venerdì 10 dicembre 2010

Repubblica 10.12.10
"I radicali voteranno la sfiducia"
Il Pd trova l´accordo con i sei deputati di Pannella. E prepara la manifestazione di domani
Bersani: "Quello è un partito che non si vende". E su Fini: "Non può smentirsi con un Berlusconi bis"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il Partito democratico dà per sicuri i sei voti radicali alla sfiducia. Marco Pannella insiste: «Decideremo all´ultimo minuto e faremo una scelta non scontata». Ma il piano per non perdere la pattuglia di Pr è già scattato. Il capogruppo alla Camera Dario Franceschini ha incontrato i sei deputati, ha ascoltato le loro ragioni, ha offerto spazio e voce ai pannelliani sapendo bene che con loro la trattativa e la compravendita del Pdl non hanno cittadinanza. Di solito, ai radicali, il gruppo del Pd riserva in aula solo il tempo di un intervento a titolo personale. Cioè, un minuto. Stavolta invece un loro rappresentante parlerà all´interno della discussione generale, durante il tempo riservato ai democratici (40 minuti). Significa avranno a disposizione un discorso di 5 minuti. Un timing utile per articolare i motivi della sfiducia distinguendosi dalla posizione ufficiale del Pd. Ai radicali verrà quindi riconosciuta la loro specificità e autonomia.
Così il Pd può garantire, a meno di sorprese, 206 voti contro Berlusconi su 206 deputati complessivi. Il 100 per cento, con l´unica incognita di Federica Mogherini. Il tempo della sua gravidanza scade il 13 , da quel momento ogni minuto è utile per il parto. Ancora ieri pomeriggio gli uffici del gruppo democratico hanno contattato i deputati uno ad uno. Franceschini ha inviato un sms a tutti specificando che martedì è previsto un meteo pessimo. Perciò l´invito (obbligatorio) è: arrivate entro lunedì, il giorno prima del voto finale. In realtà il meteo del 14 non pronostica affatto bufera su nessuna parte d´Italia. Ma il messaggio è chiaro. Non sono ammesse defezioni e alibi.
Bersani conferma la sua fiducia nel voto radicale: «Quello è un partito che non si svende». Berlusconi però studia alcune contromosse per garantirsi almeno l´astensione dei 6. Nel suo discorso ci sarà un passaggio sulla situazione delle carceri e un riferimento all´applicazione della moratoria sulla pena di morte. Un po´ meno granitica è la sicurezza di Bersani sulle mosse di Futuro e libertà: «Non credo che Fini possa smentirsi appoggiando un Berlusconi bis». Il segretario del Pd ieri ha visto alcuni dirigenti di prima fila: Finocchiaro, Franceschini, Veltroni e D´Alema. Da questi incontri è venuta la conferma di una fiducia a rischio per il premier. E di una tenuta di Fli. «È solo il gioco del cerino», garantiscono i democratici. «Non dovrebbe avere il sì», dice Bersani. Ma le certezze vacillano. Bisogna prepararsi al dopo che potrebbe non essere il dopo Berlusconi. Si parte dalla manifestazione di domani a Piazza San Giovanni. Poi si metterà in conto un Berlusconi ancora vivo dopo il 14. E la definizione di una nuova strategia. «Le primarie? Non le ha mica ordinate il dottore», risponde Bersani preparandosi alla ristrutturazione del centrosinistra.

l’Unità 10.11.10
Tormenti radicali. Pannella tentato da Berlusconi Sei voti in bilico
«Deciderà la base» Il leader si è visto con il premier, «prima avevo incontrato Bersani»


Cosa faranno i radicali? Quello che sembrava improbabile sta prendendo corpo: un possibile voto favorevole a Berlusconi (no alla sfiducia, sì alla fiducia, a seconda del ramo parlamentare in questione). Marco Pannella è «assolutamente lieto» che Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano abbiano accettato di ascoltarlo ma non dissipa i dubbi sul voto della pattuglia dei Radicali a Montecitorio in vista della verifica del 14 dicembre prossimo: «Vogliamo deciderlo con il massimo di dibattito, di riflessione, di partecipazione pubblica, fino all’ultimo momento utile, senza dare assolutamente nulla per scontato», scrive sulla sua pagina Facebook. Fatto sta che nei conti dei berlusconiani i voti dei radicali oscillano fra l’astensione e il favore.
«Da un anno almeno, da Radio Radicale e con pubbliche dichiarazioni afferma Pannella deprecavo il (mis)fatto del persistente rifiuto di Berlusconi di incontrarci e discutere insieme sulla situazione politica, nazionale, europea, globale. Ho ottenuto questo incontro, ne ho subito informato tutti così come dell`incontro con Bersani. Il “mondo radicale” ha così immediatamente avuto modo di reagire anche pubblicamente, su facebook e con interventi diretti da Radio Radicale. È in rivolta, su supposizioni infondate. Da giorni, da ogni parte, si esige di sapere se il 14 dicembre daremo fiducia o sfiducia. Vogliamo deciderlo con il massimo di dibattito, di riflessione, di partecipazione pubblica, fino all`ultimo momento utile, senza dare assolutamente nulla per scontato. Le scontatezze appartengono a tutta “la politica” italiana, e non solo. Mai, ripeto mai, a noi Radicali».
Va ricordato che i radicali sono in parlamento con il Pd non avrebbero avuto i numeri per esserci con il loro partito e fino a poche settimane fa l’antagonismo fra loro e il modo di pensare (negazionista sui temi etici) del governo Berlusconi sembrava una distanza incolmabile.

il Fatto 10.12.10
La fame di Pannella e i “magnifici sei”
di Pino Corrias


DIAVOLO d’un Pannella. Ringalluzzito dal lungo sciopero dei capelli, il vecchio leader ha smesso di tormentare i Radicali per dedicarsi al Paese. Si è astutamente infilato nella compravendita dei voti per il 14 dicembre. Avendo in dote sei parlamentari da spendere, ha incontrato Bersani e Berlusconi. Con il primo ha parlato della fame nel mondo. Con il secondo della fame dei Radicali. Ha detto che lui si muove a destra, al centro, a sinistra. Segue solo i valori. Se ne frega delle macerie de L’Aquila, dei roghi di Terzigno, dei disoccupati sui tetti, degli studenti sulle strade e del sangue che cola dal nuovo plastico di Vespa, dove vorrebbe abitare almeno qualche volta. Respinge l’ipotesi dei governi tecnici con Draghi, oppure Monti, oppure Montezemolo, ma se è libero anche Alonzo. Non lo persuade l’ultima proposta dei finiani che offrono a Berlusconi dimissioni, ma con reincarico in 72 ore, purché su un piede solo, più un contratto con Gazprom e dodici nuove nipoti di Mubarak in sei comode rate. Pensando alle rate ha avuto l’illuminazione. La sintesi. Il Papa straniero che sta bene a tutti. Candidare David Mills a Palazzo Chigi che è libertario, liberista e off-shore.

l’Unità 10.11.10
Oggi a Oslo il conferimento del premio al dissidente paladino della democrazia
p Assenti una ventina di governi che hanno ceduto alle pressioni delle autorità cinesi
Liu in cella non ritira il Nobel Pechino censura la cerimonia
La maggioranza dei governi invitati saranno rappresentati oggi ad Oslo al conferimento del Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo. Ma una ventina, cedendo alle pressioni di Pechino, diserterà la cerimonia.
di Gabriel Bertinetto


Non ci sarà Liu Xiaobo, trattenuto in carcere dalle autorità cinesi. Non ci saranno i rappresentanti di una ventina di Paesi, trattenuti a casa da svariate forme
di opportunismo politico. La cerimonia per il conferimento del Nobel per la pace si svolgerà oggi ad Oslo nel segno di due opposte assenze. Quella forzata del protagonista numero uno, il premiato, e quella del tutto volontaria di alcuni governi che hanno ceduto alle pressioni di Pechino affinché stessero alla larga dall’evento.
SEDIA VUOTA
La sedia riservata a Liu resterà vuota. Le autorità della Repubblica popolare non hanno permesso che a ritirare l’onorificenza andas-
sero altri in sua vece. La moglie Liu Xia è da mesi agli arresti domiciliari, così come altri parenti, amici e decine di dissidenti del movimento per la democrazia. Della loro sorte non ha voluto dire nulla ieri Jiang Yu, portavoce del ministero degli Esteri, che qualche giorno fa aveva sprezzantemente definito la cerimonia di Oslo una «farsa anti-cinese».
Jiang Yu ha insistito sulla tesi del suo governo, secondo cui «la maggioranza dei popoli del mondo» è contraria alla scelta del Comitato per il Nobel, e si è scagliata contro il Congresso degli Stati Uniti, accusandolo di «arroganza» per avere approvato una «cosiddetta risoluzione» a favore di Liu.
La lista degli assenti è lunga, ma fra i Paesi di maggior peso politico, economico e strategico, comprende solo la Russia. Ci saranno tutti i governi dei Paesi occidentali oltre a grandi Stati democratici emergenti, come India, Brasile, Sudafrica. Pechino è riuscita a convincere Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Colombia, Cuba, Egitto, Iraq, Iran, Kazakhstan, Marocco, Pakistan, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Venezuela, Vietnam. In un primo tempo avevano aderito a quello che era sostanzialmente un boicottaggio non dichiarato, anche Filippine ed Ucraina, che ieri però hanno fatto marcia indietro, annunciando la propria presenza.
CAMPAGNA SPROPORZIONATA
Liu Xiaobo è fra i firmatari di Charta O8, una petizione inviata due anni fa ai vertici del regime comunista, nella quale si perorava la causa di un cambiamento democratico. Anziché ottenere maggiore libertà per i concittadini, Liu e compagni hanno pagato il loro coraggio civico con l’arresto. Liu, 54 anni, docente di letteratura, è in carcere, condannato a 11 anni per istigazione a sovvertire i poteri dello Stato.
La mobilitazione cinese contro il Nobel a Liu è stata «un totale disastro», secondo l’attivista per i diritti umani Nicholas Becquelin, residente a Hong Kong. L’intensità degli attacchi cinesi è stata «del tutto sproporzionata», e secondo Becquelin ha fatto perdere a Pechino «le simpatie che si era conquistata in due o tre decenni di diplomazia cauta».
La veemenza della campagna governativa ha avuto risvolti al limite dell’assurdo, come il divieto imposto ai gestori dei ristoranti della capitale di accettare prenotazioni per più di sei persone nella giornata odierna. Il timore è che raduni conviviali si trasformino in celebrazioni della premiazione di Oslo.
I siti web di alcuni media internazionali, fra cui le reti televisive americana e britannica Cnn e Bbc, ieri in Cina sono stati oscurati. Intanto un comitato messo in piedi in gran fretta tre settimane fa, assegnava l’anti-Nobel, il premio «Confucio per la pace». Peccato che il vincitore, il politico taiwanese Lian Chen, non fosse al corrente ed abbia affermato di «non avere in programma» di accettarlo.

l’Unità 10.11.10
Intervista a Guido Samarani
«Evitato il ko. Ma per la Cina è una sconfitta»
Il docente di storia cinese: «Pesa l’assenza di Mosca ma Pechino avrebbe potuto cantare vittoria solo in caso di defezioni europee»


Per il professor Guido Samarani, che insegna Storia della Cina all’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Nobel a Liu Xiaobo ed il
fatto che la maggior parte dei grandi Paesi oggi non disertino la cerimonia di Oslo, è per Pechino una sconfitta, anche se “ai punti”.
Come spiega, professore, una così forte e plateale irritazione della Cina al Nobel per il dissidente Liu? «Effettivamente ho trovato anch’io molto marcata la loro reazione. Anche mettendosi dal loro punto di vista, secondo cui la scelta del Comitato di Oslo è una strumentalizzazione politica, mi sembra che in questo modo loro ingigantiscano ulteriormente la portata dell’evento, anziché cercare di sminuirla come potrebbero fare dandogli una limitata importanza. Tra l’altro Liu Xiaobo, che meriterebbe piuttosto un Nobel per la democrazia, se esistesse, piuttosto che un Nobel per la pace, non è certo un pericolo per lo Stato, anche se l’accusa formale a suo carico è proprio quella di sovversione. Sono un po’ sorpreso dal comportamento delle autorità della Repubblica popolare, che in altri casi hanno dimostrato di essere molto più sagge e riflessive».
La moderazione cinese di fronte ai grandi temi della politica e dell’economia internazionali viene meno quando devono affrontare questioni interne, riguardanti i diritti civili e umani. È questo il problema?
«In parte sì. Tra l’altro se con Taiwan o il Tibet entrano in gioco questioni che riguardano la sovranità nazionale e l’integrità territoriale, non è questo il caso dei dissidenti. Credo che ai dirigenti cinesi disturbi comunque in modo particolare quella che ritengono un’interferenza esterna nei propri affari domestici». Fino a quando durerà l’illusione che un’impetuosa crescita produttiva e tecnologica possa convivere con un sistema autoritario?
«Di fatto quella convivenza sinora c’è stata. Nel breve periodo non prevedo cambiamenti significativi. Ci sarà piuttosto una trasformazione graduale e guidata, “alla cinese”, fatta di aperture pezzo per pezzo. Sarà un processo più lento di quanto non sia stata e sia la modernizzazione economica. Il dibattito in corso nel partito e nei think-tank collegati ipotizza varie opzioni, tranne quella di un pluralismo democratico di tipo occidentale. Verrà introdotta sempre più democrazia nel partito, maggiore collegialità decisionale, come primo passo verso modifiche da estendere poi alle istituzioni, a partire dalle aree periferiche, con le elezioni nei villaggi ad esempio. È uno scenario che poggia su un prerequisito però, quello della stabilità politica. Se dovesse aprirsi una fase di gravi turbolenze interne, se i conflitti sociali si acuissero, allora diventerebbe davvero difficile pronosticare i passaggi successivi». Contano di più i venti Paesi che disertano la cerimonia di Oslo o gli oltre quaranta che hanno resistito alle pressioni di Pechino?
«I governi che non saranno rappresentati hanno tutti bisogno per diverse ragioni di mantenere buoni rapporti con la Cina. Qualcuno magari pensa che in futuro potrebbe ritrovarsi in una situazione simile e quindi prende contromisure preventive. Pesa certamente l’assenza della Russia. Vuol dire che per Mosca la partnership cinese è davvero importante. E magari nella decisione di non mandare nessuno a Oslo hanno considerato anche la loro situazione interna. Gli altri grandi Paesi però ci saranno. Pechino avrebbe potuto cantare vittoria, se fosse riuscita a convincere qualche governo dell’Unione Europea. Stando così le cose, può solo accontentarsi della relativa ampiezza numerica del gruppo di coloro che hanno aderito all’invito di disertare la cerimonia. È la soddisfazione di chi perde ai punti anziché subire un ko».

l’Unità 10.11.10
Si astengono dal lavoro tecnici, impiegati, costumisti, dirigenti. Aderiscono anche i giornalisti
Laprotesta contro i tagli del direttore generale. Dalla mobilitazione si sfila solo la Cisl
Una giornata senza Rai Sciopero contro il piano Masi
Oggi la Rai si ferma: sciopero di 24 ore dei lavoratori, tecnici, impiegati e quadri. Promosso dalla Cgil e da tutti i sindacati, meno la Cisl. Aderiscono anche i giornalisti dell’Usigrai. Tg ridotti e nessuna diretta.
di Natalia Lombardo


Oggi la Rai si ferma 24 ore per lo sciopero dei tecnici, dagli operatori ai costumisti, degli impiegati e dei quadri dirigenti. Si ferma la macchina, il cuore tecnologico della tv pubblica, per protestare contro il piano industriale da lacrime e sangue che «impoverisce l’azienda» in condizioni mai così disastrose, denunciano da tempo i sindacati. E la novità è l’adesione dei giornalisti dell’Usigrai alla giornata di sciopero «audio-video», anche se saranno presenti sul posto di lavoro. con telegiornali ridotti,
Lo sciopero è promosso da tutti i sindacati, dalla Cgil allo Snaters, con lo schema ormai consueto della dissociazione della Cisl, alla quale plaude il direttore generale, Mauro Masi che pure dice di «rispettare» la protesta. La protesta mira a «rilanciare l’azienda» e a non far pagare la crisi solo a chi lavora. I sindacati sono «disponibili a sedersi intorno a un tavolo», spiega Emilio Miceli, segretario generale della Slc Cgil, «purché si tolgano le esternalizzazioni», soprattutto quelle delle «torri» di RaiWay, gli impianti di trasmissione.
Le sigle promotrici sono tante: Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Tlc, Snater, Libersind-Confsal; l’Adrai, l’associazione dei dirigenti Rai, solidarizza e partecipa con una autotassazione devoluta a Telethon. La Filt-Cisl non aderisce perché
giudica la protesta «fuori tempo» e «controproducente in questa dinamica fase di discussione con l'azienda». La dinamica fase di dialogo, per la verità, è iniziata molto in ritardo perché il dg Masi ha quasi «criptato» per lungo tempo il piano industriale, tanto che gli stessi vicedirettori generali hanno per due volte sollecitato maggiore discussione proprio con i sindacati, per non arrivare a delle rotture. E il consigliere del Pdl, Verro, auspica «il dialogo» ma critica Barenboim: «Inopportuno leggere l’articolo 9» alla Scala.
LO SLOGAN DELLO SCIOPERO
«Non paghi il costo della crisi quella parte produttiva della Rai, quella di chi si alza la mattina e lavora», spiega Miceli a l’Unità, «ma si intervenga con tagli agli sprechi, alla “marea nera” delle consulenze, dei contributi, delle società che non danno un ritorno all’azienda»; in due parole, «i costi della politica che, tra fino al 2006 pesavano per 2 terzi sul bilancio, l’anno scorso erano di 2 miliardi, ora il Cda sostiene di aver ridotto a 1 miliardo e 400mila». A pagare, secondo il piano, saranno solo i lavoratori, con esuberi, blocco dei contratti e degli aumenti. Insomma, la Rai è a «rischio Alitalia», conclude il sindacalista. E resta il mistero: la Rai ha più ascolti di Mediaset ma meno pubblicità. Alla Cisl, infine, dice: «Quando tornerete sacrificheremo l’agnello migliore»,
Dalle 6 di mattina di oggi fino alle 6 di domani non dovrebbero andare in onda i programmi in diretta (La vita in diretta,Piazza Italia, Uno Mattina), i tg dureranno 6 minuti, letti in studio e senza servizi; non si vedranno le rubriche regionali Buongiorno Regione e Buongiorno Italia. I giornalisti si ridurranno dalla retribuzione lorda per il 45% di 1/26 della retribuzione mensile.
E stamattina dalle undici i lavoratori protestano a Viale Mazzini con l’Orchestra nazionale della Rai; parleranno tutti i rappresentanti e saranno presenti le associazioni delle troupe, del broadcast e del sindacato attori, intellettuali e politici.
Santoro ha annunciato lo sciopero a Annozero, riportando i dati del bilancio Rai: «i giornali dicono che perderà 100 milioni nel 2011, 200 nel 2012 e che in due anni avrà circa 650 milioni di debiti». L’azienda smentisce: «Dati non veri».

l’Unità 10.11.10
La Rai si è fermata a Daverio
La cultura secondo viale Mazzini
di Vittorio Emiliani


Il bell’articolo di Luca Del Frà su l’Unità di ieri conferma i gravi limiti e gli alibi sbagliati della Rai odierna. Il più strategico? Vedrete, col digitale terrestre e la moltiplicazione dei canali, quanta cultura faremo... Favole. Intanto gli ascoltatori su Rai5 per la “Walkiria” della Scala sono stati molti di meno, e serviti peggio, di quelli che a suo tempo seguirono su Rai3 il tanto contestato “Macbeth” verdiano, una “prima” scaligera in diretta che costò al presidente musicofilo Enzo Siciliano un “crucifige” permanente nonostante “prendesse” ben un milione e mezzo di telespettatori.
Allora in Rai si chiamavano specialisti come Guido Barbieri, Piero Gelli e altri. Ora sembra che ci sia soltanto Philippe Daverio, buono per ogni trasmissione. Il troppo stroppia e induce a commettere qualche svarione. Sere fa Daverio è comparso da Santoro ad Annozero dove si parlava di post-terremoti. Confesso di aver visto soltanto qualche passaggio, quando peraltro si mettevano in evidenza gli errori marchiani commessi nel costruire tutt’attorno all’ancora atterrato capoluogo abruzzese le cosiddette “new towns” e altre strutture. Purtroppo Philippe Daverio assentiva dicendo che anche in Umbria si era costruito molto intorno. In realtà nel post-terremoto umbro-marchigiano come già in quello del Friuli il Ministero per i beni Culturali, con Mario Serio direttore, si tenne la regìa del tutto usando la Protezione Civile quale braccio esecutivo, e fece subito partire anche la ricostruzione. Vennero usati i container perché la stagione era già avanzata (fine settembre). Ma si passò nella primavera-estate alle casette prefabbricate in legno di tipo siberiano mantenendo in loco le comunità. Nel contempo furono adeguatamente finanziati i lavori (ministro Walter Veltroni), reclutati i migliori specialisti: strutturisti, Giorgio Croci e Paolo Rocchi, storici dell’arte e architetti delle Soprintendenze e dell’Università, Antonio Paolucci, Maria Luisa Polichetti, Marisa Dalai, Bruno Toscano, Giuseppe Basile, ecc. per un’area terremotata vastissima, da Assisi a Urbino, con 1500 chiese colpite nelle sole Marche e con la Basilica assisiate di San Francesco a rischio di rovina totale.La Rai seguì allora così da vicino quest’ultimo formidabile recupero da dedicarvi 40 ore di filmati tecnici. Risultato: la Basilica integralmente restaurata venne riconsegnata in un biennio ai frati francescani e con attenzione venne realizzato il graduale ripristino, in sicurezza, di centri storici come Foligno, Tolentino, Nocera Umbra, Gualdo, la stessa Assisi. Con un eccellente rapporto MiBAC-Regioni-Enti locali. Un rapporto oggi cancellato e sostituito dal “ghe pensi mi” di Berlusconi&Bertolaso. Con risultati in ogni senso desolanti. Questa la realtà vera dei fatti.

Repubblica 10.12.10
Non agiremo mai contro il Vaticano"
Berlusconi pranza con Bertone: lavoro perché il Papa possa andare a Mosca
All´incontro per i nuovi cardinali l´assenza di Bagnasco conferma il gelo con la Cei
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO - «Caro ambasciatore, lei ora lascia l´incarico di rappresentare l´Italia presso la Santa Sede per andare a Mosca, dove c´è il mio amico Vladimir Putin. Io vengo criticato per questo rapporto. Mi accusano. Mi attaccano. Ma non capiscono che il mio vero obiettivo è quello di portare la Russia in ambito occidentale. E che grazie a questa relazione privilegiata sto lavorando anche con il patriarca ortodosso Kirill perché si creino le condizioni affinché il Papa possa andare un giorno a Mosca».
Sono passate le 14 a Palazzo Borromeo, sede della legazione italiana presso il Vaticano, quando il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si rivolge all´ambasciatore Antonio Zanardi Landi, padrone di casa e organizzatore dell´incontro. Mezzo governo è schierato sulla lunga tavolata che domina la sala grande. Ci sono Letta, Bonaiuti, Frattini, Tremonti, Alfano, Bondi, Fazio, Fitto, Romani, Gelmini. C´è anche il consigliere per la politica internazionale del premier, il deputato del Pdl, Valentino Valentini, uomo di collegamento di Berlusconi con la Russia. E dall´altro lato del tavolo i commensali sono il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, e 9 dei 10 nuovi cardinali italiani usciti dal recente Concistoro in cui Benedetto XVI ha creato 24 porporati.
Palpabile l´attesa per un evento che, se è una tappa ormai di prammatica dopo ogni Sacro collegio (fu Prodi a presenziare nel 2007), cade ora a pochi giorni dal decisivo voto di fiducia del 14 dicembre per il governo, con un presidente del Consiglio alla ricerca di appoggi autorevoli. Un momento delicato, a cui la Segreteria di Stato vaticana ha risposto in maniera positiva.
Ai cardinali di fresca nomina il premier ha fatto i complimenti e regalato una croce pettorale. E a tutti ha espresso ottimismo per l´imminente passaggio in aula, confidando di poter ottenere i numeri richiesti. «Da parte mia - ha assicurato prima di ricordare gli anni trascorsi dai salesiani (guardando Bertone che appartiene a quell´ordine) - non verrà mai nulla contro il Vaticano». E dopo alcune frasi del sottosegretario Gianni Letta, il collaboratore del Papa ha risposto ringraziando il governo di aver condotto una politica a favore della Chiesa. Con i giornalisti Bertone si è poi schernito («era solo un pranzo di cortesia, io ero ospite, prego per l´Italia e prego per il futuro di ogni Paese con cui siamo in relazione perché i problemi toccano tutto il mondo, non solo l´Italia»).
Della delegazione ecclesiale facevano parte i cardinali Ravasi, Romeo, De Paolis, Sardi, Amato, Piacenza, Monterisi, Sgreccia e Bartoloni. Assente giustificato Baldelli. Spiccava piuttosto l´assenza del presidente dei vescovi, Angelo Bagnasco, che aveva un impegno precedente a Genova, sua arcidiocesi cui tiene molto. Al suo posto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata.
E´ da tempo del resto che i vescovi italiani non nascondono malumore verso Berlusconi. Il loro quotidiano di riferimento, Avvenire, l´altro giorno in un editoriale si è schierato contro il voto anticipato se in Parlamento si trovasse un´altra maggioranza. C´è chi guarda al dopo. Tremonti (che ieri si è speso sulla necessità di sostenere la famiglia), gode di grande stima. Stuzzica l´idea di un Ppe italiano prospettata da Formigoni. L´ingresso dell´Udc nella maggioranza offrirebbe qualche rassicurazione. Ma non convince la prospettiva di un partito di centro con il ‘laicista´ Fini.
All´uscita del palazzo bocche cucite, comunque, per i porporati. «Meno litigi e scosse ci sono, meglio è», commenterà più tardi uno dei cardinali che ha partecipato alla colazione di lavoro. «Gli uomini di governo devono perseguire il bene comune, non quello del proprio partito», aggiungeva un altro. Nei saloni in cui, fra pochi giorni, Zanardi Landi sarà sostituito dal nuovo ambasciatore Francesco Greco, Berlusconi si lasciava infine andare su una poltrona: «Se poi non otterrò la fiducia - diceva scherzando - vorrà dire che mi riposerò».

il Fatto 10.12.10
I sospetti della Bindi su Renzi: vuole un futuro fuori dal centrosinistra
Cattolici entrambi, ora lei non perdona la visita ad Arcore
di Giampiero Calapà


Sinalunga-Rignano sull’Arno. Ci sono una ottantina di chilometri tra la città di Rosy Bindi e quella dove è cresciuto a pane, politica e scout, Matteo Renzi, non lontano dalla Firenze di cui oggi è sindaco. Ma, ormai, anni luce separano la politica dei due pur sempre “compagni” toscani del Pd. Entrambi provengono dalla tradizione cattolico democratica di quella parte della Democrazia cristiana che guardava a sinistra. Gli scout lui, appunto, e l’Azione cattolica lei. Proprio per questo motivo, per l’origine comune, l’onorevole Rosy Bindi non perdona a Renzi le ultime mosse, dalla fondazione dei Rottamatori fino al “sacrilegio” della visita ad Arcore: “Renzi dice di aver superato le ideologie. Ma è proprio questo il punto? Il berlusconismo non ha alcuna ideologia. È un comportamento”, e Renzi “andando ad Arcore è caduto nel berlusconismo”, ha detto la Bindi ieri all’Unità, arrivando a definire il sindaco di Firenze appartenente alla categoria degli “apparenti viventi, che in realtà sono anime morte perché sono il frutto della politica di questi quindici anni”.
INSOMMA, per Rosy Bindi il rottamatore Renzi andando ad Arcore non ha fatto altro che svelare la sua natura. Che agli occhi della presidente del Pd era già chiarissima in precedenza, almeno dai tempi delle primarie, nel momento in cui Renzi, per correre da solo, voltò le spalle a quello che era considerato il suo “padrino” politico: Lapo Pistelli, altro ex della Margherita che poi ha abbracciato il veltronismo. Autunno 2008, la corsa per le primarie a Firenze diventa rovente, e il giovane presidente della Provincia ha la sua sponda politica più importante in città in quell’assessore-sceriffo che rispondeva al nome di Graziano Cioni, comunista doc empolese , pronto a sostenere l’amico cattolico: “O vinco io o vince Renzi e va bene... o vince Pistelli ed è un’epoca secondo me di quelle micidiali... quindi bisogna che si corra tutti e due, Renzi e io: se vince lui gli fo da vicesindaco, se vinco io fa il vice-sindaco lui”. Poi Cioni fu travolto da vicende giudiziarie, indagato per corruzione e violenza privata, costretto a ritirarsi da quelle primarie in cui era dato per favorito e che poi vinse Renzi. L’amicizia che intercorse tra i due è testimoniata da alcune intercettazioni finite nell’inchiesta sull’area fiorentina di Castello. (Quando Cioni chiama Renzi, presidente della Provincia, per informalo che “all’Isolotto ci s’ha una fedifraga. La Sonia Innocenti: sta con Pistelli”. Renzi: “Quanti voti sposta”. Cioni: “Pochi, ma questo volta-spalle lo deve pagare. La mia porta la trova chiusa oggi, domani e domani l’altro”. Qualche giorno dopo, Renzi: “Ascolta due cose al volo: alla Sonia quel messaggio che mi dicevi ieri gliel’ho fatto dare in modo molto brutale”. Cioni: “A chi l’hai dato”. Renzi: “Al suo capo e a voce tramite Filippo Vannoni, che me l’ha portata a pranzo una settimana fa”). Renzi non esitò a prendere le distanze da Cioni, però, appena lo “sceriffo” finì sotto scacco: “Il passo indietro di Graziano Cioni è un fatto utile e positivo”. Ieri, invece, Renzi nel difendersi ancora dalle accuse sulla visita ad Arcore ha scritto: “Mi dicono che sembro arrogante e forse lo sono. Ma se c’è una cosa che proprio non sento come problema è questo: ho sempre avuto una sola parola. E una sola faccia , che non sarà granché, ma che non cambio”.
Rosy Bindi è indispettita, quindi, da un atteggiamento che considera lontanissimo dalla scuola e dalla tradizione di lealtà politica che ha in Giorgio La Pira, sindaco di Firenze dal 1951 al ‘64, il più importante “padre nobile”. Rosy Bindi, addirittura, sospetta che Renzi non disdegni di prepararsi la strada per un futuro politico fuori dai confini del centrosinistra. Ma il sindaco, sempre nella nota di ieri, pare rispondere indirettamente anche a questo sospetto: “A chi mi dice così ti bruci come leader della sinistra, dico che io ho preso l’impegno a fare bene il sindaco di Firenze. Se lo faccio bene, ok. Se lo faccio male, mi brucio. E soprattutto se lo faccio male mi vergogno, che è peggio di bruciarsi, perché tengo alla dignità più che alla mia carriera”.
NEL FRATTEMPO a Firenze esplode un altro caso. Dopo Renzi ad Arcore si discute della sovrintendente del Maggio Fiorentino, Francesca Colombo, che ha preferito essere presente alla prima della Scala piuttosto che a quella del “suo” teatro, subito difesa dal sindaco: “La sovrintendente del Maggio ha fatto benissimo ad andare alla prima della Scala. È stata una scelta che abbiamo preso insieme”. Valdo Spini, l’ex ministro ora consigliere comunale della “sinistra” d’opposizione, critica il sindaco su questa scelta, perché “un capitano non abbandona mai la nave, e la sovrintendente Francesca Colombo ha sbagliato a non essere presente alla prima del Maggio”.

il Fatto 10.12.10
“Una vergogna i sindaco, un fighetto che lavora solo per la sua setta”
Lo sfogo del destrissimo Buttafuoco: “Ormai è spacciato”
di Beatrice Borromeo


Il più arrabbiato per la parentopoli del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è uno che nell’efficacia della destra sociale al potere ci aveva davvero creduto, prima di vedere come è stata gestita la Capitale in questi due anni e mezzo: Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista di Panorama, cresciuto da irregolare tra le file del Movimento sociale e il Secolo d’Italia. “Sono deluso come uno che scopre violenze terrificanti dentro casa sua e si chiede: e io, povero fesso?”.
Buttafuoco, i numeri sono da ufficio di collocamento: 854 assunti all’Atac e 1400 all’Ama da quando Alemanno ha vinto le elezioni.
È tipico della sua cultura che ha radici settarie. È la vergogna dell’Alemannismo, anzi la vergognissima.
Si aspettava qualcosa di diverso?
Hanno cercato di farsi demo-cristiani a suon di clientele familistiche. Non ci sono giustificazioni, a maggior ragione per chi è cresciuto in questo mondo. Chissà come starà soffrendo Pino Rauti.Anche quella destra, quindi, al potere si è comportata come tutti gli altri.
Eppure erano quelli che mordevano la realtà, che andavano sui marciapiedi, ma per altre storie.
Come reagisce, secondo lei, la base elettorale di Alemanno a questa politica delle clientele?
Non esiste più un’area culturale di riferimento. Gli attivisti del Movimento sociale non votano più per nessuno.
Neanche lei?
No.
Ma che destra era quella da cui viene Alemanno?
La destra sociale è solo un artificio, non c’entra col conservatorismo né col moderatismo: è una dottrina politica che nasce nel solco del Novecento e che ha avuto una sua ragione d’essere nella militanza in favore del popolo e delle sue priorità. L’idea di farne una destra arriva a posteriori, è posticcia.
Era poco destra e molto sociale.
Per dirla con Antonio Pennacchi, è stata un’esperienza politica assolutamente di sinistra. Fondata sull’emancipazione, la tutela dei lavoratori e l’idea di dare un futuro a chi aveva difficoltà a ritagliarsi uno spazio nella società italiana.
Esiste ancora questa visione ?
Solo in certe analisi di Gianni De Michelis o di Massimo Fini, nelle pagine di Pennacchi, nelle atmosfere di qualche ambiente. Ma è un mondo che è finito nel secolo scorso, che forse sopravvive da qualche parte fuori dal perimetro europeo.
Un bel cambiamento rispetto alla parentopoli di oggi?
Già. Non è certamente il Movimento sociale di Beppe Niccolai, né quello di Giorgio Al-mirante e tantomeno di Pino Rauti.
Hanno piazzato figli, nipoti, mogli e persino una ex cubista nelle municipalizzate.
Tipico. Si sono ritrovati fra le mani un giocattolo che è diventato l’arma con cui si stanno massacrando.
Colpa dell’influenza berlusconiana del bunga bunga?
No, assolutamente. Si fanno del male da soli.
Qual è la differenza tra Alemanno e l’altro uomo di destra che ha guidato il Lazio, Francesco Storace?
Storace non aveva la tribù, è più simpatico, più ruspante. Alemanno si è infighettito parecchio e i suoi uomini sono sempre stati settari... Chissà ora quanti anatemi mi lanceranno.
Qual è stato l’errore più grande di Alemanno?
Il sindaco di Roma deve fare il sindaco di Roma. Invece che fa? Politica: costruisce il suo gruppo, piazza i suoi uomini, coltiva il suo giardino di consensi. Avrebbe dovuto occuparsi delle strade, delle buche, del traffico.
Chiudere le buche porta più consensi di qualche centinaio di assunzioni?
Certo! Ma Gianni si ubriaca facilmente: è bastato che gli arrivasse all’orecchio che forse il Cavaliere voleva lui come erede. O che i delusi di Fini intasassero i centralini del municipio urlando “Gianni aiutaci tu”. E la fine risulta imbarazzante. È diventato un interventista politico, politiche-se e politicuzzo. Flavio Tosi, per dire, è un sindaco di tutt’altro livello.
Cadono già le prime teste, come quella del capo-scorta di Alemanno, Giancarlo Marinelli.
Marinelli è stato un vero signore ad andarsene. Ma sono altri che si devono dimettere.
Cioè Alemanno?
Certo. Marinelli gli ha dato una bella lezione. Ma io, che amo molto i retroscena, sono convinto che dietro questa operazione si debba temere un’aggressione più dall’interno che dall'esterno.
Complottista.
No, hanno fatto tutto da soli. Ma c’è chi è pronto ad approfittarne.
Facciamo i nomi.
L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Aspetta in un angolo, con l’acquolina in bocca, immaginandosi già la campagna elettorale come prossimo sindaco di Roma. Ho notato strane mobilitazioni. È nell’aria: non può stare con le mani in mano.
E chi lo dice?
Se ne parla negli ambienti di città, dove ci si annusa, ci si cerca, ci si dà appuntamento: dove si decidono le cose più concrete.
Quindi Alemanno è considerato spacciato?
Ha preso una brutta botta. Pari all’appartamento di Montecarlo di Fini.
Qui i favori ai parenti sono molti di più.
Lo dico col cuore, è una vergogna totale. Dalla casa di Montecarlo, alle suocere in Rai, a Parentopoli sono colpi durissimi. Ti hanno levato un mondo, un partito. Con chi ne parli? Cosa fai? È fi-ni-ta!
Ma Fini potrebbe ancora intercettare i delusi?
Sì, se intende Massimo. È l’unico Fini che riconosciamo. Gianfranco no.

l’Unità 10.12.10
La fecondazione il Nobel e l’anatema
Oggi la consegna del Premio a Edwards
di Maurizio Mori


Il Nobel per la medicina che oggi viene consegnato a Bob Edwards è il sigillo che la scienza considera la scoperta della fecondazione in vitro una delle tappe fondamentali per il progresso della civiltà. Il Vaticano, invece, già dal 1986 ha condannato la fecondazione assistita con la Istruzione Donum Vitae, ed ora, all’annuncio del conferimento ad Edwards del più alto riconoscimento scientifico, ha protestato osservando che si è trattata di una scelta ideologica dal momento che la scoperta di Edwards avrebbe favorito «l’indebolimento della dignità della persona umana».
Il contrasto non è da poco. In primis perché impedisce di vedere che la fecondazione in vitro non è tanto o solo una “terapia della sterilità”, ma è piuttosto una tecnica che amplia enormemente il controllo sulla riproduzione umana, aprendo nuovi orizzonti alle scelte generative. È una nuova forma di riproduzione che consente per esempio di estendere la capacità riproduttiva della donna anche dopo la menopausa o di operare la diagnosi pre-impianto. Grazie ad Edwards è aumentata la libertà di scelta delle persone circa le modalità di trasmissione della vita.
Si obietta che non di autentica libertà si tratta, ma di arbitrio, perché la vera libertà si esercita seguendo i binari stabiliti dalla natura, per la quale «i figli devono essere il risultato di un atto d’amore non di un atto medico». Questo perché «la vita umana è sacra perché fin dal suo inizio comporta “l’azione creatrice di Dio” e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore» (Donum Vitae). La fecondazione in vitro profanerebbe la sacralità della generazione umana perché «solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio».
Emerge così che la radice del contrasto tra scienza e teologia cattolica è sempre la stessa. Come Galileo è stato condannato perché, scoprendo col cannocchiale che la Luna è un corpo celeste come la Terra, ha tolto sacralità al cosmo operando la secolarizzazione come disincanto circa il mondo astronomico, così Bob Edwards viene oggi criticato e ostacolato perché, rendendo accessibile e controllabile il processo riproduttivo umano, ha proseguito l’opera di secolarizzazione come disincanto circa il mondo della generazione umana e spogliato l’inizio della vita umana della sacralità in cui era avvolta. Come Galileo fu criticato in base al «Fermati o Sole!» (Gs. 10,12), così Edwards viene criticato in base al «i due saranno una sola carne» (Gn. 2, 24). La condanna della scoperta di Edwards è una riedizione in piccolo del più celebre processo a Galileo, ma le conseguenze non sono meno dure e nefaste, come mostra la ben nota legge 40.

Corriere della Sera 10.12.10
La voce della solidarietà israelo-palestinese
di Ian Buruma


Da oltre un anno, ogni venerdì pomeriggio, centinaia di ebrei israeliani si raccolgono all’imbrunire in una piazzetta polverosa, nel cuore del quartiere arabo di Gerusalemme. Vi sono anche alcuni palestinesi, compresi un paio di ragazzi che vendono spremute d’arancia. La gente nel quartiere di Sheik Jarrah si raduna per protestare contro lo sfratto delle famiglie palestinesi costrette ad abbandonare le loro abitazioni per lasciar spazio agli insediamenti israeliani. Questi sgomberi forzosi sono umilianti, talvolta vessatori, e terrorizzano le altre famiglie. Gli studenti israeliani sono stati i primi a organizzare la protesta, conosciuta come Movimento di Solidarietà Sheik Jarrah. Poi si sono aggiunti anche professori rinomati, celebri scrittori, ex magistrati.Sulle prime, la polizia ha fatto ricorso alla forza per disperdere i manifestanti, benché tali proteste siano perfettamente legittime in Israele. Ma tale è stato il clamore che la polizia ha dovuto fare marcia indietro, pur mantenendo i posti di blocco. Ai manifestanti non resta che agitare cartelli, picchiare sui tamburi, cantare slogan e dimostrare la solidarietà con la semplice presenza.
I retroscena di questi sgomberi non sono chiari. È vero che alcuni ebrei vivevano nel quartiere prima di esserne scacciati nel corso della guerra per l’indipendenza di Israele nel 1948. Ma un numero assai maggiore di palestinesi è stato spodestato della propria abitazione in diversi settori di Gerusalemme ovest, per trasferirsi successivamente in zone come Sheik Jarrah sotto la giurisdizione giordana, finché gli israeliani non si sono impadroniti anche di Gerusalemme est nel 1967. I palestinesi sono stati lasciati in pace, nella maggior parte dei casi, fino a qualche anno fa, quando gli ebrei hanno cominciato a rivendicare il possesso delle proprietà alienate nel ’48. Tuttavia, i palestinesi che volessero fare altrettanto per le loro case a Gerusalemme ovest, oggi non possono. (...)
Sheik Jarrah, però, non rappresenta il caso peggiore. Altri quartieri palestinesi a Gerusalemme si ritrovano tagliati fuori dal resto della città dal cosiddetto «muro di sicurezza», il che significa che gli abitanti, pur soggetti alle imposte comunali, non godono di alcun servizio pubblico. (...) La situazione è di gran lunga peggiore in località più distanti, nelle cittadine come Hebron, dove i coloni israeliani si comportano spesso da pistoleri del Far West, e — infischiandosene delle leggi del loro stesso Paese — scacciano i palestinesi, tagliando i loro alberi, avvelenando il bestiame, o escogitando altre forme di angherie e vessazioni. (...)
Lo scopo finale, a quanto pare, è quello di rendere ebraica tutta Gerusalemme, facendo leva sia sulle acquisizioni che sulle rivendicazioni storiche e, se necessario, senza escludere il ricorso alla forza. Tale spinta è talmente sistematica, e appoggiata all’unanimità dal governo, che ben poche sono le speranze che uno sparuto manipolo di manifestanti, per quanto rinomati, riesca a fermarla. Che la protesta sia un semplice spreco di tempo? Oppure una sorta di ricevimento radical-chic? Un signore palestinese non la pensa così. Oggi vive a poche strade di distanza dal punto dove si raduna il corteo. «Se non fosse per la vostra presenza», mi dice con un sorriso ottimistico, «sarebbe la fine per tutti noi». Forse si aspetta chissà che cosa, ma non c’è dubbio che la solidarietà ebraica contribuisca a far sentire meno soli i palestinesi. Anche perché a loro non è consentito protestare, pena la perdita del prezioso permesso di residenza in città.
Esiste un’altra ragione per far sentire la propria voce: perché è nell’interesse di Israele. Le contestazioni contro le imposizioni del governo, o la resistenza civile, ben di rado hanno effetti immediati e tangibili. Sotto le dittature, rischiano di essere addirittura controproducenti, perché scatenano rappresaglie feroci, specie nel caso della lotta armata. Ma Israele non è una dittatura, bensì l’unica vera democrazia del Medio Oriente. Malgrado i problemi di segregazione, discriminazione, tensioni etniche e religiose, Gerusalemme rimane l’ultima città davvero diversa nella grande regione mediorientale. Oggi ben pochi ebrei sono rimasti a vivere in città come Teheran, Damasco o il Cairo, mentre la popolazione araba di Gerusalemme ammonta al 36% ed è in costante crescita.
Israele è poi costretto a difendersi inoltre dalla tenace ostilità degli arabi. Ma l’umiliazione sistematica dei palestinesi, quando si dà mano libera ai coloni anche nel caso dei peggiori abusi, ha un effetto corrosivo sulla società israeliana. La cittadinanza si è abituata ad assistere a episodi di brutalità ingiustificata ai danni di una minoranza, e non ci fa più caso. Anche se la maggior parte degli israeliani non vede mai un posto di blocco o il muro di sicurezza, né la gente che viene estratta con la forza dalle case, l’abitudine a girarsi dall’altra parte, a far finta di non sapere, è già una forma di corruzione.
Ecco perché le proteste del venerdì sera, per quanto inefficaci nel breve termine, svolgono un ruolo essenziale. Questa dimostrazione di solidarietà è la voce della società civile di Israele, che mantiene vivo il senso di giustizia e la speranza in una società migliore, sia per i palestinesi che per gli stessi israeliani.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 10.12.10
Il bambino costretto a diventare italiano
Peripezie di un triestino sloveno: dagli studi liceali in seminario alla maturità presa sotto le bombe
di Boris Pahor


L’importanza delle lingue Nel lager alsaziano riuscii a salvarmi soltanto perché conoscevo il tedesco, avevo studiato anche il francese e me la cavavo con russo e polacco
Il poeta perseguitato Dedicai la mia tesi a Edvard Kocbek che era stato osteggiato dai fascisti e poi fu attaccato anche dai comunisti perché ne aveva denunciato i delitti
Da giovane mi è capitato di essere studente senza esserlo. Tutto comincia quando fummo improvvisamente costretti a diventare italiani. Dopo quattro classi di scuola slovena e senza capirne il motivo, in quinta elementare, ci viene imposto di cambiare lingua, di scrivere, parlare e pensare in italiano; cambiare lingua però non bastava: bisogna «diventare» italiani. Mi viene imposto di cambiare il mio essere, di annullare la mia identità. Mio padre mi iscrive all’istituto commerciale, e per due anni di seguito vengo bocciato. Non era un problema di intelligenza: ero come bloccato, forse perché ero stato costretto a diventare italiano e non capivo come questo fosse possibile. Mi chiedo: «Come faccio a diventare un altro?».
Esercitazione in uniforme in una scuola di Bagnacavallo in provincia di Ravenna (1930) e, a destra, la copertina di un quaderno di un balilla (banca dati Indire)
Per fortuna qualcuno pensa di mandarmi in seminario; vado così a Capodistria, Koper, dove finalmente riesco a spiegarmi il motivo del mio malessere: vengo infatti a sapere che l’Italia, già nel 1918, aveva conquistato un pezzo dell’entroterra della Slovenia e che Mussolini pensava di annetterne un altro, come poi effettivamente accade nel 1941. Finalmente, comunque, sono contento, perché almeno adesso capisco: in apparenza dobbiamo essere fedeli — esteriormente italiani — per poter essere promossi. Prendo in questo modo coscienza della doppiezza della mia identità, che diventerà una costante della mia vita. Insieme ad altri che si trovano nella mia stessa condizione cerchiamo di mantenere nell’intimo la nostra identità di sloveni, trovandoci nelle gite in montagna, durante le vacanze; dato che la gran parte dei libri in sloveno che si trovano nelle biblioteche sono stati bruciati, li cerchiamo dai privati, li studiamo di nascosto facendoli passare per la frontiera di contrabbando, come le sigarette. Prendendo atto di questa situazione, anche il mio rendimento cambia e vengo promosso con ottimi voti alla maturità: l’unica insufficienza era in tedesco. «Ma come — mi dicevo — mi proibiscono di essere sloveno, devo diventare italiano e adesso devo pure imparare il tedesco: una lingua non nostra, bensì di un popolo che per secoli ci ha sottomessi?». Guai però se non lo avessi studiato! Capire il tedesco è stato di vitale importanza per la mia sopravvivenza nei campi di concentramento in Germania.
Passano intanto due anni e Mussolini, capendo che doveva avere la Chiesa dalla sua parte, riesce a stringere un patto con la Santa Sede, annullando così le forti tensioni che si trascinavano fin dal 1870, quando Roma era stata liberata dal potere temporale del Papa. Si poteva perciò anche comprendere che il Duce fosse visto come «mandato dalla Provvidenza». Il Vaticano si trova sottomesso al regime, che adesso comanda anche in chiesa, e così le funzioni religiose devono essere in italiano o in tedesco. I nostri sacerdoti, che sono in minoranza, si trovano in grossa difficoltà: vengono allontanati, mandati via. Una situazione brutta: anche se mi sento un traditore, decido di lasciare i miei compagni di seminario, che vanno in chiesa a lottare contro il fascismo.
Lasciando il seminario non sono più dispensato dal servizio militare: ormai ho 27 anni, ma vengo mandato in Libia, dove c’è la guerra. Si spara, si bombarda; la cosa interessante però è che durante quell’anno di guerra ho fatto tutto il necessario per affrontare l’esame di Stato. Sì perché, pur avendo conseguito la maturità in seminario, questa non era riconosciuta dallo Stato e dunque non valeva niente.
Porto con me tutti i libri, sperando di riuscire a fare l’esame a Tripoli; arriva invece l’ordine di imbarcarci per andare prima a Bengasi, poi fino al confine egiziano. Appena raggiunta Derna, un villaggio vicino al confine, arriva l’ordine di consentire a chi vuol fare l’esame di maturità il ritorno a Bengasi, che non era certo vicina! Bisogna fare l’autostop e tutta la strada a ritroso. Per mia gran fortuna, però, l’esame viene rinviato di 15 giorni. Pensate: di notte, per scampare ai bombardamenti, ci rifugiavamo sotto la Banca d’Italia lì vicino, lungo il mare, e di giorno andavamo fuori a dare gli orali. Nel 1941 insomma, mentre cadono le bombe delle incursioni alleate, io riesco finalmente a dare l’esame di maturità classica.
Intanto Bengasi viene circondata dagli inglesi e io, che sono ammalato al fegato, vengo imbarcato su una nave ospedale. Il primo anno sotto le armi era trascorso, e con il diploma di maturità decido di iscrivermi alla facoltà di lettere a Padova. Una volta guarito torno a Cremona, dove c’è il mio reggimento, e scopro che sul lago di Garda c’è bisogno di un interprete ufficiale di serbo-croato per i prigionieri di guerra jugoslavi. Chiedo così di essere trasferito sul Garda: all’università avevo infatti studiato il serbo-croato con Arturo Cronia, professore di slavistica, sostenendo due esami. Dal 1941, fino a parte del 1943, faccio dunque l’interprete al seguito di 150 ufficiali jugoslavi prigionieri di guerra, tre dei quali sloveni. Sono anni tranquilli ed è da qui che inizia davvero il mio rapporto con Padova. Come ho già detto, mi iscrivo all’università, a dire il vero più per accontentare mio padre, che mi voleva con il classico «pezzo di carta» in tasca. Essendo ancora militare non posso frequentare le lezioni ma, grazie a un tenente colonnello, ottengo i permessi per sostenere gli esami.
Se non ci fosse stato l’8 settembre mi sarei laureato; due settimane prima però il Sim (il Servizio informazioni militare) aveva dato l’ordine di mandare via tutti gli interpreti perché non familiarizzassero con i prigionieri. Pensate l’assurdità: dopo tre anni passati come interpreti in continuo contatto con i prigionieri, improvvisamente ci ordinano di andarcene per non fare amicizia con loro! Vengo mandato a Bergamo e in quei giorni apprendiamo dell’armistizio; faccio dunque ritorno a Trieste e qui mi capita la «pegola» («sfortuna» in triestino, ndr) della deportazione, per colpa di alcuni sloveni che collaborano con i tedeschi. Vengo imprigionato e comincia il mio peregrinare tra i vari campi di concentramento: Dachau, Bergen Belsen, Dora; è il 1˚giugno del 1944, partiamo in 600.
I campi come quelli in cui andai e di cui parlo nei miei libri, ad esempio in Necropoli, erano destinati ai deportati politici, erano campi di lavoro; nulla a che vedere con quelli in cui si compirono le stragi degli ebrei. Si doveva lavorare e di ebrei ce n’erano ben pochi, restavano solo quelli sani; non c’erano forni crematori né camere a gas, si moriva per lo più per le malattie, tifo o dissenteria. Se non si riusciva a guarire e non si era più in grado di lavorare, non si riceveva più da mangiare e, se non si moriva di stenti, si veniva mandati nei campi come Auschwitz, con le camere a gas. La mia prima meta è Dachau, poi mi portano in Alsazia, presso un campo in montagna sui Vosgi, a 50 km da Strasburgo (Natzweilwer, ndr), che è stato mantenuto ancor oggi come «Centro europeo del deportato resistente».
I miei studi universitari, in particolare due esami di lingua e letteratura francese, mi tornano in questo frangente molto utili: li avevo sostenuti con Diego Valeri, un poeta davvero in gamba, non come quelli di oggi, che non si capiscono e per i quali ci vuole l’interprete! Un giorno, a seguito di un’epidemia di tifo, dobbiamo sgomberare una baracca e ho la fortuna di conoscere un ufficiale francese prigioniero di nome Jean, con il quale mi arrangio a parlare, grazie appunto all’esame sostenuto con Valeri. Jean si stupisce molto di come io riesca comprenderlo e a comunicare. All’inizio, vedendo la «I» sulla giacca, pensa che io sia italiano; quando però gli spiego che sono italiano solo di cittadinanza, da un punto di vista politico insom- ma, ma che all’interno delle mura di casa mia, dove posso, sono sloveno, mi chiede se capisco anche il russo, il polacco e il ceco. Trattandosi di lingue slave con radici simili, le capivo certo meglio di lui. Dovete sapere che in questi campi di lavoro c’erano degli ospedali, anche molto ben strutturati, dove si effettuavano soprattutto operazioni chirurgiche. Molti medici, anche prigionieri e di diverse nazionalità, dovevano intervenire sui feriti. Jean capisce subito che la mia conoscenza delle lingue è preziosa e così corre al comando e mi propone come interprete. In particolare divento interprete di un medico norvegese, deportato come me, che non conosceva né l’italiano, né il francese, né il polacco, né il russo. Adesso potete capire perché la conoscenza del francese e di Jean mi hanno salvato la vita!
Nel momento in cui arrivano i liberatori in Alsazia, vengo mandato con gli altri di nuovo a Dachau, poi portato dalle SS a Dora, dove venivano costruiti i missili. A Dora incontro alcuni sloveni che mi conoscono, perché avevo già iniziato a scrivere qualcosa: poiché lì ero ancora una volta una nullità, mi fanno diventare infermiere. Durante l’arrivo dell’armata sovietica da una parte e di quella occidentale dall’altra, i tedeschi cominciano a svuotare diversi campi. Iniziano così veri e propri «viaggi della morte» su treni di 40 vagoni, che avevano principalmente come destinazione Bergen Belsen, il campo dove morì anche Anna Frank.
Si trattava di un campo destinato a chi doveva morire: qui venivano mandati i deportati che erano troppo malati e questo permetteva che altri campi rimanessero più «puliti». Ed è proprio qui che gli inglesi mi liberano: malato di tisi, con due amici francesi, un po’ a piedi e un po’ in autostop, arrivo in Olanda e da qui, su un treno pulitissimo e fra mille attenzioni, a Parigi. Vengo mandato in sanatorio, restandovi un anno e mezzo, e riprendo lo studio della lingua e della letteratura francese, disteso tutto il giorno al sole su una sedia a sdraio. È un ritorno alla vita ed è in quel periodo che nasce il mio amore per Parigi e la Francia.
Quando torno a Trieste decido di cominciare a lavorare sulla tesi. Inizialmente mi rivolgo al professor Valeri, il quale però mi dice che molto del materiale necessario si trova in Germania. Figuratevi se, appena tornato dai campi di concentramento, avevo intenzione di tornarci! Non avevo voglia di avere a che fare con nulla di tedesco. Di conseguenza sono costretto a cambiare i miei piani, scegliendo il professore di slavistica Arturo Cronia; era un croato italianizzato, iscritto — come tutti d’altronde — al partito fascista, ma era comunque un uomo di larghe vedute: molti infatti erano gli sloveni di Trieste che si laureavano con lui, scegliendo un argomento di letteratura slovena.
Scelsi il poeta Kocbek: lo consideravo un amico, anche se ci conoscevamo solo per lettera; era già famoso, avendo scritto un’opera intitolata Zemlja, «Terra». Arrivo alla laurea, come già detto, più che altro per fare un favore a mio padre che ci teneva tanto, e decido che la mia tesi deve avere un’impronta polemica: la sinistra diceva che Kocbek fosse un autore legato alla tradizione cattolica, ai simboli religiosi, all’espressionismo. Io al contrario sostengo che non è affatto così, che anzi si tratta di un precursore del neorealismo. Il professore mi dà carta bianca e finalmente un anno dopo il mio ritorno a Trieste, nel settembre del 1947, a 34 anni, mi laureo.
Kocbek è un grande poeta; purtroppo è poco conosciuto in Italia, benché sia stata tradotta una sua opera: Compagnia. Ha avuto una sorte infausta pagando, come è successo ad altri letterati, lo scotto di essere inviso prima ai fascisti e poi ai comunisti. Istigato anche da me, Kocbek rende noto l’eccidio ingiustificato di decine di migliaia di prigionieri avvenuto subito dopo la guerra ad opera dei comunisti. Viene «condannato» così non solo dal governo di Belgrado ma anche dagli altri Paesi che considerano in modo positivo la Jugoslavia, trattandosi di un Paese non allineato. Per il suo valore Kocbek meriterebbe di essere rivalutato: io, nel mio piccolo, ci ho provato.

Corriere della Sera 10.12.10
Modigliani La pietra e l’anima
Il fascino misterioso delle opere scolpite da un artista vittima della sua leggenda


Amava presentarsi a mercanti e collezionisti come scultore ancor più che pittore. Quasi a sottolineare quella vocazione antica nata negli anni giovanili quando era rimasto abbagliato dai marmi inondati di luce di Carrara e dai capolavori dei grandi maestri che aveva ammirato nei suoi viaggi in Toscana, a Roma, a Napoli, a Venezia. Una passione rafforzatasi dopo l’incontro a Parigi con Constantin Brancusi e a cui si era dedicato con impegno straordinario, privilegiando la tecnica del taglio diretto, sbozzando cioè e scolpendo direttamente la materia scultorea, in aperta antitesi alla lezione del modellato di Rodin. Eppure quelle stupefacenti opere, quelle teste, quelle cariatidi realizzate in soli ventiquattro mesi, tra il 1911 e il 1913, sono state a lungo avvolte nel mistero, travolte da quella leggenda di genio e sregolatezza, da quelle fantasticherie e colpi di scena che a lungo hanno segnato l’esistenza e la parabola artistica di Modì.
«È così un racconto nuovo quello a cui questa mostra vuole oggi dar voce», ha dichiarato Gabriella Belli, direttrice del Mart e curatrice dell’evento insieme a Flavio Fergonzi e Alessandro Del Puppo. «Un racconto critico di ben altro spessore, nato da lunghe ricerche, da attente ricostruzioni storico artistiche e analisi filologiche che hanno portato anche all’identificazione di tre nuove sculture oltre alle venticinque già catalogate nel 1965 da Ambrogio Ceroni. Se si escludono le due esposizioni curate personalmente da Modigliani, quella del 1911 nello studio di Souza Cardoso e quella del 1912 al Salon d’Automne, la mostra del Mart è la prima al mondo interamente dedicata alla sua vicenda di scultore, la numero zero».
Delle 25 sculture documentate dal Ceroni oggi soltanto di 15 si conosce l’ubicazione: il Mart ne presenta otto, ed è un record perché finora nessuna mostra era riuscita a raccoglierne tante insieme. Tra i capolavori presenti, le due teste di Minneapolis ( mai prestata finora) e di Washington o quella del 1912 proveniente dal Centre Pompidou di Parigi. Un numero ragguardevole per la fragilità della pietra in cui vennero realizzate e che insieme agli studi grafici, agli acquerelli, ai dipinti consente di mettere in luce gli esiti altissimi da lui raggiunti nella ricerca plastica. «Sarà proprio l’esperienza della scultura a trasformare Modigliani da pittore ancora legato a un postimpressionismo d’impronta cézanniana in un grande artista dalle soluzioni assolutamente innovative. Senza la scultura non avrebbe scoperto l’arte moderna, non sarebbe arrivato alla padronanza del segno, alla sintesi, a quella nuova purezza formale così gradita alla Parigi del tempo. Non sarebbe diventato Modigliani», ha sottolineato Flavio Fergonzi. Ed è proprio attraverso la scultura che Modì riuscirà a mettere a punto quell’iconografia fatta di colli allungati, di ovali del volto accentuati, di occhi carichi di profondità e mistero, di quegli archetipi di una bellezza universale senza tempo né luogo che trasporrà anche nei dipinti successivi e che costituiranno il suo originale, personalissimo linguaggio artistico.
Grande merito della mostra è l’aver delineato la mappa delle influenze culturali, dei tanti motivi antichi e moderni che a tale linguaggio contribuirono. I capolavori del Trecento e del Rinascimento italiano (di squisita perfezione, nel suo aristocratico distacco, il busto di Battista Sforza di Francesco Laurana) e quelli di arte egizia, indù, khmer e africana che aveva potuto studiare nelle visite al Louvre, al Guimet, al Trocadéro e che qui sono messi a dialogare, in un confronto di forte impatto, con i suoi lavori. E poi le opere dei contemporanei, scultori come Zadkine, Archipenko e Brancusi, in mostra con Il bacio e Adamo ed Eva, ma anche Picasso, con quel Nudo femminile del 1907 dai tratti che si ritroveranno nelle sculture di Modì.
Ma sarà il progetto delle cariatidi a condurre la ricerca di Modigliani verso ancora più ambiziosi obiettivi: una scultura che si fondesse con la forza, le leggi espressive, l’armonia dell’architettura in un grande insieme decorativo, in un’opera d’arte totale. Un’impresa da risultare quasi impossibile e che contribuirà all’improvviso venir meno, in Modì, di quella passione a cui si era dedicato con febbrile energia. Mentre una stagione creativa si chiudeva, un’altra si apriva nello stesso 1913 sulla scena artistica parigina, quella del giovane Boccioni e delle nuove sperimentazioni plastiche dell’avventura futurista.

Corriere della Sera 10.12.10
L’altra bellezza delle sculture tribali Ecco la madre delle prime avanguardie
Il «colpo di fulmine» degli intellettuali d’inizio ’900 per il primitivismo
di Vincenzo Trione


I conservatori. A paragone con i canoni consolidati dell’impressionismo e dei postimpressionisti, quelle inquietanti testimonianze di un’estetica rivoluzionaria suscitarono timori e angosce

La seduzione Dalle opere africane e oceaniche nasce lo «scandalo» del cubismo, a partire da «Le demoiselles d’Avignon» di Pablo Picasso, incipit dell’arte contemporanea
Questa è una storia di scoperte e di rivelazioni. Comincia a Parigi nei primi anni del Novecento. Esattamente alla fine del 1906, quando il fauve Maurice de Vlaminck, durante una passeggiata sulle rive della Senna, entra nella bottega di un mercante di anticaglie. Lì si imbatte in una serie di strani feticci in legno eseguiti da anonimi creatori dell’Africa francese. «Grotteschi e rozzamente mistici», verranno definiti. Qualche mese più tardi — è l’estate del 1907 — Pablo Picasso è in visita al Musée de l’Homme, al Trocadéro: ricco archivio di icone esotiche. Un incontro che inciderà in maniera determinante su «Les demoiselles d’Avignon», il quadro considerato da molti come l’incipit dell’arte contemporanea.
Parigi, o cara Una rara immagine del Salon d’Automne del 1912, dove Modigliani presentò sette sculture. L’artista aveva già partecipato nel 1907 all’esposizione, organizzata con cadenza annuale a Parigi dal 1903 come alternativa più progressista al Salon ufficiale e ad altri spazi espositivi. Sotto, la sua «Cariatide con vaso», acquerello in arrivo dalla Tate di Londra.
Questi due episodi sono all’origine di quella che Guillaume Apollinaire chiamerà «melanomania e melanofilia». Siamo dinanzi a una vera moda, che contagerà artisti, scrittori, intellettuali, galleristi. In una stagione segnata da forti disagi — gli inizi del XX secolo —, molti avvertono l’esigenza di guardare altrove. Ci si richiama a una espressività sorgiva, incorrotta; a una sapienza riscaldata dal divino; al mito del buon selvaggio. Ci si spinge al di là del recinto protettivo della cultura europea, per misurarsi con il fascino del diverso: si vuole riscoprire quel che non è stato corrotto dalla civiltà. Tra i «melanofili», Blaise Cendrars, che pubblica un’Antologia negra; Ricciotto Canudo, che auspica l’avvento di un nuovo primitivismo; Tristan Tzara, che loda le qualità delle opere «coloniali»; André Breton, che invita i francesi a «negrizzarsi». Fino ad Apollinaire e Picasso, collezionisti di statue e di maschere apotropaiche provenienti dal Gabon, dalla Guinea, dall’Egitto. Sarà proprio Apollinaire ad annotare: «La curiosità, dedicandosi alle sculture d’Africa e d’Oceania, ha trovato un nuovo alimento».
Una curiosità che stimola mercanti come Paul Guillaume. Ma risveglia anche paure segrete. Perché quei «testimoni inquietanti» suscitano timori, angosce, ossessioni. Ma possono anche sedurre. Non si tratta solo di costruzioni dal valore antropologico. Sono «attrezzi» dotati di profonda qualità estetica, che indicano una strada per uscire dagli schemi impressionisti e postimpressionisti. A differenza degli artisti occidentali, quelli esotici non rappresentano le apparenze: di una faccia, ad esempio, ritraggono non ciò che vedono, ma ciò che sanno. Conducono una ricerca esclusivamente plastica. Per sfiorare la struttura nascosta dietro il visibile, compiono semplificazioni estreme. Non inseguono una bellezza simmetrica e classica. Non temono il brutto, inteso come il lato perturbante del bello: esasperano dettagli, sperimentando anamorfosi. Quasi istintivamente, elaborano una poetica della deformazione. Plasmano silhouettes drammaticamente ieratiche, caratterizzate da verticalità, da equilibrio geometrico, da essenzialità volumetrica, da purezza compositiva. Architetture che non rimandano a un asettico calcolo, ma rispondono solo a regole interne. Questo bisogno di riduzione è sempre sorretto da tensione spirituale. Pur privi di consapevolezza artistica, gli scultori negri marcano una netta distanza dal reale, per avviarsi verso un inatteso preconcettualismo. Senza rispettare i principi della verosimiglianza, modellano visi e corpi disarticolati. Liberi da condizionamenti esteriori, non replicano la natura. Vogliono qualificare, come ha ricordato Michel Leiris, le forme, «secondo un movimento (...) che va dall’idea (...) alla figura».
Importanti momenti dell’avanguardia parigina primonovecentesca nascono da qui. Da queste lontane memorie traggono origine gli scandalosi gesti dei cubisti, impegnati a portarsi verso una sorta di realismo analitico. Picasso e Georges Braque pensano l’arte non come racconto, né come descrizione, ma come deformazione, tesa a mettere in rilievo alcune unità linguistiche finite e costanti, prive di riferimenti denotativi. Disarticolano identità, scompongono fisionomie, mandano in frantumi anatomie, propongono smontaggi: raffigurano i volti contemporaneamente, da molteplici punti di vista, da molti lati, secondo angolazioni dissonanti. Dal dialogo con i feticci muoverà anche Amedeo Modigliani, per elaborare un’originale ipotesi di arcaismo moderno: uno stile barbarico e, insieme, elegante. Forse, l’ultima figurazione possibile. Ecco le sue compatte e austere teste: solenni e antichissime. Blocchi di pietra grezza, su cui sono incisi lievi tratti: visi inclinati, con palpebre chiuse, occhi senza pupille, nasi aguzzi. Massi grezzi, da cui affiorano sagome ancora etrusche. Silenti cariatidi, ritagliate nella scabra pietra. Custodiscono una trattenuta sensualità. Ma presentano anche aspetti densi di consonanze con i totem africani. Una monumentalità decostruita, fatta di volti ben definiti ma asimmetrici, di proporzioni alterate, di arti lievemente sconnessi.
Anche Modigliani sogna il Paradiso perduto. Anch’egli è sedotto da una struggente nostalgia per l’infanzia e per la giovinezza. Una nostalgia che, come ha scritto Ernst Gombrich, tende a fondersi «facilmente nella mente dell’uomo con il desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierate, più innocenti della nostra condizione presente».

Repubblica 10.12.10
Il narcisismo non è più malattia
Così la psichiatria “scagona” chi ama troppo se stesso
di Massimo Ammaniti


Da Freud in poi lo studio dell´egoismo patologico è stato per anni al centro della psicanalisi
Tra le ragioni del "declassamento" la necessità di più evidenze ma anche interessi corporativi
Seicento esperti riscrivono l´intero sistema diagnostico dei disturbi della personalità. Con qualche novità e molte polemiche

Il narcisismo non è più un disturbo della personalità. Sono 600 psichiatri ad affermarlo, proprio nel momento in cui il fenomeno sembra sempre più diffuso. Nel maggio 2013, infatti, verrà pubblicato il "DSM 5", una sigla che sintetizza il sistema diagnostico più diffuso al mondo in campo psichiatrico. Fin dalla sua prima edizione, del 1952, ha impegnato le migliori menti della disciplina per stabilire quali disturbi psichici includere e quali escludere dalla complessa classificazione. Quest´ultima versione, frutto di un lavoro di anni, ha coinvolto 600 specialisti ed è costata 25 milioni di dollari.
Molti disturbi sono stati eliminati, altri sono stati riformulati secondo nuovi criteri: nel sito dell´American Psychiatric Association si possono leggere le proposte di revisione dei disturbi di personalità che, semplificando, sono stati ridotti da 10 a 5. E mentre è rimasto il disturbo borderline di personalità, è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità. Una scelta che ha scatenato molte polemiche. Sull´American Journal of Psychiatry un gruppo di eminenti psichiatri americani e inglesi, fra cui Otto Kernberg, presidente della Società Psicoanalitica Internazionale, ha scritto che in questo modo non è più rappresentato adeguatamente lo spettro dei disturbi di personalità che si possono osservare.
D´altra parte il disturbo narcisistico di personalità ha ricevuto una minore attenzione nella ricerca clinica di questi anni: non è facile riconoscere "campioni" con caratteristiche generali anche perché non si dispone di metodi di indagine adeguati. A questo punto il clinico che tratta questi pazienti nel proprio studio non avrebbe un riferimento diagnostico a cui rifarsi. Ma resta importante chiedersi perché il disturbo narcisistico di personalità sia stato escluso nonostante il narcisismo patologico abbia rappresentato per molti decenni un tema centrale nel pensiero psicoanalitico fin dal saggio di Freud del 1914 Introduzione al narcisismo. Freud aveva messo in luce che il narcisismo, ossia l´investimento e l´amore per sé, permea la nostra vita quotidiana dall´amore dei genitori per il proprio figlio all´amore sentimentale fino alle preoccupazioni ipocondriache per la propria salute.
Nel corso degli anni il concetto di narcisismo ha assunto anche una dimensione sociale, riflettendo orientamenti e comportamenti quotidiani descritti dal sociologo americano Christopher Lasch nel suo famoso libro La cultura del narcisismo, del 1979. Lasch parlando della società americana di allora raccontava come si fossero affermati, con la caduta delle grandi ideologie, modelli di individualismo esasperato che spingevano verso le pratiche di autocoscienza o verso il culto del proprio corpo o verso la liberalizzazione sessuale, per sconfiggere le paure e le ossessioni della vecchiaia e della morte. Il libro di Lasch aveva anticipato tendenze che si sono via via affermate nel mondo occidentale, basti pensare alla pratica di Facebook attraverso cui ci si presenta agli occhi degli altri per confessarsi e ottenere conferme in un intreccio infinito che esalta la propria individualità.
Era questo il contesto in cui ha preso corpo il concetto di narcisismo patologico, caratterizzato da un senso grandioso di sé e dal costante bisogno di conferme da parte degli altri. Inevitabilmente la vita emotiva dei narcisisti è particolarmente povera e superficiale, con un bisogno di costanti rassicurazioni e una incapacità a provare empatia per gli altri, soprattutto per le loro sofferenze. Se il narcisismo è divenuto la coloritura fondamentale della vita quotidiana sfuma il confine fra normalità e patologia. È così diffuso nei comportamenti di tutti i giorni da divenire una costante della personalità umana, secondo l´affermazione dello psicoanalista americano Heinz Kohut. Il termine narcisista, poi, fa parte del lessico comune non solo negli scambi quotidiani con gli altri, ma anche per descrivere i comportamenti di molti governanti, presi solo dai propri interessi ed egoismi. Togliendo il disturbo narcisistico di personalità dalle classificazioni psichiatriche non si verrebbe inevitabilmente a sancire la normalità dei comportamenti dei politici e a giustificarli?
Non credo che queste considerazioni abbiano influenzato la task force che si è occupata dei disturbi di personalità. E allora in base a quali criteri è stata costruita la nuova classificazione? In primo luogo il panorama della ricerca psichiatrica è in rapida evoluzione, studi in campo genetico e neurobiologico stanno ridisegnando i confini dei disturbi psichici e allo stesso tempo occorrono evidenze forti per stabilire che un disturbo realmente esista. Rileggendo i casi clinici di Freud, ad esempio quelli di isteria, difficilmente si potrebbe fare oggi la stessa diagnosi di allora. E poi le scuole psichiatriche più prestigiose, soprattutto americane, vogliono ottenere un adeguato riconoscimento nella nuova classificazione del DSM. Dalla prima edizione si è verificato un profondo cambiamento del paradigma scientifico, da un modello psicoanalitico dominante negli anni ´50 a un approccio basato sulle evidenze, per cui una sindrome clinica, al pari delle malattie internistiche, può essere riconosciuta solo con indagini effettuate nella popolazione generale oppure in gruppi selezionati di pazienti che si rivolgono ai servizi psichiatrici.
Anche altre ragioni, meno scientifiche, pesano sulle decisioni di includere o escludere un disturbo, ad esempio il ruolo delle società di assicurazione americane che coprono le spese psichiatriche dei propri assistiti. Se si amplia troppo l´ambito dei disturbi psichici le assicurazioni dovrebbero affrontare costi crescenti. Infine vi è il ruolo ancora più importante delle industrie farmaceutiche. Qui l´interesse è esattamente il contrario, ossia allargare sempre di più l´ambito delle persone che fanno uso di psicofarmaci. Se la psichiatria dilata la definizione dei disturbi psichici la potenziale utenza può ampliarsi a dismisura, basti pensare che le prescrizioni di antidepressivi sono aumentate in Gran Bretagna del 171% nel decennio 1991-2001, dice il Department of Health. È probabile che l´approccio farmacologico abbia influenzato anche la revisione nel DSM 5 dei disturbi di personalità. Nella nuova proposta rimane il disturbo borderline di personalità che viene curato con prolungati trattamenti farmacologici, mentre è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità, per cui venivano consigliati trattamenti psicoterapici. Ma forse il mondo sta cambiando: il narcisismo non solo aiuta a vivere, può addirittura, se assume un carattere di grandiosità personale, predisporre verso una carriera politica.

l’Unità 10.12.10
Il bambino con le braccia all’aria
La storia di Paolo corre quasi parallela alla lunga lotta di Franco Basaglia per rinnovare la psichiatria. A raccontarla è il fratello Carlo, dalle prime stranezze al progredire della malattia, in un libro capace di commuovere e di indignare
di Oreste Pivetta


Paolo rivela appena ragazzo la sua diversità, all’inizio ovviamente in modi lievi, a tratti, a tratti recuperando la sua normalità, manifestando là dove ci si attende che lo faccia, cioè a scuola, la sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua diligenza. Paolo cammina «con le braccia larghe», con le braccia all’aria come volesse prendere il volo, liberarsi: è il primo sintomo di una precarietà e dà il senso di un bisogno ma anche di una disponibilità. È il fratello Carlo che osserva quel particolare modo di incedere di Paolo: «Il giorno in cui mi accorsi che Paolo camminava tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo, rimasi più che altro sorpreso. Non capivo se era un gioco o qualcosa di più misterioso. Avevo allora nove anni e mio fratello ne aveva uno e due mesi di più...». È il fratello Carlo che ricorda e che la vicenda di Paolo ha raccontato in un libro, Il bambino con le braccia larghe (edito da Ediesse), titolo splendido per un libro bello, intenso, capace di commuovere e di indignare, e l’ha scritto con semplicità, senza retorica, cronista di due vite accanto, la sua di felice padre di famiglia e quella di Paolo, sofferenza continua sino alla morte, un anno fa. Carlo Gnetti è giornalista, lavora per Rassegna sindacale, il settimanale della Cgil, è autore di molti saggi.
Carlo e Paolo sono figli di una famiglia che gode di qualche benessere economico, il padre ufficiale della marina militare (diventerà ammiraglio), medaglia d’oro per aver condotto in salvo tutto l’equipaggio della sua nave affondata in un episodio di guerra, la madre donna religiosa, con aspirazioni di cultura. Vivono tra Portoferraio, Spezia, Portovenere, Lerici, i luoghi d’origine della famiglia, La Maddalena, Napoli, i porti dove il padre marinaio viene via via trasferito per servizio, e infine Roma. Un’infanzia lieta – siamo tra i Cinquanta e i Sessanta , ci sono anche due sorelle, la scuola, i giochi, gli amici, le vacanze, le prime gite in macchina, stipati nella Millecento verde. E poi il mare e le navi, che resteranno sempre nella fantasia di Paolo. Finché appunto, dopo le prime stranezze, s’avverte il progredire della malattia. A quel punto la vita di Paolo e dei suoi, dei genitori e del fratello, diventa una peregrinazione alla ricerca di una soluzione, che è difficile definire: guarigione è una chimera, alleviare la pena è una speranza, come è una speranza condividere la sofferenza o sentire attorno a sé aiuto. Si comincia con la psicoanalista, che «scopre» le colpe dei genitori e poi rimanda ad altri, si continua con gli psichiatri, si conosce il manicomio, si passa dalle case di cura private, si prova la comunità, si precipita nel pozzo degli psicofarmaci... rare voci fraterne, alcuni esperimenti coraggiosi quando il coraggio supplisce alla povertà delle risorse, soprattutto indifferenza, superficialità, ignoranza (anche dei primari) fino alla brutalità e lo scandalo di una sanità consegnata alla speculazione. L’incontro obbligato con le cliniche psichiatriche romane è un itinerario infernale tra squallore, abbandono, insipienza, violenza: il malato non si sa difendere. Carlo s’illumina d’entusiasmo quando un giovane psichiatra (che non rivedrà più, presto allontanato) gli dirà che i medici non possono «mettere le esigenze degli infermieri davanti a quelle dei pazienti». Sembra Basaglia, quando denunciava nel manicomio una struttura burocratica organizzata a sua difesa e per la sua prosperità sulle spalle dei malati. Anche Carlo Gnetti cita Basaglia. Per ragioni storiche. La vicenda di Paolo corre quasi parallela alla lunga, contrastata lotta di Franco Basaglia e di tanti come lui per rinnovare in Italia la psichiatria, cominciando dalla cancellazione dei manicomi e dalla costruzione di una rete di servizi, che potesse aiutare il malato se non a guarire almeno a ridurre il danno per sé, contro l’emarginazione, l’esclusione, strutture adatte all’assistenza a tempo pieno e a lungo termine, il più possibile umane, il più possibile orientate sulla terapia e sul recupero sociale. Questo doveva consentire la legge 180, la cosiddetta legge Basaglia, approvata nel 1978, come ci ricorda Carlo Gnetti: una legge rimasta in sospeso, applicata male e tardi, peggio in alcune regioni, meglio in altre, rimessa in discussione infinite volte, contestata dalle stesse famiglie che si sono ritrovati a casa i malati. Carlo Gnetti non è tra i critici: riferisce la sua odissea e nel riferire documenta una pessima applicazione che riconduce il malato all’oscurità dei manicomi (tali sono quelle costose e pompose cliniche private, dove capita che un urologo faccia il direttore psichiatrico e dove l’unica terapia è la dose quotidiana, sempre più alta, di psicofarmaci) e che lascia i parenti (e pochi altri volonterosi con loro) alla solitudine e all’impotenza di fronte al dissesto della mente, il mistero che non possono comprendere. Siamo di fronte a una storia familiare che «materializza» condizioni e responsabilità collettive, il peso di una riforma mancata, di una sanità che s’affida al mercato, di una marcia a ritroso nella civiltà, e che rappresenta la tragedia di una società che continua a escludere e che lascia prosperare alcuni sull’esclusione di altri, i più deboli tra tutti, come possono essere Paolo e gli altri.

giovedì 9 dicembre 2010

Corriere della Sera 9.12.10
Uno straniero alla Scala
di Beppe Severgnini


Un argentino-israeliano nato da genitori russi, prima di dirigere l’opera di un tedesco, in un teatro gestito da un francese di madre ungherese e voluto da un’austriaca, legge la Costituzione italiana. Una magnifica combinazione, se non fosse per un particolare: rischiamo di diventare comparse in casa nostra.
Daniel Barenboim ha fatto bene, in attesa di lasciare il passo a Wagner e alla sua Walkiria, a citare l’articolo 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»).
Lo ha fatto davanti al presidente della Repubblica. Lo ha fatto alla Scala, prima di un’opera lirica. La Scala e la lirica sono due tra i primati che ci sono rimasti. Diciamolo: l’elenco non è lungo, ormai. Risparmiare sulla cultura, per un Paese come l’Italia, è autolesionista. Certo, il momento è economicamente difficile. Ma l’unico petrolio nazionale sta nella nostra testa. Altro, non ne abbiamo.
Quando Angela Merkel è stata messa di fronte al piano di riduzione della spesa, ha detto ai suoi contabili: tagliate dovunque ma non la cultura, l’istruzione e la ricerca. Una signora tedesca cresciuta nella Germania comunista ha intuito quello che molti italiani, vissuti a bagnomaria nella bellezza, non vogliono capire. Non riusciremo a emulare i nostri precedessori, quelli che hanno arredato le nostre città, costruito i nostri teatri e scritto la colonna sonora della nostra vita insieme. Cerchiamo, almeno, di non imbarazzarli.
Era imbarazzante e imbarazzata, invece, l’assenza del ministro della Cultura alla prima della Scala. Milano, che esprime tanta storia e mezzo governo, merita rispetto. È arrivato invece il presidente della Repubblica e ha dovuto ascoltare gli stranieri che — inevitabilmente — ci impartivano una lezione. Intanto fuori, sulla piazza, una protesta comprensibile prendeva le solite, incomprensibili forme. Chi vuole un’Italia più saggia e più colta non si presenta col casco e la faccia coperta.
Stiamo attenti: perché dietro l’ammirazione per le nostre cose belle si nasconde il sospetto che non sappiamo amministrarle. E, quindi, non ce le meritiamo. Non ci sono solo i teatri. C’è Pompei devastata dall’incuria (tanto che la studiosa Mary Beard oggi sul Corriere propone di «internazionalizzare l’onere»); c’è Napoli umiliata dal pattume, le cui immagini stanno facendo, una volta ancora, il giro del mondo. Perché anche questo accade: i nostri disastri sembrano confezionati per la televisione. La nostra fama li rende spettacolari, per gli altri. E dolorosi, per noi.
La Scala è italiana. Per la storia di ieri e la fatica di oggi, per quelli che ci lavorano e sono orgogliosi di farlo. Non ci possiamo permettere che il mondo pensi: un posto troppo importante per lasciarlo agli italiani. Quello di Daniel Barenboim non è stato, come ha detto Daniele Capezzone, «un comizio antigovernativo». Era un attestato di stima. E, insieme, un avvertimento.
«I tagli alla cultura sono sempre un problema» ha commentato laconico il ministro dello Sviluppo economico. Be’, se sono un problema, risolviamolo. Se occorrono denari per la Scala, troviamoli. Togliamoli alle piccole indecenze — ce ne sono, nascoste nell’intercapedine tra gli alti principi e i bassi interessi — e investiamoli in una grande eccellenza. L’Italia, tra pochi mesi, compie 150 anni. Un regalo di compleanno se lo merita. Le parole non bastano. E di quelle, state certi, ne ascolteremo tante.

Mario Vargas Llosa. “Elogio della lettura e dell’immaginazione”
il video del discorso pronunciato in spagnolo dallo scrittore a Stoccolma il 7 dicembre  in occasione del ritiro del premio Nobel per la letteratura che gli è stato assegnato per il 2010 (54’)
qui
http://nobelprize.org/mediaplayer/index.php?id=1416

l’Unità 9.12.10
Eritrei schiavi nel deserto: «L’Egitto non li cerca»
Stanno morendo. Uno dopo l’altro. E le autorità egiziane ripetono: «Non riusciamo a localizzarli». La tragedia dei 250 eritrei da un mese nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Il racconto di don Mussie Zerai.
di Umberto De Giovannangeli


Ora si sono inventati un’altra «favola». Non riescono a trovarli. Una «favola» che può sfociare in tragedia. E in parte lo è già. Nel campo del deserto del Sinai dove sono prigionieri dei predoni i 250 profughi africani, tra cui una ottantina di eritrei, denunciano ieri una «grande agitazione, che li preoccupa, perché temono che i carcerieri li vogliano trasferire». A riferirlo è don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo, presidente dell’Ong Habeshia che è in contatto telefonico con alcuni dei giovani tenuti in ostaggio. Continuano i maltrattamenti e le percosse, e le continue richieste di denaro da parte dei rapitori.
SITUAZIONE DRAMMATICA
I ragazzi hanno appreso da don Zerai dei contatti tra i capi tribù del Sinai e i servizi di sicurezza egiziani, per arrivare a un rilascio. Il sacerdote è anche critico sull'idea che il governo egiziano non sappia dove sono i prigionieri: «Se sanno che sono in mano di un unico trafficante di esseri umani, e se uno dei nomi di località che ha fatto il governo, Rafah, coincide con quello che raccontano i prigionieri argomenta don Zerai come si fa a dire che non li hanno ancora localizzati?». I sequestratori hanno chiesto 8mila dollari di riscatto per il rilascio di ciascuno dei prigionieri, sottoposti ad abusi e privazioni, denuncia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), informato dall’agenzia Habeshia. Ogni anno migliaia di persone cercano di attraversare il confine egiziano per recarsi in Israele e spesso si affidano a trafficanti beduini che non tengono in alcun conto la loro sicurezza. Molte di queste persone sono migranti, mentre al-
tri provengono da Paesi di origine di rifugiati proprio come l'Eritrea. Secondo le linee guida dell'Unhcr, la maggior parte degli eritrei in fuga dal loro Paese dovrebbero essere considerati rifugiati. L'Unhcr continua a sollecitare le autorità egiziane affinchè sia consentito ai suoi funzionari l’accesso a coloro che vengono arrestati durante il viaggio allo scopo di determinare quali tra questi siano da considerare rifugiati e bisognosi di protezione internazionale. Le notizie si rincorrono in un’alternanza di speranza e cupo pessimismo. Un gruppo composto da 63 etiopi e di una ventina di eritrei è stato rilasciato da trafficanti di uomini nei pressi di Suez City. Sono stati poi arrestati dalle forze di sicurezza egiziane per immigrazione clandestina mentre tentavano di spostarsi verso il confine con Israele. A riferirlo all’Ansa sono fonti della sicurezza egiziana, spiegando che l'arresto è avvenuto ad un centinaio di chilometri dal confine e che questo gruppo, che è stato rilasciato dopo avere pagato il riscatto richiesto, non ha nulla a che vedere con gli eritrei che sono tenuti in ostaggio da bande di predoni da circa un mese. «Tra i trafficanti aggiunge ancora don Zerai è salito il nervosismo anche per il tam tam mediatico sulla vicenda. C'è il rischio che possano spostarsi insieme ai prigionieri per far perdere le proprie tracce». Il sacerdote Don Zerai è in contatto con un giovane eritreo di 26 anni, che in una telefonata ha descritto una situazione che va peggiorando. In grave difficoltà anche le donne incinte e quello con bimbi piccoli: «Non ci laviamo da un mese ha raccontato una di loro viviamo nella spazzatura, come in una putrefazione». «La politica dei respingimenti ha spostato i flussi migratori verso est con l'aggravante di una situazione geopolitica ben più complessa e con una crescita della violenza che nè l'Italia, nè l'Unione europea possono tacere perchè conseguenza di una politica di chiusura delle frontiere», rimarca Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir).
CORSA CONTRO IL TEMPO
Una denuncia penale per i crimini di sequestro di persona a scopo di rapina e di estorsione, tortura, omicidio, lesioni gravi, minacce, traffico di esseri umani. È la nuova azione del Gruppo EveryOne, organizzazione internazionale per i diritti umani. «Dopo contatti con il ministero degli Interni della Repubblica Araba d'Egitto, abbiamo depositato un atto di denuncia al procuratore Maher Abd al-Wahid al Cairo, e per conoscenza al Presidente della Repubblica Araba d'Egitto Hosni Mubarak, al Primo ministro Ahmed Mahmoud Mohamed Nazif e al Ministro dell'Interno, il generale Habib Ibrahim Habib El Adly», comunicano i tre co-presidenti dell'Ong, Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau. «Fate presto, o moriremo uno dopo l’altro»: è il disperato appello che giunge dal Sinai. Non accoglierlo è un crimine. Contro l’umanità.

Repubblica 9.12.10
Sabato due cortei. Prima del comizio di Bersani lettura di articoli della Carta
Musica e Costituzione il Pd prepara la piazza per lanciare l’alternativa
Ci saranno tutti i dirigenti di prima fila. Collegamenti con sit in "gemelli" a Zurigo e Sidney
Posto d’onore tra i cantanti a Neffa: la sua "Cambierà" è l’”inno” preferito dal segreterio


ROMA - La parte più organizzata della manifestazione riempirà piazza San Giovanni con 100 mila persone. È il risultato di 18 treni speciali, 1500 pullman, di una nave democratica in arrivo dalla Sardegna, tutto preparato dal partito. Ma sabato dovranno essere molti di più i partecipanti perché abbia successo quella che Pier Luigi Bersani definisce «una festa, anzi una festa di liberazione». Il segretario parlerà alla fine, unico politico di un lungo pomeriggio romano, mentre gli altri dirigenti saranno sotto il palco. Tutti o quasi hanno garantito la loro presenza dimenticando mal di pancia, correnti e critiche. D´Alema, Veltroni, Franceschini, Finocchiaro, Zingaretti, anche il criticatissimo Matteo Renzi che nel giro di una settimana passerà dal pranzo di Arcore al corteo anti-Cavaliere. I rottamatori saranno in strada accanto a quelli che vogliono mandare casa, prima o poi. Pippo Civati aderisce con entusiasmo: «A me piacerebbe che ci fosse tutto il centrosinistra e le associazioni e i movimenti».
I cortei che si muoveranno verso l´appuntamento di San Giovanni saranno non più uno ma due. Si muovono alle 14 da Piazza della Repubblica e da Piazzale dei Partigiani. In una festa non può mancare la musica. Ad aprire le due sfilate sono state chiamate due bande musicali, una dalla Basilicata, una dal Piemonte. I Giovani democratici hanno organizzato un pullman-discoteca che si piazzerà al centro del corteo sul modello dei Gay Pride o delle feste rave. Il palco di Piazza San Giovanni assomiglierà dunque al raduno del Primo maggio, il concertone di Cgil, Cisl e Uil. Bersani interviene alle 15,30-16, quando ancora il sole non è calato. Nella precedente ora e mezza si alterneranno le note dei musicisti.
Comincia la Med Free Orkestra, polifonica con composizione multietnica. Poi tocca a Roy Paci, Nina Zilli, Simone Cristicchi. Il senso di una manifestazione globale è affidato ai collegamenti in streaming con i cortei del Pd all´estero. Due le piazze: Zurigo e Sidney (quest´ultima registrata visto il fuso orario, 12 ore avanti). Il vertice del Pd non vuole parlare di piazza-spallata, ma se si manifesta alla vigilia di un voto di fiducia decisivo qualche segnale bisogna pur mandarlo.
Se quello che unisce i 316 deputati pronti a votare contro Berlusconi è la difesa delle democrazia, delle istituzioni, la denuncia di un premier che non rispetta né l´una né l´altra, non mancherà in piazza la Costituzione, «la più bella del mondo» secondo Bersani. Cinque persone, dal ragazzo all´ottantenne leggeranno altrettanti articoli della Carta: il primo, il terzo, l´articolo 9 sulla cultura già declamato martedì sera da Daniel Barenboin alla Scala, l´articolo 53 sulla tassazione... Questi sono i principi ispiratori del Pd. Questi testi tengono insieme le generazioni, gli uomini e le donne. Al cantante Neffa viene riservato un posto d´onore. Rapper, autore di canzoni molto popolari ma non di culto come altri suoi predecessori, Giovanni Pellino (il suo nome all´anagrafe) ha composto "Cambierà", la colonna sonora scelta dal segretario per chiudere le assemblee democratiche. Abbandonati Vasco Rossi, Jovanotti, Ivano Fossati, i cantautori storici, Bersani si affida a un cantante sperimentale e commerciale insieme (il suo ultimo successo è "Fare a meno di te" in coppia con J-Ax). Neffa suonerà appena prima dell´intervento del leader, fuori dal segmento musicale. Alle 15,30-16 è il momento di Bersani. Farà il bilancio del berlusconismo al tramonto, entrerà nel dettaglio del futuro, del governo di responsabilità, dei rapporti con Fini, Casini, il terzo polo. Spiegherà come sta nascendo l´alternativa.
Alla sede del Pd si compulsano freneticamente i siti del meteo. Le previsioni sono buone, ma l´organizzazione coordinata da Nico Stumpo e finanziata dal tesoriere Antonio Misiani, prevede gagdet sul modello Forza Italia. In caso di pioggia saranno distribuiti ombrelli del Pd. In caso di vento freddo addirittura degli scaldacollo, come quelli che portano i calciatori quando vanno a giocare su campi ghiacciati. Adesso occorre solo aspettare. Per capire quanta gente seguirà il Partito democratico di piazza. E cosa succede da qui a dopodomani nel campo della maggioranza.
(g. d. m.)

Repubblica 9.12.10
"Berlusconi-bis? Opposizione doppia"
Bersani attacca, ma i Democratici preoccupati dalle voci di accordo Fli-Pdl
Franceschini sente Bocchino e Casini, poi rassicura il leader "Crisi da 72 ore? È solo il gioco del cerino"
di Goffredo De Marchis


ROMA - L´allarme è scattato ieri mattina presto. Il fantasma del Berlusconi bis ha preso le sembianze dell´incubo da dormiveglia per i dirigenti del Pd. Troppi segnali ambigui. Dario Franceschini si è attaccato al telefono. Ha chiamato Bersani, ha preso informazioni da Bocchino e Casini, ha registrato il pessimismo di Fioroni, convinto che «i contatti tra Berlusconi e Fini siano più fruttuosi di quanto appare». Per il Partito democratico l´ipotesi di un reincarico è un brutto colpo. Significa cominciare daccapo, prendere in mano di nuovo il filo dell´opposizione dopo aver assaporato il gusto della fine di Berlusconi.
Franceschini ha avuto le garanzie che cercava. Il Terzo polo regge, ha riferito al segretario. «È solo il gioco del cerino». Futuro e libertà non vuole più vedere il Cavaliere a Palazzo Chigi, questa è la verità. «Bocchino dice che in 72 ore la crisi avrebbe una soluzione favorevole? Se Berlusconi si dimette prima del voto di fiducia - racconta Franceschini a Bersani - la crisi sarà un po´ più lunga di tre giorni. E soprattutto più complicata per il premier e le sue speranze di reincarico». Eppure la spia dell´allarme rosso non si spegne. Il fantasma si materializza anche al Tg1, al quale Bersani rilascia un´intervista: «Sarebbe un Berlusconi quater non bis. Noi e l´Italia abbiamo già dato. Ma se un´ipotesi del genere dovesse concretizzarsi raddoppieremo l´opposizione, è evidente».
Il Partito democratico lavora su vari fronti, alcuni dei quali preoccupanti. La manifestazione non crea problemi, almeno nelle dichiarazioni della vigilia. «O stiamo nella vecchia storia o seguiamo una strada nuova - dice Bersani - . Noi andiamo a Piazza San Giovanni per indicare la strada nuova».
Il Berlusconi bis invece terrorizza i vertici democratici. Con una sola magra consolazione. Per alcuni. «Io voglio la caduta del premier - spiega Beppe Fioroni - ma vedo che qualcosa si muove nel fronte destro degli oppositori di Berlusconi. Dal bis può venire una buona notizia: il Terzo polo muore prima di nascere. E il Pd finalmente deve spostare il suo baricentro dalla sinistra ai moderati. Per attrarre i delusi». Franceschini però ha parlato a lungo con Roberto Maroni di un terzo scenario, il più caro alla Lega. «Noi non stiamo nemmeno un minuto in un governo che si regge su un solo voto di maggioranza. Sarebbe un governo fasullo - ha detto il ministro dell´Interno al capogruppo Pd - e la Lega non potrebbe starci. Semmai si va dritti alle elezioni». E in questo caso Fini sarebbe costretto a ragionare su un´alleanza larga con i democratici, nonostante le smentite. Oggi condivise anche da Bersani: «È normale che il Pd non sia alleato di Fini».
Senza il Pd non ci sono i voti della sfiducia ma la partita in queste ore si gioca nel vecchio centrodestra e nella nuova alleanza tra Fli, Udc e Api. Ai leader di questa nuova formazione non risparmia critiche Arturo Parisi: «Sorprende che chi si dichiara parlamentarista chieda l´apertura di una crisi fuori dal Parlamento con le dimissioni del premier prima del 14. In realtà sono dei partitisti».

Corriere della Sera 9.12.10
Pannella dal Cavaliere Numeri, riparte la sfida
La fiducia torna sul filo. Asse Calearo-Cesario


ROMA — I giochi sembravano chiusi con l’incontro Pannella-Bersani. Ma ieri sera, a sorpresa, il leader storico dei Radicali ha rivelato un vertice con Berlusconi, Letta e Alfano. Marco Pannella ha parlato di incontro «lungo e importante, non tanto in vista del 14, ma delle situazioni che ne dovranno scaturire». E ha spazzato via ipotesi di «logore e screditate ammucchiate, dette e riproposte come "unità nazionali"». Il comunicato radicale riaccende le speranze del centrodestra di sbaragliare le opposizioni anche alla Camera e costringe ad aggiornare il pallottoliere, con le riserve del caso.
«Se pure fosse, siamo 316 a 311...». Il futuro del governo è chiuso tra le dita di una sola mano. Il margine di vantaggio di Fini, ammette Italo Bocchino, si è ridotto a cinque voti appena. Sempre che dai sei radicali non arrivino colpi di scena: basterebbe l’astensione per ribaltare i pronostici. «Se pure fosse...». Il condizionale di Italo Bocchino racconta gli ultimi passaggi di campo. Dalla crisi di coscienza di Scilipoti, che ha messo un piede fuori dall’Idv, al movimentismo dell’ex veltroniano Calearo. Oggi una conferenza stampa dei due, con l’aggiunta di Bruno Cesario, vedrà forse la nascita di un sottogruppo filoberlusconiano del misto, in bilico tra astensioni e voti a favore. Ci sarebbe già il nome: «Movimento per la responsabilità nazionale».
Ma sono ore di annunci e ripensamenti. «Devo ancora decidere come voterò — alza il prezzo Calearo —. Berlusconi non lo sfiducio, ad oggi sono per l’astensione. Lo ascolterò e poi farò la mia scelta». Cesario, altro ex pd, voterà la fiducia. Scilipoti invece non sa che pesci prendere e racconta di aver ricevuto mail di minacce. Una dice: «Volevo ricordarle che in tempo di guerra i traditori venivano fucilati alle spalle, buon lavoro».
Se Scilipoti vota sì, il blocco Fini-Casini-Bersani-Di Pietro scende da 317 a 316, con la possibilità di risalire una casella se Gianpiero Catone dovesse ricucire con il Fli. Poi c’è l’incognita delle oppositrici in gravidanza: le finiane Cosenza e Bongiorno e la Mogherini del Pd. E qualche novità potrebbe arrivare dai finiani moderati, o almeno questo si aspettano i mediatori di Palazzo Chigi. «Ci sono persone dentro Fli che la sfiducia non vorrebbero votarla», ammette Silvano Moffa e disvela un malessere che dal Pdl viene conteggiato in sette deputati, i quali potrebbero astenersi, disertare l’aula o persino votare sì.
«Il voto anticipato è follia», conferma gli umori delle colombe Giuseppe Consolo e sulla sfiducia è cauto: «Devo sentire Fini». E i sette che starebbero per cedere? «Io non li vedo — risponde Consolo — però Moffa, Menia, Ronchi, Patarino, Polidori e Paglia la pensano come me. Siamo noi i magnifici sette? No... Avremmo anche dato una mano a Berlusconi, ma sentirci chiamare traditori ci ha fatto male. Inutile fare la conta, noi seguiremo Fini». Si parla di pressioni fortissime sugli indecisi e persino di passaggi di denaro, anche sotto forma di contratti di consulenza che verrebbero stipulati dai partiti. Francesco Pionati dell’Adc va a caccia di «tentennanti», ma giura di non offrire soldi. Calearo, insultato via mail dagli elettori come «traditore», ha raccontato di donazioni sino a 500 mila euro. E Pionati lo provoca: «Lui i soldi li ha, io al massimo posso offrire un caffè...».

il Fatto 9.12.10
Voto di sfiducia, inizia la conta dei deputati
Decisivi i parlamentari di Marco Pannella
In vista del 14 dicembre, a Roma la compravendita dei politici è già iniziata. E dopo la decisione dell'Idv Scilipoti di votare no, la palla passa in mano ai sei radicali

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/08/voto-di-sfiducia-inizia-la-conta-dei-deputati-decisivi-i-parlamentari-di-marco-pannella/80884/

il Fatto 9.12.10
La Ceppaloni del Pd romano punta su Fini
Riccardo Milana e signora pronti al grande salto (uniti)
di Alessio Grossi


Ha tanti voti e folte truppe, ed è pronto a portarli in un sol colpo a Fini. Se Bersani non gli darà le garanzie che pretende. Riccardo Milana, senatore romano del Pd di area popolare, ex rutelliano di ferro, vuole trattare direttamente con il segretario nazionale. Altrimenti, è disposto al cambio di casacca. Due giorni fa Milana si è incontrato con il leader di Fli alla Camera, e assieme hanno discusso di un suo possibile approdo tra i finiani. Un colloquio favorito dal deputato di Fli Claudio Barbaro, ex consigliere comunale a Roma ai tempi della giunta Rutelli. “Ma io ho incontrato tante persone, parlo con tutti” ha fatto sapere Milana, che si sente spesso proprio con Rutelli. “Un amico” come ricorda sempre il senatore, che con l’ex sindaco di Roma è stato assessore in Campidoglio dal 1994 al 2001. Per Rutelli, è stato organizzatore instancabile delle campagne elettorali, nonché uno dei principali collettori di voti. Milana era il suo braccio destro anche nel 2008, quando l’ex sindaco non riuscì a riprendersi il Comune, perdendo contro Alemanno.
SCONFITTA doppiamente pesante per Milana, che era anche il segretario romano del Pd. Battuto per giunta in una delle sue roccaforti, il Municipio XII, dov’era presidente la sua compagna, Patrizia Prestipino. Un sodalizio così forte, così presente da farli paragonare ai coniugi Mastella e alla loro Ceppaloni. La Prestipino, comunque, cadde in piedi, diventando l’assessore allo Sport e al Turismo presso la Provincia di Roma, con Nicola Zingaretti. Le strade di Mi-lana e Rutelli invece si divisero. Il senatore è rimasto nel Pd, schierandosi nel 2009 con Bersani. Pur rimanendo nella maggioranza bersaniana, si è poi avvicinato ai Popolari, che a Roma e nel Lazio si dividono in vari sottogruppi. “Il Pd ci discrimina” ripete da tempo. Da mesi nel partito romano si sussurrava di un suo passaggio all’Udc. Voci che si rincorrono dalla scorsa primavera, quando Emma Bonino ha perso contro Renata Polverini nelle Regionali in Lazio. Il coordinatore del suo comitato elettorale era proprio Milana, cattolico accanto a una leader radicale. Andò male, e il senatore ha cominciato subito a preoccuparsi d’altro. Per esempio, di assicurarsi una ricandidatura, con buona posizione in lista, in caso di elezioni anticipate. Non automatica, visti i contrasti tra i Popolari e il vertice del Pd. Non solo: Milana è alla terza legislatura consecutiva, limite massimo secondo lo statuto democratico. Che però ammette deroghe. Milana voleva e vuole garanzie, che sinora non ha ottenuto. Circostanza inaccettabile, per un uomo che si sente un maggiorente del Pd. “Uno che sposta migliaia di voti”, come si sussurra negli ambienti romani del Pd, e che dal suo feudo dell’Eur può raggranellare consensi in tanti altri quartieri di Roma.
MILANA, ex giornalista televisivo, ha rapporti solidi con il mondo dei costruttori, da sempre padroni della scena politica ed economica nella Capitale. E ha buoni contatti anche in Vaticano. Può contare su un nutrito gruppo di fedelissimi: una quarantina di consiglieri municipali, un presidente di Municipio (Antonella De Giusti), un consigliere regionale (Mario Mei), due consiglieri comunali (Francesco Smedile e Salvatore Vigna), il consigliere provinciale Massimo Caprari e la Prestipino. Conta, il senatore, e nei giorni scorsi l’ha ribadito alla sua maniera, lanciando strali contro il congresso romano del partito. Sabato scorso, pochi attimi dopo l’elezione a segretario dello zingarettiano Marco Miccoli (ex Ds), da Milana e i suoi è arrivata la bordata: un documento congiunto con cui rinunciavano a ogni incarico nella direzione e nella segreteria romane. “Questo congresso è l’epilogo di un vicenda che dura da mesi e che assesta un duro colpo alla componente non Ds di questa città” hanno scritto. Porta sbattuta, insomma, in attesa di chiamate dall’alto. Un altro dei sodali di Milana, l’europarlamentare Guido Milana, è sembrato sfilarsi: “Da parte mia, nessun addio al Pd verso nuovi lidi”. Gli altri, con toni diversi, invocano “segnali” dal partito. E Milana ribadisce: “L’unico che non mi ha ancora chiamato è Bersani”.

Corriere della Sera 9.12.10
Il Pd prepara la piazza. E Vendola propone un «partito nuovo»
La manifestazione di sabato


ROMA — Il Pd scende in piazza sabato per una grande manifestazione di «proposta e di protesta», «con l’Italia che vuole cambiare»: «Siamo arrivati a un bivio — dice il segretario Pier Luigi Bersani —. O stiamo nella vecchia storia o facciamo un passo verso una strada nuova. Noi andiamo a San Giovanni a dire che bisogna fare un passo verso una strada nuova».
Manifestazione che arriva a pochi giorni dal voto di fiducia di martedì. Gli ultimi scenari vedono un possibile ritorno di Berlusconi al governo, dopo un passaggio al Quirinale, e non piacciono affatto a Bersani: «Un Berlusconi bis sarebbe un Berlusconi quater: abbiamo già dato. È ora di voltar pagina. Nel caso avvenisse una cosa del genere, raddoppieremmo l’opposizione». Il leader di Futuro e libertà ha spiegato che non farà alleanze con il Pd in caso di urne anticipate. Bersani: «Fini ha ragione. Dice che è nel centrodestra, mentre noi siamo nel centrosinistra. Dice che non pensa che ci siano elezioni e non lo penso neanche io».
L’obiettivo principale resta comunque l’archiviazione del berlusconismo. A questo punta anche la mobilitazione di sabato del Pd, che vedrà sfilare due cortei a partire dalle 14, da piazza della Repubblica e da piazza dei Partigiani, che confluiranno in piazza San Giovanni. Saranno letti articoli della Costituzione e si ascolterà musica, a partire da «Cambierà» di Neffa, neo inno bersaniano. A chiudere, alle 15.30, il discorso del segretario.
Vincenzo Vita chiede che la manifestazione sia trasmessa dalla Rai, possibilmente in diretta. Al corteo parteciperanno anche i «rottamatori» di Matteo Renzi e di Pippo Civati, che contesta «gli strateghi delle alleanze che dividono». Ignazio Marino invita tutti a «smetterla di parlarsi addosso»: «Perché non lavorare sui contenuti, anziché fare liste di alleanze mobili, dibattere su Renzi o Vendola?». Ma sulle affermazioni di Vendola si continua a discutere. Il leader di Sinistra e libertà, nel nuovo libro «Riaprire la partita», propone al Pd di dare vita insieme a un nuovo partito della sinistra, attraverso le primarie. Serve, dice Vendola, «un più vasto albero», un «grande partito della sinistra». Sel è già pronto a morire: «È nato per restare in vita solo il tempo necessario». Idea bocciata dal Pd, sia per la chiusura ai centristi di Vendola, sia per il rischio di una scalata di Vendola attraverso le primarie.

l’Unità 9.12.10
Vendola al Pd: facciamo un nuovo partito. Coro di no


È quasi un invito a sciogliersi quello lanciato al Pd da Nichi Vendola, che propone ai Democratici di dar vita, insieme, a un nuovo partito della sinistra, attraverso il lavacro delle primarie. Una proposta che ha suscitato l’irritazione di Bersani, e il «niet» di tutte le anime del partito. Vendola, nell’introduzione al volume «Riapri-
re la partita» (che raccoglie i discorsi al congresso di Sel), propone al Pd di creare insieme un più «vasto albero» e cioè un grande «partito della sinistra». «Abbiamo fatto nascere un partito spiega il leader di Sel che si augura di restare in vita solo per il tempo necessario e che nel proprio Dna ha inscritto non l’istinto di sopravvivenza ma la tensione verso la nascita di qualcosa di più grande». Il leader di Sel ha intimato il Pd a non perseguire alleanze centriste, attraverso «giochi di palazzo, manovre di corridoio, alchimie politiche». Davide Zoggia, membro della segreteria Pd e assai vicino al Pier Luigi Bersani, risponde con sarcasmo: «Se Vendola non è soddisfatto di Sel e lo considera un partito “a tempo” ne parli con i dirigenti di Sel. Il Pd è aperto ma non è intenzionato a partecipare a nessuna ripartenza». «Il Pd deve aver chiaro che è nato non per fare la sinistra», tuona Beppe Fioroni.

il Riformista 9.12.10
Contro le primarie di coalizione
di Michele Salvati

qui
http://www.scribd.com/doc/44956638

Repubblica 9.12.10
Per il regime di Pechino È l´ora della verità
Se il governo vuole meritare la statura di leader internazionale deve promuovere le libertà individuali
di Vàclav Havel e Desmond M. Tutu


Non viviamo più in un mondo unipolare. Le nazioni occidentali non godono di un monopolio sul potere economico e politico. È in corso una trasformazione incoraggiante, destinata a portare maggiore eguaglianza e benessere nel mondo intero. Grazie a questo progresso, i Paesi in via di sviluppo godono di una influenza crescente nel mondo e in questo senso la Cina regna incontrastata. Se da un lato il progresso economico e geopolitico cinese degli ultimi trent´anni va celebrato, dall´altro l´aiuto che la Cina dà a regimi dispotici e la forza brutale con la quale reprime ogni dissenso all´interno dimostrano che serve una riforma radicale se Pechino vuole la statura di leader nell´ambito della comunità internazionale.
Il mondo deve opporsi al modello cinese di sviluppo che disgiunge le riforme economiche da quelle politiche. Dopo le riforme di mercato di Deng Xiaoping l´economia cinese ha vissuto una straordinaria trasformazione. La liberalizzazione economica e l´integrazione hanno tolto dalla povertà milioni di persone e reso la Cina la seconda economia più importante al mondo. Per elevarsi, però, al rango leader, la Cina deve essere più di una potenza economica amorale: deve promuovere e proteggere i diritti umani del suo popolo.
Liu Xiaobo è soltanto uno tra 1,3 miliardi di cinesi, ma la sua storia, quella del Nobel per la Pace di quest´anno, è tristemente emblematica dell´intolleranza da parte del governo cinese nei confronti della libertà di espressione. Ex professore di letteratura, Liu si trovò già a contrastare le politiche del governo di Pechino dopo aver negoziato il ritiro pacifico delle proteste studentesche dalla Piazza di Tienanmen nell´estate del 1989. Un anno fa, il governo lo ha condannato a 11 anni di prigione per aver co-redatto Charter 08, un appello a varare riforme politiche pacifiche sottoscritto da diecimila cinesi prima di essere censurato su Internet in Cina.
L´8 ottobre il Comitato del Nobel ha assegnato a Liu il premio per la Pace riconoscendo la sua "lunga lotta nonviolenta a favore dei diritti fondamentali dell´uomo in Cina". La reazione del governo cinese all´annuncio, come quella alla Charter 08, dimostra quanto esso sia suscettibile alle critiche.
È inquietante la decisione del governo di condannare la moglie di Liu, Liu Xia, agli arresti domiciliari a Pechino appena un´ora dopo l´annuncio del Premio. Liu Xia è isolata dal mondo esterno, senza accusa formale, senza processo, senza sentenza, né una motivazione legalmente valida. Altre persone che in Cina avevano conosciuto Liu, o sono sospettate di averne condiviso la visione, sono state perseguitate, interrogate e incarcerate.
Il regime cinese mostra i muscoli anche a livello internazionale. Ha reagito all´assegnazione del Nobel definendo "blasfemo" il premio e minacciando ritorsioni contro la Norvegia. Ha rinviato a data imprecisata i negoziati con la Norvegia per un accordo di libero scambio commerciale. Ora, alla vigilia della consegna dei Nobel, Pechino minaccia altre nazioni, intimando loro di boicottare l´evento o di "pagarne le conseguenze".
La Cina non viola soltanto i diritti dei propri cittadini: difende e aiuta dittature brutali in tutto il mondo: Birmania, Sudan e Corea del Nord commettono impunemente atrocità contro i loro stessi popoli grazie all´aiuto bilaterale e ad armi del valore di parecchi miliardi di dollari messe a disposizione da Pechino.
La Cina adesso ha un´occasione davvero unica: può celebrare l´inizio di una nuova rotta, che le consenta di indossare le vesti di leader mondiale da ogni prospettiva, compresa la capacità di rispettare il dovere di promuovere e proteggere i diritti umani. Questo approccio, però, deve iniziare dalla Cina, dal rispetto degli obblighi previsti dalla sua stessa Costituzione e dagli accordi internazionali. Per Pechino il primo passo da compiere, perciò, deve essere la liberazione immediata e senza riserve di Liu Xiaobo e della moglie Liu Xia prima della cerimonia della consegna del Premio Nobel per la Pace fissata il 10 dicembre.

Václav Havel è ex presidente della Repubblica Ceca. Desmond Tutu è arcivescovo emerito di Cape Town. I due autori sono copresidenti onorari di Freedom Now, che rappresenta Liu Xiaobo in qualità di consulente legale internazionale.
traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 9.12.10
Scienza, fede e il concetto di “fine naturale”
Risponde Corrado Augias


Gentilissimo dottor Augias, giorni fa lei ha chiesto che cosa significhi in concreto la sempre invocata "fine naturale". C'è un documento magisteriale sull'eutanasia che lo spiega bene. Per fine naturale si intende il non fare ricorso a cure o interventi "straordinari" che prolungano solo artificialmente una vita, quindi che mantengono solo artificialmente in vita. Il documento infatti è contrario all'accanimento terapeutico per difendere il diritto ad una morte dignitosa. Mi sembra molto chiara e "umana" la posizione della Chiesa, non le pare? Il vero problema si pone quando si cerca di stabilire il limite tra il "far morire" (intervento attivo nel porre fine ad una vita) e "lasciar morire" (intervento passivo nel lasciar che una vita finisca) è molto sottile, ma qui è la scienza che deve chiarire. Non è facile stabilire per scienza quando la morte è certa. Prima si concordava sull'elettroencefalogramma piatto e la mancanza di respirazione autonoma. Oggi non è più così. La Chiesa non ha una sua posizione scientifica (non le compete), ma fa sua quella che, a suo parere, difende di più la dignità della vita umana.
Sacerdote Felice Bacco Canosa di Puglia felicebacco@alice. it

Ringrazio don Felice di questa pacata spiegazione (non succede sempre) anche se per la verità non spiega tutto né potrebbe farlo. Se l'etica religiosa deve adeguarsi ai mutevoli confini della scienza, ai suoi sbalorditivi progressi, è chiaro che il concetto diventa mutevole. Credo di capire che sia questa la sola certezza: la Chiesa cattolica considera inaccettabile l'azione positiva e diretta di uccidere, in altre parole l'eutanasia in senso proprio. È il richiamo alle leggi di natura che facilitando il discorso lo falsa. Mi fa notare per esempio Antonio Sutera Sardo ( a.suterasardo@ gmail.com ): «L'omosessualità è contro natura? Ma in natura esistono centinaia di specie animali che la praticano da sempre. In natura niente impone il celibato alle creature del Signore. Se dalla natura si vogliono trarre solo gli esempi che più fanno comodo, allora la tattica diventa poco limpida». Decisamente il richiamo alla "natura" è suggestivo ma dal punto di vista etico debole e incerto. Quanto all'uccidere resta il problema del suicidio, vale a dire dell'uccisione di se stessi. È chiaro che non si pone per un individuo capace di agire. Non si pone nemmeno per la Chiesa che concede i suoi riti ai suicidi in base al sofisma: Nell'ultimo nanosecondo potrebbe essersi pentito. Una scappatoia un po' vile. Si pone invece per il suicidio differito di chi non può agire ma vorrebbe con profonda, disperata, convinzione farlo, se potesse. Lì è il punto irrisolto. Anche se è un gesto di misericordia porgere la coppa di cicuta alla creatura infelice che non può più portarla alle labbra.

l’Unità 9.12.10
Con tutti i colori del mondo L’addio alla vita di Van Gogh
Estate 1890 ad Auvers. Qui il pittore trascorre 70 giorni prima di spararsi un colpo di pistola
Le opere di questo periodo, solo ora raccolte, testimoniano la sua ultima, geniale rivoluzione
Auvers, a nord di Parigi, è il luogo dove Vincent Van Gogh spese gli ultimi 70 giorni di vita, prima di suicidarsi. Per la prima volta raccolte in volume le tele che dipinse in quei due mesi. Un libro folgorante.
di Giuseppe Montesano


Un movimento furibondo ma tranquillo, una tromba d’aria vorticosamente immobile, uno sprofondamento in un terremoto che sommuove la terra ma canta: qualcosa di simile dovette bruciare, misterioso e quietamente delirante, in Van Gogh nei 70 giorni che passò ad Auvers, a nord di Parigi, prima di spararsi un colpo di pistola.
UNA SPIRALE MUSICALE
Nell’estate del 1890 ad Auvers, pensando pittura, Van Gogh compose un’Arte della Fuga che suona dentro la materia del colore, una spirale musicale che abbandona la logica della pittura tradizionale e esplora metodica una lingua ancora indecifrata. Ora un libro che è tra i più belli usciti in Italia quest’anno racconta la vicenda degli ultimi due mesi di Van Gogh: il libro è Vincent Van Gogh. Sotto il cielo di Auvers, ideato e scritto da Peter Knapp e Wouter Van Der Veen, con immagini a colori degli ultimi ottanta dipinti di Van Gogh in una riproduzione tecnicamente senza uguali per qualità fotografica e coloristica, con una cronistoria che ricostruisce su documenti e lettere autografe la vicenda di Van Gogh ad Auvers, e una serie di fascinose foto d’epoca: lo pubblica Contrasto, 309 pagine, 45 euro.
GIARDINI E CIELI
Sotto il cielo di Auvers immerge il lettore in un corpus pittorico mai visto nella sua interezza, e, pur interpretandolo in modo a volte discutibile, spalanca davanti a tutti il mondo secondo l’estremo Van Gogh, un mondo che appare allo stesso tempo splendidamente compiuto e inquietantemente ferito. Ma che mondo vede la mente dell’estremo Van Gogh? Con lo sguardo sempre addosso alle apparenze reali, Van Gogh sembra volersi lasciare alle spalle proprio il mondo che ossessivamente rappresenta sotto forma di campi di grano, di covoni, di piogge, di prati, di cieli, di fiori, di giardini e figure umane: per vedere meglio e di più, e per vedere altro dall’apparenza guidata dall’abitudine. Tuffandosi estatico in cieli cobalto che si impadroniscono della retina e arrivano al cervello come una droga, esplorando fasce di verdi come fossero studi di un Ligeti pittore, accendendo gialli che letteralmente appiccano il fuoco a spighe e a volti, trasformando fiori di campo in emersioni di materia sbucata dagli abissi tenebrosi e squillanti del colore, segnando come in Pioggia su Auvers la tela con reticoli che sono linee di un Mondrian frantumato e liquefatto, Van Gogh sembra mettere in scena un’apocalisse di gioia: un’apocalisse interiore che dovrebbe capovolgere la faccia delle cose e farla nuova.
LA BIBBIA E I MISTICI
Lui che era un attento lettore della Bibbia e dei Mistici cristiani sapeva bene che il mondo sarà rifatto nuovo il giorno in cui finirà nell’ira di un Dio tremendo, perché solo allora Dio darà agli uomini «un nuovo cielo e una nuova terra»: ma nei suoi ultimi giorni, ad Auvers, solo come mai prima, perduto e libero come mai prima, Van Gogh ha scoperto che la trasformazione delle parvenze e l’avvento del nuovo devono avvenire ora, sotto il cielo che è di tutti e nella vita quotidiana che è di tutti.
Ma l’apocalisse che l’arte sogna, la revolutio che spacca l’ordine menzognero del male per far avvenire l’ordine vero della gioia che sempre manca, deve essere accesa per l’estremo Van Gogh non dall’inabissarsi della vita nella morte, ma dal traboccare quietamente travolgente della vita che sprofonda la morte nell’oblio: ed è il Covone di fieno con fattoria ad Auvers, con il blu che quasi vira al viola e al lilla e il giallo che si illumina nell’oro lucente e si abbruna nell’oro dell’eden; sono i Covoni di fieno ad Auvers, indescrivibili apocalissi di gialli e ori arsi in squilli e acuti stratificati in un canto di insopportabile felicità; sono la danza ebbra di Radici, un pullulare dionisiaco di movimento che sembra affiorare senza mediazioni dalla zona dell’Es in cui vive la forma iniziale; è Campi sotto cielo nuvoloso, spettrografia di una pace divorata dall’attesa della gioia che non vuole arrivare; ed è il Campo di grano con corvi, un solo gesto ascensionale che conosce esattamente cosa sia l’ala del turbine intelligente che trascina in un «delirio parallelo» gli amanti di Baudelaire verso il paradiso dei sogni. E poi, dopo la furia calma che lo spingeva a dipingere sulle tovaglie e sugli strofinacci da cucina del suo albergo quando non arrivavano le tele da Parigi, e dopo tutta la vita desiderata e realizzata solo nella lingua autistica del colore: che c’era, dopo? Dopo tutto questo, ci fu la pistola. L’apocalisse non veniva, o veniva sulla tela, e la tela non bastava, non poteva bastare, non doveva bastare. Il nuovo linguaggio, fiorito nelle fratture della mente, era condannato a leggere sempre la stessa vecchia realtà che non cambia. Ci sarebbe voluta la salvezza in carne e anima, e con gli altri, non da solo. Ma ci sarebbe voluta ora, non domani. In questo momento. Qui. Domani è tardi, è notte, è buio.

l’Unità 9.12.10
La seconda rivoluzione di Galileo? Comunicare le scoperte scientifiche
Quando Galileo decise di pubblicare in poche settimane un resoconto di quello che aveva scoperto guardando il cielo, nacque la comunicazione scientifica. Pietro Greco ha dedicato a questa «idea» un volume.
di Cristiana Pulcinelli


Un’idea nuova, straordinaria, pericolosa passa per la testa di Galileo Galilei tra la fine del 1609 e l’inizio del 1610. Qual è questa idea? Forse l’intuizione di puntare verso il cielo il suo cannocchiale? Non proprio, perché quest’idea non è un suo merito esclusivo: in quegli stessi anni ci stavano pensando anche altri scienziati francesi, inglesi, tedeschi. È l’idea che la Luna fosse imperfetta? Ma di questo già parlavano Eraclito e Plutarco. Allora forse è l’idea di osservare «con gli occhi del cervello» alcune «cose mai viste» prima? Sicuramente questa è un’idea nuova, manonèlasolaeforsenonèlapiù importante. L’idea nuova, straordinaria e pericolosa di Galileo è quella di pubblicare in poche settimane un resoconto di quello che ha scoperto puntando il cannocchiale verso il cielo e osservando con gli occhi del cervello. Osservando la notte per scrivere di giorno.
«ALLO SGUARDO DI OGNUNO» Comunicare, dunque. Questa è la vera rivoluzione, l’idea che segnerà tutta la scienza da quel momento in poi: mostrare i risultati del proprio lavoro «allo sguardo d’ognuno» oltre che «in special modo di filosofi e astronomi». Su questa tesi si basa il nuovo libro di Pietro Greco (L’idea pericolosa di Galileo. Storia della comunicazione della scienza nel Seicento, pagine 237, euro 21,50, Utet). Una tesi che viene avvalorata dal racconto che si snoda lungo i sei capitoli che compongono il libro.
Nel corso del Seicento si producono moltissime nuove conoscenze e il libro parte da una breve rassegna di quello che avviene nei vari campi della scienza: la fisica, la matematica, la chimica, la biologia, la biologia, la medicina. Ma la rivoluzione scientifica avviene soprattutto abbattendo il paradigma della segretezza. Bisogna ricordare che la cultura prevalente in quel periodo è quella ermetica. Nella cultura europea dal Medioevo al Rinascimento
Galileo Galilei
il valore è il segreto: il sapere deve essere per i soli iniziati e il linguaggio di chi sa è pieno di «oscuri rimandi» e di ambiguità. Nella Nuova Scienza le cose cambiano, il rigore della matematica si oppone alle «segrete logiche dell’ermetismo». Non che la matematica sia facile, ma in linea di principio chiunque può impossessarsene e leggere così «il libro della natura». Questa è una vera rivoluzione. Galileo se ne fa interprete scrivendo il Sidereus Nuncius con una prosa rapida, incisiva, agile e corredandola non con i diagrammi geometrici per soli matematici, ma con immagini immediatamente comprensibili a tutti, perfino ai profani: i disegni della Luna così come l’ha vista con il cannocchiale.
Da allora la comunicazione della scienza al grande pubblico sarà sempre più importante. Grazie a nuovi strumenti come il libro, le immagini, le riviste, i musei, ma anche l’arte, la comunicazione della scienza non riguarda più solo una cerchia di esperti, ma tutta la società. Fino ad arrivare ai giorni nostri nei quali i rapporti tra mondo scientifico e società sono fitti e complessi. Cosicché studiare la comunicazione della scienza nel momento della sua nascita può essere utile anche per comprendere quello che avviene intorno a noi.

l’Unità 9.12.10
Maselli: «Il regalo per i miei ottant’anni? La legge sul cinema»
Il primo corto «Avevo 15 anni. Feci recitare mia sorella nei panni di una prostituta davanti alla chiesa dove si sarebbe sposata»
intervista di Gabriella Gallozzi


Il regista che sarà festeggiato stasera alla Casa del cinema di Roma ripercorre la sua carriera sempre strettamente legata all’impegno politico

Sono convinto che oggi farò 34 anni. Lo sono convinto davvero. Deve essere tutto un equivoco dell’anagrafe, mi dico. E so che ora dovrò decidere della mia vita». Eccolo Citto Maselli nel giorno del suo ottantesimo compleanno che si festeggerà stasera alla Casa del Cinema di Roma. Lo spirito è sempre lo stesso. L’ironia pure. E neanche la recente ischemia dalla quale sta uscendo alla grande è riuscita a mutarlo. Tanto che tra poco sarà di nuovo dietro alla macchina da presa per un nuovo film collettivo, dedicato al terremoto di Messina del 1908.
Nella sua bella casa, al quartiere Flaminio di Roma, carica di sculture di mani di tutti i tipi (è una delle sue collezioni preferite), si racconta con la sua consueta «semplicità», evocando attraverso i ricordi di una vita, la storia artistica e politica dell’Italia, a cui ha preso parte da cineasta, intellettuale e militante del Pci, sempre in prima linea, fino alle ultime recentissime battaglie contro i tagli alla cultura. Una storia che al cinema ha già raccontato nel suo «autoritratto d’autore», Frammenti di Novecento e che ora rievoca con dovizia di particolari, date precisissime e aneddoti degni di un vero archivio vivente.
A cominciare dalla memoria di bambino. Quando ad appena cinque anni aveva già imparato Shakespeare a memoria, «comprese le didascalie dei testi», ricorda divertito, «che recitavo di seguito lasciando senza parole gli amici di mio padre».
Nel salotto paterno, un raffinato critico d’arte, Citto ha potuto da subito crescere all’interno del dibattito culturale del ‘900. Ha visto passare per le mura di casa Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi e pure Luigi Pirandello, imparentato da parte di madre con la sua famiglia. «A lui prosegue chiedevo aiuto quando i miei cugini, tutti più grandi di me, non mi facevano recitare nelle nostre rappresentazioni casalinghe. Ero un bambino molto precoce e questo suscitava simpatia negli adulti».
Così precoce da saper spiegare Il capitale di Marx e la lotta di classe all’amichetto Sandro Curzi, quando più o meno avevano 11 anni. Precoce anche nelle vesti di «partigiano», quando a circa 13 anni, ricorda ancora, aveva come compito di trasportare le pistole nascoste nelle scatole. «L’appuntamento era fisso: ogni mattina alle 11 davanti alla chiesa di Santa Teresa». E precoce ancora per il cinema: a 15 anni il suo primo corto, Sinfonia del viandante di «cui per fortuna racconta ironico si è persa ogni traccia». Vivi invece sono ancora i ricordi di quel suo debutto. La pellicola comprata al mercato degli americani di Tor di Nona coi soldi racimolati vendendo vecchie bottiglie. E, soprattutto, sua sorella che ha fatto recitare nei panni di una prostituta nel giorno del suo matrimonio con Toti Scialoja. «Giravamo proprio davanti alla chiesa dove poche ore dopo si sarebbe celebrato il matrimonio ricorda e non vi dico la faccia del prete nel vederla vestita da prostituta».
Poi arrivano gli anni del Centro Sperimentale con Umberto Barbaro. «Era il momento del Neorealismo. E c’era una grande battaglia racconta tra i sostenitori di De Sica e quelli di Visconti ed io ero uno sfegatato sostenitore de La terra trema». A capo della commissione d’esame per l’ingresso al Centro, Citto si trovò davanti Antonioni. «Michelangelo aveva un tic particolare che sembrava dicesse sempre di no con la testa spiega così anche se rispondevo giusto lui faceva sempre segno negativo». Da quell’incontro, invece, partì una lunga collaborazione tra i due, la sceneggiatura di Cronache di un amore e poi il cammino da aiuto regista che portò Citto anche sui set di Visconti. Un sodalizio di una decina d’anni, quest’ultimo, iniziato dopo che il regista de Il gattopardo visionò uno dei primi documentari di Maselli: Ombrelli, esempio di «quel realismo lirico ricorda che segnò tutti i miei lavori dedicati ai mestieri. A mostrare le condizioni di vita atroci nelle borgate romane». Tema, ripreso recentemente, proprio con Civico zero. E che ha percorso tutto il suo lavoro da documentarista che lo legò anche ad un altro nome fondamentale del cinema della realtà come Cesare Zavattini.
L’incontro con Visconti fu fondamentale politicamente ed artisticamente. «Ebbi persino l’onore prosegue di seguire tutte le riprese di Senso e discuterne con Luchino ogni sera fino a notte tarda». E fu lo stesso Visconti a finanziare il suo primo film, Gli sbandati che Maselli girò a soli 24 anni, trionfando a Venezia.
Parallelamente al cinema c’è poi l’impegno politico, la militanza nel Pci, le battaglie dell’Anac, la storica associazione degli autori. E il suo cinema diventa veicolo del dibattito politico e culturale dell’Italia di quegli anni. «Intellettuale organico sì, ma molto polemico», si descrive Citto. Come dimostreranno i suoi fondamentali Lettera aperta ad un giornale della sera e Il sospetto. Gli anni Ottanta, poi, sono quelli dedicati alle donne, alla condizione femminile. A partire da Storia d’amore che fa trionfare una giovane Valeria Golino a Venezia. È l'inizio di una fase nuova col trittico composto da Codice privato (con Ornella Muti), L'alba e Il segreto (ambedue con Nastassja Kinski). Negli anni '90 il suo cinema torna a rivolgersi al sociale con l'apocalittico Cronache del terzo millennio (1996), Il compagno (serie tv dal romanzo di Pavese), i film collettivi Un altro mondo è possibile, sul G8 di Genova.
La politica espressa apertamente o in forma di metafora, insomma, resta il tema centrale del suo cinema fino al suo ultimo Le ombre rosse. Tanto che ancora oggi a chiedergli quale regalo vorrebbe per i suoi ottant’anni risponde sicuro: «La nuova e tanto attesa legge per il cinema. Questo sarebbe un vero regalo».

Corriere della Sera 9.12.10
Barbari, religione, democrazia così finì l’Impero Romano
di Luciano Canfora


Il volume della «Storia d’Europa e del Mediterraneo»

Come e perché finì l’impero romano è una domanda che sta al centro di gran parte della riflessione storica moderna. Essa fu resa particolarmente acuta da quando la cultura umanistica quattro-cinquecentesca capovolse le priorità rivalutando gli «antichi» contro i «moderni» e stabilendo la superiorità dei primi sui secondi. Da una tale impostazione discendeva, come corollario, l’idea che ci fosse stata una netta frattura tra gli «antichi» e il mondo medievale: e di lì la rinvigorita certezza che ad un certo momento (ad esempio, nel fatidico, ma dai contemporanei ben poco percepito, 476 d.C.) un mondo, quello «antico», fosse finito e ne fosse incominciato un altro (molto peggiore).
Compito dei nuovi moderni diveniva, a quel punto, «liberarsi» degli scadenti «moderni» subentrati a quel crollo, e tornare, quanto possibile, agli «antichi». Tra i fraintendimenti che questo schema comportava c’era per un verso la voluta ignoranza della storia millenaria della parte «greca» dell’impero romano e per l’altro l’incapacità di comprendere quanto invece in continuità con la Roma cristiana (dei secoli IV e V) si ponessero ad esempio Teodorico e Carlo Magno: una continuità non propriamente velleitaria né puramente ideologica.
In realtà, nessun indicatore di un cambio d’epoca (a Occidente come a Oriente) si riesce a trovare fuorché il fenomeno della «cristianizzazione» dell’impero: che però è fenomeno che si manifesta ben prima della presunta cesura (altrimenti la scelta costantiniana del 313 sarebbe inspiegabile). Semmai proprio la cristianizzazione dei vertici della società (corte imperiale inclusa) è l’indicatore di una continuità che prende avvio almeno dall’inizio del IV secolo e prosegue per secoli mentre le strutture politico-statali lentamente si trasformano. Indicatore di una cesura alla metà del V secolo non è certo l’estinzione della schiavitù personale: essa continua a persistere per secoli accanto alle altre forme di dipendenze pre-feudali. È un processo, quello della trasformazione dei rapporti di dipendenza, che si compie probabilmente al tempo di Carlo Magno. Insomma, la storia non si è certo spezzata nella parte ricca e potente dell’impero (la Pars Orientis), ma nemmeno a Occidente.
Su questo importante problema storiografico è incentrata l’introduzione che Giusto Traina ha premesso all’ultimo nato della Storia d’Europa e del Mediterraneo della Salerno Editrice (L’impero tardoantico, pp. 842, 140). Traina è ben consapevole dei temi topici di questa discussione: mescolanza con i «nuovi mondi» e ruolo del cristianesimo, «democratizzazione della cultura». Quest’ultima espressione è mutuata dal bel saggio di Santo Mazzarino, che fece epoca, La fine del mondo antico.
Tutte le spiegazioni schematiche sono caduche: sia quella formulata un tempo da Piganiol e poi da lui stesso attenuata (l’impero, la civiltà antica «assassinati» dai barbari), sia quella volterriana-gibboniana-engelsiana (il cristianesimo come causa fondamentale di quella fine). Entrambi furono decisivi fattori di cambiamento, ma entrambi venivano da lontano: e in entrambi i casi vecchio e nuovo si intrecciarono inestricabilmente.
Quel che si venne perdendo progressivamente fu l’alta cultura scritta di epoca classica, che aveva goduto ottima salute fino alla fine del II secolo. Dopo un turbine durato un tempo insopportabilmente lungo e dopo la devastazione delle due maggiori metropoli dell’antichità (Alessandria ad opera di Aureliano, nel 273 d.C., durante la guerra contro il regno separatista di Zenobia; Roma nel 410 ad opera di Alarico) l’alta cultura del passato risultò ferita quasi mortalmente. Anche questo fu un aspetto della «democratizzazione».
È comunque errato tentare di delineare in modo sintetico-unitario i processi storici che si svilupparono in quei secoli. Le diagnosi complessive sono per lo più fuorvianti, e rispecchiano un punto di vista che, a ben riflettere, precede l’analisi; e dunque, alla lunga, è inutile. È lo studio, nei limiti del possibile, delle singole aree che può portare ad una maggiore conoscenza. Ed è questo che hanno fatto, meritoriamente, gli autori di questo ponderoso ed elegante tomo.

Corriere della Sera 9.12.10
Libertà e dialogo per una «nuova città»
di Giulio Giorello e Carlo Maria Martini


Il confronto Giorello e Martini si misurano sui temi più attuali
Il pericolo La ricerca scientifica non deve nuocere alla dignità umana La molteplicità di fedi e culture può provocare gravi inconvenienti Ma va considerata una ricchezza

GIULIO GIORELLO — Eminenza, può godere di quella «potenza trasformante» dei Vangeli anche chi ritiene che essi siano non la «buona novella», ma una tra le tante buone novelle che dal passato ci arrivano «come la luce di stelle che non ci sono più» (rubo quest’espressione a Luca Ronconi)? Tale luce a noi serve ancora, rischiara la nostra notte.
Dobbiamo riprendere tutte le buone novelle, anche quelle redatte dai miscredenti, come «l’ateo Spinoza» (così lo chiamavano i bigotti nella sua Amsterdam). Ritengo che questa sia una via praticabile per ridare senso alle parole, come lei stesso desidera. Un esempio: ho riletto di recente quei passi della Monarchia di Dante, in cui viene prospettato come grande momento nella storia dell’umanità la fondazione delle prime città. Semiramide sarà stata pure colei che «libito fe’ licito in sua legge» ( Inferno V, 56), ma è anche colei che pose o custodì le mura delle grandi città assire di cui era sovrana. Ecco cos’è una città: un elemento al tempo stesso di inclusione ed esclusione, che configura il modo in cui si costituisce l’umanità; l’uomo riconosce alcuni come compagni nella propria avventura, cioè con-cittadini ed esclude altri come estranei, se non nemici. Questo movimento di inclusione ed esclusione è sostanzialmente il processo fondativo della città, le cui mura non sono soltanto segno ostile verso il nemico; sono anche, e non a caso, l’elemento che marca il carattere di quella comunità.
La città rappresenta, allora, una mediazione tra natura e cultura; e di conseguenza l’esperienza della cittadinanza si ritrova alla base della nostra stessa modernità. In che modo, allora, un essere umano si realizza nella città? E vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città?
La città di oggi conosce, per altro, una drammatica esperienza della diversità, quella che indichiamo con vari termini (non sempre esattamente equivalenti), come multiculturalismo, multietnicità, pluralismo.
È solo un ricordo del passato il modello di convivenza e integrazione della Cordova dell’età d’oro dei musulmani in Andalusia, quando a poca distanza coesistevano la moschea, la sinagoga e la chiesa? Quale delicato equilibrio può proporsi oggi? Gli stessi mutamenti prodotti da scienza e tecnica non potrebbero essere quelli che porteranno prima o poi alla disgregazione della città armoniosa in cui diverse fedi, etnie, forme di vita potrebbero prosperare insieme? E soprattutto, si può andare oltre la mera coesistenza? (...)
Come ci dovremmo regolare con il ruolo politico delle altre religioni? Nel Corano si legge che è volontà di Dio che il Califfo intervenga quando i propri magistrati sono corrotti: questa linea è idealmente migliore del «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»?
CARLO MARIA MARTINI — Come lei sa, nei miei ventidue anni di servizio episcopale a Milano ho posto la città come uno dei cardini riflessivi. Non era un vezzo, ma la coscienza che sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento la città, con le sue dinamiche e le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo. Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.
Non saprei bene come un individuo si realizzi nella città. In generale, un essere umano si realizza quando scopre in sé delle potenzialità e può esprimerle contestualizzandole in un determinato ambiente, senza contrastare l’impegno dell’altro, la sua identità, la sua libertà, la sua responsabilità. Tuttavia, il mondo intero ha in sé le stesse dinamiche positive e gli stessi peccati di una città, sicché può essere considerato come un’unica grande città.
Ma lei sottolinea il carattere drammatico della diversità all’interno della città. A me, invece, pare che ciò non sia così drammatico. La diversità è una ricchezza. Modelli nuovi di convivenza pacifica potranno essere raggiunti; anzi, sono già in atto in ogni parte del mondo, a cominciare dalla città che mi è più cara. Pochi sanno, infatti, del movimento che a Gerusalemme unisce i familiari delle vittime della guerra israelo-palestinese in momenti di dialogo e di preghiera comune molto belli e intensi. La diversità è una ricchezza non sempre compresa come tale. E la sofferenza è uguale per tutte le madri, per tutti i figli, di qualsiasi cultura, religione o Stato. Ecco quel superamento della semplice coesistenza cui lei fa riferimento! Condividere il dolore, soprattutto il dolore innocente, subito, costruisce relazioni ben più profonde dell’essere coinquilini della stessa terra. «Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12). L’immagine di Gesù crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme ci ricorda quali dolorose conseguenze possa avere l’esclusione di ciò che scandalizza, il rifiuto di chi è diverso.
Lei solleva non pochi cruciali problemi. Allora, le rispondo pensando anzitutto che cos’è una città unita: essa è un luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti. Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine. Anche se non ha il compito di interferire direttamente nella vita politica, la Chiesa senza dubbio ne condiziona lo svolgimento con i suoi interventi, seppure in seconda battuta. La sua sola missione è quella di annunciare Gesù, e questi crocefisso. Non credo, tuttavia, che la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia così individualista come sembrano suggerire le sue riflessioni. Sarebbe giusto, se la coscienza fosse egualmente matura in tutti. Ma sappiamo che per alcune coscienze tutto è di Cesare e per certe altre tutto è di Dio. Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità. (...)
GIULIO GIORELLO — Credo che la ricerca abbia bisogno di idee, capaci di far parlare i fatti; altrimenti, come ebbe bene a dire un mio maestro, il matematico René Thom, «quel che minaccia la verità non è la falsità, ma l’insignificante». Non basta una miriade di numeri, misurazioni dopo misurazioni, dati e ancora dati: occorre un’idea che ci permetta di rendere comprensibili intellettualmente i fatti più diversi. Non è stato così, per esempio, con l’intuizione di Galileo del pendolo o con la celebre «mela di Newton» che ha mostrato come la forza che fa sì che quel pomo cada è la stessa che fa sì che la Luna non cada sulla Terra? O con la concezione evoluzionistica di Darwin, o con l’idea di Einstein della «relatività del moto»? O con la congettura di Dirac a proposito dell’antimateria?
Servendoci di un’etimologia magari fantasiosa, diciamo che intelligenza risponda a inter legere ovverossia «a scegliere fra»: alla capacità di selezionare ciò che è rilevante da ciò che è insignificante. Per questo la ricerca ha bisogno di intelligenza. Ma essa non è nemmeno distinta dalla passione. Talvolta pensiamo ai ricercatori scientifici come a persone asettiche, che si lasciano alle spalle qualsiasi riferimento al mondo della vita appena entrano in laboratorio o si siedono al computer. Non credo che questa sia una ca-
ratterizzazione completa dell’impresa scientifica; un’impresa scientifica che non portasse seco la passione del conoscere sarebbe un’impresa di scarso respiro… Ancora una volta vorrei citare un passo di Zadig riguardo alle passioni: «"Ah, quanto sono funeste", diceva Zadig. "Sono i venti che gonfiano le vele e il vascello", ribatté l’eremita, "qualche volta lo fanno affondare; ma senza di loro non potrebbe navigare. La bile rende collerici e malati; ma senza la bile l’uomo non potrebbe vivere. Tutto è pericoloso in questo mondo, e tutto è altrettanto necessario"».
Perché la passione è così importante? La passione è qualcosa che ti prende, ti rapisce, ti trascina, può essere anche un’esperienza dolorosa, il pericolo di cui parla l’eremita a Zadig, ma nello stesso tempo è qualcosa che dà colore a quanto altrimenti sarebbe un’on-
tologia grigia rivelata dalla scienza. Certo, occorre passione; ma passione qui vuol dire un profondo rapporto con le cose che vengono indagate. Dobbiamo amare il cielo se vogliamo esplorarlo; sentirci rapiti dalle «infinite forme bellissime» (la citazione è da Darwin) del vivente se vogliano studiarne genesi ed evoluzione. La costruzione delle teorie scientifiche, le rielaborazioni che spiegano i fatti, l’applicazione delle idee ai nostri macchinari sono tutte prove di amore per il mondo, un interesse specifico per le singole cose, collegate in un intellegere che è colligere.
CARLO MARIA MARTINI — Rispetto agli scienziati che lei cita, ci sono da fare alcune distinzioni importanti. Mentre Galileo con il pendolo o Newton con la sua leggendaria mela hanno fatto delle sperimentazioni sulla gravità e hanno mostrato appunto che c’è una forza che attrae i corpi verso il centro della Terra, le intuizioni di Darwin o quelle inerenti l’antimateria sono solo delle teorie. Altro è l’esperimento che dimostra un’intuizione teorica, altro l’intuizione non sperimentata né sperimentabile. Ancora, altro è scoprire la composizione dell’acqua, altro comporre l’acqua da un atomo di ossigeno e due di idrogeno. Uno scienziato potrebbe spiegarne bene la differenza. Ma sono d’accordo con lei che l’intelligenza non è solo leggere dentro, ma anche leggere «fra», cioè selezionare, discernere ciò che ha valore da ciò che non ne ha.
Siamo anche d’accordo sul fatto che sia necessaria una grande passione nell’ambito della ricerca. Ricordo gli anni dei miei studi sul Codice Vaticano (B) come anni di grande passione: tutte le scienze chiedono una grande passione. So di alcuni ricercatori che dimenticano di mangiare o di bere durante una fase piuttosto intensa del loro lavoro. Non c’è dubbio che lo scienziato sia tale anzitutto per l’amore appassionato verso ciò che fa e ciò che lo circonda, verso il mistero che avvolge anche le realtà quotidiane che l’uomo comune ritiene ovvie.
Davvero la conoscenza rende più ricco, vero e puro l’amore, e l’amore rende più profonda, paziente e tenera la conoscenza. E pur intuendo dove lei vuol condurmi, e cioè che un amore per essere autentico chiede di essere libero e, quindi, anche la scienza che scaturisce dall’amore per la natura chiede una libertà incondizionata, bisogna fare delle precisazioni. La libertà, nell’amore come nella scienza, chiede di essere sempre accompagnata alla responsabilità. Il gesuita Bernard Lonergan, pensatore tra i più originali del Novecento seppure non adeguatamente conosciuto, coniuga oggettività della conoscenza e soggettività umana proprio attraverso la responsabilità, nella quale deve necessariamente confluire il processo conoscitivo. Il vincolo per la scienza è quindi che essa sia rispettosa della dignità umana e della libertà della persona. Ha idea di cosa potrebbe diventare la scienza senza nessun vincolo? Lei non crede che finirebbe con l’essere molto simile alle sperimentazioni «a fin di bene» praticate nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale? Che alcuni diventerebbero «null’altro che» delle cavie? GIULIO GIORELLO — Eminenza, può godere di quella «potenza trasformante» dei Vangeli anche chi ritiene che essi siano non la «buona novella», ma una tra le tante buone novelle che dal passato ci arrivano «come la luce di stelle che non ci sono più» (rubo quest’espressione a Luca Ronconi)? Tale luce a noi serve ancora, rischiara la nostra notte.
Dobbiamo riprendere tutte le buone novelle, anche quelle redatte dai miscredenti, come «l’ateo Spinoza» (così lo chiamavano i bigotti nella sua Amsterdam). Ritengo che questa sia una via praticabile per ridare senso alle parole, come lei stesso desidera. Un esempio: ho riletto di recente quei passi della Monarchia di Dante, in cui viene prospettato come grande momento nella storia dell’umanità la fondazione delle prime città. Semiramide sarà stata pure colei che «libito fe’ licito in sua legge» ( Inferno V, 56), ma è anche colei che pose o custodì le mura delle grandi città assire di cui era sovrana. Ecco cos’è una città: un elemento al tempo stesso di inclusione ed esclusione, che configura il modo in cui si costituisce l’umanità; l’uomo riconosce alcuni come compagni nella propria avventura, cioè con-cittadini ed esclude altri come estranei, se non nemici. Questo movimento di inclusione ed esclusione è sostanzialmente il processo fondativo della città, le cui mura non sono soltanto segno ostile verso il nemico; sono anche, e non a caso, l’elemento che marca il carattere di quella comunità.
La città rappresenta, allora, una mediazione tra natura e cultura; e di conseguenza l’esperienza della cittadinanza si ritrova alla base della nostra stessa modernità. In che modo, allora, un essere umano si realizza nella città? E vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città?
La città di oggi conosce, per altro, una drammatica esperienza della diversità, quella che indichiamo con vari termini (non sempre esattamente equivalenti), come multiculturalismo, multietnicità, pluralismo.
È solo un ricordo del passato il modello di convivenza e integrazione della Cordova dell’età d’oro dei musulmani in Andalusia, quando a poca distanza coesistevano la moschea, la sinagoga e la chiesa? Quale delicato equilibrio può proporsi oggi? Gli stessi mutamenti prodotti da scienza e tecnica non potrebbero essere quelli che porteranno prima o poi alla disgregazione della città armoniosa in cui diverse fedi, etnie, forme di vita potrebbero prosperare insieme? E soprattutto, si può andare oltre la mera coesistenza? (...)
Come ci dovremmo regolare con il ruolo politico delle altre religioni? Nel Corano si legge che è volontà di Dio che il Califfo intervenga quando i propri magistrati sono corrotti: questa linea è idealmente migliore del «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»?
CARLO MARIA MARTINI — Come lei sa, nei miei ventidue anni di servizio episcopale a Milano ho posto la città come uno dei cardini riflessivi. Non era un vezzo, ma la coscienza che sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento la città, con le sue dinamiche e le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo. Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.
Non saprei bene come un individuo si realizzi nella città. In generale, un essere umano si realizza quando scopre in sé delle potenzialità e può esprimerle contestualizzandole in un determinato ambiente, senza contrastare l’impegno dell’altro, la sua identità, la sua libertà, la sua responsabilità. Tuttavia, il mondo intero ha in sé le stesse dinamiche positive e gli stessi peccati di una città, sicché può essere considerato come un’unica grande città.
Ma lei sottolinea il carattere drammatico della diversità all’interno della città. A me, invece, pare che ciò non sia così drammatico. La diversità è una ricchezza. Modelli nuovi di convivenza pacifica potranno essere raggiunti; anzi, sono già in atto in ogni parte del mondo, a cominciare dalla città che mi è più cara. Pochi sanno, infatti, del movimento che a Gerusalemme unisce i familiari delle vittime della guerra israelo-palestinese in momenti di dialogo e di preghiera comune molto belli e intensi. La diversità è una ricchezza non sempre compresa come tale. E la sofferenza è uguale per tutte le madri, per tutti i figli, di qualsiasi cultura, religione o Stato. Ecco quel superamento della semplice coesistenza cui lei fa riferimento! Condividere il dolore, soprattutto il dolore innocente, subito, costruisce relazioni ben più profonde dell’essere coinquilini della stessa terra. «Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12). L’immagine di Gesù crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme ci ricorda quali dolorose conseguenze possa avere l’esclusione di ciò che scandalizza, il rifiuto di chi è diverso.
Lei solleva non pochi cruciali problemi. Allora, le rispondo pensando anzitutto che cos’è una città unita: essa è un luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti. Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine. Anche se non ha il compito di interferire direttamente nella vita politica, la Chiesa senza dubbio ne condiziona lo svolgimento con i suoi interventi, seppure in seconda battuta. La sua sola missione è quella di annunciare Gesù, e questi crocefisso. Non credo, tuttavia, che la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia così individualista come sembrano suggerire le sue riflessioni. Sarebbe giusto, se la coscienza fosse egualmente matura in tutti. Ma sappiamo che per alcune coscienze tutto è di Cesare e per certe altre tutto è di Dio. Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità. (...)
GIULIO GIORELLO — Credo che la ricerca abbia bisogno di idee, capaci di far parlare i fatti; altrimenti, come ebbe bene a dire un mio maestro, il matematico René Thom, «quel che minaccia la verità non è la falsità, ma l’insignificante». Non basta una miriade di numeri, misurazioni dopo misurazioni, dati e ancora dati: occorre un’idea che ci permetta di rendere comprensibili intellettualmente i fatti più diversi. Non è stato così, per esempio, con l’intuizione di Galileo del pendolo o con la celebre «mela di Newton» che ha mostrato come la forza che fa sì che quel pomo cada è la stessa che fa sì che la Luna non cada sulla Terra? O con la concezione evoluzionistica di Darwin, o con l’idea di Einstein della «relatività del moto»? O con la congettura di Dirac a proposito dell’antimateria?
Servendoci di un’etimologia magari fantasiosa, diciamo che intelligenza risponda a inter legere ovverossia «a scegliere fra»: alla capacità di selezionare ciò che è rilevante da ciò che è insignificante. Per questo la ricerca ha bisogno di intelligenza. Ma essa non è nemmeno distinta dalla passione. Talvolta pensiamo ai ricercatori scientifici come a persone asettiche, che si lasciano alle spalle qualsiasi riferimento al mondo della vita appena entrano in laboratorio o si siedono al computer. Non credo che questa sia una ca-
ratterizzazione completa dell’impresa scientifica; un’impresa scientifica che non portasse seco la passione del conoscere sarebbe un’impresa di scarso respiro… Ancora una volta vorrei citare un passo di Zadig riguardo alle passioni: «"Ah, quanto sono funeste", diceva Zadig. "Sono i venti che gonfiano le vele e il vascello", ribatté l’eremita, "qualche volta lo fanno affondare; ma senza di loro non potrebbe navigare. La bile rende collerici e malati; ma senza la bile l’uomo non potrebbe vivere. Tutto è pericoloso in questo mondo, e tutto è altrettanto necessario"».
Perché la passione è così importante? La passione è qualcosa che ti prende, ti rapisce, ti trascina, può essere anche un’esperienza dolorosa, il pericolo di cui parla l’eremita a Zadig, ma nello stesso tempo è qualcosa che dà colore a quanto altrimenti sarebbe un’on-
tologia grigia rivelata dalla scienza. Certo, occorre passione; ma passione qui vuol dire un profondo rapporto con le cose che vengono indagate. Dobbiamo amare il cielo se vogliamo esplorarlo; sentirci rapiti dalle «infinite forme bellissime» (la citazione è da Darwin) del vivente se vogliano studiarne genesi ed evoluzione. La costruzione delle teorie scientifiche, le rielaborazioni che spiegano i fatti, l’applicazione delle idee ai nostri macchinari sono tutte prove di amore per il mondo, un interesse specifico per le singole cose, collegate in un intellegere che è colligere.
CARLO MARIA MARTINI — Rispetto agli scienziati che lei cita, ci sono da fare alcune distinzioni importanti. Mentre Galileo con il pendolo o Newton con la sua leggendaria mela hanno fatto delle sperimentazioni sulla gravità e hanno mostrato appunto che c’è una forza che attrae i corpi verso il centro della Terra, le intuizioni di Darwin o quelle inerenti l’antimateria sono solo delle teorie. Altro è l’esperimento che dimostra un’intuizione teorica, altro l’intuizione non sperimentata né sperimentabile. Ancora, altro è scoprire la composizione dell’acqua, altro comporre l’acqua da un atomo di ossigeno e due di idrogeno. Uno scienziato potrebbe spiegarne bene la differenza. Ma sono d’accordo con lei che l’intelligenza non è solo leggere dentro, ma anche leggere «fra», cioè selezionare, discernere ciò che ha valore da ciò che non ne ha.
Siamo anche d’accordo sul fatto che sia necessaria una grande passione nell’ambito della ricerca. Ricordo gli anni dei miei studi sul Codice Vaticano (B) come anni di grande passione: tutte le scienze chiedono una grande passione. So di alcuni ricercatori che dimenticano di mangiare o di bere durante una fase piuttosto intensa del loro lavoro. Non c’è dubbio che lo scienziato sia tale anzitutto per l’amore appassionato verso ciò che fa e ciò che lo circonda, verso il mistero che avvolge anche le realtà quotidiane che l’uomo comune ritiene ovvie.
Davvero la conoscenza rende più ricco, vero e puro l’amore, e l’amore rende più profonda, paziente e tenera la conoscenza. E pur intuendo dove lei vuol condurmi, e cioè che un amore per essere autentico chiede di essere libero e, quindi, anche la scienza che scaturisce dall’amore per la natura chiede una libertà incondizionata, bisogna fare delle precisazioni. La libertà, nell’amore come nella scienza, chiede di essere sempre accompagnata alla responsabilità. Il gesuita Bernard Lonergan, pensatore tra i più originali del Novecento seppure non adeguatamente conosciuto, coniuga oggettività della conoscenza e soggettività umana proprio attraverso la responsabilità, nella quale deve necessariamente confluire il processo conoscitivo. Il vincolo per la scienza è quindi che essa sia rispettosa della dignità umana e della libertà della persona. Ha idea di cosa potrebbe diventare la scienza senza nessun vincolo? Lei non crede che finirebbe con l’essere molto simile alle sperimentazioni «a fin di bene» praticate nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale? Che alcuni diventerebbero «null’altro che» delle cavie?

Repubblica 9.12.10
La Chiesa invitata al dialogo
di Paolo Flores D’Arcais


Stimato cardinal Ravasi, ho letto con grande interesse su Repubblica di ieri l´intervista che ha concesso a Franco Marcoaldi. Mi ha colpito, in particolare, il tono definitivo con il quale Ella ha sottolineato la volontà di dialogare con tutto il mondo ateo, visto che ha fatto riferimento non solo ai filoni culturali che originano da Marx e da Nietzsche, o a quelli liberali che ha esemplificato in Isaiah Berlin, ma si è spinto a precisare che il dialogo «andrà intrapreso anche con chi abbia un atteggiamento ironico e sarcastico verso la religione» (gli atei "militanti" alla Dawkins e Odifreddi, evidentemente).
In effetti sono anche io convinto che il reciproco rispetto tra credenti e non credenti, da tutti a parole auspicato, implichi che ci si confronti senza diplomatismi proprio con tutti, senza scegliere, reciprocamente, i credenti o non credenti "di comodo". Questo dialogo è più che mai necessario in una società di democrazia pluralista, e le sue affermazioni così esplicite non possono che farmi piacere, visto che la rivista che dirigo, MicroMega, proprio questo dialogo ha costantemente promosso e praticato. Nel 2000 dedicammo l´almanacco di filosofia al tema "Dio". «Nei rari momenti liberi sto leggendo MicroMega 2/2000. Sotto molti aspetti è il commento più importante alla Fides et Ratio che io conosca, perché qui l´Enciclica entra realmente in dialogo col mondo culturale di oggi, e questo è stato lo scopo del documento stesso». Sono le parole che mi scrisse l´allora cardinal Joseph Ratzinger, che accettò di presentare quel numero in un dibattito con me, in un teatro Quirino, non solo gremito, ma con un paio di migliaia di persone che seguirono il confronto assiepati sulla strada, malgrado la pioggia, attraverso altoparlanti di fortuna.
Della volontà di dialogo della Chiesa col mondo ateo ebbi del resto molte altre conferme personali, visto che accettarono di discutere pubblicamente con me in quegli anni i cardinali Tettamanzi, Schönbern, Scola, Piovanelli, Caffarra, Herranz, oltre a molti altri vescovi e teologi. MicroMega continua a cercare di praticare questo dialogo, ma con crescente difficoltà. L´ultimo episodio, particolarmente significativo, è di questi giorni.
La rivista sta organizzando per il prossimo aprile (15-17) a Reggio Emilia, insieme al circolo "Iniziativa laica" e all´Arci locale, le prime "Giornate della laicità" mai realizzate in Italia. Se si parla di "giornate" dedicate al pensiero critico gli sponsor non mancano, se poi si specifica "giornate della laicità" gli stessi sponsor - nove su dieci - fuggono, non parlo per ipotesi, è quanto accaduto, ma di questo ovviamente la Chiesa non ha alcuna responsabilità. Dove mi sembra che abbia invece qualche responsabilità è nel rifiuto sistematico di tutti i cardinali fin qui invitati a partecipare. Ella compreso, poiché è stato il primo che abbiamo invitato. Con lei, fin qui, hanno declinato l´invito i cardinali Ruini, Scola, Re, Caffarra, Levada, Tettamanzi, e padre Cantalamessa (predicatore del Papa). Temo che la sequenza delle risposte negative continuerà, anche con le altre quindici personalità della Chiesa che abbiamo invitato.
Rifuggo da sempre dalle dietrologie, ma qualcosa deve essere cambiato, in questi anni, nell´atteggiamento dei vertici della Chiesa in fatto di confronto col mondo ateo, qualcosa che stride con la consapevolezza di avere invece sempre buone ragioni da esporre.
Ora la sua intervista, mi fa ben sperare in un ritorno al clima di confronto rispettoso e appassionato di dieci anni fa. Spero perciò che Ella vorrà accettare l´invito che da queste colonne le reitero per un dialogo pubblico. Sono certo che altre personalità della Chiesa seguirebbero il suo esempio, e che il dialogo tra credenti e non credenti - per il quale comunque MicroMega continuerà a prodigarsi - ritroverà l´intensità toccata una decina di anni fa.
Aspetto con fiducia, rinnovandole i sensi della mia stima.

Repubblica 9.12.10
Singhiozzo e pelle d´oca i 10 errori dell’evoluzione
Smithsonian Institution: il mal di denti? Prezzo pagato all´intelligenza
di Elena Dusi


IL MAL di denti è il prezzo che paghiamo per essere così intelligenti. Se il cervello non si fosse fatto largo prepotentemente nel corso dell´evoluzione rubando spazio alla mandibola, non soffriremmo per via dei denti del giudizio. Né la schiena sarebbe dolorante. Le sue vertebre perfette, per sopportare il peso di un corpo che cammina a quattro zampe si ritrovano curve in una goffa "esse".

È vero che abbiamo raggiunto la Luna, ma il nostro corpo non se n´è ancora accorto. Per l´evoluzione siamo ancora fermi (o quasi) al momento in cui lottavamo a colpi di clava. E tutt´altro che pacifica è a volte la convivenza fra il nostro cuore moderno e le vecchie ossa ereditate dai progenitori venuti dall´Africa. Additare i passi falsi dell´evoluzione e mettere in fila tutte le discrepanze fra il corpo che abbiamo ricevuto dal passato e la vita che conduciamo oggi è uno dei divertissement preferiti degli scienziati. L´ultimo elenco arriva dallo Smithsonian Magazine, la rivista del prestigioso Smithsonian Institution. Non vuol dimostrare che Darwin avesse torto: solo che la natura non poteva prevedere che un cacciatore della savana sarebbe finito davanti a un computer.
Se il mal di schiena è un classico della "medicina evolutiva" (una nuova branca che va a cercare l´origine di alcune malattie nel nostro imperfetto adattamento all´ambiente) insieme all´appendice nell´addome che si infiamma ma non serve più a niente, lo Smithsonian rivela anche alcuni aspetti nuovi sull´origine del singhiozzo, sul perché il cibo rischia di andarci di traverso o sul motivo per cui ci si può ammalare di ernia inguinale.
Una buona dose dei nostri guai (mal di schiena in primis) arriva dalla posizione eretta. Nei gatti per esempio, racconta la rivista americana, esofago e trachea sono orizzontali: l´uno sotto e l´altro sopra. Essendo il cibo più pesante dell´aria, non c´è il rischio che finisca nel tubo sbagliato. Nell´uomo al contrario esofago e trachea si ritrovano a essere verticali, l´uno accanto all´altro, e quando l´epiglottide perde il passo giusto è facile che il cibo finisca nel canale dell´aria.
Per spiegare il singhiozzo, gli esperti si spingono molto più indietro nell´evoluzione, in quell´era ancora avvolta nel mistero in cui gli esseri viventi uscendo dagli oceani muovevano i primi passi sulla terraferma. Gli anfibi conservavano la capacità di respirare sia in acqua che a terra, ma nel tuffarsi si servivano di un meccanismo automatico che bloccava l´ingresso dei polmoni abbassando con forza la glottide. Talmente automatico ed efficiente era quel meccanismo che oggi far passare il singhiozzo è pressoché impossibile. I muscoli che in alcuni individui fanno muovere le orecchie in modo ridicolo sono quel che resta delle nostre doti di cacciatori, quando modellavamo la posizione dei padiglioni auricolari per ascoltare i suoni lontani e annullare il fastidio del vento. La coda sulla quale siamo seduti (l´osso del coccige) fa parte sempre delle scomode eredità del passato. La pelle d´oca invece è il meccanismo che usavamo (cani e gatti ce lo dimostrano ancora) per rizzare il pelo, sia per scaldarci che per spaventare gli avversari. La differenza è che oggi non solo la vista di un nemico, ma anche uno splendido brano di musica può produrre identico effetto. Milioni di anni e di mal di denti in fondo non sono passati invano.

Repubblica 9.12.10
Edoardo Boncinelli docente di Genetica a Milano
"Se la mutazione non fosse lenta mia nonna avrebbe già le ruote"


La natura lavora con quello che ha, va per tentativi e poi giustamente accetta le vie di mezzo

«Guai se l´evoluzione seguisse i nostri ritmi, mia nonna avrebbe già le ruote per viaggiare più veloce. Il passo del nostro adattamento rimane lento, è giusto così e possiamo accettare senza lamentarci il piccolo prezzo che paghiamo» dice Edoardo Boncinelli, che insegna Biologia e Genetica all´università Vita-Salute di Milano.
Per noi la natura è qualcosa di perfetto.
«La natura si arrangia con quello che ha. Procede per tentativi, ma alla fine sceglie la via del compromesso».
Se però l´evoluzione fosse più rapida?
«Sarebbero guai. Il mutamento nei geni deve esser lento e ben meditato, altrimenti si produrrebbero chissà quanti guasti. È il nostro ambiente a mutare in maniera lenta e graduale. Non dobbiamo farci ingannare dal ritmo del nostro stile di vita».
Il cervello si è evoluto più rapidamente rispetto al resto del corpo?
«Da un lato ha triplicato il suo volume nel giro di 3 milioni di anni, e questo è un passo davvero rapido. Dall´altro ha mantenuto alcuni meccanismi del passato. Di fronte a un pericolo non può fermarsi a pensare. Deve decidere se è il caso di scappare nel tempo più ridotto possibile».
Crescerà ancora il nostro cervello?
"Difficilmente. Già oggi i cuccioli d´uomo nascono con un cervello che è solo un quarto rispetto al volume degli adulti. Ecco perché il periodo di formazione dei bambini dura tanto a lungo e le prime esperienze della vita restano impresse per sempre. Gli scimpanzè al contrario alla nascita hanno già il 70% del loro cervello».

il Fatto 9.12.10
L’altra faccia della verità
In difesa del maschio Assange
di Caterina Soffici


Londra. Proviamo a raccontarla così. Prendete un uomo di 39 anni, personaggio famoso, spesso su giornali e tv, dalle idee innovative che viaggia parecchio per lavoro, lo chiamano di qua e di là a tenere conferenze. L’uomo ha successo, perché il suo prodotto è unico e va a ruba, eppure non è ricco. È un anarchico e vive come uno zingaro. Ai suoi fan piace anche per questo e per quel suo fisico esangue ed emaciato. Così se lo invitano come oratore a un seminario dove si parla proprio del suo originale prodotto, lui accetta di poter usare l’appartamento messo a disposizione da una giovane donna. Chi è costei? Non la conosce, è stata lei, un’avvenente bionda sulla trentina, ad averlo contattato via Internet e ad avergli offerto la casa. Cambierà addirittura i suoi programmi e tornerà un giorno in anticipo per vederlo. Si trovano a casa di lei, poi vanno a cena fuori. La serata si conclude con un incontro sessuale. In quel rapporto si rompe il preservativo, ma sul momento né lui né lei sembrano dar troppo peso alla cosa. Lui rimane a dormire quella notte e lei organizza per il giorno dopo una festa a base di gamberetti per lui.
Nel frattempo il 39enne va a tenere il suo discorso, dove tra il pubblico siede una 20enne   che ha fatto il diavolo a quattro per intrufolarsi. Lo aveva visto poche settimane prima in tv e lo aveva trovato “interessante, ammirevole e coraggioso”. Tanto briga che alla fine dell’incontro riesce a farsi invitare al ristorante dove lui sta andando con gli organizzatori. Lei si fa notare, i due flirtano, lui le mette un braccio intorno al collo. Le promette che si rivedranno, ma ora deve scappare al party organizzato dall’altra, la quale tutta contenta commenterà su Twitter: “Ero seduta all’aperto, praticamente congelata, ma accanto alla persona più cool del mondo. È fantastico”.
Passano due giorni e la 20enne non si dà per vinta. Lo invita da lei, a pochi chilometri dalla città. Gli paga anche il biglietto del treno, perché lui non ha contanti. Quella sera finiscono a letto (con preservativo). La mattina dopo rifanno   sesso, stavolta senza preservativo. Poi vanno a fare colazione mano nella mano e lei gli compra il biglietto del treno di ritorno. Fine della storia. Che conclusioni trarreste? Che le due donne sono sessualmente disinibite e che l’uomo ha un forte appetito sessuale. Potremmo parlare anche di facili costumi, se foste moralmente interessati. O se fossimo un settimanale femminile potremmo aprire dibattiti del tipo: “Sì o no? Il dilemma del preservativo”, “Che fare quando è lui che non vuole usarlo?”,“Sesso la prima notte, è giusto?”. Ma parlare di stupro proprio no. La storia non finisce qui. Perché qualche giorno dopo le due donne si parlano, scoprono di non essere state le uniche, ferite nell’orgoglio si rendono conto che forse il 39enne è un mandrillo e si preoccupano per i preservativi rotti o man-canti. Vanno dalla polizia per sapere se è possibile costringerlo a fare il test delll’Hiv. Una delle due decide di denunciarlo per molestie sostenendo che all’inizio il sesso era consensuale, “ma poi si è trasformato in abuso”. Il dossier finisce sul tavolo del procuratore generale che esclude l’ipotesi di stupro e archivia.
Se la storia finisse qui, rientreremmo ancora nella casistica da femminile di cui sopra, con sondaggi del tipo: “Se lo inviti a casa tua e lui non usa il preservativo è stupro?”, “Organizzeresti un party in onore del tuo stupratore?”. Invece la storia continua. Perché siamo in Svezia e qui   giustamente la legge è molto a favore delle donne e si considera violenza “qualsiasi atto di costrizione correlato al sesso” (anche il mancato uso di un preservativo) e un secondo giudice (donna) decide che le accuse contro il 39enne sono fondate. Capi di imputazione: coercizione illegittima, molestia deliberata e stupro e la prima delle donne con cui ha fatto sesso, femminista radicale, parla di un uomo “con un’immagine distorta delle donne che ha un problema ad accettare la parola ‘no’”.
Se fossimo in una moderna riedizione del film degli anni Settanta “Processo per stupro”, istintivamente staremmo dalla parte delle donne. E potremmo anche sostenere che il fatto d’averlo invitato a casa non è un’attenuante, come non lo possono essere il fatto d’indossare minigonne, rientrare da sole la sera tardi eccetera.
Ma la storia finisce che interviene l’Interpol, con un mandato di cattura internazionale (quando la difesa sostiene che il caso si potrebbe chiudere con una multa di 715 dollari), il 39enne viene arrestato e si rifiutano di rilasciarlo anche dietro una cauzione di 200 mila sterline.
Ammettiamo pure che il 39enne sia un fanatico sessuale, un maniaco pedofilo o un killer seriale: tutta questa vicenda non suona un po’ strana? Con buona pace di tutte le femministe radicali del mondo.

Diregiovani.it 7.12.10
Appena nati già sognano ad occhi aperti
ricerca dell’Imperial College di Londra


Un gruppo di ricercatori dell'Imperial College di Londra, ha scoperto che anche i neonati sono in grado di sognare ad occhi aperti, riescono cioe' come gli adulti, ad associare i ricordi a situazioni non ancora accadute.
Al contrario di quanto si pensava sino ad ora infatti, al termine della gravidanza le connessioni cerebrali dei piccoli sono gia' completamente formate. Per giungere a tale conclusione gli scienziati hanno scansionato il cervello di 70 bambini durante varie fasi della crescita, scoprendo cosi' che questo, e' in grado di elaborare le giuste connessioni sin dalla nascita (Wel/ Dire)
segnalazione di Teresa Coltellese

Diregiovani.it 7.12.10
Giovanardi: Figlia Nannini rischia di sposare il padre
Il sottosegretario contro la fecondazione eterologa


(DIRE - Notiziario Minori) Roma, 7 dic. - "In alcuni paesi dove il donatore e' sconosciuto ci sono cliniche che si vantano di aver messo al mondo 16 mila bambini; ma questi bambini sono fratelli e sorelle tra di loro, e una di queste bambine potrebbe trovarsi un domani a sposare suo padre perche' il donatore e' sconosciuto. La figlia della Nannini potrebbe correre il rischio di sposare suo padre essendo nata da fecondazione eterologa". È quanto afferma il sottosegretario Carlo Giovanardi, ospite di KlausCondicio in onda su YouTube.
Poi Giovanardi augura "alla figlia della Nannini di non avere due mamme" rispondendo alla alla domanda di Klaus Davi 'sulla possibilita' che la figlia della Nannini, alla luce della propria ammissioni di bisessualita' fatta al sito Gay.it, possa crescere con sua madre e un'altra donna'.
"Io sono della scuola di pensiero che un bambino- spiega Giovanardi- abbia diritto ad avere un padre ed una madre perche' per una crescita equilibrata la figura materna e quella paterna hanno una loro funzione indispensabile. Ho qualche dubbio che un bambino che abbia due uomini o due donne come genitori abbia le stesse chance o le stesse opportunita' di crescita equilibrata dei bambini che hanno un padre e una madre". Per il sottosegretario "una societa' costruita sui principi di Gianna Nannini non reggerebbe, sarebbe una societa' senza un futuro, una societa' di questo tipo morirebbe. Se i movimenti dell'orgoglio omosessuale fossero prevalenti o riuscissero a convincere il mondo che quella e' la strada giusta allora il mondo finirebbe nell'arco di una generazione".
Infine, osserva che la fecondazione in tarda eta' "aumenta la possibilita' che un bambino nasca da una donna che una volta era gia' una nonna, ma soprattutto, con un rischio altissimo di rimanere orfano; e' un fatto naturale".
segnalazione di Teresa Coltellese