinare il popolo alla politica. Tuttavia per iniziare potremmo riscoprire il ruolo degli istituti di partecipazione già previsti in Costituzione. Ad esempio, il referendum abrogativo che deve trovare ancora una collocazione certa nell’ambito della nostra forma di governo parlamentare. Perché non chiedere di cambiare la legge del 1970 con specifiche modifiche: anticipare il giudizio di ammissibilità della Corte, favorire il sistema di raccolta delle firme mediante l’uso degli strumenti informatici, imporre per via di regolamento parlamentare l’obbligo per le camere di dare seguito alle decisioni di natura puramente abrogativa che un esito positivo del referendum determina. Piccole correzioni, ma tutte nella giusta direzione.
SI POTREBBE PENSARE anche a rivitalizzare l’istituto dell’iniziativa legislativa popolare, che potrebbe rappresentare un altro strumento non solo di partecipazione, ma persino pedagogico per ridare ai cittadini un po’ di fiducia sul proprio ruolo attivo nelle istituzioni. Credo sia giunto il momento per pretendere quella piccola modifica dei regolamenti parlamentari che da tempo è stata auspicata: si garantisca la calendarizzazione entro sei mesi dei disegni di legge di iniziativa popolare e l’obbligo di giungere a decidere nel merito.
È poi necessario guardare anche al Parlamento che oggi rischia di essere definitivamente abbandonato da un popolo distratto e indifferente. Iniziamo a riorganizzare i lavori delle assemblee legislative per restituire dignità al lavoro parlamentare. Non si può continuare ad assistere allo spettacolo di un Parlamento come puro teatro di scontro: da un lato il governo che impone ordini del giorno, emendamenti, fiducie, tempi; dall’altro minoranze parlamentari impotenti che gridano ma non partecipano, che utilizzano pratiche ostruzionistiche al solo fine di allontanare la decisione. Maggioranze silenti contro opposizioni vocianti. Così il Parlamento non può che morire.
Per ridare spazio alle libere dinamiche della politica e riscoprire le virtù del compromesso parlamentare, il primo passo è quello di cambiare le regole del gioco, rivoltando i suoi regolamenti. Nuove regole che favoriscano il confronto, non invece impediscano la discussione. Ammettendo pure limiti al potere d’ostruzione delle minoranze, ma con la garanzia della permanente libertà di dibattere e l’assicurazione di poter esercitare tutte le prerogative dei parlamentari che rappresentano l’intera nazione (ma anche la diversità che in essa si specchia) e che devono poter esercitare il mandato senza vincoli. Sarebbe un piccolo passo, consapevoli che ben più radicali innovazioni dovrebbero riguardare il sistema parlamentare. Prima o poi dovremmo anche ridiscutere del rapporto con il governo, di quello tra le due camere, delle funzioni esercitate, del significato delle leggi, del riordinamento del nostro sconclusionato sistema delle fonti. Ma almeno iniziamo dall’organizzazione dei lavori. Mi viene in mente un passo di Cesare Pavese: bisognerebbe avere il coraggio di svegliarsi per ritrovar sé stessi.

Repubblica 2.17.17
La sinistra divisa
Appello ai lettori renziani e non: sopportiamoci
Tante lettere accusano “ Repubblica” di essere anti-Pd. Ma così la base litiga come i capi
di Michele Serra

Se il giornale non desse conto dei traumi e del dissenso in campo a sinistra, farebbe male il proprio mestiere
Divisivo
Per molti la leadership di Renzi è divisiva

Può un renziano sopportare Zagrebelsky, o Giannini, o Tomaso Montanari? E può un antirenziano sopportare Recalcati, o Scalfari quando esprime opinioni favorevoli al governo? La domanda, nel suo banale schematismo “bipolare”, una volta tanto non riguarda i rissosi, suscettibili esponenti dell’establishment del centrosinistra. Riguarda noi, comunità di Repubblica.
Giornalisti e lettori, commentatori e opinione pubblica di sinistra, o democratico-repubblicana, o progressista: quella che, grosso modo, questo giornale ha raccolto, lungo più di trent’anni, attorno a sé, cercando di rappresentarne le idee, le opinioni, i sentimenti di speranza o di sconforto.
Se mi permetto di porre a tutti noi, scriventi e leggenti, questa domanda, è perché nelle ultime settimane la mia rubrica delle lettere sul Venerdì (che ho ereditato, e ne sento la responsabilità, da Eugenio Scalfari) è destinataria di un numero impressionante di lettere amareggiate o irate nei confronti del giornale: accusato di essere anti-governativo per partito preso, e troppo critico nei confronti del Pd. “Vi leggo dalla fondazione – scrivono alcuni – e per la prima volta sto pensando di non leggervi più”. Alcune sono state pubblicate; moltissime, per ragioni di spazio, no. Tutte quante lette con attenzione.
In nessun giornale, e specialmente in un giornale di forte impronta politica, vocato alla discussione e alla disputa perché così vuole la tradizione dialettica della sinistra, mancano le lettere di critica. Questo non fa eccezione: per rimanere solo all’ultimo scorcio della nostra storia, la polemica tra i fautori del nuovo corso del Pd e coloro che considerano Renzi un invasore alieno è sempre stata molto vivace: ed entrambe le fazioni lamentavano che il giornale non desse sufficiente spazio al loro punto di vista. La mia rubrica sul Venerdì, negli ultimi anni, ne è lo specchio fedele e, spero, imparziale. Ma ora si registra un salto di qualità, e anche di quantità.
Una vera e propria bordata da parte di lettori, diciamo così, della sinistra moderata, legati al Pd, che considerano Repubblica “casa loro” e non si riconoscono nelle voci critiche (secondo loro, troppe) nei confronti di Renzi e del governo in carica.
In assenza (per fortuna) di una contabilità attendibile delle opinioni “pro”, di quelle “contro” e di quelle “così così”; preso atto che, in questo specifico momento, la critica “renziana” al giornale è nettamente prevalente su quella “antirenziana”; e detto che un giornale è tenuto a dare conto di quanto accade nel Paese – opinioni comprese – e non di “dare la linea”; mi sento di rivolgere ai lettori – che sono una comunità certamente difforme, ma con riconoscibili assonanze culturali, biografiche e politiche – una specie di contro-lamentela, che mi verrà concessa, diciamo così, in ragione del mio stato di servizio, dopo quasi vent’anni che abito in queste pagine.
Si usa imputare il settarismo e la litigiosità a sinistra all’ego ipertrofico e alla suscettibilità dei Capi. Sarebbe meglio, dunque, non imitarli.
Cercando, come dire, di dare il buon esempio dal basso. Le ragioni altrui sono sempre difficili da ascoltare, ma il loro manifestarsi, ancorché irritante, è semplicemente inevitabile. I lettori renziani (mi scuso per la definizione secca secca, ma è per capirci) non possono non tenere conto degli effetti divisivi che non solamente il carattere, ma anche gli atti politici di Renzi hanno prodotto nel vasto corpo dell’opinione pubblica di centrosinistra. Per fare l’esempio più ovvio, una riforma del lavoro “lib-lab” come quella in atto può piacere, ma anche no, e non per pregiudizio politico, ma perché ha indubbiamente rotto con la tradizione sindacale e ideologica di molta sinistra. Se Repubblica non desse atto anche dei traumi prodotti, e del dissenso in campo, farebbe male il proprio mestiere di giornale.
Quanto agli antirenziani, l’idea che il nuovo corso del Pd sia il frutto di una sorta di trama aliena, di usurpazione di un corpo reso inabitabile dai nuovi occupanti, non ha solamente il torto di rassomigliare da vicino alle paranoie complottiste così in voga. Distorce la realtà, perché la “scalata” di Renzi al Pd si è avvalsa, gradino dopo gradino, del voto di milioni di elettori che vengono dalla stessa storia, e in buona parte vogliono le stesse cose, di chi per Renzi non ha votato e mai voterà. Sono i lettori-elettori che oggi scrivono a Repubblica per dire “guardate che questo giornale, da sempre, è anche casa nostra”. E però accettano con qualche difficoltà che sia, questa, anche la casa dei tanti che, a sinistra, non la pensano come loro, e nel Pd vedono un problema più che una risorsa.
Scusandomi per la sintesi, certo non da politologo ferrato, e assicurando che non è per ecumenismo sciocco, e men che meno per ruffianeria commerciale, che mi rivolgo ai lettori irrequieti, torno a chiedere: può un renziano sopportare Zagrebelsky? Può un antirenziano sopportare Recalcati? E potrebbe mai un giornale degno di questo nome rinunciare a dare voce, e pagine, e repliche, al coro animatissimo della cosiddetta sinistra?
Serve tolleranza e serve volontà di ascolto. La pretendiamo dai leader politici, cominciamo a fornirne piccoli esempi quotidiani.

Corriere 2.12.17
I documenti il retroscena
Nuove verifiche su Etruria I dubbi sulle versioni del procuratore di Arezzo
Lettere e verbali di Palazzo Koch su fusione e bancarotta
di Fiorenza Sarzanini

ROMA La commissione parlamentare d’inchiesta dovrà svolgere nuove verifiche su quanto accaduto nel crac di Banca Etruria. In vista dell’ufficio di presidenza fissato per martedì che deciderà sulle audizioni del governatore di Bankitalia Vincenzo Visco e dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni, saranno acquisiti nuovi documenti che riguardano i rapporti tra l’istituto di credito aretino e Bankitalia. Le carte già a disposizione mostrano infatti che durante l’audizione di giovedì il procuratore Roberto Rossi, titolare dell’indagine, avrebbe fornito versioni diverse da quelle che risultano agli atti. Tanto che alcuni esponenti dell’opposizione lo accusano addirittura di «aver mentito prospettando una situazione ben diversa da quella che invece ha portato al fallimento».
Sono proprio le relazioni, gli scambi di lettere e le citazioni per le azioni di responsabilità a fornire il quadro che stride con le dichiarazioni dell’alto magistrato. Anche tenendo conto che Rossi ha dichiarato di avere tuttora in corso «approfondimenti sul ruolo di Bankitalia e Consob», pur consapevole che si tratta di attività per le quali è competente la procura di Roma.
L’operazione con PopVicenza
«Ci è sembrato un poco strano — attacca Rossi — che la Banca d’Italia avesse inoltrato a Banca Etruria un invito di integrazione con la Banca Popolare di Vicenza che era in condizioni simili». In realtà la sequenza emersa dagli atti racconta una storia diversa. Il 3 dicembre 2013 l’allora governatore Visco scrive una lettera al presidente del cda di Etruria Giuseppe Fornasari per evidenziare le «rilevanti criticità» dovute tra l’altro «alle dimensioni del portafoglio deteriorato» e sottolinea la convinzione che la Banca «non sia più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento». Dunque «dispone la convocazione del cda entro 10 giorni dal ricevimento della missiva con all’ordine del giorno l’integrazione della Popolare in un gruppo di adeguato standing in grado di apportare le necessarie risorse patrimoniali, manageriali e professionali». Per questo Etruria nomina come advisor «per il supporto» nella ricerca Rothschild e Lazard che contattano 27 gruppi.
Si fa avanti soltanto PopVicenza che il 29 gennaio 2014 formalizza il proprio interesse. Il direttore generale chiede un incontro in Bankitalia per illustrare la strategia: procedere con «un’Opa per cassa su almeno il 90 per cento del capitale». Bankitalia dà conto delle trattative in corso con numerosi verbali. L’ultimo, datato 18 giugno 2014, è un «appunto per il direttorio» in cui il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo dà atto che il negoziato è fallito «perché Etruria ha formalmente respinto la proposta di Opa». E quindi propone «un’approfondita ed estesa opera di revisione degli impieghi riguardante la corretta classificazione di vigilanza e un’aggiornata valutazione del grado di recuperabilità».
La posizione di Pier Luigi Boschi
Il secondo punto sul quale saranno effettuati ulteriori controlli riguarda la posizione dell’ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena. Durante la sua audizione il procuratore Rossi ha dichiarato che Boschi e gli altri componenti dei Cda a partire dal 2010 non sono tra gli indagati per bancarotta «perché non hanno partecipato alle riunioni degli organi della banca che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza». Ma anche perché «non avevano informazioni sufficienti sulle operazioni». Una posizione che ha scatenato le opposizioni. Con una richiesta formale il senatore di Idea Andrea Augello accusa il magistrato di «non aver detto la verità, esponendo una tesi falsa» e per questo ha chiesto al presidente Pier Ferdinando Casini di sollecitare Bankitalia alla trasmissione di nuovi documenti.
E spiega: «Tutte le linee di credito e richiedono un formale rinnovo, generalmente ogni 18 mesi. È impossibile che il nuovo cda si sia baloccato solo con crediti insolventi, ma deve aver rinnovato tra il 2010 e il 2012 tutti i crediti privi di garanzie erogati nel biennio precedente. E questo è peggio di quanto fatto da chi li ha concessi anche perché ha ritardato la possibilità di avviare una procedura di recupero, finché la situazione non è divenuta insostenibile e il cda ha proceduto ad una serie di svalutazioni, azzerando il patrimonio aziendale».

Corriere 2.12.17
Una polemica a doppio taglio che incoraggia le opposizioni
di Massimo Franco

L’ aspetto più preoccupante dello scontro su Bankitalia non è tanto il merito controverso delle responsabilità per quanto è accaduto. Piuttosto, a colpire è il modo spregiudicato col quale continuano a essere picconati la banca centrale e il suo governatore. Il riflesso internazionale che tutto questo provoca rappresenta un danno per l’Italia. Ma a guardare bene, sgualcisce perfino di più il profilo di un partito di governo che tende a far passare in secondo piano le sue responsabilità verso le istituzioni. C’è un forte sentore elettorale nel modo in cui il Pd scarica unilateralmente qualunque errore per la gestione di alcune vicende bancarie. Ma nello stesso gruppo dirigente si indovinano sacche di scetticismo per il modo in cui il vertice cavalca i lavori della commissione di inchiesta parlamentare sul sistema bancario. Matteo Renzi sostiene che il suo partito «può andare a testa alta» perché «non c’era alcun pasticcio» su Banca Etruria. E punta il dito su via Nazionale, per non avere vigilato con la Consob, la Commissione per le Società e la Borsa.
Il problema è che a condividere l’offensiva sono in pochi anche nel Pd. C’è solo un manipolo di fedelissimi, capeggiati dal presidente Matteo Orfini. Gli altri tacciono: come se sapessero che la strada scelta è scivolosa; che ogni attacco a Bankitalia rilancia agli occhi dell’opinione pubblica il caso di Banca Etruria; e si associa al padre della sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, al di là delle responsabilità. Renzi sostiene, forse non a torto, che «la vicenda è stata un gigantesco alibi per non parlare di problemi seri»; e che la sottosegretaria deciderà «come difendersi in via legale». Ma la questione rimane squisitamente politica. E promette di offrire armi polemiche agli oppositori. La durezza con la quale M5S e Lega ironizzano è significativa. Il blog di Beppe Grillo ritiene che «l’esultanza del Pd ha qualcosa di surreale. È l’emblema della sconnessione dalla realtà». In piena sintonia con il M5S, il capo leghista Matteo Salvini afferma che Renzi «non conosce vergogna. Manderemo in galera tutti i complici di queste truffe, da Banca Etruria a Monte Paschi».
Lo scontro ha assunto ormai i contorni del polverone, nel quale sarà complicato trovare la verità. D’altronde, era il pericolo insito nella creazione di una commissione d’inchiesta a pochi mesi dal voto. I suoi prossimi atti minacciano di spargere nuovi veleni: soprattutto se si aprirà un contenzioso sulle persone da interrogare. Il saldo del corpo a corpo con Bankitalia, ma anche con Palazzo Chigi e Quirinale, secondo il vertice del Pd sarà una maggiore chiarezza; eppure, le più soddisfatte sembrano le opposizioni. O l’uno o le altre hanno fatto male i conti.

Il Fatto 2.12.17
Etruria colpa di Visco? No, anche Boschi & C.
di Carlo Di Foggia

Chi ha distrutto Banca Etruria? Per i renziani del Pd è tutta colpa della vigilanza. Ha detto il presidente del partito Matteo Orfini dopo l’audizione in commissione banche del procuratore di Arezzo Roberto Rossi: su Etruria “sta emergendo la vera responsabilità, che è stata della Banca d’Italia”. Rossi ha criticato via Nazionale per le pressioni sull’istituto aretino affinché si fondesse con la Popolare di Vicenza dell’amico Gianni Zonin, poi finita in dissesto. Un assist a Matteo Renzi, che ha detto: “Che ci fossero conflitti d’interesse su Etruria è falso. Le responsabilità penali non riguardano il padre della Boschi”, che di Etruria era vicepresidente. Tra Bankitalia e renziani è una gara a chi mena più forte. Ma Etruria è fallita per un concorso di cause, tra le quali le colpe di Bankitalia.
La fusione. Il 3 dicembre 2013 il governatore Ignazio Visco scrive a Etruria che la banca è in un degrado “irreversibile” e non può più stare in piedi da sola. Le ordina di “integrarsi con un partner di elevato standing” entro marzo 2014. Bankitalia riservatamente preme per la Popolare di Zonin, pur sapendo che è messa già male (finirà in dissesto). BpVi formalizza un’offerta di 1 euro per ogni azione: 212 milioni di euro che sarebbero andati ai soci e non a rafforzare il patrimonio di Etruria. Alla fine la fusione salta per i dissidi tra Zonin e gli aretini.
I conti. A portare Etruria al dissesto sono le continue rettifiche di valore sui crediti deteriorati eseguite nel corso delle ispezioni (tre) di Bankitalia, che ha Etruria sotto osservazione almeno dal 2010. A febbraio 2015, quando Visco la commissaria, Etruria ne ha per 3 miliardi, il 42,4% degli impieghi, di cui 2 miliardi “in sofferenza” (inesigibili). Sono le rettifiche a causare la perdita di 526 milioni di euro del 2014, che porta il patrimonio netto di Etruria da 592 a 66 milioni, sotto i minimi regolamentari. Durante il commissariamento la banca non si risolleva.
Bankitalia.A pagare sono i risparmiatori. Nel 2013 Etruria chiede a loro 220 milioni (100 di capitale e 120 di obbligazioni subordinate) per tappare i buchi, dopo i 100 già ottenuti nel 2012. I bond vengono venduti con cedola del 3,5%, meno di un titolo di Stato a pari scadenza: finiranno azzerati nella risoluzione della banca decisa dal governo Renzi a novembre 2015. A giugno scorso Consob ha multato i vertici, tra cui Boschi, per non aver messo nei prospetti del 2012 e del 2013 i gravi rilievi di Visco. Bankitalia il 6 dicembre invia alla Consob una nota di sintesi dove dice che la banca “non è in grado di procedere per via autonoma sulla via del risanamento”. Pochi giorni dopo la banca scrive nel prospetto informativo che i rilievi di Bankitalia “non assumono in ogni caso un’entità tale da pregiudicare il mantenimento dei requisiti prudenziali”. Consob approva, Bankitalia tace: 220 milioni in fumo.
Boschi/1. Il “conflitto di interessi” negato da Renzi c’è. Un mese prima della letteraccia a Etruria, Visco scrive al dg di Veneto Banca, Vincenzo Consoli, che anche la sua banca è scassata e deve consegnarsi subito a un istituto più grosso e più sano. Il candidato è sempre Pop Vicenza. Come ha rivelato Il Fatto, a marzo 2014 Consoli si incontra a casa di Pier Luigi Boschi a Laterina con sua figlia Maria Elena, per discutere come resistere alle pressioni di Bankitalia. Il 3 febbraio 2015 Boschi viene intercettato al telefono con Consoli mentre annuncia che parlerà con la figlia e con Renzi della situazione.
Boschi/2. Rossi ha spiegato che papà Boschi non è imputato per bancarotta per i crediti affidati dissennatamente, per i quali sono stati rinviati a giudizio 20 ex amministratori, perché “non ha mai partecipato alle delibere per i finanziamenti”. Non la pensa così il commissario liquidatore della vecchia Etruria. Nella sua richiesta di danni per 570 milioni i crediti allegri sono contestati in solido a tutti gli amministratori, Boschi compreso, indipendentemente dalla presenza alle singole riunioni.
Ieri il senatore Andrea Augello (Idea) ha spiegato che Rossi “non dice il vero” proprio perché i fidi vanno rinegoziati ogni 18 mesi e quindi la responsabilità non è solo di chi li ha concessi per primo. Boschi è stato multato due volte da Bankitalia (274 mila euro) per carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito. Non ha fatto ricorso.

La Stampa 2.12.17
Le misure per sostenere le nascite
di Carlo Cottarelli

L’Istat ha confermato un paio di giorni fa quello che già era stato preannunciato, cioè che anche nel 2016 il numero dei nati in Italia si è ridotto rispetto all’anno precedente. Siamo arrivati a 473.438 nati. E’ utile leggere questo dato in una prospettiva di più lungo periodo. Alla fine degli Anni 60, nascevano ogni anno in Italia circa 950.000 bambini, il doppio del livello attuale. Il crollo del tasso di natalità inizia con gli Anni 70. I figli dei fiori fanno meno figli. Si scende nel giro di una quindicina d’anni a poco più di 550.000 nati l’anno. Si rimane su questi livelli fino a una decina di anni fa, una stabilità in buona parte dovuta all’aumento dei nati da famiglie di immigrati. Il calo riprende però a partire dal 2008 e si arriva al livello attuale. Stesso andamento, più o meno, per il tasso di fecondità (il numero di figli per donna). Era di 2,5 nel 1969. Nel giro di 15 anni scende sotto l’1,5. Poi cala ancora un po’, si riprende con l’immigrazione e nel 2008 torna a 1,44. Ora siamo a 1,35. Il nostro tasso di fecondità è attualmente tra i più bassi al mondo.
Primo commento: il bassissimo livello del tasso di fecondità ha poco a che fare con cause economiche. La più pesante crisi economica dagli Anni 30 è stata accompagnata solo da un modesto calo della fecondità. Il problema ha radici ben più profonde e antiche: abbiamo visto che il crollo del tasso di fecondità è stato concentrato tra gli Anni 70 e 80, quando ancora la nostra economia cresceva rapidamente. E’ chiaro che le cause sono di natura sociale più che economica.
Secondo commento: se le cause di fondo non sono economiche, le conseguenze economiche sono state pesanti. Il calo dei nati negli Anni 70 causa un calo degli ingressi sul mercato del lavoro vent’anni dopo, quando il nostro Pil comincia a rallentare vistosamente rispetto al resto dell’Europa. Ma non è solo il reddito complessivo a risentire della minore crescita. Anche il reddito pro capite ne risente. Diversi studi mostrano che la stessa produttività (il prodotto per persona che lavora) e la crescita della produttività dipendono dall’età media della popolazione. Sulla base di lavori condotti dal Fondo Monetario Internazionale, ho stimato che la riduzione del tasso di crescita della produttività dei lavoratori italiani nel corso degli ultimi 40 anni potrebbe essere spiegata dall’invecchiamento della popolazione in misura compresa tra un quinto e la metà. Non credo serva poi ricordare le conseguenze del crollo del numero dei giovani rispetto al numero di anziani per la sostenibilità del sistema pensionistico. Ne ho già parlato nel mio articolo uscito su questo giornale il 25 novembre. Tutto sommato, il crollo della natalità in Italia ha avuto serissime conseguenze per la nostra economia.
Terzo commento: i bonus mamma e bebè degli ultimi anni non avranno probabilmente nessun effetto sulla decisione di fare figli. Non si può pensare che interventi improvvisati e per importi molto modesti (fra l’altro erogati inizialmente anche a chi era a pochi mesi dalla procreazione, quindi senza alcuna azione incentivante) possano fare una differenza sostanziale. La decisione di dimezzare il bonus bebè a partire dal 2019 (a 40 euro al mese), che il Parlamento sembra apprestarsi a prendere, farà risparmiare un po’ di soldi rispetto al 2018, ma il bonus diventerà permanente e quello che verrà erogato sarà comunque gettato al vento. Naturalmente, i 40 euro al mese aiuteranno un po’ chi li riceve, ma si tratterà, casomai, di un intervento volto alla riduzione della povertà, che dovrebbe allora essere coordinato con azioni simili, invece di aggiungere un’ulteriore strumento ai tanti e confusi microinterventi già esistenti. In ogni caso, 40 euro in più al mese non possono certo influire sulla decisione di far figli.
Quarto e ultimo commento: altri Paesi sono riusciti a rialzare il proprio tasso di fertilità. La Svezia e un esempio (il tasso di fertilità svedese è attualmente intorno a 1,9 figli per donna). Lo ha fatto attraverso un massiccio programma pubblico di sostegno alla natalità fatto di asili nido e di forme di protezione del reddito per i genitori che stanno a casa dopo la nascita dei figli. Ma è un programma molto costoso che, al momento non ci possiamo permettere, visto il nostro elevato debito pubblico. Non vuol dire che ci dobbiamo rassegnare. Se riusciremo a fare riforme che ci faranno crescere di più, se riusciremo a riorganizzare la nostra spesa pubblica orientandola alle nuove generazioni, potremo trovare le risorse per un serio sostegno alla natalità (o tramite programmi di spesa o di detassazione). Per il momento sarebbe però preferibile evitare di sprecare soldi in mille rivoletti che sono costosi da amministrare e che non servono a niente se non a fingere di aver fatto qualcosa a favore della famiglia, sperando che questo aiuti alle prossime elezioni.

La Stampa 2.12.17
Nel 2017 boom di Comuni commissariati per mafia
Con Minniti ministro più che raddoppiati gli scioglimenti per infiltrazioni E adesso si studia come sospendere più facilmente i burocrati collusi
di Francesco Grignetti

L’impennata nello scioglimento per mafia dei Comuni è evidente. Parlano i numeri: 21 i municipi azzerati nel 2017, più di quanto fatto nei ventiquattro mesi tra 2015 e 2016. L’accelerazione porta il segno di un ministro dell’Interno quale Marco Minniti, volitivo, decisionista, e per di più calabrese (il che non guasta). «Non è certo una festa della democrazia, ma si tratta di uno strumento essenziale», diceva il ministro ai recenti Stati generali contro le mafie.
Dopo l’esame da parte delle prefetture, sono state azzerate tante amministrazioni locali, da Casavatore a Scafati, Bova Marina, Gioia Tauro, Castelvetrano, Isola di Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Ionica, Lamezia Terme, Cassano all’Ionio. Restando alle località più note. La scure del ministro ha colpito soprattutto la sua Calabria (12 Comuni sciolti). Meno la Campania (4 Comuni), la Puglia e la Sicilia (2 Comuni ciascuna).
Se non hanno fatto gran notizia le infiltrazioni mafiose in storiche roccaforti della criminalità organizzata, specie nella piana di Gioia Tauro, ha colpito lo scioglimento di Lavagna (Genova), dove è stato arrestato il sindaco: è dell’estate scorsa la prima condanna per Antonio Rodà (14 anni e 8 mesi), uno dei boss calabresi insediati nel Levante ligure, accusato di associazione di stampo mafioso oltre che di spaccio di stupefacenti. Ma non è certo il primo caso di scioglimento per mafia di un Comune al Nord e non sarà l’ultimo. Ci sono i precedenti di Sedriano (provincia di Milano), Rivarolo Canavese e Leini (Torino). E di recente il ministero ha avviato gli accertamenti preliminari su Seregno (Monza)
«Come Commissione Antimafia - commentava qualche giorno fa la presidente Rosy Bindi - abbiamo compiuto due missioni in Liguria a distanza di due anni e devo dire che fra prima e seconda ho notato una maggiore consapevolezza dei rischi. Fummo accolti a Imperia come coloro che venivano a portare lo spauracchio della ’ndrangheta, così non la seconda volta».
È stato un cruccio di questa commissione Antimafia, l’infiltrazione negli enti locali. Se ne sono occupati a più riprese. Nei prossimi giorni, per dire, torneranno a Ostia, dove il Municipio fu sciolto nell’agosto 2015 a seguito dell’operazione Mafia Capitale e dove si è votato solo qualche settimana fa.
Il Parlamento, intanto, si è molto interrogato sull’attualità della legge del 1991 che regolamenta lo scioglimento dei Comuni infiltrati dalla mafia. Sempre Bindi aveva ipotizzato una «terza via» tra scioglimento degli organi politici e non-scioglimento con una «commissione di affiancamento» per accompagnare un ente locale nel suo percorso.
Infine la questione del personale amministrativo. Dal 2009 è possibile sospendere, trasferire e perfino licenziare un dipendente colluso, al termine di un procedimento disciplinare, ma solo nel caso di un Comune che sia stato sanzionato con lo scioglimento. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva proposto in un suo ddl di prevedere un percorso simile anche a prescindere dallo scioglimento dell’ente, ma si è arenato al Senato.
Tutti problemi terribilmente concreti, con relative proposte, che finiranno nella prossima dettagliata Relazione dell’Antimafia al Parlamento. Se ne parlerà nella prossima legislatura.

Repubblica 2.12.17
L’ipocrisia di Stato non ha fine
di Carlo Bonini

Il caso Regeni?
Faremo tutto il possibile per portare a termine in maniera soddisfacente per tutti questa vicenda tragica
La diplomazia ha modi felpati a ogni latitudine.
Ma le parole scelte ieri al forum “Rome Med Dialogues 2017”, dal ministro degli esteri egiziano Hassan Shoukry per ribadire il presunto impegno del regime di Al Sisi alla ricerca della verità sulle torture e l’omicidio di Giulio Regeni sono qualcosa di diverso. Sono un oltraggio alla verità e un cinico esercizio di ipocrisia.
Che offendono, ancora una volta, la memoria di Giulio, il dolore della sua famiglia, l’intelligenza degli italiani, il fairplay della Procura della Repubblica di Roma, e finiscono per imbarazzare e umiliare (vogliamo pensarlo) anche la Farnesina e Palazzo Chigi che, la scorsa estate, scommisero sul ritorno del nostro ambasciatore al Cairo come passaggio “necessario” a una ripresa sostanziale della cooperazione giudiziaria tra i due Paesi. Giulio Regeni non è “morto”. È stato assassinato dopo nove giorni di indicibili torture. E per mano di uomini degli apparati della sicurezza egiziani le cui responsabilità continuano ad essere coperte dal Regime. Non si è trattato di una “tragica vicenda”. Ma di un omicidio di Stato. Né è tollerabile sentirsi dire che “presto” saranno recuperati i video registrati dalle telecamere di sorveglianza del metrò in cui scomparve Giulio. “Presto”, persino al Cairo, significa “presto”. E due anni non è “presto”. Soprattutto se si pensa che la società tedesca inizialmente incaricata di recuperare quelle immagini è stata poi sostituita, per decisione egiziana, con un’azienda russa. Quei video dovevano essere messi a disposizione della Procura di Roma la scorsa primavera. Si rinviò a settembre e, ora, siamo a dicembre. Di quale “tragica vicenda” parla il ministro? Ne vediamo solo una.
L’insopportabile melina del Regime cui l’Italia sta assistendo.

Repubblica 2.12.17
Artisti dal doppio volto
Eros e corpo l’anima pagana di Bernini
di Tomaso Montanari

«I disegni di Bernini per il Louvre: per quelli avrei dato la pelle, ma il vecchio, riservato italiano mi concesse solo pochi minuti per vederli. Erano tre piccoli disegni su carta, per i quali egli aveva ricevuto diverse migliaia di scudi. Mi lasciò solo il tempo di copiarli nella fantasia e nella memoria». È la fine del luglio 1665, siamo a Parigi, e a parlare è Christopher Wren. Il più grande architetto inglese di tutti i tempi si trovava in visita alla corte del Re Sole, e lì ebbe la fortuna di incontrare Gian Lorenzo Bernini, che in quel momento era lo scultore e l’architetto più famoso, potente e ricco d’Europa, ed aveva 67 anni. Forse non la pelle, ma certo anche gli studiosi darebbero molto pur di vedere qualche nuovo foglio di Bernini. Quando parliamo, infatti, dei disegni del padre del barocco, parliamo di un naufragio.
Ann Sutherland Harris ha calcolato che se si dividono i disegni autografi oggi noti (circa 300) per il numero di anni durante i quali egli fu attivo si ottiene una deprimente media di quattro disegni e mezzo per anno: cioè meno di quelli che egli doveva eseguire in mezza giornata. Possiamo consolarci continuando a studiare i fogli conservati nelle biblioteche e nei musei di tutto il mondo: e riuscire a vedere uno di essi con idee e occhi nuovi significa in fondo scoprire una nuova opera. È quello che ho provato a fare con uno dei disegni più famosi tra quelli conservati al Museum der Bildenden Künste di Lipsia. La notorietà è legata al fatto che si tratta di uno dei rarissimi nudi femminili del Bernini maturo: uno dei prezzi che egli pagò per la sua trionfante carriera di artista papale fu l’abiura a quel mondo di nudità pagane cui aveva dato forma nei suoi indimenticabili marmi giovanili (come il Ratto di Proserpina o l’Apollo e Dafne della Galleria Borghese). Nel disegno di Lipsia, si è sempre detto, vediamo invece una sensualissima, ammiccante Venere. In un mio saggio apparso da poco sul numero 41 dei Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana, provo invece a proporre che si tratti di una rarissima immagine della prima donna della mitologia classica: Pandora. Il nostro disegno fa parte di un gruppo in cui Bernini studia la forma di alcuni complicati, e sontuosissimi, alari da camino. E poiché, nel modo più appropriato, uno dei disegni rappresenta il dio del fuoco (un Vulcano instabilmente trionfante sulla suo incudine e su una panoplia, cioè sulle bellissime armi da lui stesso create) si è comprensibilmente creduto che l’evidente pendant dovesse ritrarre la sua sposa notoriamente infedele, Venere. Ma l’oggetto che la nostra figura solleva enfaticamente con due mani non si trova tra quelli associati alla dea della bellezza e dell’amore: è un’urna. O, se volete, un vaso. Il vaso più famoso della storia, se — come credo — non siamo di fronte a una Venere, ma a una meravigliosa, sensualissima Pandora. «Pandora — hanno splendidamente riassunto Erwin e Dora Panofsky — era l’immagine di una donna bellissima, plasmata con terra e acqua, vuoi da Prometeo, vuoi, su istigazione di un vendicativo Zeus, da Efesto.
Questa immagine fu animata da Atena, con l’aiuto del fuoco rubato in cielo, dallo stesso Prometeo, e perfezionata da tutti gli dei, ricevendo da ciascuno uno specifico dono. Ma poiché i doni di Afrodite ed Ermes erano più dannosi che benefici, il prodotto finale risultò kalòn kakòn, “bello e malvagio”. Pandora fu condotta sulla terra da Ermes, e presa in moglie da Epimeteo, che introdusse sulla terra malattia e vizio, aprendo un fatidico vaso, il cui contenuto si involò immediatamente, a eccezione della speranza». In effetti Bernini rappresenta una statua, creata da Vulcano (l’Efesto dei romani), nell’istante in cui ha preso vita: è ancora in piedi sull’incudine di quest’ultimo, cosa che per Venere non avrebbe alcun senso. E, d’altra parte, una statua che si anima col fuoco — una statua viva che è una sensuale vendetta degli dèi contro gli uomini che hanno rubato il fuoco — è un soggetto perfetto per far coppia, appunto, con Vulcano in due alari da camino. Ma una Pandora è anche il soggetto ideale per appassionare uno scultore straordinariamente sensibile al tema della divina capacità della scultura di creare figure così vive, sensuali e presenti da prender vita letteralmente. Ed è per questo che il nudo femminile nei fogli di Lipsia è tanto naturalistico da farci sentire la presenza di una donna di carne. Lo stile induce a datare questi disegni tra la fine anni ’ 50 e metà anni ’60. E sappiamo che Diego Velázquez, e cioè l’artista che ideò e diresse l’unico ciclo monumentale del Seicento dedicato alla rarissima Pandora (gli affreschi della Pieza Ochavada dell’Alcazar a Madrid), commissionò in quegli stessi anni a uno scultore rivale di Bernini (Alessandro Algardi) una serie di alari da camino in bronzo, anch’essi con divinità. Sarebbe una tentazione pensare che dietro la nostra Pandora ci sia stato il tentativo di Bernini di convincere Filippo IV di Spagna a far decorare a lui il camino di quella famosa sala: ma sarebbe davvero scherzare col fuoco.

Repubblica 2.12.17
Michael Flynn
L’ultima vendetta del generale furioso
di Vittorio Zucconi

WASHINGTON I colleghi con le stelle sulle spalle lo chiamavano “ The Angry General”, Michael Flynn il generale furioso, perennemente in collera contro il governo, il Parlamento, la Casa Bianca di Obama che gli impedivano di condurre la sua crociata contro l’Islam, l’odiata Hillary Clinton, il mondo, una rabbia che sembrava avere trovato rifugio e anima gemella soltanto in Donald Trump. Quel presidente che si fidò di lui e che ora il generale potrebbe demolire dall’interno, scoperchiando il verminaio dei rapporti segreti fra il Team Trump e gli emissari del Cremlino. La vita e la storia del generale a tre stelle Michael Flynn, fermato nella sua carriera a un passo dalla quarta e ultima stella, sarebbe una classica storia americana di successo realizzata attraverso quella gigantesca macchina umana che è l’Esercito. Flynn era nato in una famiglia Democratica del Rhode Island, figlio di una agente immobiliare e di un piccolo businessman che aveva combattuto nella Seconda Guerra Mondiale. Si era laureato nell’università statale, seguendo i corsi militari per avere la retta pagata e diventare sottufficiale della Riserva, dunque lontano dalle élite sussiegose degli ufficiali sfornati dall’Accademia Militare di West Point. Ma Flynn non si era mai messo in competizione con i generalissimi della sua generazione oggi ultra sessantenne, con l’aristocrazia alla Colin Powell che lo considera un “jerk”, un fesso. Era incapace di camminare abilmente fra le mine della politica e i proiettili del nemici e aveva scelto subito scelto la strada dell’“Intelligence”, dello spionaggio, dell’analisi, con un accanimento e un’intelligenza maniacale che il suo profilo tagliente da rapace tradisce. Era intollerante con pari grado, subordinati, superiori che osavano non condividere le sue analisi, via via più arrogante inarrestabile in una carriera che lo aveva portato dalle luride sale di interrogatori per islamisti di al Qaeda e Isis alla direzione della Dia, l’agenzia di spionaggio del Pentagono. Fino a quando il Presidente Obama, che lo aveva elevato a quell’incarico, lo depose, quando i colleghi rivelarono che la Dia era diventata un caos e Flynn la governava come un despota furioso per l’ipocrisia di una Casa Bianca che sottovalutava la minaccia del radicalismo islamico. Una collera carsica, sotterranea, ribollente che esplose alla superficie con l’avvento di Trump. Flynn, sconosciuto al grande pubblico, divenne una celebrità alla Convention Repubblicana di Cleveland, la scorsa estate, quando dal podio gridava i cori di “Lock’er up”, mettetela in galera, contro Hillary.
Invano Barack Obama scongiurò Trump di non sceglierlo per il più delicato degli incarichi, quello di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, dal quale passano tutti i segreti e le decisoni più importanti, quelle nucleari comprese. Trump se ne era invaghito. Aveva scelto di ignorare le voci su Flynn che lo indicavano al soldo di potentati stranieri, come il turco Erdogan, che lo avevano portato, nel 2015, a sedere al fianco di Putin a Mosca, per festaggiare — a pagamento — Russia Today, uno degli strumenti della propaganda e delle fakenews russe. Era meglio per Trump ignorare la tendenza di Flynn ad avvalorare le più sgangherate teorie complottiste, come l’insinuazione che Hillary fosse alla guida di un traffico internazionale di prostituzione infantile. Sapere che un generale addetto all’Intelligence crede al cospirazionismo dei dementi da social network avrebbe dovuto suonare sirene d’allarme, ma Trump lo scelse comunque.
E dopo appena 24 giorni dovette licenziarlo, con il pretesto che Flynn aveva mentito al vice presidente Pence sui suoi continui, ripetuti contatti — sempre nascosti — coi russi e con l’ambasciatore Kislyak. Flynn era troppo arrogante, troppo affamato di vendetta per non voler condurre una politica estera in proprio e dimostrare che i suoi nemici, i Clinton, gli Obama, i generaloni, lo avevano sottovalutato. Se avesse fatto tutto questo con l’autorizzazione e la consapevolezza di Donald Trump è la domanda alla quale è appeso il futuro del possibile impeachment del Presidente e alla quale punta l’Inquistore Muller concedendogli, anche per proteggere il figlio, il patteggiamento. Flynn sa.
Trump rabbrividisce. La rabbia, come sempre, finisce per divorare se stessa.

Corriere 2.12.17
E i repubblicani votano la riforma che taglia le tasse a imprese e ricchi
di Massimo Gaggi

NEW YORK Sembrava impossibile che un Paese prospero ma segnato da sperequazioni estreme nella distribuzione della ricchezza potesse varare una riforma tributaria destinata ad aumentare le diseguaglianze. E sembrava impossibile che un Congresso dominato da un partito repubblicano ossessionato dal deficit che da anni denuncia una spesa pubblica fuori controllo desse via libera a interventi che potrebbero far salire il debito federale di ben 1.500 miliardi di dollari in dieci anni.
E, invece, sta accadendo. Una riforma attesa da decenni (l’ultima era stata quella di Reagan, 30 anni fa) è stata approvata a tempo di record prima dalla Camera e ieri sera era in dirittura d’arrivo anche al Senato dove molti parlamentari dubbiosi hanno rotto gli indugi, spinti da considerazioni di opportunità politica. La versione approvata dal Senato, diversa e perfino più onerosa di quella varata dalla Camera, verrà ora sottoposta al processo di riconciliazione dei due diversi testi legislativi.
Ma è ormai evidente la volontà di chiudere molto rapidamente la partita, date le pressioni estreme dei finanziatori del partito repubblicano e della Casa Bianca che, col presidente in difficoltà su vari fronti, soprattutto dopo l’incriminazione di Flynn, ha assolutamente bisogno di una vittoria parlamentare. Quelli contenuti nella riforma sono interventi ambiziosi, anche se bisognerà aspettare la stesura definitiva per valutarne la portata, visto che il Senato ha cancellato alcune delle novita più significative introdotte dalla Camera come la riduzione delle aliquote da 7 a 4 e l’eliminazione della «alternative minimum tax».
Donald Trump ha sostenuto che questa riforma è vantaggiosa per tutti. Poi, senza fare troppo caso alle contraddizioni, ha detto che a lui personalmente costa cara. In realtà anche il gruppo Trump dovrebbe risparmiare mentre è vero che, almeno all’inizio, quasi tutti pagheranno meno tasse grazie al calo delle aliquote.
Il nodo vero è quello della distribuzione dei benefici. I vincitori assoluti vanno cercati tra le imprese con l’imposta sui loro profitti che cala dal 35 al 20% e con la possibilità di rimpatriare gli utili non tassati depositati all’estero pagando un modesto 10%. Nessun vantaggio, invece, per artigiani e piccole imprese. Quanto alle persone fisiche, guadagnerà di più chi percepisce redditi medio-alti, ma stavolta anche il ceto medio riceverà benefici non irrilevanti grazie al calo delle aliquote e all’aumento delle detrazioni fisse. I poveri, invece, non hanno nulla da festeggiare: niente benefici per chi ha un reddito talmente basso da non essere tassabile, mentre per tutti si delinea un aumento del costo delle polizze sanitarie. È la conseguenza prevedibile di una norma inserita nella riforma fiscale che, per colpire quella sanitaria di Obama, cancella l’obbligo ad acquistare una polizza medica e le relative sanzioni per gli inadempienti.
Insomma una riforma pensata soprattutto per le imprese e i ricchi, come si deduce anche dall’euforia che continua a regnare in Borsa. Trump promette che per questa via aumenterà la crescita economica: saliranno i redditi di tutti e anche le entrate fiscali con conseguente contenimento del deficit pubblico. Ma il senatore Lindsay Graham, vicinissimo a Trump e grande sostenitore della riforma, ha spiegato la situazione con franchezza: «Se il partito repubblicano che ha tutte le leve del potere chiudesse l’anno senza approvare nessun provvedimento importante perderebbe il sostegno dei suoi grandi finanziatori nella campagna elettorale 2018». E agli imprenditori sponsor dei conservatori la riforma delle tasse interessa molto.



venerdì 1 dicembre 2017

Corriere 1.12.17
Firenze Il ministero non paga più l’affitto alla Curia per il locale dove si consultano i preziosi manoscritti
Crisi alla Biblioteca Laurenziana A rischio la sala per gli studiosi
di Antonio Carioti

Tutti coloro che nel mondo studiano la tradizione classica e umanistica considerano un punto fermo la Biblioteca Laurenziana di Firenze, che raccoglie tra l’altro le collezioni dei Medici, per l’eccezionale ricchezza del suo patrimonio di manoscritti e papiri, con opere di Virgilio, di Saffo, dei tragici greci, per non parlare del Corpus Iuris di Giustiniano. Ma adesso il lavoro degli specialisti su quei tesori, paragonabili a quelli della Biblioteca Vaticana, rischia di diventare disagevole per difficoltà di natura economica e burocratica.
«Tutto nasce dai tagli alla spesa pubblica per gli affitti», dichiara al «Corriere» il professor Rosario Pintaudi, docente di Papirologia all’Università di Messina, che da lunghi anni lavora come volontario alla Laurenziana. Infatti la Biblioteca occupa locali della Basilica di San Lorenzo: la gran parte degli spazi è in enfiteusi (uso perpetuo), ma per altri pagava un affitto di 50 mila euro alla Curia fiorentina.
«Quando il ministero dei Beni culturali ha tagliato la somma stanziata a questo scopo — racconta Pintaudi — il priore della Basilica, monsignor Marco Domenico Viola, ha chiesto la restituzione degli spazi di proprietà ecclesiastica. Ma mentre per i locali dell’economato si è trovata una soluzione, trasferendo il servizio altrove, il problema spinoso riguarda la sala studi: se la Biblioteca dovesse rinunciarvi, non sarebbe più in grado di fornire agli utenti una struttura adeguatamente attrezzata per le loro ricerche, con un danno enorme, sostanziale e d’immagine, per la Laurenziana e per l’Italia».
Da parte sua monsignor Viola concorda sulla gravità della situazione: «Capisco bene le esigenze della Laurenziana, tanto è vero che dall’inizio dell’anno le rinnoviamo la possibilità di rimanere nei locali che avrebbe dovuto lasciare. Tra l’altro la sala studi è interclusa, si trova all’interno della Biblioteca, e per potervi accedere liberamente, in quanto di nostra proprietà, toglieremmo libertà e sicurezza a un’istituzione così importante. Ma il contratto d’affitto è stato disdetto dal ministero, forse senza rendersi conto delle conseguenze».
Di certo tra gli studiosi si è diffuso un certo allarme, segnalato da Luciano Canfora e da altri specialisti del settore. «Da qualche mese — riferisce Pintaudi — ci sono delle trattative in corso, ma finora dal ministero non sono arrivati segnali d’interesse concreto». La direttrice della Biblioteca, Ida Giovanna Rao, preferisce non parlare della questione con la stampa, mentre monsignor Viola si dice disponibile a raggiungere un’intesa: «Si tratterebbe di realizzare un cambio di locali: noi potremmo lasciare la sala studi alla Laurenziana e come corrispettivo acquisire spazi del chiostro di San Lorenzo che attualmente sono in uso alla Biblioteca. I rapporti con la direttrice sono ottimi, è il governo centrale che finora non ha dato risposte».
A Roma la vicenda è stata presa a cuore dal presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, Giulio Volpe, che assicura l’intenzione del ministero di occuparsene presto: «Assolutamente gli spazi per lo studio non devono essere sacrificati, specie in un’istituzione prestigiosa come la Laurenziana: il problema è certamente risolvibile con un accordo tra le parti, a costi sostenibili. Purtroppo negli anni scorsi il patrimonio bibliotecario è stato trascurato, ma oggi c’è una sensibilità nuova da parte del ministro Dario Franceschini».
Una piena conferma viene da Nicola Macrì, che attualmente svolge le funzioni di direttore generale per le biblioteche e gli istituti culturali: «Sto seguendo il caso in prima persona e lunedì incontrerò a Roma la direttrice Rao per esaminarne tutti gli aspetti. Ma posso assicurare che la sala studi resterà di pertinenza della Laurenziana».
Repubblica 1.12.17
Classici
Quanto è dionisiaco questo Apollo
di Pietro Citati

Scalo a Delfi, nel cuore della religione ellenica e del culto di Febo. Raccontato da un grande viaggiatore nella sua “Guida alla Grecia”: Pausania
In questi giorni viene pubblicato il decimo e ultimo libro della Guida della Grecia di Pausania, benissimo curato da Umberto Bultrighini e Mario Torelli (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, pagg. 560, euro 35). Esso è dedicato alla Focide, e specialmente a Delfi, cuore della religione e della civiltà greca.
Pausania nacque nella parte occidentale dell’Asia Minore, e visse nella seconda parte del Secondo secolo dopo Cristo.
Per lui, erano tempi tristi. La vera Grecia era un ricordo. I luoghi famosi spopolati: molte città abbandonate: le regge carbonizzate, le tombe sconvolte, le colonne dei templi a metà abbattute; Delfi priva, o quasi, di oggetti preziosi, sebbene gli edifici fossero gli stessi di un millennio prima. Tra il 118 e il 125 dopo Cristo, l’imperatore Adriano era stato arconte delfico, cercando di riportare quella terra spopolata all’antico splendore. Tutto esisteva sotto il segno di Roma: Pausania pensava che Roma rispettasse o addirittura venerasse la Grecia, che aveva così influenzato la sua storia e i suoi pensieri. Amo molto Pausania. Senza leggerlo, non possiamo conoscere la Grecia: dobbiamo portarlo con noi, nei nostri viaggi ad Atene e nel Peloponneso. Era documentatissimo: aveva viaggiato molto, in Siria, Palestina, Egitto, Roma, Campania, con fonti e informatori eccellenti. Narra benissimo, con in mente il grande modello di Erodoto. Quando abbandona la sua abituale concentrazione, scrive con piacevolezza ed incanto. Percorre le strade principali della Grecia, quelle secondarie e minime, a volte scegliendo tradizioni e itinerari sconosciuti. Verso il mito, il suo atteggiamento è molteplice.
Talora è assolutamente certo: venera Omero senza discussioni ; come dicono le Peliadi, «Zeus c’era, c’è, ci sarà». Coltiva tutto ciò che è oracolare: i misteri eleusini «più di tutti i misteri di pietà religiosa»; i riti, gli eventi singolari, i prodigi, i fatti dietro i quali sospetta la presenza degli dei. Ma, a volte, rivela un profondo scetticismo: cerca di essere scrupoloso, preciso, minuzioso (assai più di Plinio il vecchio). Ama la verità (o ciò che crede essere la verità): ma non racconta tutto, perché vuole scegliere o è pieno di dubbi.
Alla fine sembra incerto, inquieto, perplesso: questo non è l’ultimo motivo del fascino che esercita su di noi. Come Erodoto, ama la storia totale. Non gli basta narrare i fatti storici e religiosi della Grecia, perché all’improvviso racconta di Cartagine o della Corsica. Coltiva il piccolo, il minimo, ma anche le grandiose cosmogonie, convinto che l’onfalo di Delfi si trovi al centro dell’universo. Descrive con competenza i fatti tecnici: specialmente le scoperte che, ai suoi tempi, si erano perdute.
Invece di parlare ancora una volta di cose conosciute, insegue quelle poco note o in apparenza insignificanti, persuaso che il mondo sia, nella sua essenza, incomprensibile e irraggiungibile.
Ma non si perde mai nei dettagli: vuole che la sua opera, dal primo al decimo libro, sia una totalità.
Sullo sfondo, per lui come per ogni greco, stanno il destino e gli dei, i quali si identificano con il destino – più, forse che nell’Iliade: «Il destino che assegna in egual misura la buona e la cattiva sorte».
Ma biasima coloro che credono di vedere dovunque gli dei, sia pure in sogno: ciò spetta, semmai, ai sacerdoti. Gli dei non si rivelano volentieri. Pausania indugia su molti temi: Eracle, Achille, Neottolemo, Dioniso, Iside, le Muse, Ulisse, Olimpia, la fonte Castalia, la fonte Cassiopide, Edipo, il quale, forse, lo affascina più di ogni altra figura.
Pausania non ha vere antipatie o veri odi per nessuno – tranne, forse, per Sparta: pensa che la guerra del Peloponneso sia stata esiziale per la Grecia. Parla di Sifni e dei suoi meravigliosi tesori delfici: «L’isola dei Sifnii aveva molte miniere d’oro, e il dio insegnò loro di riservare a Delfi la maggior parte delle entrate; essi allora costruirono il tesoro e cominciarono a versare la decima.
Ma quando per la loro insaziabilità tralasciarono di versarla, il mare allagò e fece sparire le miniere».
Siamo a Delfi, dove la figura principale è Apollo. Ecco il dio atasthalos, temerario, sfrenato, empio, accecato: egli non conosce nessuna delle verità che proprio da lui vennero chiamate apollinee; la serenità, il rispetto per la legge, l’armonia, la moderazione. Il dio che avrebbe presieduto alla misura della Grecia pecca di dismisura. Forse era necessario un dio violento, sfrenato, peccatore, assassino, per diffondere sulla terra l’equilibrio nella morale, il rispetto del limite, la quiete dello spirito, il gesto che pacifica e contiene. A Delfi Apollo incontra la Dracena: «Un mostro vorace, grande, selvaggio», figlio della Terra, che ne condivide il santuario oracolare, divorando uomini e animali. Con una freccia Apollo colpisce la Dracena, che cade a terra ansando e contorcendosi, e gettando un urlo soprannaturale, finché muore con un soffio sanguinoso. Il corpo imputridisce, dando il nome al luogo, Pito, e al dio, Apollo pitico.
Apollo aveva obbedito a un ordine di Zeus, che voleva costruire a Delfi il suo santuario. Eppure commette una colpa: anche gli dei commettono colpe: ha paura; in un luogo che dal suo nome, è chiamato Phobos, terrore, vien assalito dall’angoscia di sentirsi impuro e dalla follia; contamina e diffonde attorno a sé la contaminazione, come all’inizio dell’Iliade. Fugge. Si rifugia nella valle di Tempe, oppure espia presso gli Iperborei, una popolazione ai confini del mondo.
Poi torna a Delfi, incoronato di alloro, tenendo nella mano un ramo di alloro. Come dice Eraclito, Apollo non parla in modo diretto, o in epifanie, ma attraverso segni, o i versi della Pizia, “l’ape delfica”.
Pausania ama le digressioni. La più vasta e drammatica è dedicata all’invasione in Grecia dei Celti (Galati) nel 279-277 prima di Cristo. L’oracolo rispose ai Delfi, terrorizzati, che egli si sarebbe preso cura di sé stesso e di loro.
Nella prima invasione i Celti si arrestano perché sono pochi. Nella seconda invasione Brenno e i Celti attaccano i Greci con una rabbia e un furore non accompagnati dalla ragione.
Pausania li esecra, specialmente perché non danno sepoltura ai morti in battaglia. Mai si erano sentite atrocità simili o simili furori; i Celti bevevano il sangue delle donne e dei bambini. Ma nessuno di loro tornò salvo in patria. Il decimo volume della Guida della Grecia finisce quasi all’improvviso, con la storia del santuario Asclepio a Naupatto.
Non sappiamo con certezza se l’opera sia o no incompiuta. Ma, probabilmente, Pausania finisce così, con una conclusione in minore. Vuole imitare Erodoto. Gli piace moltissimo questa conclusione che conclude e non conclude, lasciando l’opera aperta all’infinito: come, forse, sono tutti i grandi libri. Noi torniamo a leggere e risaliamo al principio, provando una specie di nostalgia.
Contempliamo di nuovo il più bel paesaggio della Grecia che abbiamo mai conosciuto.