sabato 23 marzo 2013

l’Unità 23.3.13
L’incaricato Bersani inizia con sindacati e parti sociali
Le consultazioni oggi e domani con enti locali, associazionismo, organizzazioni dei lavoratori e Confinustria. Da lunedì le forze politiche
La verifica durerà almeno fino a metà settimana
di Simone Collini


ROMA Tocca a Bersani. Il leader del Pd ha ricevuto dal Capo dello Stato l’incarico a «verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo, tale da consentire la formazione di un governo». E Bersani ha ringraziato Giorgio Napolitano dicendosi pronto a svolgere «questo incarico con la massima determinazione e anche ricercando quella ponderazione ed equilibrio cui ha fatto riferimento il Presidente della Repubblica».
L’avvio della «verifica» è per oggi. E il leader del Pd intende lanciare subito un segnale del «cambiamento» a cui vuole dar vita con il suo governo e dell’attenzione che intende dare ai «temi sociali più acuti» e alle riforme istituzionali ed elettorali attese da tempo. Oggi pomeriggio, nella Sala del Cavaliere della Camera (nessuna attinenza con Berlusconi, il nome dipende dal grande quadro presente in questa stanza al primo piano di Montecitorio) Bersani darà infatti il via alle sue consultazioni ricevendo esponenti del mondo dell’associazionismo e del volontariato, del terzo settore, rappresentanti sindacali e di Confindustria, degli enti locali (una delegazione dell’Anci dovrebbe essere la prima ricevuta). E farà altrettanto per tutta la giornata di domani. Solo a partire da lunedì, dopo una riunione con i deputati e i senatori del Pd per discutere dell’incarico ricevuto al Quirinale e di come intende muoversi ora, incontrerà le altre forze politiche. Forte, auspica, di un consenso e un sostegno registrati da parte delle forze sociali fino a quel momento.
La formula a cui ha fatto ricorso Napolitano dopo il giro di consultazioni di mercoledì e giovedì è già stata messa in campo diverse volte negli ultimi cinquant’anni, da ultimo il 13 ottobre ‘98 con Prodi e il 16 ottobre ‘98 con D’Alema. Quindi ora, prima che l’incarico si possa trasformare in nomina, Bersani dovrà incontrare tutte le forze parlamentari per capire se sia possibile ottenere la fiducia sia alla Camera che al Senato. E tornare al Quirinale probabilmente a metà della prossima settimana anche se non sono esclusi tempi più lunghi a riferire l’esito della «verifica». È vero che Napolitano ha sollecitato una risposta «appena possibile». Ma è anche vero, come ha detto Bersani al termine del colloquio con il Capo dello Stato e prima di andare a incontrare Pietro Grasso e Laura Boldrini per riferire dell’incarico ricevuto, che sarà necessario impiegare tutto «il tempo necessario in una situazione difficile».
La strada è stretta e tutta in salita, guardando ai numeri di Palazzo Madama, anche perché prima ancora che Bersani cominci questo giro di consultazioni, Berlusconi ha già chiesto il «coinvolgimento» del Pdl, la Lega ha fatto sapere che deciderà «una posizione comune» con gli alleati e il Movimento 5 Stelle ha ribadito il no alla fiducia. Può esserci, da aggiungere ai 123 voti da cui parte il centrosinistra, il possibile voto favorevole di Monti e dei 20 senatori di Scelta civica, visto che il coordinatore Andrea Olivero ha annunciato che da parte loro non ci sono «veti». Ma a meno di un’intesa preventiva sulla non sfiducia con le altre forze politiche (che possa tradursi per esempio in un’uscita dall’aula del Senato al momento del voto, fatta salva la permanenza del numero legale) il giro di «verifica» di Bersani rischia di non arrivare a meta. In queste ore stanno tutti con in mano il pallottoliere e si guarda con attenzione alla nascita di un nuovo gruppo parlamentare a Palazzo Madama, Grandi Autonomie e Libertà, formato da 10 senatori che provengono in parte da Pdl e Lega ma molto interessati alle tematiche del Mezzogiorno.
Bersani però non sta puntando a incassare qualche voto di fuoriusciti. La sua strategia prevede quella che i suoi più stretti collaboratori definiscono «un’azione duplice». Da un lato le politiche del governo, centrate su economia e moralizzazione della vita pubblica, così com’è negli otto punti programmatici presentati all’indomani delle elezioni. Dall’altro, le riforme istituzionali a cui intende lavorare aprendo un confronto anche con il centrodestra. Ha però chiarito Bersani prima ancora che questo percorso cominci: «Cercherò di andare agli incontri con le forze parlamentari e politiche con intenzioni precise sul percorso di riforma che deve riguardare anche il sistema politico. Ma ci andrò con delle mie idee». Un modo per sottolineare che la strada delle larghe intese con il Pdl continua a reputarla senza sbocchi.
Sarà nel corso degli incontri che ci saranno nei prossimi giorni che si capirà quali intese siano possibili sulla legge elettorale, sul superamento del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari, sulla forma di governo. E se una convergenza sulle riforme istituzionali possa essere sufficiente per evitare che Pdl e Lega si mettano di traverso. Molto dipenderà infatti dalla volontà politica delle altre forze politiche di far avviare questa legislatura. E questo si capirà non prima di settantadue ore almeno.
Se quelle del centrodestra e dei Cinquestelle siano chiusure vere o se si tratti di posizionamenti tattici finalizzati ad incassare il massimo del risultato si saprà soltanto nei prossimi giorni. Canali di comunicazione, tra il Pd e il Pdl, sono già stati aperti. Il partito di Bersani si è detto disponibile ad assegnare le presidenze di alcune commissioni parlamentari alle altre forze, ma ci sono anche altre caselle da discutere. Non è un segreto, per esempio, che il partito di Berlusconi abbia chiesto mettere sul piatto l’elezione del prossimo Capo dello Stato. Per il Pdl tale questione può però tramutarsi in un boomerang. Perché se è vero che il centrodestra può impedire la nascita del governo Bersani, è anche vero che il centrosinistra con i suoi 345 deputati e i suoi 123 senatori parte da una posizione di forza e con la certezza di poter eleggere un proprio candidato o insieme a Scelta civica o insieme ai Cinquestelle quando dalla seconda metà di aprile cominceranno le votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica.

l’Unità 23.3.13
Al Senato mancano 15 voti. Ma il tema è il Pdl
La strada stretta di Bersani che punta sui dubbi generalizzati verso il voto anticipato e sulla presa d’atto che non esistono altre strade politiche
di Ninni Andriolo


Il sentiero è stretto ma Bersani proverà a percorrerlo fino in fondo» ripetono dal Pd, a proposito della «massima determinazione» promessa dal segretario. A differenza della Camera, dove il centrosinistra gode di un’ampia maggioranza, l’incognita riguarda, ovviamente, Palazzo Madama dove Pd, Sel e gruppo delle Autonomie contano su 123 seggi su 319 (numero che comprende il presidente, che per prassi non vota, e i senatori a vita). Se Monti dovesse mantenere l’impegno a non sbarrare la porta al leader Pd, pur riconfermando la preferenza per le larghe intese, con i 21 senatori di Lista civica il presidente incaricato potrebbe contare su una base di 142 “voti”.
Il fronte (diviso) che dovrebbe opporsi al tentativo di Bersani, invece, avrebbe dalla sua 171 senatori (117 del centrodestra e 53 del Movimeno 5 Stelle escludendo la dimissionaria Giovanna Mangili). Non è detto, naturalmente, che Pdl, Lega, Gal (l’ottavo gruppo autonomista che si è formato ieri) e grillini esprimano un atteggiamento analogo anche a proposito del numero legale.
Tra i 10 senatori che hanno costituito ieri il gruppo Grandi Autonomie e Libertà, tra l’altro, c’è chi è convinto che «un governo sia indispensabile» e annuncia che non si metterebbe «di traverso per impedirne la nascita». I senatori confluiti nel Gal provengono dalle file del Pdl, della Lega, di Grande Sud e dell’Mpa.
«Nei prossimi giorni potremmo perfino aumentare», annunciano.
«Stiamo aspettando una proposta per il Meridione che sia davvero rivoluzionaria spiega uno degli interessati senza di questa sarebbe molto difficile arrivare a un'intesa con il Pd».
I VOTI CHE MANCANO
A bocce ferme, però, i voti che mancano al segretario democratico per ottenere la fiducia a Palazzo Madama sarebbero una quindicina secondo i calcoli del Nazareno, al netto delle incognite sulle determinazioni dei senatori a vita e sulle presenze in Aula.
Destinato al fallimento il tentativo di Bersani? Tenendo presente la difficoltà delle larghe intese, confermata autorevolmente anche dal Capo dello Stato, il presidente incaricato punta soprattutto sulla generalizzata convinzione della inutilità di elezioni anticipate e sulla presa d’atto che non esistono al momento altre strade «realistiche» per risolvere il rebus della crisi.
«Si spenderà fino in fondo», quindi. Nella convinzione, tra l’altro che non è percorribile lo «schema di un’alleanza di governo tra Pd e Pdl».
E questo al di là di chi - lui o un altro dovesse reggere il timone dell’incarico assegnato dal Capo dello Stato. Gli elettori del Pd per primi, infatti, considererebbero improponibile un’intesa con Berlusconi. Non tutti nel gruppo dirigente Pd la pensano allo stesso modo, naturalmente. Ma il «radicale cambiamento» espresso dal voto, a cui ha fatto riferimento anche Giorgio Napolitano, non si coniuga con un’intesa Pd-Pdl secondo il segretario.
La richiesta del Colle per un governo in tempi rapidi, poi, non è in contraddizione con l’impegno del leader Pd a percorrere fino in fondo «l’unica strada possibile» che ha imboccato. Quella di un governo di minoranza, cioè, che nasca sulla base dell’interesse di molti a cominciare da Pdl e Lega a evitare nuove elezioni con regole che riproporrebbero lo stallo attuale.
NIENTE GOVERNO CON IL PDL
Anche per questo Bersani mentre esplora fino in fondo le possibilità di portare a buon esito il suo mandato rilancia il versante delle riforme istituzionali. Niente governo con il Pdl, infatti, non significa strade separate per ridisegnare le regole del gioco. Senza contare che sulla Camera delle autonomie potrebbe registrarsi perfino l’interesse della Lega. «Maggioranza certa non significa governo di maggioranza», spiegano dal Nazareno. Visto dal Pd, quindi, il tentativo di Bersani appare meno impossibile di quanto appaia «a molti spettatori interessati».
Lo stesso Pdl, tra l’altro, potrebbe andare al di là del governo Pd-Pdl che propone sapendo di agitare un’arma spuntata. Nessun no preventivo e pregiudiziale del Pdl, quindi?
La conditione per qualsiasi «lasciapassare» a Bersani «diretto, esterno, dato a metà, un semplice non ostacolare la nascita dell'esecutivo targato Pd», risiede, a sentire il Pdl, sempre nella richiesta di garanzie sul prossimo presidente della Repubblica. Oltre che sulle riforme istituzionali e sulle presidenze delle Commissioni. Mentre l’intesa del Cavaliere con la Lega potrebbe aprire nuovi scenari per impedire l’incognita delle elezioni anticipate e favorire la nascita di un governo indispensabile per il Paese.

l’Unità 23.3.13
I timori del Pd. «La via greca sarebbe disastrosa»
Fassina: «L’agenda liberista alimenta i populismi»
Ma i renziani aprono al governo istituzionale
Delrio: «Se Bersani non ce la fa e il Colle chiede un accordo con il Pdl...»
di Andrea Carugati


ROMA Non è solo l’«impresentabilità» di un Pdl ancora lontano da un ricambio di leadership a sconsigliare ai democratici di prendere in considerazione la strada delle larghe intese. C’è anche il fantasma del Pasok greco a motivare quel no a una grande coalizione che fuori dal Palazzo è assai ben compreso. Ma che dentro le stanze della politica, talvolta, viene letto come un irrigidimento del Pd e in particolare del suo segretario fresco di incarico per formare il nuovo governo.
In Grecia, dal giugno 2012, il partito socialista Pasok è alleato dei conservatori in un governo di coalizione, ma è indubbio che proprio quel partito ha pagato il prezzo più alto rispetto alle tensioni sociali che attraversano il Paese e alla rabbia verso le misure imposte dall’Europa. Ecco, quella è la la strada che dentro il Pd viene esclusa con forza. «Noi stiamo cercando di evitare quello scenario, e l’unica strada è quella di un governo di cambiamento, non un governo tecnico o le larghe intese che abbiamo già sperimentato nell’ultimo anno», spiega Miguel Gotor, senatore Pd. «L’Italia è come un aereo in stallo, o si riesce a mettere la benzina giusta per fare uno scatto o altrimenti c’è il rischio di precipitare. E la benzina è solo un governo che coniughi cambiamento e responsabilità», prosegue Gotor. «L’Italia è in una crisi di sistema che può risolvere solo la politica, la tecnica è una carta che è già stata utilizzata e la Grande coalizione non è percorribile perché non siamo la Germania, e lo scenario che esce dalle urne non è quello di due grandi partiti ma tripolare».
Secondo Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, pesa anche il fattore Berlusconi. «È inutile negare che la destra italiana ha una sua specificità, che riguarda il suo leader, con tutti i noti problemi che comporta. Ma il motivo principale del nostro no riguarda l’agenda che è stata sperimentata in questo ultimo anno, che ha aggravato i problemi economici e sociali. Su quella strada, il liberismo avvolto da un mantello tecnocratico, si fornirebbe ulteriore alimento ai populismi», spiega Fassina. «Se il Pd imboccasse quella strada rischierebbe di finire condannato alla marginalità, come è successo al Pasok. Quell’agenda è stata bocciata dagli elettori, non per i sacrifici, ma perché non c’era luce in fondo al tunnel». Concorda anche Pippo Civati: «Le larghe intese le abbiamo già sperimentate con Monti e abbiamo visto i risultati... per questo sono contrario a ulteriori pasticci trasversali. E anche perché, in quel modo, non saremmo in grado di dare risposte credibili al Paese: non sull’economia e certamente non sulla moralizzazione della vita pubblica, ma neppure su una nuova legge elettorale che il Cavaliere ha boicottato negli ultimi mesi della scorsa legislatura. Anche il presidente Napolitano, del resto, ha evidenziato le grandi criticità di un’ipotesi del genere». Quanto al Pd, dice Civati, «basta parlare con i nostri elettori per capire che quella scelta avrebbe effetti devastanti».
Antonello Giacomelli, braccio destro di Franceschini, immagina una strada intermedia tra il «muro contro muro» con il Pd e «un grande abbraccio» con il partito del Cavaliere. «C’è una differenza importante tra la responsabilità dell’azione di governo, che deve essere chiara, e la corresponsabilità che è necessaria quando si parla di riforme costituzionali e delle regole», spiega. «Sarebbe un errore se i partiti tradizionali si arroccassero nel fortino di un governo privo di una chiarezza di linea. Questo non vuol dire che ci presentiamo con un atteggiamento autosufficiente».
Tra i renziani, invece, l’ipotesi di larghe intese viene presa in considerazione. «Se Bersani non ce la facesse e il presidente della Repubblica proponesse un governo istituzionale che faccia alcune cose anche col Pdl, non mi vergognerei di questo» spiega Graziano Delrio. «La cosa peggiore che il Pd può fare è guardarsi l’ombelico, pensare a speculazioni di breve periodo per poter andare ancora alle elezioni e incattivire il Paese. Abbiamo fatto dei sacrifici: è giusto che non vadano dispersi per capricci, correnti o calcoli». Matteo Richetti, uno degli uomini più vicini al sindaco di Firenze, spiega: «Non si può pensare che la proposta che Bersani farà al Parlamento sia interdetta preventivamente a qualcuno, neppure al Pdl».

il Fatto 23.3.13
Fassina apre a destra
Non belligeranza col Pdl? “Possibile”
Matteo Renzi: “Ha ragione B. a dire che per fare un nuovo esecutivo bisogna parlare con lui”
di Wanda Marra


La strada è stretta, ma “non strettissima”; le geometrie si fanno “variabili”; si va verso un governo “sostenuto” dal Pdl. Le connotazioni cambiano, a seconda del grado di vicinanza al segretario, ma nel Pd la strada sembra chiara. “Napolitano ha fatto quel che doveva fare. I problemi sono oggettivi, non si possono attribuire a lui, che d’altra parte ha ammesso la difficoltà delle larghe intese”. A parlare è Stefano Fassina, nella geografia del partito all’ala più a sinistra, uno dei Giovani turchi per dirla con definizione mediatica. Ma soprattutto il responsabile Economia che è stato il più fiero oppositore tra i Democratici dell’appoggio a Monti. “Il presidente della Repubblica ci ha permesso la costruzione di un doppio binario: uno per il governo Bersani, un altro per la convergenza anche con il Pdl sulle riforme istituzionali e il presidente della Repubblica”. Una strada che secondo Fassina va studiata nei modi e nelle forme ma è perseguibile politicamente, una trattativa possibile che può “sbloccare” la nascita del governo. Che proprio secondo questo doppio schema non vede “disperata”.
UNO SCHEMA che però implica una variazione non secondaria dell’idea originaria elaborata da Bersani: si passa da un’idea di governo con una non sfiducia del Movimento 5 stelle a un esecutivo con la Lega e magari pure il Pdl non belligeranti? “Eh sì”, dice semplicemente Fassina. Chiarendo che non è linea diversa da quella indicata dalla direzione. Perché Bersani in fondo mentre ha sempre detto assolutamente no al governo col Pdl, ha detto anche (e pure nella conferenza stampa dopo le consultazioni al Quirinale) che è pronto a prendere i voti di tutti (e giovedì ha parlato testualmente di “corresponsabilità” sulle riforme).
I Democratici insomma a questo punto si apprestano a sostenere – con vari gradi di entusiasmo e prospettive diverse – il tentativo del segretario. D’altra parte se i bersaniani erano sulla linea “o Pier Luigi o il voto”, l’altra metà del partito era sul no deciso alle elezioni. Convergenze. Altra la situazione dei renziani. Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, braccio destro di Matteo Renzi, l’aveva detto già ieri mattina, prima della decisione di Napolitano: “Se Bersani ce la facesse e il presidente della Repubblica proponesse un governo istituzionale che faccia alcune cose anche col Pdl, non mi vergognerei di questo”. Aggiungendo che “se Bersani non riuscirà, perché i voti sono quelli che sono, è chiaro che si aprirà una discussione su come affrontare una fase nuova del Pd”. Che evidentemente va verso Renzi. Alla fine l’analisi più perfida la fa lo stesso Renzi: “Certo la strada, come dice Bersani, è stretta, stai venti giorni a dire aspettiamo Grillo e Grillo dice no, la strada è ancora più stretta. Io prima di essere uno del Pd sono un italiano per cui dico in bocca al lupo Bersani”. Ma poi: “È difficile dar torto a Berlusconi quando dice ‘deve parlare con noi’. Se Bersani vuole la maggioranza deve fare l’accordo con Grillo o con Berlusconi. Deciderà Bersani come fare. In Parlamento ci sono tre minoranze. È evidente che due delle minoranze si devono mettere insieme”. E poi: “Bisogna avere la voglia di inventarsi qualcosa di nuovo”.
MATTEO Richetti, altro fedelissimo renziano, spiega: “Alla fine Bersani farà il governo sostenuto anche dal centrodestra”. Che loro in questo contesto sono politicamente obbligati a sostenere. “Ci dev’essere qualcosa che non ci dicono, se no sono matti. Visto che i 5 stelle l’hanno detto in tutti i modi possibili che non ci stanno, devono avere qualche voto di Pdl e Lega”, dice una voce critica del partito. E Pippo Civati esorta: “A questo punto Bersani deve giocare all’attacco, deve stupirci”.

La Stampa 23.3.13
L’accordo possibile col Pdl
La rotta incerta del segretario passa dall’accordo con il Pdl
Per avviare l’esecutivo serve un’intesa sulla legge elettorale e sulle riforme istituzionali
di Federico Geremicca


La missione Incontrerò i partiti con idee chiare, poche parole e precise intenzioni sulle riforme
La tempistica La durata delle consultazioni? Ci metterò il tempo necessario in una situazione difficile
Il cambiamento Cercherò di avviare una legislatura che abbia un governo in condizioni di generare il cambiamento

Dalla pompa di benzina di Bettola fino a Palazzo Chigi. Il percorso non è compiuto, si preannuncia anzi difficile, ma da ieri Pier Luigi Bersani è in cammino, e il primo passo è fatto. È ancora, forse, addirittura un mezzo passo. E per compiere gli altri necessari a centrare il risultato, il Capo dello Stato ha posto ieri a Pier Luigi Bersani una condizione che parrebbe ovvia, ma poiché non lo è rappresenta - al contrario - un ostacolo non facile da superare: «verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo, tale da consentire la formazione di un governo che abbia la fiducia delle due Camere». Al Senato, come è noto, questo «sostegno certo» non c’è: e da qui a mercoledì - giorno presunto in cui Bersani tornerà a riferire a Napolitano del lavoro svolto - è precisamente questo l’obiettivo da centrare. Numeri certi per la fiducia anche a Palazzo Madama, oppure avanti un altro: su questo il Quirinale difficilmente transigerà.
E dunque, riecco di fronte al leader Pd l’incomponibile puzzle consegnato alla politica dai recenti risultati elettorali. Bersani vorrebbe un governo con Grillo, ma Grillo non vuole; Berlusconi vorrebbe allearsi con Bersani, ma Bersani dice no; Grillo, infine, non vuol far patti con nessuno, e pregusta la possibilità che Pd e Pdl tornino insieme, così da garantirgli - questa è la sua previsione un altro boom elettorale. Lo stallo quindi perdura: e se qualcuna delle posizioni in campo non cambia, e qualcun altro non allenta le proprie rigidità, il viaggio intrapreso da Bersani si preannuncia breve. Una gita fuori porta, al più.
Per ora la rotta del leader Pd appare in via di definizione. Bersani ovviamente sa di esser oggi parzialmente prigioniero della linea (chiara ma estremamente rigida) proposta da lui stesso alla Direzione del suo partito: mai più governissimi con Berlusconi, solo «governi per il cambiamento» e con un rapporto - se possibile - coi Cinque Stelle di Beppe Grillo. È chiaro che adesso, dopo i ripetuti no alla fiducia dei «grillini», bisogna modificare qualcosa e battere altre vie. Il Quirinale vuole «un sostegno parlamentare certo»: il che significa che, esclusa l’ipotesi di un «governo di minoranza» (inizialmente proposta da Bersani) è pronto a dare il via ad un esecutivo che, in un modo o nell’altro, goda di quel «sostegno certo».
Ci vorrà abilità politica, da parte del pre-incaricato, naturalmente; e anche un po’ di fantasia. Ma una via Bersani sembra intravederla: ottenere da Berlusconi non un voto di fiducia ma almeno la possibilità che il governo possa partire. E possa partire sulla base di un accordo che non riguardi l’esecutivo ma la serie di riforme da varare (ieri Napolitano le ha quasi elencate...). Due tavoli di trattativa, insomma: o, meglio ancora, due binari lungo i quali far maturare tanto l’intesa su sistema elettorale e riforme istituzionali e quanto l’accordo sulla partenza del governo (il Pdl potrebbe in parte astenersi e in parte lasciare l’aula del Senato al momento del voto).
Per ottenere un simile via libera, è chiaro che Bersani dovrà concedere qualcosa sulle riforme da varare (Berlusconi insiste da tempo sul presidenzialismo, per esempio) e assicurare (altra pressante richiesta del Pdl) che sul futuro Presidente della Repubblica le cose andranno diversamente da quanto accaduto per Camera e Senato: e la figura scelta sarà super partes e garante per tutti. Quello che si profila, insomma, è un lavoro comunque non facile: ma al Quirinale annotano che, se Bersani ha inteso provarci (conoscendo tutte le difficoltà) questo dovrebbe significare che una idea su come centrare l’obiettivo ce l’ha. O almeno si spera.
Forze sociali prima e partiti politici dopo: per chiudere entro mercoledì e non menare il can per l’aia. Il Pd, intanto, segue con qualche nervosismo il tentativo del segretario, non avendo chiaro cosa potrebbe accadere in caso di fallimento. E Matteo Renzi, che osserva gli sviluppi dalla sua trincea fiorentina, intanto è lapidario. «Il Paese chiede stabilità - ha ripetuto ieri ai suoi -. Il cosiddetto governissimo è stabilità, e anche le elezioni sono stabilità, perché introducono chiarezza: quel che non lo è, sono governi di minoranza o soluzioni fondate su parlamentari costretti a uscire dall’aula al momento del voto. O l’uno o l’altro, insomma. Non è tempo da situazioni tipo “la signora è incinta ma solo un po’”. La gente non capirebbe. E Grillo, naturalmente, ci massacrerebbe... ».

La Stampa 23.3.13
Le condizioni per trovare quei trentacinque voti
Gratis, nessuno concede niente. E neppure stavolta si farà eccezione
Anzi, mai come in questo caso il prezzo per Bersani si annuncia salato
Lega, Monti e Grillo stanno alla finestra Berlusconi negozia
Renzi: «Il leader del centrodestra è un interlocutore, difficile dargli torto»
di Ugo Magri


Perfino quando incarna gli ideali, la politica rimane un «suk» dove regna la regola levantina «vedere cammello, pagare moneta». Quei 35 voti che gli mancano a Palazzo Madama per fare una maggioranza se li dovrà faticare. In queste ore, tutti i potenziali interlocutori del presidente incaricato sono impegnati a metter giù la lista delle condizioni irrinunciabili, senza le quali il governo non nascerà.
Nulla è garantito. Neppure il sostegno di Monti che nel Pd si tende a considerare (sbagliando) come sicuro. Per certi aspetti, anzi, è proprio col Professore che Bersani dovrà più faticare. Questione di stati d’animo, di repulsioni profonde per una certa meschinità che il premier uscente ha ravvisato nei suoi confronti. Lo amareggia il modo in cui certi giornali hanno presentato la disponibilità a farsi eleggere presidente del Senato, quasi che lui fosse mosso da sfrenata ambizione. E ancor più lo ferisce che tale caricatura sia stata condivisa nel suo stesso partito, che dentro Scelta Civica qualcuno abbia visto in lui una sorta di «asso pigliatutto». No, spiega chi lo frequenta, Monti non farà alcun passo per entrare al governo. Impossibile, insistono i fedelissimi, incasellare dentro un ministero un uomo della sua levatura. Se Bersani glielo dovesse offrire in cambio dell'appoggio, riceverebbe un no. Poi, si capisce, tra i montiani c’è chi già scalpita per una poltrona proprio in base al «do ut des»: ci manca solo, dicono alcuni centristi, che diamo appoggio al Pd senza nemmeno ricevere in cambio un po’ di visibilità... Però Monti obietta: guardiamo prima il programma, non è che la famosa Agenda possa essere abbandonata magari in nome di politiche espansive, lassiste o peggio (con Grillo, il Prof non vuole nulla a che vedere). Insomma, Scelta Civica sta alla finestra senza illusioni.
E la Lega? Anche qui, nel giro di Bersani si fanno castelli in aria, come se il Carroccio non veda l’ora di sganciarsi dal Cavaliere. Non è affatto così, giura in confidenza Calderoli. «Noi», spiega, «abbiamo interesse che ci sia a Roma un governo degno di questo nome, un interlocutore serio del Nord, e stop. Ogni mossa verrà decisa d’intesa col Pdl». Soccorsi padani, dunque, sono esclusi. Tantomeno la ciambella di salvataggio verrà lanciata dal Movimento Cinque Stelle. Dove è vero che crescono i mal di pancia nei confronti di Grillo, il quale snobba i suoi eletti e decide berlusconianamente per tutti, compresi quanti non condividono la linea rivoluzionaria del «tanto peggio tanto meglio». Però dell’ex-comico i dissenzienti hanno una fifa blu, alla prossima saranno cacciati. E chi conosce quel mondo esclude che le quinte colonne verranno allo scoperto in tempo utile per garantire la «maggioranza certa», quella richiesta da Napolitano a Bersani. Per cui alla fine non resta che lui, l’«imprescindibile»: Berlusconi.
Se c’è un negoziatore nato, capace di vendere frigoriferi agli esquimesi, quel qualcuno vive ad Arcore. Figurarsi se accetterebbe di fare uscire i suoi dall’aula in Senato, al momento del voto di fiducia, come un alto esponente Pd ha proposto ieri a Cicchitto, lasciandolo basito: «In cambio di che? », ha domandato l’ex capogruppo Pdl. Per il bene dell’Italia, è stata la risposta. Cicchitto ha scosso la testa, così il negoziato nemmeno incomincia, «bisogna parlare dell’economia, delle riforme, del nuovo Presidente della Repubblica... E tutto quanto alla luce del sole». Raccontano che il Cavaliere, come al solito, sia combattuto tra la pancia e il cervello. Se seguisse l’istinto, salirebbe oggi sul palco della manifestazione a Piazza del Popolo e annuncerebbe (come suggerisce la Santanché) «basta prenderci in giro, si torni a votare». Se invece desse retta alla testa aspetterebbe (come implorano Gianni Letta e Bonaiuti) di aspettare Pasqua senza mattane, perché poi magari Bersani diventerà più malleabile. Però una cosa è certissima, avvertono in via dell’Umiltà: «Berlusconi non farà mai iniziare una legislatura il cui fine ultimo sia quello di dichiararlo incompatibile, di mettergli il conflitto d’interessi e di mandarlo in galera». Perfino Renzi ammette: «È un interlocutore, è difficile dargli torto quando dice: Bersani deve parlare con noi».

La Stampa 23.3.13
Sale il malumore fra i 5 Stelle In venti per la trattativa col Pd
Un senatore siciliano si sfoga: “Il giorno della fiducia non escluderei sorprese”
Grillo nel mirino: “Noi siamo qui a lavorare. Lui impone la linea e sparisce. Ci considera numeri”
I parlamentari del M5S si dividono in talebani, spaventati e trattativisti
di Andrea Malaguti


«Perché Grillo ci tratta così? ». Fronda a Cinque Stelle. Il giorno dopo, venerdì, mentre Roberta Lombardi partecipa alla seduta dei capogruppo negli uffici della presidenza della Camera, i cittadini-parlamentari rimasti a Roma attraversano il Transatlantico con gli occhi bassi. Nervosi. Irritati. E questa volta non dai media, ma dal loro leader, Giuseppe Piero Grillo. E anche dal loro portavoce al Senato, quel Vito Crimi che dopo l’incontro al Colle col Presidente Napolitano aveva commentato con incomprensibile spocchia: «l’abbiamo tenuto sveglio». Frase buttata lì come si fa al bar dandosi di gomito. E poi ritirata con tante scuse. «Parole di cui io mi sono vergognato», racconta in un capannello un parlamentare eletto nel Lazio. «Ma chi pensiamo di essere? ». Ha gli occhi lucidi. È come se, guardandosi attorno, vedesse un altro momento, da un’altra parte. Non il suo. «Stiamo prendendo una brutta piega», borbotta. Raccoglie solidarietà immediata. È l’ala trattativista del Movimento - minoritaria ma non irrilevante - quella che era riuscita a far votare la disponibilità a discutere col Pd la suddivisione delle cariche istituzionali. Quella che ora vorrebbe ragionare sulla possibilità di un accordo governativo. «Un esecutivo Pd-M5S sarebbe perfetto. Almeno nella mia testa. Il Presidente ha ragione, il malessere sociale è troppo largo per essere ignorato». Eresia. Che comincia a prendere piede. Alimentata da un’immagine diventata ossessione.
È quella di Grillo che lascia il Quirinale e sale in macchina sgommando lontano. Insopportabile. Perché scappando in mezzo al traffico di Roma, e infrangendo metà delle regole del codice stradale, la Guida del MoVimento ha segnato plasticamente non tanto la distanza incolmabile dai media, quanto quella - per lui molto più fastidiosamente radicale - da una larga parte dei suoi cittadini-parlamentari. «Né una parola né un saluto. Non ci ha incontrato, non si è confrontato. È assurdo», sbotta un senatore a Palazzo Madama. Finge di affrontare le cose con solidità, ma è evidente che dentro di lui un mondo è sparito. «Noi stiamo qui a lavorare. Lui arriva, impone la sua linea e sparisce. Evidentemente ci considera dei numeri. Magari è Casaleggio che gliel’ha fatto credere. Ma io non voglio ritrovarmi tra vent’anni a pensare che abbiamo buttato alle ortiche un’occasione storica per rendere l’Italia un posto migliore». Il mostro a due teste. Grillo-Casaleggio in cima alla montagna incantata, gli altri a valle a portare l’acqua divisi in tre sottogruppi. I talebani, gli spaventati, i trattativisti. Si risana una frattura così?
È passata una settimana dall’insediamento del Parlamento. Il MoVimento sembrava un esercito con una sola voce: «Siamo un gruppo compatto, meraviglioso». Era questo il ritornello. Sono cose che si dicono quando si è all’inizio. Poi si scopre di avere un passato, qualche risentimento, e all’improvviso - da un istante all’altro - niente è più come prima. È un processo rapido. Accelerato dalle pagelle affibbiate una sera sì una sera no dal papa ligure sul suo blog. «Molti non parlano per paura. Ma il giorno della fiducia non escluderei sorprese. Avete letto quello che dice Crocetta? Beh, ha ragione», insiste un senatore siciliano. Crocetta, allora. Il governatore dell’Isola, che a proposito di un sostegno Cinque Stelle a Bersani commenta: «Se Bersani presenta un programma di grande rinnovamento e ci sono punti condivisi, non capisco perché i grillini pretestuosamente debbano dire di no. Conosco molti deputati e senatori M5S che non condividono la scelta dell’Aventino». Il modello Sicilia. Il suo.
Alle otto di sera il vicepresidente della Camera, Di Maio, lascia Montecitorio visibilmente stanco. «Bersani premier? Di sicuro non avrà il nostro appoggio». Stessa linea della Lombardi. «Se Bersani chiede un incontro gli diciamo no in diretta streaming». I talebani non cambiano idea. Ma oggi l’equilibrio del gruppo non è quello che si dice un portento. Sono una ventina i cittadini-parlamentari non più in grado di capire come si potrà affrontare la prossima battaglia emotiva senza prendere le distanze dalla stella polare genovese. «Perché Grillo ci tratta così? ».

il Fatto 23.3.13
Previsioni
Vittorio Feltri: “Larghe intese e poi D’Alema al Quirinale”
di Caterina Perniconi


Bersani dovrà tornare al Quirinale e ammettere che ha fallito. A quel punto può nascere un governo di larghe intese e una discussione sul Quirinale, dove potrebbe andare Massimo D’Alema. Vittorio Feltri, editorialista del Giornale, disegna lo schema politico migliore per il Popolo della libertà.
Oggi Silvio Berlusconi scenderà in piazza a Roma, nel momento più delicato delle trattative, costretto a togliersi i panni da Caimano e indossare quelli da statista.
Feltri, non ci voleva questa manifestazione.
A me la piazza non piace. Per carità, le manifestazioni sono tutte legittime, anche quelle del Pdl, ma non portano nulla.
Berlusconi non potrà fare uno show, come piace a lui.
Da qualche giorno stanno lavorando per dare alla giornata una connotazione positiva e un po’ retorica. Lui dovrà sottolineare che il Pdl è disposto a collaborare contro la crisi e per cambiare la legge elettorale, che tra l’altro hanno fatto loro. Altrimenti in piazza che ci vanno a fare? I voti ora non servono.
Non si torna alle urne?
Non per adesso.
Quindi che succede?
Bersani dovrà presentarsi al Quirinale e ammettere che ha fallito.
Poi cercheranno una figura super partes?
Ma chi la vota? A quel punto bisogna pensare alla stabilità, a un governo di larghe intese.
L’ipotesi D’Alema di un governissimo con un passo indietro di Berlusconi?
Non credo che lo faccia. In cambio di cosa?
Un salvacondotto?
Non esiste in Costituzione, servirebbe un’amnistia, ma un voto di due terzi del Parlamento non è possibile.
Se verrà condannato?
Siamo ancora lontani. Il processo Mediaset è alla sentenza di primo grado e quello più pericoloso, a Napoli, (compravendita di senatori, ndr) non avrà il giudizio immediato. C’è tempo.
Ci vuole un annetto anche per stabilire la sua ineleggibilità.
Questo non credo succederà. Non ha ruoli legali a Mediaset, solo azioni, lui non decide nulla.
Non esageriamo.
Dico davvero. Una volta mi ha chiamato per fare un programma come Il Fatto di Enzo Biagi su Canale 5. Sa com’è finita?
Prego.
Ho fatto delle pillole da 5 minuti alle otto di sera su Italia1 dove mi dovevo sistemare la telecamera da solo, e anche per farmi pagare ho dovuto tribolare.
La giunta per le elezioni le crederà?
Non a me, ma leggerà le carte e non lo potrà espellere, non si va per sentito dire.
Quindi non farà la fine di Craxi?
Non penso. Anche se la giustizia è di certo il fronte più rischioso. E la gente non ne può più dell’accanimento della magistratura.
Ci risiamo, i magistrati. Meglio una fuga all’estero?
Non è questo il momento. Berlusconi ha ancora parecchie carte da giocarsi.
Quali?
Non mi pare che dal Colle non abbia ricevuto credito. Napolitano non lo sta ignorando.
Quindi via libera a un governo Grasso, come ha detto Giuliano Ferrara?
A me personalmente il presidente del Senato non piace. Ma il Pdl è di certo disposto ad accettare, in cambio di garanzie.
Ovvero riaprire i giochi al Quirinale.
Anche.
Chi ci vuole mandare Berlusconi? Nomi seri, che possono avere la maggioranza.
Massimo D’Alema. O Giuliano Amato, che non amo.
Meglio il primo?
Certo, con D’Alema tratti sempre. Si conoscono bene, sanno come prendersi, ci hanno già provato con la Bicamerale.
Renato Brunetta capogruppo le piace o preferiva Mara Carfagna ?
Dal punto di vista estetico di sicuro lei. Brunetta ha carisma, non so se è adatto al ruolo, aspettiamo di vederlo all’opera.
E di Renzi che ne pensa?
Lo ascolto volentieri, è portatore di un nuovo linguaggio, lo apprezzo più dei vecchi rottami del Pci. Ma non so cosa ha fatto da sindaco, non vado a Firenze da cinque anni.
Lo proverebbe al governo?
Certo, abbiamo avuto tanti scarafaggi, uno più uno meno.

La Stampa 23.3.13
“Alle elezioni senza primarie? Certamente non starei a guardare”
Renzi ai suoi: “Pier Luigi accetti la sfida anche se si torna al voto subito. Altrimenti...”
di Fabio Martini


Ora che si è di nuovo allontanato dai riflettori, Matteo Renzi sta raggiungendo l’apice della popolarità e della sua «desiderabilità». Con percentuali mai viste prima. Per un sondaggio realizzato da Swg è di gran lunga il leader politico nel quale gli italiani hanno più fiducia (addirittura il 49% contro il 36% per Grillo), mentre ad Ipsos la netta maggioranza degli interpellati ha indicato proprio Renzi come la personalità alla quale il Capo dello Stato «dovrebbe dare l’incarico di formare il governo». Da Palazzo Vecchio il sindaco legge e si compiace. Ma in questi giorni la riflessione più interessante Matteo Renzi l’ha affidata a diversi suoi interlocutori e riguarda lo scenario nel caso di elezioni anticipate. Il filo del suo ragionamento scorre lungo queste premesse. Se Bersani non dovesse riuscire a formare un governo e successivamente non decollasse neppure un esecutivo a guida tecnica, non resterebbero che le elezioni anticipate e a quel punto - ragiona ad alta voce Renzi - il Pd non potrà non svolgere Primarie «davvero aperte» per la premiership.
Ed è in questo passaggio del ragionamento che gli amici, puntualmente, fanno notare a Renzi che Bersani potrebbe essere tentato di ripresentarsi, con la «scusa» che non ci sarebbe tempo per organizzare Primarie. Il sindaco risponde, no, non ci credo e si dice sicuro sul fatto che il segretario del partito non abbandoni la sana abitudine delle Primarie. Ma certo se il Pd dovesse decidere di presentarsi ad elezioni anticipate senza il «bagno popolare» e con la stessa squadra, «a quel punto non starei a guardare». Come dire: piuttosto che condannare il Pd ad una nuova non-vittoria, sarebbe meglio affrontare l’elettorato con una «Cosa» progressista nuova e più ariosa, capace di recuperare voti sia dal Cinque Stelle sia dal centrodestra. Un progetto che nel passato non ha mai preso in considerazione e che continua a scartare, convinto che sia giusto «restare leale con la Ditta» e che «sia utile avere due grandi partiti». E infatti per la nuova «Cosa» non esiste un’ora X e neppur un piano. Si tratta soltanto di ragionamenti teorici, fatti a voce bassa e che Renzi non farebbe in pubblico neppure sotto tortura.
Per rispetto a Bersani, che si sta giocando la partita della vita. Perché Renzi è convinto che, quando arriverà il momento, le Primarie si faranno, anche perché le imporranno da dentro il partito, un partito nei quali - sia tra i notabili sia nella generazione «dimenticata» dei quarantenni - il malcontento nei confronti di Bersani nell’ultima settimana è cresciuto in modo esponenziale. Certo, se il leader del Pd riuscirà a fare un governo, le elezioni si allontanerebbero ma intanto idee e suggestioni Renzi le coltiva comunque su una futuribile campagna elettorale, che lui continua ad immaginare vicina, perché «sarà una legislatura breve». Quale sia il suo giudizio autentico sulla campagna del Pd, lo ha detto in una intervista all’Espresso: «Forse avremmo vinto le elezioni se Bersani avesse promesso l’abolizione del finanziamento ai partiti e dei vitalizi». Ma intanto Renzi sta preparando materiali, convinto come è che la parola chiave, in vista di imminenti elezioni sia «lavoro». Ma non scandito in modo generico, come ha fatto Bersani con quella invocazione «più lavoro», riempita di contenuti non particolarmente avvincenti. Come è apparso «il piano di piccoli interventi nei Comuni», che il leader del Pd ha citato in tutti i suoi comizi. Renzi, con una correzione rispetto alla campagna delle Primarie, pensa che «il Pd deve essere il partito del lavoro». Ma con contenuti del tutto nuovi rispetto alla tradizionale dicotomia Cgil-Ichino. E per questo Renzi sta lavorando ad un «innovativo Job act», che sarà presentato ai primi di maggio, un piano del lavoro al quale «stanno lavorando imprenditori, docenti e manager». Ed immaginando una campagna elettorale ideale, Renzi ha spiegato ai suoi che è sbagliato affrontarla senza una squadra di governo decisa prima e che invece ogni dossier del programma dovrebbe essere presentato in una apposita convention dal «ministro» incaricato. E intanto i sondaggi sono sempre più gratificanti per Renzi. Per Swg, il sindaco di Firenze è il leader politico nel quale gli italiani hanno più fiducia con il 49%. Segue Beppe Grillo, con il 36, il segretario del Pd Bersani con il 32, il governatore della Puglia Nichi Vendola con il 26, Silvio Berlusconi è al 24. Lunedì scorso Ipsos ha invece chiesto a chi dovrebbe essere conferito l’incarico di formare il nuovo governo: il 38% ha risposto Renzi, appena il 21% Bersani.

Repubblica 23.3.13
Il sindaco di Firenze: tifo per Bersani, ma dopo 20 giorni ad aspettare Grillo la strada è strettissima
Pd, nella tregua armata irrompe Renzi "Ora è difficile non parlare a Berlusconi"
Letta: "Ci sono 50 possibilità su 100 di farcela". Vendola: "Pierluigi darà una bussola al Paese"
Un sondaggio stima una perdita di 10 punti se maturasse un accordo di governo con il Pdl
di Giovanna Casadio


ROMA - Chi è ottimista (Fassina) e chi invece è pessimista (Gentiloni). Stefano Fassina è la "gauche" del Pd, a cui Bersani ha affidato il settore delicatissimo dell´Economia; Paolo Gentiloni è un renziano, mai tenero con il segretario. Ma entrambi nel giorno del pre-incarico, fanno quadrato attorno al leader del centrosinistra: «Speriamo che ce la faccia». Sono giorni in cui si scherza con il fuoco, per il paese innanzitutto ma anche per il Pd, uscito "vincitore a metà" (o "miglior perdente") dalle elezioni. Proprio per questo nel partito dei Democratici è stata sancita una tregua armata.
Irrompe però Renzi, inviando a Bersani un "in bocca al lupo": «Speriamo che Bersani ce la faccia nell´interesse del paese, io sono uno di quelli che tifa per lui». Salvo poi lanciare un "affondo": «Certo la strada è stretta, stai 20 giorni a dire aspettiamo Grillo, e Grillo dice no, quindi la strada è ancora più stretta». In pratica, è stata una perdita di tempo. E ancora più pungente, il sindaco "rottamatore" scompagina le carte del centrosinistra: «È difficile dar torto a Berlusconi quando dice "deve parlare con noi". Se Bersani vuole la maggioranza deve fare l´accordo con Grillo o con Berlusconi. Deciderà Bersani come fare. In Parlamento ci sono tre minoranze, è evidente che due delle minoranze si devono mettere insieme. No a soluzione pasticciate, bisoga inventarsi qualcosa di nuovo». Tuttavia, se c´è una cosa esclusa in questo momento è l´accrocchio Pd-Pdl. I Democratici hanno commissionato uno studio, da cui appare che se facessero un accordo con il partito di Berlusconi, perderebbero in un colpo solo 10 punti, arriverebbero cioè dal 25% di tre settimane fa al 15%. «Nessun accordo con il centrodestra: su questo siamo davvero d´accordo tutti - commenta Gentiloni - Dalla maggioranza ABC a quella BBC non si passa: è un film non proiettabile».
Si affilano i coltelli e si armano le truppe democratiche. Fra qualche giorno, quando si vedrà il risultato della missione del premier incaricato, quel che cova sotto la cenere esploderà. Nel centrosinistra c´è una doppia trincea: da un lato, i fan di un "governo del presidente" che per sua stessa natura dovrebbe imbarcare tutte le forze politiche che ci stanno fino a Pdl-Lega; dall´altro i bersaniani di stretta osservanza che preferirebbero un ritorno alle urne, se Bersani fallisse. Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, braccio destro di Renzi, in un´intervista ha detto: «Se Bersani non ce la facesse, e il presidente della Repubblica proponesse un governo istituzionale che faccia alcune cose anche con il Pdl, non mi vergognerei di questo... Il Pd non stia a guardarsi l´ombelico». Gentiloni osserva che «un governo a bassa intensità politica», voluto cioè dal capo dello Stato, potrebbe godere di una maggioranza ampia e senza preclusioni.
Dopo il niet dei grillini a Bersani e il niet di Bersani a Berlusconi, la strada del centrosinistra senza maggioranza al Senato è un´arrampicata. Enrico Letta, il vice segretario, sfogandosi alla fine dell´ennesima riunione, ha detto: «Do la possibilità di successo e quella di insuccesso entrambe al 50 per cento». Nichi Vendola ha puntato tutto su Bersani con cui condivide la scommessa di un governo di cambiamento: «Ha la saggezza e il coraggio necessari a dare al paese una bussola e una rotta», lo incoraggia. Gli spiragli di dialogo con la destra sono solo su una piattaforma di riforme dello Stato. «Se questa è una crisi di sistema, bisogna fare riforme di sistema», è fiducioso Daniele Marantelli, ufficiale di collegamento con la Lega, ruolo che in questa fase nega di svolgere. Fassina precisa: «Il coinvolgimento del Pdl sul terreno delle riforme è fisiologico ma per quanto riguardo il governo è incompatibile. La Lega? Conosce la cultura autonomista di Bersani. Comunque la strada di Pierluigi è stretta ma non impercorribile».

Repubblica 23.3.13
Grillo: "Niente fiducia, si accorderanno Pd-Pdl"
Berlusconi sente già aria di successo "Gli otto punti del Pd simili ai nostri"
A Roma anche la manifestazione di Micromega per l´ineleggibilità del Cavaliere
di Carmelo Lopapa


ROMA - Il Pdl la sua fiducia l´ha già votata. A Napolitano. «Siamo nelle sue mani e siamo in perfetta sintonia col presidente, vedrete che non consentirà a Bersani di dar vita a un governo di minoranza» sono le parole con cui Berlusconi ha rassicurato i dirigenti del partito sentiti in rotazione in serata dopo l´incarico «condizionato» al segretario Pd. Una mossa che il leader considera «scontata, un atto dovuto», ma non risolutiva per la crisi.
Alla vigilia della manifestazione con la quale il Cavaliere sogna di portare in Piazza del Popolo a Roma almeno 200 mila da tutta Italia, Berlusconi predica cautela. E continuerà a predicarla all´ufficio di presidenza del partito convocato per mezzogiorno a Palazzo Grazioli, tre ore prima della kermesse. È convinto che da qui alla prossima settimana i giochi per il Pdl si riapriranno, in un modo o in un altro. O sarà il segretario Pd a chiamarli in causa o lo farà un altro premier incaricato dal capo dello Stato. In alternativa, «si andrà dritti al voto». A Bersani, il concetto sarà ribadito quando lunedì o martedì saranno ricevuti dal premier incaricato e forse andrà lo stesso Berlusconi. «Ribadiremo il senso di massima responsabile che coltiviamo nell´interesse del Paese» spiega il portavoce Paolo Bonaiuti.
Nell´attesa, la piazza di oggi pomeriggio diventa sì una prova di forza di chi è in campagna elettorale perenne. Ma cambiano toni e temi. Niente aggressione ai giudici. «Sarà una grande festa di popolo - annuncia Maurizio Lupi - Certo, noi siamo sempre pronti al voto, se non ci saranno le condizioni per altro. E Bersani sbaglia se pensa di poter contare su singoli o sullo strappo della Lega, che resta salda al nostro fianco». Già ieri, sull´enorme palco montato ai piedi del Pincio, campeggiava lo slogan «Con Silvio, per una nuova Italia», anziché quello preventivato «Contro l´oppressione bruocratica, fiscale, giudiziaria». A Palazzo Grazioli si confida molto nel pronunciamento imminente della Cassazione sullo spostamento congiunto dei processi Ruby e Mediset a Brescia, come una certa soddisfazione ha generato il no del gip di Napoli al giudizio immediato sulla compravendita di senatori. Nella squadra del Cavaliere si parla ormai di «nuovo clima, anche grazie al Quirinale». Sta di fatto che quando in serata Silvio Berlusconi parla dagli schermi del Tg5 e del Tg2, appare lontano dal «Caimano» dei giorni addietro. Annuncia che la manifestazione di oggi rivendicherà tra l´altro una riforma della giustizia che non consenta «ai magistrati ideologizzati e politicizzati di giudicare gli eletti considerati da loro come nemici politici». Ma oltre non si spinge.
«Abbiamo fiducia nella saggezza del capo dello Stato, che con l´incarico a Bersani ha agito nel rispetto scrupoloso della Costituzione» dice in tv. «Senza un coinvolgimento della nostra parte politica non gli sarà possibile creare una maggioranza: sarebbe un danno grave se Bersani insistesse su una strada sbagliata, così non avremmo un governo, ma un salto nel buio». Sostiene perfino che gli otto «punti proposti da Bersani», non sono dissimili ma anzi «sovrapponibili» ai loro. Chiaro che un accordo, nell´ottica del Cavaliere, dovrà accompagnarsi a un coinvolgimento sulla scelta capo dello Stato. Berlusconi continua a preferire la conferma di Napolitano. Anche se dal partito continuano a far filtrare le alternative di Amato e Letta.
Nelle stesse ore in cui il popolo Pdl sarà «Con Silvio», a un paio di km di distanza, a Piazza Santi Apostoli (e in altre piazze d´Italia), la manifestazione promossa da Micromega a sostegno dell´appello che ha superato le 230 mila adesioni per dichiarare Berlusconi ineleggibile al senato.

l’Unità 23.3.13
La manifestazione di Micromega fa risorgere Italia dei valori e Prc
A Roma per l’ineleggibilità del Cav
Di Pietro: «Basta con la giustizia a uso e consumo dei politici»
In piazza distribuite copie della Costituzione fornite dal capogruppo Pd Zanda
di Caterina Lupi


Italia dei Valori e Rifondazione comunista e lo stesso Antonio Ingroia, in ordine sparso, aderiscono alla manifestazione nata dall’appello della rivista Micromega sull’ineleggibilità di Berlusconi.
La rivista di Paolo Flores d’Arcais dopo aver raccolto oltre 230mila firme ha promosso e organizzato, finora in autonomia, tutta una serie di presidi e iniziative che si svolgeranno questo sabato. Nella capitale ci sarà la più grossa e significativa anche perché in contemporanea con quella del Pdl contro «lo strapotere della magistratura». Di Pietro fa sapere che oggi i suoi saranno non solo a Roma, ma anche in tutte le altre piazze italiane, «per far sentire anche la nostra voce, insieme a quella di tanti altri cittadini onesti che chiedono rispetto per la democrazia e per i principi stabiliti dalla nostra Carta». Lo scrive sulla sua pagina Facebook il presidente dell’Italia dei Valori.
In realtà i partiti rimasti esclusi dal Parlamento dopo aver sventolato la bandiera della legalità e della lotta alla mafia con Ingroia non sono proprio i benvenuti. Si teme che possano ancora una volta impadronirsi e «mettere il cappello» sul movimento, come è stato sotto elezioni per le proposte lanciate da intellettuali e associazioni riuniti intorno alla piattaforma Cambiare Si Può, con esiti per altro rovinosi.
«L’Idv, che sul tema dell’ineleggibilità di Berlusconi ha anche inviato un esposto al presidente del Senato Pietro Grasso e alla Giunta delle elezioni ribadisce ancora Di Pietro continuerà a portare avanti questa battaglia per ristabilire la legalità nel nostro Paese. In questi anni abbiamo assistito troppe volte allo spettacolo indegno di politici che hanno usato la giustizia a proprio uso e consumo. È il momento di dire basta». Ma il blogger viola Gianfranco Mascia, tra i promotori dell’iniziativa che si tiene oggi pomeriggio dalle 17 a Roma in piazza Santi Apostoli, fa notare che al momento mentre «tutto è pronto per la Festa della Legalità», così si chiama la manifestazione è stata «completamente autofinanziata» e organizzata dal costituendo Comitato 23 marzo che, «senza sigle di partito, vuole ribadire nella piazze italiane la difesa della Costituzione e della legalità».
«A Roma spiega ancora Mascia l’iniziativa sarà condotta da Moni Ovadia e sul palco alcune personalità del mondo della cultura e dello spettacolo si alterneranno con i cittadini nella lettura degli articoli della Costituzione che ciascuno vorrà “adottare”». All’iniziativa parteciperanno anche il gruppo teatrale Voci nel Deserto (che leggerà alcuni testi di Calamandrei, Marco Tullio Cicerone e altri autori) e Andrea Rivera. La manifestazione sarà, «come tutte le manifestazioni autorganizzate dai cittadini in questi anni», «assolutamente spartana ed essenziale». Le poche spese per il noleggio del camion-palco e qualche manifesto saranno coperte con la vendita delle magliette (con la vignetta che Vauro ha voluto regalare ai cittadini) e con la raccolta fondi che si realizzerà in piazza con tre scatole preparate dal Comitato 23 marzo. Durante l’iniziativa verranno anche distribuite copie della Costituzione che sono state messe a disposizione dal capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda, il quale appena ricevuto l’incarico ha voluto chiarire che in caso di votazione lui si esprimerebbe a sostegno dell’ineleggibilità di Berlusconi. Tra le adesioni democratiche quella di Vincenzo Vita. Mascia ha voluto sottolineare la grande differenza con lo spreco di risorse e di mezzi che si vedrà nell’opulenta manifestazione che Berlusconi sta preparando in un’altra piazza romana «sfruttando il finanziamento pubblico ai partiti».
A Milano si svolgerà un’analoga manifestazione in Largo Cairoli. A Genova l’appuntamento è sotto la Prefettura in via Roma alle 17. A Palermo ci sarà un presidio sotto Palazzo di Giustizia alle dieci del mattino.

Repubblica 23.3.13
"Trattiamo sul Quirinale poi con le tattiche d´aula faremo vivere il governo"
Calderoli: la Lega potrebbe uscire quando si vota
Il prossimo presidente della Repubblica deve essere un garante, una persona moderata, non più di sinistra
di Alberto D’Argenio


ROMA - Per il leghista Roberto Calderoli un governo Bersani può nascere, ma a determinate condizioni. La prima è che ci sia un accordo con il Carroccio e con Berlusconi sull´elezione del prossimo presidente della Repubblica. «Che deve essere terzo, non di sinistra». E poi basta a chi vuole escludere il Cavaliere dal Parlamento proclamandone l´ineleggibilità.
Senatore, come vi ponete rispetto all´incarico a Bersani?
«La decisione del presidente Napolitano è stata ineccepibile e da parte nostra non c´è alcuna pregiudiziale sulla sua persona. Ma due cose devono essere chiare. Primo: la Lega non prende alcuna decisione in disaccordo con il Pdl. Secondo: non c´è nessun margine per un governo Pd-Lega-Monti».
Dunque a Bersani restano solo i grillini?
«Diciamo che Bersani ha provato a portare fuori la ragazza ma questa gli ha sempre detto di no, gli ha messo le corna e si è fatta pure offrire delle cene senza chiederle. E poi si è messa a dire che non bastava ancora. Veda lei se Bersani può sperarci ancora».
Dunque non ha possibilità, per lui è finita.
«No, ci possono essere decisioni e strade diverse».
Si spieghi meglio.
«La scelta del prossimo presidente della Repubblica non è marginale, deve essere una persona moderata e non più di sinistra. Se siamo d´accordo su questo si può aprire un dialogo con noi e con il Pdl. Individuiamo una figura moderata da mandare al Quirinale e poi parliamo di governo. Ovviamente a quel punto dovremo anche confrontarci sui contenuti».
Ovvero?
«Dobbiamo parlare di come far arrivare le famiglie a fine mese e non far chiudere le imprese. Ci sono poi gli esodati e gli aspetti strutturali del Paese che saggiamente sono stati ricordati da Napolitano. Se invece il problema dell´Italia è far decadere Berlusconi da parlamentare allora siamo di fronte a gente che non fa l´interesse del Paese. Diciamo che mi auguro si torni alla saggezza di Berlinguer».
Se Bersani aprisse su questi punti la Lega sarebbe disponibile a votargli la fiducia? E visto che un accordo Pd-Pdl sembra difficile, potreste farlo da soli senza i berlusconiani?
«So che è un pallino di voi giornalisti, ma affrontare questo tema da un punto di vista tecnico è un errore. Questi sono aspetti marginali che se ci sono le premesse e i contenuti risolvo in quindici secondi».
Se è così facile ci dica come.
«Guardi, io parlo di cose che devono essere decise insieme nella nostra coalizione ma, per fare un esempio, ci potrebbe essere una condotta d´aula differenziata e concordata tra noi e il Pdl. Sempre per fare esempi, potrebbe starci che uno vota sì e l´altro esce dall´aula. Ma ci sono altre soluzioni ed è troppo presto per addentrarci in questo discorso visto che dobbiamo ancora salire una scala lunghissima della quale Napolitano ha costruito il primo gradino».
Qual è il prossimo passo?
«Aspettiamo con interesse l´incontro con Bersani per sentire cosa a ha da dire a noi e al Pdl. Napolitano per mandarlo in Parlamento vorrà anche nome e cognome di chi lo voterà in Senato. Riempiamo di contenuti il discorso e le previsioni diventeranno cose concrete, ma è chiaro che linea sarà condivisa con il Pdl perché siamo la coalizione che ha quasi vinto le politiche, ha stravinto le regionali e nei sondaggi sta andando molto bene. Detto questo, non siamo favorevoli a un ritorno alle urne anche se non ne abbiamo paura. I sondaggi ci danno la maggioranza alla Camera e al Senato prenderemmo sei senatori in più. Ma poi cosa cambierebbe? Nulla! Diciamo che ora il cerino Napolitano lo ha passato a Bersani e non mi dispiace che sia lui ad averlo e non noi».
E se Bersani non ce la fa?
«Ci vuole un nuovo tentativo istituzionale, puoi spaziare tra vari nomi ma l´importante è trovare la persona che a prescindere dal ruolo e dalla carica che ricopre abbia le caratteristiche per raccogliere la maggioranza più ampia possibile».
A chi pensa?
«La persona più indicata sarebbe lo stesso Napolitano. Certo, per farlo premier è necessario che la politica dimostri di avere capito gli errori del passato e tracci un percorso chiaro che passerebbe anche dalle dimissioni anticipate del Capo dello Stato. Diciamo che si dovrebbe organizzare tutto per bene...».

l’Unità 23.3.13
Cittadinanza ai bimbi stranieri, ecco la legge
di Alessandra Rubenni


ROMA Il «diritto di sangue» lasci il posto allo ius soli: nell’Italia che viene, il diritto alla cittadinanza non spetterà solo ai bambini che nascono da padre o madre italiana, ma anche a quelli che vengono alla luce da genitori stranieri, di cui almeno uno risieda sul territorio nazionale in modo regolare da almeno cinque anni. Così come potrà essere riconosciuta ai piccoli che nel nostro Paese sono arrivati prima di compiere dieci anni, per poi restarci, crescere e studiare. La grande battaglia per i «nuovi italiani», battaglia di civiltà di cui il Pd ha fatto la sua bandiera, approda in Parlamento con una proposta di legge già depositata, a firma Bersani, Chaouki, Speranza e Kyenge. Un testo che nasce per dare stessi diritti a bambini che a scuola sono compagni di scuola degli
italiani, ma che per la normativa vigente fino a oggi a loro non sono stati uguali, costretti ad aspettare i diciotto anni per imbarcarsi nell’iter necessario all’ottenimento della cittadinanza, ammesso che si riescano a superare le non poche difficoltà. In tutta la vita, soli 12 mesi per tentare l’impresa, a patto di poter dimostrare di aver vissuto ininterrottamente sul territorio italiano per 18 anni, senza mai un’interruzione, e sempre a patto che per tutti questi anni i genitori non si siano mai trovati in condizione di clandestinità, neanche per un brevissimo lasso di tempo.
«Noi abbiamo il compito di dare una svolta culturale all’Italia e io penso che questa debba partire dalla riforma della legge sulla cittadinanza. Il Parlamenanto adesso ha la possibilità di dare risposta alle esigenze di una società di cui fanno parte un milione di figli di immigrati. E noi ci rivogliamo ai giovani neoeletti di tutti gli schieramenti affinché questa sia una riforma condivisa», è l’auspicio di Khalid Chaoukii, neoparlamentare e responsabile dei Nuovi italiani del Pd, impegnato da anni su questo fronte.
Secondo la proposta Pd, si ampliano quindi i requisiti per ottenere la cittadinanza, che potrà essere riconosciuta anche a bambini con genitori stranieri di cui almeno uno sia nato in Italia oppure che qui viva regolarmente da almeno 5 anni prima della nascita del figlio, o per i minori entrati in Italia prima dei 10 anni di età, e che qui abbia compiuto un ciclo di studi o formazione professionale. Un tetto, quello dei 10 anni, fissato per evitare che col miraggio della cittadinanza dei minori stranieri abbastanza grandi da poter affrontare il viaggio senza genitori, siano spediti «clandestinamente» nel nostro Paese.

l’Unità 23.3.13
Fisco scandalo: dipendenti più «ricchi» dei padroni
Metà dei contribuenti italiani dichiara un reddito Irpef inferiore ai 15.723 euro annui
di Luigina Venturelli


Al netto dell’immenso ammontare di denaro che l’evasione fiscale sottrae alle classifiche ufficiali, l’Italia si mostra comunque per quello che è, benchè in misura minore: un Paese dalle diseguaglianze sociali sempre più accentuate. Questo emerge dalle statistiche diffuse da Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia sulle dichiarazioni dei redditi Irpef 2011, vale a dire sull’imposta sulle persone fisiche che contribuisce maggiormente (quasi il 40%) alle entrate tributarie dello Stato italiano. A fronte di un reddito complessivo nazionale dichiarato è pari 805 miliardi di euro, e di un reddito medio è pari a 19.655 euro (in aumento sul 2010 rispet-
tivamente dell’1,5% e del 2,1%) colpisce la sproporzione tra i più ricchi rispetto ai più poveri.
LE DISPARITÀ DI REDDITO
Il 5% dei contribuenti con i redditi più alti, infatti, detiene il 22,9% del reddito complessivo, ossia una quota maggiore a quella detenuta dal 55% dei contribuenti con i redditi più bassi.
Sono circa 28mila dunque ben pochi su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti i contribuenti paperoni che dichiarano in media un reddito maggiore di 300mila euro l’anno e che sono sottoposti al contributo di solidarietà del 3%. Un contributo che vale 260 milioni di euro, in media 9mila euro a testa. Sono poi 100mila i cittadini italiani che hanno dichiarato immobili situati all’estero per un valore di circa 21 miliardi di euro, e 71mila quelli che hanno dichiarato attività finanziarie fuori dai confini nazionali, per un ammontare di 18,5 miliardi, tassati con una nuova specifica imposta Ivafe.
Sul versante opposto, circa 9,7 milioni di contribuenti hanno un’imposta netta Irpef pari a zero, perchè dichiarano «livelli reddituali compresi nelle soglie di esenzione», oppure, spiega il ministero dell’Economia, perchè «la loro imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni riconosciute dal nostro ordinamento». La metà dei contribuenti italiani, infatti, non supera il reddito di 15.723 euro, mentre le detrazioni ammontano a oltre 62 miliardi di euro, il 94% delle quali è composto da carichi di famiglia (18,2%), redditi da lavoro dipendente e pensione (67,1%) e oneri detraibili al 19% (8,5%).
Ad avere il reddito medio più elevato sono i lavoratori autonomi, pari a 42.280 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 18.844 euro. Molto meno del reddito medio pari a 20.020 euro dichiarato dai lavoratori dipendenti, con una curiosa inversione di ruoli che forse la suddetta evasione fiscale può chiarire. Quello dei pensionati, invece, ammonta a 15.520 euro e il reddito da partecipazione è pari a 16.670 euro.
La regione più ricca si conferma la Lombardia (23.210 euro di reddito medio), seguita dal Lazio (22.160 euro), e la Calabria la più povera (14.230 euro). Nel 2011, infatti, si è registrato un ulteriore allargamento del divario tra Nord e Sud rispetto al 2010, grazie ad una crescita superiore del reddito complessivo medio nelle regioni settentrionali rispetto al resto del Paese, con incrementi che variano da un massimo del 2,2% al nord-ovest ad un minimo dell’1,0% nelle isole. Dati che fanno il paio con quelli diffusi pochi giorni fa dal Censis, che constatavano come nel Mezzogiorno i livelli di Pil pro-capite siano inferiori a quelli della Grecia travolta dalla crisi: 17.957 euro conto i 18.454 euro ellenici.

Repubblica 23.3.13
"Oltre quattro milioni di poveri assoluti"
di Luca Pagni


CERNOBBIO - Altro che luce in fondo al tunnel: anche nel 2013 le condizioni economiche nel nostro Paese sono destinate a peggiorare. Con i nuovi poveri che hanno superato la cifra record di quattro milioni e dove ogni 100 persone soltanto 38 lavorano, contro i 42 della Francia e i 49 della Germania, anche se con un carico di ore superiori al resto d´Europa. Una situazione drammatica al punto che il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi ha incitato il governo uscente ad aver più coraggio e approvare in fretta il provvedimento che sblocca i debiti delle pubbliche amministrazioni: «Ci aspettavamo di più sull´entità del rimborso e sulla rapidità del provvedimento: si tratta di un problema che un paese civile come l´Italia non può più tollerare».
A raccontare la coda lunga della recessione, giunta al suo sesto anno, ci ha pensato ieri la Confcommercio: «Abbiamo alle spalle il peggior anno dell´Italia repubblicana in termini di caduta dei consumi, con tutte le variabili economiche in peggioramento dal 2007. Ma non possiamo essere ottimisti: siamo di fronte a meno occupazione, produzione stagnante e pressione fiscale particolarmente elevata: il che implica consumi destinati a scendere ancora» dice Mariano Bella, direttore dell´ufficio studi dell´associazione imprenditoriale con più iscritti in Italia, per forza di cose terrorizzata dal fatto che gli italiani entrino sempre meno nei negozi o nei centri commerciali. «Abbiamo rivisto le nostre previsioni di calo del Pil da -0,8% a -1,7%, il che porta la riduzione del Prodotto interno lordo a partire dal 2007 alla fine di quest´anno al 10,7%. A fronte di un reddito calante, la flessione dei consumi sarà del 2,4% anche nel 2013 contro un -0,9% della precedente previsione». Non solo: nemmeno la ripresa prevista per il 2014 può indurre all´ottimismo, visto che «sarà insufficiente a far recuperare al paese quanto perduto nel corso del 2013». Per riassumere il tutto in una cifra, il calo dei consumi a partire dal 2007, pari al 9,7%, si traduce in una minor spesa di 1.700 euro pro-capite. Tutto questo ha ripercussioni sociali allarmanti. Per misurarlo Confcommercio si è inventato il Misery Index, che mette insieme tutti i parametri legati alla perdita del lavoro e all´inflazione. Risultato: le persone "assolutamente povere" diventeranno oltre 4 milioni nel 2013 contro i 3,5 milioni certificati dall´Istat nel 2013. In sostanza, dal 2006 la crisi ha creato 615 nuovi poveri al giorno. Si capisce ancora meglio, alla luce di questi dati la «delusione» del presidente degli industriali. «Ci aspettavamo che il governo varasse il provvedimento per il pagamento di 48 miliardi alle imprese, che secondo i nostri calcoli porterebbe alla creazione di 250mila posti di lavoro in cinque anni. Invece li ha divisi in due anni». Da Cernobbio gli ha dato manforte il presidente dell´Abi, Antonio Patuelli: «Abbiamo bisogno di provvedimenti urgenti per le imprese e le famiglie, mi auguro che il governo abbia pensato a una procedura accelerata».

l’Unità 23.3.13
Le cittadine si ribellano al Beppe «maschilista»
Un vecchio post di Grillo sugli stupri rispunta in Rete
In poche ore oltre 2000 commenti. Scoppia una polemica durissima tra elettori ed elettrici
di Daniela Amenta


Nel loro piccolo anche le cittadine non elette si incazzano. Tutta colpa di un vecchio post di Beppe Grillo spuntato dal pozzo nero della Rete e datato agosto 2006. Tra il serio, il faceto e il talebano il leader Cinque Stelle commentava sul suo blog «Il nuovo femminismo» e la tragedia dello stupro come in un monologo ilare da portare a teatro. Solo che ieri come oggi non c’è niente da ridere. Così, seppur con scoppio ritardato, si è scatenata la polemica.
Vediamo cosa scriveva Grillo nell’agosto di sette anni fa: «Per risolvere il problema delle penetrazioni moleste va introdotta la segregazione razziale. Autobus, scuole, taxi, bar, ristoranti rosa. Un mondo rosa. Per donne e gestito da donne. Il burka per legge e il velo solo dopo gli ottant’anni. Odoranti nauseabondi per le più attraenti. L’automutilazione dei seni è un buon rimedio, se si vuole andare sul sicuro c’è l’espianto dell’organo. Misure che devono essere attuate però nel massimo riserbo. Senza manifestazioni di protesta per eventuali stupri per far valere i propri diritti.
Senza cortei, petizioni, raccolte di firme. Esattamente come le donne fanno adesso. Forse, perché, in fondo in fondo, ci stanno».
Ecco, la chiusura è forse il passaggio peggiore del post, alias Grillo-pensiero. In poche ore oltre duemila commenti. Quasi perfettamente suddivisi secondo il genere. Molti cittadini maschi non eletti giustificano infatti la provocazione: taluni con bonaria pazienza come se si rivolgessero alle alunne di una classa differenziale, talaltra con piglio più spiccio. «Solo un paradosso per dire alle donne di svegliarsi, possibile siate ritardate?». Qualcuno addirittura si spinge a citare Jonathan Swift , l’autore de I viaggi di Gulliver, che nell’opera satirica Una modesta proposta suggeriva di usare i bambini poveri irlandesi come cibo per i ricchi, fornendo anche ricette per poterli apprezzare al meglio. Qualcun altro, tra fomento e paranoia, instilla dubbi: «Siete certi che a scrivere sia stato Beppe?».
Fu vera ironia quella di Grillo? A detta delle lettrici/commentatrici/cittadine parrebbe proprio di no. Maria ad esempio non ha dubbi: «Beppe, ti sostengo e condivido le tue idee, ma a volte proprio non ti capisco... o, meglio, capisco che un uomo debba essere molto frustrato all'idea di non essere una donna, non fosse altro che per la capacità di donare la vita. Sulla capacità poi di educare chi mettiamo al mondo al rispetto delle donne, beh, amiche mie, mi rivolgo a voi, ancora ci dobbiamo lavorare molto. E discorsi del genere lo dimostrano ampiamente...(Spero solo sia una provocazione...)».
Replica il cittadino Giorgio con un colpo al testosterone quasi più paradossale del post di Grillo: «Il Femminismo ha avuto la sua importanza storica, ma è stato altresì una delle cause di questa crisi, diventando un'ideologia vera e propria, e come tale, fomentatrice di rabbia e odio».
Apriti cielo. Durissima Cinzia: «Caro Grillo, con questo post ogni residua simpatia nei tuoi confronti è totalmente esaurita, tra te e lo psiconano, nei riguardi delle donne, nessuna differenza». Loredana invece tenta la mediazione: «Credo che tu non pensi veramente ciò che hai detto, ti stimo troppo per pensarlo. Ti ho votato e lo rifarei ma, ti prego, fai capire alle donne che non ammetti lo stupro, che lo condanni, senza ironia né battute, sono cose troppo serie. Ti auguro di riuscire in tutto ciò che ti sei proposto e continuare a lottare per tutti noi!».
Nel marasma di commenti, tra insulti e troll, a un certo punto spunta il cittadino Mario che, vagamente sgomento, prova a fare una sintesi: «Certo quelle di Beppe sono provocazioni! Però se ci offrisse qualche spunto per capire le strategie che ci stanno dietro gli saremmo molto grati! Ho la sensazione a volte che siamo qui a difendere a prescindere una posizione che è come una palla che rimbalza a volte fuori dal seminato e va a finire in un giardino che non conosciamo. Ma dobbiamo dire che è giusto che sia finita lì altrimenti sputtaniamo il Movimento. Beppe, noi siamo sempre con te, ma aiutaci a capirti! Non so se ne siamo all'altezza ma qual è la ragione per andare a toccare certi temi adesso?»
Aiutaci a capirti. Sempre per citare Swift, sembra la metafora del capitolo di Gulliver nell’isola dei Lillipuziani. In questo caso va a capire però chi sia quello alto.

Corriere 23.3.13
Deputati e vincolo di mandato. Una difesa dell’Articolo 67
risponde Sergio Romano


Scrivo a proposito della sua risposta sull'art. 67 della Costituzione. È vero che l'abolizione del mandato imperativo fu accolta dai rivoluzionari del 1789 in contrapposizione con le pratiche dell'Ancien Régime, successivamente però il principio opposto divenne bandiera della sinistra. Già Robespierre avanzò la proposta, respinta però dalla Convenzione. Ancora più radicale fu la Comune di Parigi nel 1870. Agli occhi dei Comunardi occorreva instaurare un mandato imperativo preciso, la sorveglianza costante degli eletti da parte degli elettori e la possibilità per questi di revocare i primi. Il principio fu poi inserito in quasi tutte le costituzioni dei paesi comunisti anche se poi, come sappiamo, in quei sistemi decideva il Partito unico. La possibilità di richiamare l'eletto esiste anche in alcuni Stati degli Usa (il cosiddetto «recall») anche se le difficoltà della procedura sono tali da rende l'istituto praticamente inapplicabile. Ci fu comunque un tentativo degno di essere segnalato. Accadde nel Wisconsin contro il senatore MacCarthy, famoso per la sua caccia al comunista. Furono raccolte le centinaia di migliaia di firme necessarie ma ne furono invalidate un numero sufficiente (alcune decine di migliaia) per annullare l'intero procedimento.
Stefano Pizzorno

Caro Pizzorno,
Grazie alla sua lettera, molto interessante, riprendo un tema che continua a suscitare l'attenzione dei lettori. Molti di essi non sono stati convinti da una mia precedente risposta (Corriere del 7 marzo) e continuano a pensare che l'art. 67 della Costituzione («Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita la sue funzioni senza vincolo di mandato») sia responsabile di tutti i cambiamenti di casacca e passaggi di campo degli ultimi vent'anni.
Per meglio capire la logica dell'art. 67, tuttavia, occorre tornare al clima politico del dopoguerra. I costituenti vollero l'abolizione del mandato imperativo proprio mentre l'Italia si preparava a uscire da un lungo periodo, dopo la fine del primo governo Badoglio, in cui il Paese era stato governato, di fatto, da un organo partitocratico (il Comitato di liberazione nazionale) in cui erano rappresentati i maggiori partiti antifascisti. In una tesi di dottorato, discussa qualche anno fa alla Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Roma, il candidato Stefano Duranti osserva che l'art. 67 sembra quindi essere in contraddizione con la realtà politica dell'Italia dopo il crollo del fascismo. È possibile, ma lo stesso Duranti osserva che negli anni seguenti, quando l'eccessiva presenza dei partiti nel sistema politico fu percepita come uno dei principali fattori negativi del sistema nazionale, l'art. 67 divenne agli occhi di molti una provvidenziale clausola di salvaguardia. In un momento in cui i partiti stavano diventando più importanti delle pubbliche istituzioni era utile che il candidato conservasse il diritto di rivendicare la propria libertà di opinione e di scelta.
Oggi, invece, assistiamo al fenomeno opposto. Mentre i partiti (con l'eccezione del Pd) diventano sempre di più associazioni elettorali e i raggruppamenti formati in vista delle elezioni sono sempre viziati da molte divergenze interne, si vorrebbe che il parlamentare si attenesse agli ordini della scuderia. Coloro che desiderano l'abolizione dell'art. 67 potrebbero obiettare: «Non siamo ostili alla libertà di scelta del singolo parlamentare. Siamo indignati dalla spudorata compravendita di deputati e senatori a cui abbiamo assistito negli scorsi anni». D'accordo. Ma l'abolizione, in questo momento, offrirebbe a certi leader, fra cui Beppe Grillo, un argomento in più per pretendere un'obbedienza cieca e assoluta. Dopo quanto è accaduto al Senato allorché alcuni grillini hanno osato votare per Pietro Gasso alla presidenza della Camera alta, siamo sicuri che una tale prospettiva, in questo momento, giovi alla politica italiana?

Corriere 23.3.13
Non ci sono diritti senza ricchezza
A proposito del discorso inaugurale di Laura Boldrini alla Camera
di Piero Ostellino


Laura Boldrini ha detto, nel discorso inaugurale della (sua) presidenza della Camera, che «non c'è sviluppo senza diritti… non c'è ricchezza senza diritti». Ma, alla luce dell'esperienza (i fatti) e di elementari principi economici, poiché i diritti (sociali) costano, e qualcuno che li paghi deve pur esserci, i due fattori, in un sistema capitalista e di mercato, sono, in realtà, invertiti: «Non ci sono diritti senza sviluppo… non ci sono diritti senza (produzione di) ricchezza». Si guardi all'Italia d'oggi, dove la disoccupazione è il prezzo che gli italiani meno fortunati pagano all'assenza di sviluppo e di crescita. Tale assenza vanifica il «diritto al lavoro», sancito da una Costituzione che cerca di conciliare la domanda e l'offerta di lavoro, in un regime capitalista e di mercato, con la piena occupazione di una società «autarchica». La piena occupazione o è utopica o è l'imposizione forzosa di una condizione irrealistica e costosa ad una società condannata alla povertà generalizzata (Churchill, sul socialismo)…
Ad interpretare le parole di Laura Boldrini per quello che sottendono, il suo discorso dei «diritti condizione dello sviluppo» rischia, dunque, di annegare nell'eterogenesi dei fini — le buone intenzioni di cui è lastricata la strada dell'inferno — che è, poi, la condanna cui va inesorabilmente incontro la sinistra quando impone l'egualitarismo sociale. Il primo rischio è che i beneficiari di tali diritti — «prima» ma, in definiva, «senza» sviluppo — sarebbero i sudditi che vivrebbero della carità di uno Stato (solo) distributore di risorse. Ciò che non ha ancora capito la sinistra è che sviluppo, ricchezza e lavoro non li produce lo Stato, ma la società civile lasciata libera di esprimere le proprie potenzialità. Il secondo rischio è che a beneficiare di una organizzazione sociale fondata, peraltro solo apparentemente, sui diritti sarebbe una nomenklatura, formalmente rappresentante di una (sola) classe sociale in un regime di illibertà civili, politiche e sociali.
La cosa più importante che non ha ancora capito la sinistra è che l'egualitarismo, non (solo) di fronte alla legge (del pensiero liberale), ma (anche) sociale (del pensiero socialista), porta alla negazione della democrazia. Il terzo rischio è che sia l'auspicio di un ritorno al mito del «buon selvaggio» di Jean-Jacques Rousseau, grande oppositore della nascita dello spirito borghese, progenitore del capitalismo e del mercato, cioè della Modernità. Rousseau era il sostenitore di una «società chiusa», analoga all'Antico Regime, nella quale il cittadino sarebbe stato assoggettato ad una parvenza di democrazia compiuta, la (totalizzante) «volontà generale». Temo che Laura Boldrini non abbia capito che non ci si candida, in democrazia liberale e contro il principio di realtà, «per un progetto nuovo di società», ma per migliorare (riformare) la (perfettibile) «società aperta», per ora, la sola di cui disponiamo. Se no, sono guai, malgrado le (sue) buone e oneste intenzioni, alle quali persino Marx obbietterebbe di non essere marxista…

l’Unità 23.3.13
Pedofilia, 9 anni per don Seppia
di Pino Stoppon


GENOVA I giudici della Corte d’appello di Genova hanno confermato la condanna a 9 anni, sei mesi e 20 giorni di reclusione di carcere per Don Riccardo Seppia, l’ex parroco di Sestri Ponente accusato di violenza sessuale su minore, tentata induzione alla prostituzione minorile, offerte plurime di droga e cessione di cocaina. È stata invece ridotta da 5 anni a 4 anni e 8 mesi la pena per l’ex seminarista Emanuele Alfano, che era accusato di induzione alla prostituzione minorile. «Ricorreremo in Cassazione», annuncia l’avvocato dell’ex parroco, Paolo Bonanni. «La Corte sostiene il legale ha attribuito una valenza sessuale a gesti (nei confronti di un chierichetto 15enne, ndr) che in realtà erano pacifici». Don Seppia è stato condannato anche per tentata induzione alla prostituzione minorile nei riguardi di un 17enne albanese, e per offerta di stupefacente a vari soggetti, maggiorenni. «L'appello conclude Bonanni è stato centrato sull'interpretazione dei fatti, c'è ampio spazio per ricorrere in Cassazione». Nella penultima udienza l’ex parroco, che è detenuto nella sezione «sex offenders» del carcere di Sanremo, aveva chiesto perdono per il suo comportamento ma aveva detto di non aver concretamente attuato le fantasie oggetto dei messaggi e delle telefonate intercettate. L’inchiesta era partita da Milano dove i carabinieri stavano indagando su un giro di droga spacciata nelle palestre e saune frequentate in particolare da omosessuali. A inchiodare l’ex parroco vi furono le testimonianze di alcuni ragazzini, tra i quali un chierichetto quindicenne che aveva raccontato di aver subito, in sacrestia, le «attenzioni particolari» del sacerdote mai sconfinate, però, in atti sessuali veri e propri. E poi ci furono le intercettazioni e gli sms, oltre alle chiamate con l’amico ed ex seminarista Emanuele Alfano, anche lui arrestato nell’ambito della stessa inchiesta, al quale confidava le sue fantasie sessuali con i ragazzini. Il prete era stato poi condannato in primo grado il 3 maggio 2012.

il Fatto 23.3.13
Palermo, catechista arrestato per pedofilia


A POCO più di un anno di distanza è finito di nuovo agli arresti domiciliari e per lo stesso reato: pedofilia. Ieri mattina Salvatore Lombardo, insegnante catechista di 40 anni e supplente in una scuola materna, si è visto notificare dalla polizia una nuova ordinanza di custodia cautelare. Già nel gennaio 2012 alcuni ragazzini di una comunità avevano raccontato agli investigatori che il catechista li palpeggiava. Arrestato e poi rimesso in libertà, il parroco, don Liborio Scordato, aveva deciso di farlo tornare alle sue mansioni nel Santuario della Madonna ad Altavilla Milicia, vicino Palermo.
I presunti abusi riguardano quattro bambini al di sotto dei 14 anni, ospiti di una casa famiglia. Il catechista li avrebbe prima adescati su Facebook e poi circuiti con regali, denaro e ricariche telefoniche. Le violenze si sarebbero verificate in un locale vicino all’abitazione dell’indagato.

Repubblica 23.3.13
Meno battesimi, più divorzi cresce lo spread della laicità
Battesimi in calo, aumentano i divorzi così adesso l’Italia si scopre più laica
Negli ultimi vent’anni è cresciuto “l’indice di secolarizzazione"
Dal 1991 a oggi è diminuita anche la visibilità mediatica della Chiesa cattolica
di Michele Smargiassi


GLI Italiani seguono sempre meno la Chiesa. La Chiesa insegue sempre più gli italiani. In vent´anni, la distanza fra i comportamenti di massa e gli insegnamenti delle gerarchie si è allargata come un baratro. C´è un indice che ne misura lo spread, una sorta di Dow Jones del sentimento religioso, fondendo indicatori diversi: pratiche e riti, matrimoni e divorzi, vocazioni e donazioni.

Si chiama Indice di secolarizzazione e lo calcola ogni anno, da otto anni, un rapporto elaborato dall´Osservatorio Laico, sostenuto dalla Fondazione Critica Liberale assieme alla Cgil Nuovi Diritti. Bene, l´ultimissimo Rapporto dà un fixing a quota 1,38. Era pressoché zero nel 2001. Era sottozero, a quota -1,64, nel 1991.
Un numero astratto, che sintetizza però decine di tendenze reali. Non tutte lineari. Tant´è che nel 2010, ultimo anno di rilevazione, l´indice ha fatto un lieve passo indietro. Segno che la Chiesa italiana non se ne sta con le mani in mano, combatte la sua battaglia in qualche caso con efficacia. Se prendiamo i battesimi, atto di iscrizione del singolo alla comunità dei credenti, dal 1991 al 2010 se ne sono persi per strada uno su cinque, ossia quasi centomila. Va messo nel conto anche il calo delle nascite, certo, e qualcosa si recupera con l´apporto degli immigrati cattolici. Ma anche le prime comunioni sono calate del 20% in vent´anni (lieve recupero nell´ultimo anno). Ogni mille cattolici nel ´91 si contavano quasi dieci prime comunioni l´anno: ora, meno di otto.
Gli andamenti non sono però sempre lineari. Ci sono soste, controtendenze. Quelli tra il 2005 e il 2007, i primi del pontificato di Ratzinger, sembrano essere stati anni di recupero, o almeno di freno: separazioni in rallentamento (riprese poi con forza dal 2007), divorzi pressoché stabili a quota 54mila negli ultimi 3 anni (ma più che raddoppiati dal ´91), matrimoni religiosi meno rovinosamente in crisi (anzi, in lieve ripresa fra 2009 e 2010) anche se, nel 2011, si registra lo storico sorpasso delle nozze civili nel Nord Italia (51,7 contro 48,3%). La Chiesa, infatti, reagisce raddoppiando l´attivismo sociale. I "centri per la vita", nuova veste dei consultori familiari cattolici, sono quintuplicati in vent´anni, e la controffensiva alla legge 194 ottiene significative vittorie: gli ospedali pubblici in cui è possibile abortire sono calati di un quinto in vent´anni, con obiezioni di coscienza strategiche. A una deriva comportamentale, insomma, la Chiesa risponde con uno sforzo istituzionale. Può farlo grazie a risorse materiali che non sembrano affatto in crisi: benché le firme per l´8 per mille fossero in calo costante a metà del primo decennio, il gettito fiscale trasferito dallo Stato alla Chiesa è cresciuto esponenzialmente, superando il miliardo di euro nel 2010. Dato curioso, se si considera che invece le donazioni spontanee, in vent´anni, sono diminuite di un terzo.
Deve però arrangiarsi con risorse umane in calo: 8mila sacerdoti in meno di vent´anni fa. I seminari soffrono, invece è un vero boom di diaconi: triplicati. Ma anche questo è un paradossale segno di secolarizzazione: non soggetti a voti, i diaconi possono sentirsi uomini di Dio senza rinunciare alla famiglia. In queste condizioni, la mappa degli interventi viene rimodulata. La sorpresa è una certa stasi nell´educazione (scuole cattoliche ferme al 14% del totale, ma hanno perso ottantamila alunni in vent´anni) e una ricollocazione sul sostegno alla famiglia e l´assistenza agli anziani: l’invecchiamento della popolazione ha i suoi effetti anche nelle opere.
Infine, la Chiesa deve fronteggiare l´erosione del suo magistero sociale in un contesto di oscuramento mediatico. La sorpresa viene da un rapporto parallelo sulla presenza religiosa in tv: i tempi di schermo dedicati alla Chiesa cattolica (che la fa comunque da padrona col 92% di presenze) si sono contratti nel 2011, soprattutto nei telegiornali: da 10 a 8 ore sul Tg1, da 6 a 3 sul Tg2, da 8 a 5 sul Tg5, ma anche nei talk show (crollo del tema religioso a Porta a Porta, da 49 trasmissioni a 12).
Il dossier laico dà una spiegazione maliziosa: in anni di infortuni mediatici come lo scandalo pedofilia e le polemiche sull´Ici esentata, per il bene stesso delle gerarchie era il caso di mettere un po´ la sordina alle notizie sulla Chiesa. Un cordone mediatico-sanitario rimpiazzato da un flusso corposo di fiction "benedette", ben 268 puntate. Ma neanche le vite dei santi sembrano in grado, al momento, di invertire una tendenza di lungo periodo. La secolarizzazione lenta, a volte esitante ma progressiva del paese cardine del cattolicesimo è sul tavolo di papa Francesco.

l’Unità 23.3.13
Staminali, battaglia poco scientifica
di Cristiana Pulcinelli


OGGI IN ALCUNE PIAZZE DI PESARO e Fano è prevista una raccolta di firme per sostenere il metodo Stamina. A Roma a piazzale Ostiense ci dovrebbe essere una manifestazione con parola d’ordine «No al decreto anti-Stamina» e mercoledì 27 è previsto un sit-in a piazza Castellani, sempre a Roma. Sono notizie poco certe, girano su pagine facebook come quella che si chiama «Ministro Balduzzi aiuti la piccola Sofia» e vengono riprese da qualche giornale sul web. Ma fanno capire che le acque sono ancora agitate. Eppure, Sofia potrà proseguire la terapia laddove l’aveva cominciata, negli Spedali civici di Brescia, e con le cellule prodotte dalla Stamina, come chiedevano i genitori. Giovedì scorso, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato, su proposta del ministro della Salute, un decreto legge che «concede eccezionalmente la prosecuzione di trattamenti non conformi alla normativa vigente per i pazienti per i quali sono stati già avviati alla data di entrata in vigore del decreto, sempre con monitoraggio clinico». Attenzione alle parole: si sta dicendo che i trattamenti a cui Sofia è stata sottoposta non sono in regola con la legge. Perché allora possono venirle somministrati? «La norma si basa sul principio etico per cui un trattamento sanitario già avviato che non abbia dato gravi effetti collaterali non deve essere interrotto», ha aggiunto in una nota il ministro Renato Balduzzi. Il trattamento non le ha fatto male. Ma basta questo?
Sofia è la bambina di 3 anni e mezzo affetta da leucodistrofia metacromatica, una malattia neurodegenerativa per la quale non esistono terapie e che porta a una progressiva paralisi e alla cecità, la cui storia nell’ultimo mese è diventata un caso mediatico. La bambina aveva cominciato un trattamento nell’ospedale di Brescia con il “metodo Stamina”, un trattamento lungo un anno che consiste in 5 infusioni a base di cellule staminali mesenchimali (ovvero cellule che si estraggono da una parte del midollo osseo), messa a punto dai laboratori della Stamina Foundation. Si tratta di una «cura compassionevole»: rientra cioè in un uso di farmaci non ancora completamente studiati previsto dalla legge quando il rapporto tra rischio e beneficio appaia favorevole. Dopo la prima infusione, però, il tribunale di Firenze decide che Sofia non potrà più accedere al trattamento. Non è una decisione campata per aria: già dalla fine del 2012 una commissione ministeriale aveva bocciato quella somministrata a Sofia e ad altri pazienti come un terapia «pericolosa per la salute». Inoltre, l’inchiesta coordinata da Istituto superiore di sanità (Iss), Agenzia italiana del farmaco e Nas, secondo le parole di Alessandro Nanni Costa dell’Iss, aveva stabilito che «Le metodologie di preparazione utilizzate da Stamina Foundation sono grossolane, con errori marchiani e del tutto fuorilegge». Stamina Foundation è una creatura di Davide Vannoni che ne è anche il presidente. Vannoni non è un medico, né un biologo: è un professore associato di psicologia a Udine. Curioso: uno dei suoi libri ha come titolo «Modelli di psicologia della comunicazione persuasiva». Anche a chi non è malizioso, viene da pensare che la sua perizia in questo campo lo abbia aiutato nel convincere tante persone della validità del «metodo Stamina», o, come ormai viene chiamato sui giornali, «metodo Vannoni». Vannoni non è solo, accanto a lui c’è il pediatra (in pensione) Marino Andolina, ex candidato di Rivoluzione civile alle elezioni. Nonostante tutto, i genitori dicono che Sofia sta meglio e all’inizio di marzo si rivolgono alla trasmissione televisiva «Le iene» per ottenere di poter proseguire con la seconda infusione. Nascono gruppi facebook, il ministero viene inondato di messaggi, intervengono anche star (Celentano e Lollobrigida). Il ministero della Salute decide che Sofia potrà proseguire il trattamento ma non con le cellule Stamina, bensì in uno dei laboratori specializzati nella produzione di staminali. A questo punto è la comunità scientifica a ribellarsi. In una lettera indirizzata al ministro da esperti di staminali come Paolo Bianco, Elena Cattaneo, Giulio Cossu, nonché da ricercatori medici, bioeticisti e giuristi, si legge: «Non esiste nessuna prova che queste cellule abbiano alcuna efficacia. Non esiste nessuna indicazione scientifica del presunto metodo originale secondo il quale le cellule sarebbero preparate. Ci sembra questo uno stravolgimento dei fondamenti scientifici e morali della medicina, che disconosce la dignità del dramma dei malati e dei loro familiari”. Non ha senso quindi proseguire il trattamento, neppure se le cellule sono prodotte in sicurezza, finché non si prova scientificamente che è efficace. Una posizione condivisa dalle associazioni dei pazienti che mettono in guardia da «cure miracolistiche».

l’Unità 23.3.13
Marò
La débacle della diplomazia italiana: la saga degli errori
di Umberto Giovannangeli


Il meno che si possa dire è che l’intera gestione dell’Affaire marò è stata confusa, pasticciata, imbarazzante, ingiustificabile. Comunque si concluda la vicenda giudiziaria di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, una cosa è certa: l’Italia, sul piano politico e diplomatico, ne esce con le ossa rotte. La partita è persa.
Solo grazie all’intervento del Capo dello Stato, forse abbiamo evitato di perdere anche la faccia. Insomma, un disastro annunciato. Da cui non se ne esce con l’atavico giochino nostrano dello «scaricabarile». A perdere è stato l’intero governo, e non solo il titolare della Farnesina. Il «retroscenismo» che vorrebbe il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, messo sotto accusa nella burrascosa riunione dell’altro ieri del Comitato interministeriale per la sicurezza è un esercizio sterile, se non pilotato. Basta la «scena», gli atti pubblici, il ripercorrere dagli inizi delle tappe di questa tragicommedia diplomatica che nel suo dipanarsi ha dimenticato che alla base vi è la morte di due incolpevoli pescatori indiani per rendersi conto della figuraccia italiana. Abbiamo alzato la voce, affermando che i due marò non sarebbero tornati in India per farsi processare. Così facendo siamo venuti meno alla parola data, e questo nelle relazioni internazionali è un «peccato mortale». Lo abbiamo fatto adducendo fondate motivazioni giuridiche, la prima delle quali riguarda l’arbitrato internazionale su una questione cruciale che ha diviso, e continua a dividere, Roma e New Delhi: l’immunità funzionale per i due militari italiani. Su questo, l’Italia ha perso la faccia, decidendo, in extremis, di riportare Girone e Latorre in India. L’ha persa, perché su questo punto New Delhi non intende fare marcia indietro. Ed è francamente patetico sostenere che la «madre di tutte le garanzie» ottenuta è che i due marò non rischiano la pena di morte (ci mancherebbe altro!). Il ministro Terzi ha le sue responsabilità personali: la prima delle quali, fa filtrare Palazzo Chigi, sarebbe quella di non aver messo al corrente dell’altanelante condotta, il premier e il Capo dello Stato. Il titolare della Farnesina ribatte, piccato, che tutte le decisioni sono state prese collegialmente, e da tutti condivise. In primis, da Mario Monti.
Siamo all’8 Settembre della nostra diplomazia. La necessità di abbassare i toni del confronto con l’India è fuori discussione. Ma ciò non significa stendere un velo pietoso sulla «frittata» fatta. E a compensare gli innumerevoli errori compiuti, non vale il compromesso «sottobanco» che sarebbe stato raggiunto tra Roma e New Delhi: Girone e Latorre condannati da un tribunale indiano, ma con la pena che verrebbe scontata in Italia. Abbiamo alzato la voce e poi abbassata. Abbiamo puntato i piedi e poi alzato bandiera bianca. Abbiamo chiesto, implorato, il sostegno dell’Unione europea, salvo poi spiazzare Bruxelles al momento della retromarcia. Abbiamo «preteso» l’arbitrato internazionale, salvo poi accontentarsi della garanzia che per i due marò non scatti la pena capitale. Errori su errori, comportamenti contraddittori, e un ultimo tappo che appare come una «pezza» messa in extremis per evitare una «falla» insostenibile con la potenza indiana: in ballo c’è un potenziale giro d’affari di 15 miliardi di euro. Un Paese che vuol pesare nel mondo, e in Europa, non può permettersi simili flop. A futura memoria del nascente governo.

Repubblica 23.3.13
L’amaca
di Michele Serra


Negli ambienti diplomatici circola un test, da sottoporre ai laureandi in politica internazionale e agli aspiranti ambasciatori come prova cruciale di ammissione. Il test è composto di una sola domanda: attraverso quali decisioni e quali atti ufficiali sarebbe possibile peggiorare le prestazioni del governo italiano nel caso dei due marò contesi con l´India?
Queste le possibili risposte. A - Restituire uno solo dei marò tenendosi l´altro. B - Restituirli tutti e due, però muniti di turbante perché possano fingere di essere indiani e passare inosservati tra la folla. C - Pretendere che il tribunale indiano sia presieduto da un ammiraglio italiano in alta uniforme, accompagnato dalla Banda della Marina. D - Affidare la difesa dei due marò all´avvocato Taormina. E - Sostenere nel processo in India che le vittime non potevano essere pescatori indiani, perché gli indiani non sanno pescare. F - Pretendere dalle autorità indiane un congruo risarcimento per lo spreco di pallottole. G - Ricoverare i due marò al San Raffaele per accertamenti su un´eventuale uveite. H - Sostenere che la giurisdizione sull´Oceano Indiano è notoriamente di competenza della Pretura di Caserta. I - Invadere l´India. L - Indire una conferenza stampa e scoppiare in un pianto dirotto.

Repubblica 23.3.13
Grossman: basta apartheid nei Territori Obama indica la via
"Barack ha indicato la via senza uno Stato palestinese non vivremo mai in pace"
Abbiamo percepito un altro spirito, un’altra possibilità da percorrere con l’appoggio di un amico sincero
Il presidente Usa ha mostrato che possiamo essere ottimisti e non vittime della nostra situazione
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME - «Le parole di Obama al popolo israeliano sono state alte, ispirate, ha saputo parlare davvero al cuore degli israeliani come un amico. Ci ha detto con sincerità che finché i palestinesi non avranno uno Stato, anche noi non avremo quiete e soprattutto non avremo futuro». David Grossman, lo scrittore israeliano punto di riferimento per una generazione che alla pace in Terrasanta non ha smesso mai di credere, è convinto che il presiedente americano in questo suo viaggio abbia fugato ogni dubbio sul forte legame che gli Usa hanno con Israele. «È come un vero amico», dice lo scrittore, «ci ha parlato al cuore, perché noi ebrei per le nostre tragiche esperienze passate, siamo estremamente sospettosi su ogni speranza, cerchiamo sempre di scoprire dove sta la trappola. Poi, in questi due giorni, abbiamo percepito un´altra possibilità: la cui bellezza non sta nell´happy end di stile hollywoodiano ma nel suo realismo».
Missione compiuta allora per il presidente americano?
«Si, ha preso la consueta immagine che hanno gli israeliani della loro situazione per dargli improvvisamente un significato ottimista, mostrando che possiamo non essere vittime della nostra complicata situazione in Medio Oriente, ma possiamo rimodellarci su questa situazione e creare una nuova realtà».
C´erano molti dubbi sull´accoglienza che sarebbe stata riservata al presidente americano, perché la destra israeliana nonostante i generosi aiuti finanziari e militari, non lo ha mai percepito come un amico, anzi.
«Obama ha messo finalmente gli israeliani di fronte a uno specchio, specie coloro che preferiscono non vedere che per quanto democratico sia il nostro Paese, nei Territori palestinesi occupati manteniamo un regime che si avvicina molto a quello dell´Apartheid. Ci ha detto che così non può continuare e che finché loro non avranno uno Stato non ci sarà quiete, non ci sarà futuro. Non sono cose nuove, io e i miei amici lo diciamo da trenta anni, ma è diverso quando le ascolti dalla bocca del leader della più grande potenza mondiale».
È stato come essere svegliati da uno strano torpore?
«Si. Israele è davvero un Paese che si trova in una situazione strana e per certi versi incomprensibile. Da un lato è un paese pieno di vita, effervescente, creativo, pieno di idee e di start-up in ogni campo. Dall´altro è un Paese in coma da 45 anni, perché incapace di guardare negli occhi la realtà che crea ogni giorno nei Territori occupati e che lo fa precipitare nel disastro».
Lei crede che questa visita di Obama abbia fatto breccia anche in quella destra israeliana che lo rappresentava con la kefiah in testa e calcava l´accento sul padre musulmano?
«All´International Convention Center, dove ha parlato, c´erano molti appartenenti alla destra così come al ricevimento dal presidente Peres. Eppure ho sentito dire da più persone: "Dobbiamo ascoltarlo, è un sostenitore di Israele". Certo l´estrema destra e i coloni vedono in lui quello che forse quello che porterà al ritiro dalla Cisgiordania, ma come dimostrano le recenti elezioni l´opinione pubblica è composta da un grande centro e da una destra moderata. La corrente centrale di questa opinione pubblica mostra di essersi stancata del conflitto con i palestinesi, non sa ancora come risolverlo ma se qualcuno le suggerisse una soluzione, è molto probabile che l´adotterebbe».
C´è stato molto entusiasmo al discorso al Convention Center...
«Si, lì ha detto una cosa fondamentale quando ha invitato tutti a "vedere la realtà con gli occhi dei palestinesi". E´ quasi un capovolgimento di quello che in Israele viene considerato il "codice dei combattenti", cioè "guardare il nemico nel bianco degli occhi", per dire che solo chi ha combattuto il nemico faccia a faccia ha il diritto di essere un leader in Israele. Ed ecco che Obama arriva e ci esorta a guardare la realtà attraverso gli occhi del nostro nemico, a compiere un capovolgimento emotivo».
Adesso che il presidente Obama è partito cosa accadrà?
«Nessuno può sapere se Netanyahu riuscirà a perdere l´occasione offerta da questa nuova speranza creata da Obama o se il presidente sarà abbastanza forte da spingere Netanyahu e Abu Mazen a tornare a trattare. Ma per un paio di giorni abbiamo percepito un altro spirito, un´altra possibilità. Ci è stata presentata una nuova via da percorrere con l´appoggio di un sincero amico, sarebbe certamente una follia non tentare».

La Stampa 23.3.13
“Io, con i marines a Nassiriya sotto il fuoco degli iracheni”
Al terzo giorno dell’invasione, la prima battaglia colse gli americani di sorpresa Dopo aver assistito alla morte dei loro amici sparavano a vista su donne e bambini
di Mark Franchetti


Esattamente dieci anni fa, la mattina del 23 marzo 2003, poco prima di colazione, ero dentro un Aav dei marines Usa, un anfibio d’assalto da 23 tonnellate, appena fuori da Nassiriya, nell’Iraq meridionale. Era il terzo giorno della guerra ed ero «embedded» con un battaglione Task Force Tarawa, una brigata di 7000 marines americani. In tutto ho trascorso con una delle compagnie della brigata tre settimane, 24 ore al giorno, raggiungendoli nel deserto del Kuwait e seguendoli nell’invasione dell’Iraq.
Il piano per quel giorno era stato studiato meticolosamente nelle lunghe sere passate ad esaminare mappe e immagini satellitari, prima dell’invasione. Sembrava tutto chiaro, e tutto sommato semplice. I marines sarebbero partiti dalla frontiera con il Kuwait, attraversando rapidamente, senza incontrare alcun ostacolo, i 200 km di deserto per arrivare alla periferia di Nassiriya da Sud-Est e assumere il controllo di tre ponti. L’obiettivo era creare un corridoio attraverso il quale la coalizione avrebbe potuto muovere migliaia di truppe e unità di supporto logistico sull’autostrada numero 7 che portava verso Baghdad, 360 km a Nord, per la grande battaglia per la capitale. I marines non intendevano entrare a Nassiriya, meno che mai tentare di prenderla.
C’era un unico problema: «Lo stradone delle imboscate», un viale che collegava i primi due ponti. Secondo l’intelligence, però, non ci sarebbero stati, o quasi, combattimenti, in quanto la parte orientale della città si diceva essere in maggioranza «pro-americana». Io ero con la compagnia Alpha. Alcuni marines sembravano delusi di vedersi assegnare una missione che appariva secondaria rispetto alle altre.
Quel giorno però fu per i marines americani il peggiore in termini di perdite in tutta la Guerra irachena. La battaglia sarebbe durata ore, coinvolgendo centinaia di marines, carri armati ed elicotteri da guerra. Morirono 18 giovani soldati americani. Altri 11 soldati di un battaglione di supporto vennero uccisi in città quella stessa mattina, portando il bilancio complessivo delle vittime a 29. Sessanta americani rimasero feriti.
Svoltasi soltanto tre giorni dopo l’inizio della guerra, la battaglia di Nassiriya è stata un brusco risveglio per gli americani, il primo segnale brutale che la strada sarebbe stata molto più lunga e insanguinata di quanto ci si aspettava. La maggior parte dei marines con i quali avevo trascorso tre settimane, soprattutto i più giovani, avevano l’idea ingenua che la maggioranza degli iracheni li avrebbero accolti a braccia aperte con mazzi di fiori. Avevano creduto alla forte propaganda di Washington che raccontava gli iracheni come un popolo che non vedeva l’ora di venire liberato dal suo crudele dittatore. Inoltre vedevano un nesso tra gli attacchi dell’11 settembre e il regime di Saddam Hussein. Teoria quest’ultima, promossa dall’amministrazione Bush, che si rivelò in seguito completamente falsa.
Ma mentre ci stavamo preparando a entrare nella periferia di Nassiriya - circa 400 marines in una colonna di più di 20 Aav, diversi carri armati e dieci Hummer con missili anti-carro montati sul tetto - i giovani soldati americani pensavano di essere in doppia missione di liberazione e vendetta. Ci stavamo ormai avviando verso l’entrata in città dall’Est e non c’era sentore di quello che ci attendeva. Pochi locali vestiti di stracci osservavano l’incredibile spettacolo della macchina da guerra americana in movimento. Nessuno ci salutò. La battaglia fu senza pietà. Eravamo rimasti incastrati per più di tre ore mentre gli iracheni barricati nelle case, in un ospedale e dietro gli angoli, ci riversavano addosso munizioni, in un anticipo di quello che gli americani avrebbero sperimentato per i dieci anni successivi. Nonostante l’arsenale dei marines fosse soverchiante, colpire gli iracheni non era facile. Non indossavano uniformi, avevano pianificato bene l’imboscata, immagazzinando armi in decine di case tra le quali si spostavano tranquillamente spacciandosi per civili. «È una brutta situazione», disse il sergente James Thompson, dopo un giro nei dintorni con la sua pistola 9mm in mano. «Non sappiamo chi ci sta sparando. Usano perfino le donne per le ricognizioni. Queste arrivano facendoci segni, o alzando le mani. Noi ci fermiamo e l’attimo dopo vediamo che la donna indica la nostra posizione ai combattenti nascosti dietro l’angolo. È veramente difficile distinguere combattenti e civili».
Per l’ora di pranzo, quando ci siamo precipitati lungo lo «stradone delle imboscate» per prendere posizione nel Nord della città, la scena era quella di un massacro. Ho visto un iracheno sparare un razzo dentro un Aav, attraverso la botola aperta. L’esplosione fu terrificante, amplificata 10 volte dalle munizioni dentro il mezzo. I pezzi volarono in mezzo alla strada. La pesante rampa posteriore era stata squarciata. C’erano pozze di sangue e pezzi di carne umana dovunque. Una gamba staccata, ancora con il «desert boot» sul piede, giaceva a sinistra della rampa, in mezzo a carte da gioco, riviste, lattine di Coca-Cola e un piccolo orsetto di peluche insanguinato. «Sono f*****mente morti, morti. O mio Dio! Venite qui! Venite qui e tirateli fuori», urlava un marine, sull’orlo di un attacco isterico.
L’asfalto della strada verso il Nord della città era cosparso di pezzi di corpi umani. La maggior parte dei giovani marines non aveva mai visto un cadavere, meno che mai ucciso qualcuno. Fu un battesimo di fuoco che li avrebbe cambiati per sempre. I loro volti non erano più gli stessi. Rabbia e paura venivano alimentati dalle voci che i corpi di soldati americani venivano trascinati per le strade di Nassiriya. Qualcuno piangeva tra le braccia degli amici, altri cercavano consolazione nella Bibbia.
Il mattino dopo, gli uomini della compagnia Alpha avevano discusso della battaglia. Ora erano visibilmente agitati e reagivano nervosamente a qualunque movimento intorno al perimetro. Sospettavano che le automobili dei civili, inclusi i taxi, portassero rifornimenti al nemico in città. Appena un’auto veniva avvistata lungo una delle due strade, scattavano appelli via radio con la richiesta nevrotica di permessi per «ammazzare i veicoli». 24 ore prima un permesso del genere quasi sicuramente sarebbe stato negato. Ora veniva concesso.
Quel giorno, ho assistito alla morte di almeno 12 civili iracheni, inclusi donne e bambini, finiti sotto una pioggia di fuoco mentre cercavano di scappare dalla città in auto, attraversando il ponte che portava verso le nostre posizioni. Disarmati, andavano dritto contro i marines, giovani ancora sotto lo shock della battaglia sanguinosa di poche ore prima, che eseguivano l’ordine di sparare a tutto quello che si muoveva. All’improvviso, alcuni di questi giovani mi ricordavano la generazione dei loro padri, i soldati dal grilletto facile del Vietnam. Coperti di fango secco, esausti e pericolosamente aggressivi. «Gli iracheni sono il cancro, noi la chemioterapia», disse un giovane marine.
Per la prima volta avevano assistito alla brutalità della guerra, avevano ucciso e visto cadere i loro amici. Le speranze ingenue che sarebbero stati accolti da folle di iracheni in giubilo, che sarebbe stata una guerra rapida e facile, se ne erano andate. Avevo lasciato i marines e raggiunto Baghdad il 14 aprile, 5 giorni dopo il famoso episodio della statua di Saddam tirata già dal piedistallo. Ufficialmente la città era in mano agli americani e il dittatore iracheno era fuggito. C’erano però ancora sporadici combattimenti, e dovunque si assisteva ai saccheggi. I numerosi lussuosi palazzi del dittatore, ma anche case private, negozi, musei e ministeri erano zeppi di saccheggiatori. All’orizzonte si levava il fumo. Non c’era un clima di vero trionfo, semmai una strana sensazione di inquietudine. Molti iracheni stavano festeggiando, assalendo i ritratti di Saddam, lanciando scarpe contro la faccia del dittatore, il peggior insulto possibile. Ma già cinque giorni dopo il crollo del regime ogni volta che parlavo con il popolino iracheno degli americani sentivo dire la stessa cosa: «Grazie per averci liberato di Saddam, ma ora filatevene a casa».
In pochi capirono quanto le cose si stessero mettendo male, man mano che l’Iraq stava precipitando in un decennio di caos e violenza. Ma i primi segni erano già ovunque. Quando, due settimane più tardi, l’1 maggio 2003, Bush annunciò orgogliosamente al mondo dal ponte della portaerei Abraham Lincoln che «la missione era compiuta», nel profondo dei loro cuori sia i marines che gli iracheni con cui avevo parlato lo sapevano: era solo l’inizio. Il peggio doveva ancora venire.
Corrispondente da Mosca del «Sunday Times» di Londra

La Stampa 23.3.13
“È indecente”, a Seul minigonna fuorilegge
di Marina Verna


Un atto osceno mostrare le gambe su su fino all’orlo della minigonna? Sì, almeno nella Corea del Sud, che da ieri punisce con multe di 50.000 won (circa 40 euro) chi «mostra eccessivamente la pelle nuda in un luogo pubblico o espone le parti del corpo che devono rimanere coperte, facendo sentire altri in una situazione di imbarazzo o fastidio». Gonne e top rischiano di diventare fuorilegge, riportando il Paese a quegli Anni 70 della dittatura militare di Park Chung-hee - padre dell’attuale presidente che aveva fissato la lunghezza degli orli per le donne e dei capelli per gli uomini.

La legge è stata firmata dalla signora Park Geunhye, che l’ha ereditata dalla precedente amministrazione. Ma è su di lei, prima donna a diventare presidente, che si scaricano ire e proteste, anche se la polizia fa notare che l’obiettivo non sono le minigonne ma i crimini legati alle molestie e agli stati di ubriachezza. L’«esposizione indecente» è infatti parte di un pacchetto più ampio, ma la formulazione è considerata da molti ambigua e e foriera di reclami.
I media raccontano di uno scontro politico tra il Grande Partito nazionale, di stampo conservatore, e il Partito democratico unito, la principale forza di opposizione. Denunciano «misure liberticide» e attaccano la presidente, eletta appena lo scorso 19 dicembre. Il quotidiano progressista «Hankyoreh» sostiene che la nuova legge «consentirà alle autorità di ritornare ai rigidi codici sociali del passato». E le pop star della «Girls Generation», campionesse del «soft power» coreano nel mondo, sono preoccupatissime: dovranno rinunciare allo stile sexy che tanto ha contribuito al loro successo?

Corriere 23.3.13
Stesso letto, sogni diversi per Mosca e Pechino
di Guido Santevecchi


Le parole sono impegnative, visionarie: Russia e Cina puntano a costruire «una relazione strategica che possa essere la base di un ordine mondiale più giusto». La frase è del leader del Cremlino Vladimir Putin. Il presidente cinese Xi Jinping, in apparenza, ha confermato il concetto con la sua scelta di andare a Mosca per la prima missione all'estero da quando è stato «eletto». Ma forse, dietro l'incontro tutto sorrisi, più che un legame strategico, c'è un più modesto pragmatismo.
Anzitutto Xi ha voluto mandare un segnale agli Stati Uniti: visto che Obama punta a giocare un ruolo da pivot in Asia, Pechino potrebbe fare asse con la Russia. L'obiettivo è di promuovere un mondo multipolare, nel quale le decisioni sulle aree di crisi (dall'Afghanistan alla Siria, dall'Iran alla Corea del Nord, fino a Cipro), non siano determinate solo dalla superpotenza americana e dai suoi alleati occidentali e nel Pacifico. Xi dunque avverte Washington di essere pronto a lavorare a «un rinascimento cinese» e riconosce che in politica estera finora Mosca è stata molto più presente di Pechino.
Ma il nuovo timoniere della Repubblica popolare è sbarcato a Mosca proprio nel giorno in cui l'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha annunciato che la Cina nel 2016 sarà la prima economia del mondo. Su questo campo è Putin che non può nascondersi la realtà: alla fine degli anni 70 il Pil cinese era solo il 40% di quello della Russia. Ora è quattro volte tanto. E il bilancio per la difesa di Pechino è il doppio di quello di Mosca. Così Putin ha candidamente ammesso che «la Russia deve prendere il vento cinese nelle vele della sua economia».
Questo è lo scenario che ha motivato la visita.
I due Paesi che un tempo si sfidavano per la guida ideologica del comunismo mondiale, oggi hanno un interscambio commerciale che vale 88 miliardi di dollari l'anno e hanno necessità di aumentarlo. La Russia è il principale produttore di energia (gas e petrolio); la Cina è il maggior consumatore. All'ordine del giorno ambiziosi accordi: le due delegazioni hanno già firmato un progetto da due miliardi di dollari per lo sfruttamento di miniere di carbone in Siberia. Hanno annunciato intese per la cooperazione bancaria, non hanno trascurato la cooperazione nell'allevamento de conigli. Ma il progetto fondamentale è quello per forniture energetiche e per la costruzione di un gasdotto che riduca la dipendenza cinese da regioni più lontane, instabili e costose. Su questo punto delicato si discute per il prezzo. E la soluzione di compromesso non sembra ancora vicina: i più ottimisti prevedono che si dovrà aspettare almeno la fine dell'anno.
Nel frattempo, dietro i sorrisi e le promesse di partnership strategica, Putin teme che la potenza economica cinese possa attrarre fatalmente le regioni del far east russo, arretrate, scarsamente popolate e trascurate dal potere centrale. E Xi certamente non dimentica che il nazionalismo cinese ancora soffre per la perdita di almeno un milione di chilometri quadrati di territorio «sottratti dall'impero zarista».
Dopo i banchetti al Cremlino, Xi e Putin partiranno per un altro appuntamento: il vertice Brics che riunisce le economie emergenti di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Un club che rappresenta il 42% della popolazione mondiale e il 21% del Pil. Un altro pilastro nello sforzo di controbilanciare il peso degli Stati Uniti. Ma anche un altro terreno di competizione: Xi Jinping concluderà il suo tour visitando Tanzania, Sudafrica e Repubblica del Congo. Nel continente africano la sua Cina è dal 2009 il primo partner commerciale ed è penetrato con duemila grandi imprese.
Mosca non può che guardare da lontano. Sperando che prima o poi il vento cinese gonfi anche le vele della sua economia e aggrappandosi al suo passato di superpotenza. Qualcuno a Pechino ha adattato a Putin e Xi un vecchio proverbio: «Vanno a letto insieme, ma fanno sogni diversi».

La Stampa 23.3.13
Il “made in China” è una scelta vincente
di B.V.


Il “Made in China” è ancora una strategia vincente, ma le regole stanno cambiando. Anche se l’aumento dei salari abbia spinto alcuni produttori ad andarsene, altri stanno scoprendo che la presenza di consumatori cinesi con maggiori possibilità economiche rende il paese un luogo più attraente che mai per aprire nuove fabbriche. In Cina, il costo della produzione è aumentato a seguito dell’incremento dei salari. Secondo un sondaggio di Standard Chartered, la retribuzione degli operai nel delta del fiume delle Perle è destinata ad aumentare del 9,2% il prossimo anno, a fronte di un obiettivo di inflazione ufficiale di appena il 3,5%. La graduale rivalutazione dello yuan aumenta le difficoltà per i datori di lavoro stranieri, nonché rende i prodotti cinesi meno allettanti per l’esportazione. Tuttavia le aziende che hanno invece come obiettivo i consumatori cinesi potrebbero decidere di farsi avanti.
La Lego, famoso produttore danese di giocattoli, ritiene che i tempi siano maturi per aprire la prima fabbrica in Cina, nella zona dello Zhejiang. In questa provincia, il salario minimo è aumentato del 12,2% a gennaio, ma non è un deterrente. Quello che ha spinto la Lego a investire in Cina, e a ripensare la strategia a livello mondiale, non è stata tanto la manodopera a basso costo quanto un aumento del benessere economico dei consumatori asiatici. Il nuovo impianto produttivo sarà dedicato alla produzione di articoli destinati esclusivamente al mercato asiatico. Secondo Euromonitor, in Cina, le vendite di giocattoli hanno subito un incremento annuo del 21% nel periodo tra il 2007 e il 2011, a fronte dei dati ufficiali cinesi che, considerando lo stesso periodo, riportano una crescita nelle esportazioni del 6%. Il “Made in China” è stato per lungo tempo un marchio redditizio per i produttori, qualsiasi fosse il settore di attività. Non siamo ancora di fronte alla fine di un’era, tuttavia sempre più le linee di produzione saranno mantenute attive grazie all’aumento del benessere economico dei consumatori, e non più grazie alla manodopera a basso costo.
Per approfondimenti: http://www.breakingviews.com/

Repubblica 23.3.13
Ocse: la Cina ha resistito meglio alla crisi sarà la prima economia al mondo nel 2016


ROMA - Nel 2012 il Pil cinese è cresciuto "solo" del 7,8%, ma da quest´anno in poi tornerà a superare l´8%, tanto che nel 2016 Pechino sarà la prima economia del mondo. Sono le previsioni dell´Ocse, che certo non ignorano i problemi legati al modello di sviluppo cinese: il forte inquinamento, le disuguaglianze, l´inadeguatezza delle infrastrutture. Ma tutto questo non impedirà alla Cina di superare le principali economie, grazie agli incrementi a doppia cifra delle esportazioni e a una crescita sostenuta anche della domanda interna, che aumenterà del 9% nel 2013 e del 9,8% nel 2014.
L´Ocse suggerisce tuttavia a Pechino di affrontare le situazioni di rischio, per evitare che possano diventare un ostacolo alla crescita e al benessere della popolazione. Innanzitutto, è necessario «un ampio mix di politiche» sul fronte della tutela dell´ambiente, a cominciare da una revisione delle tariffe e da un aumento delle tasse, per incentivare un uso più razionale delle risorse energetiche.

l’Unità 23.3.13
«Salviamo l’Istituto di Studi filosofici»
Parla Marotta, che ha venduto tutto pur di mantere la struttura in vita
Nato nel 1975 ha ospitato i più grandi studiosi ma ora versa in gravi condizioni economiche
Circa trecentomila volumi si trovano chiusi in un capannone a Casoria
di Stefania Miccolis


«CI HO MESSO TUTTA LA MIA PASSIONE, E QUESTO ISTITUTO È DIVENTATO IL PRIMO, HA SUPERATO TUTTI, ANCHE QUELLI AMERICANI, NON CE NE SONO DI UGUALI, HA CONQUISTATO UNA DIMENSIONE CHE NON TROVA TERMINI DI PARAGONE NEL MONDO, COME È SCRITTO IN UN RAPPORTO DELL’UNESCO». A parlare è l’avvocato Gerardo Marotta, una di quelle figure della Napoli colta ed elegante che non si incontrano più, e l’Istituto, che ha sede nel Palazzo Serra di Cassano a Napoli è l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Coperto da cappotto e cappello anche in casa, l’avvocato è come una miniatura; sommerso da migliaia di libri e dalle carte sparse ovunque, prima viene la sua voce e finalmente da dietro un giornale aperto spunta quella esile figura, e si scorgono due occhi piccoli, ma accesi che ti guardano e scrutano e capiscono:«’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, inizia a dire l’avvocato, è sorto per salvare la civiltà occidentale, mette a disposizione dei giovani tutto il mondo della cultura per formare le nuove generazioni!». E ricorda quando sul divano di casa sua Elena Croce insieme a Enrico Cerulli, presidente dell’Accademia dei Lincei, gridava: «L’Europa è in declino, non c’e un minuto da perdere. Bisogna fondare un Istituto per gli studi filosofici e scientifici che si occupi di filosofia, scienze, letteratura, ecologia, urbanistica». Il declino al quale si riferisce la figlia di Croce è quello della civiltà e della cultura e chissà cosa direbbe oggi (e l’avvocato si mette le mani alla testa) nell’ascoltare mistificatori della storia e barbari politicanti senza cultura. Quelli che recentemente hanno distrutto il Teatro Grande di Pompei rappresentano gli emuli di quei «luridi capobriganti» che Benedetto Croce ci racconta furono insediati al posto dei giacobini mandati a morte da Ferdinando IV al governo del Regno di Napoli. L’Istituto nasce nel 1975 a Roma nella sede dell’Accademia Nazionale dei Lincei: «e subito demmo inizio all’attività a Napoli con la conferenza inaugurale di Norberto Bobbio su Giambattista Vico e la teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, e da allora non ci siamo più fermati». I più grandi filosofi e i più importanti studiosi della comunità internazionale sono venuti a Napoli a tenere i loro seminari, su materie umanistiche ma anche scientifiche perché «lo scienziato deve essere anche filosofo».
Reinhart Koselleck, filosofo e storico tedesco ha dichiarato: «Ciò che caratterizza l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è soprattutto la sua capacità di irradiare impulsi in tutti i campi del sapere verso tutti i paesi del mondo. Non conosco nessuna’altra istituzione scientifica che abbia impresso un segno così profondo nella cultura di tutta l’Europa». L’avvocato Marotta alza la voce contro l’egoismo e l’individualismo, il vero appiattimento della cultura: molti studenti entrano nelle università, studiano per avviarsi verso una determinata carriera, si lanciano nelle professioni e si dimenticano della cultura. «Dalla facoltà escono degli egoisti! L’insegnamento monologico è un disastro perché genera una civiltà corrotta, ognuno pensa a sé, a fare i soldi, è come se la società si basasse sulla lotta per l’economia. Le forze retrive hanno ostacolato il formarsi di istituti e accademie, ed hanno perpetuato la formazione di una società corrotta senza coesione e senza amore per il bene pubblico».
L’Istituto versa oggi in gravi condizioni economiche: il piccolo grande uomo, l’avvocato Marotta, colui che come avrebbe detto Hegel impersona la seconda natura (così è anche il titolo del documentario che lo immortala, di Marcello Sannino) quella della cultura, si trova ora senza un soldo, perché ha venduto tutte le sue proprietà, tutti i suoi averi per mantenere in vita l’Istituto. Lo ha finanziato per quindici anni, poi è intervenuto Ciampi: «ne riconosceva il valore immenso culturale, capiva che l’Istituto era sorto per la difesa della civiltà europea». Ciampi sfruttò dapprima l’8 per mille alla cultura, poi promosse una legge che destinava ogni anno all’Istituto due milioni e mezzo di euro. Con questi soldi sono state istituite centinaia di scuole di alta formazione nel Mezzogiorno, sono state date migliaia di borse di studio, è stato creato un Istituto superiore di studi ad Heidelberg dedicato al nome di Hans-Georg Gadamer, seminari costanti ogni anno vengono tenuti al Warburg Institute di Londra, e sono stati organizzati quarantamila tra lezioni e seminari in tutta Europa. «Ma purtroppo dal 1 gennaio 2010 il governo ci ha dimenticati». Nel 2011 la Camera prese posizione per tutelare sia l’Istituto per gli studi filosofici che quello per gli studi storici, espresse un ordine del giorno che ancora non si è tramutato in legge. L’avvocato non riesce più a pagare i fitti dei tanti locali che contengono i libri, ed anche se la Regione Campania ha acquistato sotto l’amministrazione Bassolino un edificio nel centro della città, i lavori di ristrutturazione per la sistemazione della biblioteca a tutt’oggi non sono ancora iniziati. L’enorme patrimonio librario, più di trecentomila volumi si trova ora in parte in un capannone a Casoria, chiuso in degli scatoloni, col rischio di sparire nell’oblio. Molti sono stati gli appelli per salvare l’Istituto, provenienti dagli intellettuali di tutto il mondo, dalla comunità europea. «Sono le accademie e gli istituti superiori ad aver salvato la cultura – continua l’avvocato ma oggi vivono in uno stato di quiescenza, il governo non le utilizza, non comprende la loro importanza». Cita l’articolo uscito sull’Unità il 13 settembre 2012 di Edgar Morin: «Il progresso è fallito, ora una nuova civiltà», in cui Morin spiega come sia necessaria una «vigorosa reazione per ricercare nuove convivialità e ricreare uno spirito di solidarietà, intessere nuovi legami sociali per far riemergere quelle fonti spirituali che sono state soffocate». Ma lo aveva capito prima Croce quando nel 1946 scriveva sulla fine della civiltà «la fine della civiltà (...) è la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie, ed ha luogo quando gli spiriti inferiori e barbarici (...) riprendono vigore preponderanza e signoria». Il filosofo Hans-Georg Gadamer lo ribadisce: «La società è caratterizzata dall’anonimità. Siamo minacciati dall’epoca del progresso in cui viviamo», «è la grande vittoria dell’ondata tecnologica, ed è l’appiattirsi nella forma di insegnamento monologica, i cui caratteri distintivi sono la chiusura individualistica, la mancanza di ogni fede». «Si diffonde un pathos del disincanto che si può avvertire dappertutto e in particolare si è impadronito delle giovani generazioni».
L’avvocato Marotta vorrebbe che Napoli si rianimasse e si reinserisse nella grande storia. Desidera tenere viva l’eredità del grande pensiero europeo e edificare su queste premesse nuove forme di pensiero e di vita, desidera che l’Europa sopravviva alle minacce di questa epoca. Con le mani incrociate e lo sguardo rivolto verso l’alto dice: «Abbiamo ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo, ma i governi italiani non mostrano preoccupazioni per il destino di questo Istituto. Vorrei vivere un altro anno ancora per sistemare le cose all’Istituto». Noi gli auguriamo di vivere molti più anni, e sappiamo che rimarrà nell’immortalità: come dice il filosofo francese Jacques Deridda lui è l’homme des Lumières, un jour on lui donnera raison; c’est sûr, et mieux que jamais on comprendra qu’il a vu très loin, très tôt.
l’Unità 23.3.13
La lezione politica e civile di Laura Ingrao continua a resistere
Insegnante, militante, sempre dalla parte dei deboli, delle donne
Esempio di coraggio e tenerezza
di Luciana Castellina


LAURA NON È PIÙ CON NOI GIÀ DA DIECI ANNI. LAURA LOMBARDO RADICE E INGRAO: DUE NOMI IMPORTANTI CHE SEGNANO LA SUA APPARTENENZA FAMILIARE, DI FIGLIA DI UN GRANDE PEDAGOGISTA, sorella di un grande matematico e aderente a uno dei primi gruppi clandestini del Pci moglie di un leader assai singolare e amatissimo. Ma dire questo sarebbe in qualche modo fuorviante, perché Laura è stata Lombardo Radice e Ingrao fino in fondo, nella sostanza della sua persona, segnata dal rapporto con queste parentele, tanto quanto, però, lei ha segnato loro. Perché non era certo donna che si accontentava di essere moglie figlia o sorella, anche se – e questo è stato un tratto indimenticabile della sua figura – è stata fino in fondo madre e anche tutte queste figure, interpretandole al massimo livello, senza traccia di quel falso femminismo molto abituale nelle vecchie generazioni che portava a nascondere il proprio essere donna per timore di non esser prese sul serio. Aveva intuito, ben prima che il femminismo ce lo insegnasse, che la straordinaria ricchezza del corpo femminile, era un valore, non una mancanza.
In questo momento in cui la politica sembra non suscitare più passioni, e viene vilipesa e irrisa, ridotta così spesso tutt’al più a rappresentanza immediata di sé stessi, mi colpisce ancora di più quello straordinario passaggio della storia d’Italia, a cavallo fra gli anni ’30 e ’40,quando un gruppo per nulla esiguo di giovani cresciuti nel crogiuolo della più alta cultura antifascista liberale, approdò all’impegno comunista. Diventando poi il nerbo del partito nuovo, accettando la durezza della militanza piena, la rinuncia al privilegio dell’intellettuale separato.
Laura di questa transizione storica è stata protagonista: cospiratrice già ragazzina, nella Resistenza organizzatrice, durante l’occupazione tedesca a Roma, dei «gruppi scuola» che osarono manifestare apertamente a Santa Maria Maggiore e delle prime lotte per il pane delle donne, compagna di Teresa Gullacci, caduta sotto il fuoco nazista, poi interpretata da Anna Magnani in Roma città aperta.
Questo modo pieno e autonomo di fare politica Laura l’ha conservato per tutta la vita, sebbene non dovesse esser facile trovare la propria strada con accanto un marito ingombrante come Pietro Ingrao, e nonostante cinque figli. Lo ha fatto intrecciando l’insegnamento e la attività del partito e dell’Udi, che in definitiva avevano tutte lo stesso obiettivo: offrire risposta a una domanda di senso, trasmettendo valori, conoscenza, cultura, costruendo soggettività. Con coraggio e dedizione ha continuato a farlo anche dopo esser andata in pensione, impegnandosi a insegnare ai carcerati, i «comuni» così come i «terroristi», che lei aveva capito quanto fossero i più bisognosi d’aiuto.
Andava in sezione Laura, le vituperate sezioni di strada, all’Italia, ricordo, quella vicino a piazza Bologna, quella del suo quartiere. Perchè la politica era innanzitutto ragionare con chi ti vive accanto e insieme cercare di cambiare le cose. Ricordo che quando Pietro non rinnovò più la tessera del Pds, Laura non lo seguì e continuò ad andare in sezione. Ricordo le sue parole: «Ma dovevamo arrivare a questa età per diventare dei senzapartito?». «Senzapartito» era come essere dei «senza-tetto». E lei non voleva sentirsi una sfollata. Una inutile singola. La morte di Laura fu triste per la perdita, ma anche così ricca della ricchezza della sua vita: attorno cinque figli, nove nipoti, due pronipoti, una folla di compagne e di compagni. E la tenerezza di Pietro, con cui aveva trascorso più di settant’anni. Questa vita comune l’avevano cominciata findanzandosi per finta, per ragioni cospirative: si suscitavano meno sospetti quando si dovevano passare documenti pericolosi se ci si incontrava sulla panchina di un giardino pubblico.

CHI È L’insegnamento e l’attività clandestina
Laura Lombardo Radice nasce a Fiume il 21 settembre 1913 e muore a Roma il 23 marzo 2003. La madre, Gemma Harasim, è una maestra dalmata, il padre, Giuseppe Lombardo Radice, un importante pedagogista. Laura diventa insegnante. Stimolata dal clima familiare, dall’impegno antifascista del fratello Lucio e di un gruppo di giovani studenti romani, approda all’attività clandestina. Questo impegno, che la porterà a conoscere e poi sposare Pietro Ingrao, continuerà con l’adesione al Pci, con l’impegno nell’Unione Donne Italiane e nei movimenti di riforma della scuola.

Corriere 23.3.13
Hitler, lo sgomento del nulla
di Antonio Carioti


C'è chi pensa che la storia del Novecento, in particolare quella dei regimi totalitari, non si possa spiegare senza indagarne i retroscena filosofici. Ne era convinto il pensatore cattolico Augusto Del Noce e lo sostiene da sempre lo storico tedesco Ernst Nolte. Sulla loro scia si colloca il saggio Adolf Hitler. Una emozione incarnata (Rubbettino, pagine 183, € 16), nel quale Massimo De Angelis presenta il nazionalsocialismo come espressione dell'angoscia prodotta dai processi di modernizzazione, cioè dalla «trascendenza» intesa nel senso di Nolte, come superamento dei limiti, di natura teoretica o pratica, che l'umanità si trova di fronte.
Il comunismo marxiano, osserva De Angelis, vuole portare a compimento il moto della società borghese verso la dissoluzione dei legami tradizionali e al tempo stesso rovesciarne il senso, ponendo fine allo sfruttamento e all'alienazione del lavoro che discendono dal primato del profitto nell'economia capitalista. Assai diversa è la posizione dell'ideologia hitleriana, che si schiera invece radicalmente «contro il progresso»: ciò che essa non sopporta, la condizione cui reagisce con violenza inaudita, è «il sentirsi dell'uomo necessariamente in divenire».
Qui De Angelis mostra una notevole audacia teorica. Infatti va oltre la riflessione di Nolte sul piano filosofico, come riconosce lo stesso studioso tedesco nella prefazione del libro, poiché collega direttamente il nazismo al pensiero di Martin Heidegger, alla sua visione dell'uomo come «immerso sin dall'inizio nel niente». Nel terrore generato dalla «oscillazione tra l'essere e il nulla» andrebbe dunque ricercata l'origine della furia annientatrice del Terzo Reich, che non a caso si scagliò in primo luogo contro gli ebrei, un popolo segnato dalla «esperienza dello sradicamento» e divenuto il simbolo della «contingenza e ambivalenza dell'essere».

Corriere 23.3.13
La vita ricomincia dall'ignoto
Quando gli idealisti cercavano un destino in Nuova Guinea
di Cinzia Fiori


Un tuffo nel pensiero romantico e in un'epoca che prometteva grandi soddisfazioni alla Germania. Siamo all'inizio del secolo scorso, navighiamo verso la Nuova Pomerania con August Engelhardt da Norimberga, intellettuale ventiseienne emaciato, vegano e nudista. Sta andando nel protettorato tedesco per fondare un ordine di mangiatori di cocco che, in contatto con la natura, nutrendosi soltanto del sublime alimento, si libereranno da ogni contaminazione dello spirito e diventeranno uomini perfettamente realizzati, più simili a Dio degli altri.
Di eccentrici, idealisti, utopisti, radicali simili a lui ne incontreremo molti in Imperium dello svizzero Christian Kracht (traduzione di Alessandra Petrelli). Conoscono Schopenhauer e la Filosofia della vita, fuggono il mondo volgare e accelerato della modernità per trasformare la propria esistenza in opera d'arte. Creando per sé valori e scopi, oppongono la propria volontà romantica alla versione peggiore di un universo che considerano imperscrutabile.
È l'impianto teorico che scorre sotto traccia a un libro avvincente, avventuroso, non di rado spassoso, e capace di turbare il lettore con due soli cenni, per nulla accidentali, a Hitler. Se Engelhardt, scrive l'autore, dovesse «richiamare alla mente qualche analogia con un successivo romantico e vegetariano tedesco, che forse avrebbe fatto meglio a stare accanto al suo cavalletto, ebbene, ciò è del tutto intenzionale e in nuce coerente». La coerenza interna è anche una delle doti del testo di Kracht, si tratta infatti di un romanzo-apologo, nel quale l'autore, armato di strumenti filosofici, illustra le conseguenze tangibili di un'idea. E induce il lettore a pensare che in un simile milieu culturale, sia un caso sventurato, ma soltanto un caso, che Hitler non sia finito, come il protagonista del romanzo, in Nuova Guinea o altrove. Non è certo la prima volta che i totalitarismi novecenteschi vengono considerati ramificazioni politiche aberranti del pensiero romantico. Ma nel romanzo è la casualità a turbare la ragione. Tant'è che ha fatto discutere in Germania, sia pure con una convergenza di giudizi positivi.
Per raccontare una concezione della vita che oggi ci appare remota, Kracht sceglie l'allegoria, e nel protettorato dispiega una perfetta ricostruzione della mentalità tedesca dell'epoca, con la cinica furfanteria dei commercianti, la Realpolitik delle autorità ammantata di nobili fini e l'ingenuità di avventurieri, navigatori, naturopati, mormoni e inventori, dei quali il campione è naturalmente Engelhardt. Il protagonista è veramente esistito così come sono esistiti la maggior parte dei personaggi principali del romanzo. L'autore gioca con i loro destini, reinventandoli un po' e, per offrire una migliore percezione dell'aria del tempo, inserisce qua e là, le presenze fugaci di Hermann Hesse, Thomas Mann e Franz Kafka, nomina gli studi di Einstein, anticipa il mana di Mircea Eliade...
Non si tratta del solito citazionismo post moderno, ma della rappresentazione di una cultura e di un periodo che Engelhardt e i suoi compagni di ventura rendono picaresco e strampalato. Al resto pensa la scrittura, che ripropone tutti i miti dell'epoca, a partire da quello del buon selvaggio per continuare con l'esotismo, trionfante nelle descrizioni. C'è una continua tensione, nella prosa, tra un lessico e una sintassi indirizzati a creare la suggestione dello stile romantico e un contraltare più secco, grottesco e comico, che non di rado ha una funzione realistica, teso com'è a contemperare gli elevati afflati e la prosaica materialità del vivere. L'equilibrio riesce grazie a un narratore talmente presente da diventare quasi personaggio. Ispirato agli imbonitori che spiegavano la pellicola all'alba del cinematografo, chi parla è capace di imporsi, di guidare il racconto con commenti espliciti, per poi sparire negli eventi come quando la voce in sala taceva per lasciar spazio alle immagini. Così, tra suspense, divertimento e riflessione si giunge al finale (con sorpresa). La chiusura è accelerata, procede a ritmo di varietà, richiamando i personaggi e i loro destini: c'è qualcosa di farsesco in tutte le ambizioni umane, delle quali la storia per molte vie si fa gioco.
Il libro: Christian Kracht, «Imperium», Neri Pozza, pp. 186, 16

Repubblica 23.3.13
L’archivio dei vinti
Tornano a parlare le donne senza storia di Nuto Revelli
di Massimo Novelli
 

Saranno riordinate le migliaia di voci inedite registrate per "L´anello forte"
La tenace indagine sul campo ha prodotto uno dei più ricchi repertori di storia orale
Solo parte di quei documenti vennero utilizzati. Se ne discute oggi a Cune in un convegno
Dai racconti emerge la terribile condizione di vita delle contadine nelle Langhe

«Mi piace incontrare la gente in cui credo, mi piace continuare il mio dialogo, quel dialogo che è iniziato con La guerra dei poveri e che non si è mai interrotto». Così Nuto Revelli (1919-2004), ufficiale degli alpini nella campagna di Russia e in seguito comandante partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà, scriveva nell´introduzione di L´anello forte, pubblicato da Einaudi nel 1985. La raccolta delle testimonianze delle donne contadine e della montagna povera delle valli cuneesi, frutto di lunghi anni di ricerche, completava il lavoro appassionato, e unico nel suo genere, che aveva cominciato otto anni prima con Il mondo dei vinti. Un´indagine sul campo, quella dello scrittore piemontese, portata avanti con tenacia per dare voce, per la prima volta, ai "senza storia" e ai "dimenticati di sempre". Per i suoi libri, Revelli utilizzò soltanto una parte delle interviste che aveva realizzato con il magnetofono, facendo parlare i "vinti" e le "vinte" della pianura, delle colline, delle vallate montane scarnificate dalle guerre, dalla fame, dall´emigrazione.
Quei nastri ora sono depositati alla Fondazione Nuto Revelli di Cuneo e fanno parte dell´archivio del cantore dei diseredati, dei soldati mandati da Mussolini a morire sul Don, dei combattenti per la libertà nei venti mesi di guerra partigiana. Animatrice della Fondazione, insieme al marito Marco Revelli, il figlio di Nuto, e vincitrice dell´ultimo premio Bagutta con Spaesati (Einaudi), Antonella Tarpino spiega: «In Fondazione ci sono circa duemila ore di registrazioni fatte da Nuto, oltre alle diverse stesure delle trascrizioni, tre per ogni intervista. È un patrimonio notevole, in buona parte mai reso noto e che stiamo riordinando. Rappresenta, senza dubbio, uno dei maggiori archivi italiani di storia orale. Al momento della pubblicazione di Il mondo dei vinti e di L´anello forte, ovviamente Nuto dovette selezionare e scegliere. In certi casi, poi, per pudore e per rispetto delle persone ascoltate preferì non fare conoscere alcune di quelle testimonianze, perché troppo crude, troppo private oppure troppo riconoscibili».
Le carte inedite dell´Anello forte, alcune delle quali pubblichiamo in forma integrale grazie alla Fondazione Revelli, sono al centro della relazione che la Tarpino terrà oggi al Centro Documentazione Territoriale di Cuneo. Lo farà con Beatrice Verri durante il convegno «Storie di donne nel cuneese», promosso dalla Fondazione e dall´Archivio delle Donne in Piemonte, dall´Istituto storico della Resistenza e dal Laboratorio archivio delle donne di Paraloup, la borgata in corso di restauro, fra la Valle Stura e la Valle Grana, dove si formarono dopo l´8 settembre del 1943 le prime bande della Resistenza. Come già si coglieva nelle pagine di L´anello forte, dice l´autrice di Spaesati, «da queste interviste di Nuto alle contadine e alle montanare delle Langhe e delle vallate emerge, intanto, la terribile condizione in cui erano costrette a vivere: il loro essere "anello debole", insomma. Mi ha colpito quanto diceva una di queste donne: non potendo più tollerare le violenze del marito ubriaco, esclama: "Vorrei essere un rovo!". Nello stesso tempo, però, viene fuori anche l´altra faccia della medaglia: il loro essere "anello forte". Perché furono proprio le donne, rifiutandosi a un certo punto di continuare a sposarsi con i contadini e con i montanari, a fare finire il "mondo dei vinti"».
Donne come quella A. della testimonianza che rendiamo nota in questa pagina. Nuto accennò alla ragazza che aveva lasciato le Langhe per andare a fare l´operaia a Torino e che non aveva timore di manifestare il suo antifascismo, nell´introduzione di L´anello forte. Non volle tuttavia farla conoscere interamente e non la inserì nel libro, forse per non pubblicizzare i particolari più intimi e segreti della vita di A.: i rapporti sessuali con il marito, la presunta follia, l´essere additata come una "masca", una strega.
«Quello delle masche», prosegue la Tarpino, «è un vero codice comunitario, un patrimonio simbolico, nell´universo femminile dei "vinti", soprattutto nella zona delle Langhe. Era una specie di super-io, riguardava tutto ciò che non andava fatto». In altri casi poteva significare un´arma di difesa o, a volte, di presa in giro delle superstizioni e delle credenze popolari: una storia di masche racconta, per esempio, di una donna che aveva fatto credere di possedere il "libro del comando", o delle magie, che invece non era che una raccolta di ricette di cucina.
La cospicua documentazione del Mondo dei vinti e dell´Anello forte, non usata da Nuto per i volumi del 1977 e del 1985, sarà quanto prima, almeno in parte, resa pubblica. Tra i progetti della Fondazione c´è la pubblicazione entro l´anno di alcune delle interviste, edite e inedite, ordinate per temi. E c´è quindi l´idea di dedicare a Nuto Revelli, e al suo lavoro di storico dei "senza storia", una sorta di Meridiano, che raccolga il meglio della sua opera.

Corriere 23.3.13
La materia oscura che rallenta l'Universo
di Giovanni Caprara


È il 20% in più di quanto si credeva: rappresenta la parte ignota del cosmo
Nell'Universo c'è più materia oscura di quanto si pensasse finora. Lo ha misurato il satellite Planck dell'agenzia spaziale europea Esa con quindici mesi di intense osservazioni dell'intera volta celeste. «Ora sappiamo che costituisce il 26,8 per cento dell'Universo, vale a dire il 20 per cento in più di quanto prima si era calcolato» racconta Nazzareno Mandolesi dell'Università di Ferrara e dell'Istituto Nazionale di astrofisica, responsabile di uno dei due strumenti imbarcati sul satellite oltre che del gruppo di astronomi di varie accademie che hanno conquistato l'importante risultato. La natura del cosmo (conosciuto) è divisa in tre specie: c'è la materia visibile come stelle e galassie la quale rappresenta appena il 4,9 per cento, poi si aggiungono la materia oscura e l'energia oscura così battezzate perché la loro identità è ignota nonostante i mezzi di osservazione di cui gli astrofisici dispongono. Ma con Planck si è compiuto un passo avanti anche se il mistero permane addirittura dal 1933. Esattamente ottant'anni fa l'astronomo svizzero Fritz Zwicky di origine bulgara e poi naturalizzato americano, studiando i lontani ammassi di galassie della Vergine e della Chioma considerava che la loro massa doveva essere più elevata, addirittura 400 volte maggiore, rispetto a quella valutata con la luce emessa. Ma non seppe dare una risposta. L'enigma venne ripreso negli anni Settanta e gli astronomi si immaginarono oggetti oscuri e collassati intorno alle galassie i quali non emettendo luce non apparivano ma contribuivano al calcolo della massa. Alcuni di questi corpi celesti li avevano battezzati Machos. Poi si aggiunsero altre spiegazioni come l'esistenza di particelle nucleari senza massa e altre soluzioni.
Insomma l'enigma invece di sciogliersi si acuiva tanto da accendere pure la fantasia di qualche scrittore di fantascienza come Philip Pulmann che scriveva addirittura una trilogia, tre romanzi di buon successo con questo soggetto. Tanto che dal primo nel 2007 venne tratto un film (La bussola d'oro del regista Chris Weitz) con protagonisti attori come Daniel Craig (poi famoso come il nuovo 007) e Nicole Kidman. Nella pellicola la materia oscura diventa una polvere capace persino di entrare in contatto con le menti umane condizionandole.
La fantasia, anche quella degli scienziati, continuava intanto a correre per trovare risposte e il risultato di Planck porta un contributo concreto, oltre che affascinante, per spiegare e capire meglio l'universo in cui viviamo.
«Misurando più materia oscura — spiega Mandolesi — vuol dire che non solo l'energia oscura rimanente è minore ma che la velocità di espansione dell'universo è meno accelerata di quanto si ritenesse. Perché essendoci meno energia oscura l'universo è più lento, l'effetto attrattore che gli imprime velocità è dunque più ridotto».
Fino alla metà degli anni Novanta nemmeno si parlava di energia oscura ma solo di materia oscura. Ma da allora alcune osservazioni sulla fuga delle galassie giudicarono utile un'intuizione di Albert Einstein che propose per far quadrare i conti di un Universo che immaginava stazionario e il valore da lui ideato per l'occasione serviva proprio per mantenerlo immobile. Poi ritrattò definendolo «il mio più grande errore» però quel valore (la costante cosmologica) rimase prezioso e oggi è alla base dell'energia oscura.
C'è, però, un altro risultato di Planck che intriga gli astronomi, ovvero la presenza di «semi galattici», che sono dei punti in cui l'energia risulta più intensa. «Abbiamo scoperto che la distribuzione di questi "semi" non è uguale in tutto il cosmo come finora si riteneva — ricorda lo scienziato —. Questo come credente mi fa rabbrividire perché mi piace pensare ad una natura regolare e perfetta, mentre abbiamo scoperto e fotografato l'esatto contrario».
La nuova mappa mostra un Universo neonato, com'era 380 mila anni dopo il Big Bang dal quale tutto ebbe origine. «È una fotografia di una precisione straordinaria che servirà da base per decenni per decifrare i molti enigmi del cosmo — conclude Nazzareno Mandolesi —. Ed è la conferma di un Universo piatto nel quale l'espansione continua andando a smantellare anche alcune strane idee come quella dell'astronomo britannico Stephen Hawking il quale sostiene che dal caos tutto abbia avuto origine».