sabato 19 dicembre 2015

La Stampa 19.12.15
I due geni della pittura. Van Gogh e Munch
Le stelle stanno a guardare
Al Museo che Amsterdam dedica al suo illustre artista un match a colpi di capolavori da cui affiora una comune sensibilità
di Fiorella Minervino


Due giganti a confronto: Van Gogh e Munch per la prima volta fianco a fianco per raccontare le affinità che li legano in una mostra ricca di ben 80 dipinti e 30 lavori su carta, realizzata grazie anche al Museo Munch di Oslo e a 25 prestatori. Sono i due artisti che forse meglio hanno saputo scavare nel proprio animo turbato, anticipando angosce, paure, incubi dell’intero ’900. Dieci anni li separano nella nascita, Vincent vide la luce a Groot-Zundert nel 1853, Edvard ad Oslo nel 1863, tuttavia le esperienze corrono parallele, molto li unisce anche se probabilmente mai si incontrarono. L’esordio artistico risale per entrambi al 1880 nella scia dei pittori naturalisti, ma subito avvertono l’esigenza di stili personali e temi cari al realismo. La panoramica prende l’avvio dai famosi Mangiatori di patate 1885, e da Il mattino 1884: i dipinti fecero scandalo, quello di Munch con la ragazza ai bordi del letto per la crudezza del racconto, quello di Van Gogh per le mani callose, i volti scavati dalla fatica, l’atmosfera cupa dei contadini a tavola.
I due, desiderosi di libertà e novità, partono entrambi per Parigi, il centro delle avanguardie artistiche internazionali di primo ’900 e frequentano talora gli stessi ambienti e artisti, Gauguin, Bernard e così via. Ciascuno vuol trasformare il linguaggio dell’arte, anzi rivoluzionarlo per dare corpo a sentimenti universali, semmai offrire risposte alle domande comuni, rendere l’esistenza umana in tutti gli aspetti, dai più duri ai più alti, meglio se a contatto della natura. Nascono così i cicli di nascita e morte, le stagioni, la paura, la sofferenza, l’amore e la speranza: in una vasta sala si succedono opere prodigiose, suddivise per tali temi, come del resto le numerose lettere esposte in vetrine dove entrambi spiegano il proprio lavoro. Ecco allora la Fanciulla malata e Madonna di Munch, vicini a La berceuse di Van Gogh, poi Campo di grano sotto un cielo nuvoloso di Edvard, accanto al Giardino dell’ospedale di Vincent. I loro linguaggi esasperati cercano l’espressione più profonda nei colori e nelle pennellate: alle linee ondulanti, corpose dell’olandese, capaci fin di agitarsi sulla tela per catturare i gialli del Sud di Francia, corrispondono i rossi e le atmosfere soffocanti, dalle prospettive e inquadrature ribaltate, e dalle mirabili semplificazioni formali del norvegese. Se i celebri Girasoli turbano l’osservatore, l’Urlo ne sconvolge l’animo catturandone sgomento e impotenza. I due amano il mare, i fiumi dai fragili ponti in legno con giovani donne appena delineate, prediligono le serie, i dipinti in successione che definiscono «sinfonie»: per Munch è il possente Fregio della vita (vi lavora sino alla morte nel 1944) a narrare l’esistenza come una danza animata da figure eloquenti, volti sintetizzati e colori simbolici come l’abito candido della fanciulla, il rosso della passione al centro, mentre i blu e i bruni della vecchia sottolineano i lineamenti sfatti. Per Van Gogh è invece La casa gialla ad Arles che chiamava «decorazione», come la famosa Camera da letto 1888.
«Realizziamo ora un nostro lungo sogno, anche con il nuovo ingresso al museo, in occasione dei 125 anni dalla morte del pittore», ha dichiarato all’inaugurazione il direttore Axel Rueger del museo di Amsterdam, poi con la curatrice Malte Van Dijk (classe 1982) ha tolto i teli che coprivano due capolavori accostati all’ultimo piano, salutati da performances e musiche: sono le Notti stellate, l’una sul Rodano nel 1888, l’altra a Oslo nel 1924. Medesima è la lontananza dalle minuscole città illuminate sul fondo sotto il potente cielo blu; entrambi paiono voler afferrare le stelle, Van Gogh le crea lucenti nell’acqua, sfavillanti, quasi in movimento. Gli astri di Munch paiono dei pianeti, se non sogni, con l’ombra lunga d’un uomo sulla neve, fuori dalla sua casa.
La Stampa 19.12.15
Cercas: “Nuovi politici? Cercano solo il potere”
“Non ci sarà nessun cambio: Podemos e Ciudadanos prodotti della partitocrazia”
intervista di Paola Del Vecchio


«Non ci sarà nessun cambio storico. È possibile che il bipartitismo imperfetto possa tramontare, ma è tutto da vedere. E vedremo quanto durano Ciudadanos e Podemos, che si propongono come alternativa ai vecchi Pp e Psoe». In controtendenza con il clima generale di grande aspettativa, lo scrittore Javier Cercas si dichiara «molto scettico» sulla svolta annunciata domani nelle urne, che potrebbe sancire la fine dell’alternanza fra popolari e socialisti al governo negli ultimi 30 anni. Per l’autore de «L’impostore» e di «Anatomia di un istante», «anche i nuovi partiti sono prodotti della partitocrazia, che è il problema di fondo della democrazia spagnola». E lo scenario tracciato dai sondaggi «condanna a governi o patti di coalizione alla italiana, a una fase di grande instabilità politica».
Perché è così pessimista?
«È molto strano quello che è accaduto in Spagna negli ultimi due anni. I media hanno ingigantito l’importanza delle nuove forze, due partiti nuovi senza alcuna rappresentanza parlamentare, ma onnipresenti in tv e nei dibattiti, a differenza di IU o UPyD. Vedremo se gli elettori gli daranno ragione».
Che pensa di Ciudadanos?
«Non mi fido. È un partito molto artificiale, creato a tavolino dalle imprese dell’Ibex 35 per frenare Podemos. Si dice centrista, come il Cds di Adolfo Suarez, che arrivò ad avere molti deputati, ma poi scomparve. Vedremo quanto dura».
E Podemos?
«In un anno e mezzo, con un giro copernicano brutale, da forza antisistema e anti-casta, è divenuto un partito socialdemocratico, senza grandi differenze dal Psoe. Sono scettico, perché la questione cruciale di questo Paese, individuata efficacemente dal movimento15-M, è stata assente dalla campagna elettorale: la democrazia reale, la necessità di una rigenerazione profonda, per frenare il degrado delle istituzioni come conseguenza della partitocrazia. È il problema di fondo, di cui la corruzione è il prodotto. La legge di finanziamento è totalmente opaca e non c’è democrazia interna ai partiti, neanche in Ciudadanos o Podemos. Ma ha sentito parlare qualcuno di modifica della legge di finanziamento?»
Podemos ha finanziato in crowfunding la campagna, con 1,5 milioni …
«È positivo come gesto, ma non è la soluzione, che è riformare la normativa. Podemos e Ciudadanos propongono di cambiare la legge elettorale, che penalizza le forze minori. Sono riforme strutturali fondamentali, per de-colonizzare la società dall’occupazione dei partiti. Il peggio è che tutti sanno che bisogna riformare o eliminare il Senato, che non è possibile avere in Catalogna 5 amministrazioni pubbliche. Ma nessuno muove un dito. Temo che i nuovi vogliano spazzare via i vecchi Pp e Psoe per prenderne il posto».
Ciudadanos ha proposto di abolire il Senato e le province…
«A parole, ma non credo che arriverà ai fatti. Conosco Ciudadanos dall’esordio in Catalogna, è un partito nazionalista spagnolo e ha fatto una demagogia pericolosa su questioni fondamentali, come la lingua. Per questo non mi fido».
E cosa crede che accadrà domenica?
«Temo possa accadere come in Gran Bretagna, alle elezioni di maggio. Si aspettava un terremoto provocato dall’Ukip di Nigel Farage con un 20% dei consensi. Il risultato è stato che Cameron ha vinto con maggioranza assoluta, soprattutto grazie al lieve miglioramento dell’economia. Rajoy non vincerà di lunghezza, ma avrà un risultato migliore di quello previsto dai sondaggi per lo stesso motivo. È probabile un governo di minoranza del Pp, con appoggi puntuali. Ne abbiamo avuti molti, non sarà una situazione eccezionale».
La Stampa 19.12.15
Boeri al Parlamento: grave errore bocciare la busta arancione
Per anni i governi e i presidenti dell’Inps non hanno voluto farlo per paura di avere reazioni negative da parte dei contribuenti
di R. E.


«Purtroppo il Parlamento non ha approvato l’emendamento che ci renderebbe possibile l’invio agli italiani della busta arancione che avevamo chiesto. Non costava nulla alle casse dello Stato, in quanto le risorse le abbiamo. Dobbiamo solo spostarle tra diversi capitoli di spesa». Il presidente dell’Inps, Tito Boeri è amareggiato per la “bocciatura” anche da parte delle Camere della busta arancione, un documento (il nome viene dall’omologo svedese) che permette al contribuente di sapere quanto ragionevolmente può aspettarsi dal suo futuro assegno pensionistico.
A margine di un incontro all’Università Cattolica di Milano, il presidente dell’Inps ha spiegato che «Noi non abbiamo oggi la possibilità di poter mandare a casa a coloro che non hanno preso il pin, la famosa busta arancione se non in quantitativi del tutto al di sotto delle necessità. Ritengo sia un fatto molto grave, perché questo era un diritto che gli italiani avevano fin da quando sono state cambiate le regole pensionistiche nel 1996». Boeri ha poi aggiunto che il sistema della busta arancione «era tra l’altro una cosa che quella legge prevedeva. Per anni i governi e i presidenti dell’Inps non hanno voluto farlo per paura di avere reazioni negative da parte dei contribuenti. Noi la scelta di informare l’abbiamo fatta, ma non veniamo messi nella condizione di attuarla fino in fondo».
Di qui l’invito dell’Inps a tutti i lavoratori a prendere il pin e fare la simulazione. «Poi - spiega Boeri - cercheremo di trovare altri modi per fare arrivare questa corrispondenza a casa degli italiani». Il presidente Inps conclude poi il suo intervento con una nota polemica indirizzata sia al Parlamento che al Governo. «Avevamo chiesto - ha ricordato - al Parlamento di prendere in mano la questione. Già c’era stato un emendamento proposto in decreto a fine novembre. Speravamo che in sede di Stabilità la questione venisse affrontata e così non è stato. A questo punto manderemo quelle 150 mila buste e manderemo qualche altra nel 2016, ma in queste condizioni dovremo trovare altri modi».
Repubblica 19.12.15
Stefano Fassina
“Sinistra divisa, ai gazebo noi non ci saremo”
“Ci sono realtà dove una collaborazione con il Pd è possibile, ma noi restiamo una forza politica autonoma”
“L’area che si rifà a Pisapia ha due candidature di qualità, ma in questo modo fanno un favore a Sala”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Per come la vede Stefano Fassina, a Milano, Bologna, Roma, Napoli è molto probabile che Sinistra italiana diserti le primarie e corra contro il Pd. «Non siamo la low cost del Partito democratico », dice il deputato. E sul ministro Boschi: «Il suo intervento è stato evasivo, per questo abbiamo votato la sfiducia».
A Milano Francesca Balzani ha ufficializzato la sua candidatura. Sinistra italiana ha deciso se appoggiarla?
«C’è una discussione in corso. Domani ( oggi, ndr) Sel farà un’assemblea per decidere».
Ma lei cosa ne pensa?
«Secondo me con due candidati del Pd oltre a Giuseppe Sala (la Balzani e Pierfrancesco Majorino) non ci sono le condizioni per partecipare alle primarie. L’area che si rifà all’esperienza di Pisapia si divide in due candidature di qualità, ma così facendo avvantaggia chi non rappresenta minimamente quel percorso».
E a Bologna?
«A Bologna c’è un ampio schieramento civico che sta discutendo il programma e presto definirà il candidato che correrà contro il sindaco pd Merola. Ma c’è una premessa da fare».
Quale?
«Il dato politico attuale è che il centrosinistra è finito a livello nazionale. Una rottura determinata dalle scelte del governo su lavoro, scuola, trivelle, riforme. Per questo nelle città non ci può più essere uno schema di gioco predefinito e ci sono valutazioni che risentono di un quadro di rottura ».
Ad esempio?
«La candidatura di Giorgio Airaudo a Torino, alternativo a Piero Fassino per come ha fatto il sindaco e il presidente Anci. La mia a Roma, per l’impraticabilità di una coalizione con quel Pd che prima ha rotto col centrosinistra in Campidoglio e poi ha chiuso dal notaio l’amministrazione Marino».
A Napoli sosterrete De Magistris?
«Sì, lì il Pd non è in grado di mettere in campo un progetto, come dimostra la candidatura di Antonio Bassolino. Saremo a fianco dell’attuale sindaco con una nostra proposta autonoma».
Vi dividerete ovunque? Nonostante questo possa portare alla vittoria della destra o dei 5 stelle?
«Ci sono realtà dove il quadro consente una collaborazione col Pd, penso a Cagliari o a Trieste. Ma la nostra è la posizione di una forza politica autonoma che non è la low cost del Partito democratico. Se il centrosinistra è finito, la responsabilità è di Renzi».
Che impressione le ha fatto votare la sfiducia a un ministro che fino a qualche mese fa era del suo stesso partito, insieme a M5S e Fratelli d’Italia?
«Non è stato piacevole. Dopo di che noi siamo all’opposizione del governo Renzi e la ministra Boschi nel suo intervento ha eluso questioni fondamentali. Il suo conflitto di interessi è oggettivo, ma ricordo che dovrebbe essere evitato anche quello potenziale. Di fronte a un intervento così evasivo non potevamo che votare la sfiducia».
Corriere 19.12.15
Un Cagliostro del XX secolo. Licio Gelli e i suoi seguaci



È morto Licio Gelli, il «Maestro Venerabile» della loggia massonica (segreta) P2. Fece scalpore a suo tempo la scoperta di una lista di 962 iscritti, fra cui ministri, vertici dei servizi segreti, alti magistrati, banchieri, imprenditori, parlamentari e giornalisti. Molti di costoro smentirono di appartenere
alla loggia, ma la verità non fu mai accertata.
A Licio Gelli furono attribuite molte nefandezze e si ritiene che si sia portato nella tomba segreti inconfessabili. Che idea si è fatto di questo personaggio?
Pierfrancesco Camilleri

Caro Camilleri,
Non l’ho mai incontrato, ma dalla lettura dei giornali e dai racconti di chi lo ha conosciuto, ho tratto l’impressione che Gelli fosse una sorta di Cagliostro, ambizioso, spavaldo, millantatore e incantatore. Tutta la sua vita fu un «Ponzi scheme», dal nome di quell’uomo d’affari italoamericano, agli inizi del Novecento, che pagava lauti interessi a Tizio con i soldi di Caio e a Caio con quelli di Sempronio: una piramide destinata a crollare su se stessa trascinando con sé tutti coloro che, ammaliati, gli avevano affidato i loro denari.
Nel caso di Gelli la piramide era formata dal nome e dal prestigio delle persone di cui riusciva a conquistare la fiducia. Quanto più ostentava potenti amicizie (non sempre reali) tanto più aumentava il proprio credito e reclutava nuovi amici. Fu questa la ragione per cui il fenomeno Gelli non mi sembrò inquietante. Ero convinto che i suoi piani strategici gli servissero soprattutto a creare la propria leggenda. Mi sembrò molto preoccupante invece il fatto che questo fantasioso venditore di fumo fosse riuscito a sedurre un certo numero di imprenditori, funzionari dello Stato, magistrati e parlamentari. Che cosa pensare di una classe dirigente che si lasciava accalappiare da una persona di cui era impossibile accertare i meriti e le qualità?
La sola spiegazione plausibile è il clima politico e sociale italiano tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Gli attentati terroristici erano sempre più frequenti, le turbolenze bancarie minacciavano la stabilità della lira, la criminalità organizzata agiva sempre più impunemente, i rapimenti di persona erano all’ordine del giorno, il rapporto stretto da Aldo Moro con il Pci aveva trovato consensi in una parte della società nazionale, ma era visto con sospetto dagli ambienti moderati, da Washington e persino da Mosca. L’Italia sembrava scivolare verso il caos e il clima politico era quello più adatto a suscitare paure, alimentare speculazioni, progettare fantasiose vie di uscita. Era il clima in cui Gelli poteva tessere più facilmente le sue trame.
Repubblica 19.12.15
Le risposte che mancano
di Stefano Folli


IERI alla Camera c’era solo un fatto certo: la mozione individuale dei Cinquestelle contro Maria Elena Boschi era destinata a una sonora sconfitta. E così è accaduto.
NELL’INDIFFERENZA generale, attraverso la forza perentoria dei numeri.
La vera questione, quella su cui si è accesa un po’ di passione, tra fischi, ululati e i soliti insulti, era un’altra: come si sarebbe comportata nel giorno del giudizio la ministra delle Riforme, quale tono e quali argomenti avrebbe adottato? E soprattutto: avrebbe retto allo stress?
Sotto questo aspetto, la giovane aretina non ha deluso i suoi sostenitori e forse ha convinto qualcuno dei suoi critici (non tutti, beninteso). Ha fatto un discorso abile, mescolando ragione e sentimento. Un discorso costruito con cura per non inciampare nelle contraddizioni del pasticcio bancario. In passato la Boschi aveva già dimostrato una capacità meticolosa di approfondire un tema, sviscerarlo e impadronirsene quanto basta: vedi la matassa della riforma del Senato. Ha applicato la stessa ricetta alla faccenda Banca Etruria, un terreno assai più scivoloso e infido delle scaramucce con la minoranza del Pd sul modo di eleggere i nuovi senatori.
Ovviamente ieri la ministra non ha parlato ai membri della Camera. Né lo ha fatto il suo nemico di giornata, il grillino Di Battista, portavoce della mozione di sfiducia.
Ognuno ha parlato all’Italia televisiva, ossia all’opinione pubblica. Sempre più spesso il Parlamento, in occasioni come questa in cui l’esito è scontato, diventa il semplice palcoscenico dove si muovono personaggi che dialogano con il mondo esterno. Come è quasi la regola, la parte più difficile spettava alla rappresentante del governo, chiamata a reggere il suo ruolo nell’ultima versione dell’eterno scontro fra la politica — con le sue zone d’ombra e i suoi perenni compromessi — e l’antipolitica sempre alla ricerca di una conferma della propria purezza.
Nulla è stato lasciato al caso, persino l’abbigliamento. Da un lato il vestito scuro, sobrio e quaresimale, della ministra; dall’altro l’abito sportivo, ben modellato, e la barba lunga di Di Battista. Ognuno ha svolto il suo compito, ma si può dire che la Boschi è uscita dall’aula meglio di come era entrata. E non solo per i numeri confortevoli del voto finale. Il fatto è che la ministra ha dimostrato una volta di più di possedere una certa tempra è una notevole freddezza, confermate dal fatto che non ha nemmeno avuto bisogno di leggere il testo del suo intervento.
In conclusione, il governo ha segnato un punto a suo vantaggio. Se la politica attuale è soprattutto comunicazione, la Boschi ha saputo destreggiarsi fra gli ostacoli con efficacia non minore di Di Battista. La parola ultima spetta ai teleutenti. Ma dopo la nomina di Cantone, fatta per colpire il pubblico e recuperare consenso, l’assolo della ministra è un altro colpo andato a segno per Palazzo Chigi. S’intende che ora occorre attendere gli eventi. Dipende soprattutto dall’inchiesta della magistratura se la questione bancaria è destinata a rientrare oppure no. Ma da oggi in poi il tema non è più il conflitto d’interessi di Maria Elena Boschi, bensì le responsabilità del governo nella sua collegialità e degli organi di vigilanza.
Nel suo intervento in aula Bruno Tabacci, che pure fa parte della maggioranza, ha richiamato la “superficialità” di chi ha varato il decreto sulle banche popolari includendovi l’istituto di Arezzo che appena diciotto giorni dopo sarebbe stato commissariato: come è possibile che il dissesto fosse ignoto al ministero dell’Economia? E come è possibile che la Consob non sia intervenuta pur notando la “stranezza” delle fluttuazioni in Borsa dei titoli? Sono quesiti ancora senza risposta. Ma è chiaro che la nomina di Cantone, nelle intenzioni di Renzi, serve anche a trasmettere un segnale di forte sfiducia verso la Banca d’Italia e la stessa Consob. Come pure l’attacco senza mezzi termini mosso dal presidente del Consiglio alla Germania e alla Merkel, proprio sulla gestione del sistema bancario, è un modo astuto per spostare l’attenzione.
La Stampa 19.12.15
Da Bankitalia 11 contestazioni a Boschi
Vertice lunedì in procura su Etruria
La Vigilanza consegna i nuovi atti, possibili svolte nell’inchiesta
di Gianluca Paolucci


Un vertice in procura, lunedì ad Arezzo, per consegnare al procuratore Roberto Rossi gli atti del nuovo procedimento sanzionatorio di Bankitalia al vecchio cda della Popolare dell’Etruria. Dall’esame degli atti potrebbero scaturire nuove svolte nell’indagine, dato che proprio sulla base delle segnalazioni di Bankitalia la procura si è mossa per contestare l’omessa vigilanza a presidente e ad del consiglio in carica fino al maggio del 2014 e poi la violazione delle norme sul conflitto d’interesse all’ultimo presidente, Lorenzo Rosi e al consigliere Luciano Nataloni.
Si tratta di una serie di contestazioni mosse ai componenti del consiglio esautorato da Bankitalia con il commissariamento dell’11 febbraio, sulla base dei fatti emersi durante l’ispezione condotta tra il 14 novembre del 2014 e il 27 febbraio del 2015. Ispezione ad «ampio spettro», per la verifica del patrimonio di vigilanza dell’istituto. Secondo quanto ricostruito, le contestazioni riguardano 15 consiglieri e cinque componenti del collegio sindacale. Undici contestazioni riguardano Pierluigi Boschi, all’epoca vicepresidente di Etruria.
Le sanzioni al momento non sono ancora state emanate: la decisione spetta al Direttorio di Bankitalia, su proposta della Vigilanza, dopo di che le sanzioni vengono rese pubbliche. In questa fase del procedimento le parti hanno la facoltà di presentare le proprie controdeduzioni agli addebiti mossi.
Addebiti che riguardano le carenze nel governo societario e nella gestione e controllo dei rischi, con particolare riferimento alla gestione dei crediti deteriorati. Durante l’ispezione era infatti emersa dalla verifica di una serie di posizioni l’esigenza di ulteriori, massicci accantonamenti per alcune posizioni. Proprio sulla base di questi rilievi il cda del 30 gennaio aveva deciso ulteriori accantonamenti per 217 milioni di euro. Inoltre, secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, non risultavano attivate garanzie nel 23% dei casi, mentre le fidejussioni rilasciate sono risultate inefficaci nel 91% dei casi.
Le sanzioni che dovessero eventualmente arrivare ai consiglieri sarebbero le seconde in pochi anni a carico degli esponenti della banca. Alla fine del 2014, dopo l’ennesima ispezione di Palazzo Koch, i consiglieri - tra i quali figurava anche il padre della Boschi - erano stati sanzionati per 2,54 milioni di euro. Le motivazioni peraltro erano molte simili a quelle che hanno poi, con l’ultima ispezione, portato al commissariamento: «Violazioni delle disposizioni sulla governance», «carenze nell’organizzazione e nei controlli interni» «carenze nella gestione e nel controllo del credito», «violazioni in materia di trasparenza» e «omesse e inesatte segnalazioni all’Organismo di Vigilanza».
L’attenzione degli inquirenti in questi giorni è però nell’esame delle operazioni condotte tra Banca Etruria e 14 società. Tra queste figura la coop Castelnuovese, guidata da Rosi prima di essere nominato presidente di Etruria. E una serie di operazioni condotte in conflitto d’interesse da Nataloni, noto commercialista fiorentino e grande collezionista di incarichi tra amministrazioni locali e coop rosse.
In procura risulta aperto anche un fascicolo senza indagati né reati basato su una relazione della Gdf relativo ad accertare eventuali carenze nell’attività di vigilanza. Sarà trasmesso a Roma, per competenza.
il manifesto 19.12.15
Guerre d’appalto
Aveva detto: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece Matteo Renzi, subito dopo la chiamata di Barack Obama, ha annunciato da Porta a Porta (a questo punto la prima Camera del Paese) l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, di 450 soldati
di Tommaso Di Francesco


Aveva detto: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece Matteo Renzi, subito dopo la chiamata di Barack Obama, ha annunciato da Porta a Porta (a questo punto la prima Camera del Paese) l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, di 450 soldati.
Una svolta del «disertore» Renzi, passata quasi sotto silenzio, anzi sotto banco. Perché si tratta di «stivali a terra», truppe sul campo, quelle che l’America non mette più in questa misura, tanto che delega l’appalto del presidio di guerra proprio all’Italia che si accoda così alla scia dei pesanti bombardamenti Usa nella regione.
Dopo le gravi responsabilità degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi europei, Turchia e petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato questo Paese «perché Assad se ne deva andare», favorendo indirettamente e direttamente la nascita dello Stato islamico.
Andiamo in armi a Mosul per difendere l’importantissima struttura della mega-diga, ora ripresa dai peshmerga ma diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che annunciava la sua estensione e visibilità dalla Siria alla provincia irachena di Anbar, proprio con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al Baghdadi ha fatto il suo proclama al mondo. Una zona dunque ad alto rischio.
Che, pur accerchiata ma da eserciti quasi pronti a farsi la guerra fra loro, resta saldamente in mano alle milizie dell’Isis. Le stesse che approfittano anche del conflitto tra l’autorità centrale di Baghdad e il governo del Kurdistan iracheno impegnato nella separazione dall’Iraq e, sotto la guida di Barzani, a chiamare – assai poco fraternamente con i kurdi del Rojava e quelli del Pkk – in soccorso l’esercito turco, subito inviato da Erdogan. Per cominciare a farlo evacuare il governo iracheno ha dovuto presentare una mozione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Ora l’Italia invia in quest’area di conflitto aspro con il nemico Califfato ma anche tra «alleati», centinaia di soldati a presidiare una zona che, nel prosieguo della guerra, diventerà peggio di Nassiriya.
Renzi aveva detto e ripetuto «senza una strategia non c’è intervento militare», e invece corriamo al seguito della strategia Usa mirata ai suoi dividendi di guerra e ad impegnare la più presentabile Italia in sostituzione dell’improponibile Sultano atlantico di Ankara. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni. Mentre si apre anche la possibilità di un intervento in Libia, ora che, divisa e in guerra civile, vede la firma dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk per un governo di carta che chiami truppe occidentali a definire hotspot «sicuri» per recintare la disperazione dei profughi.
Non solo ci appaltano una guerra, ma annunciamo che lo facciamo per un appalto. Per la ditta di Cesena, il Gruppo Trevi, che avrebbe dovuto avere una committenza milionaria per la sistemazione della diga di Mosul, ma ancora non ce l’ha. E allora corriamo manu militari per il made in Italy in concorrenza con gli interessi tedeschi per lo stesso subappalto. Finalmente una chiarezza: stavolta non è una guerra «umanitaria» ma d’affari.
Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi dopo la decisione di estendere, su richiesta della Casa bianca, la missione militare italiana in Afghanistan, dove siamo in guerra con la Nato da «soli» 14 anni contro il nemico talebano che resta sempre all’offensiva. Presa a ridosso della strage Nato dell’ospedale Msf di Kunduz e nello stesso giorno in cui il neo-premier canadese Trudeau ritirava il contingente di Ottawa. Insomma, da un appalto all’altro.
La Stampa 19.12.15
Fra due mesi forse i primi italiani a Tripoli
Perché la missione sta per accelerare?
di Paolo Mastrolilli


Dopo la Siria, la Libia. Il ministro degli Esteri italiano Gentiloni ha spiegato che «l’obiettivo è arrivare ad una risoluzione dell’Onu nei primi giorni della prossima settimana, che recepisca e sostenga l’accordo firmato giovedì in Marocco per la creazione di un governo d’unità nazionale». Il capo della Farnesina ha aggiunto che la risoluzione dovrebbe «lanciare un appello alla comunità internazionale, affinché risponda alle richieste che verranno dall’esecutivo per il processo di stabilizzazione del paese». In altre parole, il testo dovrà avviare il processo per costituire la forza di pace internazionale, che l’Italia ambisce a guidare. Come nel caso della Siria, il percorso è appena cominciato e pieno di insidie. Almeno sulla carta, però, il calendario è definito. Entro trenta giorni, il Consiglio di presidenza varato in Marocco dovrebbe formare il nuovo governo di unità nazionale, che nei quaranta giorni successivi si insedierebbe a Tripoli. Questo significa che la missione di pace, se verrà richiesta dal nuovo esecutivo e le tappe previste saranno rispettate, dovrebbe essere operativa nel giro di due mesi. Gentiloni ha detto che «l’Italia è pronta a fare la sua parte, per ragioni storiche, geografiche, politiche, nell’ambito di una cornice dell’Onu e dietro richiesta del governo locale, che non deve dare l’impressione di esistere solo per invitare forze straniere». In passato lo stesso Renzi aveva dichiarato che l’Italia ambisce a guidare questa missione, e avrebbe già un candidato molto forte nel generale Serra, ex comandante di Unifil in Libano e oggi consigliere militare del segretario generale Ban Ki-moon proprio in Libia. La minaccia dell’infiltrazione dell’Isis, secondo Gentiloni, «spinge l’Italia ancora di più a collaborare, e sarebbe un errore aspettare». È vero che competerebbe al nuovo governo invitare la missione internazionale, ma secondo il ministro anche il Consiglio di presidenza già costituito avrebbe la legittimità per lanciare un appello alla comunità internazionale. In un secondo momento l’Onu potrebbe riprendere la risoluzione chiesta in primavera dall’Italia, per autorizzare operazioni nelle acque territoriali libiche allo scopo di fermare il traffico di esseri umani.
Repubblica 19.12.15
“La sinistra deve rifondare l’alleanza illuminista”
“Per il progressismo è diventata difficile qualsiasi critica della modernità liberale” “È troppo lontana dalle classi popolari. Ormai a citare Marx e Gramsci c’è la Le Pen”
Parla il filosofo Michéa “Il modello va ripensato”
intervista di Fabio Gambaro


«La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo
dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».
Come spiega questa evoluzione della sinistra?
«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».
Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?
«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».
In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra? «Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.
E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».
Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...
«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».
Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?
«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».
IL LIBRO I misteri della sinistra di Jean- Claude Michéa ( Neri Pozza, pagg. 128 euro 15)

venerdì 18 dicembre 2015

Repubblica 18.12.15
Spike Lee: “Gli Usa oggi? Una satira di Aristofane”
Per il nuovo film, prodotto da Amazon, il regista americano porta “Lisistrata” nella Chicago dei nostri giorni, divisa dall’odio razziale, più violenta dell’Iraq
intervista di Silvia Bizio


LOS ANGELES SEMPRE attuale Spike Lee con il suo cinema. Poche ore dopo il licenziamento del capo della polizia di Chicago in seguito alle proteste che hanno sconvolto la città per la pubblicazione del video dell’omicidio di un 17enne nero da parte di un poliziotto bianco, il regista ha guidato il pubblico presente alla prima del film, Chi- Raq, in una marcia lungo Broadway fino a Times Square, a New York. Insieme a lui, indossando cappelletti arancioni con il titolo del film, per protestare contro il clima di violenza, gli attori John Cusack, Teyonah Parris e Wesley Snipes e l’amico John Turturro. Il film, un misto fra satira, dramma e musical, il primo prodotto dagli studios Amazon, già nelle sale americane e presto in streaming, è un adattamento del dramma greco Lisistrata di Aristofane: in questa versione alcune donne di Chicago si alleano per pretendere dai loro compagni la fine dell’uso delle armi e della guerra tra gang. Come? Con uno sciopero del sesso.
Perché Chicago?
«Perché oggi è la capitale del mondo degli omicidi. Ho condiviso sui miei social network i ritratti realizzati del mio amico artista Adrian Franks sugli afroamericani uccisi a New York dalla polizia e da Chicago mi arrivavano sempre commenti del tipo: “E noi? Lo sai quello che succede a Chicago?”. E allora ho iniziato a pensare a questo adattamento di Lisistrata a Chicago».
Da dove viene il titolo del suo film, “Chi-Raq”?
«Non l’ho inventato io. I rapper di Chicago hanno coniato il termine, Chicago/Iraq, Chi-Raq. Perché oltre alla violenza razziale da parte delle forze dell’ordine c’è anche una guerra civile in corso, neri contro neri. Una volta almeno c’era un senso dell’onore fra i capi gang. Ora quei capi sono tutti in prigione e le gang sono fuori controllo. Di fatto l’Iraq è più sicuro della zona sud di Chicago oggi.
Chi- Raq poteva essere un documentario sulla violenza in corso così come un dramma o una semi-commedia come ho fatto io».
Satira?
«La satira usa il senso dell’umorismo per sottolineare la problematica che stai descrivendo.
Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick è la più grande satira cinematografica. In Chi- Raq Lisistrata è la ragazza del gangster numero uno di Chicago, che minaccia uno sciopero del sesso fino a che i loro uomini non deporranno le armi. Una storia quanto mai attuale, perché stiamo ancora soffrendo le stesse cose della Guerra del Peloponneso, nel 400 avanti Cristo! Stiamo solo combattendo una guerra più vicino a casa nostra. Nel primo giorno della preproduzione sono dovuto andare al funerale del fratello di uno della nostra troupe, ucciso da una gang rivale. La mia speranza è che la gente esca da questo film pensando alle armi nel nostro paese. Le armi sono un soggetto importante del film».
Come collega Aristofane al suo lavoro?
«È la narrativa che ci collega.
Aristofane faceva prima di Cristo quello che noi facciamo adesso. Voglio dire, la sua maniera di raccontare e analizzare la realtà è esperienza umana come lo è per noi. Raccontare storie, sia con parole, disegni o geroglifici, è una maniera per farci capire oltre il linguaggio. Tragedia, commedia o satira, sono solo diversi mezzi a disposizione dell’autore».
Lei ha aderito al movimento Black Lives Matter, però accusa anche le comunità nere di eccessiva violenza. Si spiega?
«Non sarei coerente né onesto se parlassi solo della violenza della polizia sui civili, soprattutto neri, senza citare quella che facciamo noi a noi stessi. C’è troppa violenza nelle comunità afroamericane delle grandi città americane. Troppa cattiveria, ignoranza, troppi padri assenti, bambini cresciuti da nonne, scarso senso civile. A me non importa di quale colore sia il dito che preme il grilletto. Dobbiamo denunciare entrambe le parti. Altrimenti sarebbe solo fanatismo settario».
Ma l’accusa di violenza e razzismo verso la polizia è risoluta.
«Certo. Sono entrambi problemi. Noi neri dobbiamo farci un’esame di coscienza e le forze dell’ordine e i politici pure. Prendiamo il caso del giovane Laquan McDonald, colpito 16 volte quando era già a terra, morto. Non era sufficiente sparargli a un ginocchio e paralizzarlo? No, è un tiro al bersaglio. Ma quello che mi fa imbestialire è come hanno cercato di insabbiare la cosa. La mia satira ha come bersaglio la violenza, l’ignoranza che la produce e i mercanti d’armi e di morte. La storia d’amore degli americani con le armi fa paura».
Corriere 18.12.15
Pompei, la strada è giusta ma troppe domus sono a rischio
L’attenzione si è concentrata su interventi importanti però non è detto che siano quelli più urgenti da realizzare
Ci sono 1.500 abitazioni in condizioni precarie, tutte ancora da valutare perché la loro verifica è stata messa in secondo piano
di Roberto Cecchi
Già Segretario generale del ministero per i Beni e le Attività Culturali e Sottosegretario di Stato


Caro direttore, sulla storia infinita di Pompei bisogna intenderci. Va benissimo essere messi a conoscenza,come è accaduto in questi giorni, sullo stato d’avanzamento dei lavori del Grande Progetto ( Giornale dell’Arte 359/2015). È importante sapere che l’intervento è passato dagli originali 105 milioni a 159,8 per effetto di economie.
Fa piacere sentir dire che nel frattempo i cantieri terminati sono 20 e 29 sono in corso di realizzazione. Ed è anche importante che si sia messo a punto il sistema di sorveglianza di tutta l’area per 3,8 milioni di euro. Benissimo anche venire a conoscenza che ci sono dei nuovi assunti come archeologi, architetti, ingegneri, amministrativi. Una bella differenza da quando c’era un solo archeologo per tutta l’area. Ottimo anche il fatto che si riesca a non perdere i fondi stanziati dalla Comunità europea, perché pare che verrà concessa una proroga di due anni rispetto alla scadenza del prossimo 31 dicembre.
Dunque, tutto bene? Problema risolto? Per capire come stanno davvero le cose van tenuti sott’occhio un paio di numeri. Pompei è un’area archeologica di 66 ettari, 49 dei quali sono scavati e 30 aperti al pubblico. Gli edifici allo stato di rudere valgono poco più di 200.000 metri quadrati, mentre quelli coperti ne occupano 88.000. Le unità edilizie, le domus, sono 1.500, e sviluppano 242.000 mq di superfici murarie. I dipinti si estendono per 17.000 mq e i rivestimenti pavimentali assommano a 12.000 mq.
Son tutti numeri importanti perché danno la misura dell’impegno che si sta affrontando. Ma ai fini del progetto, tra tutti questi numeri, uno è più importante degli altri. È quello delle domus: 1.500. 1.500 edifici che si trovano in uno stato di conservazione più o meno precario. Quasi tutti hanno una salute cagionevole (Carta del Rischio di Pompei 2010). Apparentemente, la scola armatorarum che il 6 novembre 2010 crollò senza dare alcun segno premonitore, non era in condizioni peggiori di altre. Eppure, all’improvviso, è venuta giù anche a causa di condizioni atmosferiche particolarmente sfavorevoli, che han fatto da innesco al collasso di una struttura già di per sé vulnerabile. Quindi, la conoscenza dello stato di conservazione di ciascuna domus è essenziale e avrebbe dovuto essere la parte propedeutica di tutto il progetto. Perché solo così è possibile definire una scala di priorità e decidere il da farsi, tra interventi meno invasivi e costosi, come son quelli di manutenzione ordinaria, ed altri più impegnativi come il consolidamento strutturale. Si è fatto il contrario.
Si è concentrata l’attenzione su una serie d’interventi sicuramente meritevoli d’essere realizzati, ma non si può dire se siano quelli più urgenti, visto che non è dato sapere in quali condizioni è il resto, perché il piano della conoscenza è stato rimandato a dopo.
Stando ai dati pubblicati sul sito (www.pompeiisites.org), un po’ diversi da quelli riportati in una intervista del soprintendente, gli interventi finora sono stati 14, quelli in corso 28. Se nel 2017 si arrivasse anche a farne 70, sarebbe solo meno del 5% del totale delle domus.
Niente di male, se poi rimanesse la possibilità di intervenire su tutta l’area. Ma forse non andrà così. E allora bisogna dire come si farà a garantire che ognuno di questi edifici (talvolta dei veri e propri gioielli) abbia una qualche forma di attenzione e un minimo di cura. Così come bisogna prevedere fin da adesso la manutenzione degli interventi appena realizzati, perché si sa che non ci sono opere definitive, valide una volta per tutte. Per cui, raggiunta una soglia di stabilità accettabile va garantito che l’intervento compiuto mantenga il più possibile quelle caratteristiche nel tempo, evitando di doverci mettere mano di nuovo, con altre opere costose e lesive.
È stato dimostrato che la manutenzione vale una frazione modestissima dell’intervento di restauro, circa il 2% l’anno. Quindi bisogna organizzare un piano per spendere sempre meno garantendo il massimo. Insomma, per Pompei bisogna fare di più e meglio. Non deve essere solo una palestra di interventi più o meno importanti o l’occasione per un esercizio di comunicazione. Deve essere un progetto che dà il segno di come si deve fare qui e altrove. Deve diventare la metafora di come si può e si deve operare in condizioni del genere, per ottenere il meglio al minor costo. E il metodo non è meno importante dei lavori che si realizzano, perché passa di qui la possibilità di far sì che questi beni diventino un’opportunità e un progetto per la comunità, piuttosto che un esercizio di sopportazione. Com’è adesso.
Repubblica 18.12.15
Il ritorno di Zolla l’intellettuale uscito dal mondo
Mistico laico, antimoderno profetico eretico liberale, utopista razionale la ripubblicazione di un genio isolato
Diceva: “Per il potente la conoscenza è oggetto di disprezzo o di curiosità o di ornamento: solo la vittima ne ha fame e bisogno”
di Silvia Ronchey


Chissà se qualcuno ricorda cosa voleva dire per un adolescente degli anni 70 farsi vedere in giro con in mano un libro di Elémire Zolla o, peggio, con uno dei sottili fascicoli dalla copertina viola della rivista “Conoscenza religiosa”, che Zolla aveva fondato nel 1969 per riunire in un’ideale, composita assemblea intellettuali come Schneider e Corbin, Borges e Pessoa, Florenskij e Heschel, Scholem e Duncan Derrett, Djuna Barnes e Cristina Campo. Nomi che poi la cultura dominante ha accolto e celebrato ma che a quei tempi erano controversi quando non maledetti. E Zolla, antifascista da sempre al contrario di molti
suoi detrattori, era considerato politicamente scorretto: uno scrittore proibito. «In Italia non incontrò se non fascisti», scrisse di sé Zolla nella lapidaria voce autobiografica pubblicata nell’Autodizionario degli scrittori italiani alle soglie del suo ultimo decennio di vita. Fin da ragazzo, a Torino, aveva disprezzato quella peculiare mistura di intimidazione culturale e ipocrisia settaria, che allora si incarnava nel fascismo e che a lui, da sempre poliglotta, abituato ai frequenti espatri, più apolide che cosmopolita, sembrava tipicamente italiana. «Frequentavo la scuola fascista con l’animo di Alice fra le bestie e le carte da gioco», ribadisce in un altro autoritratto. È eloquente il passo di san Nilo, l’asceta bizantino, messo in exergo nel 1959 a L’eclissi dell’intellettuale (ora ristampato ne Il serpente di bronzo, il più recente volume dell’opera omnia di Zolla in corso di pubblicazione da Marsilio, mentre nel 2016 usciranno in volume unico Archetipi, Aure, Verità segrete esposte in evidenza): «Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivellato di ferite».
Quel libro fece di Zolla il saggista più detestato dall’establishment culturale italiano nel periodo precedente al ’68. Il timore del progresso in anni in cui mostrarsi pessimisti voleva dire essere appestati, il liberalismo in politica, l’insofferenza per ogni estremismo, l’amore per la tradizione antica vista come alimento di ogni presente, per la sapienza mistica interpretata da laico, per un oriente cui riconosceva l’immenso debito occidentale facevano di Zolla un precursore. Ma negli anni della sua massima produttività andava troppo controcorrente per non essere – scriverà – «isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere».
Poco dopo il ’68, quando scrisse Che cos’è la tradizione, Zolla era «impensierito dalla depravazione circostante», annunciata peraltro dalla rivoluzione culturale in Cina e dal suo furore distruttivo delle tradizioni universitarie, artistiche, professionali, familiari non solo cinesi, ma del Tibet. Lo stesso rischio di annientamento della tradizione, della catena di trasmissione del sapere, che vedeva profilarsi in Europa, lo aveva spinto a «raccattare ciò che poteva apparire limpido e fermo» nella storia culturale dell’occidente, per farne «il centro di un mandala». Erano I mistici dell’Occidente, l’antologia che dai misteri pagani e gnostici a quelli dei padri della chiesa, dalle orazioni monastiche ed esicastiche alle visioni di Ildegarda e Caterina, Maria Maddalena de’ Pazzi e Teresa, passando per Ignazio di Loyola e Juan de la Cruz, Böhme e Kircher, Donne e Silesio, già allineava i temi della sua riflessione: l’eredità neoplatonica del mondo antico; l’uomo cosmico nel Rinascimento; il rivivere del simbolismo pagano nel XVI e XVII secolo.
Fu così che Elémire Zolla uscì dal mondo. Da quello del potere, anzitutto, editoriale e culturale. Il suo fu un cammino a ritroso, un rinfilarsi definitivo nella tana del coniglio di Alice. Ma dal centro del suo mandala, Zolla rimase sempre un filosofo lucido dalla visione pessimistica. «Per trascendere il mondo», scriveva, «bisogna che il mondo ci sia»; preliminare alla conoscenza mistica è «prima la critica del bisogno falso, del consumo coatto, della repressione della natura; poi la configurazione della propria vita nell’ordine anteriore alla modernità».
Una collocazione storica corretta di Zolla è nella linea degli orientalisti romantici e postromantici, con tre punti di riferimento: Schopenhauer, che scoprì l’India; Nietzsche, che capì i guasti dell’occidente e celebrò il dionisismo precorrendo l’apertura su un mondo a molte dimensioni ripresa dalla filosofia della fine del XX secolo; la scuola di Francoforte. Mentre la classe intellettuale si chiudeva nella scolastica tardomarxista, Zolla perorava la «liberazione dal sonnambulismo coatto della società di massa», voleva «definire l’anatomia spirituale dell’uomo nell’insieme delle civiltà religiose della terra», tentava una morfologia spirituale unitaria delle culture del mondo antico, avviava una riflessione sistematica sul lascito speculativo dell’oriente non cristiano al mondo moderno, recuperava una visione del mondo anteriore alla rivoluzione scientifica. Ma, così facendo, restava sempre e del tutto laico: «Non sono credente. Non credo a nulla. So alcune cose, altre le so meno, altre non le so, ma se dovessi dire che so qualcosa perché ci credo direi una menzogna. Non credo che esista un altro mondo oltre a questo. Esiste questo mondo, nei vari momenti in cui si rivela».
Era eminentemente fenomenologica la sua attrazione per le religioni, declinata nelle 7000 pagine di Conoscenza religiosa, che torna in libreria adesso, dopo il primo volume degli scritti zolliani raccolti da Grazia Marchianò nel 2006, con la seconda raccolta ( Civiltà indigene d’America, Edizioni di Storia e Letteratura) uscita pochi giorni fa. Anzi, il suo non risparmiare occasione per stigmatizzare la distanza tra l’adesione confessionale e un’apertura al sacro sincretistica e aliena alle barriere tra i singoli credo non fece che procurargli ulteriori nemici all’interno della cathédrale engloutie della cultura ecclesiastica.
Zolla non era, come molti insinuavano, un elitista o addirittura un reazionario. La questione dell’alto e del basso si era dissolta al momento del suo incontro col buddhismo, quando aveva scoperto la “via di mezzo” di Nagarjuna, il grande filosofo del II secolo, e quando l’immersione nel mondo dei villaggi indiani gli aveva mostrato l’indistinzione tra aristocratico e proletario nella prospettiva razionale della liberazione in vita indicata dalla filosofia buddhista. Dominato dall’amore per gli animali, dal rispetto per ciascun filo d’erba, in lui l’unica aggressività residua fu eventualmente l’intransigenza verso ogni forma di fondamentalismo.
Nel 1959 Eugenio Montale diede di lui quella che forse è la migliore definizione possibile fra le tante banali o variopinte che gli sono state date: “intellettuale eterodosso”, “cercatore di aure”, “glossatore di archetipi”.
Per Montale Zolla è, semplicemente, «uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. È un uomo che non si mette “al di sopra” della mischia, ma che vuole restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta». Anche se l’idea di progresso per Zolla era diabolica, negli ultimi anni lo avevano entusiasmato gli avanzamenti della fisica postrelativista e delle tecnologie informatiche, la rivoluzione digitale. Aveva superato l’idea evoluzionista, otto-novecentesca di progresso come bene assoluto, ma intravedeva nell’avanzamento tecnologico del nuovo secolo la possibilità di uscire dalla schiavitù della macchina e quindi dalla dialettica servo-padrone. Non era contraddizione, ma sincretismo assoluto. Il suo pensiero mirava alla redenzione dell’essere umano; a fare di ogni schiavo il proprio padrone, il regista dei propri sogni, il protagonista del proprio destino; ad allenarlo alla conquista della totalità di se stesso. In un quadro di radicale vacuità l’ego si dissolve. Come Zolla ha scritto nell’introduzione ai Mistici dell’occidente, riferendosi al Vangelo: «Il figlio del padrone è colui che obbedisce al destino senza esserne trascinato».
I veri oppressi di oggi «sono coloro che soffrono lo strazio della volgarità e non si lasciano ingannare dalla fiera dei falsi problemi, dalle questioni riducibili a contrasti fra una destra e una sinistra, fra reazione e progresso». Ma hanno al loro fianco la ragione, che, superflua al forte, è l’unica forza dell’oppresso. Perché «per il potente la conoscenza è oggetto di disprezzo o di curiosità o di ornamento: solo la vittima ne ha fame e bisogno».
il manifesto 18.12.15
Anno Santo
Una teologia del cielo aperto
Il Giubileo straordinario di papa Francesco e alcuni suoi predecessori filosofici: il «Sermone sull’infinita misericordia di Dio» di Erasmo da Rotterdam
di Pasquale Terracciano

Non è un paradosso che il Vaticano che guarda alla misericordia come chiave di riforma del proprio cammino, è lo stesso Vaticano che, proprio in questi giorni, amministra con pugno di ferro la giustizia tra le proprie file, e che reclama la sete di giustizia del mondo. Misercordia / giustizia, il dittico che nella teologia cristiana scioglie e risolve il peccato, sono raramente disgiunte: coppia obbligata a confrontarsi e scontrarsi di continuo nella storia. Questo medesimo motivo, però, porta a indagare il senso della scelta di Francesco, che non è neutra e, ancor meno, scontata.
Secondo lo stesso papa, misericordia non è parola corrente nell’attuale dibattito della Chiesa (il richiamo di Francesco è volto all’eredità di Wojtyla e al problema storico dell’attuazione del Vaticano II); da parte laica, si può aggiungere che è categoria certo attraente, ma (forse) intimamente antimoderna.
Orgoglio e disperazione
Può allora valere la pena ripercorrere un momento della storia in cui «misericordia» fu un’idea palpitante, polemica, immediatamente politica.
In epoca di grande turbamento spirituale e profonda divisione interna risuonò come parola cui appigliarsi. A Modena, nel 1555 un tessitore di tovaglie correggeva un predicatore dicendogli «Advertite, fratelli, che la misericordia di Dio è più grande delle opere»: nel 1568 un barbiere confessava che Dio «dà il paradiso per sua semplice misericordia» («ma» aggiungeva «bisogna oprare bene per obedire a Dio»). Lo sfondo protestante di questa coloritura della parola misericordia è lampante; eppure ad averla suggerita, non troppo indirettamente, era stato Erasmo da Rotterdam, proprio come possibile alternativa cattolica alla crisi aperta dalla proposta teologica della Riforma.
Quasi contemporaneamente al dibattito che lo vedeva opporsi a Lutero, mentre i più ammiravano la sapienza teologica del suo Libero Arbitrio, Erasmo dava infatti alle stampe anche una piccola predica, elegantissima e coinvolgente: il Sermone sull’infinita misericordia di Dio. Che cos’è la misericordia? È la risposta che l’uomo deve darsi rispetto alle due tendenze che lo assalgono e che vanno ricacciate indietro con tutta la forza possibile: l’orgoglio (umanistico e pelagiano) di poter raggiungere da solo Dio, e la cupa disperazione (luterana) di non riuscire a salvarsi con le proprie forze.
La disperazione era indubbiamente il peccato maggiore che si potesse compiere: e per opporvisi Erasmo faceva balenare addirittura la possibilità di accettare che l’inferno non esistesse, secondo la dottrina più radicale attribuita a un altro inquietante seduttore in campo teologico, Origene d’Alessandria.
Il sermone ebbe una sorprendente ricezione in Italia. Nell’arco di pochi anni, venne infatti tradotto ben tre volte (a Mantova, Venezia e Firenze), andando a costituire un capitolo cruciale della circolazione clandestina di Erasmo al di qua delle Alpi; ma ciò che più conta, quell’infinita misericordia divina di cui parlava Erasmo si tradusse per molti in una solida fiducia al riguardo della salvezza futura. Una teologia del cielo aperto si diffuse in vari ambienti della penisola, e molto spesso tra gli strati più umili: misericordia e speranza andavano di pari passo. Poiché Dio è la sua misericordia, non vi erano dubbi sul fatto che avrebbero potuto salvarsi tutti: anche i turchi, gli ebrei o gli zingari.
L’umanista e le pasquinate
È una storia nota, che ha costitutito il fulcro di una stagione storiografica non troppo distante nel tempo (si pensi a Silvana Seidel Menchi, al Menocchio di Ginzburg, ad alcuni lavori di Adriano Prosperi, ma anche agli studi di Stuart Schwartz sullo sviluppo delle idee misericordiste nel Nuovo Mondo). Della predica di Erasmo manca ancora una moderna tradizione italiana: in commercio esiste solo uno dei volgarizzamenti cinquecenteschi raccolto in un volume a cura di Cecilia Asso (Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi 2004), ed è una pecca che andrebbe sanata. Ci induce a ricordarlo anche un libro uscito proprio in questi giorni: la biografia, brillante e filologicamente impeccabile, dell’umanista Celio Secondo Curione, che legò il suo nome, tra le tante cose, alla vicenda teologica sopra richiamata (Lucio Biasiori, L’eresia di un umanista. Celio Secondo Curione nell’Europa del Cinquecento, Carocci editore). A Basilea, nell’opporsi all’inflessibile e intollerante idea di giustizia divina calvinista, Curione rispolverò la dottrina dell’ampiezza della misericordia divina, proponendo l’inaudita idea di un numero di beati superiore a quello dei dannati.
Strumenti di comunicazione
Quella di Biasiori è la prima ricostruzione – meritoria non solo perché viene a colmare una grave lacuna nella storiografia — dell’intero tragitto biografico e intellettuale dell’eretico, che fu anche autore di una celebre pasquinata. Il suo Pasquino fu fortunatissimo veicolo di propaganda protestante, e si diffuse attraverso un geniale bookcrossing tra le osterie e i crocicchi della penisola. Curiosamente, l’Erasmo della misericordia vi compariva non già come un maestro, ma sospeso in aria, con corna di cervo e una borsa di quattrini ai piedi, vorticosamente rigirato dal vento, a irridere la sua posizione «riformista», intermedia tra Roma e Wittemberg.
Si tratta certo di percorsi sfaccettati, e apparentemente distanti, nella storia della misericordia. Eppure suggeriscono di vagliare quanto quest’ultima sia sempre stata parola difficile e inattuale, costantemente fuori posto quando inserita nel vocabolario del potere.
La Stampa 18.12.15
Rai 3 alle 13 apre il vaso di Pandora
di Bruno Gambarotta


I due attempati monelli de La Barcaccia sono in vacanza. Al loro posto su Radio 3 Rai (lunedì-venerdì 13-13,45) Maurizio Bettini scoperchia il vaso di Pandora e ci incatena con il racconto dei miti di ieri e di oggi. L’ascolto ci induce a constatare che l’università italiana si è modellata sulla mitologia greca: qui come là sono tutti parenti.
I grandi miti sono affidati «alla parola che viaggia e si perde nel tempo», perciò il loro è un racconto mai concluso che rinvia in ogni tempo a nuove interpretazioni. Le loro vicende non sono affidate a un Libro, come accade invece nelle tre grandi religioni monoteiste, ed è stata per loro un’immensa fortuna. Hanno così evitato scismi, persecuzioni, roghi, sinodi, dogmi e mantenuto intatto il loro fascino. Non si tratta, però, di attualizzare i miti quanto di usarli come grimaldelli per penetrare nella cultura degli antichi. Così Maurizio Bettini giustifica Teseo che abbandona Arianna sull’isola di Nasso: gli eroi dell’antichità sono spesso anche dei grandi mascalzoni.
Perché le grandi eroine preferivano salvare un fratello anziché il marito e i figli? Un altro marito lo puoi trovare, così come puoi mettere al mondo altri figli, ma un fratello, se i genitori sono morti, è perso per sempre. In chiusura, musiche ispirate ai miti.
La Stampa 18.12.15
Ughi: “Non vedo l’ora di tornare in Siria
Intanto, porto a Cuba la grande Europa”
Stasera a Roma il grande violinista suona “per i bambini in pericolo nel mondo”
di Sandro Cappelletto


«Settecento, dall’inizio dell’anno. Sono i bambini morti nel tentativo di abbandonare i loro Paesi in guerra e di trovare una vita nuova. Non si può dimenticare questa tragedia, non dobbiamo farci l’abitudine». Uto Ughi con i Filarmonici di Roma suona questa sera all’Auditorium di via della Conciliazione in una serata di beneficenza promossa dall’Unicef assieme all’associazione Anfiteatro dell’Anima di Savigliano.
Il concerto è dedicato «ai bambini in pericolo nel mondo». I biglietti costano dai 10 ai 20 euro e per il pubblico sarà possibile fare ulteriori donazioni a vantaggio dell’Unicef. «Ho suonato a Damasco, ho ricordi meravigliosi di quel pubblico, degli studenti del Conservatorio, del loro talento, della loro voglia di studiare. Quando sarà possibile tornarci? Ma ora dobbiamo pensare ai bambini siriani, la cui tragedia ha commosso Angela Merkel», dice il nostro violinista.
Davvero la musica potrà fare qualcosa sulla via della pace?
«È un veicolo universale, al di là di ogni ideologia. Ogni persona, qualsiasi lingua parli, qualsiasi religione professi, può sentirla e condividerla. Purché sia suonata bene».
Mozart e Beethoven arrivano a tutte le orecchie? Ne è convinto?
«Guardi: se arrivano agli italiani, possono arrivare praticamente ovunque! Lo dico perché stiamo diventando un popolo musicalmente ignorante, dominato dal cattivo gusto che ci imbastardisce ogni giorno di più».
Musica e religione. Che cosa pensa di quei genitori di altre religioni contrari all’esecuzione dei canti natalizi nelle nostre scuole dell’obbligo?
«Innanzitutto, va detto che sono una piccolissima minoranza. Ma sul punto bisogna essere fermi: questo atteggiamento è vergognoso. Li accogliamo e loro criticano la nostra identità e le nostre tradizioni?! Così si aumenta soltanto la reciproca intolleranza. Non bisogna dare spazio a simili idiozie».
E le loro tradizioni?
«Se parliamo dei musulmani, devono avere le moschee, i luoghi di culto dove praticare in serenità e nel rispetto reciproco la loro fede».
C’è un primato della musica occidentale rispetto alle altre musiche del mondo?
«Nella mia vita ho viaggiato molto, ascoltato moltissimo, scoperto tante realtà musicali di prim’ordine. Rimango dell’idea che la culla della musica più alta sia l’Europa».
Non le sembra un’affermazione troppo conservatrice?
«No. Diceva Gustav Mahler: tradizione non significa custodire le ceneri, ma conservare la forza del fuoco».
Quali considerazioni dopo il suo recente viaggio a Cuba?
«Sono entusiasta, dell’attenzione e del livello di qualità che ho trovato. Tornerò il prossimo anno con un’orchestra mista italiana e cubana. Quando esportiamo le cose più positive dell’Occidente, possiamo ancora giocare un grande ruolo nel mondo».
E quelle negative?
«Per carità! Non le basterebbero due pagine di giornale per elencarle tutte».
Lei da anni si batte per un ampliamento dell’educazione musicale nel nostro Paese. Vede qualche risultato raggiunto?
«Sì, in negativo. Avevamo in tante cittadine e piccoli centri una rete così diffusa da far invidia alla Germania. Oggi, soprattutto nel Sud, corriamo il rischio della desertificazione musicale: ci sono territori interi senza più un’associazione di concerti. Grazie ai parametri stabiliti dall’ultimo decreto ministeriale, circa cento realtà sono scomparse e ottocento addetti hanno perso il lavoro. A questo punto credo in Italia sia in atto una vera e propria strategia di distruzione».
Recentemente il ministro del lavoro Poletti ha consigliato i ragazzi italiani di finire presto gli studi, accontentandosi anche di voti modesti, senza preoccuparsi di eccellere. Lei è d’accordo?
«Lo vede che è proprio una strategia? Io vado verso i 72 anni e studio ogni giorno, ogni giorno cercando di metterci il massimo dell’impegno. Per fortuna i giovani, a differenza dei politici, sono consapevoli che la competizione è internazionale e va giocata oggi a livelli molto alti. Che per emergere devono studiare con costanza e determinazione. La musica non tollera e non perdona distrazioni».
Repubblica 18.12.15
Quei morti in carcere e il dilemma sul patto anti-Is con il regime di Assad
Su “Le Monde” il rapporto di Human Rights Watch sulle torture nelle prigioni governative tra 2011 e 2013
Intanto a New York si apre il vertice sulla Siria E anche Parigi fa aperture a Damasco
di Lucio Caracciolo


Imorti parlano. Almeno certi morti, quelli che accedono ai media. Mercoledì il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato con grande evidenza l’immagine atroce dei cadaveri scarniti di alcune vittime del regime siriano, uccise nelle carceri di Bashar al-Asad. Quello stesso regime su cui, dopo aver cercato di abbatterlo, europei e persino americani fanno ormai conto come cobelligerante di fatto contro lo Stato Islamico.
Questa fotografia ha una lunga storia. Lo scatto è infatti tratto da un archivio di oltre 50mila immagini scattate fra il maggio 2011 e l’agosto 2013 da un locale fotografo forense, poi fuggito in Occidente. Quest’uomo, protetto dallo pseudonimo “César”, ha messo il suo catalogo dell’orrore - testimonianza delle torture somministrate nelle galere del regime di Damasco - a disposizione del Movimento siriano di opposizione, che nel marzo 2015 le ha trasferite a Human Rights Watch, reputata organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani. Dal 13 al 16 luglio, il Parlamento europeo ha ospitato 35 fotografie dell’archivio César. Il 15 settembre il tribunale di Parigi ha avviato sulla base dei documenti in questione un’indagine preliminare per “crimini contro l’umanità”. Il 7 ottobre è uscito in Francia un libro- racconto fotografico della giornalista Garance Le Caisne con l’anonimo transfuga di Damasco (“ Opération César, au coeur de la machine de la mort syrienne”, edizioni Stock). Infine, il 16 dicembre, Human Rights Watch ha prodotto un rapporto molto dettagliato al riguardo, avendo investigato in profondità su 27 vittime di cui sarebbe riuscito a ricostruire l’identità.
La foto riprodotta da Le Monde è raccapricciante ed evocativa. I cadaveri sparsi di una dozzina di poveri Cristi testimoniano la perversa violenza del regime degli al-Assad, che nella sua lunga storia ha dimostrato di non conoscere limiti nella repressione delle rivolte e nella soppressione dei nemici veri o presunti. È importante che questi documenti non vengano nascosti al pubblico. È altrettanto necessario contestualizzarne la diffusione e valutarne le eventuali intenzioni e conseguenze strategiche.
Il quotidiano parigino nota come il rapporto di Human Rights Watch esca alla vigilia dell’ennesimo vertice internazionale sulla Siria, a New York, che potrebbe innescare un processo negoziale fra governo di Damasco e opposizioni di vario colore sotto la tutela della maggiori potenze. La strategia di comunicazione di questa e altre organizzazioni umanitarie punta infatti a cogliere l’onda di attenzione mediatica, assai fluttuante, per moltiplicare l’effetto di annuncio di denunce che altrimenti troverebbero scarsa eco. Lo stesso Human Rights Watch avverte: «Coloro che spingono per la pace in Siria devono assicurarsi che i crimini cessino». Soprattutto, i responsabili politici dei massacri «devono renderne conto».
La scelta di anticipare il rapporto a Le Monde s’inscrive nella medesima logica: la Francia è stata in prima linea nel sostenere chiunque – jihadisti inclusi – puntasse a rovesciare il regime di Damasco. E se dopo la strage di Parigi Hollande ha virato verso l’inevitabilità di servirsi di chiunque si batta contro lo Stato Islamico – Bashar al-Assad compreso – questo non significa il venir meno dell’ostilità di fondo nei confronti del presidente siriano e del suo clan.
Questa vicenda ricorda infine che nella mischia siro-irachena è arduo scernere “buoni” e “cattivi”. Vi troviamo semmai diverse gradazioni dell’orrore. Più rare persone di buona volontà, che però contano poco, almeno fintanto che la guerra non cesserà. In chiaro: se mai sconfiggeremo lo Stato Islamico, al suo posto incroceremo – di sicuro per una prima fase, ma forse molto a lungo - strutture e regimi non troppo dissimili. Non vale solo per Damasco. Basterebbe ad esempio comparare l’amministrazione della giustizia sotto il “Califfo” con quella gestita dal sovrano saudita, massimo alleato dell’Occidente nella regione, per scoprire che si svolge secondo regole e abitudini analoghe. Decapitazioni pubbliche comprese. Ma in questo caso i morti non parlano. E i nostri media, in genere, tacciono. O guardano altrove.
il manifesto 18.12.15
Ankara manda i carri armati nelle città kurde
Turchia. Migliaia di soldati e poliziotti dispiegati per inasprire i coprifuoco a sud-est. 200mila persone in fuga, 200 i civili uccisi da luglio. Ma i kurdi continuano a manifestare
di Chiara Cruciati


Nel Kurdistan turco è in corso una vera operazione militare contro combattenti del Pkk e popolazione civile. Una punizione collettiva che ha ucciso già oltre 200 civili e costretto alla fuga 200mila persone. Ankara aveva promesso un inasprimento della repressione, ma quello che accade nel sud est della Turchia va oltre. È una guerra: ieri nelle principali città kurde sono stati dispiegati i carri armati che non hanno sparato contro edifici civili, mentre migliaia di soldati e poliziotti arrivavano a Diyarbakir, Silopi, Yuksekowa, Cizre per intensificare i coprifuoco dichiarati due settimane fa.
Nel pomeriggio a Diyarbakir tre case sono state centrate da colpi di artiglieria, ferendo 7 persone; nelle stesse ore le forze turche occupavano la sede del comune di Silopi, nel devastato distretto di Sirnak.
I morti sono quotidiani. Ieri a cadere sotto il fuoco turco sono stati 25 combattenti del Pkk, ma anche un anziano morto soffocato nella sua casa a Silopi centrata da una bomba. Il giorno prima una 30enne e un bambino di 11 anni erano stati uccisi a Cizre: «I cecchini turchi prendono di mira soprattutto i bambini – ci racconta l’attivista Burcu Çiçek Sahinli – Sono almeno 20 i minorenni uccisi da luglio, quando la guerra è ricominciata. Ora sono entrati i carri armati, sparano».
Il governo dell’Akp vuole «sradicare» il Partito Kurdo dei Lavoratori, dice. Ma le azioni compiute in questi mesi nel Kurdistan turco svelano altri obiettivi: piegare definitivamente la resistenza popolare kurda, in un periodo in cui aveva attinto nuova linfa dai combattenti kurdi siriani di Rojava; e distruggere il partito di sinistra Hdp. Per ora, però, i kurdi non si arrendono: mercoledì e ieri erano migliaia le persone in piazza nelle principali città, aperta sfida ai coprifuoco di Ankara.
Corriere 18.12.15
Prima intesa tra Israele e Ankara per la normalizzazione dei rapporti


Israele e la Turchia hanno raggiunto un accordo preliminare per la ripresa dei rapporti e il ritorno dei rispettivi ambasciatori. I due alleati arrivarono a una rottura delle relazioni nel 2010 dopo un blitz navale israeliano contro una flottiglia determinata a rompere l’embargo di Gaza: a bordo morirono otto cittadini turchi e un turco-americano. Passati tentativi di riprendere i rapporti, tra cui quello mediato dagli Usa nel 2013, sono falliti. Il nuovo accordo, raggiunto nel corso di un incontro in Svizzera tra il nuovo capo del Mossad Yossi Cohen e il sottosegretario per gli affari esteri Feridun Sinirlioglu, deve ancora essere finalizzato, ma lo stesso leader turco Erdogan nei giorni scorsi ha sottolineato che la normalizzazione sarebbe di beneficio a tutti. La ripresa dei rapporti aprirà la discussione sulla possibilità di costruire un gasdotto da Israele alla Turchia.
La Stampa 18.12.15
Fare i conti con Mosca
di Roberto Toscano


Commentando l’entrata in scena di Vladimir Putin in occasione della tradizionale conferenza stampa di fine anno, la Bbc definisce il suo incedere, poggiato sul lato sinistro mentre il braccio destro rimane libero, «stile da pistolero»: lo stile di chi vuole essere pronto ad estrarre l’arma dal fodero.
Quello che è certo è che il Presidente russo ha ulteriormente accentuato i toni «macho» che lo caratterizzano. Se l’incedere ricorda quello di John Wayne, il linguaggio ricorda quello di Clint Eastwood. La sua sfida alla Turchia («provateci a violare lo spazio aereo siriano») ricorda il famoso «make my day», che nella versione italiana del film «Sudden impact» era stato reso con: «Coraggio, fatti ammazzare». E naturalmente in un profilo veramente compiuto del «macho» non può mancare la volgarità: «I turchi hanno deciso di leccare gli americani in un certo posto».
Accentuando un tono arrogante, peraltro non nuovo, Putin vuole ostentare sicurezza e nella sostanza dire al mondo, ma in primo luogo al suo popolo, notoriamente sensibile a questa «rivincita della Russia», che bisogna fare i conti con Mosca, e che la Russia non può essere messa in un angolo, esclusa dalla «serie A» delle relazioni internazionali.
Il problema è che, al di là del bullismo putiniano, questo è oggettivamente vero. Non tanto per la forza della Russia - un Paese con stentati tassi di crescita e una dipendenza malsana da materie prime, soprattutto petrolio e gas, con prezzi in forte caduta - quanto per la debolezza, le incertezze e le divisioni altrui.
In quattro anni non siamo riusciti, americani ed europei, a fermare il dramma della Siria, dato che non si è voluto prendere atto che con Assad bisognava raggiungere un compromesso dato che non poteva essere sconfitto militarmente a meno di un nostro coinvolgimento diretto sicuramente più impegnativo e con prospettive ancora meno promettenti di quelle che hanno caratterizzato gli interventi in Afghanistan, Iraq e Libia. E nemmeno si è riusciti a sgominare i jihadisti di Daesh - che qualcuno continua a definire riduttivamente terroristi, dimenticando che un gruppo di terroristi che controlla per anni un territorio diventa qualcosa d’altro, uno pseudo-stato, o piuttosto un proto-stato, visto che più il tempo passa più diventa possibile un suo consolidamento.
Vladimir Putin ha visto in questo vuoto una straordinaria occasione di fare avanzare la sua politica di storica rivincita contro l’umiliazione subita con la fine della Grande Potenza sovietica.
Si impone a questo punto una non facile riflessione politica, basata su una domanda di fondo: Siamo in grado di respingere questa pretesa di rinnovato protagonismo russo?
Chi se non Mosca, in parallelo con Teheran, può garantire un accordo che comporti in prospettiva un’uscita di scena di Assad? E per quanto riguarda il contrasto militare allo Stato Islamico, davvero pensiamo che sia preferibile contare su «alleati alla rovescia» come turchi e sauditi piuttosto che su un’azione militare come quella russa, certamente decisa, anche se tutta da discutere in tema di scelta di obiettivi e coordinamento?
Il gioco di Putin non è certo il nostro, e non dovremmo ora sopravvalutare la rinnovata presenza internazionale della Russia così come dopo la caduta del comunismo qualcuno, soprattutto oltre oceano, aveva pensato che fosse possibile escluderla completamente ignorandone interessi ed esigenze di sicurezza.
Il realismo però impone in primo luogo di situare le minacce in una sequenza che ci permetta di impiegare efficacemente, per affrontarle, mezzi che non sono certo illimitati. In concreto, non sembra possibile negare che per l’Italia sia assolutamente prioritario affrontare le minacce alla sicurezza e alla stabilità che provengono da un arco che va dalla Siria alla Libia.
C’è questo - e non i famigerati «giri di valzer» attribuiti alla nostra politica estera - dietro la richiesta italiana a Bruxelles di affrontare sulla base di un’analisi politica, e non con una semplice riconduzione automatica, la questione del rinnovo delle sanzioni alla Russia per la vicenda ucraina.
Non è credibile che l’Italia intenda rompere un fronte comune europeo e tanto meno dare carta bianca alla politica russa nei confronti dell’Ucraina. Per citare l’ammissione di Putin nel corso della conferenza stampa, non ci sta bene che sul territorio di un Paese sovrano vi siano «persone (russi) che svolgono certi compiti, anche di natura militare».
Ma non siamo certo solo noi a tenere conto delle priorità del nostro interesse nazionale nel momento di decidere linee di politica estera che pure dovrebbero confluire in un comune alveo europeo e atlantico. La Germania - per citare una questione di cui si parla proprio in questi giorni - intende portare avanti con la Russia, nonostante le sanzioni, il progetto del gasdotto North Stream 2.
Né Matteo Renzi né Angela Merkel sono sospettabili di «appeasement» nei confronti della Russia, ma entrambi tengono conto, come del resto fanno americani, inglesi e francesi, delle proprie priorità in tema di sicurezza o di energia - priorità il cui perseguimento non ci permette di ignorare la Russia e di escluderla, per quanto inquietanti siano non solo la retorica ma anche le azioni di Vladimir Putin.
Repubblica 18.12.15
Varsavia, prove di golpe no a Europa e migranti purghe e leggi stravolte
Tra esorcismi contro i giornali (“nemici della patria”) e censura della Consulta il nuovo governo nazional-conservatore emula l’Ungheria di Orbán
“Purtroppo i cittadini non si ribellano e il potere denuncia quella di Solidarnosc dell’89 come la rivoluzione dei traditori”
di Andrea Tarquini


BERLINO Esorcisti in piazza. Nei cortei governativi a Varsavia dove una generazione fa, in nome della libertà e dei valori costitutivi d’Europa, Solidarnosc appoggiata da Karol Wojtyla e la giunta di Jaruzelski s’intesero per avviare la fine dell’”Impero del Male”. L’altro giorno hanno assaltato la redazione di Gazeta Wyborcza,
il quotidiano fondato da Adam Michnik che fu primo media libero dell’Est. Rabbia guidata dall’alto: «I nostri nemici sono comunisti e ladri, hanno nel codice genetico il tradimento della patria», tuona Jaroslaw Kaczynski, leader del PiS, il partito nazionalconservatore che dalle politiche del 25 ottobre ha la maggioranza assoluta.
«Porterò Budapest a Varsavia», aveva promesso, e lo fa col turbo: corte suprema normalizzata e di fatto abolita, imminente nuova legge elettorale per ridisegnare le circoscrizioni a vantaggio della destra e dimettere i poteri locali liberal o di sinistra eletti “illegalmente” prima, “ripolonizzazione” annunciata dei media a capitale straniero, specie se tedesco. Natale triste nella terra di Wojtyla e Walesa: un Termidoro nero scende sulla Polonia, l’Europa assiste al Sacco di Varsavia.
«Quando gli esorcisti sono arrivati, abbiamo offerto loro del tè e continuavano le cerimonie», racconta Konstanty “Kostek” Gebert, veterano di Solidarnosc e di Gazeta, intellettuale di punta della comunità ebraica. Messaggio chiaro: sono loro, i liberal dell’89 non violento, i dèmoni da esorcizzare. Un colpo dopo l’altro: prima l’imposizione di nuovi giudici docili alla Consulta, poi la censura governativa alle sentenze della Suprema corte invocanti il rispetto della Costituzione.
La Consulta protesta, appoggiata da Amnesty International: di fatto non esistiamo più. Nuove leggi — anche queste retroattive, come in una dittatura — impongono una presenza di minimo 13 giudici su 15 per sentenze anche passate, o non sono valide. «Colpo di Stato», grida allarmato Martin Schulz da Bruxelles. In pubblico la neopremier Beata Szydlo è divenuta la prima leader Ue a presentarsi senza più alle spalle il vessillo blu con le stelle dorate che altrove sventola alle note dell’Inno alla gioia. In piazza, vessillo calpestato come fanno gli ultrà magiari o del Front National. E le accuse di colpe russe per la sciagura aerea in cui morì il fratello di Kaczynski diventano inchiesta ufficiale, insieme alla richiesta alla Nato di avere ogive atomiche: Polonia scintilla pericolosa per i rapporti tra Putin e il mondo libero, mentre militari francesi e russi, usa canadesi e australiani combattono e muoiono insieme contro il Daesh.
«Purtroppo la gente non si ribella, e il potere denuncia l’89 come “rivoluzione dei traditori”, dice Gebert. Ed ecco la grande purga, come a Budapest. «Il ministero della Cultura gestirà i media pubblici». Chi non si adegua dovrà andarsene. «Sarò tra i primi», dice a Die Zeit Tomasz Lis, star della tv: troppe denunce dell’imitazione polacca del modello magiaro.A Cracovia, che Wojtyla mantenne vivace anche sotto il comunismo, rischia Jan Klata, direttore dello Stary teatr: troppe rappresentazioni «immorali e antinazionali». «Orbànizzazione» è il concetto che fa tremare.
Non è finita, lamentano fonti diplomatiche occidentali: «La Polonia che dai fondi di coesione Ue riceve ogni anno oltre un punto di crescita del prodotto interno lordo, più della crescita annua italiana o francese, rifiuta ogni solidarietà con Germania, Svezia, Italia sovraffollate di migranti. Prendono solo gli ucraini bianchi e cristiani». Contro la Berlino di Merkel, urla razziste: «I tedeschi hanno un codice genetico antipolacco», afferma l’accademico governativo Bohdan Musial. La società civile non si arrende ancora, ma questa volta non ha più dalla sua la Chiesa. «Il principale nemico dell’episcopato», mi spiega anonimo per prudenza un credente critico, «ora è Papa Francesco con i suoi messaggi moderni d’amore».
Repubblica 18.12.15
Intervista all’algerino Boualem Sansal: “L’islam non teme la guerra”
Istruzioni per evitare la prossima Apocalisse
Pubblichiamo un estratto dell’intervista sul nuovo numero di Micromega
di Gloria Origgi


Boualem Sansal è un uomo mite, ironico e ispirato al tempo stesso. L’intervista avviene nella sede dell’editore Gallimard, nel cuore di Saint-Germain a Parigi. Sansal ha i capelli lunghi grigi raccolti in una coda di cavallo e un profilo da santone indiano. Il suo ultimo romanzo, “2084”, un successo planetario, di prossima pubblicazione in Italia per Neri Pozza, è ambientato in un futuro prossimo in cui il mondo libero è stato soggiogato da uno stato totalitario, l’Abistan, che controlla le menti, ha cancellato il passato
e ha reso tutti schiavi.
In che modo il suo libro visionario,“ 2084”, esprime una sua visione buia del futuro?
«Sono anni che penso che attacchi del genere di quelli che si sono prodotti a Parigi a gennaio e novembre sarebbero accaduti. Penso che l’islamismo sia ormai un fenomeno anche europeo. Ed ero sicuro che sarebbe passato in fretta alla fase violenta, ossia alla fase di guerra dichiarata.
Dunque la cosa non mi ha sorpreso: come molti altri ero convinto che un giorno o l’altro questo sarebbe avvenuto. E da qualche parte l’Europa non ha voluto vedere, ha sottovalutato il rischio».
Cosa dobbiamo sapere che non sappiamo? Che cos’è l’islamismo?
«La gente pensa che l’islamismo sia qualcosa di recente. Come il fascismo. Invece è nato insieme all’islam. L’islam viene fondato e poi comincia a dividersi. Nasce allora il sunnismo, lo sciismo, il sufismo. L’islamismo è una visione apocalittica della religione. Come in tutte le religioni ci sono movimenti apocalittici che pensano che la fine del mondo sia vicina e stravolgono tutte le credenze orientandole alla fine del mondo».
E perché oggi assistiamo al trionfo di questa visione apocalittica? Anche il suo libro è in fondo apocalittico.
«Le visioni apocalittiche hanno sempre accompagnato le religioni. In tutte le religioni ritroviamo una corrente puramente religiosa, una corrente puramente mistica e una corrente apocalittica il cui pensiero dominante è che raggiungere la fine dell’umanità significa andare incontro a Dio. È un modo di esistenza: è come portare dentro di sé una tentazione suicida che ci fa vivere in modo più “forte”, sempre all’orlo del precipizio».
Se capisco la sua visione, l’islamismo contemporaneo non solo trae la sua forza dall’atteggiamento apocalittico, ma anche dalla dimensione globale.
«Come il cristianesimo, l’islam ha un progetto planetario. I cristiani volevano cristianizzare tutti, compresi i cosiddetti “selvaggi”, quelli che non erano nemmeno considerati esseri umani, che abitavano nelle foreste… Popolazioni che i missionari consideravano come “scimmie” eppure volevano evangelizzarli lo stesso. Per farli diventare umani. L’islam ha la stessa ambizione planetaria di fare regnare Allah sulla terra. L’unico monoteismo che non ha questa tendenza planetaria è la religione ebraica. L’ebraismo è la storia di un popolo eletto, non dell’umanità».
Lei è un laico…
«Io non sono credente, sono ateo. E dunque ovviamente sono laico, nel senso che non voglio vedere la religione interferire con le questioni di Stato».
Lei dice cose indicibili anche in Europa, per esempio contro il “politically correct” o contro le moschee e i musulmani… «Ci sono troppe moschee, ci sono troppi “barbuti”, c’è troppo rispetto ovunque per la religione. Non dirlo è il segno di una civiltà che muore, che si proibisce da sola di dire quello che pensa. Eccesso di prudenza. In Europa, nel trattato di Lisbona, si è pure inserito un principio di precauzione, come per istituzionalizzare la paura che ormai abbiamo di tutto. Gli europei si sentono circondati, minacciati, e non sono disposti a cambiare, a rinunciare a nulla».
Ha scritto cose che le hanno causato grandi problemi, ha perso il suo posto di alto funzionario a causa dei suoi libri, è stato minacciato più volte. Eppure va avanti.
«Perché non posso pensare e dire tutto ciò senza fare nulla, anche se so che non serve a niente. È una questione di coerenza personale. Poi è la mia natura. Io non posso non parlare. E non parlo mai in modo aggressivo. Però dico sempre quel che penso. Io lo posso fare perché non ho paura di perdere nulla. I politici non possono parlare liberamente perché hanno paura di perdere il potere, sono ostaggio dei loro elettori».
Non è paradossale? Sembra quasi che nelle società cosiddette liberali sia più rischioso parlare che in Algeria… «Perché sono società terrorizzate, che hanno paura di tutto, di dire quello che pensano, e non sanno nemmeno più cosa pensare. Io che vivo in Algeria, che sono stato minacciato un sacco di volte, non mi sento in pericolo. Avrei potuto ottenere il premio Goncourt quest’anno e molti altri premi se non avessi detto le cose che dico in tivù che mi fanno passare per un islamofobo... ma gli editori hanno avuto paura di dare un premio del genere a qualcuno che dice che l’islam è una vergogna. Ma io me ne infischio dei premi. Se vogliono darmeli va benissimo. Se non vogliono il problema è loro».
Dove si trovava venerdì 13 novembre al momento degli attentati di Parigi?
«Quel fatidico venerdì, mi trovavo nella magnifica città di Uzès per presentare il mio romanzo 2084... Di fronte al nostro tavolo c’era una televisione accesa senza volume. Mentre cenavamo, guardavamo distratti i poliziotti che correvano, le ambulanze, la confusione, senza capire veramente di che si trattasse. Poi sono cominciati i sottotitoli sullo schermo: 5 morti al Bataclan, 2 allo stadio... Il mio libro, il mio racconto apocalittico diventava realtà. Mi vergognavo quasi di averlo immaginato. Come se avessi dato sostanza a quel fantasma».
Corriere 18.12.15
La laicità francese ha fallito serve un nuovo modello
Errori Il terrorismo ha sfruttato una globalizzazione che elude il controllo degli Stati nazione
Pesca nello scontento cronico di una situazione economica e sociale non più sostenibile L’unica soluzione è coordinarsi a livello europeo sui migranti
Coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza crea problemi
di Mauro Magatti


Le vicende di questi ultimi tempi mettono a nudo le gravi difficoltà nelle quali si ritrova il modello della laicità francese. Ci sono infatti almeno tre aspetti che appaiono oggi problematici. Il primo riguarda la possibilità di coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza. È uno degli effetti della globalizzazione: a prescindere da dove ci si trovi a vivere è molto facile oggi comunicare, fare affari, raggiungere il proprio Paese d’origine. I terroristi di Parigi sono stati probabilmente addestrati in Siria e hanno comunque sfruttato una rete organizzativa sovranazionale. Ciò costituisce un evidente problema per il modello della laicità che presuppone invece uno Stato nazionale in grado di esercitare il monopolio identitario. Specie in Europa dove le frontiere sono state aperte con estrema disinvoltura.
Il secondo aspetto problematico ha a che fare con i cronici fallimenti nei processi di integrazione sociale e economica. La laicità alla francese fallisce poiché non ha più le risorse né le capacità per sostenersi. Oltre alle inefficienze, sono le risorse che in un contesto di economia aperta vengono a mancare. Come dimostrano chiaramente le tante banlieue dove la promessa di cittadinanza viene nei fatti sistematicamente negata. Non ci vuole molto per capire, come si è peraltro ripetuto mille volte, che i ragazzi abbandonati dallo Stato, dall’economia e dalla società sono le prede ideali dei gruppi estremisti.
Il terzo aspetto ha a che fare con il deterioramento, nella sfera pubblica, dei canoni di rispetto reciproco. In nome di una male interpretata idea di libertà di espressione, il positivo superamento di ogni censura è stato inteso come licenza di ingiuria e offesa. Formando una spirale che finisce per alimentare risentimento e odio sociale. In un mondo in cui tutto può essere detto e fatto, l’onere della sopportazione non viene abolito: semplicemente si sposta sulle spalle di chi è reso bersaglio.
La situazione storica nella quale ci troviamo a vivere — con interi Paesi islamici in pieno subbuglio politico e religioso e la contemporanea presenza di una consistente minoranza di cittadini di quella stessa religione nelle nostre città — pone il problema (non solo alla Francia) di quale modello di integrazione si possa e si debba seguire.
Tornare indietro, cioè ricreare le condizioni di plausibilità per il modello della laicità, comporta superare i tre aspetti sopra ricordati. Cosa molto difficile. Soprattutto per Paesi come la Francia, la Germania e l’Italia che oggi avrebbero difficoltà a invertire il processo di integrazione europea.
Si tratta allora di ridiscutere, con maggiore adeguatezza, alcuni capisaldi comuni di un modello sostenibile di integrazione. Muoversi per questa via, che allo stato in cui siamo sarebbe quella più ragionevole, comporta affrontare almeno due temi.
Il primo è quello di cui si sta parlando da mesi: una politica europea seria e coordinata per i profughi e un controllo più accurato delle frontiere. Facile a dirsi, difficile, pare, a farsi.
Una tale questione, per quanto urgente, non è però la più importante. La società europea nel suo insieme — e le diverse società nazionali al suo interno — ha bisogno di chiarirsi le idee attorno al rapporto da tenersi con la popolazione islamica.
Anche su questo punto il modello della laicità francese ha mostrato limiti evidenti: negare persino la visibilità della fede religiosa nella sfera pubblica, nelle condizioni sopra ricordate, non è una buona idea. Ciò che va piuttosto chiarito, come ha scritto Claudio Magris sul Corriere della Sera , sono i diritti e i doveri delle comunità di fede musulmana. Sia dentro i confini europei che fuori. A questo proposito si possono avanzare due considerazioni. La prima riguarda l’urgenza di rilanciare, con le dovute chiarificazioni, il principio della libertà religiosa, affermato da tutte le istituzioni internazionali. In un’epoca di migrazioni, la libertà religiosa va resa una priorità sul piano concreto dei rapporti internazionali, vincolandola al principio di reciprocità. Una linea d’azione che deve arrivare a responsabilizzare le stesse comunità religiose qui residenti, che di norma mantengono stretti legami etnici o nazionali: il riconoscimento in Europa non può essere indipendente da quello che accade nei Paesi di origine.
La seconda considerazione nasce dalla riflessione sul modello italiano, specialmente sullo strumento del concordato. Trattandosi di soggetti che hanno un importante ruolo sociale, le chiese devono essere disposte ad assumere una esplicita riconoscibilità pubblica, con precisi diritti e doveri, che le renda responsabili e leali nei confronti delle istituzioni. L’idea che i gruppi religiosi costituiscano un affare esclusivamente privato finisce per creare enclave semiclandestine. Cosa oggi del tutto inaccettabile.
Repubblica 18.12.15
La lotteria spagnola
Quelle di domenica saranno “le elezioni dell’incertezza”, con quattro partiti (Popolari, Socialisti, Ciudadanos e Podemos) sotto il 25 per cento e tutti gli scenari (e le coalizioni) possibili
Nel Paese della crescita economica (+3,4%) l’unica certezza è la fine del bipartitismo. E la voglia di cambiamento
Il futuro della politica qui ha il volto di due donne: Soraya Saenz (Pp) e Susana Diaz (Psoe) “Sono i salari più bassi ad aver reso i nostri prodotti competitivi all’estero, non l’innovazione”
di Omero Ciai Alessandro Oppes


MADRID LA Spagna si può guardare anche dalla calle del Carmen, nell’ampia zona pedonale al centro della sua capitale, dove ha sede “Doña Manolita”, la più prestigiosa, e nelle convinzioni popolari la più “fortunata”, delle rivendite di biglietti della Lotteria. Perché Natale in Spagna è sinonimo di “ Gordo”, il “Grasso” premio: una pioggia da 2 miliardi di euro, che ogni anno viene estratto il 22 dicembre.
Ci sono pomeriggi nei quali la coda per comprare un biglietto da “Doña Manolita” si snoda per qualche chilometro risalendo fino alla Gran Via. Due, anche tre ore di attesa per questa abitudine inossidabile all’azzardo che si conserva uguale a se stessa negli anni di crisi come in quelli di crescita. Ragazze in giubbotto di pelle e clochard barbuti spalle a spalle per acquistare un numero del sogno di ogni spagnolo, la cabala del tesoretto. “ El Gordo”, a differenza di altre lotterie è un gioco solidale, si vince poco — massimo 400 mila euro — ma si vince in tanti.
Quello che è cambiato però è tutto ciò che c’è intorno, i consumi sono tornati a crescere (+3 per cento) insieme all’economia e la nuova vivacità si nota perfino nei volti. Anche in politica ciò che sta per accadere con il voto di domenica viene spiegato con questa nuova esuberanza che vuole portarsi via, a spallate, un sistema bipartitico che resiste da quarant’anni ed è stato l’architrave della stabilità nella moderna democrazia spagnola: l’alternanza popolari e socialisti, centro-destra e centro- sinistra.
Dopo il 20 dicembre questo scenario è destinato a cambiare completamente privilegiando non più il confronto sinistra- destra quanto piuttosto quello vecchio e nuovo con l’irruzione nella scena, già collaudato alle amministrative del maggio scorso, di due nuove formazioni, Podemos e Ciudadanos, che hanno fatto saltare il banco della tradizione elettorale spagnola.
È la crisi, che dal 2009 in poi, ha modificato tutto. Anche l’abitudine a schierarsi in due grandi insiemi, socialdemocratici (Psoe) e conservatori (Pp). E se i sondaggi rispecchiano le intenzioni di voto, gli spagnoli se ne infischiano della stabilità delle maggioranze assolute con cui hanno premiato, nei decenni, l’uno o l’altro dei due schieramenti: da González ad Aznar, da Zapatero a Rajoy.
Oggi aspirano, effervescenti, alla diversità. L’ultimo campione del bipartitismo, Mariano Rajoy, che quattro anni fa vinse le elezioni con il 44 percento dei voti e 186 seggi, è arrivato al capolinea. Anche personale, come leader politico senza un grande futuro. Eppure ha fatto moltissimo per cucirsi addosso una rielezione da trionfatore. Ha scelto apposta una data sotto Natale, con la Tredicesima già incassata e un bilancio 2016, approvato, che riduce, di poco ma riduce, le tasse. Ed è stato anche fortunato perché la Spagna è ripartita. Meglio di qualsiasi altro Paese europeo.
Il Pil cresce al 3.4% e lo farà almeno per tutta la metà del prossimo anno. Consumi, turismo ed esportazioni. Come spiega l’economista Emilio Ontiveros «la Spagna ha goduto più di altri del crollo dei prezzi di gas e petrolio, della svalutazione dell’euro rispetto al dollaro e della politica di risanamento del sistema bancario promossa da Bruxelles».
Alla crescita però non si accompagna una creazione di posti di lavoro stabili, la disoccupazione è sempre sopra il 20 per cento. E Rajoy, insieme alla zavorra della corruzione e degli scandali, vecchi e nuovi, che hanno colpito il suo partito popolare, paga, anche nell’immagine, la pesante ristrutturazione del mercato del lavoro. «Sono i salari bassi — dice Ontiveros — che hanno reso più competitivi i prodotti spagnoli all’estero. Non l’innovazione». Dunque, crescita incerta. Un’altra bolla della quale gli spagnoli approfittano festeggiando ma della quale non si fidano e nemmeno s’affidano gratificando nell’urna il leader al comando.
L’altra novità è che la campa-spagnola gna elettorale s’è trasformata in un reality show televisive. Poche piazze, molte comparsate. Un po’ ovunque. E l’hanno vinta i più giovani e telegenici.
Pablo Iglesias di Podemos che era partito malissimo ma che avvicinandosi alla meta insidia, per il primato a sinistra, il Psoe. E Albert Rivera, di Ciudadanos, che raccoglie la maggior parte dei voti in fuga dai popolari. Così abbiamo visto Pedro Sanchez mentre si fa l’aranciata mattutina, Pablo Iglesias cantare una ninna nanna e Mariano Rajoy cimentarsi nell’accensione di una cucina elettrica. Quanto servirà questo sforzo ad avvicinarsi alle persone comuni per convincere una folla di indecisi che gli ultimi sondaggi stimavano intorno al 20 per cento non si sa. Quello che sembra chiaro è che la Spagna si trova alla vigilia di un terremoto che cambierà presto il panorama delle Cortes, la sede del Parlamento a Madrid.
L’unica cosa certa è che Mariano Rajoy arriverà primo. Ma talmente lontano dal numero magico della maggioranza assoluta — 176 seggi — che la sua sarà una vittoria di Pirro. Il suo partito potrà governare in coalizione ma lui, con ogni probabilità, dovrà farsi da parte. Stesso problema per il socialista Pedro Sanchez che, soprattutto se non riuscirà a superare con un po’ di margine Podemos, rischia di essere disarcionato dalla segreteria del Psoe. Ed ecco che due donne, per ora ancora dietro le quinte, s’affacciano nel futuro della politica spagnola. Sono Soraya Saenz de Santamaria, attuale vice di Rajoy, e candidata a succedergli se l’unica strada post elettorale sarà la coalizione con Ciudadanos. E Susana Diaz, la neo governatrice dell’Andalusia, storico serbatoio di voti socialisti.
In queste elezioni dell’incertezza, con quattro partiti sotto il 25 per cento, saranno pochissimi punti in percentuale a decidere vincitori e sconfitti. E tutti gli scenari sono ancora aperti. Perfino quello che Rajoy in queste ore si ostina a chiamare «l’alleanza dei perdenti» con un patto che andrebbe dal Psoe a Podemos fino a quel poco che resta dei comunisti di Izquierda Unida (3 o 5 seggi).
Con esuberanza, entusiasmo e molta spericolatezza la Spagna s’avvia a cancellare bipartitismo e facile stabilità. Dopo inizierà un’altra storia.