venerdì 27 gennaio 2006

Il Giornale, 27.01.06
ARTAUD Lo specchio oscuro del genio malato
di Stenio Solinas


A vent'anni è il primo ricovero per depressione, a ventiquattro la sifilide: il combinato disposto di arsenico, mercurio, bismuto, laudano, preparano la strada di un processo schizofrenico inarrestabile. Da quel 1935 che segna di fatto l'abbandono delle scene, cinematografiche e teatrali, la caduta è vertiginosa: il 1936 lo passa in Messico, vivendo con la tribù indiana dei Tarahumara e partecipando al rito del peyoti, il 1937 lo vede prima in clinica, poi in Irlanda, dove è arrestato per oltraggio al pudore e rimpatriato, poi di nuovo in ospedale. Da allora e fino al 1946 non ne uscirà più: cambiano i luoghi di ricovero, i metodi di cura, comprese quelle scariche di elettroshock contro cui non smetterà di indignarsi, ma non la diagnosi: malato mentale irrecuperabile.
Intorno alla schizofrenia la rassegna del Pac ruota come una sorta di farfalla attratta irresistibilmente dalla luce. Nel ricostruire la stanzetta - il letto di contenzione, la camicia di forza - dove, un carcerato più che un malato, Artaud subisce in 19 mesi 52 scariche, le radiografie che dimostrano una lesione permanente alla spina dorsale come conseguenza, le immagini fotografiche di un trattamento forzoso di quel genere su un paziente recalcitrante, Lebel ha buon gioco nel mostrare l'incapacità della scienza medica ufficiale nell'accettare una malattia che nella moltiplicazione degli io nasconde pozzi insondati di creatività. C'è qualcosa di inumano, o di troppo umano, in quei clinici che per annientare il delirio di una mente annientano, né più né meno, la mente stessa.
Come si lamenterà, con perfetta lucidità, lo stesso Artaud: «L'elettroshock fa di me un assente che si avverte assente e che per settimane va in cerca del proprio essere, come un morto accanto a un vivo che non è più lui, che esige la sua venuta e nel quale non può più entrare. Dopo l'ultima serie, sono stato per tutto agosto e settembre assolutamente incapace di lavorare, di pensare, di sentirmi essere. Questo trattamento iniquo mi distacca da tutto e dalla vita».
Eppure... C'è nel catalogo un'intervista ad André Berne-Joffroy, già conservatore al Museo d'arte moderna di Parigi, visitatore di Artaud all'ospedale psichiatrico di Rodez, dove alla fine era stato rinchiuso, e in pratica l'uomo che si incaricherà di mettere in salvo manoscritti e documenti dopo la sua morte, che induce a molte cautele. Secondo Joffroy «se Artaud non fosse stato sottoposto a quel trattamento non si sarebbe potuto farlo uscire nel 1946. Sicuramente, gli elettroshock hanno migliorato molto la sua parafrenia... Dico soltanto, e lo dico nel modo più categorico, che stava molto meglio quando è uscito da Rodez rispetto a tre mesi dopo. È stato allora che l'ho rivisto, e mi è sembrato un vecchio. Dal momento in cui hanno cominciato a fornirgli oppio o altre droghe è dimagrito moltissimo, si è ingobbito. Quando l'avevo visto a Rodez stava ancora più o meno eretto. Quando l'ho rivisto a Parigi era invecchiato di vent'anni. Irriconoscibile».
Più Lebel nell'intervista si erge ad accusatore della medicina ufficiale, vista come una confraternita di carnefici-stregoni, più Joffroy puntualizza, riconduce alla realtà, fa capire l'impossibilità per Artaud di un'esistenza quotidiana autonoma fuori dalle mura in cui fu richiuso. Ed è del resto lo stesso Lebel a ricordare che la richiesta al dottore Ferdière, il medico dei famigerati elettroshock, di curare Artaud venne proprio da uno dei suoi amici più fraterni, il poeta surrealista Robert Desnos: «Bisogna che si occupi di lui. Questa volta non temo per il suo stato mentale, è il suo stato generale ad inquietarmi».
Insomma, il confine fra genio e follia, ovvero l'anormale normalità del genio, è esile e difficile da individuare. E i complessi di persecuzione, le moltiplicazioni di personalità, i rituali scaramantici, i tic, le manie, le violenze contro se stesso e contro altri disegnano un percorso irto di difficoltà, foriero di fraintendimenti.
Nelle sale del Pac, le 44 istantanee che Denise Colomb gli scattò nel dicembre del 1946, sei mesi dopo che era stato definitivamente dimesso, fanno il paio con i coevi ritratti di Jean Dubuffet, un volto maledetto da derviscio, maligno e sfrontato, segnato e contorto, vinto e vincitore: «Nonostante i suoi abiti logori e sudici ha un'eleganza imponente, come un magnifico principe, tremendo nella sua follia».


Artaud Volti/Labirinti
a Milano fino al 12/02/2006

La mostra Artaud Volti/Labirinti presenta la visione complessiva delle attività creative di Antonin Artaud (1896-1948), un personaggio considerato in Francia sovversivo quando era ancora in vita e poco conosciuto in Italia.
L'esposizione ideata da Jean-Jacques Lebel e Dominique Paini, conclude la feconda collaborazione artistica con Jean-Hubert Martin che ha portato a Milano il meglio dell'arte del presente. Il Padiglione d'Arte Contemporanea è sfruttato in maniera interessante: nelle nicchie sono sistemate schede specializzate, monografiche - in una vi è la ricostruzione della stanza degli elettroshock - mentre nel grande corridoio che guarda sul giardino sono montati schermi che scendono dal soffitto, sui quali sono proiettati i molti film che l'artista ha interpretato. Sul retro di ogni telone vi è uno specchio, una soluzione coerente con il tema della mostra che coinvolge e sconvolge l'intero essere.
Il personaggio Artaud, artista, poeta, attore e regista di teatro, è complicato per l'uso che ha sempre fatto di se, del proprio corpo e della sua capacità creativa. La mostra propone con forza proprio questo aspetto, come una sua vendetta contro tutto il Novecento artistico. Jean-Jacque Lebel, artista provocatorio pure lui, ha definito la mostra un "inferno, un luogo senza capo né coda" perché non vuole essere una proposta organica, ma denunciare la consistenza e l'importanza di un protagonista che si è cimentato in tutti i campi. Artaud che ha attraversato tutta la scena artistica francese, è fortemente legato al surrealismo e lo propone come il luogo della cultura. Era una persona malata di mente, soffriva di sdoppiamento della personalità e questa sua caratteristica gli ha procurato enormi problemi. Tra l'altro è stato sottoposto a numerosi elettroshock a scopo terapeutico che gli hanno procurato una frattura alla colonna vertebrale ed è morto di cancro non diagnosticato. Ha portato nell'arte la sua vita tragica. Rendendola pubblica dimostrava di voler essere sempre se stesso con tutte le contraddizioni corporee, fisiche e patologiche e trasferire attraverso la creatività tutto il suo essere. Lui scriveva in francese ed ha inventato una lingua che vuol essere l'espressione di quello che lui è. Paolo Fabbri, nel saggio in catalogo, ripercorre la forza di questi segni nei disegni, nella lingua e negli autoritratti.
Una sezione è dedicata al suo volto, certamente bello da giovane, che si è trasformato in maschera con il passare degli anni. Ritratto da Jean Dubuffet, Man Ray, Balthus, Eli Lotar, Armand Salacrou, Denise Colomb e Georges Pastier, Artaud offre sempre un aspetto nuovo con innumerevoli espressioni dove la tragedia a volte può esprimersi anche con una risata. Questa mostra, di un genere inconsueto, rende omaggio a un pensiero che occupa una posizione d'estrema rilevanza nella cultura della nostra epoca.

Informazioni utili
Artaud Volti/Labirinti
Curatori : Jean-Jacques Lebel e Dominique Païni
A Milano dal 6/12/2005 fino al 12/02/2006
Pac Padiglione d'Arte Contemporanea - Via Palestro 14
Orari: 9.30 - 17.30 da martedì a venerdì; 9.30 - 19.00 sabato e domenica; chiuso il lunedì, Natale e 1° gennaio
Ingresso: gratuito





Corriere della Sera, 27.01.06
Da McCartney alla Stone. Su «Ok Salute» come curarsi
L’avarizia? Una vera malattia
Lo psichiatra: «E' diffusissima, la mancanza di soldi non c'entra». Chi ne soffre non lo sa. Per qualcuno è diventata un valore


Dalla regina (Elisabetta) che ricicla persino la carta dei pacchi-regalo alla rock star (Rod Stewart) che accortosi di aver pagato una bottiglietta d’acqua senza averla consumata ritornò il giorno dopo al ristorante per avere indietro ciò che era suo. Tirchieria gran brutto vizio, o addirittura «malattia» perché dal soldo l’avaro si sposta sempre sui sentimenti: non dà materia, né affetto, il pitocco. E si è pure evoluto, ultimamente, nobilitando il vizio alla voce «valori »: «risparmio sul riscaldamento perché inquina» o «mangio poco ma sano». Ma per il mensile in edicola Ok — La salute prima di tutto, la malattia è di quelle «vere». Dalla quale però è possibile uscirne, riconoscendone i sintomi, riflettendo: «Pensi che gli altri si godano la vita più di te?»; «Menti per non offrire?»; «Provi dolore nell’invitare a casa gli amici? ». «L’avarizia è diffusissima — spiega il professore Alberto Maria Comazzi, psichiatra e psicoanalista —. E non ha nulla a che fare con la mancanza di soldi e con la necessità di risparmiare». Così è difficile che un taccagno sia povero ed è invece facile che un avaro sia ricco o quantomeno benestante.

Più uomini, che donne. E’ uomo Arpagone nell’Avaro di Molière che coccola la sua cassetta piena di denaro. E’ un papero Paperon de Paperoni che è felice solo quando nuota nei suoi cent. E’ un attore Tobey Maguire che coltiva le rose per risparmiare sui bouquet da regalare alle «fidanzate ». E’ un cantante Paul McCartney che alla festa data in onore di sua moglie fece pagare agli ospiti i drink. Era un comico Charlie Chaplin che non dava mai un party ma s’imbucava sempre a quelli degli altri. E poi ancora ometti «beccati» sulle mance: da Sean Connery, Bruce Willis, Mike Jagger eMatt Damon e Ben Affleck, mai un cent da loro ai camerieri che stufi li hanno segnalati su Internet nella top «tirchi e famosi ». Per giustizia non senza divine pitocchiose: la regina Elisabetta, ma anche sua sorella Anna che pranzava con i ticket sconto del Times, e poi Barbara Streisand, Jennifer Lopez, Sharon Stone, Julia Roberts a Valeria Mazza, Madonna, Elisabeth Hurley. Ok salute fa un centinaio di nomi, certi, presunti e per sentito dire. Fra i «parsimoniosi», molti italiani. C’è a sorpresa Barbara D’Urso («Forse perché semplicemente non butto via i miei soldi in pellicce e auto e lavoro perché mi piace, maanche perché ho due figli da mantenere); Matteo Marzotto («Sarà perché qualcuno in famiglia era di braccine corte, io personalmente no. Non sperpero, ma neppure mi considero un avaro); Emanuele di Savoia («Dissi che ero tirchio una volta raccontando che non mi piace spendere più di quello che guadagno») e Enrica Bonaccorti («Origini genovesi e radici ebree e me ne vanto. Ma al contrario in famiglia mi hanno sempre detto che ho le mani bucate»).
«L’avaro comunque sia — dice Ines Staletti, psicoterapeuta di scuola Adleriana — non ammetterà mai di esserlo, non riconosce il suo atteggiamento che è soltanto, per lui, di difesa di quello che possiede. Anzi si sente "vittima" di continue aggressioni a ciò che gli appartiene, sentimenti o denaro. E le rare volte che chiede aiuto è perché si sente solo, isolato dal mondo e non ne capisce il motivo». A chi credere, allora? Al primo che organizza una cena per tutti.
Paola Pollo







Sanihelp.it, 26.01.06
Tutti in palestra contro la depressione


Per combattere la depressione, l'esercizio fisico potrebbe rappresentare una terapia alternativa e con effetti immediati anche per i pazienti con disturbi gravi.

Secondo un'indagine della University of Texas di Austin, già una breve passeggiata produce un effetto immediato sull'umore e dà uno stimolo emotivo considerevole.
I ricercatori sono arrivati a questa conclusione dopo aver valutato gli effetti di un moderato livello di attività fisica (30 minuti al giorno) su un gruppo di 40 pazienti affetti da depressione.

Il motivo é in parte fisiologico: probabilmente l'esercizio fisico stimola il rilascio di quei composti chimici, la norepinefrina e la serotonina, che sono anche il bersaglio degli antidepressivi, associandolo alla soddisfazione congitiva derivante dall'idea di tenersi in forma. Se i pazienti depressi si sforzeranno di uscire di casa per fare esercizio in palestra o semplicemente passeggiare, secondo gli studiosi troveranno un buon modo per tenere sotto controllo la propria malattia giorno, trasformando lo sport in una vera e propria terapia.

Fonte: ANSA Salute
































ANSA, 26.01.06
Ansia parto dei papa' nuoce a donna
Soprattutto dopo un cesareo i dolori della donna aumentano


Paure e ansie dei papa' per il parto della mamma potrebbero aumentare, nella donna, il dolore per un cesareo o comprometterne l'allattamento. Lo rivela un'indagine dei ricercatori della University of Bath e dell'Imperial College di Londra, diretta da Ed Keogh. Spesso molti uomini, completamente impreparati o quasi, si ritrovano preda di paure per il cesareo cui dovranno assistere, rischiando di trasmettere la loro ansia alla mamma, con risultati negativi per lei e per il nascituro.































Corriere della Sera, 26.01.06
Ricerca della Società Italiana di Andrologia
E' boom di sesso «dopato» in Italia
Giovani perfettamente sani tra i 20 e i 35 anni chiedono sempre di più aiuto ai farmaci per stupire la partner con super-prestazioni


In Italia c'è un boom di «sesso dopato» tra i giovani.
Hanno magari solo 20 anni e sono sani ma vivono i rapporti intimi come una gara. E così vanno dall'andrologo, o navigano in Internet, alla ricerca di un farmaco per stupire la partner. A lanciare l'allarme, oggi a Milano in occasione di un'incontro promosso da Pfizer (produttrice del Viagra), sono gli esperti della Societá italiana di andrologia (Sia).
«Da un'indagine condotta attraverso la distribuzione di questionari a circa mille specialisti della Penisola - ha riferito Bruno Giammusso, segretario Sia e responsabile del Servizio di Andrologia chirurgica dell'universitá di Catania - risulta che le cosiddette richieste atipiche, quelle cioè di chi vuole una pillola anti-impotenza pur non avendone bisogno, riguardano quasi il 10% degli uomini visitati dall'andrologo».

L'IDENTIKIT - Ecco l'identikit dei non-malati che cercano un aiuto farmacologico per una super-prestazione: «Tra i 20 ai 35 anni - spiega Giammusso - , senza connotazione geografica particolare, va dall'andrologo da solo, senza una partner, e fa richieste molto precise: sa perfettamente di non avere alcun disturbo, ma insegue la performance stupefacente chiedondo un farmaco». Ma il vero problema è un altro: «Questi giovani cercano di reperire i medicinali che vogliono per vie alternative, vendita online o consigli di figure parallele ai veri esperti». Così facendo «sfuggono al medico», lasciando immaginare un sottobosco di richieste che non arriva all'andrologo e un fenomeno dai numeri assai più grandi di quanto non si riesca ora a calcolare.

I RISCHI - «Il messaggio che vogliamo dare», prosegue lo specialista, «è quello di rivolgersi sempre al medico per questo tipo di problemi. Il medico non è solo un dispensatore di farmaci, ma anche e soprattutto di informazioni e saprà dirimere quali sono i casi in cui un aiuto è necessario, fosse solo per superare qalche problema psicologico». E prosegue Giammuso: «Ma prendere questi farmaci senza porsi domande può innescare due ordini di problemi. Il primo è la possibilità di effetti collaterali, anche se piuttosto infrequenti tra i giovani. Il secondo, e molto più insidioso, è lo sviluppo di una dipendenza psicologica. In questo caso chi comincia prendere il farmaco senza motivo rischia, se non assistito, di pensare di non potercela più fare da solo e così il farmaco rischia di diventare una specie condanna».
Luigi Ripamonti










Liberazione, 26.01.06
Comunismo e nazismo, due storie diverse
di Rina Gagliardi


Vien quasi da sobbalzare sulla sedia: ieri un organismo ufficiale dell’Unione europea ha discusso una risoluzioine che equipara il comunismo al nazismo e apre, né più né meno, una nuova stagione di caccia alle streghe, densa di fuori ideologici e politici. A quasi vent’anni dall’89 e dalla caduta dei regimi dell’est europeo, l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha sentito il bisogno di chiudere così la discussione sul ‘900 - proprio come fosse un redivivo tribunale del senatore americano McCarthy. Una scelta grave e inaccettabile, nel suo duplice versante: quello storico, in virtù del quale viene sancita la natura “intrinsecamente criminale” del comunismo, e i suoi misfatti giudicati della stessa portata della Shoah; e quello politico, che si traduce in una delegittimazione totale dei partiti comunisti del presente, quindi nella legittimazione preventiva di ogni “intervento internazionale” (leggi: guerra) eventualmente teso al rovesciamento dei governi (come Cuba) retti da partiti comunisti. A completare il quadro, che comprende anche la condanna di Karl Marx (la cui opera “porta in sé i germi del terrore e dello sterminio”, ha spiegato lo svedese Goran Lindblad), c’è anche un invito esplicito al revisionismo storico-simbolico: riscrittura dei manuali scolastici, monumenti da erigere, vie e piazze da rinominare, e via dicendo. Insomma, non diremo che, come centosessant’anni fa, uno spettro s’aggira, di nuovo, per l’Europa. Diciamo, piuttosto, che la paura del mutamento, di quell’altra Europa possibile che già vive nei movimenti e nella sinistra, è così forte, che ogni mezzo per sconfiggerla diventa lecito - come le crociate, i paralleli fuorvianti, o la guerra ideologica.
Il tentativo di far passare l’equivalenza comunismo=nazismo, stalinismo=hitlerismo, del resto, non è nuovo. Ma ci sono almeno tre ragioni che lo rendono insostenibile. Intanto, esso implica una radicale sottovalutazione di ciò che è stata, nella realtà storica, la tragedia dello sterminio degli ebrei (e dei rom, degli slavi, degli omosessuali e di altre minoranze): non ci sono paralleli possibili, per un genocidio di questa entità, intensità, intenzionalità e - non ultimo - “teorizzazione scientifica”. Non stiamo accreditando, con ciò, alcuna giustificazione per la nostra parte: gli errori (e gli orrori) del regime di Stalin sono stati grandi, come le sue degenerazioni (e sono i comunisti del XXI secolo a portarsi addosso, dentro di sé, una ferita non certo rimarginata, un fallimento che pesa sulle nostre battaglie di oggi). Stiamo sottolineando la natura eccezionale dei crimini perpetrati dal nazismo: il genocidio pianificato. Per la prima volta, nell’era moderna, milioni di esseri umani vennero sterminati, uccisi, imprigionati, affamati, privati di ogni basilare diritto umano non per ciò che avevano fatto, non perché erano accusati o sospettati di aver fatto qualcosa, ma per la sola colpa di esser nati - di appartenere ad una cultura, un’etnia, una religione, un credo politico, o di soffrire di un handicap fisico o mentale. Una tale aberrazione resta un unicum tremendo.
Ma nessuno può sostenere che essa fu il frutto di processi degenerativi, involontari, in qualche modo incontrollati: al contrario, essa era stata teorizzata diciotto anni prima, progettata, spiegata al “popolo” in termini molto precisi, quasi identici a quelli con cui poi sarebbe stata tradotta in pratica. Chi avesse voglia e tempo di leggersi, ancor oggi, il "Mein Kampf" (un libro così voluminoso che in realtà pochissimi lo hanno letto), vi troverebbe, né più né meno, la descrizione di ciò che il nazismo voleva fare e ha effettivamente fatto. Come si fa a sostenere che un’ideologia nutrita di antisemitismo, bellicismo, militarismo, violenza, nazionalismo, disprezzo per i deboli, e che ha coltivato tutte queste ignobili pulsioni fino allo loro forma estrema, sia paragonabile non si dirà allo stalinismo, ma ai peggiori regimi autoritari? Come si fa a dire che chi ha scatenato una guerra mondiale, costata decine di milioni di morti e inaudite devastazioni civili, porta la stessa responsabilità storica di un dittatore pur sanguinario e crudele? Quando lo si dice, si offende, prima di tutto, la memoria degli ebrei e delle vittime del nazismo. Si fa un passo ulteriore verso il revisionismo storico. Si fa una semplificazione molto rozza e alquanto ignobile.
In verità, il “comunismo statuale” - meglio sarebbe dire il “socialismo reale”, il o i regimi retti da Partiti comunisti che ci sono effettivamente stati nella storia - è stato finora severamente sconfitto, non, però, nel nome delle sue finalità ideali e dei suoi obiettivi dichiarati. Lo stalinismo è una tragica degenerazione, non l’applicazione coerente del programma del Partito bolscevico. L’oppressione autoritaria, il virus burocratico, la passivizzazione delle masse, la negazione della libertà politica e sindacale non appartengono, in nessun caso, alle ragioni per cui - ieri e oggi - milioni di persone diventano comuniste: la cui aspirazione, le cui speranze, sono precisamente l’opposto, una società in cui “il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti” - e in cui non il mercato, non lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non la logica d’impresa, ma la libera e solidale cooperazione delle persone costituisca il fulcro di un più razionale consesso civile. Questo straordinario progetto - questo immenso sogno di liberazione - non è riuscito finora a realizzarsi, a “incarnarsi” nella storia, a farsi governo: è vero, è stato vero per gli ottanta-novant’anni che ci stanno alle spalle. E’ vero che, nella realtà storica e nella concreta dinamica dei suoi processi, ha vinto - finora - un altro “principio”: la pratica di un potere che si separa dai suoi fini, degenera, “tradisce” i principi che lo hanno nutrito, anzi che lo hanno trasformato in forza politica effettiva. Così è andata nel ventesimo secolo in Europa, così - temiamo - rischia di accadere a tutt’oggi in altri luoghi del mondo. Per una ragione, su tutte, che già era lucidamente presente alla coscienza del giovane Marx: perché la trasformazione - la liberazione - della società è maledettamente lunga e difficile. E perché scrollarsi di dosso tutto il “sudiciume” che la società borghese alimenta dentro le persone, e praticare davvero il cambiamento, richiede forse molte e molte generazioni: né basta certo la “presa del potere” a fare una nuova società, forse non è proprio da lì che si deve incominciare. Ma come si fa a pensare che tutto questo abbia qualcosa a che fare, o abbia addirittura una parentela organica, con il fascismo, il nazismo, l’autoritarismo?
Se così non fosse, del resto, il comunismo sarebbe finito in quel giorno ormai lontano - quando cadde il muro della vergogna, o quando la bandiera rossa venne ammainata dalle guglie del Cremino. Invece no, esso continua a vivere nella coscienza e nel cuore di milioni di persone, che non hanno nostalgie, proiettano sul futuro le loro speranze, rifiutano come insopportabile e profondamente offensivo ogni paragone con le camicie brune o le Ss. L’Europa ufficiale non lo sa, e non lo sa Goran Lindblad (lo svedese che forse farebbe meglio a guardare nella storia del suo paese, dove troverebbe la pratica dell’eugenetica praticata negli anni ’30 contro sessantamila handicappati, e la ipocrita complicità del governo di Stoccolma con i nazisti e i loro trasporti di minerali dalla Norvegia, durante la II guerra mondiale): ma il comunismo storico è stato e sarà tanto più grande del “socialismo reale” di Bucarest, Sofia e anche Mosca. Finchè ci sarà il capitalismo, e la sua regressione sociale e civile, finchè il profitto muoverà il mondo, l’economia, i mercati, finchè ci saranno “ingiustizie” e disuguaglianze, finchè le bestie del nazismo, del razzismo e dell’antisemitismo continueranno ad allignare, caro Lindblad e cara Europa, là ci sarà un comunista.







Liberazione, 26.01.06
Dopo il 14 gennaio a Milano. Come non disperdersi e dare concretezza a un soggetto collettivo
Il silenzio, le parole. E ora piccoli progetti di donne.
A partire dalla quotidianità e dai problemi concreti
di Emanuela Borzacchiello


Parole. Iniziamo da alcune pronunciate senza un'esatta cognizione di causa. Ascoltato dalla Commissione Affari sociali della Camera nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla applicazione della 194, Carlo Casini (presidente del Movimento per la vita), ha dichiarato che «nell'80% dei casi non solo alla donna non viene prospettata alcuna alternativa all'aborto», ma non viene neppure «chiesto il motivo della sua intenzione». Spesso l'incontro con il personale del consultorio, ha aggiunto Casini, è vissuto come «una sollecitazione all'aborto».

Parole, giunte chissà da dove, chissà perché. Ai cattolici Cav (Centri di aiuto alla vita) sono giunte notizie di bambini abortiti, ma vivi, e quindi lasciati morire sul tavolo operatorio.

Parole, il cui senso si è rafforzato. Prima del 14 gennaio, prima della manifestazione milanese, c'è chi ha definito i cortei noiosi, roba maschile perché parte della storia del movimento operaio. Ci sono modalità di espressione che vengono da lontano, ma ci sono valige che è bene portarsi nel proprio tempo, se contengono esperienze democratiche, ricche e condivisibili. Ma è anche vero che da lì bisogna partire per inventare anche altro.

Parole che costruiscono domande. Si sta abbattendo sulla riva la seconda ondata del femminismo? chi sono le nuove protagoniste? cosa vogliono? qual è l'identikit della neo-femminista?

Parlare di "seconda ondata" implica il riconoscere una sorta di continuità con il movimento degli anni Settanta. Pochissime sono le donne giovani che hanno sfilato a Milano e si identificano con il femminismo, riconoscendo una sorta di maternità simbolica con coloro che diedero vita e animarono quello stesso movimento. Molte non si definiscono femministe, né si riconoscono protagoniste di qualcosa, se non della propria identità. Sono scese in piazza, hanno dato vita ad un corteo animato da una molteplicità di pensieri e per la prima volta hanno avuto la percezione che sia indispensabile unire rivendicazioni specifiche di genere alla difesa di diritti civili.

Il femminismo ha prodotto una fecondazione sotterranea dei linguaggi e dell'agire politico, ci ha trasmesso "un'eredità senza testamento", così come la definiva la rivista latinoamericana Fempress, quando nel 2000 pubblicò un'inchiesta sui femminismi di fine secolo. L'inchiesta fu realizzata partendo dal presupposto che il femminismo del Novecento avesse trasmesso un'eredità che chiunque può prendere. Un'eredità che non comprende solo idee femministe ma anche modi di essere, pratiche di vita, priorità politiche.

In molte, oggi, condividiamo la paura di vedere eclissarsi un movimento non organizzato, perché è difficile riunirsi, perché è difficile trovare un linguaggio diverso che non tradisca quello che vuoi dire, perché è difficile dare identità ad un progetto. Ma è necessario. Ed è così che all'indomani della manifestazione è iniziato il silenzio di molte che stanno progettando a partire dalla propria quotidianità - così come scriveva Eleonora Cirant su queste pagine. Piccoli progetti, senza troppe pretese, a partire dai luoghi che ci circondano, dalle donne che si hanno intorno, da problematiche vissute. Magari all'inizio si incespica, si inciampa, non si sa come dirle le cose, si pecca di ingenuità. Ma va bene lo stesso, perché ora si sta crescendo. Si sta cercando di non disperdersi e di non perdere delle competenze che vanno riconosciute e valorizzate, di dare concretezza ad un soggetto collettivo, ad una assemblea permanente, come ripeteva Lea Melandri negli incontri di "Usciamo dal silenzio". Un silenzio, questa volta, carico di suoni.

La difesa della 194 ha portato già ad un primo, reale risultato. Ha riempito di significati e di contenuti questa stessa difesa. Il significato della necessità politica di voltare pagina, perché non è più possibile ammiccare al Vaticano da un lato e cavarsela con generiche promesse da marinaio a un'Italia laica che non vuole giocarsi, per una manciata di voti, diritti civili e pratiche democratiche. Si è affermato che "autodeterminazione" della gravidanza diviene una parola vecchia, da riconsegnare al passato se non la si riempie di nuovi contenuti. Un lavoro precario, un contratto a termine, ti priva di quella autodeterminazione. Una donna straniera, una manager promettente o una free- lance non ha la possibilità di scegliere se diventare madre, perché con quel figlio si farà fuori da sola.

Forse, se proprio vogliamo avventurarci in un confronto fra le manifestazioni degli anni Settanta e quello che nasce ora, possiamo farlo sul piano delle sensazioni. Se negli anni Settanta si era in una manifestazione, si guardava oltre frontiera e si vedeva che in Cile spadroneggiava Pinochet, un po' di paura te la portavi addosso. Oggi possiamo guardare all'America Latina e vedere proprio in Cile la prima donna Presidente, Michelle Bachelet, e un po' di speranza possiamo preservarla dentro.








Liberazione, 26.01.06
Ognuna col proprio vissuto nella piazza di tutte
Il corteo di Milano, la nostra prima volta
di Mariarosaria La Porta e Ilaria Moroni*


Non ci aspettavamo di essere così tante a Milano quel giorno e ora è difficile raccontare l'esperienza e il vissuto che ci ha tenute legate per ore in un corteo di voci e colori diversi, che hanno saputo riprendere la parola come se non avessero mai conosciuto il silenzio.

Ci siamo unite al corteo in un viale, assolato e festoso, quasi incredule di esserci finalmente. Dopo mesi di dibattiti, incontri e confronti abbiamo voluto testimoniare col nostro corpo, con la nostra presenza, lo strappo forte che si sta consumando tra le donne e la politica negli ultimi anni, in un clima culturale che ci costringe ai margini della vita del paese per riprenderci solo come oggetti di un dibattito che dovrebbe invece vederci protagoniste. Non eravamo lì a Milano solo per la 194 o per seguire una bandiera o per anticipare i toni di una campagna elettorale che già ai primi accenni tenta di escluderci. Eravamo lì a testimoniare ognuna la propria differenza per tentare di riprenderci uno spazio pubblico che, visto che "siamo più della metà", ci spetta di diritto. Ognuna di noi ha affermato la propria istanza, il proprio vissuto di donna provando comunque a coniugarlo in un comune sentire: che si trattasse della soggettività politica e di una cittadinanza ancora dolorosamente incompiuta o di un precariato che paralizza qualunque progetto di vita, abbiamo sentito che la "piazza" era in grado di contenerci. E sicuramente altri lo hanno avvertito perché da quel giorno in poi il dibattito non si è fermato e ogni commentatore ha cercato in modo maldestro di arginare quello che è parso un fiume in piena, senza riuscire a capire che ognuna di noi a Milano è stata donna fra le donne in movimento. Se vi state domandando cosa ci fosse di politico a Milano vi risponderemo: Tutto! La politica investe la sfera dei singoli, donne e uomini, e da sempre l'agire politico delle donne è un agire collettivo. Ma non troverete nulla di politicizzato nelle istanze singole che si sono incontrate. Se un messaggio forte doveva passare, questo è stato... generazioni e generi a confronto, il femminismo "vecchio" e nuovo e molti uomini, per dire una sola cosa: siamo contro le ingerenze nella vita dei singoli, contro le parole sui nostri corpi, contro la morale usata arbitrariamente, contro chiunque farà finta che le condizioni di vita delle donne non riguardino la società intera. Per ragioni anagrafiche, Milano è stata la nostra prima "piazza" ma siamo fortemente consapevoli che da qui indietro non si torna.

*Comitato Siamo più della metà
















Liberazione, 26.01.06
Legge 180
Un'esperienza sconvolgente


Gentile direttore, dopo aver saputo delle dichiarazioni del ministro della Sanità Francesco Storace di mettere mano alla legge 180, che regolamenta l'operato psichiatrico, in me è nata una fortissima preoccupazione. Ho subito diversi Tso (trattamenti sanitari obbligatori), e dopo il primo, avvenuto nel giugno del 1996 a soli 32 anni, ho deciso di scrivere un libro sulla mia destrutturante, distruttiva, spaventosa, colma di sofferenza, drammatica, sconvolgente e dolorosissima esperienza di ricovero coatto. Per provare a ottenere una sacrosanta giustizia e per far capire come si passa, dopo un Tso, dal pieno fulgore all'essere ridotto peggio di una larva umana. Dopo ogni ricovero (ben 6...) sono stato costretto, per mesi e mesi, ad affrontare una disperata e durissima risalita per colpa dell'overdose di psicofarmaci, che mi hanno completamente stroncato sia a livello psichico che fisico. Per mesi non riuscivo ad alzarmi dal letto. Se la mia lettera sarà pubblicata, nessuno potrà dire che non era a conoscenza di come vengono massacrate le persone dai Tso e da certa psichiatria, che è la più diffusa. Altre volte sono stato male ma essendo stato curato nel giusto modo non ho subito danno alcuno e non sono stato imprigionato, e questo è il punto decisivo, difatti ci si può curare senza subire il carcere e l'atroce massacro del Tso. Chiedo l'intervento di tutti per evitare che un'eventuale modifica della legge 180 faccia peggiorare le già gravi condizioni imposte alle persone che già di per sé stanno male. Da parte mia, sono fortemente deciso e fortemente determinato nel voler portare avanti questa lottaÉ
Natale Adornetto, Catania














Liberazione, 26.01.06
Prima enciclica di Ratzinger. «Uno stato senza giustizia è una banda di ladri (S.Agostino)».
«Marxismo «sogno svanito» ma rischi di secolarizzazione per il volontariato cattolico
Eros è amore. E carità non è politica
di Fulvio Fania


Città del Vaticano - Il fatto curioso è che una delle frasi che più impressionano nella nuova enciclica del Papa, visti i tempi che corrono, la scrisse molti secoli fa Sant'Agostino, sempre citatissimo dal teologo Ratzinger. «Uno stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri», disse in latino il vescovo di Ippona e ripete oggi Benedetto XVI. Che la politica debba avere per scopo la giustizia, che non possa limitarsi alla tecnica degli ordinamenti, che insomma lo Stato non debba essere neutrale di fronte alle contraddizioni sociali, è affermazione non nuova nella dottrina cattolica, ma in certi momenti giova ripetere.

Secondo ammonimento del Papa, e stavolta sono parole sue: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile, non deve mettersi al posto dello Stato ma non può nemmeno stare ai margini nella lotta per la giustizia». Deve perciò lavorare sulle coscienze, «illuminando» la ragione. Il suo è quindi un compito «mediato» mentre le scelte «immediate» spettano ai singoli fedeli impegnati nella società. E qui il discorso resta aperto alle più diverse letture. C'è chi lo leggerà come rigoroso rispetto dell'autonomia della politica e dalla politica, chi invece chiamerà in causa i "valori etici" o il "diritto naturale" per imporre alle istituzioni i famosi "contenuti irrinunciabili" - ne ha parlato tre giorni fa il cardinale Ruini -, chi addirittura userà la distinzione dei ruoli come pretesto per andar d'accordo con gli Stati peggiori. La prima enciclica di Benedetto XVI non basta a risolvere interrogativi del genere e, specialmente per quanto riguarda l'azione delle organizzazioni caritative cattoliche, finisce anzi per complicare la faccenda. Verso le Caritas e le Ong le reprimende surclassano gli elogi. L'etica sociale è auspicata quando investe un individuo ma continua a preoccupare quando diventa comunitaria. Molti sono i giudizi critici sul marxismo, nessuno invece sul liberismo.

Le suggestioni certo non mancano fin dalle prime pagine dedicate all'amore, dove si avverte lo stile puro del professor Ratzinger. La prima citazione, ovviamente per polemizzare, è di Friedrich Nietzsche, con la sua accusa al cristianesimo di aver avvelenato l'eros. Subito dopo Benedetto XVI torna ai greci, all'amore concepito come «ebbrezza» o «pazzia degli dei» e al cristianesimo degli albori che, dovendo fronteggiare questo amore sbagliato, trascurò il termine stesso di eros preferendo "agape". Non per questo - osserva il Papa - era «avversario della corporeità», tanto più che il credo cristiano si fonda su un Dio incarnato. Il punto d'arrivo del ragionamento, naturalmente, è nella inscindibile unità dell'amore, nel rifiuto della contrapposizione tra quello «mondano» e quello di fede. Tutte le forme derivano dal creatore. Benedetto XVI si reimpadronisce così della dimensione erotica, purché espressa nel matrimonio. Qualche riflessione in materia si era già sentita da parte di Wojtyla. Scrive Ratzinger che se l'uomo ambisce unicamente allo spirito rifiutando la carne come «eredità animalesca» fa perdere dignità allo stesso spirito. Se al contrario si concentra tutto sul corpo, «perde la grandezza». Capitolo interessante, anche volendo azzardare confronti con le regole della Chiesa sulla castità o sul celibato dei suoi membri. Ma proprio in queste pagine riemerge quel giudizio severo e in fondo pessimistico verso il mondo d'oggi che il teologo del dissenso Hans Kung, commentando l'enciclica, ha giudicato fortunatamente meno pervasivo del solito. L'eros contemporaneo, per Benedetto XVI, è spesso «ingannevole» e «degradato a puro sesso, diventa merce».

Eccola dunque, finalmente pubblicata nel giorno in cui Benedetto XVI prega nella basilica di San Paolo insieme a ortodossi e protestanti, la sua prima enciclica "Deus caritas est". O meglio, le due encicliche. Sì, perché il passaggio dalla parte sull'eros a quella sulla caritas è un varco di frontiera. Stanno assieme a fatica e Ratzinger stesso lo aveva preannunciato. Nel riposo di Castelgandolfo, a settembre, Il Papa preparò sicuramente le prime 34 pagine. L'idea di aggiungere il capitolo sulla carità organizzata dalla Chiesa sembra sia stata caldeggiata dalla Curia, in particolare dal Consiglio "Cor Unum" già ai tempi di Giovanni Paolo II, il quale aveva avviato un lavoro. Dall'amore di Dio all'amore per gli altri il legame regge. Ma a questo si è aggiunta la disputa sulle Ong cattoliche e i rischi "ideologici" che corrono. E qui l'enciclica torna alle prese col marxismo, bollato come «sogno svanito» di un mondo perfetto da raggiungere una volta per sempre. La carità - obietta il Papa - sarà necessaria anche nella società più giusta. Obiettivamente l'enciclica riconosce che la Chiesa tardò a comprendere la società industriale. La colpa del marxismo sarebbe, oltre allo stato pigliatutto, l'aver considerato la carità verso il bisognoso un mezzuccio per rinviare la rivoluzione addolcendo le responsabilità dell'ingiustizia: «Disumano». Ma perché tanta insistenza nella polemica contro un "sogno svanito"? Non sarà che il vero timore riguarda l'impegno, anche politico, a fianco degli oppressi di molti missionari e Ong cattoliche nel mondo? La nostra domanda non ottiene risposta precisa nemmeno dal cardinale Renato Martino, il capodicastero "Giustizia e pace" che alla conferenza stampa di presentazione dell'enciclica sembra venuto soprattutto per riaffermare il peso della dottrina sociale, anche rispetto alle preoccupazioni del collega vescovo Paul Cordes, presidente di Cor unum, che invece continua a parlare dei «rischi» che incombono sulle organizzazioni ecclesiali. Ben vengano tanti volontari, tanti filantropi di ogni religione o anche senza, però per i cattolici questo «sentire comune» potrebbe trasformarsi in una «trappola»: smarrire «le ragioni bibliche» e di fede della carità, scindere i legami dai vescovi, diventare Ong come le altre, indistinguibili dalla Croce Rossa o dalle agenzie Onu. Ecco allora nell'enciclica una nutrita serie di moniti d'obbedienza: non fare proselitismo ma non tacere Dio; «è giunta l'ora» di tornare a pregare; vincere la tendenza alla secolarizzazione. Quindi il richiamo all'ordine si trasferisce sul piano sociale: «l'umiltà» servirà a smettere «la presunzione di cambiare da soli il mondo perché «è Dio che governa il mondo» e la carità «non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico». Lontani dunque da ideologie e partiti. Dicono che nel mirino ci siano soprattutto alcune Ong del Nord Europa, troppo autonome e "istituzionali", ma il discorso cadrà ancora più pesante sui paesi del Sud del mondo.

E dire che Ratzinger scrive anche una bella pagina sul cristianesimo primitivo, credenti che mettevano tutti i loro beni in comune. Che cosa ne è rimasto? «Che non deve esservi povertà tale da negare il necessario», risponde il Papa. Benché Martino si appelli al principio cattolico della «destinazione universale dei beni della terra», anche quello dei primi cristiani sembra proprio un comunismo svanito.















Liberazione, 26.01.06
Eros e divino
La festa o la trasgressione dei divieti
di Georges Bataille


Pubblichiamo un ampio stralcio dal capitolo "La trasgressione" della "Storia dell'erotismo" di Georges Bataille pubblicata in questi giorni dall'editore Fazi (pp. 212, euro 19,50).Talvolta, davanti alla morte, davanti allo scacco dell'ambizione umana, prende corpo una disperazione senza misura. Sembra allora che riprendano il sopravvento quelle pesanti tempeste e quei brulichii della natura ai quali di solito l'uomo ha vergogna di cedere. In questo senso, la morte di un re è suscettibile di produrre gli effetti d'orrore e di scatenamento più marcati. Il carattere del sovrano fa sì che questo sentimento di disfatta, d'abbassamento, sempre suscitato dalla morte, raggiunga un tale grado che niente, pare, potrà più valere contro i furori dell'animalità. Appena il macabro avvenimento viene annunciato, gli uomini accorrono da tutte le parti, uccidendo coloro che incontrano davanti a sé, saccheggiando e violentando a piacimento.

Le «licenze rituali», dice Roger Caillois «assumono allora l'aspetto che corrisponde rigorosamente alla catastrofe sopraggiunta [... ]. Alla frenesia popolare non viene mai opposta la minima resistenza [... ]. Nelle Isole Sandwich la folla, apprendendo la morte del re, commette tutti gli atti giudicati criminali nel tempo ordinario: incendia, saccheggia e uccide, mentre le donne sono tenute a prostituirsi pubblicamente». Il disordine «ha fine soltanto con la completa eliminazione degli elementi putrescibili del cadavere reale, quando delle sue spoglie resta soltanto un duro e asciutto scheletro incorruttibile». (...)
Tuttavia l'esplosione che segue la morte non è per niente l'abbandono di quel mondo in cui i divieti umanizzano: la festa è, senza dubbio, un istante, è l'arresto del lavoro, la consumazione incontinente dei suoi prodotti e l'espressa violazione delle leggi più sante; ma l'eccesso consacra e completa un ordine di cose fondato sulle regole, non vi si oppone che temporaneamente. Non potremmo d'altronde lasciarci ingannare dall'apparenza di un ritorno dell'uomo alla natura. Può esisterne senza dubbio uno, in un senso solamente. Dal momento in cui l'uomo si è strappato alla natura, quell'essere che vi ritorna è ancora strappato, è un essere strappato che immediatamente recupera la direzione di ciò da cui si strappa, da cui non ha smesso di strapparsi. Lo sradicamento primario non viene cancellato: quando gli uomini, nel corso della festa, danno libero corso ai movimenti che rifiutano nel tempo profano, questi ultimi hanno senso nel quadro di un mondo umano: non hanno senso che all'interno di questo quadro. Allo stesso modo, questi movimenti non possono essere confusi con quelli degli animali. (...)
Qual è dunque essenzialmente il senso del nostro orrore della natura? Non voler dipendere da niente, distoglierci dal luogo della nostra nascita carnale, ribellarci intimamente contro il fatto di morire, in generale diffidare del corpo, ovvero di ciò che in noi è accidentale, naturale, deperibile: tale apparve essere per ognuno di noi il significato di quel movimento che ci porta a immaginare l'uomo indipendentemente dalla sporcizia, dalle funzioni sessuali e dalla morte. Lo riconosco, questa maniera di vedere chiara e distinta è quella di un uomo del nostro tempo, non è sicuramente quella dei primi uomini. Essa presuppone in effetti la coscienza discriminante e il linguaggio articolato che la fonda. Posso innanzitutto considerare il modo di sentire e di reagire che decise dei primi divieti. Tutto indica che quei sentimenti e quelle reazioni arcaiche risposero oscuramente a ciò che oggi abbiamo il potere di pensare discorsivamente. Non mi dilungherò su questo punto: mi riferisco nella sua interezza alla storia delle religioni cui devo riferirmi in generale, senza volerla rappresentare in dettaglio. Dai tabù dell'incesto e del sangue mestruale, o del contatto con i morti, alle religioni della purezza e dell'immortalità dell'anima, lo sviluppo è facilmente leggibile: si tratta sempre di negare la dipendenza dell'essere umano in rapporto al dato naturale, di opporre la nostra dignità, il nostro carattere spirituale, il nostro distacco all'avidità animale. Ma non posso evidentemente limitarmi a questa prima occhiata. So che questo movimento iniziale fallisce. Se cerco il senso globale della mia volontà d'agire e delle più antiche fobie da me condivise, non posso mancare di riconoscere l'impotenza di uno sforzo così mal diretto. Non posso negare la mia dipendenza, negando il sessuale, la sozzura, la morte, e volendo piegare il mondo alla mia azione. Ma questa negazione è fittizia. Devo alla fine dirmi, a proposito dell'origine carnale di cui mi vergogno, che è nonostante tutto la mia origine. E per quanto grande sia l'orrore della morte, come sfuggire davanti alla sua scadenza? So che morirò e che imputridirò. (...)
Beninteso, da molto tempo gli uomini hanno ammesso a modo loro lo scacco della negazione della natura: a partire dall'origine, ciò non mancò d'apparire inevitabile. Ma, a partire dall'origine, un sentimento doppio dovette mettersi in luce. Per il sentimento secondario, non era né possibile né desiderabile che l'uomo fosse al riparo veramente, fosse tanto al riparo che l'elemento maledetto cessasse definitivamente di contare. Quest'elemento era negato, ma questa negazione era il mezzo per dargli un diverso valore. Nasceva qualcosa di sconosciuto e di sconcertante, che non era più semplicemente la natura, ma la natura trasfigurata, il sacro.

Fondamentalmente, ciò che è sacro è proprio ciò che è proibito. Ma se il sacro, proibito, è rifiutato dalla sfera della vita profana (nella misura in cui indica la deviazione da questa vita), esso ha nondimeno un valore maggiore di quel profano che lo esclude. Non è più la bestialità disprezzata: spesso la sua figura è rimasta animale, ma divenendo divina. Come tale, in rapporto alla vita profana, quest'animalità sacra ha lo stesso significato che la negazione della natura (e di conseguenza la vita profana) ha in rapporto alla pura animalità. Ciò che è negato nella vita profana (attraverso i divieti e il lavoro) è lo stato di dipendenza dell'animale, sottomesso alla morte e ai bisogni del tutto ciechi. Ciò che è negato dalla vita divina è sempre la dipendenza, ma stavolta è il mondo profano di cui è contestata la servitù lucida e volontaria. In un certo senso, la seconda contestazione fa appello a forze che la prima aveva negate, in quanto esse non possono essere veramente rinchiuse entro i limiti della prima. Ricorrendo al loro apporto, il movimento della festa libera queste forze animali, ma in questo momento la loro liberazione esplosiva interrompe il corso di un'esistenza subordinata a fini volgari. E' la rottura delle regole - un'interruzione - non più il corso regolare: ciò che ebbe all'origine il significato di limite ha adesso quello di infrangere i limiti. Perciò il sacro annuncia una nuova possibilità: è il salto nell'ignoto di cui l'animalità costituisce lo slancio.








Liberazione, 26.01.06
Un libro intervista al segretario di Rifondazione della regista Wilma Labate. Una biografia dalle origini nell'ambiente operaio di Sesto San Giovanni alla militanza sindacale
Bertinotti, la politica parte da una maglietta a strisce
di Saverio Aversa


Fare una conversazione con Fausto Bertinotti sulla cultura mi sembrava fino ad oggi una possibilità remota: la politica non è il mio specifico, non ho tessere, non scrivo libri e sono una donna». Così scrive nella prefazione a Il ragazzo con la maglietta a strisce (Aliberti, pp 153, euro 13,50), la regista Wilma Labate, apprezzata e nota soprattutto per il suo film più importante, La mia generazione, uno spaccato incisivo e doloroso sugli anni del terrorismo.

Il titolo del libro fa riferimento ai giovani che nel luglio del 1960 scesero in piazza a Genova animando la rivolta antifascista contro il democristiano Tambroni che aveva formato un governo monocolore accettando l'appoggio del Msi. Tra quei manifestanti c'era anche l'attuale segretario di Rifondazione: «Indossavo davvero quella maglietta. In quei giorni conobbi la politica, entrai in contatto con la classe operaia, con le camere del lavoro, con le federazioni del Psi e del Pci. Io appartengo alla generazione delle magliette a strisce che scoprì che il "politico" è quasi subito totalizzante, che lo scontro a volte è una necessità: il dovere di abbattere ciò che impedisce la tua espressione. E poi c'è la repressione e la lotta per sconfiggerla. L'antifascismo è stato un elemento fondativo, l'unica religione civile del nostro paese».

Un dialogo a tutto campo, schietto, diretto, tra la donna di cinema e l'uomo di politica, davanti ad una tazza di caffè nella cucina di casa Bertinotti. «E' importante dire che il movimento della pace è la seconda potenza del mondo; e invece la politica non se ne accorge. E neanche si rende conto di esser entrata nell'inverno» dichiara Bertinotti.

Ma Wilma Labate vuol conoscere la storia della vita del segretario del Prc e allora gli rivolge domande sull'infanzia, sull'adolescenza, sui genitori. Veniamo così a sapere che il padre era un ferroviere anarchico-socialista, un ragazzo del '99, che negli anni '40 viveva con la famiglia in una casa di ringhiera di Sesto San Giovanni, la "Stalingrado d'Italia", così detta per l'alta percentuale di voti socialcomunisti. La madre era cattolica anche se votava socialista, completamente dedita al marito e ai figli. Una donna di grande forza e determinazione che accettò di nascondere in casa un partigiano correndo un grave pericolo poiché a duecento metri c'era il presidio nazista. Fausto impara a leggere, prima ancora di andare a scuola, sulle pagine sportive del giornale che comprava il padre, l'Avanti. Dopo le elementari le medie, invece del consueto "avviamento" al lavoro, quindi il passaggio dalla periferia al centro, da Sesto a Milano, la città di piazzale Loreto, di corso Buenos Aires, di viale Monza.

Una conversazione intensa e leggera allo stesso tempo, un confronto amichevole che disegna un uomo dei nostri giorni, fortemente connotato dalla sua formazione civile, dalle energie profuse nell'impegno sindacale e politico. Fin da giovanissimo entra nella Cgil, difende i diritti delle operaie delle fabbriche tessili e da loro impara che le donne sono più capaci di organizzarsi, resistono meglio nelle occupazioni, più degli uomini. Sarà dirigente sindacale fino al 1994 quando verrà eletto segretario di Rifondazione Comunista.

Un ritratto che prende forma anche attraverso il succedersi di immagini che lo ritraggono con la moglie Lella, licenziata per l'attività politica del marito o ripresa durante l'occupazione dell'asilo del loro figlio, e poi appunto accanto a Duccio (così chiamato in onore del partigiano Galimberti), in piedi su un tavolo a sventolare una bandiera rossa. Fausto risponde senza reticenze, ma conservando un pudore usuale a chi lo conosce meglio. Il privato e il politico, il privato è politico, «formula che quando si esprime nella lotta promuove una vera e propria rivoluzione culturale». Un Bertinotti inconsueto, che ammette di Lella: «posso dire che non saprei pensarmi fuori da questa relazione, per come si è venuta costruendo». La vita in famiglia, gli amici, le canzoni di lotta accompagnate da qualche chitarra, le canzoni francesi di Brassens, di Brel, di Léo Ferrè. E non poteva mancare il riferimento al cinema, i western, per esempio, da Ombre rosse fino a Sergio Leone, e poi i film sovietici e quelli di Bergman.

Dieci capitoli e tantissime domande senza incorrere nel rischio della celebrazione del personaggio, del culto della personalità, della beatificazione del leader. I miti, gli eroi citati nel libro sono altri, sono i campioni dello sport come Coppi, Ray Sugar Robinson, Nuvolari, Zapoteck, sono i maestri della letteratura italiana come Gadda, Calvino, Fenoglio e Pavese e i maestri americani come Faulkner, Dos Passos, Steibeck, Fitzgerald ed Hemingway. Ma c'è posto anche per Kafka, Proust e Joyce: «Noi, la mia generazione, siamo entrati nella politica dalla porta della letteratura».

L'ultima parte è dedicata al movimento no-global e alla non violenza, ai rapporti tra il bello e il lavoro, tra la cultura e il mercato. Bertinotti ricorda una frase del subcomandante Marcos: «Siamo costretti al fucile, ma se lo teniamo per troppo tempo noi diventiamo una protesi del fucile, non il fucile di noi». Dopo quello che è accaduto a Genova nel 2001 non si può che prendere in seria considerazione che l'unica risposta, apparentemente banale ma liberatoria, alla prepotenza del potere, alla spirale guerra-terrorismo, sono le pratiche non violente. «Bello è il tempo sottratto al lavoro» ma non si può sottrarlo alla politica che necessita di veri sentimenti, di passioni, di emozioni, anche quando sembrano sovvertire il concetto di rivoluzione. La produzione culturale deve necessariamente individuare nuovi luoghi che, anche se inseriti nel circuito ipercapitalistico, siano così ambiziosi da inseguire un progetto veramente autonomo. L'unica soluzione praticabile è che la cultura diventi un bene comune come lo è l'acqua. Questo è quello che dovrebbe accadere in realtà perché se l'acqua diventa merce, e come tale viene collocata sul mercato, qualcuno resterà senza acqua e di conseguenza senza cultura.










il Manifesto, 26.01.06
Il copyright del Vaticano sull'amore
Benedetto XVI ha celebrato ieri la liturgia di chiusura della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura insieme a rappresentanti delle chiese ortodosse e protestanti. E ha ribadito il tema dell'amore cristiano
IAIA VANTAGGIATO


Ad accoglierlo - quando varca la soglia che conduce alla navata centrale della patriarcale Basilica di San Paolo fuori le Mura - è un applauso timido, quasi timoroso. Questo papa che parla tanto d'amore e che dalle «aberrazioni dell'amore» mette in guardia di continuo sembra respingere qualsiasi abbraccio. E infatti a circondarlo - mentre si appresta a celebrare la liturgia di chiusura della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani - non ci sono ali di folla ma solo porpore e rossi vescovili. Pochi i fedeli, quasi assente la stampa, latitanti i politici delle grandi occasioni. Il papa, ormai giunto all'altare, parla di fronte a pochi amici - il segretario di Stato Angelo Sodano, il cardinale Camillo Ruini, monsignor Leonardo Sandri - e nella sua omelia riprende i temi affrontati nell'enciclica resa pubblica ieri in Vaticano. La caritas, l'impegno verso il prossimo e l'amore di Dio «come solida roccia su cui poggia tutta intera la fede della Chiesa» come pure «la paziente ricerca della comunione tra tutti i discepoli di Cristo»: «se già sotto il profilo umano l'amore si manifesta come una forza invincibile - afferma Ratzinger - che dovremmo dire noi che `abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi'?».

Dall'enciclica all'omelia, eccolo il segno di un pontificato pigliatutto che se da un lato mantiene netta la distinzione tra stato e chiesa e l'estraneità di quest'ultima alla politica, dall'altro non esita a piantare i paletti che dello stato delimitano l'area d'azione: «Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Lo stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui ogni uomo ha bisogno: l'amorevole dedizione personale». Ciò che ci occorre, insomma, non è uno stato che regoli e domini tutto ma uno stato che riconosca generosamente e sostenga, secondo il principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali. E va da sè che una di queste forze sia proprio la Chiesa. Il vaticano non fa politica ma la politica passa ogni tanto a trovare il vaticano e lì scopre che il «sogno marxista di una rivoluzione mondiale è svanito».

Ma morto un sogno se ne fa un altro così che a prendere il posto dell'utopia marxista è una rinnovata utopia cristiana dell'amore, un'utopia concreta e in tutto ancorata a quella solida dottrina sociale della chiesa che, nell'era della globalizzazione, resta indicazione fondamentale «di orientamenti validi che vanno ben al di là dei suoi confini». E due: liquidato lo stato, ora tocca al mondo. Anche qui nessuna ingerenza ma indicazioni - etiche - cui si prega di attenersi.

E il sigillo papale, Benedetto XVI non rinuncia a metterlo neanche sull'impegno caritatevole. Benvengano quanti lo esercitano da laici e al di fuori della chiesa, naturalmente intesa come chiesa cattolica, ma attenzione: c'è il rischio che ai fedeli venga in mente che la carità possa anche non rientrare nella missione ecclesiale. Che ad aiutare gli altri possano essere anche «laici non fedeli», ebrei, musulmani, buddisti o addirittura atei. Ciò non deve accadere perché sarebbe come indurre in tentazione le grandi agenzie ecclesiali che - come ha spiegato monsignor Josef Cordes - potrebbero decidere «di dissociarsi dalla Chiesa e di allentare i loro legami con i vescovi». Una spirale che le porterebbe dritte tra le braccia di qualche Ong. Se «Deus caritas est», la carità senza Dio è impresa sospetta: «Se tendo una mano e il mio prossimo mi ripugna - spiega ancora Cordes - come posso resistere senza la grazia di Dio?». E come posso amare fuori dal matrimonio? E, ancora, che amore si consuma al di fuori dell'ecclesia cristiana?

L'amore, da ieri, è diventato ufficialmente proprietà del Vaticano.












il Manifesto, 26.01.06
L'ENCICLICA
Passioni politiche
L'enciclica programmatica di Benedetto XVI: l'amore di Dio come pilastro della Chiesa
FILIPPO GENTILONI


Finalmente. Dopo tanti rinvii, anticipazioni, indiscrezioni, la prima lettera enciclica di Benedetto XVI vede la luce. «Deus caritas est», dalla prima lettera dell'apostolo Giovanni, che così prosegue. «Qui manet in caritate in Deo manet et Deus in eo». Un testo fra i più belli di tutta la Bibbia. Un testo che si apre a tutto l'amore , al di là dei confini che la storia - anche quella delle religioni - ha cercato di imporgli.Un testo che, comunque, non ha cessato di creare un certo imbarazzo. Anche perché «amore» è un termine vago, generico, carico di mille e mille significati. Così nel passato, così anche oggi, come l'enciclica conferma e cerca di chiarire. Anche oggi, due le accezioni principali, spesso congiunte ma spesso anche contrastanti dell'amore: agape e eros, i due grandi amori che rischiano di dividere l'umanità. Come accordarli perché non si escludano a vicenda? Come evitare che l'eros rimanga nella grande casa degli egoismi, anche se vanta una forma di abitazione nella casa dell'amore? Potrà mai - e come - l'agape riscattare l'eros?Interrogativi sui quali il pensiero cristiano riflette da sempre, basti pensare a Sant'Agostino e alle sue «Confessioni». Ora l'enciclica aggiunge a quelle riflessioni uno sguardo sul mondo moderno e la sua cultura.Uno sguardo che è sostanzialmente negativo, in linea, d'altronde, con la visione del mondo e della cultura contemporanea tipica del pensiero di Ratzinger, prima e dopo l'elezione al pontificato. L'eros appare più scatenato che mai e sembra molto difficile che l'agape possa calmarlo, accettandolo sotto le sue ali. Se riuscirà, sarà a ben determinate condizioni, e con l'inevitabile sostegno di alcune istituzioni cristiane di regolamento, se non addirittura di controllo. Altrimenti il caos sfrenato, un caos nel quale trionferà l'eros senza agape.E' il discorso amaro, pessimista, che sottosta alle pagine dell'enciclica appena sfogliate. Bisognerà leggerle con più calma. Comunque si può osservare già dalle prime riflessioni il passaggio da un «incipit» aperto e sereno alle amare conclusioni che riguardano la necessità che la chiesa si impegni nel sociale (ben distinto, però, dal politico) in tutte le forme possibili. L'enciclica rivendica con forza il diritto-dovere della chiesa di intervenire da protagonista nella società e nei suoi problemi. Altrimenti quell'abbraccio fra agape ed eros sarebbe impossibile. La carità cristiana può e deve prendere forma organizzata. Ratzinger, così, chiama Ruini e viceversa.










il Manifesto, 26.01.06
In viaggio da eros ad agape
Nel documento, presentato ieri in Vaticano, Benedetto XVI afferma che l'unica evoluzione possibile per il sentimento è l'amore verso Cristo
MIMMO DE CILLIS*


Benedetto XVI sale in cattedra e ci spiega cos'è l'amore. L'amore come baricentro della vita umana, nella relazione fra Dio e l'uomo e fra gli stessi uomini. L'amore nella sua dimensione più completa, dell'eros che si sublima in agape. L'amore che si sostanzia in una parola, in una persona: il Cristo. L'amore che ispira l'azione caritativa della chiesa. E' intorno a questo termine, «amore», che si sviluppa la prima enciclica di Benedetto XVI, Deus Caritas est, tradotta in «Dio è amore», presentata ieri in Vaticano. Un documento denso ma essenzialmente chiaro, che unisce a una prima parte teologico-speculativa una seconda più pragmatica, in perfetto stile Ratzinger: con profondità di analisi e argomentazioni serrate. A presentarla sono stati ieri in Vaticano tre capi dicastero: il cardinale prefetto del Sant'Uffizio, Joseph Levada, successore di Ratzinger; il cardinale Renato Martino del dicastero «Giustizia e pace» e il cardinale Joseph Cordes di «Cor unum», l'organismo pontificio preposto specificamente alle opere di carità, che nei giorni scorsi ha riunito Oltretevere vescovi, esperti e operatori del vasto mondo dell'associazionismo e del volontariato cattolico. Lui, invece, papa Ratzinger si è riservato di intervenire nel pomeriggio, nella sua visita alla Basilica di san Paolo per la liturgia di chiusura della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani.

E' stato un parto travagliato: nei giorni scorsi si era scatenata la corsa dei media a fornire anticipazioni del testo e speculazioni (sulla data di pubblicazione), dati gli stralci messi in circolo da alcune agenzie di stampa, e date le voci di continui rinvii per non meglio precisati «problemi di traduzione». Ma, alla fine, la solida, millenaria struttura della Santa Sede ha dato alla luce il documento che - proprio per la sua natura di prima lettera enciclica, una sorta di «lettera circolare» destinata alle autorità gerarchiche come a tutti i fedeli - viene tradizionalmente considerato «programmatico» di un pontificato. Per la scelta dei temi, per i riferimenti, per il tipo di argomentazione. Si possono ricordare la Redemptor hominis (1979) di papa Wojtyla, il predecessore che questa volta non compare nel testo ratzingeriano, o la Ecclesiam suam (1964) di Paolo VI, entrambi documenti rivelatori: il primo, colmo di quell'afflato umano e spirituale tipico del papa polacco, era tutto centrato sull'umanità (redenta in Cristo), in una riflessione che convogliava decenni di riflessione filosofica di stampo «personalista» (a partire da Mounier e Maritain), senza mai risultare accademica. Il secondo, prettamente centrato sull'identità e la funzione della chiesa, si presentava come un documento piuttosto intra-ecclesiale, secondo un approccio che avrebbe caratterizzato il pontificato di Montini.

Benedetto XVI scrive il suo testo - redatto l'estate scorsa, durante la sua permanenza a Castelgandolfo - con lo stile del professore e del vescovo che si avvale in pieno del munus docendi, proprio del carisma episcopale. E, per quanto lo stile e il lessico si sforzino di essere semplici e diretti, l'approccio del docente traspare a ogni riga. In special modo nella prima parte, quella che Benedetto ha scritto certo di suo pugno, lasciando invece, com'è probabile, la redazione della seconda allo staff dei prelati specialisti.

L'ispirazione è giovannea. «Dio è amore: chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» della prima lettera di Giovanni è l'esordio dell'enciclica, che spiega: «L'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi». Da qui Ratzinger avvia una interessante riflessione storico-filosofica sul rapporto fra eros e agape: il primo è l'amore-desiderio già riconosciuto al tempo dei greci; l'agape è la forma di amore-dono, quella più completa, che costituisce la reale novità del messaggio evangelico. Il pontefice tiene a sottolineare che la quintessenza dell'amore è divina: «L'amore promette infinità, eternità, una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere». Per questo l'amore non può essere mercificato, e ridotto al solo piacere sessuale (come spesso fa la cultura contemporanea), ma deve necessariamente contemplare un rapporto definito «uni-duale», che abbraccia cioè corpo e anima. E qui il filosofo Ratzinger contesta la lettura di Nietzsche, del cristianesimo che avrebbe «avvelenato l'eros», distruggendo «la cosa più bella della vita». Al contrario l'amore cristiano, connotandosi con i caratteri di «definitività» (solo quest'unica persona) ed «esclusività» (per sempre) ha portato un valore aggiunto all'eros, permettendogli di sublimarsi in agape, quello che mira e che nasce dall'eternità: è infatti lo stesso amore che Dio ha mostrato verso l'uomo e che ha il suo culmine espressivo in Cristo, testimone dell'amore senza riserve, dell'amore-perdono, perfino dell'amore verso il nemico.

Più tecnica, invece, la seconda parte dell'enciclica, che tocca temi cari alla dottrina sociale della chiesa e definisce l'opera caritativa - diretta emanazione dell'agape - un «opus proprium della chiesa», impegnata nella missione ad alleviare le sofferenze dell'umanità. Senza rinunciare, però, alla costruzione di una «società giusta». Questo compito, però, non appartiene all'azione diretta della chiesa, quanto alla politica, che i cristiani devono illuminare con i valori del vangelo, e animare con lo «spirito di giustizia».
*Lettera22







il Manifesto, 26.01.06
Il racconto di una scelta
Un filo lega «La ragazza del secolo scorso» di Rossana Rossanda, e il libro a una vita, e una vita alla storia. Racconto di un privato immerso in una vicenda altra, dura, grande e terribile. Appunto, il secolo scorso. Racconto di un grande amore andato a male scritto per difendere la memoria dei comunisti
MARIO TRONTI


La ragazza del secolo scorso: sbaglierò - il successo del libro dice il contrario - ma non mi pare un titolo indovinato. Intanto, non di una ragazza si tratta, ma di una donna. E sappiamo da questo racconto di un io immerso nel mondo che non fu precoce in Rossana la consapevolezza del suo tempo tragico: «... presa più dal fragore della mente che da quello della guerra». Francamente, si fa fatica a pensare la giovane Rossanda come «una ragazza grigia». Mi sono chiesto: perché questa insistenza su una adolescenza, e in parte una giovinezza, non politica, prima di piantare tutto intero il proprio corpo in mezzo ai sentieri interrotti della propria epoca. E mi sono risposto così: tutto il racconto si propone di avvertire, noi e tutti, che c'è un'eccedenza della persona rispetto alla figura. La presenza pubblica non esaurisce la complessità umana. Anzi, questa entra spesso in un ombroso conflitto con quella. E quanto più si alza il livello dell'accadimento storico tanto più stride la forma della risposta intima. E l'insoddisfazione emerge forte sempre: o per non aver dato soggettivamente il necessario, o per la difficoltà delle condizioni oggettive, o per l'insipienza delle forze in campo. Circola per tutto il libro un'aura di dolorosa sproporzione tra ciò che si è e ciò che si fa. Una Stimmung del Novecento. E siamo sempre lì a cercare di capire se si è tentato troppo o se siamo stati noi ad essere troppo poco. Noi, voglio dire la parte entro il cui destino l'esistenza di Rossana Rossanda si è a un certo punto iscritta, con una sorta di decisione penultima. Molti fingono di non capire che il vero legame di ferro non era quello di un partito con uno Stato, ma quello di un singolo, una donna, un uomo, con una storia più grande.

Più del titolo dice la bella foto di copertina. Un'aria perplessa, uno sguardo diretto, due mani che reggono un volto. A suo modo, un'altra figurazione della «melanconia», questo prezioso moto dell'animo sensibile, che solo in questo senso è la stessa cosa del carisma: chi non lo possiede non se lo può dare. Abbondanti esempi di queste figurazioni - in genere un volto che poggia su una sola mano - Rossanda ci ha raccontato di aver visto in una recente mostra a Parigi, che, come tutte le cose che lei frequenta, non l'aveva soddisfatta.

Questo libro è il racconto di un grande amore andato a male. È il destino dei grandi amori. Solo le piccole vicende durano in eterno e in eterno si ripetono. Quello tra Rossanda e il Pci attraversa tutte le fasi: lo stato nascente dell'innamoramento, le prime frequentazioni entusiaste, le prime incomprensioni che rinsaldano il rapporto, l'illusione dell'identificazione, la scoperta del diverso nell'altro, le reciproche diffidenze, l'approfondirsi delle differenze, fino alla consapevolezza delle incompatibilità e alla soluzione della separazione. Il libro quasi ci vuole dire che questo esito era oscuramente contenuto negli inizi. Come poteva quella ragazza del secolo scorso diventare una donna nel Pci del Novecento? I frammenti di riservata saggezza cosparsi nella prima parte, sull'infanzia, sull'essere padre e madre e sorella, non fanno presagire il lieto fine. E non perché si trattasse di quei comunisti lì, ma perché quel tipo di sensibilità, formata nel gusto di interessi estetici, vocata ai misteri della cultura, affascinata dai risvolti dell'interiorità, non si componeva, sulla lunga durata, a dispetto della scelta razionale, con i duri aridi ripetitivi compiti della politica quotidiana. L'epoca, poi, aveva lasciato dietro di sé l'eccezionalità degli eventi per riprendere il passo normale dell'ordinaria amministrazione degli avvenimenti.

Eppure, in questo corpo a corpo con i fatti, mediato da una appartenenza di organizzazione, stupisce di trovare alcuni buchi di memoria o alcuni vuoti di presenza. Il `56 non risulta essere «l'anno indimenticabile», quello strappo dentro, quello shock di risveglio dal sonno dogmatico, che fu per molti di noi e per la gran parte della cultura dell'impegno. Nei primi anni sessanta, vivendo a Milano, non incontra l'operaismo, di cui per tutto il libro non c'è traccia, né di ricordi né di giudizi. Non perché quello fosse un evento, ma un passaggio di rottura, politico e sindacale, sì: le organizzazioni lo guardavano in un modo, lo si poteva guardare in altro modo. Non compare la scoperta lancinante, creativa, negli stessi anni, della cultura della crisi, del milieu mitteleuropeo, delle avanguardie artistiche primo-novecentesche, della sociologia critica, della fenomenologia. Ma questo stupisce di meno. Dei maestri del sospetto, Rossanda conosce Marx e Freud. Le manca Nietzsche. Vuole che le manchi.

Sul rapporto tra «la donna del secolo scorso» e il femminismo, soprattutto quello della differenza, ci sarebbe da aprire un discorso a parte. Rapporto di amore e odio, di appartenenza conflittuale, di attenzione molto, troppo, disincantata. È un terreno minato. Non mi ci avventuro. Non voglio saltare in aria.

Ho fatto fin qui queste considerazioni per sgombrare il campo da aspetti secondari e puntare quindi al cuore di tenebra del libro. La bellezza di questo racconto sta altrove. Ho letto sul Corriere della sera, a firma di una persona che finora reputavo intelligente, un intervento becero, che prendeva a pretesto il libro per insultare la persona. L'anticomunismo in assenza di comunismo, cioè il senso comune intellettuale oggi corrente, non sopporta che si parli del Pci senza accendere il rogo sotto i piedi delle donne e degli uomini che l'hanno frequentato. E non importa se la frequentazione sia stata ortodossa o eretica. Il peccato, la colpa, il delitto, rimangono. Se questo libro fosse stato scritto con il Pci ancora vivo, si può giurare che sarebbe stato molto più duro e lontano. Oggi Rossana, interpellata, ha risposto: con questo libro ho voluto difendere la memoria dei comunisti. Ecco perché, se le parti letterariamente più belle sono i ritratti delle persone, in cui Rossana è maestra, le pagine politicamente più significative sono i resoconti di vita del collettivo. «Era il partito pesante... una rete faticosa ma vivente che strutturò il popolo di sinistra». Il soggetto di «un'immensa acculturazione», di massa. Alla sezione di Lambrate, ascoltando il relatore che passava di gradino in gradino, dal centro del mondo alla periferia di Milano, dall'informazione alla direttiva: «osservando quei visi in ascolto, pensavo che a ciascuno la sua propria vicenda cessava di apparire casuale e disperante, prendeva un suo senso in un quadro mondiale di avanzate o ripiegamenti.... Questo, assai irriso a fine secolo, è stato il partito che fu anche il mio». C'è la cognizione del dolore nella vita pubblica? Sì, c'è. Lo dice quella frase, a Comitato centrale della radiazione ormai concluso: «non eravamo più dei loro, dei nostri».

«Non si è comunisti di passaggio», scrive Rossana. E ricorda di Aldo Natoli, sempre in quel Comitato centrale: «Non c'è bisogno di una tessera per essere comunisti». C'è un filo che lega il libro, e il libro a una vita, e una vita alla storia. È vero che il racconto del privato si limita all'infanzia e all'adolescenza e, quando viene il passaggio sulla scena pubblica, il resto scompare. Ma proprio questo è il punto di problema. La ridicola formula «il personale è politico», che giustamente non compare in nessuna pagina, viene qui ritradotta, riarticolata, immersa in una vicenda altra, dura, grande e terribile. Appunto, il secolo scorso. Mi pare di capire fin nel profondo le parole e le pause e i silenzi delle arrabbiature di Rossana, di fronte alle obiezioni, soprattutto femminili, di chi dice: ma chi ve lo ha fatto fare? «Come far capire che per noi il partito fu una marcia in più? Ci dette la chiave di rapporti illimitati, quelli cui da soli non si arriva mai, di mondi diversi, di legami fra gente che cercava di essere uguale, mai seriale, mai dipendente, mai mercificata, mai utilitaria. Sarà stata un'illusione, un abbaglio, come ebbe a dire qualche tempo fa una mia amica. Ma una corposa illusione e un solido abbaglio, assai poco distinguibile da un'umana realtà» (pagina 213).

E raccomando di leggere le pagine 221-223. La contraddizione dell'essere donna e del fare politica. «Diffido dei saperi femminili». Eppure quando «non sono in gioco io sola - sento uno scarto, un esitare, un ritirarmi. Non credo che succeda a un maschio....». E poi. Alcune notevoli donne, che s'erano date da fare per le altre, un bel momento decisero per il futuro di non fare più che per se stesse. «Una di esse se la prendeva con Simone Weil: ma chi glielo aveva fatto fare di immischiarsi, chi l'aveva chiamata? Fremetti di collera. E di dubbio. Chi aveva chiamato me, che non ero neanche Simone Weil? Nessuno... Ero infuriata....». Altre la rimproverano di aver sacrificato se stessa. «Sacrificata? Ma via. Di una stanza tutta per me non ho sentito la mancanza avendo per me il mondo e potendo perfino recederne. Mai ci si realizza come assieme agli altri... Mai si è meno sacrificati che in un collettivo che hai scelto e cui ti credi necessaria». Vedere a pagina 296: «Io ero diventata comunista nell'ottobre del 1943 quando mi scoprivo un fuscello nel precipitare del mondo». Una scelta di ragione. Non una teoria, per via dei libri che Banfi le mette in mano, ma una parte di sé che si mette per suo conto in moto. «Come sopportare che i più fra coloro che nascono non abbiano neanche la possibilità di pensare a chi sono, che faranno di sé, l'avventura umana bruciata in partenza? O c'è un Dio tremendo che ti mette alla prova e compensa nell'aldilà, o non si può accettare... per questo non avevo lasciato il Pci né nel 1948 né nel 1956. I comunisti erano i soli a negare l'inevitabilità del non umano».

«Non si può accettare»: questa rimane la ragione di fondo della scelta politica comunista. Nel Novecento nessun altro ha detto questo così nettamente. E non sarà il coro dei pentiti, dei transumananti, degli atei devoti, dei borghesi laici, dei padroni illuminati, a cancellare questa storia. Se il partito democratico sarà la nuova frontiera dell'«anticomunismo democratico», se lo facciano. Mobiliteranno un manipolo di intellettuali prodiani, ma non ri-motiveranno le ragioni di una sinistra di popolo. Qui sta la differenza tra una forza storica e una trovata politica. La prima sa liberarsi del passato per superare se stessa, sa spezzare la continuità per rivalutare una tradizione. La seconda sa solo fanciullescamente ricominciare da capo, per ritrovarsi ad essere niente.

Scrive Rossana: «Del resto il mio scacco come persona politica è totale soltanto da una ventina d'anni». Calcoliamo: da metà degli anni ottanta. Dunque lo scacco non fu la frattura di questa persona con il corpo del Pci. Perché, fuori, il gruppo del «manifesto», come leggiamo a chiusura del libro, non cadde nel nulla, cadde anzi in mezzo a un paese in movimento, tra rivolta giovanile e spallata operaia. La speranza era «di essere ponte tra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra». Lasciamo stare che non funzionò. Abbiamo imparato che non tutto quello che storicamente non ha funzionato era politicamente sbagliato. La verità è che la speranza di mettere insieme vecchia e nuova sinistra c'è stata finché c'è stato il Pci. È dopo che diventa disperazione. Oggi verifichiamo, fatti alla mano, che chiudere con il Pci ha voluto dire coerentemente chiudere con la sinistra. Magari non c'era questo disegno nelle intenzioni, ma i processi sono più forti dei disegni. E la politica che non controlla i processi, e non sa guidarli, non è politica, è amministrazione. E perché metà anni ottanta? Perché quel giorno che, massa di popolo, demmo l'Addio a Berlinguer, celebrammo il funerale del Pci. Il dopo era già iscritto in una storia che non stava più nelle nostre mani. Lo scacco è in tutto quello che si è tentato dopo: scaramucce di retroguardia, un insensato agitarsi a inseguire una cosiddetta modernizzazione o una improbabile rifondazione, più qualche grillo parlante - stiamo parlando di noi - a dire senza che nessuno ascoltasse.

Cara Rossana, non so se avrai voglia di continuare il racconto. Ho l'impressione che, in questo caso, dovresti tornare a partire da te. Da quegli anni, il mondo ci è riprecipitato dentro. Le cose migliori, in fondo, sono quelle che ci sono capitate in interiore. Ma, a quanto pare, solo a noi, che sul mondo non abbiamo allentato la presa dell'artiglio antagonista. E, ci fosse uno, un solo spiraglio, per ricominciare sul serio nella pratica a combatterlo questo mondo, un attimo di esitazione non ci passerebbe nemmeno per la testa.








Liberazione, 25.01.06
Storia di due lesbiche, un bimbo e la disperazione di Francesco Merlo
Povero maschio globalizzato, degradato a produttore di sperma...
di Daniele Zaccaria


Elodie e Karine sono due ragazze di 29 e 30 anni, dal 1999 convivono in una villetta con giardino alla periferia di Nantes, città tranquilla e borghese della Bretagna, la regione del cattolicesimo sociale e del mutuo soccorso.

Sono una coppia di fatto ma in quanto lesbiche non possono concepire figli insieme. Così, nel 2004 decidono di ricorerre all'inseminazione artificiale e vanno a Bruxelles, dove la pratica è autorizzata dalla legge. L'ovulo di Karine viene fecondato dallo spermatozoo di un donatore danese che ha conosciuto tramite internet. Nove mesi dopo nasce Basile, un bambino biondo e sano come un pesce. Fin qui si tratta di una vicenda ordinaria, nulla che possa appassionare le cronache dei giornali. Le cose cambiano però quando Elodie chiede il sussidio di paternità alla Cassa primaria di assicurazione malattia(Cpam). L'istituto è costretto a respingere la domanda in quanto in contrasto con la legislazione sui congedi di paternità, riservati alle persone di sesso maschile: «Non ho nulla contro la richiesta, ma prima bisogna modificare la legge», spiega Claude Frémont, direttore della Cpam. A quel punto Karine e Elodie si rivolgono a un tribunale, consapevoli di perdere la causa (la sentenza è prevista per il 20 marzo) ma desiderose di denunciare pubblicamente un diritto negato.

La vicenda ha suscitato polemiche un po' logore, ma in fondo contenute, nella Francia dei Pacs e dell'égalité citoyenne. Se si esclude qualche petizione in difesa della "famiglia naturale" da parte di qualche politico minore (un centinaio tra deputati, consiglieri regionali e municipali), il dibattito è ruotato essenzialmente intorno all'aspetto giuridico, alimentando semmai una discussione sul tema dei diritti e della loro estensione ai soggetti reali.

Un simile dibattito sarebbe impensabile nella cornice culturale del nostro Paese, dove i gay sono chiamati «culattoni» anche dai ministri. E' istruttivo in tal senso l'articolo, a firma di Francesco Merlo, pubblicato ieri da La Repubblica, il "più laico" dei quotidiani italiani che commentava le peripezie di Karine e Elodie. Al di là del timbro paternalistico per cui due adulte trentenni vengono descritte come «madonnine di paese», «allegre eroine», «angeliche» e «seduttive», fa impressione il rigetto, quasi incontrollato, della diversità, liquidata come uno stato «paradossale». Un mondo in cui i genitori non sono più un maschio e una femmina è «un mondo rovesciato» e la storia di Karine e Elodie costituisce «un'eccentricità dal retrogusto amaro». Quasi un delirio della ragione, che si permettere di mettere in discussione nientemeno che «il mondo insuperabile delle mamme e dei papà». Sembra Walt Disney, ma è un film horror.


La famiglia che Merlo vede messa in pericolo dalle scelte individuali di due lesbiche di Nantes assomiglia a quella da illustrazione viennese riassunta così da Gilles Deleuze e Felix Guattari nel celebre "Antiedipo": «Mamma, papà e la tata austriaca». Questo asse biologico non può essere messo in discussione da nessun diritto positivo e la genesi dei gruppi umani deve ruotargli attorno come l'orbita di un pianeta, per decreto cosmico o volontà divina.

Sembra una gag, eppure l'editorialista di "Repubblica" è convinto che dietro la fecondazione artificiale di Karine e Elodie si insinuino (contro) rivoluzioni epistemologiche dalle conseguenze epocali: «Bisognerà rifare la psicanalisi, reinventare la mitologia, ridisegnare i tipi psicologici: il matriarcato, la figura maschile, l'amazzone». Tutto sarà da riscrivere, dal «Simposio di Platone», «al Dolce stil novo», alla «Guerra di Troia». Persino la «Bibbia e il Corano» non reggeranno l'urto provocato dall'irruzione della «nuova umanità» emersa dall'algido reparto di ostetricia di una clinica di Bruxelles.

Dal punto di vista etico poi, le conseguenze della scelta di Karine e Elodie sono addirittura apocalittiche poiché chiamano in causa i "diritti del bambino" ad avere una famiglia come Dio comanda. I famosi diritti del bambino, argomento in nome del quale viene giustificata la sovranità limitata che una donna ha sul proprio corpo. «Questa rivolta di due donne contro la loro stessa condizione di donne sarebbe sacrosanta se non si vedesse tremolare in lontananza il fantasma dell'eugenetica nazista, se non ci fosse di mezzo l'educazione dei bambini», continua Merlo, spiegandoci che «la vita è un mistero di dolcezza e non un travaso infermieristico di fiale». Dev'essere davvero un fantasma in voga, quello dell'eugenetica nazista, anche se in questo caso non si capisce a chi e a cosa si riferisca. All'inseminazione artificiale come pratica disumana tout court? Alla «tracotanza ideologica» di chi vuole profanare «il doppio registro psicologico» garantito dall'eterosessualità dei propri genitori? Oppure a chi intende eliminare «la durezza del papà, o la tenerezza della mamma»? Se il ragionamento non sembra molto chiaro e il riferimento al nazismo una licenza di cattivo gusto, tuttavia l'articolo di Merlo pone un problema non trascurabile. Pur difendendo i diritti del nascituro in realtà la vittima di Karine e Elodie è un'altra. La vittima è il maschio «degradato a produttore di sperma» o «ridotto allo stato di fuco». Da queste espressioni traspare un'angoscia genuina, una sincera inquietudine maschile di chi teme di venire trasformato in un accessorio del concepimento, di scivolare nell'irrilevanza biologica, diventando «un incidente nella gestazione del figlio». Che poi è esattamente quel che hanno subito le donne nel corso dei secoli, mere produttrici di figliolanze secondo i modi, i tempi e soprattutto i variegati interessi della famiglia patriarcale. Con un'enorme differenza: nessuna legge in nessun paese del mondo vieta la costruzione di una famiglia eterosessuale come quelle che piacciono a Merlo, quindi non si capisce in cosa il diritto di Karine e Elodie ad avere un figlio impedisca ad altre (la schiacciante maggioranza) di scegliere di vivere e amare all'interno della famiglia tradizionale. Questa fobia dei diritti altrui non può derivare solo da un'inclinazione culturale, dalla crociata di un cardinale in cerca di ribalta o da una campagna politica integralista, ma è sintomatica di un disagio profondo, di un'ansia esistenziale che ovviamente non può essere giustificata, ma che almeno va compresa, a cominciare da chi lancia anatemi contro la «famiglia costruita in laboratorio».

«Non siamo vasi da riempire», gridavano le femministe qualche decennio fa. «Non siamo produttori di spermatozoi», gli fa il verso il maschio globalizzato che approda nel terzo millennio, ossservando impotente la dissoluzione di un mondo che non è più concepito a sua immagine e somiglianza.





Liberazione, 25.01.06
Cattolici, protestanti e ortodossi a Roma
Il cardinale e la vescova. Dialogo arduo tra chiese nell'Europa "cristiana"
di Fulvio Fania


Il cardinale e la vescova. Tedeschi entrambi, lui indossa un clergyman e una cordialità alla mano ma è pur sempre un principe di Santa Romana Chiesa, lei invece veste un normalissimo abito nero, perfino una gonna con lo spacco e gli stivali. Walter Kasper è l'uomo vaticano dell'ecumenismo mentre Margot Kassmann è vescova di Hannover ed è considerata la numero due della chiesa luterana in Germania. Il loro dialogo si svolge davanti ad una platea cristianamente arcobaleno: 166 delegati tra cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani di 44 paesi europei e di 40 diverse chiese, tanto è ampia la diaspora del Vangelo. Le donne sono una trentina, non contando il coro delle ragazze rumene che intonano gli inni sacri. E' questa l'assemblea ecumenica preparatoria del grande incontro tra cristiani che si svolgerà in Romania, a Sibiu, il prossimo anno, terzo appuntamento dopo quelli di Basilea nell'89 e di Graz nel '97.

Kasper e Kassmann non nascondono le difficoltà. Per il cardinale l'ecumenismo è «irreversibile», non ha alternative, non è un problema di accademici ma di tutti i cristiani tra i quali è cresciuto il desiderio di unità. Cattolici e ortodossi nutrono una concezione simile di chiesa mentre con i protestanti è tutto più complicato e per questo Roma non può accettare di celebrare la comunione assieme. La vescova ribatte che l'eucaristia comune sarebbe un buon mezzo proprio per far avanzare l'unità spirituale e pratica. I due convergono sulle radici cristiane dell'Europa ma divergono sui temi etici. Lei accenna ad un quaderno dei dolori, dalla bioetica all'eutanasia, né risparmia all'interlocutore una frecciata contro la "Dominus Jesus", il documento a firma del cardinal Ratzinger che raggellò «l'euforia» ecumenica e, a quanto risulta, lasciò freddino lo stesso Kasper. Tutti convengono che c'è un certo «disincanto», però il cardinale può elencare la ripresa dei colloqui teologici con gli ortodossi, inclusi quelli di Mosca, la prossima adesione dell'alleanza metodista mondiale all'accordo teologico sulla "giustificazione" già sottoscritto tra cattolici e luterani e addirittura alcuni incontri in Africa con le chiese pentecostali, marea montante della religiosità nel Terzo mondo.

L'Europa presenta problemi non da meno. Il cardinale Ruini porta gli onori di casa. Il testo del suo discorso prevedeva un esordio rituale - «Eminenze, eccellenze» - ma poi decide di sostituirlo con un «fratelli e sorelle in Cristo» molto più adatto all'ambiente. Alle affermazioni secche contro l'ondata laicista il Vicario di Roma sostituisce stavolta interrogativi retorici: «L'Europa non sta svuotandosi della sua forza culturale, morale e religiosa che nei secoli passati l'ha resa un faro della fede cristiana?». Ed ecco dunque la riproposizione di una «nuova alleanza» tra «cristianesimo e umanesimo europeo», con annessa citazione dei dialoghi tra Ratzinger, Habermas e l'immancabile Marcello Pera. Ruini ricorda inoltre i problemi provocati dalla «complessa e variegata migrazione islamica» e dall'immigrazione in genere. Quella stessa di cui parla il pastore Gianni Long, presidente delle chiese evangeliche in Italia, osservando che per effetto dei nuovi ingressi gli italiani protestanti sono ormai doppiamente minoranza, rispetto ai cattolici e tra gli stessi fratelli di chiesa.

C'è un altro pastore in giacca e cravatta, seduto accanto al vescovo Vincenzo Paglia e al collega ortodosso Gennadios: E' Jean Arnold de Clermont, presidente della Kek, l'organismo che riunisce le chiese cristiane non cattoliche del continente. Spiega di aver atteso con impazienza questo incontro, ricorda che la Carta ecumenica firmata da tutti nel 2001 indicava già tanto lavoro da compiere insieme anche sul piano sociale. E se i protestanti insistono tanto per ricevere assieme la comunione, richiesta costantemente respinta dal Vaticano, non è perché ignorino le differenze ma per aspirazione all'unità. Nessuno nega - risponde De Clermont a chi glielo chiede - un «primato d'onore nel cristianesimo» alla figura del papa ma ciò non risolve la divergenza sulla «giurisdizione», cioè il suo potere.

Monsignor Amedèè Grab, presidente della Conferenza degli episcopati cattolici europei, affronta la madre delle questioni e sembra che si riferisca direttamente a Ratzinger. «Si sentono - afferma - dei timori riguardo al dialogo perché aprirebbe a forme di relativismo, uniformismo o sincretismo» ma il dialogo non va confuso con il compromesso ed è «rischioso» restare prigionieri della «contrapposizione tra identità e dialogo». Il convegno, presieduto dal vescovo Vincenzo Paglia, proseguirà fino a venerdì ma sarà inesorabilmente offuscato dalla presentazione, oggi, della famosa enciclica di Benedetto XVI. Leggi dell'informazione? L'interrogativo è pertinente. Proprio ieri, infatti, il Papa ha diffuso il suo primo messaggio agli operatori della comunicazione, nel giorno di San Francesco de Sales, angelo custode dei giornalisti, non parliamo poi dei vaticanisti. Nella «grande tavola rotonda» della comunicazione, che ha come annullato il tempo e lo spazio, Ratzinger riconosce «alcune tendenze» alla «monocultura», a ridurre le complessità, a svilire le peculiarità culturali e religiose. Accade - osserva Benedetto XVI - quando l'industria dei media «diventa fine a se stessa e rivolta unicamente al guadagno». La prevalenza del profitto annulla il senso di responsabilità in quello che il Papa definisce un «servizio pubblico». Un allarme particolare per i bambini che nei media trovano spesso l'opposto di «modelli edificanti di vita e di amore». E qui il pontefice allude ancora la tema della propria enciclica. Troppo sesso in tv e sui giornali. Ratzinger le definisce «espressioni di amore degradanti e false soggiogano i giovani» e conclude che esse costituiscono una «minaccia per la famiglia».

giovedì 26 gennaio 2006

AprileOnLine, 25.01.06
Se il Vaticano sceglie di non scegliere
Chiesa. Nessuna indicazione di voto per le prossime elezioni. Ma Ruini chiede ad elettori e futuri parlamentari una maggiore attenzione su temi come famiglia e difesa della vita
Paolo Giorgi


La Chiesa non sceglie “alcuno schieramento politico o partito”, e anche così spera di “contribuire” a “rasserenare il clima politico”. Ma chiede agli elettori e ai futuri parlamentari un “supplemento di attenzione” sui temi come la “famiglia fondata sul matrimonio” e la difesa della vita dal concepimento al suo termine naturale. Camillo Ruini, parlando al consiglio permanente della Cei, torna a far sentire la voce della Chiesa, mette le mani avanti sulle accuse di ingerenze nella competizione politica e nello stesso tempo ribadisce punto per punto tutte le prese di posizione del Vaticano, da quelle più di sua competenza (come la famiglia e le coppie di fatto) a quelle, come accade spesso negli ultimi anni, che apparentemente hanno poco a che vedere con il magistero petrino. E allora, come d’abitudine, la prolusione del cardinale è un comizio nel quale entra tutto, dalla difesa della vita a bancopoli, dall’emergenza energetica all’Iraq: Ruini è la voce di una Chiesa onnivora, dominata da un bisogno quasi compulsivo di delimitare con i propri, spesso discutibili, paletti ogni spazio del vivere civile. Questo perché, spiega il capo dei vescovi italiani, la Chiesa ritiene "proprio dovere riproporre, con rispetto e chiarezza, agli elettori e ai futuri eletti” alcuni “contenuti irrinunciabili” che, con il Papa, considera non “norme della morale cattolica” ma “verità elementari che riguardano la nostra comune umanità”. Proprio in questo passaggio sta forse il salto di qualità dell’offensiva clericale, quell’escalation che fa gridare all’indebita ingerenza le frange più radicali e laiciste del nostro schieramento politico. La chiesa, dice in sostanza Ruini, non interviene a gamba tesa nel dibattito quotidiano portando in dote il suo preciso e dichiarato sistema dogmatico: si limita a suggerire delle “verità elementari”. Un concetto, ribadito più volte dallo stesso Benedetto XVI, che mira a depotenziare la facile risposta fondata sul fatto che siamo uno stato laico, e che ogni fede ha la stessa dignità e diritto di ascolto. E a imporre subdolamente la morale ecclesiastica, tra l’altro non univoca né condivisa neanche all’interno del vasto oceano del cattolicesimo, travestendola da senso comune. Fatto sta, continua Ruini, che si paventa l’introduzione di “normative che, mentre non rispondono a effettive esigenze sociali, comprometterebbero gravemente il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio e il rispetto che si deve alla vita umana dal concepimento al suo termine naturale”. Questo “richiede un supplemento di attenzione a questi temi nelle scelte degli elettori e poi nell'esercizio delle loro responsabilità da parte dei futuri parlamentari”. Forse non una minaccia, come hanno subito denunciato Franco Grillini, la Rosa nel Pugno e altri, ma certo un implicito ammonimento. Meno male, concede Ruini, che gli europarlamentari italiani hanno almeno votato no alla recente approvazione da parte della Ue di una risoluzione che “sollecita una equiparazione dei diritti delle coppie omosessuali con quelli delle vere e legittime famiglie”. Una risoluzione che “ci allontana dai cardini della nostra civiltà”, ha sottolineato, dimenticando probabilmente la cultura ellenistica e classica, che aveva un atteggiamento ben diverso su questi temi. Poi è la volta dello scandalo delle banche, che ha coinvolto anche un buon amico di Ruini come Antonio Fazio. Dopo un (troppo?) rapido accenno a Bankitalia, il cardinale osserva che “rimangono aperte le vicende giudiziarie di alcuni esponenti del mondo bancario e di quello cooperativo, sulle quali si è innestato un aspro dibattito politico”. Il “forte auspicio” è che “in questo come in altri campi, i comportamenti censurabili, o comunque gravemente discutibili, trovino un freno e un limite nella coscienza delle persone prima ancora che nelle norme giuridiche e amministrative”. C’è spazio anche per i problemi dell’Italia: sviluppo del Mezzogiorno, cura del territorio, potenziamento e modernizzazione delle infrastrutture, “riduzione della grave dipendenza energetica del nostro Paese”. Anche se “molti episodi anche recenti e assai noti” segnalano “scarsa efficienza di alcuni servizi pubblici essenziali e tenace difesa di interessi corporativi”, il cardinale riconosce comunque agli italiani “la volontà di ripresa, l'impegno quotidiano nel lavoro, la creatività e la consapevolezza crescente della necessità di innovare”. Poi è la volta della politica estera. Sebbene non se ne colga la pertinenza in un consesso di pastori di anime italiani, Ruini dà uno spazio enorme a questi temi: dalla necessità di proseguire la “pacificazione” in Medio oriente nonostante la “grave malattia” di Sharon e di “isolare i fanatici del terrorismo” in Iraq ai nostri militari a Nassiryia, che sono “degni di gratitudine” perché “impegnati in delicate operazioni di composizione dei conflitti e ripristino delle condizioni di pace”.











Le Scienze, 24.01.06
Scimpanzé, più uomo che gorilla
L'evoluzione molecolare delle due specie differisce solo del 3 per cento


Gorilla, orangutan, scimpanzé e ovviamente uomo: ecco la famiglia delle grandi scimmie che abitano il pianeta. Gli studi sulle vicinanze genetiche delle diverse specie si sprecano, ma quest’ultimo risultato del Georgia Institute of Technology (Gatech) è destinato a sollevare qualche polemica, dal momento che afferma che non solo lo scimpanzé è il primate più vicino all’uomo ma è più vicino all’uomo di quanto non lo sia alle altre scimmie. Inoltre, nello studio pubblicato sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” si afferma che gli essere umani si sono evoluti a una velocità minore rispetto alle altre scimmie.
“Per la prima volta – ha spiegato Soojin Yi, coautore dell'articolo – abbiamo dimostrato che la differenza nel tasso dell’evoluzione molecolare tra esseri umani e scimpanzé è molto limitata, ma significativa, e suggerisce che l’evoluzione dei tratti specifici dell’uomo moderno è molto recente”
All’apertura dell’albero filogenetico in diversi rami corrispondono differenziazioni in importanti tratti genetici. I ricercatori hanno notato, grazie a un’analisi genetica su ampia scala di circa 63 milioni di coppie di basi di DNA, che parallelamente a questa diversificazione anche il tasso di evoluzione molecolare – la rapidità di accumulo di variazioni genetiche – ha iniziato a divergere. Si è notato inoltre che l’evoluzione molecolare della specie umana è stata più lenta rispetto agli altri primati: dell’11 per cento rispetto al gorilla e del 3 per cento rispetto allo scimpanzé. Quest’ultimo dato viene interpretato come una vicinanza genetica molto importante.
“Questo studio - conclude Yi – suggerisce quasi una cambiamento tassonomico: esseri umani e scimpanzé potrebbero essere compresi nello stesso genere.”
© 1999 - 2006 Le Scienze S.p.A.










Liberazione, 24.01.06

Laicità
Ratzinger "battezza" Roma

Caro direttore, grazie al sindaco Walter Veltroni, a 2.749 anni dalla sua nascita, avvenuta quasi un millennio prima di quella presunta del cosiddetto messia, la città di Roma verrà dunque "battezzata" dall'attuale pontefice! Accogliendo dopo lungo tempo di suspense l'invito del nostro "laico" primo cittadino, il capo del Vaticano ha infatti oggi accettato di presenziare le manifestazioni previste per il Natale di Roma del prossimo 21 aprile (tra l'altro per ascoltare un concerto a lui dedicato su musiche del libertino, trasgressivo, geniale Mozart). E che importano le recenti posizioni di quello Stato straniero in tema di diritti civili e di bioetica? A chi frega la pesante, violenta interferenza d'Oltretevere nel nostro quotidiano, fin dentro le istituzioni del nostro Stato? Sono stanco di questo servilismo alla religione, caro Sansonetti, ma scrivo a lei perché nella diatriba sulla pubblicazione da parte di "Liberazione" dei vangeli, ha sempre difeso quella scelta in nome della pluralità e liberalità del suo giornale.
Paolo Izzo via e-mail





Il Manifesto, 24.01.06
POLITICA O QUASI
Se a sinistra si tornasse ad amare
IDA DOMINIJANNI


Contretemps è una rivista indipendente on-line,sovvenzionata dal dipartimento di filosofia dell'università di Sydney, che ha lo scopo di incoraggiare un pensiero del presente, capace di leggere gli eventi sociali e politici nel loro accadere «con, a fianco e anche contro la disciplina filosofica» accademicamente intesa. E curiosamente, proprio mentre il papa annuncia la sua enciclica sullo splendore dell'amore divino e umano (tema, bisogna riconoscerlo in attesa di leggerla, centratissimo nella sua dichiarata inattualità), il numero attualmente consultabile (http://www.usyd.edu.au/contretemps) apre con due titoli sul rapporto fra amore e politica, o se preferite sull'amore politicamente inteso, o sulle potenzialità di una «politica dell'amore». Il primo di questi titoli, Learning to love again, è quello di una intervista collettiva (di Christina Colegate, John Dalton, Timothy Rayner, Cate Thill) a Wendy Brown, una filosofa californiana studiosa del potere e del rapporto fra potere e libertà (States of Injury: Power and Freedom in Late Modernity, Princeton, 1995), che qualche mese fa è stata ospite di un convegno internazionale a Sydney insieme con Judith Butler. E in questa lunga e bella intervista riprende un filo noto ai lettori di Butler e anche di queste pagine, il filo che lega amore, lutto e malinconia nella sinistra del dopo-89, smarrita per la perdita della sua identità storica e della sua utopia rivoluzionaria novecentesca. Tema altresì derridiano, giacché fu il filosofo francese a porre già nel `94, in Spettri di Marx, la questione del «lutto dei comunisti» e dei suoi effetti sulla «malinconia dell'inconscio geopolitico globale», individuando per tempo un sintomo della crisi della politica contemporanea tutt'ora non risolto. Wendy Brown torna sul punto, all'interno di una più ampia riflessione su che cosa significa essere «radicali» oggi e come possa crescere un pensiero «radicale» - capace cioè di aggredire «alla radice» il problema della trasformazione - nella generazione dei pensatori e delle pensatrici posties (ovvero postmodern) che alle radici e ai fondamenti non credono più, e che ritengono impossibile coltivare l'attaccamento al «progetto rivoluzionario» com'era inteso ancora pochi decenni fa.Una generazione che si trova da un lato di fronte ai limiti di una strategia di radicalismo democratico, dall'altro di fronte all'incapacità e forse all'impossibilità di riattivare una strategia di abbattimento del capitalismo, sempre più abile e veloce nel trasformarsi e reinventarsi; e senza poter immaginare altro dal capitalismo, si può immaginare davvero la libertà politica e l'autogoverno? Brown teme di no ma con onestà lascia in sospeso una domanda per la quale non ha la risposta.

Ce l'ha invece per un'altra domanda, che riguarda appunto ciò di cui la sinistra post-'89 deve ancora fare, e imparare a fare, il lutto: la perdita dell'identità nazionale, ad esempio, e di tutto quello che essa garantiva - ways of live, forme di relazioni familiari e sociali, rapporto con le istituzioni. Non basta, ammonisce Brown, riconvertirsi in un'ottica transnazionale, come pure giustamente ha fatto il movimento no-global da Seattle in poi, se non si elabora il senso di perdita e di disorientamento che questo passaggio comporta. E non basta nemmeno affermare che «un altro mondo è possibile» se non si attraversa il vuoto lasciato nel pensiero e nella psiche della sinistra radicale dalla fine del progetto rivoluzionario novecentesco. E' come quando uno o una perde un amante, incalzano gli intervistatori, che era parte della sua identità, la potenziava al presente e le dava una direzione di senso per il futuro: si deve innamorare di nuovo, ma può la sinistra «imparare ad amare di nuovo»? Può, risponde Brown, se come chi ha perso un amante impara che malgrado quella perdita ha ancora una sua propria soggettività e altre possibilità di relazione, e che tuttavia la sua identità non è più la stessa di prima: «Dobbiamo imparare ad amare di nuovo, ma il `noi' che imparerà a farlo sarà diverso dal `noi' che siamo stati», perché lutto e amore, nella vita personale come nella politica, provocano e domandano una necessaria trasformazione di sé, senza la quale non c'è trasformazione del mondo.












Il Manifesto, 24.01.06
SALUTE MENTALE
Vertigini dopo il volo di Basaglia
STEFANO ANGELI*

Dunque, anche Storace, come molti dei ministri della sanità, ha detto la sua sulla 180. Le cose in Italia vanno così: della salute mentale si parla in caso di ricorrenze o in caso di proposte di modifica della legge. Eppure, in questi ultimi trenta anni abbiamo assistito a una serie di importanti cambiamenti, che meriterebbero di essere studiati, anche nell'attesa di un governo dell'Unione che si troverà, sempre che si vinca, ad aver bisogno di idee nuove se vuole sperare di governare un sistema sanitario per sua natura in continua espansione.

Richieste infinite
Negli anni settanta Michel Foucault osservava che nei paesi occidentali, in periodo di pace, è inevitabile che la popolazione chieda sempre maggiori interventi nel campo della salute, una richiesta infinita che mette a dura prova i sistemi d'erogazione dei servizi, che per loro natura hanno dei limiti (di bilancio e di organizzazione). Richieste tendenzialmente infinite, dunque, per sistemi che sono finiti. I governi si muovono sempre in difensiva: tagliano e rifiutano nuove richieste, limitandosi a riservare ai casi più gravi e acuti le poche risorse a disposizione. La prassi di tagliare, per gli amministratori e per i dirigenti, è relativamente semplice, molto più complesso è dare seguito a questa tendenza per coloro che lavorano nei servizi e che si si sono formati in questi ultimi trenta anni nel clima attivato dalla riforma: spesso, infatti, non si «ha il fegato» di mandare via persone che pur non facendo parte dei casi più gravi sono comunque spesso fortemente bisognose di aiuto.

Quando Basaglia aprì i manicomi permise al tempo stesso ai reclusi di uscire e a nuovi operatori che portavano con loro inediti saperi di entrare, affiancando le cognizioni di coloro che tradizionalmente si occupavano della follia. Ecco allora che avvenne un profondo cambiamento non solo culturale e tecnico ma anche organizzativo: da allora si istituirono dipartimenti di servizi che si definivano di «salute mentale» non più «di psichiatria».

Tutto questo ha portato a consistenti cambiamenti. Oggi non si attende più che il sintomo compaia nella sua forma più grave e acuta, ci si rivolge allo specialista spesso in coincidenza con l'emergere del primo problema serio. Dopo la chiusura dei manicomi, la follia là rinchiusa è tornata a diffondersi nella società sotto forma di un disagio multiforme, che ora arriva ai servizi e là è accolto attraverso differenti pratiche cliniche. Solo in alcuni casi quelli che si presentano sono considerabili come degli emarginati, il più delle volte si tratta di persone totalmente interne a questa nostra società di cui condividono la cultura i miti, gli obiettivi, pagando sulla loro pelle le illusioni e le contraddizioni alle quali si trovano sottoposti.

Qualche anno fa Richard Sennett, sociologo di fama internazionale, descriveva in un libro significativamente titolato L'uomo flessibile storie di lavoratori e professionisti dotati di competenze tecniche e professionali di medio e alto livello: erano storie che esemplificavano le conseguenze del nuovo capitalismo nord americano sulla vita delle persone. Ritmi disumani di lavoro, cambiamenti frequenti di sede dell'azienda con l'imposizione di spostamenti continui di città in cui vivere, uniti a una competizione vertiginosa e a un'imposizione della gerarchia esasperata, portavano molti degli intervistati ad accusare problemi mentali e spesso a uscire dal ciclo produttivo.

Come dare risposta a tutti?
Durante la discussione che seguì alla presentazione del libro chiesi a Sennett cosa succedeva negli Stati uniti a quelle persone che «non tollerando tale richiesta di flessibilità si spezzano». Rispose che non esistendo un vero servizio sanitario nazionale erano le famiglie a occuparsi di loro. In Italia queste persone le troviamo nei nostri servizi, non potrebbero andare altrove, visti i costi proibitivi che impongono gli psicoterapeuti e gli psichiatri privati.

Fornire loro un aiuto pubblico, gratuito o a costi contenuti è il minimo che un sistema sociale possa fare se vuole curare se stesso. Ma resta il problema lanciato da Foucault: come dare risposte a tutti?

Bisognerebbe, intanto, assumere responsabilmente la sfida costituita dalla formazione e dalla gratificazione degli operatori, perché sta in loro l'investimento che ci permette di sperare nel futuro.

Invece quel che succede nelle Asl ha una connotazione di segno opposto: sotto l'egida di un processo di «aziendalizzazione», il lavoro degli operatori è sottoposto a bizzarre gerarchizzazioni delle responsabilità, a una valutazione approssimativa ma forzata dei costi, a imposizione della cultura del risultato, preferendo per ragioni economiche e di semplicità la somministrazione di psicofarmaci alla psicoterapia. Si direbbe che Basaglia si sia spinto troppo in alto e che i prosecutori del suo lavoro abbiano iniziato a soffrire di vertigini. E' evidente, infatti, che in ballo non ci sono soltanto questioni di denaro, di finanziamenti, di assunzioni bloccate da anni, bensì carenze profonde del dibattito scientifico e culturale: ormai si discute e si progetta solo all'interno di scuole di pensiero sempre più specializzate e isolate tra loro, con tutti i limiti che ne conseguono dato che trattare con il disagio mentale significa prendere atto del fatto che il dato emotivo sconfina spesso in quello somatico e il disagio personale coinvolge sempre il gruppo riflettendosi a sua volta sulla compromessa salute sociale.
*Psichiatra
















Corriere della Sera, 24.01.06
L'intervento del presidente della Cei
«Elettori stiano attenti a famiglia e vita»
Ruini e il voto di aprile: «Chiesa neutrale rispetto agli schieramenti»


La premessa è d'obbligo, a più o meno ottanta giorni dall'apertura delle urne: la Chiesa non sceglie «alcun schieramento politico o partito», e anche così spera di «contribuire» a «rasserenare il clima» politico. Ma chiede agli elettori e ai futuri parlamentari un «supplemento di attenzione» sui temi come la «famiglia fondata sul matrimonio» e la difesa della vita dal concepimento al suo termine naturale.
CHIESA NEUTRALE - Il cardinale Camillo Ruini nella prolusione al consiglio permanente della Cei, riflette sulle prossime elezioni politiche in Italia, deprecando il continuo «innalzarsi del livello della conflittualità».
«In vista del prossimo appuntamento elettorale - spiega il presidente della Cei - confermiamo in primo luogo quella linea di non coinvolgerci, come Chiesa e quindi anche come clero e come organismi ecclesiali, in alcuna scelta di schieramento politico o di partito». Ma la Chiesa ritiene proprio «dovere riproporre, con rispetto e chiarezza, agli elettori e futuri eletti» alcuni «contenuti irrinunciabili» che, con il Papa, considera non «norme della morale cattolica» ma «verità elementari che riguardano la nostra comune umanità».
FAMIGLIA E DIFESA DELLA VITA - La preoccupazione del vicario del Papa è che si affermi la «tendenza» a «introdurre normative che, mentre non rispondono ad effettive esigenze sociali, comprometterebbero gravemente il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio e il rispetto che si deve alla vita umana dal concepimento al suo termine naturale». Questa tendenza «richiede un supplemento di attenzione a questi temi - sottolinea Ruini - nelle scelte degli elettori e poi nell'esercizio delle loro responsabilità da parte dei futuri parlamentari».
PARLAMENTO UE CRITICATO - In un passaggio precedente il presidente della Cei aveva anche criticato la recente approvazione da parte della Ue di una risoluzione che «sollecita una equiparazione dei diritti delle coppie omosessuali con quelli delle vere e legittime famiglie». «Conforta il fatto - aveva commentato - che gran parte degli europarlamentari italiani si è opposta a tale risoluzione». A proposito di Bancopoli il cardinale Ruini, citate le dimissioni di Fazio da governatore di Bankitalia e la scelta di Mario Draghi come successore nell'incarico, osserva che «rimangono aperte le vicende giudiziarie di alcuni esponenti del mondo bancario e di quello cooperativo, sulle quali si è innestato un aspro dibattito politico». Il «forte auspicio» espresso dal porporato è che «in questo come in altri campi, i comportamenti censurabili, o comunque gravemente discutibili, trovino un freno e un limite nella coscienza delle persone prima ancora che nelle norme giuridiche e amministrative».
EMERGENZA GAS - Tra i problemi del Paese segnalati: sviluppo del Mezzogiorno, cura del territorio, potenziamento e modernizzazione delle infrastrutture, «riduzione della grave dipendenza energetica del nostro Paese».
IL FANATISMO IN IRAQ - Molto ampia anche la sezione dedicata alla situazione internazionale, con al primo posto la necessità di proseguire la «pacificazione» in Medio oriente nonostante la «grave malattia» di Sharon e di «isolare i fanatici del terrorismo» in Iraq. In un passaggio sul rapporto tra verità e pace inoltre Ruini segnala come siano «degni di gratitudine i tanti militari impegnati in delicate operazioni di composizione dei conflitti e ripristino delle condizioni di pace».














Il Manifesto, 22.01.06
I fattori terapeutici nella relazione con l'altro
Una miscellanea di saggi raccolti da Giuseppe Berti Ceroni con il titolo «Come cura la psicoanalisi?»
Quel che muove l'essere umano, sia quando soffre che quando cerca rimedio al dolore, è iscritto nella comunicazione con i suoi simili
ALBERTO LUCHETTI


Freud ha sempre tenuto a che la psicoanalisi non fosse riducibile a una branca della medicina o della psichiatria, o non collassasse su un mero metodo terapeutico, rivendicando le conoscenze cui il suo procedimento permette di avere accesso. Ma altrettanto ha tenuto fermo lo scopo della «cura» per la situazione analitica e la prassi che egli ha inaugurato, e non solo perché le considerasse incubatrici di una ben peculiare modalità di conoscenza dell'essere umano. Riteneva infatti che la psicoanalisi rappresentasse per tutti noi non solo una possibilità «inaudita» di essere ascoltati e accolti nei nostri pensieri più nascosti, intollerabili e riprovevoli e nelle nostre emozioni più segrete senza un preliminare inquadramento o una pregiudiziale valutazione morale, religiosa, ideologica o di qualsiasi altro genere; ma altresì costituisse una possibilità «inedita» di trasformazione, poiché ripete qualcosa di una situazione originaria per l'essere umano, permettendo di riaprire incessantemente quella breccia nell'individuo un tempo aperta dalla estraneità dell'altro, e intorno alla quale l'uomo si costituisce come soggettività. Se ciò che muove l'essere umano non sorge da un'oscura intimità della «vita», ma fondamentalmente scaturisce dal mondo delle relazioni e della comunicazione interumana - ed è questo ciò che in fondo indicano termini che possono apparire oscuri o misterici come «inconscio» e «pulsione» - allora soltanto in una relazione si può rimettere in gioco ciò che di quelle relazioni e di quella comunicazione ha originato sofferenza e vere e proprie malattie, facendo sì che il versante della conoscenza converga con quello della «cura», senza indebite sovrapposizioni. Il termine «cura» posto tra virgolette intende ricordare che nella psicoanalisi è sospeso il giudizio su cosa possa significare nel caso singolo cura o guarigione, il che non comporta che questi termini perdano significato o non ricevano costante e profonda attenzione. Al contrario: lo dimostra il recente volume Come cura la psicoanalisi?, pubblicato dall'editore FrancoAngeli e curato da Giuseppe Berti Ceroni, in cui sono raccolti, rivisti e talvolta rielaborati, alcuni contributi dell'ultimo congresso degli psicoanalisti italiani dedicato appunto ai fattori terapeutici in psicoanalisi e alle specificità e aspecificità delle trasformazioni che essa rende possibili. Il libro si inserisce, come rileva il curatore, in una corrente di studi molto praticata negli ultimi decenni, e certo non solo perché la psicoanalisi è stata spesso criticata circa le sue potenzialità terapeutiche; inoltre, apre la strada al prossimo congresso, che sarà dedicato a un tema che unisce in sé terapia e conoscenza, clinica e teoria: il transfert. Ma questo volume giunge ancora più opportuno oggi che, come ricorda sempre Berti Ceroni, seguendo la cosiddetta «medicina basata sull'evidenza» si è tentati di separare nettamente la sofferenza esistenziale della persona malata dalla malattia che ne sarebbe la supposta causa e che andrebbe affidata esclusivamente alla medicina e alla psichiatria, ormai purtroppo diventata spesso sinonimo di psicofarmacologia.

Un secolo di psicoanalisi, ma anche di psichiatria fenomenologica, sociale, permettono invece di sostenere che eventi di vita e difficoltà relazionali possono spiegare l'esordio e il decorso di alcune malattie (come per la depressione, «malattia del secolo»), che ovviamente sono sempre biopsicologiche. E che, viceversa, l'efficacia terapeutica non è una questione strettamente personale o una posta solo privata, ma un risultato «sociale», come nota il saggio del compianto Agostino Racalbuto, cui è dedicato il volume.

I contributi sono raccolti intorno ad alcuni temi: i fattori terapeutici specifici; i fattori aspecifici o meglio, come propone Berti Ceroni nel suo contributo, i «fattori specifici comuni» ad ogni relazione terapeuta-paziente; alcune aree di cura, come la psicosi o l'infanzia e l'adolescenza; il rapporto della cura con il tempo, che include l'esperienza della temporalità come fattore terapeutico. I lavori del volume, che come dice il curatore non mostrano «nessun riduzionismo, nessuna stanca riproposizione degli stilemi di un tempo, nessuna soggezione riguardo agli sviluppi internazionali», muovono da prospettive diverse e illustrano quella ibridazione di teorie e modelli che qualche anno fa Stefano Bolognini rivendicava alla psicoanalisi italiana, conferendo al suo stile le caratteristiche di un patchwork. Pur ritenendo che la psicoanalisi - non solo italiana - forse soffra un po' di una caleidoscopicità di posizioni e teorie che talvolta faticano a confrontarsi, si può tuttavia concordare con Fausto Petrella che nel suo contributo si domanda se potrebbe essere diversamente, visto che l'opera stessa di Freud ha insegnato come la contraddizione vada compresa nella sua necessità e la coerenza teorica vada ricercata per singoli tratti, sempre cucendo e componendo insieme reciproche incoerenze. E mentre ci propone queste considerazioni, giustamente ricorda le parole di Freud che, ricalcando alcuni versi noti, affermava: «Io non sono, invero, un libro ingegnoso. Sono un uomo con le sue contraddizioni».
















Liberazione, 21.01.06
Io dico: l'aborto non è un dramma
di Angela Azzaro


E' in pieno svolgimento una campagna ideologica che fa di tutto per riportare le donne al ruolo di madri e basta, cioè contenitori biologici degli eredi di una società maschile. Si vuole cancellare la loro molteplice identità.

La negazione della libera scelta se avere un figlio o non averlo parla di questa crociata, e soprattutto parla della paura maschile davanti alla libertà delle donne.

Come si risponde a questa crociata, a questo vero scontro di civiltà che vede uniti cattolici e musulmani? Importante andare in piazza per dire basta, importante mettere in discussione l'identità maschile, il rapporto uomo-donna, la sessualità e una struttura della società basata sull'omofobia. Importante sarebbe anche riflettere sul linguaggio che usiamo, sulla rappresentazione che noi per prime diamo dell'aborto, del rapporto che abbiamo col nostro corpo.

In questi giorni di presa di parola per respingere l'attacco contro la legge 194 si è spesso sentito dire: «Ma come vi permettete di criticarci. L'aborto è un dramma e le donne non lo fanno mai a cuor leggero». Lo hanno detto dal palco della manifestazione di Milano, è stato scritto sui giornali, lo hanno sottolineato diverse donne delle istituzioni. L'equazione responsabilità femminile nella procreazione e dramma dove porta? Conviene alla posizione che vogliamo sostenere? Penso di no a partire da un fatto empirico: non è vero che per tutte le donne l'aborto si connota in questo modo. Per molte è un'esperienza importante, di crescita, un passaggio che può portare verso una maggiore consapevolezza. Per altre è espressione di un conflitto razionale o inconscio. Per alcune è un evento doloroso non di per sé, ma perché coincide con la fine di una storia, perché si trovano ad affrontare condizioni economiche e sociali difficili. Altre reagiscono in modo ancora diverso. Ma per loro non è un dramma. Lo sarebbe sicuramente se non avessero questa possibilità di scegliere se essere madri o non esserlo. Esistono vari modi di vivere un aborto, tanti quanti sono le individualità che attraversano quell'esperienza. Negarlo è negare che le donne non sono ruoli o icone, ma individue che affrontano in maniera personale le scelte che si trovano a compiere.

Chi usa la parola dramma (al di là della sua esperienza) lo fa per un fatto spesso opportunistico: non si vuole dare all'avversario politico l'occasione di nuovi argomenti. Si pensi a come reagirebbe Buttiglione: «Ma come, abortite, e non vi sentite nemmeno un po' in colpa? Non lo vivete neanche come un evento drammatico?». Proprio questa reazione dovrebbe far interrogare sull'opportunità di restare, con il linguaggio, nello stesso orizzonte simbolico e ideologico di chi vuole negare la libera scelta delle donne.

Certo, se la questione si limitasse a un fatto di opportunità, sarebbe facile trovare un punto d'accordo. Il problema è però molto più serio. La parola dramma abbinata all'aborto e alla responsabilità femminile è una spia di una metafisica del corpo e della vita di cui spesso siamo complici, anche se non volutamente.

La discussione che si è aperta nel Paese, potrebbe essere l'occasione per confrontarsi anche su questo punto, per chiarire a quale ideologia ci ispiriamo, a quale filosofia facciamo riferimento. Potrebbe essere l'occasione perlomeno per fare un po' di chiarezza: quando una donna dice aborto uguale dramma, parla per sé, non per tutte. Non parla per me.

La critica alla metafisica del corpo (e della nascita) non significa negare la responsabilità femminile. Significa al contrario legarla alle singole esperienze, ai soggetti in carne e ossa. La vita, hanno scritto femministe, giuriste e giuristi, intellettuali, inizia nel momento della relazione tra la madre e il figlio o la figlia. E' una scelta. Un grande potere che le donne hanno e che gli uomini, storicamente, hanno cercato di limitare, inglobare. Hanno invidiato, a volte odiato. Il potere femminile di procreare (la libertà di scelta e la responsabilità) va messo in relazione con i soggetti reali, con le esperienze concrete.

E' un passaggio difficile, ma importante perché sottrae le donne alla riduzione del loro corpo o a mero contenitore o a espressione di un'idea della vita che può essere dei cattolici, dei mistici, dei metafisici o dei musulmani, ma non è di tutte, né di tutti. E' la grande sfida che abbiamo davanti e che le nuove tecnologie di riproduzione rendono sempre più urgente: dare valore alla vita, a tutte le vite, dalla più piccola alla più grande, senza ricadere nella metafisica, né nella fede. Dare valore alla vita qui e ora, nel momento che viene al mondo se una donna lo vuole.







Europa, 21.01.06
Ma la vera chimera è il museo
di Simona Maggiorelli


"La Costituzione non è un ferrovecchio. e l'articolo 9 che parla di tutela non è fra i meno importanti». La denuncia di Salvatore Settis è dura e precisa. Dalle pagine di Repubblica e, dal vivo, nel ciclo di conferenze sul papiro di Artemidoro che sta facendo in giro per l'Italia (il 26 gennaio sarà a Roma), il professore punta il dito sulla deriva del sistema dei beni culturali. «Fra lotte di potere, spartizioni, favoritismi che alimentano il gigantismo burocratico del ministero» e sempre più scarsi interventi sul territorio, con le soprintendenze locali messe in ginocchio da continui tagli, «il ministero - avverte Settis - diventa un mostro con una testa sempre più grande e un corpo sempre più gracile». E spesso, come accade al Museo Egizio di Torino, il rimedio rischia di essere peggiore della male: con la trasformazione della struttura pubblica, in fondazione privata, guidata da un consiglio di amministrazione senza nemmeno un egittologo.
Ma il caso del primo museo archeologico italiano, intorno al quale si è acceso, finalmente, un ampio dibattito, è solo la punta di un iceberg di crisi che tocca anche molti altri prestigiosi musei italiani, se non ancora svenduti a fondazioni, abbandonati a se stessi. Prova ne è lo stato in cui versa l'archeologico di Firenze, per importanza il secondo museo egizio d'Italia. Con una vasta collezione darte greca, etrusca e romana mediceo-lorenese.Qui è conservata la potente Chimera del V, VI secolo avanti Cristo, scoperta nel 1553 e restaurata dal Cellini. Ma anche la statua bronzea del nobile etrusco detto l'Arringatore. E poi il grande cratere di Ergofimos dipinto da Kleitiras, l'idolino ritrovato nel '500 e le teste di filosofi greci ripescate dalle acque della Meloria. Mentre decine di opere e reperti di questo museo, per mancanza di spazi e di sale attrezzate, restano stipate, nei depositi.
Da anni si parla del restauro delle sale in piazza Santissima Annunziata per dare respiro alla collezione conservata nella storica di via
della Colonna. Ma quelle sale che ospitarono i restaurati bronzi di Riace non sono state più riaperte al pubblico. E sono trascorsi venticinque anni. «Non c'è stato nessun impegno serio di investimento da parte del ministero, questo è il punto, e le risorse della soprintendenza sono ridotte all'osso», denuncia la direttrice Carlotta Cianferoni. Che da qualche settimana è anche, ad interim, soprintendente dei beni archeologici della Toscana. Per non lasciare scoperto il ruolo lasciato da Angelo Bottini da quando è stato trasferito a Roma per prendere il posto di Adriano La Regina.
Intanto nello storico museo fiorentino, fondato nell'Ottocento e sopravvissuto al disastro dell'alluvione del '66, i disagi e i problemi si .assommano. Le 50mila persone che, all'anno, visitano il museo (gli Uffizi e l'Accademia ne hanno circa un milione) sono costrette a un percorso a ostacoli. Nei giorni di festa trovano la porta chiusa. D'estate poi il clima torrido delle sale sconsiglia del tutto le visite. «Quest'anno non abbiamo potuto accendere i condizionatori - racconta costernata la direttrice -. Il motivo è banale: mancavano i soldi». E quanto a un orario più in sintonia dei musei d'Europa? «Non abbiamo abbastanza personale. Siamo sotto organico di almeno un venti per cento -racconta-. Su 39 custodi, almeno 12 sono precari. Gli altri, per lo più part tirne». Di nuove assunzioni, poi, neanche a parlarne: sono bloccate da anni. E in queste condizioni diventa davvero difficile fare progetti di valorizzazione del patrimonio. Ma la soprintendente non si arrende. «Abbiamo appena riaperto il laboratorio di restauro - rilancia - e fra qualche mese potremo riaprire il secondo piano, riallestendo una parte delle collezioni medicee. Insomma qualcosa si riesce a fare, anche se il museo avrebbe bisogno di interventi ben più strutturali, in vista di un rilancio. Ma - avverte Cianferoni - i problemi più grossi restano per la soprintendenza. Il nostro ruolo di controllo sul territorio è a rischio. Sono molti gli scavi, i cantieri da ispezionare, ma solo nei casi più urgenti riusciamo a mandare i nostri tecnici». E su questo il governo drammaticamente tace. Nessuna risposta dal ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione. Mentre curiosamente si fa sentire il ministro Alemanno, lanciando un'idea per fare cassa: trasformare i bookshop in supermercati. L'iniziativa è già partita agli Uffizi. Fra le monografie di Botticelli, di Leonardo e di Michelangelo spuntano il Brunetto, l'olio Laudemio, il vin santo, l'aceto, la grappa. E 54 etichette di vini, acquistabili anche on line. La gestione è affidata a Buonitalia, una società creata dal ministero delle politiche agricole per valorizzare i prodotti dell'agroalimentare italiano. Quando si dice che il cibo è arte.








AdnKronos, 02.01.06
Apre a nuove applicazioni nella meccanica quantistica ad hi-tec
Fisica, ricerca italiana in copertina su 'Physical Review Letters'
Gli scienziati sono riusciti a isolare pochissimi elettroni all'interno di una nanostruttura e a cambiarne le proprieta' in modo controllato


La ricerca italiana nel settore della fisica in primo piano sulla piu' prestigiosa rivista internazionale dedicata a questa branca della scienza. La copertina di ''Physical Review Letters'', il giornale dell'American Physical Society appena uscito, e' infatti dedicata a uno studio di Cnr-Infm condotto nei Centri Nest di Pisa e S3 di Modena. Con la loro ricerca, gli scienziati italiani sono riusciti a isolare pochissimi elettroni all'interno di una nanostruttura di un materiale semiconduttore e a cambiarne le proprieta' in modo controllato illuminandoli con un fascio di luce laser. ''Si tratta di una tecnica per manipolare elettroni attraverso un raggio di luce che -sottolinea l'Infm- potrebbe aprire la strada a nuove applicazioni della meccanica quantistica nella tecnologia dell'informazione''. In altre parole, spiega l'Infm, questo tipo di studi condotti dai due team di fisici italiani di Pisa e Modena ''porterebbe in futuro a creare dei computer quantistici, macchine cioe' di concezione diversa da quelli attuali, con memorie composte da chip piccolissimi, molto ridotti rispetto a quelli che si fabbricano ora, ma con capacita' di gran lunga superiori e basati sulla manipolazione di singoli elettroni''.
Per la sua importanza, quindi, il risultato dello studio italiano e' stato pubblicato sull'ultimo numero della prestigiosa rivista ''Physical Review Letters'' che dedica cosi' la sua ultima copertina alle immagini delle 'nano-trappole' in cui sono confinati gli elettroni. ''La scoperta -afferma l'Infm- giunge al termine di una ricerca durata tre anni condotta dai ricercatori dei laboratori Cnr-Infm, Nest della Scuola Normale Superiore di Pisa e Centro S3 di Modena, e dell'Universita' di Modena e Reggio Emilia in collaborazione con Columbia University e laboratori Bell (Usa)''. ''I ricercatori -prosegue l'Ente di ricerca italiano- sono riusciti per la prima volta a colpire con un fascio di luce laser una manciata di elettroni e a modificare in modo controllato una delle loro proprieta' intrinseche piu' rilevanti, lo 'spin'''. ''Per ottenere questo risultato, -spiega ancora l'Infm- i ricercatori del Nest della Scuola Normale hanno intrappolato pochi elettroni in minuscole strutture di materiale semiconduttore, e li hanno irraggiati con un fascio di luce laser''. ''Grazie a calcoli teorici e alla risoluzione di equazioni quantistiche -prosegue l'Infm-, i fisici del Centro S3 di Modena hanno potuto chiarire i fenomeni fisici che si verificano durante l'irraggiamento, e hanno confermato che la debole luce restituita dagli elettroni corrisponde alla variazione dello spin di esattamente quattro elettroni''.
''Le 'nano-trappole' per elettroni -riferisce l'Infm- sono state ottenute da un cristallo purissimo di Arseniuro di Gallio, un materiale semiconduttore correntemente utilizzato nell'industria opto-elettronica''. ''Il cristallo -dice ancora l'Infm- e' stato lavorato presso il centro Nest con complessi procedimenti di nano-fabbricazione fino ad ottenere una griglia regolare di minuscole strutture, dette punti quantici. Ogni punto quantico e' largo solo pochi nanometri (un nanometro e' pari a un miliardesimo di metro) e contiene appena qualche elettrone: in effetti, i ricercatori del Centro S3 di Modena tramite simulazioni al calcolatore sono stati in grado di 'contare' gli elettroni in ciascun punto quantico e stabilire che il loro numero e' pari a quattro''. ''La possibilita' di manipolare lo spin di pochi elettroni attraverso la luce -sottolinea l'Infm- potrebbe quindi aprire la strada a nuove tecniche di memorizzazione nella tecnologia dell'informazione''. ''Come previsto dalle leggi della meccanica quantistica, -dice l'Infm- lo spin di un elettrone puo' assumere solo due valori, e questo lo rende simile ai bit degli usuali calcolatori che possono valere solo 0 e 1. Percio' potrebbe essere utilizzato per costruire elementi di memoria con dimensioni nanometriche, molto inferiori a quelle attuali''.
''Inoltre -continua l'Infm- lo spin degli elettroni e' poco influenzabile dal mondo esterno, e, in linea di principio, potrebbe mantenere il proprio valore per un tempo molto lungo. Ma proprio a causa della sua 'imperturbabilita'', cambiare in modo controllato lo stato di spin degli elettroni rappresenta una sfida per la nanoscienza''. ''I risultati di questa ricerca -conclude l'Infm- indicano quindi un nuovo metodo, basato su lavorazione di materiali semiconduttori e impiego della luce, per controllare gli elettroni e il loro spin su scala nanometrica''.








Edicolaweb, 20.01.06
IPOTESI SULLA REALTÀ
Le scoperte della fisica del ventesimo secolo hanno profondamente cambiato la visione della realtà naturale. La "teoria della relatività" di Einstein ha dimostrato che la materia è una forma di energia e la "meccanica quantistica" ne ha evidenziato la natura "ondulatoria".


Per esempio l'atomo può essere descritto come un sistema formato da onde recanti energia ed "informazione": a questo livello la natura rivela la sua intima intelligenza.
Pertanto è legittimo chiedersi se lo studio della mente umana possa trovare risposte valide in termini di fisica fondamentale. Alcuni fisici si sono già posti questa domanda, in seguito ad alcuni paradossi evidenziati dalla meccanica quantistica. D'altra parte una spiegazione fisica della coscienza deve pur esistere, se non si vuole ricadere in una concezione metafisica che separi la mente dal resto dell'universo. Ebbene, oggi sappiamo che l'attività mentale è dovuta a processi chimici e fisici che avvengono nel cervello e nel sistema nervoso, a livello molecolare, atomico e forse anche subatomico, cioè a livelli descritti dalla meccanica quantistica.
Le teorie più recenti della fisica intendono dimostrare che le quattro forze fondamentali (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte e nucleare debole) sono aspetti di un solo "campo unificato", come era già stato ipotizzato da Einstein. Quindi è ragionevole cercare la relazione tra la mente dell'uomo ed il campo unificato, che è l'ambito fondamentale in cui avvengono i fenomeni quantistici.
La M.U.M. (Maharishi University of Management, Fairfield, Iowa, USA) svolge ricerche proprio in questo campo, avvalendosi della collaborazione di vari scienziati, i quali ipotizzano che la coscienza dell'uomo sia una proprietà che emerge "direttamente" dal campo unificato. In altre parole il campo unificato presenterebbe "sintomi" di coscienza: in questo stadio primordiale tali "sintomi" si identificherebbero semplicemente con una proprietà elementare del campo unificato, l'"autoriferimento", grazie al quale il campo può "percepire" ed interagire con se stesso. Il cervello umano sarebbe capace di amplificare e sviluppare tale qualità primordiale, formando così la mente individuale.
Questa ipotesi, che può sembrare audace, sembra avvalorata dai notevoli risultati pratici ottenuti dalla M.U.M. sul funzionamento della mente e del sistema nervoso, come per esempio l'eliminazione dello stress con opportune tecniche di meditazione (esistono centinaia di articoli scientifici a riguardo, per esempio Le Scienze n.45, 1972).
La coscienza sarebbe una proprietà fisica fondamentale che il cervello saprebbe "evidenziare" ed "elaborare". Le onde cerebrali sarebbero così un raro epifenomeno di effetto quantistico che si manifesta direttamente nella realtà comune invece che a livello atomico (altri effetti quantistici "macroscopici" sono ad esempio la superconduttività o la superfluidità, che presentano aspetti sorprendenti per il profano, come ad esempio l'assenza di dissipazione di energia per attrito).
Anche la luce (funzione d'onda elettromagnetica) è un fenomeno quantistico, di cui tutti possono avere esperienza. Ma la luce ordinaria non evidenza totalmente le sue proprietà intrinseche, poiché è "luce incoerente": le sue oscillazioni sono "sfasate", cioè disordinate.
Il laser invece emette "luce coerente": le sue oscillazioni sono in fase e rivelano completamente le eccezionali proprietà delle onde elettromagnetiche (potenza, precisione, ecc.). Per analogia, se si potessero rendere "coerenti" le onde cerebrali, si potrebbero rivelare aspetti superiori del funzionamento della mente, del tutto naturali, ma che normalmente rimangono inespressi.
La M.U.M. ha condotto numerose ricerche su alcune tecniche di meditazione che permettono di aumentare la coerenza delle onde cerebrali in modo semplice ed efficace. Tali tecniche sono tratte dalla tradizione di conoscenza degli yogi e dei maestri dell'Himalaya e sono state riportate alla loro purezza originaria. La loro metodologia merita di essere considerata "scientifica" per esattezza e riproducibilità, nonostante sia nata in un ambiente così lontano dalla scienza occidentale. La coerenza cerebrale indotta da queste tecniche produce un funzionamento più ordinato, unitario e naturale della mente e del sistema nervoso, con grandi effetti positivi nella vita pratica (a livello neurologico, psicologico e fisiologico), verificati da centinaia di ricerche scientifiche condotte presso diverse Università ed Istituti di ricerca.
Le tecniche in questione sono Meditazione Trascendentale (MT) ed il programma di MT-Siddhi, così come sono stati insegnati da Maharishi Mahesh Yogi, laureato in fisica, che ha trattato questi temi con celebri scienziati (Wigner, Eccles, Josephson, Prirogine, ecc.).
Tali tecniche sono prive di implicazioni mistiche o religiose (pur contenendo alcuni aspetti tradizionali propri della loro cultura di origine): la loro funzione è quella di portare la mente a sperimentare il cosiddetto stato di "trascendenza", ovvero il livello di minima eccitazione del sistema nervoso, il più profondo possibile in natura ed al quale tutte le potenzialità del "campo unificato" sono aperte. Secondo la M.U.M., ciò è possibile poiché la coscienza è una proprietà del campo unificato ed è naturale che la mente possa accedere all'ambito quantistico ed acquisirne alcune proprietà.
Qualcuno potrebbe dubitare del fatto che la coerenza cerebrale osservata sia veramente prodotta dal campo unificato e potrebbe supporre che essa sia causata invece da "banali" fenomeni psico-fisiologici, secondari rispetto alla fisica fondamentale.
Ebbene, se siamo realmente in presenza di fenomeni quantistici, dovremmo assistere ad un altro fatto straordinario: un "effetto di campo" della coscienza, ovvero una propagazione della coerenza dalla mente di una persona nell'ambiente circostante. La coerenza cioè potrebbe estendersi ad altre persone, rendendo più naturale e ordinato il funzionamento della loro mente.
Questo sorprendente effetto è stato realmente osservato, sebbene si tratti di una tematica difficile da accettare per molti occidentali (quasi un "tabù" dovuto alla nostra formazione culturale e che tende a negare fenomeni di questo tipo).
Le prime verifiche di questo effetto risalgono agli anni '70, quando una ricerca dell'FBI indicò una netta riduzione della criminalità in alcune città degli USA nelle quali almeno l'uno per cento degli abitanti praticava la MT, mentre nelle altre città di controllo (tenute sotto osservazione per confronto) la criminalità era in netto aumento.
Negli anni seguenti, altre ricerche hanno confermato l'esistenza dell'Effetto Maharishi dell'1% anche su altri indici sociologici: non solo si ha una diminuzione degli episodi criminali, ma anche di incidenti, malattie, eccetera: sono tutti effetti riconducibili alla riduzione di stress, dovuta all'induzione di coerenza nel funzionamento del sistema nervoso. Con l'introduzione del potente programma MT-Siddhi si riscontrò poi che per ottenere questi risultati era sufficiente una percentuale perfino inferiore di praticanti.
Ora ci si potrebbe chiedere come un'influenza di questo tipo sia possibile: su questo punto i pregiudizi contrari sono molto forti. Ma non va dimenticato che anche la mente deve essere considerata un'entità fisica che obbedisce alle leggi naturali, se non si vuole ricadere nella metafisica.
In realtà si tratta di un effetto che non è più strano di quello prodotto da una banale calamita, che crea un campo magnetico esterno in virtù del suo ordine interno a livello microscopico.
Noi viviamo costantemente immersi in un calderone di campi fisici, come il campo gravitazionale, che fa cadere gli oggetti al suolo, il campo magnetico terrestre, che orienta le bussole, e gli innumerevoli campi elettromagnetici che portano i segnali radiotelevisivi, dei telefoni cellulari, eccetera.
Perfino la materia, a livello microscopico (subatomico), è una condensazione di campi (quantistici), che a livello atomico formano strutture stabili e pertanto costruiscono strutture molecolari che a livello macroscopico mostrano un aspetto "solido".
Ebbene, perché mai una struttura fisica come il sistema nervoso dell'uomo dovrebbe rimanere estranea alle normali interazioni tra i diversi campi naturali? Chi nega questa possibilità assume un atteggiamento chiuso, dogmatico e, in sostanza, anti-scientifico.
Va sottolineato che l'esistenza di tale effetto, che sembrerebbe comportare una rivoluzione concettuale e filosofica, è comunque compatibile con qualunque convinzione religiosa (in altre parole è accettabile sia dagli atei che dai credenti di qualsiasi religione).
L'effetto di campo della coscienza, detto "Effetto Maharishi", è già stato verificato molte volte ed è uno dei fenomeni sociologici più netti che siano stati mai misurati.
Si tratta di un effetto fisico, di un'induzione di coerenza nelle onde cerebrali, che prescinde dai contenuti del pensiero e che, essendo naturale, non produce "forzature" sulla volontà, ma anzi elimina le influenze negative (dovute a stress o altro), permettendo il ripristino delle funzioni naturali.
Per fare un paragone banale con una semplice funzione fisiologica (la respirazione), può essere considerata come una ventata di aria pura che spazza via lo smog: chi mai potrebbe considerare questo come una "forzatura" sul processo della respirazione?!
La differenza è che tale "purificazione" avviene direttamente a livello delle onde cerebrali, e di nuovo, questo può sembrare strano o inaccettabile per i nostri pregiudizi, pur essendo perfettamente naturale.
Oggi siamo abituati a tecnologie straordinarie (Internet, telefoni cellulari, ecc.) che fino a qualche anno fa erano impensabili per la maggior parte delle persone. Ebbene, è possibile che il futuro della ricerca si sposti nella direzione indicata da questo articolo, visto che i fenomeni citati, sebbene sorprendenti, sono già stati verificati e risultano attendibili e reali.
D'altronde una straordinaria conferma della possibile influenza della consapevolezza umana su dispositivi fisici è già stata ottenuta nell'ambito dei progetti PEAR e Noosphere dell'Università di Princeton.

Fabrizio Coppola

Questi argomenti sono presentati in dettaglio nei libri:
Il segreto dell'universo (Saggi dell'Istituto Scientia, 2002).
Ipotesi sulla realtà (Lalli Ed., 1991).



















Liberazione, 20.01.06
Donne, ripartire dal quotidiano
per capire la realtà e modificarla
di Eleonora Cirant


E' stato già detto in molti modi: non siamo mai state zitte. Eppure per anni non siamo riuscite - o non abbiamo voluto, trattenute da briglie identitarie troppo rigide - a parlare coralmente con la forza di questa ultima manifestazione. Nelle molte occasioni in cui abbiamo parlato non siamo state visibili, scomparse in questo gioco di specchi per cui i media ignoravano sistematicamente quanto dicevamo, per poi accusarci di stare zitte. La vicenda del referendum sulla fecondazione assistita è stata un esempio lampante di come una non-notizia crei la realtà. Domandavano: femministe, dove siete? Le femministe, piuttosto stremate dalla campagna referendaria, si chiedevano invece perché sulla scena mediatica (con l'eccezione di "Liberazione", cui dobbiamo rendere il merito di avere dato parola a voci altrove sottaciute), protagonisti fossero sempre e solo medici, scienziati e politici (al maschile non solo nella forma grammaticale, ma anche nella sostanza) in una massacrante maratona a ridosso della data del voto. Il doppio evento del 14 gennaio ha avuto successo anche grazie al superamento di questa censura mediatica. Mi limito qui ad osservare che il rapporto con i media implica necessariamente relazioni tra persone, con tutta la complessità e le ambivalenze che le relazioni comportano (ambivalenza raddoppiata quando si tratta di relazioni tra donne).

L'altra faccia di questa considerazione riguarda invece direttamente noi, la capacità, si diceva, di parlare coralmente. In quali occasioni, su quali temi, spinte e spinti da quali necessità?

Mi pare che oggi una delle contraddizioni dei movimenti, compreso quello delle donne, si sviluppi tra la fluidità caratteristica dell'era digitale e la fissità delle griglie identitarie necessarie a veicolare i contenuti. Siti internet, mailing-list, blog, forum danno vita alla iper-proliferazione di informazioni e di aggregazioni, ma il passaggio dal virtuale al reale è come quello tra il dire e il fare. Ne conosciamo le mille difficoltà, di cui la prima mi pare sia, appunto, la necessaria assunzione di un'identità e di un programma con cui essere riconoscibili e, quindi, visibili.

Reticolare, disomogeneo, fluido è il modo in cui ci incontriamo e tentiamo di dare vita ad azioni collettive. Credo che possiamo assumere questo dato come un limite, anche nel senso positivo del termine. Sappiamo che il 14 gennaio si sono sovrapposte due iniziative nazionali, quella proposta dall'assemblea milanese autoconvocata e quella proposta da Arcilesbica e Arcigay sui Pacs. La sovrapposizione, non intenzionale, è nata nella reticolarità cui ho appena accennato e indica un proliferare di iniziative, segno di vitalità politica e sociale, una molteplicità di argomenti che richiedono urgentemente risposte e proposte. Indica anche una dispersione di informazione che ci toglie forza. Della sovrapposizione si è discusso, si sono fatte assemblee - non prive di asprezze, come è accaduto a Milano - si è infine creato un ponte delle libertà tra Roma e Milano. Se "dividi et impera" è lo strumento adottato per il mantenimento del potere, in questa occasione abbiamo raggiunto l'obiettivo che "parole d'ordine" non coincidenti ci unissero anziché dividerci. Se, all'indomani della manifestazione, si profilano nuove sovrapposizioni, la contraddizione tra identità e fluidità va affrontata serenamente.

Non ci si identifica più nel femminismo (molte donne giovani che sfilavano sabato a Milano non si definiscono femministe), neppure altri "ismi" godono di maggiore popolarità. Eppure assumere un punto di vista implica per ciò stesso definirsi in qualche modo e questo è un esercizio implicato al fare politica, se non mi sbaglio. Quando si esce dalla virtualità, quando si deve scrivere un volantino, affermare priorità, intervenire in pubblico, descrivere problemi proposte; quando si interagisce con le forme istituzionali del potere, quando si affrontano le forme relazionali del potere, quando entra in gioco il denaro - necessario a realizzare progetti - è necessario dare identità ad un progetto. Il problema è come costruire un programma politico a partire da una moltitudine di soggetti che si affacciano sulla scena pubblica affermando la propria specificità.

La doppia manifestazione del 14 ha coinvolto decine di migliaia di persone anche perché si è rivelata uno spazio di parola per identità molteplici e parole d'ordine varie. Ciascuno, ciascuna ha portato in piazza le proprie priorità sul filo conduttore della libertà del vivere e del convivere. Si è trattato di un concerto senza direttore d'orchestra. L'esperienza è riproducibile, credo, se si tiene aperta questa possibilità di espressione molteplice e se tra contenuti e loro visibilità si mantiene l'equilibrio.

D'accordo con Lea Melandri: la vitalità di questo movimento dipende dalla capacità di innescare situazioni di presa di parola e di coscienza nei contesti quotidiani di ciascuna e ciascuno, dalla scuola ai luoghi di lavoro alle relazioni affettive, in tutti i luoghi in cui si esplica la "politica del vivere". Cito, a titolo di esempio, i reparti ospedalieri dove il tema dell'aborto è questione di "lacrime e sangue", dove le donne che fanno interruzione di gravidanza sono messe accanto alle partorienti, dove il Movimento per la vita è già presente, con o senza modifica della legge 194, dove il numero di obiettori è altissimo. Cito i consultori, di cui è necessario rilanciare non solo il finanziamento, ma un modello olistico di salute in cui l'individuo non sia solo utente ma anche attore primario della cura di sé, in cui le operatrici e gli operatori non siano solo erogatori di prestazione "a gettone". Un programma politico si costruisce non contendendosi una piazza, ma ripartendo dagli spazi comuni quotidiani con la capacità di ascoltarsi a vicenda, con l'obiettivo di comprendere la realtà per modificarla.













Liberazione, 19.01.06
Le piazze di Roma e Milano
Antidoto alla mediocrità politica
di Giovanni Palombarini


Sono state due belle manifestazioni quelle di Milano e Roma di sabato scorso. Belle e importanti, perché d'improvviso centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per dimostrare che la emergente ideologia teo-con - un'ideologia che tenta di dettare in nome della morale una serie di scelte politiche, in qualche caso raggiungendo l'obiettivo - può essere contrastata efficacemente, solo che lo si voglia. Sono state manifestazioni, quella di Roma organizzata da tante associazioni che hanno dato vita alla "Campagna per il pacs" e quella di Milano in difesa della legge sull'interruzione di gravidanza, che, promosse come iniziative per la difesa di libertà e di diritti, hanno contemporaneamente riproposto - tutto alla fine si tiene - il principio di laicità dello Stato. Un principio che in questi ultimi tempi è stato ripetutamente messo in discussione nel nostro paese.

La manifestazione di Milano è servita a ricordare che non è in gioco solo la difesa di quella difficile conquista che è stata la legge 194 (che all'inizio degli anni Ottanta si è inutilmente tentato di abolire a mezzo di un referendum popolare che l'ha invece confermata), ma anche che è in atto da qualche tempo nel nostro paese, in varie forme, un forte attacco alla libertà e al principio di autodeterminazione delle donne. Le vicende della legge sulla procreazione medicalmente assistita e del successivo referendum, che hanno visto l'attivo protagonismo della Chiesa cattolica e l'adeguamento alle sue direttive di una serie di forze politiche che ne ritengono indispensabile l'appoggio per legittimarsi come rappresentanti dell'elettorato moderato, sono state indicative in proposito. Oggi sono poi all'ordine del giorno una campagna di stampa e varie proposte che tendono a ridurre la possibilità di libere scelte in materia di aborto. Anche qui rispetto alle istanze della Cei le reazioni di tanti settori che pure a parole si richiamano al principio di laicità dello Stato appaiono timide e incerte.

Così, in questi primi anni duemila va riproponendosi la vecchia idea secondo la quale la donna deve accontentarsi del ruolo che un certo tipo di società attribuisce a lei e al suo corpo, di contenitore-riproduttore della specie. Una vecchia idea che pretende sottomissione, e che si caratterizza anche per la sua spietatezza, per l'indifferenza rispetto alle libere scelte di vita, ai sentimenti e al dolore. Si tratta di contrastare questa prospettiva, difendendo il diritto della donna di decidere di se stessa.

Le ragioni della manifestazione di Roma non sono lontane da quelle di Milano. Si tratta di chiedere al prossimo parlamento, quello che verrà eletto in primavera, di non continuare a chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

Ormai è grande, e tende a crescere, il numero di coppie che o non vogliono impostare la propria vita in comune sulla base della complessa e rigida regolamentazione prevista per il matrimonio o non possono accedervi in quanto l'attuale legislazione italiana non prevede la possibilità di sposarsi per due persone dello stesso sesso. Si tratta di persone che la legge considera come estranee e invece tali non sono. Comunque si voglia definire l'accordo da stipulare davanti all'ufficiale di stato civile o al notaio, pacs o unione civile, di una normativa che assicuri il riconoscimento giuridico e la tutela dei diritti di queste coppie c'è ormai bisogno.

Si dice, da parte di qualcuno: questa futura legge in realtà servirebbe soltanto a regolare in qualche modo le unioni fra omosessuali. Le cose ovviamente non stanno così: basta guardarsi intorno per capire che tante coppie di eterosessuali che non hanno contratto matrimonio, certamente utilizzerebbero il pacs. E però, anche se così fosse, già questo basterebbe per dire che della legge c'è bisogno. Perché, al di là di sentimenti irrazionali e pregiudizi, nessuno è in grado di spiegare ragionevolmente perché le unioni fra omosessuali non dovrebbero avere un riconoscimento e una tutela. Unioni per definizione sterili, dice qualcuno. Una giustificazione sorprendente in un paese in cui la natalità è in continuo calo, compensata soltanto dall'altrettanto malvista presenza dell'immigrazione extracomunitaria. Il fatto è che ancora non si riesce ad accettare l'omosessualità per quello che è, e cioè non una perversione o un peccato ma una variabile indipendente - certo minoritaria ma altrettanto certamente naturale - della sessualità umana.

Anche qui l'ostacolo più consistente all'adozione di uno strumento regolativo pattizio sembra essere l'ostilità della Chiesa cattolica che invoca la sacralità del matrimonio. Ma, a parte il fatto che si tratta di normative che altri paesi dell'Unione europea già hanno senza che per questo venga sminuita l'importanza di questo istituto, lo Stato italiano deve pure essere in grado di affrontare e regolare problemi che riguardano un consistente numero dei suoi cittadini (senza trascurare il fatto che, in materia di libertà, queste dovrebbero essere comunque garantite, prescindendo dalla consistenza numerica delle persone interessate). Di certo non può essere accettato come un destino invincibile che come in altri settori della nostra vita sociale, anche per quanto riguarda i diritti civili l'Italia continui a essere il fanalino di coda dell'Europa.

Sono state belle e importanti le due manifestazioni di Milano e Roma. Anche perché in un momento in cui il quotidiano dibattito politico proposto dai media è sceso a livelli di intollerabile mediocrità per responsabilità di una destra che tenta in ogni modo di fare fronte alla prospettiva di subire una nuova sconfitta elettorale, hanno segnalato ancora una volta la presenza di consistenti settori della società italiana che vogliono praticare la democrazia per obiettivi politici forti.












Liberazione, 19.01.06
Dopo tante indiscrezioni è stato il Papa stesso ad annunciare che "Deus caritas est" uscirà il 25
L'enciclica è in ritardo e Ratzinger la racconta. Anche l'eros viene da Dio
di Fulvio Fania


Città del Vaticano - Alla fine papa Ratzinger ha fatto l'addetto stampa di se stesso. Dopo molte attese, preannunci, rinvii e indiscrezioni sulla sua prima enciclica, il giallo rischiava di prolungarsi ancora. Così, trovandosi di fronte a ottomila fedeli per l'udienza generale, Benedetto XVI, che è solito improvvisare qualche capitolo fuori dal testo scritto, ha dato lui stesso la notizia: "Deus caritas est" sarà presentata il 25 gennaio. «Finalmente», si è lasciato scappare il pontefice quasi trattenendosi da rivelare nel dettaglio le ragioni del ritardo. «Allora, finché questo era pronto, tradotto, eccetera, è passato tanto tempo», ha detto il Papa in forma molto colloquiale. La prima interpretazione è stata che ci sono voluti più giorni del previsto per le traduzioni dall'originale tedesco. Ma nella rielaborazione ufficiale diffusa dalla Sala stampa vaticana le parole sono state riordinate in questo modo: «Prima che il testo fosse pronto e tradotto è passato del tempo». Insomma, non sarebbero i traduttori gli unici responsabili del rinvio perché il testo non era del tutto pronto. Sembra infatti che il Papa abbia sottoposto l'enciclica alla Congregazione della dottrina, il suo vecchio dicastero, e che i vari aggiustamenti abbiano fatto saltare i programmi. Uno slittamento «provvidenziale», si è consolato Ratzinger, poiché il documento sarà reso pubblico al culmine della settimana per l'unità dei cristiani, poche ore prima che il Papa si rechi nella basilica di San Paolo per una cerimonia comune con ortodossi e protestanti. «Il tema dell'enciclica non è immediatamente ecumenico - ha precisato - ma il quadro e il sottofondo lo sono». Benedetto XVI ha spiegato il senso principale della sua "lettera": «Vorrei mostrare il concetto di amore nelle diverse dimensioni e che si tratta di un unico movimento». Tutte le facce dell'amore, da quello di Dio all'eros come «dono tra uomo e donna», fino alla «rinuncia di sé in favore degli altri». Benedetto XVI è consapevole che «nella terminologia di oggi» amore e carità suonano «spesso» lontani ma proprio per questo intende riaffermare che anche l'eros «si trasforma in agape» provenendo «dalla stessa fonte del creatore». Si parlerà quindi della famiglia e della vita, ma si affronterà anche il tema della carità. Qui il discorso promette sviluppi interessanti. Non per caso a presentare l'enciclica alla stampa, insieme al prefetto per la dottrina William Levada, ci saranno il cardinale Renato Martino e monsignor Cordes rispettivamente "ministri" alla giustizia e alla carità. Curiosamente il pontefice si troverà a parlare del proprio documento, ancora sotto embargo, già lunedì prossimo quando interverrà ad un convegno del dicastero caritativo "Cor unum". Quale rapporto emergerà tra la carità e la giustizia sociale? Ratzinger ha solo affermato che «anche la Chiesa, in modo istituzionale, deve amare» e quindi l'amore deve «esprimersi come atto ecclesiale e organizzativo». «Questa cosiddetta Caritas - ha sottolineato - non è pura organizzazione, come altre organizzazioni filantropiche (nel testo ufficiale, ndr)». L'enciclica tocca dunque un versante della dottrina sociale della Chiesa che riguarda l'azione di missionari e volontari, la presenza nel Terzo mondo nonché i risvolti teologici su amore e liberazione umana. Quanto si è appreso finora non consente di prevedere gli sviluppi del ragionamento.

Di sicuro per il momento c'è che il Papa si muove con estrema cautela e lentezza in altre faccende, quelle di Curia, non meno dense di interrogativi su conferme e sostituzioni ai vertici. Ieri Benedetto XVI ha rinnovato per quattro anni l'incarico di rettore della Lateranense a Rino Fisichella, molto vicino a Ruini, benché un suo recente panegirico per Pierferdinando Casini abbia provocato un certo imbarazzo anche nella Cei.













AGI, 19.01.06
EUTANASIA: VERONESI, SE PERMESSA LA FAREI, OK DA INTELLETTUALI
D'accordo con Veronesi si dicono lo psichiatra Massimo Fagioli ed i filosofi Emanuele Severino e Umberto Galimberti


Io non la farei perche' e' proibita dalla legge: ma se fosse permessa non avrei difficolta' davanti ad una persona in condizioni disperate ad aiutarla.
Lo ha ribadito dai microfoni di 'Radio 24-Il Sole 24 Ore' l'oncologo di fama mondiale, Umberto Veronesi, intervenuto ancora sulla questione dell'eutanasia, la 'dolce morte', con la quale si puo' porre fine, quando non ci sono piu' speranze, all'agonia di una vita umana che se ne va.
Veronesi commenta il sondaggio che ha rivelato come in Gran Bretagna siano oltre tremila i pazienti aiutati a morire in modo clandestino. "Per me non e' - dice - una novita': il medico a volte prende l'iniziativa, questo accade pure in Italia. Abbiamo i dati inglesi perche' loro hanno fatto un'indagine coraggiosa".
L'eutanasia clandestina c'e' anche in Italia. "Lo sappiamo ma non possiamo dire come, quando, e dove succede per non far correre i rischi ai colleghi medici - aggiunge Veronesi – Solo il medico sa come il paziente preferisce morire senza dolori, senza sofferenze, quando la morte e' ormai inevitabile. E quindi le richieste per la 'dolce morte' ci sono".
Insomma, "dobbiamo riappropriarci della decisione e della determinazione delle cose importanti della nostra vita - insiste Veronesi - Dobbiamo esser liberi di programmare la nostra vita ma pure la nostra morte con dignita'". E "lo Stato deve esser laico, pur rispettando ogni religione – conclude Veronesi - L'eutanasia riguarda se stessi, tutto al piu' riguarda se stessi e il medico: a dominare dev'essere il principio della autodeterminazione e della liberta' per cui la decisione della mia vita e della mia morte dipendono dalla mia volonta', e non da quella di altri".
D'accordo con Veronesi si dicono lo psichiatra Massimo Fagioli ed i filosofi Emanuele Severino e Umberto Galimberti.
"Lo Stato non deve entrare in queste faccende esclusive e proprie del rapporto medico-paziente: ed il medico - afferma lo psichiatra - non si occupa soltanto della salute e della vita ma anche della realizzazione d'identita' del paziente. E' il medico che sa quando e come intervenire se la persona sta male, quando e se sbaglia ne risponde davanti al magistrato". Insomma non spetta allo Stato intervenire nell'attivita' propria del medico, dirgli cosa deve fare e cosa no. "Lo Stato – aggiunge Fagioli - si deve togliere di mezzo da faccende che non lo riguardano e se ci prova come ci sta provando a legargli le mani il medico ha il dovere di ribellarsi: qui si sta alterando - conclude - il rapporto con la realta', si sta tentando di distruggere l'identita' medica".
Lo Stato insomma non dovrebbe rinunciare alla laicita' che "va tutelata", avverte Severino ed aggiunge: "il suicidio non e' perseguito dallo Stato pertanto sarebbe una contraddizione se una legge dello Stato impedisse a chi materialmente non puo' farlo la possibilita' di avvalersi di un apparato medico che lo aiuti". Il suicidio volontario "e' certamente condannabile da un certo punto di vista filosofico e etico ma - spiega il filosofo dell'essere - appartiene ad una libera scelta dell'uomo, tant'e' che non e' considerato reato".
Dalle questioni personali di ciascun individuo lo Stato deve stare alla larga. "Visto che nasciamo per caso almeno ci si lasci scegliere - osserva Galimberti - come morire quando il dolore ci mette nella condizione di non riconoscerci piu' quella dignita' di esseri umani: chi non riconosce questa liberta' ha un bassissimo concetto dell'uomo". Infatti tutto ruota proprio, per Galimberti, su quale sia "il concetto" di uomo: "se cioe' gli si riconosce una dignita' - conclude - o se lo si ritiene una cosa, un oggetto, un animale".






AGI, 19.01.06
Il disturbo bipolare, piu' correttamente psicosi maniaco-depressiva come la defini' Emil Kraepelin, fatto di fasi depressive alternate a fasi maniacali, interessa tante persone, le stime parlano oltre 900 mila in Italia, insorge gia' in eta' infantile ma sulla sua eziologia, diagnosi e terapia ci sono opinioni divergenti tra le scuole di pensiero.

"E' un disturbo della fisiologia del sistema nervoso, quindi e' su base organica. La sua cura? E' farmacologica: oggi ci sono nuovi stabilizzatori dell'umore che evitano ricadute", spiega lo psichiatra Athanasios Koukopoulos a margine del convegno promosso a Roma dall'associazione Aretaeus 'Nuove evidenze sull'importanza del trattamento preventivo del disturbo bipolare'.
"Da psicosi maniaco-depressiva si e' passati ora a disturbo bipolare e aver cambiato il nome ha un significato: non c'e' la malattia mentale e la clinica, c'e' un generico disturbo bipolare che non dice nulla di clinica e di ricerca psichiatrica", avverte lo psichiatra Francesco Riggio. "Il farmaco e' un sintomatico: si da' nelle fasi acute ma – nota Riggio - non risolve alla radice la malattia per la cui cura serve la psicoterapia".

- Se la scuola organicista-farmacologica punta per l'eziologia sulle basi organiche e per la cura sui farmaci, l'altra scuola di pensiero che fa psicopatologia mira alle dinamiche non coscienti di rapporto interumano e sulla psicoterapia.
Come si arriva al disturbo bipolare? "Un mix di fattori: dai ritmi veloci della vita agli abusi di sostanze non solo droghe ma alcol, caffe' e la predisposizione – risponde Koukopoulus - Puo' comparire presto, nell'eta' infantile". I sintomi? "Irrequietezza ed insonnia, superattivita', emozioni eccessive e fiducia in se stessi illimitata – illustra Koukopoulus - seguite pero' da umore triste e apatia, angoscia e sfiducia: i primi sintomi sono propri della fase maniacale, i secondi della fase depressiva". E' poi un disturbo di cui ci si accorge? "Molto spesso no, e' silente anche se a ben osservare si notano sbalzi d'umore - dice Koukopoulus - repentini o un po' distanti tra essi: questo disturbo poi e' tra l'altro responsabile di tanti inspiegabili fatti di cronaca". E per la cura? "Oggi - conclude Koukopoulus - ci sono nuovi e piu' efficaci farmaci che stabilizzano l'umore per molto tempo cosi' da evitare ricadute". Come la 'quetiapina', la molecola del nuovo farmaco, il serequol oppure il litio.
Non ci sono solo i farmaci: c'e' anche il ricorso all'elettroshock, la cui messa in discussione e' ritenuta "un crimine verso i pazienti", precisa, infine, Kroukropoulos per il quale "l'elettroshoc e' una terapia molto piu' efficace degli psicofarmaci: e' in grado, infatti, di apportare miglioramenti cosi' rapidi da bloccare nella depressione l'atto suicida".
Tutt'altra, invece, l'impostazione della scuola di pensiero che fa psicopatologia e punta sulle dinamiche 'non coscienti' di rapporto interumano perche' la cura e' la psicoterapia.
"La diagnosi e' fondamentale, lo psichiatra deve distinguere l'eccitamento maniacale dal maniforme: il primo e' caratteristico della psicosi maniaco-depressiva, il secondo - dice lo psichiatra di 'Villa Armonia' a Roma - e' proprio della schizofrenia, come anche deve distinguere tra il ripiegamento su se stessi ed il ritiro sociale: il primo e' della depressione, l'altro della schizofrenia". Insomma, idee chiare in proposito. "Accade sempre piu' spesso che dietro un atteggiamento depressivo - avverte lo psichiatra - si cela la schizofrenia latente che e' alla base di tanti delitti efferati dove prevalgono freddezza, lucidita' ed anaffettivita'". E, ovviamente, per cogliere l'una o l'altra malattia, "non ci si puo' affidare al comportamento manifesto, al pensiero cosciente - continua Riggio - al rapporto con le cose che spesso e' congruo e preciso, ma bisogna andare alle dinamiche non coscienti di rapporto interumano, al pensiero non cosciente: ad esempio nell'eccitamento maniacale c'e' un'affettivita' scomposta, mentre quello maniforme e' fine a se stesso, freddo, non comunica nulla".
E l'elettroshoc? "E' per il paziente l'annichilimento totale equivale - risponde Riggio - a spegnere definitivamente ogni possibilita' di cura". Dunque, il confronto tra le due scuole di pensiero e' inconciliabile. "Non mi risulta che ci sia stato un genetista, Dulbecco per primo, che abbia affermato l'esistenza del gene o dei geni responsabili della malattia mentale: mi risulta invece - conclude Riggio - che c'e' una teoria ed una prassi terapeutica, l'Analisi Collettiva, che non ha fallito la cura per la guarigione della malattia mentale".










Corriere della Sera, 18.01.06
L'inchiesta dell'Eurispes: +8% rispetto a 15 anni fa
Italia, quasi l'88% si proclama cattolico
Ma solo il 37% è praticante e una larga maggioranza è favorevole ai pacs e difende il divorzio. E in molti giustificano anche l'aborto


L'87,8% degli italiani si dichiara cattolico, ma i praticanti solo solo il 36,8%. È quanto emerge da un'inchiesta dell'Eurispes, che riscontra inoltre un aumento dell'8% di chi si riconosce nel cattolicesimo rispetto a una medesima ricerca condotta 15 anni fa. Il presidente dell'Eurispes, Gian Maria Fara, spiega questi dati con la crisi non della religione ma della religiosità. Il 65,6% dei cattolici sono favorevoli al divorzio. Il 77,8% si dichiara poco o per niente d'accordo con il divieto della comunione ai divorziati risposati. Il 66% ritiene che non sia giusta la posizione del sinodo dei vescovi che vorrebbe negare l'eucaristia ai politici che sostengono leggi non conformi alla legge di Dio.

ABORTO - Sull'aborto l'83,2% del campione è favorevole nel caso in cui la madre sia in pericolo di vita, il 72,9% in caso di gravi anomalie e malformazioni del feto, il 65,1% in caso di violenza sessuale. Le percentuali scendono notevolmente al 23% e al 18,6% per quanto riguarda le condizioni economiche o la volontà della madre di non avere figli.

PACS - ll 68,7%dei cattolici italiani interpellati dall'Eurispes è favorevole all'introduzione dei pacs, i patti civili di solidarietà. Il 39% considera la convivenza come un modo per provare il rapporto prima del matrimonio e il 26,3% ritiene che la convivenza sia una scelta di vita personale mentre per il 26,8% è una scelta di chi non vuole assumersi responsabilità.

FECONDAZIONE ASSISTITA ED EUTANASIA - Il 58,7% dei cattolici è favorevole alla fecondazione assistita. Il 38,1% è favorevole all'eutanasia, il 48,1% è contrario ma gli indecisi sono il 13,8%.

GIOVANI - Si reca alla Messa tutte le domeniche il 30,8% degli intervistati tra i 18 e i 24 anni, a fronte del 22,4% e del 28,5% dei soggetti intervistati appartenenti rispettivamente alle fascia d'età 25-34 e 35-44 anni.

PREGHIERA - Per il 76,2% la motivazione principale che li spinge a recarsi in chiesa è la preghiera. Il 16,4% invece va in chiesa solo per tradizione familiare e un 14% ne avverte la necessità per trovare la «forza» nei momenti più difficili della vita. Tra le donne (77,4%) il bisogno di preghiera risulta più diffuso che fra gli uomini (74,7%).

SACRAMENTI - I sacramenti più «sentiti» dai cattolici sono quelli del battesimo, importante per l'86,8% del campione, e quello del matrimonio (85,3%). Seguono i sacramenti dell'eucaristia e della cresima. Alla confessione viene attribuito un livello di importanza decisamente inferiore. Solo il 54,3% degli intervistati (cattolici e non cattolici) afferma di credere nei miracoli, e sono assolutamente increduli il 37,2% degli intervistati. Tra coloro che hanno dichiarato di non credere ai miracoli, quasi uno su due (48,9%) giustifica il proprio scetticismo affermando che si tratta di eventi naturali, che non hanno ancora trovato una spiegazione scientifica.

POLITICA - Per quel che riguarda l'appartenenza politica, gli elettori di sinistra (71,1%) e di centrosinistra (50%) ritengono che la Chiesa intervenga più del consentito sulle questioni etiche, mentre fra i sostenitori di centro e centrodestra sono particolarmente numerosi coloro che considerano «nella giusta misura» l'intervento dell'istituzione ecclesiastica su tali problemi (rispettivamente il 66,7% e il 48,6%).





AprileOnline, 18.01.06
L’avanzata dei Teocon ed il vuoto di una politica alternativa
Piemonte. Casini e Pera sbarcano a Torino. Enorme l'entusiasmo dei presenti. Ma davvero non esistono alternative etiche non religiose in cui ci si possa identificare?
Rachele Venco


I Teocon occupano la scena piemontese, e lo fanno in grande stile.
I Presidenti di Camera e Senato Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera hanno riempito, nel giro di un paio di giorni l’uno dall’altro, due delle principali sedi di incontro di Torino, il Teatro Nuovo e l’Unione Industriale.
Appuntamenti di carattere differente – l’apertura della campagna elettorale dell’Udc per Casini, la presentazione del libro scritto da Joseph Ratzinger “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture” nel caso di Pera – ma con uno stesso significato culturale, sociale e politico: il ritorno di una fortissima componente cattolico-integralista nella dimensione della vita pubblica piemontese.
E’ indubbio che l’ondata Teocon sia un fenomeno nazionale ed internazionale diffuso, ma Torino ha confermato la propria natura di città laboratorio fornendone una sintesi limpidissima che forse dovrebbe essere analizzata con maggior attenzione.
L’incontro di sabato scorso con protagonista il Presidente della Camera era di carattere dichiaratamente elettorale, e la presenza del Ministro ai Beni Culturali Rocco Buttiglione, del Sottosegretario all’Economia Michele Vietti, dell’Europarlamentare Vito Bonsignore e di molti altri nomi illustri dell’Udc ha certamente contribuito al successo dell’evento. Ma il numero e l’entusiasmo dei partecipanti non possono essere sottovalutati, soprattutto in un contesto in cui la politica sembra aver perso la capacità di mobilitare le persone.
Aspetti questi, emersi in modo ancor più evidente nell’incontro per la presentazione del libro di Papa Benedetto XVI, dove le tre aule allestite all’Unione Industriale di Torino sono state letteralmente invase dei seguaci della Gioventù Ardente Mariana e dal movimento dei Focolarini, oltre che dai semplici curiosi.
Alto il numero dei politici in sala – in prima fila l’onnipresente Enzo Ghigo, ex presidente della Regione e possibile sfidante del Sindaco Sergio Chiamparino – ma soprattutto altissimo il numero dei giovani che hanno ascoltato, per oltre due ore, la complicata dissertazione filosofica condotta dall’Arcivescovo di Bologna Monsignor Carlo Caffarra, seguita dalla relazione del Presidente Marcello Pera sul senso dei conflitti tra valori e culture differenti.
Un intervento, quello di Caffarra, di smaccata impronta integralista, imperniato sulla critica verso il relativismo morale che affonda le sue radici nella “neutralizzazione della vita associata”, da cui dipende lo “sradicamento dell’uomo dai suoi valori”. Ai principi di “neutralità e tolleranza” l’Arcivescovo di Bologna ha contrapposto i precetti della Chiesa, sostenendo che, pur senza mettere in discussione le regole statali alla base della vita sociale, la piena realizzazione dell’essere umano può avvenire solo se ci si riconosce in un universo di valori di natura religiosa rappresentati, nel mondo occidentale, nella dottrina cattolica.
La tesi ardita ha suscitato perplessità tra gli stessi cattolici piemontesi, al punto da indurre Comunione e Liberazione alla scelta di non aderire all’incontro.
Tuttavia, a dover stupire – e forse anche a preoccupare – non sono stati tanto i prevedibili toni fondamentalisti, quanto l’entusiasmo del pubblico.
La voglia di partecipare e di trovare risposte per la definizione della propria identità sono aspetti a cui il sistema politico dovrebbe fornire soluzioni credibili, ma che al contrario oggi sono cavalcati quasi “in esclusiva” dall’agguerrito ed indisturbato movimento Teocon.
E’ difficile accettare che la ricerca di un universo morale in cui riconoscersi e da cui trarre indicazioni per orientare il proprio agire nel mondo possa trovare risposta solo nella proposta della Chiesa.
Davvero non esistono alternative etiche non religiose in cui ci si possa identificare? Forse i partiti della sinistra dovrebbero riflettere più attentamente su questa domanda.




Liberazione, 18.01.06
Il contagio vitale di questo femminismo
di Lea Melandri


Che differenza c'è tra la politica istituzionale e un movimento come quello che si è materializzato per le strade e in piazza Duomo a Milano il 14 gennaio? Forse è la domanda che sorge spontanea e che fa da sottofondo a ogni sussulto di partecipazione diretta, "dal basso", come si diceva una volta. Ma è anche, purtroppo, quella che si eclissa per prima, una volta chiuso il sipario sulle grandi manifestazioni, se non si è in grado di collocare l'emergenza in un contesto più generale di contenuti e di iniziative politiche capaci di durare nel tempo e di estendersi localmente, per contagio. Di "uscite dal silenzio" se ne sono viste molte nel nostro paese, non si può certo dire che la società italiana viva in un indifferente acquietamento consumistico e televisivo. Ma sappiamo anche quanto sia facile, per un movimento non organizzato, rientrare nell'ombra, eclissarsi dentro tortuosi percorsi carsici aspettando la prossima occasione per rivedere l'orizzonte.

La spinta ad accomunare corpi, pensieri, voci, a farsi forti di una larga condivisione di affetti, e di idee, non nasce mai dal nulla, anche se l'affollatissimo corteo di sabato scorso ha fatto gridare: miracolo a Milano! Tra chi ha temuto di veder ricomparire il fantasma della "rivolta femminile" degli anni '70, mal digerita allora e ancora più indigesta dopo che se ne è sperata e decretata la morte, e chi ha voluto a tutti i costi credere che si trattasse dell'iniziativa di una "nuova generazione", c'è la realtà di oltre vent'anni di impegno da parte di singole, gruppi, associazioni di donne che dal femminismo hanno tratto non solo cambiamenti personali, ma un'idea diversa della cultura e della politica, a partire dalla messa a tema del rapporto tra i sessi.

Questa realtà, il 14 gennaio era largamente rappresentata: donne sorprese che un vento nuovo, improvviso, le avesse fatte rincontrare nelle assemblee cittadine della vigilia, o addirittura sul treno che le portava a Milano, felici di trovarsi a fianco di persone conosciute negli anni in cui era abituale vedersi in grandi convegni nazionali, vacanze, viaggi, e poi cadute nella dimenticanza insieme alla tensione politica, che allora animava la speranza di possibili cambiamenti. Ma anche incredule nel constatare di minuto in minuto che una massa enorme, variamente composita di donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambini, non identificabili sotto particolari sigle di appartenenza, stava prendendo il posto dei cortei inconfondibili della generazione femminista separatista degli anni '70.

Non è un caso che nessun giornale abbia scritto a lettere cubitali, secondo un cliché mai tramontato e di sicuro effetto: "le streghe sono tornate". Al contrario. Il femminismo, richiamato da quasi tutti gli articoli di cronaca e di commento alla manifestazione, è stato visto per la prima volta come forza civile capace di interpretare sentimenti diffusi di insofferenza per il clima di restaurazione religiosa, deciso ad opporsi, in modo composto e determinato, alla violazione delle libertà più elementari riguardanti i corpi, le persone, le relazioni più intime.

Che questa "uscita", così vistosamente condivisa, di problematiche venute alla coscienza negli anni '70 abbia avuto al centro la questione dell'aborto, visto non più, o non soltanto, come "dramma" o "colpa" femminile, è doppiamente interessante. Non servono dotte ricerche antropologiche o psicanalitiche per sapere che le gravidanze indesiderate attraversano millenni di controllo, sfruttamento, violenza sul corpo femminile, che, se proprio si vuole parlare di genocidio, protratto e passato sotto silenzio, le prime vittime sono le donne, morte per parto, per aborti, stupri, omicidi da parte padri, mariti, amanti.


Solo Giuliano Ferrara, con cinismo e misoginia profonda, può accostare, come ha fatto a più riprese a Otto e mezzo, gli aborti selettivi a danno del sesso femminile in India e Cina alla decisione di una donna di non dar corso a una maternità che non ha scelto o che può compromettere la sua salute fisica e mentale. Significa colpevolizzare le donne in nome della stessa violenza che hanno subito, assimilare la responsabilità di culture e regimi patriarcali a una scelta personale che, pur nella sua valenza contraddittoria, risponde a una affermazione incontestabile di libertà: libertà, prima di tutto, da quella legge di natura, la capacità di generare la vita, su cui gli uomini hanno creduto di poter fissare il destino storico dell'altro sesso, cancellandone non solo la sessualità ma anche il legittimo desiderio di esistere nella pienezza di manifestazioni intellettuali, morali, relazionali.

E' vero, nessun politico dei due schieramenti ha detto finora di voler abolire la Legge 194. Ingenuità, ipocrisia, astuzia di giocolieri passata per mediazione politica? Mettiamoci d'accordo, ha detto lunedi sera a Porta a Porta Piero Fassino, si tratta di questioni "antropologiche" delicate, non è impossibile arrivare a scelte condivise tra chi è contro l'aborto e chi non lo è. Gianfranco Fini, seduto davanti a lui, giustamente annuiva. Tra uomini non dovrebbe essere effettivamente difficile trovare un'intesa su un terreno che già li accomuna nel pregiudizio antico che vuole la donna essenzialmente madre, «madre anche quando è vergine», come scriveva Paolo Mantegazza. La Chiesa ne sa qualcosa. L'unica parola d'ordine passata tra i rappresentanti della politica istituzionale è stata finora la difesa o la promozione della maternità. Che la destra cattolica integralista lo faccia portando i suoi angeli protettori o dissuasori nei consultori, e la sinistra con le politiche famigliari, i bonus per le madri o per i nuovi nati, la logica di fondo non cambia. La responsabilità maschile, nella vicenda che ha al centro la relazione più universale e più intima tra i sessi, all'incrocio tra natura e storia, tra amore e violenza, non può di certo sfuggire a chi abbia un minimo di cognizione di sé, un'attenzione sia pure fuggevole alle vite reali. Ma la difesa della maschera della neutralità sembra effettivamente che sia l'ultima sponda del privilegio maschile, almeno di quello che si affaccia dalla scena istituzionale.

Non così dal versante della società, ridotta a spettatrice di una politica sempre più separata, mossa da competizione, personalismi, ostilità manifesta e orizzonti ridottissimi. La forte presenza di uomini alla manifestazione di Milano, indetta da un'assemblea di donne, e con i contenuti inequivocabili ereditati dalla storia del femminismo, ha dentro indirettamente alcune acquisizioni nuove, importanti: l'immaginario legato all'aborto - il corpo femminile onnipotente dispensatore di vita e di morte - si va decantando; gli uomini cominciano a riconoscersi parte in causa, non certo secondaria, nel mantenere la "naturalità" del destino femminile; la centralità politica - di ogni tema politico - del rapporto uomo-donna non è più l'ossessione di poche irriducibili "vestali" del femminismo. Ciò nonostante, da questa ottica i politici ancora non vedono, non sentono, non parlano, e alcuni, ostinatamente, continuano a cercare fantasmatici "organizzatori".

Si spera che siano le donne, tornate da Milano commosse e determinate a non tornare nell'ombra, a fare comparire nei programmi elettorali la più clamorosa rimozione della storia.







Liberazione, 18.01.06
Indagine Eurispes sugli italiani. Più religiosi ma più disobbedienti
Pacs è bene. Anche per i cattolici
di Fulvio Fania


Arrivano brutte nuove per il cardinal Ruini dall'ultima indagine Eurispes sugli italiani e la Chiesa. Dopo tanto insistere sulla famiglia minacciata dalle coppie di fatto, etero o omossessuali, si scopre che nemmeno i cattolici si sono convinti. Anche loro vogliono i Pacs, non generici diritti privati per i conviventi ma esattamente quei patti pubblici che lo stesso Prodi preferisce non nominare e che il presidente della Cei considera fraudolenti "piccoli matrimoni". Scavando tra gli altri dati della ricerca, tuttavia, anche la Cei potrà trovare qualche corposa ragione di conforto. I cattolici, o perlomeno coloro che si considerano tali, sono in aumento: 87,8% della popolazione, otto punti in più rispetto a quindici anni fa. Solo una minoranza (30,6%) va a messa tutte le domeniche, i più indisciplinati sono quelli tra i 25 e i 35 anni e otto fedeli su cento entrano in parrocchia appena quattro volte nella vita: la prima per il battesimo e l'ultima per il funerale. L'attrazione per la fede cresce tra i giovanissimi, che sono zelanti alla liturgia domenicale quasi quanto gli over-65.

In compenso i cattolici appaiono sempre meno obbedienti alle gerarchie in chiesa e nella società. Tre parrocchiani su dieci non credono ai miracoli, quasi cinque vorrebbero le donne prete, il 17% è contrario al finanziamento dell'otto per mille. Emerge insomma quella religione "fai da te" che non protesta contro il clero ma resta indifferente ai suoi richiami. Papa Ratzinger ha additato questa religiosità "su misura" come una tentazione pericolosa. E la Cei sta dedicando da anni un suo "progetto culturale" al tentativo di far pesare il mondo cattolico tutto unito come una potente lobby delle idee oltre che di alcuni interessi concreti.

L'Eurispes mette invece in mostra un Paese che accetta i crocifissi nelle scuole (80,3%) ma non condivide l'opposizione alle coppie di fatto. Non c'è «zapaterismo» tra gli italiani secondo il presidente dell'istituto di ricerca, Gian Maria Fara. Un'Italia orfana delle ideologie, in fondo, non vede poi male il collante delle «radici cattoliche». Circa metà degli intervistati finisce così per apprezzare o «tollerare» la messe di pronunciamenti episcopali e vaticani sull'etica, la scuola e altri argomenti: 51,4% sulla morale e 48,8% sui temi sociali. Ovviamente la protesta aumenta tra gli elettori di sinistra (71%) e di centro sinistra (50%).

Ciò non significa però che la maggioranza degli italiani sia disposta a tradurre le posizioni del Papa in legge dello Stato. Proprio qui, anzi, si delinea l'aspetto più interessante della ricerca.

Se passiamo infatti alle leggi e ai comportamenti concreti quanti cattolici sono favorevoli ai Pacs? Il 68,7%, poco meno della media complessiva che è del 71,1%. E un altro 12% non si è fatto ancora un'idea precisa. Anche per il divorzio si conferma una forte maggioranza tra gli stessi cattolici: una percentuale del 65,6%, poco inferiore a quella sul totale degli intervistati (69%).

C'è poi voluto un Sinodo dei vescovi per ribadire che i divorziati risposati non possono ricevere la comunione ma il 61% non accetta "per niente" questa decisione.

Quanto all'aborto, l'indagine aiuta a scandagliare meglio gli umori dell'opinione pubblica. Di una condanna totale dell'interruzione di gravidanza nemmeno a parlarne tra gli stessi fedeli. In caso di pericolo di vita per la madre o di gravi malformazioni del feto è un vero plebiscito a favore dell'aborto: quasi il 90% e l'83 tra i cattolici. Maggioranza favorevole anche dopo una violenza sessuale (88%) e per difficoltà economiche (51%) ma stavolta il consenso si abbassa tra i cattolici rispettivamente al 62 e al 23%, per scendere infine al 18,6% di fronte alla domanda se sia legittimo l'aborto "quando la donna non vuole figli".

I vescovi sanno bene che un'abolizione tout court della legge 194 sarebbe decisamente impopolare. Per questo hanno scelto una strada più duttile: dicono di volerne attuare i propositi di prevenzione. Ed ecco allora l'idea del ministro Storace di infilare i volontari antiaborto nei consultori. Non c'è da giurare che tutti gli intervistati dall'Eurispes sapessero che cosa sono i "movimenti per la vita" ma alla domanda se sia giusto inserirli nelle strutture pubbliche il 71% dei cattolici e il 41% dei non cattolici ha risposto di sì. Facile scommettere che questo dato verrà contrapposto a tutti gli altri di segno contrario. Eppure ce n'è uno che dovrebbe far riflettere - spiegano i ricercatori - sul reale grado di informazione che ha spinto la maggioranza degli italiani a disertare le urne nell'ultimo referendum. Il 62,5% degli intervistati - il 58,7 tra i cattolici - si dichiara infatti favorevole alla fecondazione assistita mentre resta alta, al 10%, la percentuale degli incerti. Sull'eutanasia il Paese si divide a metà, tra il 42 e il 44%, e i cattolici sono naturalmente i più contrari alla "buona morte" ma certo sarà una sorpresa per la Chiesa apprendere che 38 fedeli su cento accettano la possibilità di staccare la spina.









Liberazione, 18.01.06
E' ora di volgere lo sguardo dalla sola produzione alla riproduzione
Diritti di genere, mettiamoli al centro della politica
di Monica Lanfranco


Lunedì mattina presto, durante il programma radiofonico "Prima pagina", nel quale a turno opinionisti (quasi sempre uomini) sottopongono all'ascolto la rassegna stampa e si confrontano con il pubblico, arriva una telefonata: un ascoltatore giovane, qualificandosi come elettore di centrosinistra, racconta di aver votato Prodi alle primarie e chiede al collega di turno se non pensa sia giusto che il leader dica con chiarezza, all'indomani delle manifestazioni del 14 febbraio, in particolare quella sui Pacs, se il futuro governo si attiverà o meno sull'equiparazione delle famiglie.

«Io - afferma - sono fermamente contrario ai Pacs per gli omosessuali; un conto sono le unioni tra donne e uomini, che possono scegliere se sposarsi in chiesa o civilmente, un conto è equiparare la famiglia tradizionale a quella gay». Legittimo pensiero; sull'aborto non si pronuncia, l'elettore di centrosinistra, quindi il suo parere non lo sapremo, ma non c'è da ridere.

Decenni di silenzio, non quello delle donne (in molte, tante, di fare e di parlare non hanno mai smesso, mi permetto di ricordare) ma piuttosto mi riferisco all'assordante vuoto di parole e fatti delle sinistre, e soprattutto all'interruzione di pratiche di condivisione e trasmissione della cultura dei diritti, hanno creato questo paradosso: un giovane di centrosinistra non riconosce come fondamento del suo essere di centrosinistra che l'estensione dei diritti è la chiave per conservare e garantire i propri; che questo allargamento è l'unica strada per scongiurare la deriva clerico fascista dei fondamentalismi nostrani e di quelli importati, che è l'alternativa ad un governo, e ad una cultura, che sta mettendo in pericolo i pilastri della democrazia. E, soprattutto, il suo attaccamento alla radicale visione patriarcale su famiglia e generi dice come appaia immutabile, persino in un giovane uomo, la prospettiva sulla realtà e sulla società.

Mi permetto di scommettere che, se il discorso fosse scivolato sull'aborto, sarebbero spuntati i diritti dell'embrione: quelli sì importanti, quelli sì da tutelare contro l'arrogante e non compassionevole donna, la cui capacità riproduttiva, da sola, non le attribuisce il merito di poter decidere in autonomia.

Quando si toccano argomenti così grandi, e si hanno risposte così piccole e anguste, non si può far altro che prendere atto che il lavoro da fare è enorme, in questo paese; se non si ha la fortuna di avere una classe politica (e forse una società civile) coraggiosa come quella spagnola, che fa del tema dei diritti di genere una questione di governo, e non un dibattito culturale interessante ma irrilevante, allora bisogna rimettersi in gioco e riposizionare le priorità, e farlo subito. Dire forte e chiaro alle giovani generazioni, distratte o preoccupate da altre questioni, tutte importanti ma maggiormente focalizzate (per esempio il lavoro, il peso del denaro, la libertà di pensiero) che la capacità riproduttiva femminile è la risorsa più preziosa del pianeta, e non solo quella concreta che mette al mondo creature di carne. E' necessario che le quaranta-cinquantenni che sono tornate in piazza riprendano voce, con generosità non oblativa, ma con maieutica determinazione per dire, alle figlie e alle sorelle minori, nelle scuole, nei partiti, nei movimenti e nelle associazioni che il mondo ha bisogno delle capacità e dei talenti femminili perché se non si volge in tempo lo sguardo della politica verso la riproduzione, piuttosto che solo sulla produzione (economica e commerciale) il pianeta esploderà.

E' urgente mettere con le spalle al muro i propri amici, fratelli, compagni, amanti e colleghi nella vita privata come in quella pubblica chiedendo loro quanto sono disposti a cedere e a condividere con le donne, in termini di risorse, spazi e potere decisionale, pareggiando un conto storico asimmetrico che vede le donne reggere da sempre e quasi totalmente il peso del lavoro di cura. Facendo chiarezza, e non temendo di affermare, che nel lavoro di cura non c'è solo l'aspetto più ovvio e legato alla dimora privata: solo restando nei confini locali di nazione, se analizziamo le leggi che le donne hanno fortemente voluto, e i cambiamenti che hanno generato nella società, nessuno potrà negare che queste trasformazioni sono state migliorative per entrambi i generi.

Lo si dice poco, lo si ricorda ancora meno, e così non lo si trasmette come bagaglio fondante a chi si affaccia alla politica e alla vita: occuparsi della collettività, migliorare le regole condivise per garantire al massimo livello la libertà e le differenze è lavoro di cura. Con il divorzio, il diritto di famiglia, l'aborto, la legge contro la violenza sessuale, i congedi parentali questo paese ha visto crescere, non diminuire, la sua possibilità di civiltà. Questa è stata, è, e deve essere considerata politica: spesso abbiamo pudore a dirlo, e invece va scandito forte e chiaro, agli uomini e alle giovani generazioni. Non ci accontentiamo di una manifestazione, facciamo diventare l'autodeterminazione femminile una priorità ad ogni livello.











Liberazione, 18.01.06
L'idea del ministro: diritti solo per le madri legittimamente sposate
La donna di Buttiglione, non ancora cittadina
di Lidia Menapace


Arrivata in pullman da Milano a Bolzano insieme alla folta (quasi un centinaio!) delegazione locale (abbiamo avuto uno strepitoso successo con i nostri slogans bilingui che davano un tocco esotico alla manifestazione: "Eins zwei drei, ma quando te ne vai?, vier fuenf sechs jetz kommt die neue Hex', sechs acht vier und jetz bestimmen wir", uno due tre, ma quando te ne vai, quattro cinque sei, arriva la nuova strega, sei otto quattro adesso decidiamo noi), stanca ma felice come si scriveva da bambini nei diari della domenica, sono riuscita ancora a sentire Buttiglione e Livia Turco a "Primo piano". Lascio stare Turco, che ha detto cose condivisibili e corrette, voglio fermarmi su Buttiglione che mi ha fatto una strana impressione: stretto tra Turco e Bianca Berlinguer non aveva vita facile, ma uno non è mica ministro per niente! Dopo un primo tentativo di delegittimare la manifestazione (non erano "le donne", ma solo alcune donne e forse non la maggioranza ecc. e altre sciocchezze) è caduto in una sorta di atteggiamento addolorato e avvilito: mi pareva sincero: era - come dire? - un uomo arcaico sofferente. Non so dire se sia peggio o meglio di quelli che sono moderni e stronzi, ma certo è più ragguardevole eticamente, anche se irrimediabile culturalmente, si direbbe.

Buttiglione ha una idea della donna che non la comprende come cittadina, in sostanza le donne sono ancora a ben prima della Rivoluzione francese, dato che hanno diritti solo se madri legittimamente sposate, altrimenti sono oggetto solo di beneficenza derivata dal marito legittimo che hanno. Vi par possibile? eppure quando parlava di donne ha sostenuto che la reversibilità della pensione è un "risarcimento" della carriera non avuta per seguire i figli e il marito (dei quali sono appendici o dipendenti: potrebbero dunque essere licenziate per matrimonio o maternità?) e non credo saprebbe come giustificare, se non come una moderna perversione, il fatto che è reversibile anche la pensione della moglie verso il marito (e sarebbe giusto che lo fosse, nelle due direzioni, anche per le coppie di fatto, ovviamente). A queste è disposto a dare beneficenza solo se ci sono figli. L'idea di riformare l'organizzazione del lavoro - anche di quello domestico - in modo che avere figli sia una scelta esercitabile serenamente, senza dover rinunciare ad essere quello che si è nel lavoro in società ecc. non lo sfiora nemmeno: il lavoro spetta agli uomini, le donne stanno a casa a fare bambini. Qui si capisce il profondo legame che ci fu tra politica demografica del regime fascista e appoggio incondizionato della Chiesa cattolica, ma siamo appunto nell'arcaismo più straordinario. Buttiglione come alcuni pezzi di cattolicesimo preconciliare (Lefebvre, Opus Dei, Comuniono e liberazione) non sembra accettare (come invece ha detto il Vaticano II) che il fine primario del matrimonio sacramentale non sia più la riproduzione, ma il mutuo amore e aiuto e si inceppa ogni volta che incontra un legame che non abbia prole (sarebbe facilissimo avere il riconoscimento di nullità del matrimonio canonico se valesse tale convinzione). Ma un atteggiamento simile lo fa poi addirittura crudele verso persone che magari si mettono insieme perché anziane, che hanno o stringono un legame affettivo e fanno coppia, ma naturalmente non hanno figli (che siano etero od omo): debbono dipendere dalla beneficenza e non mettere insieme legittimamente le loro risorse economiche o l'alloggio o la cura ecc. Tremendo!

Uno stato sociale fondato su una cultura simile sarebbe solo una forma nemmeno tanto moderna di stato assistenziale con discriminazioni aspre tra persone e con allargamento delle aree di dipendenza invece che di quella di libertà. Non so davvero se Buttiglione sia recuperabile. Ma questi sono fatti suoi: per noi vale che è un ministro in carica e la costituzione vigente (che ha giurato di rispettare) all' art. 3. fa obbligo, come uno dei compiti fondamentali della Repubblica, di rimuovere le cause che ostacolano il pieno sviluppo delle persone come singoli e nelle formazioni sociali in cui si svolge la loro vita: sicché non può legittimamente sostenere come ministro che lo sviluppo della persona è sottoposto a una delle più viete visioni veterocattoliche, che persino per la Chiesa forse sono un po' eretiche. Questo a nostra volta non ci riguarda, noi che possiamo e dobbiamo invece fortemente richiedere il rispetto pieno della Costituzione da un ministro e parlamentare in carica.

Non dimentico di dire che il risultato delle due manifestazioni del 14 gennaio non può essere se non la richiesta formale e precisa che nei programmi politici per le prossime elezioni sia scritto esplicitamente il rispetto pieno di tutte le libertà, compresa la libertà di indirizzo sessuale e di scelte riproduttive.















Liberazione, 18.01.06
Quale Marx per il XXI secolo? Una risposta polemica
La lotta di classe non è uno sparo nel buio
di Riccardo Bellofiore


Un recente intervento dell'amico Roberto Finelli su Liberazione del 13 gennaio mi costringe a reintervenire su un punto specifico, ma importante. Finelli, infatti, mi dedica alcune righe del tutto arbitrarie, sostenendo che io parlerei «delle virtù congenite di opposizione, e di non riduzione all'astratto, del lavoro vivo», e aggiungendo che per lui, diversamente da me, lavoro vivo significa «erogazione, capitalisticamente mediata, di lavoro da parte della forza-lavoro».

L'arbitrarietà sta nel fatto che Finelli non può portare nessuna citazione a sostegno di quanto dice, per la semplice ma decisiva ragione che chi scrive si è sempre battuto contro qualsiasi posizione che appunto affermi la suddetta virtù, o che non veda la natura forzata ed eterodiretta del lavoro vivo sussunto al capitale, proprio nei termini in cui ne parla il mio interlocutore. Tant'è che per me sfruttamento è, innanzi tutto, imposizione a tutto il lavoro vivo della sua natura astratta, per il tramite di una continua rivoluzione morfologica del modo di produrre.

Su questa base, sin dai miei primi scritti, ho portato avanti critiche dure tanto alle posizioni di Napoleoni, quanto a quelle dell'operaismo di Tronti e Negri, e ultimamente alle derive di Revelli. Tutte cose su cui dunque, per dirla un po' brutalmente, Finelli non ha molto da insegnarmi; e, anzi, potrebbe magari andarsi a rileggere utilmente i miei scritti per evitare di attribuirmi posizioni che non solo non ho, ma che fanno a pugni con quello che noiosamente ribadisco, un giorno sì e l'altro pure. Insomma, a me pare che la critica di Finelli sia frutto semplicemente di disattenzione.


Questa disattenzione, e questa critica un po' sbrigativa e infondata, costituiscono un vero peccato, anche se, capisco, sono un po' comode per rispondere ad un critico: permettono infatti di eludere il nodo vero su cui ruota la mia critica. Non ho affatto svolto una critica al Marx dell'Astratto, a cui anche io mi rifaccio, e che non è certo proprietà privata di Finelli.

Né ho svolto un attacco complessivo alle posizioni dello stesso Finelli: essendo un po' più aperto di quanto lui non sia al riconoscimento pubblico dei propri debiti intellettuali, reputo infatti le sue tesi sul metodo del presupposto-posto e sulla dialettica come dissimulazione, e più in generale sul rapporto tra Marx ed Hegel, passi avanti decisivi nella lettura di Marx.

Ho semmai affermato due cose, su cui sarò breve. La prima è che l'erogazione di lavoro vivo - come lavoro ad un tempo astratto e concreto: in un nesso dove le determinazioni concrete sono evidentemente sussunte al processo dell'astrazione - è sempre incerta, prima dello svolgimento effettivo del processo immediato di produzione. Un terzo del Capitale, a torto ritenuto una deviazione "storica", è dedicato a mostrare lo svolgersi dell'antagonismo sull'estrazione di lavoro. Non è dunque per niente scontata una traduzione automatica della capacità di lavoro in lavoro in atto, dopo la compera-vendita della forza-lavoro da parte del capitale variabile: su questo, peraltro, verte la critica di Marx a Ricardo nelle Teorie sul Plusvalore, e insiste la Luxemburg nella Introduzione all'economia politica. Ora, che non sia scontata, non significa evidentemente rifarsi a chissà quale naturale e umanistica capacità di opposizione del lavoro vivo, che non è proprio nelle mie corde, visto che, di nuovo da sempre, sono un sostenitore di una indagine integralmente immanente del capitale, e del rapporto sociale di produzione su cui si fonda la valorizzazione. Al contrario. Il capitale, per costituirsi come tale, deve riuscire ad impedire che una mediazione sociale e politica, e l'organizzazione della classe operaia, siano in grado di costruire - a partire dal luogo "centrale" del lavoro sfruttato, e sulla base non soggettivistica di questa costitutiva indeterminazione ex ante del lavoro vivo effettivamente estratto - una resistenza efficace allo sfruttamento capitalistico. Qualcosa che (ripeto) non è affatto data nelle cose. Di qui, la necessità da parte del capitale di mettere in piedi un comando e una subordinazione "oggettivi", impersonali e astratti, che passano necessariamente dalla forma del progresso tecnologico, e oggi anche dai mutamenti nella sfera della finanza. Finelli me lo consentirà: sui modi storici con cui il capitalismo ha realizzato tale sussunzione del lavoro al capitale ho scritto non poco, da una posizione tutto meno che ingenuamente conflittualista, e che sempre insiste sulla natura "totalitaria ma antagonista" del capitale.

Qui c'è però una differenza tra me e Finelli. Ciò che gli contesto è che la sua posizione teorica non è in grado di sostenere le sue (sensate) considerazioni politiche, per come si ritrovano per esempio ribadite nell'ultimo articolo su Liberazione, e che quasi integralmente condivido. Detta altrimenti: nel suo marxismo dell'astratto c'è il totalitario, ma non si vede base categoriale alcuna per introdurvi l'antagonismo. E non c'è perché quella problematicità dello sfruttamento capitalistico di cui parlo è per lui, per il suo schema teorico, semplicemente inconcepibile. Si capisce a questo punto che la lotta di classe deve fare la sua comparsa come uno sparo nel buio - volessi essere un po' cattivo, direi che è proprio in Finelli, e non in me, che l'antagonismo tra lavoro e capitale può essere introdotto solo sulla base di un presupposto non posto. A meno che non si voglia ricadere, ma non mi pare il caso di Finelli, in un leninismo un po' volgare. E qui, devo dire, la posizione di Tomba mi pare del tutto compatibile con le mie considerazioni.

Sulla seconda cosa che ho sostenuto nel mio pezzo su Liberazione, sarò, per ragioni di spazio, telegrafico. Finelli, che con qualche forzatura ha svolto in un suo libro recente un efficace parricidio del Marx giovane, è però un credente nella esaustività e non problematicità del Marx maturo, in quanto Marx dell'Astratto. Per mio conto, credo che quel Marx, per un verso, non si sia realizzato al massimo delle sue potenzialità, e per un altro verso sia insufficiente. Dovremmo essere capaci di fare come Marx: non semplicemente ripetere un Marx già dato, che profeticamente sarebbe oggi "sempre più vero" (salvo contestarne l'antropologia), ma riscrivere un Marx "economista politico critico" all'altezza dei tempi. Il che richiederebbe di rendersi conto che l'astrazione del lavoro di cui parla Marx è qualcosa che si costituisce all'incrocio tra produzione e circolazione, include una ante-validazione monetaria da parte del sistema bancario, impone una determinazione dall'alto delle proprietà concrete del lavoro che non è riducibile a un movimento lineare di deconcretizzazione. Tutti punti su cui Marx, il Marx dell'Astratto, non basta - anche se è l'unico da cui (ri) partire, e a cui necessariamente si deve tornare. Qui l'atteggiamento di Finelli mi pare pericoloso, perché con il suo atteggiamento, che scherzosamente definirò "ultra-ortodosso", ci impedisce quel parricidio del Marx maturo di cui avremmo un gran bisogno. Quel parricidio è condizione necessaria per sviluppare una rinnovata analisi di classe della realtà che abbiamo di fronte, e magari per camminare sulle nostre gambe e assumendoci le nostre responsabilità. Così, magari, la teoria marxiana tornerà ad essere, invece che filosofia dell'alienazione (come per gran parte della riflessione di Colletti o Napoleoni) o sogno di una nuova antropologia (come per Finelli), innanzi tutto critica dell'economia politica. Senza credere che, su questo terreno almeno, tutto si sia fermato nel 1867.



Repubblica, 17.01.06
Un'indagine Eurispes sul rapporto con la fede sottolinea il distacco tra il paese reale e le gerarchie ecclesiastiche
Cattolici italiani favorevoli ai Pacs e anche a divorzio e aborto


ROMA - Gli strali della Chiesa sulle unioni civili non condizionano i fedeli: un'indagine Eurispes rivela che il 68,7% dei cattolici italiani è favorevole ai Pacs. E che hanno visioni discordanti da quelle della Chiesa anche su altri temi scottanti: il 65,6% dei cattolici difende infatti la legge sul divorzio e il 77,8% è contrario al divieto dell'eucarestia ai divorziati. Persino in tema di aborto i cattolici divergono dalla visione ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche e l'83,2% si dichiara favorevole all'interruzione volontaria di gravidanza se la vita della madre è in pericolo; il 72,9% se ci sono gravi anomalie e malformazioni del feto e nel 61,9% in caso di violenza sessuale. La percentuale, cala notevolmente se le motivazioni sono più attinenti alle condizioni economiche o alla volontà della madre di non avere figli: rispettivamente al 26,4% (23% cattolici e 51,2% non cattolici) e al 21,9% (18,6% cattolici e 45% non cattolici).

L'indagine dell'Eurispes fotografa il rapporto tra gli italiani e la fede cattolica, tra adesione e disobbedienza, contenuto nel Rapporto Italia 2006. E' stata condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 1.070 intervistati e realizzata nel periodo tra il 22 dicembre 2005 e il 5 gennaio 2006.

L'indagine rileva che sono aumentati i cattolici (87,8%), un dato in crescita di 8 punti percentuali rispetto a un analogo sondaggio effettuato sempre dall'Eurispes quindici anni fa. Allo stesso tempo, solo un terzo dei credenti sembra essere anche "praticante". "I dati emersi delineano - spiega il professor Gian Maria Fara - una crisi non della religione, ma della religiosità". "La realtà è che in Italia, tra la Chiesa cattolica ed i propri fedeli c'è la stessa discontinuità che esiste, politicamente parlando, tra paese ufficiale e paese reale - sottolinea Fara - le gerarchie ecclesiastiche non sembrano corrispondere, nell'elaborazione dell'indirizzo religioso, alle difficoltà e alle istanze dei fedeli cattolici".

Il rapporto Eurispes rivela anche un forte desiderio di religiosità tra i giovani. La percentuale dei ragazzi che affermano di partecipare alla messa domenicale è superiore a quella dei soggetti più grandi di età: si reca alla messa tutte le domeniche il 30,8% degli intervistati che hanno tra i 18 e i 24 anni d'età, a fronte del 22,4% e del 28,5% dei soggetti intervistati appartenenti rispettivamente alle fascia d'età 25-34 e 35-44 anni. La quota più alta (37,7%) dei soggetti che si recano in Chiesa appartiene invece alla fascia d'età 65 anni ed oltre.










Panorama, 16.01.06
Bene e male Quale dei due papi ha ragione?
Parlando sull'agire di Dio nel mondo, Benedetto xvi ha citato il «Faust» di Goethe. Ma con una interpretazione opposta a quella data da Wojtyla. Perché? Riflessioni su un tema cruciale per il Cristianesimo.
di Vito Mancuso


Può capitare che due papi si trovino in disaccordo su un punto fondamentale della dottrina cristiana? Nella storia è capitato, per esempio tra Benedetto XII e Giovanni XXII sul tema della vita eterna. Ma era il 1336. Oggi si direbbe di no, invece capita ancora. L'oggetto del disaccordo è il male, uno dei temi cruciali, più dibattuti e sofferti per il Cristianesimo, visto che «non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia una risposta al problema del male».
Nel libro Memoria e identità (Rizzoli, 2005) Giovanni Paolo II tratta del comunismo e del nazismo e si chiede il senso del loro apparire nella storia: «Ciò che veniva fatto di pensare era che quel male fosse in qualche modo necessario al mondo e all'uomo. Succede, infatti, che in certe concrete situazioni dell'esistenza umana il male si riveli in qualche misura utile, in quanto crea occasioni per il bene». Poi, per rafforzare la tesi del male necessario e talora utile, aggiunge: «Non ha forse Johann Wolfgang von Goethe qualificato il diavolo come "una parte di quella forza, che vuole sempre il male e opera sempre il bene"?».

Nell'omelia dell'8 dicembre 2005 in San Pietro, particolarmente importante perché oltre all'Immacolata concezione si celebrava il quarantesimo del Vaticano II, Papa Benedetto XVI ha criticato la concezione secondo cui «noi pensiamo che il male in fondo sia buono, che di esso, almeno un po', noi abbiamo bisogno per sperimentare la pienezza dell'essere. Pensiamo che Mefistofele, il tentatore, abbia ragione quando dice di essere la forza "che sempre vuole il male e sempre opera il bene"».
Da cardinale, nel volume Fede, verità e tolleranza pubblicato in Italia da Cantangalli nel 2004, aveva scritto: «Il male non è affatto come Goethe vuole mostrarci nel Faust, una parte del tutto di cui abbiamo bisogno, bensì la distruzione dell'essere. Non lo si può rappresentare, come fa il Mefistofele del Faust, con le parole: "una parte di quella forza che vuole sempre il male e opera sempre il bene"».

È evidente che il conflitto sul Faust va al di là dei gusti personali dei pontefici in letteratura. La diversa valutazione della medesima frase di Goethe (che, a metà dicembre, era stata notata anche da Sandro Magister e Antonio Socci) indica due modalità opposte di pensare il ruolo teologico del male, ovvero (perché è di questo che si tratta) l'agire di Dio nel mondo. Giovanni Paolo II, che cita Goethe a sostegno, dice che il male rientra nel progetto divino, è voluto, quindi è necessario, addirittura utile. Benedetto XVI, che contrasta Goethe, dice che il male non rientra nel progetto divino, non è voluto, quindi non si può definire né necessario né utile.

Chi ha ragione? Chi dei due esprime al meglio l'idea cristiana di Dio? La cosa si complica perché dietro Giovanni Paolo II vi sono molte affermazioni bibliche, patristiche e magisteriali. Scelgo, tra tutte, questa di Sant'Agostino: «Dio onnipotente, essendo sommamente buono, non lascerebbe assolutamente sussistere alcunché di male nelle sue opere, se non fosse onnipotente e buono fino al punto da ricavare il bene persino dal male».
Da qui l'articolo 58 del Compendio del Catechismo: «Dio non permetterebbe il male, se dallo stesso male non traesse il bene». Parimenti vi sono molte affermazioni bibliche, patristiche e magisteriali a sostegno di Benedetto XVI. Per esempio questa, sempre di Sant'Agostino: «Contempla il bene stesso se puoi: allora vedrai Dio». Da qui l'articolo 57 del Compendio: «Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male».

Ora, chiunque voglia ragionare vede l'impossibilità logica di far convivere queste due prospettive, perché se è vera la prima (Dio permette il male) non può essere vera la seconda (Dio non lo vuole, neppure indirettamente). Com'è possibile infatti permettere una cosa se non volendola, almeno indirettamente come mezzo per raggiungere un fine? Senza considerare, peraltro, che col dire che Dio permette il male in vista di un bene maggiore gli si attribuisce la logica, eticamente riprovevole e sempre condannata dalla Chiesa, del fine che giustifica i mezzi. Torna quindi la domanda: a proposito del male chi ha ragione, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI?
È chiaro che non servirebbe a nulla (com'è solita fare una certa teologia curiale) contrapporre a questa analisi altri passi dove Giovanni Paolo II parla di Dio come amore, e altri ancora dove Benedetto XVI parla di Dio come onnipotenza. È chiaro che ve ne sono, li conosco anch'io. Ma questo non fa che peggiorare il problema, perché sposta la contraddizione all'interno degli stessi pontefici. Non si esce dall'aporia mediante citazioni, ma solo mediante il lavoro del pensiero, condotto con onestà intellettuale e amore per il Cristianesimo.

Tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI io penso che sia quest'ultimo ad avere ragione. Goethe, che negli Epigrammi veneziani affianca la croce di Cristo alla puzza dell'aglio, è incompatibile col Cristianesimo. Per Goethe il bene e il male non esistono, e chi continua a pensare il mondo in termini morali è un immaturo che non ha capito nulla della vita. Il Diavolo è quella forza «che vuole sempre il male e opera sempre il bene» perché il bene e il male non esistono, esiste solo la vita, che non è né bene né male, è «al di là del bene e del male» come vuole Friedrich Nietzsche, nemico per eccellenza del Cristianesimo e grande ammiratore di Goethe. «Noi ci intendiamo anche riguardo alla croce» scrive di lui nel Crepuscolo degli idoli. Ma per il Cristianesimo il male c'è, a Gesù non è mai passato per la testa di pensare l'azione di Satana come finalizzata al bene.

Ma allora perché Giovanni Paolo II si è rifatto a Goethe? Che cosa c'è in quella frase che l'ha affascinato? C'è la possibilità di pensare la razionalità della natura e della storia. La frase di Goethe è parsa al Pontefice poter sostenere la concezione teologica tradizionale della storia e della natura come razionali e governate, sulla quale si reggono molti elementi della dottrina e della morale. Nella natura ci sono mille casi di malattie e di catastrofi. Prendiamo l'handicap.
Se è vero che la vita viene direttamente da Dio (come vuole la teologia tradizionale della natura per salvare la quale Giovanni Paolo II si rifà a Goethe), perché alcuni figli degli uomini nascono così? Se la biologia umana è governata da Dio, che cosa dire a quei genitori il cui figlio nasce così? Chi tra i cristiani accetta la frase di Goethe, pensa che dietro quelle nascite vi è la mano di Dio, che vuole punire oppure salvare mediante il valore espiativo del dolore innocente, il quale quindi risulta necessario e utile.

Chi rifiuta la frase di Goethe pensa che Dio non ha nulla a che fare col male che si abbatte sugli uomini, che quindi non è necessario né utile. Ma mentre la prima prospettiva rende plausibile la tradizionale teologia della natura, la seconda no. Non è infatti logico proclamare l'estraneità di Dio di fronte al male fisico che tocca la natura e poi sostenere la razionalità della natura e la sua conformità al volere divino di fronte, per esempio, al ciclo della fertilità della donna. Se la natura è libera, è libera sempre. Se la natura è governata, è governata sempre.

Secondo Goethe, la natura e la storia sono governate sempre, perché non c'è nulla, per quanto terribile, che non rientri in un più armonico disegno. È la stessa visione di G.W.F. Hegel e prima ancora degli stoici, e che, come mostra Giovanni Paolo II, si trova anche nel Cristianesimo. Chi rifiuta la frase di Goethe ritiene che il male non avviene perché progettato dall'alto, e che quindi la natura e la storia procedono all'insegna della libertà. È la visione di Immanuel Kant e prima ancora di Platone, che, come mostra Benedetto XVI, si trova anche nel Cristianesimo.
Ma com'è possibile che due visioni opposte sussistano insieme? Lo è solo a patto di generare oscurità e malessere nelle anime dei cristiani, come avviene regolarmente ogni volta che si tocca il tema del male. La «ripulitura filosofica del Cristianesimo» auspicata da Simone Weil dovrebbe iniziare da qui.