sabato 17 dicembre 2011

l’Unità 17.12.11
«Fermiamo il razzismo prima che sia tardi»
Il presidente della Toscana: «Verso la xenofobia c’è stata troppa tolleranza Cittadinanza per i figli di immigrati e diritto di voto sono le nostre battaglie»
intervista di Osvaldo Sabato


In ricordo di Mor Diop e Samb Modou, uccisi a Firenze dall’odio razziale di Gianluca Casseri, autore anche del ferimento di Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike. È per non dimenticare che oggi nel capoluogo toscano ci sarà un corteo, sono attese 8mila persone, senza né musica e né slogan, come ha chiesto la comunità senegalese. La strage al mercato di piazza Dalmazia e al mercato di San Lorenzo per il presidente della Toscana, Enrico Rossi sono episodi di «terrorismo razzista».
«L’Italia e la Toscana non sono certo isole felici, stanno in un quadro europeo dove ormai si ripetono questi fatti di terrorismo» dice Rossi lanciando il suo allarme. La memoria del presidente toscano va anche a quanto accaduto a Caserta nel 2008 «dove la camorra uccise sei immigrati africani». Oppure il razzismo che negli anni ‘90 spinse un gruppo di ultras fiorentini ad assalire con mazze da baseball un gruppo di nordafricani «al grido lavoro agli italiani, botte agli africani». Quello di Rossi è un film sull’orrore razzista, che in Italia rischia di non avere mai fine. «Fa paura la percezione di un certo consenso diffuso, emerso sul web con chi inneggiava dopo quanto era successo a Firenze, anche sul mio sito ci sono stati almeno due messaggi di questo tipo».
Il suo è un allarme che non lascia tranquilli.
«Se è vero che l’Europa si trova davanti a questo fenomeno, per certi aspetti nuovo, di terrorismo razzista alimentato dalla paura del diverso e che sul diverso scarica le proprie angosce, frustrazioni, il sentimento di una fortezza assediata e in declino. La reazione deve essere forte e senza indugi. Il Presidente Napolitano ha usato parole appropriate: bisogna bloccare la cultura razzista. Per un certo periodo verso la xenofobia e il razzismo c’è stata troppa tolleranza, troppo lassismo, da parte di un po’ di tutti, da parte della cultura, delle forze politiche. Io non vorrei alzare l’indice contro nessuno, specie di questi tempi. Ma penso che anche il linguaggio della politica e di certi settori della politica debba cambiare, debba ripulirsi». Lei chiama la politica alla propria responsabilità.
«È necessario che tutte le forze politiche facciano della battaglia contro il razzismo un punto di forza, un punto qualificante. Forse rischia di essere troppo tardi».
In Italia fino a qualche settimana fa c’era al governo la Lega Nord, che da sempre fa politica contro lo straniero. In questo clima è possibile cambiare rotta?
«Noi abbiamo il dovere di chiedere alla Lega Nord di cambiare il suo linguaggio e la sua politica, dobbiamo chiederglielo di porre questo come una discriminante assoluta. Non dimentichiamo che la destra democratica francese non sta insieme ai seguaci di Jean-Marie Le Pen. Noi su questo dobbiamo alzare una nostra barriera».
Crede che ci sia anche un problema di investigazione?
«Penso che ci sia. Io ho apprezzato molto l’iniziativa della procura di Firenze di aprire un’indagine sui siti che esprimono questa ideologia razzista. Sarebbe opportuno rafforzare la legge Mancino. Quello che accade non può che scuoterci».
La cittadinanza a chi nasce in Italia e il diritto di voto agli immigrati. Il nostro paese è pronto?
«Dovrebbe essere l’impegno prioritario. Noi in Toscana abbiamo fatto una legge sui diritti sociali agli immigrati, ci è stata confermata dalla Corte Costituzionale, nonostante il ricorso della destra. Nella nostra regione nascono circa 30mila bambini l’an-
no e circa 8mila sono figli di genitori non italiani. Mi sembra evidente che se non gli riconosciamo la cittadinanza gli prepariamo un futuro difficile. Questo mi sembra il primo passo che il Parlamento dovrebbe fare, oserei dire in modo concorde. Bisogna lavorare per far sentire questi bambini veramente fratelli d’Italia. Poi c’è un altro dato pesantissimo: il 10% della forza lavoro di questo Paese, non ha diritto di voto, anche su questo il Parlamento deve rapidamente provvedere, consentendo la partecipazione alle elezioni comunali, provinciali, regionali, secondo la gradualità alle elezioni politiche. Questo sarebbe un passo enorme verso l’integrazione. Su tutto ciò siamo molto indietro».
Domani (oggi per chi legge n.d.r) lei andrà al corteo. La comunità senegalese ha chiesto una manifestazione silenziosa.
«Ci sarò. Sono morte due persone, una ferita gravemente, altre due sono in ospedale e mi sembra che in questo modo si voglia dare più sobrietà».

l’Unità 17.12.11
Ricordiamoci di non dimenticare
di Moni Ovadia


La sanguinosa strage compiuta con una magnum 357 dal neonazista Gianluca Casseri, ha causato la morte di due venditori ambulanti senegalesi Samb Modou di quarant’anni e Diop Mor di cinquantaquattro anni. I colpi sparati con l’unico intento di uccidere hanno anche ferito in modo gravissimo Sougou Mor di 32 anni e Mbenghe Cheike di 42.
Questo crimine razzista fa seguito al Pogrom con tanto di rogo contro un campo rom a Torino originato dalle bugie di una adolescente terrorizzata da genitori di mentalità arcaica.
Solo per un caso quel gesto feroce e d’intento omicida di cosiddetta gente per bene non ha fatto bruciare vivi degli esseri umani colpevoli solo di essere quello che sono. Non dimentichiamolo quando sentiamo o leggiamo i neonazisti vomitare il loro odio in piazza e sulla rete, i leghisti ragliare i loro pregiudizi per raschiare qualche voto. Questo è il frutto pestilenziale delle loro parole.
Non dimentichiamolo quando vediamo politici furfanti inalberare sul loro cranio ipocrita la kippà ebraica nel giorno della memoria e subito dopo discriminare i rom, invocare la cacciata dei clandestini e riabilitare il fascismo in talk show revisionisti, poco storici e molto squallidi.
Ricordiamo invece i commercianti fiorentini del mercato di piazza Dalmazia che hanno chiuso le loro botteghe per lutto e i tanti cittadini della bella Firenze che hanno portato fiori come si fa per i propri concittadini perché quei senegalesi lo sono.
Non dimentichiamo che se i tiranni, i folli e i carnefici riescono a mietere il loro raccolto di morte è perché la gente "per bene" chiude gli occhi di fronte alle ingiustizie.

l’Unità 17.12.11
L’esclusione dei Rom? Illegale e costosa
di R. Kushen D. Gergely


Il 16 novembre, pochi giorni dopo la fine del governo Berlusconi, il Consiglio di Stato ha sottolineato con una sentenza l’inadeguatezza delle politiche rivolte ai Rom dal governo italiano. Grazie al ricorso presentato dalla nostra organizzazione, il Centro Europeo per i Diritti dei Rom, il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo lo stato di emergenza nomadi decretato dal governo Berlusconi nel 2008 e vigente fino ad oggi.
Lo stato di emergenza rendeva legali le enormi violazioni dei diritti dei 170.000 Rom che vivono in Italia, composti sia da cittadini italiani che da migranti (alcuni arrivati recentemente, altri da 20 anni o più) spacciando la situazione dei Rom come emergenza, il governo ha intrapreso una vasta campagna di intimidazione e minaccia dei Rom su base etnica. Se da un lato i funzionari del governo italiano hanno alimentato la paura della “criminalità Rom”, dall’altro i poteri dettati dall’emergenza hanno reso un crimine essere Rom. È stato condotto un censimento obbligatorio dei Rom che vivono in Italia, operazione che ha comportato il prelevamento delle impronte digitali e il fotosegnalamento, in violazione della legge europea per la protezione dei dati di carattere personale. Sono state illegalmente controllate le loro case e sgomberati migliaia di Rom, distruggendo beni di loro proprietà e rendendo molti di loro dei senzatetto. I Rom sono stati segregati in campi in cui l’accesso è controllato dalla polizia municipale o guardie private. Le comunità sono state vessate e minacciate e le loro famiglie separate a causa di arresti e detenzioni.
Lontani dalla brutale realtà in cui sono costretti a vivere i Rom in Italia, ben intenzionati burocrati europei hanno invitato gli stati membri, Italia inclusa, a elaborare strategie nazionali per l’integrazione dei Rom. Tali strategie dovrebbero affrontare in maniera molto concreta l’esclusione dei Rom da settori fondamentali quali l’istruzione, l’occupazione, l’alloggio e la salute. Le strategie nazionali dovrebbero individuare obiettivi concreti (ad esempio l’impegno a porta-
re al 90% la percentuale dei bambini Rom che termina gli studi) da raggiungere con piani realistici e identificare risorse certe per attuare tali piani. Inoltre, risorse europee sono a disposizione degli stati per la realizzazione dei piani.
Il destino di questo mandato europeo rimane incerto: alcuni Paesi membri hanno iniziato a produrre strategie che sono lontane dall’essere adeguate. A un mese dalla scadenza stabilita dall’Unione Europea per la fine dell’anno, le nostre fonti di informazione nel governo italiano indicano che l’Italia ha appena iniziato a elaborare la sua strategia di integrazione dei Rom che dovrebbe essere pronta soltanto entro febbraio/marzo 2012.
La crisi finanziaria che ha colpito l’Italia e l’Europa potrebbe indurre il presidente del Consiglio italiano Mario Monti e altri leader europei a dare bassa priorità a tale mandato. Sarebbe un errore. Come dimostrato da alcuni studi condotti dalla Banca Mondiale in diversi Paesi europei, il costo economico dell’esclusione dei Rom è spaventosamente alto. I bambini Rom non adeguatamente istruiti non possono lavorare e i Rom disoccupati non contribuiscono alla produttività, non pagano le tasse e sono un onere per il welfare. Inoltre la segregazione sistematica e la discriminazione distruggono il tessuto sociale di un Paese. Lo stesso Gianfranco Fini ha riconosciuto che la visione berlusconiana di un’Italia mono-etnica è una fantasia pericolosa.
*European Roma Rights Centre

La Stampa 17.12.11
Intervista
“Case e stabilità ai rom per battere il razzismo”
Il ministro Riccardi: “In Italia un clima di tensione, i più deboli a rischio”
di Andrea Rossi


Torino, l’assalto al campo Sabato scorso il campo rom della Continassa è stato assaltato e dato alle fiamme dopo la denuncia di uno stupro rivelatasi in seguito infondata. Due le persone arrestate
Firenze, la strage in strada Martedì scorso Gianluca Casseri, 50 anni, scende per le strade del mercato di San Lorenzo a Firenze e spara uccidendo a freddo due venditori senegalesi e ferendone altri tre

L’ odore acre delle lamiere bruciate. Una ventina di rom s’aggira spaesata tra i muri anneriti e gli scheletri delle baracche. «Non ci è rimasto niente. Nessuno ci aiuta». Il ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione Andrea Riccardi si muove tra i ruderi, affonda i piedi nelle carcasse delle roulotte. «Non si può vivere così». Due giorni dopo aver fatto visita ai senegalesi feriti a Firenze, incontra gli scampati al rogo del campo nomadi di Torino. Segnali d’inquietudine in un Paese avvolto nelle spire della crisi.
Ministro, i morti di Firenze e il raid di Torino sono la spia di un’intolleranza che ha rotto gli argini?
«Sono un campanello d’allarme. Non possiamo liquidare questi avvenimenti a fatti passeggeri. Sono un rischio per l’integrazione e la tenuta del nostro Paese. E dimostrano che la crisi non è solo economica, ma molto più profonda».
La matrice è la stessa?
«No. A Torino c’è stato un atto di razzismo collettivo, a Firenze un gesto folle, compiuto da un folle imbevuto di premesse ideologiche».
Però, in entrambi i casi, la rabbia si è riversata sugli stranieri.
«Questi episodi di violenza ci ricordano l’odio che alberga nel cuore dell’uomo. E ci dicono che dobbiamo stare molto attenti in questa fase di crisi economica. Non vorrei che si innescasse un clima di tensione, dovuto ai sacrifici imposti, che si scarichi sui più deboli».
Vede lo spettro di un conflitto tra ultimi?
«Tra generazioni: giovani e anziani, divisi da lavoro e pensioni. E tra penultimi e ultimi, in lotta per servizi e tutele. In questo contesto gli immigrati sono più esposti. E i rom i più in difficoltà».
Le richieste di sgomberare i grandi campi nomadi si moltiplicano. È la soluzione giusta?
«Strutture fatiscenti, in cui vivono anche donne e bambini, non sono più sostenibili per ragioni di accoglienza e sicurezza. L’Italia è un Paese civile, deve superarle, anche se non è semplice».
Come?
«Con nuove forme di accoglienza, garantendo almeno i requisiti igienicosanitari fondamentali. Credo si debba lavorare alla stabilizzazione di rom e sinti nelle case, perché la vita in una casa favorisce l’integrazione e il superamento della provvisorietà. Sono un popolo giovane. Investiamo sui loro figli, sulla scolarizzazione».
Spesso sono loro a rifiutare le sistemazioni proposte. Come se ne esce?
«Con il dialogo. E aiutando, tramite i rimpatri assistiti, chi vuole tornare nel proprio paese d’origine».
La questione dell’immigrazione viene affrontata in maniera troppo muscolare?
«Dobbiamo stare attenti alle parole. Possono essere pericolose. Siamo diventati una società verbalmente violenta. E la predicazione del disprezzo verso alcuni gruppi, in particolare le minoranze, è da non sottovalutare. Ricordo le parole di Jules Isaac, storico francese di origini ebraiche, che perse moglie e figlio durante l’Olocausto: attenti al disprezzo, perché può essere fonte di molti mali».
Cosa serve per scongiurare il rischio di conflitti sempre più aspri?
«Nuove politiche per l’integrazione. I giovani nati da genitori stranieri non hanno una doppia identità. Hanno un’identità più ricca. Spetta a noi trovare le forme per riconoscerla».
Il presidente della Repubblica si è detto favorevole a concedere loro la cittadinanza. Lei?
«È lì che si manifesta la debolezza del nostro sistema. I bambini nati in Italia da genitori stranieri che vivono qui da anni che cosa sono se non italiani? Possiamo non considerarli tali quando parlano un italiano a volte migliore di certi coetanei? ».
Le resistenze sono molte. La rete è stata invasa di messaggi che inneggiano ai fatti di Firenze e Torino.
«Nel Paese esistono tante energie sane. Sono rimasto colpito dalla reazione di tante persone ai fatti degli ultimi giorni. Significa che gli italiani sono meno spaventati di quel che appare. Sui loro timori aleggia una strumentalizzazione politica da cui ci dobbiamo liberare. Troppo a lungo sono stati segnati da questa predicazione del disprezzo».
A Torino lei voleva visitare una sede della Lega Nord nel quartiere multietnico di San Salvario in cui si offre assistenza a molti stranieri. Perché alla fine non è andato?
«Avevamo preso accordi con il responsabile di quell’ufficio. Visitando uno dei quartieri simbolo dell’integrazione riuscita mi sembrava giusto incontrare tutte le realtà che hanno dato un contributo. Evidentemente qualcuno all’ultimo ha cambiato idea. Non faccio polemiche, ma non disturbo chi non mi vuole».

Repubblica 17.12.11
Il ministro tra i rom del campo incendiato da un raid razzista. Un deputato parla di "presenza non gradita"
Torino, Riccardi "bloccato" dai leghisti salta la visita al quartiere degli immigrati
Il titolare dell´Integrazione: "Io non vado a disturbare chi non mi vuole"
di Marco Ansaldo


TORINO «Visitando uno dei quartieri simbolo, in Italia, dell´integrazione riuscita mi sembrava giusto incontrare tutte le realtà che hanno contribuito a questo risultato. Ma, all´ultimo momento, qualcuno ha cambiato idea. Io non faccio polemiche, e non vado a disturbare chi non mi vuole».
Andrea Riccardi, nuovo ministro della Cooperazione internazionale e dell´Integrazione, va a Torino per vedere il campo rom incendiato una settimana fa, ma la Lega si defila, anzi è pronta a contestarlo e a chiudergli in faccia la sede del patronato che gestisce nel quartiere di San Salvario. Addirittura, il governatore della Regione Piemonte, Roberto Cota, prima gli fa sapere che la sua visita non è opportuna; poi non appare nemmeno per salutare il ministro della Repubblica in visita ufficiale nel capoluogo piemontese.
È l´ennesimo strappo della Lega nei confronti del governo Monti. Il gesto di attenzione fatto dal fondatore della Comunità di Sant´Egidio, ora ministro con un ruolo centrale nel nuovo esecutivo, viene rifiutato dal Carroccio. «La presenza del ministro Riccardi annuncia il deputato torinese lumbard Stefano Allasia non è assolutamente gradita in nessuna delle sedi della Lega Nord, in particolare in quella di San Salvario. Il ministro, che peraltro nessuno conosce, invece di portare la propria solidarietà in giro per il Paese a spese dei cittadini, può tornare a Roma, perché da noi non è persona bene accetta».
Riccardi è abile a smontare subito la polemica. Avrebbe voluto andare a parlare di immigrazione in un «quartiere che si è ricostruito, sia sotto il profilo urbano sia sotto quello sociale». Così la sua decisione di non visitare il patronato, ma invece la struttura dei salesiani che aiuta gli immigrati e un centro dove si insegna gratuitamente l´italiano ai bambini stranieri, rischia di trasformarsi in un autogol per chi, secondo le informative giunte alle autorità locali, si preparava a contestarlo non appena Riccardi sarebbe comparso.
È invece il sindaco Piero Fassino ad accompagnare il ministro dell´Integrazione. In mattinata Riccardi va a constatare i danni del raid razzista compiuto nel campo rom alla periferia di Torino. Percorre l´intera l´area parlando con tutti, stringe mani, si informa sui disagi, manifesta partecipazione. «Come siete riusciti a scappare?», chiede. Promette che farà il possibile per i documenti di identità bruciati. «I campi rom vanno superati annuncia c´è un problema reale di abitazione e di istruzione, c´è il problema del futuro di questo popolo formato in gran parte di giovani. Come si fa altrimenti?». L´obiettivo è di trovare case per coloro che ne hanno bisogno. Riccardi aveva prima visitato la sinagoga e incontrato tanti amici ebrei. Più tardi ascolterà le storie di molti ragazzi fuggiti dal Ghana, dal Senegal, dal Mali. «La gente commenta è spaventata dalla predicazione del disprezzo. Bisogna stare attenti alle parole. Dobbiamo puntare sui giovani, e costruire con loro un Paese più forte, più energico e pieno di speranza».

l’Unità 17.12.11
Non chiamiamoli clandestini
I migranti che giungono sulle nostre coste in pieno giorno mostrano i loro volti e sono disarmati nudi, inermi. Anche i media mettano al bando quella parola che evoca chi trama e agisce nell’ombra
di Luigi Manconi


Va da sé che l’Italia non è «un Paese razzista». E c’è da chiedersi se vi sia al mondo un Paese definibile come razzista. Non c’è dubbio tuttavia, che vi siano stati sistemi politici organizzati secondo linee di discriminazione razziale, tracciate da conflitti etnici e da legislazioni discriminatorie; ed è altrettanto ovvio che quelle strutture non siano state bandite una volta per sempre, ma tendano a riprodursi.
Diverso è il discorso relativo all’orientamento culturale e alla mentalità condivisa della popolazione di uno stato democratico. È qui che la definizione di «Paese razzista» sembra davvero difficile da attribuirsi. Qui, certo, possono svilupparsi movimenti xenofobi e scontri etnici; qui possono essere adottate leggi e politiche discriminatorie: ma ancora siamo assai lontani da poter definire «razzista» la popolazione di quello Stato. In tutti i Paesi europei, negli ultimi due decenni, si sono manifestati movimenti e partiti fondati sull’ostilità nei confronti degli stranieri, che hanno conosciuto alterne fortune elettorali.
In Italia il principale partito xenofobo, la Lega Nord, non ha fatto della lotta contro l’immigrazione il suo primo obiettivo, pur collocandolo in cima al proprio programma, ma ha sempre privilegiato il tema della secessione. E, tuttavia, la sua costante polemica contro lo Stato centrale ha sempre avuto una sua aggressiva ricaduta nella stigmatizzazione dello straniero; e, dalla cruciale postazione del ministero dell’Interno, nella politica dei respingimenti. Ciò ha fatto della Lega il primo degli imprenditori politici dell’intolleranza. Ovvero coloro che trasferiscono nella sfera politica e utilizzano come risorsa elettorale il disagio prodotto dal faticoso impatto tra residenti e immigrati. Qui sta il nodo cruciale dell’intero problema.
L’ansia collettiva nei confronti dello straniero, tanto più in una fase
di acuta crisi economica, è un sentimento spiegabile: la traduzione di quel sentimento in conflitto politico è la più scellerata e colpevole delle strategie. Tutto ciò sembra diventare infine chiaro, ma c’è qualcosa che continua a essere costantemente sottovalutato e che rischia di risultare un formidabile fattore di precipitazione delle situazioni di crisi. È la questione del linguaggio. Finalmente si incomincia ad affrontare il tema, ma esso è così sottile e pervasivo da non essere sempre colto nella sua criticità, in particolare quando si presenta con una sua «innocenza», dovuta a una supposta neutralità. Ciò riguarda in particolare quello che forse è il termine più utilizzato nel vocabolario dell’immigrazione: clandestino. A questa parola si fa ricorso, da tempo, con speciale riferimento a coloro che sbarcano sulle nostre coste. Vi ricorrono gli organi di informazione più insospettabili, o perché incapaci di cogliere il terribile peso colpevolizzante che il termine porta con sé, o perché incapaci di sottrarsi all’omologazione linguistica dominante. E così vengono chiamati clandestini i meno clandestini tra tutti i migranti: quanti giungono sulle nostre coste in pieno giorno o sotto la luce abbagliante di fari, riflettori, telecamere e flash, mostrando i loro volti allo sguardo invadente della curiosità dei residenti e di noi tutti, palesemente privi di ogni cosa e totalmente disarmati, nudi o semi nudi, piagati o febbricitanti, comunque assolutamente inermi. Per questi esseri umani, costretti a mostrarsi nella loro «nuda vita», i democraticissimi e tollerantissimi operatori dell’informazione usano il termine clandestino. Che evoca, piuttosto, la figura di chi agisce nell’ombra, trama nel buio, ci minaccia alle spalle. È solo un esempio delle peripezie, talvolta perverse, che conosce il linguaggio. Molto opportunamente l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, d’intesa con l’Unhcr, con l’adesione di Arci, Acli, Amnesty International, Centro Astalli, A Buon Diritto e molti altri, ha promosso la cosiddetta Carta di Roma.
In essa si affronta la questione della «informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, (...)con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità (...)». Di conseguenza, i promotori invitano i giornalisti ad «adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore e all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri». Molto giusto. Speriamo che la Carta di Roma, come si dice, non resti sulla carta.

l’Unità 17.12.11
5x1000 a Casapound Pd e Idv: niente soldi a chi fomenta odio


L’ultima campagna per spingere sostenitori e simpatizzanti a devolvere il 5 per mille a Casapound campeggia ancora sul sito dell’associazione. Recita: «Rendi forti i vecchi sogni».
Altro che chiudere Casapound. «Questo governo deve rivedere tutti gli elenchi delle associazioni che ricevono il 5 per mille e deve dare un segnale forte escludendo tutte quelle associazioni in cui proliferano l’odio e la violenza contro i diversi», chiede dalla direzione del Pd Lazio Cristiana Alicata: «Dopo i recentissimi atti di violenza perpetrati da alcuni esponenti e simpatizzanti di Casapound è necessario che il Paese capisca come fermare questa violenza gratuita di matrice ideologica, fascista e razzista», insiste l’esponente del Pd del Lazio, chiedendo anche a tutti i parlamentari del Pd
di intervenire presso il governo. «Se persone come Casseri e Zippo trovano accoglienza in questi luoghi a pieno titolo è necessario stabilire che allora questi luoghi non possono far parte di un elenco a cui donare il 5x1000», ribadisce.
Un appello che il segretario romano del Pd Marco Miccoli fa subito suo. «È aberrante che un’organizzazione come Casapound possa usufruire di sovvenzioni come il 5 x 1000», osserva Miccoli: «Noi siamo dell’idea che tutti i luoghi che alimentano, con le loro iniziative, l’odio razziale e la violenza fascista debbano essere chiusi e non debbano avere possibilità alcuna di esserefinanziati».
Una battaglia rilanciata anche dal sentare Idv Stefano Pedica: «Continuo ad unirmi all’appello di coloro i quali di Casa Pound ne chiedono la chiusura», precisa Pedica, ma «sottoscrivo anche la proposta di abolire la sottoscrizione del 5 x1000».

il Fatto 17.12.11
Nel mirino anche Napolitano
I leghisti su Facebook: “A Firenze due in meno”
di Federico Mello


Sono leghisti e su Facebook hanno le idee molto chiare: “A Firenze meglio così, due in meno”; ma anche: “Dovremmo equiparare i gay ai pedofili così Vendola la finisce di fare il ricchioncello per strada”.
Se hanno fatto orrore i deliranti messaggi nazisti lasciati sul web dopo l’agguato ai ragazzi senegalesi di Firenze, dello stesso tono sono i messaggi lasciati sul gruppo Facebook – seppur chiuso – “Padani si nasce” fondato da un giovane militante doc: Eros Domenico. A svelarlo è stato sul sito dell’Espresso, Daniele Sensi, un bravo blogger che in questi anni si è distinto come cane da guardia digitale degli eccessi leghisti. Fino a pochi giorni fa i “Padani” erano al governo, esprimevano addirittura il ministero dell’Interno. Ma questo non ha impedito anche a big del Carroccio, da Reguzzoni a Rondini, di iscriversi a un gruppo come “Padani si nasce”. Poco importa, evidentemente, che in Italia si assista a un’escalation del razzismo. Basta mettere i fatti in fila: l’agguato ai rom a Torino e la strage di Firenze. Ma non solo. A Caserta, anche se la notizia non è andata oltre le pagine della cronaca locale, la scorsa settimana un’alunna della scuola media Giannone ha preso un 7 invece del 9 del suo compagno che aveva fatto un compito uguale al suo. Dopo la richiesta di spiegazioni la risposta ricevuta dalla prof è stata: “Tu non sei come gli altri, sei nera”. Sono in corso indagini, ma i compagni di classe hanno confermato l’accaduto.
Su “Padani si nasce” l’andazzo è anche peggiore. Il presidente Napolitano diventa “un terrone del cazzo”, un “vecchio di merda” per il quale qualcuno minaccia addirittura “un colpo in testa”; contro i clandestini si propone “una bella bomba così saltano in aria” – non era stato l’eurodeputato Speroni a proporre di “sparare ai clandestini”? – Anche Remo, un odontotecnico di Padova, ce l’ha con gl’immigrati che “quando vengono da me, hanno un odoraccio peggio delle capre”, per loro “ci vorrebbe il lanciafiamme”. Anche questa è l’Italia.
Pape Diaw, portavoce dei senegalesi a Firenze, accusa nel video diventato virale su YouTube: “Veniamo da dieci anni di politiche dell’odio. Abbiamo una destra molto feroce, abbiamo avuto attacchi feroci anche da parte di membri del governo che si potevano permettere di insultare gratuitamente gli immigrati alla televisione pubblica. Questo accade solo in Italia perché in qualsiasi altro paese verrebbe denunciato”. Vale per chi incita all’odio su Face-book e per chi spargeva odio dagli scranni del governo.

il Fatto 17.12.11
L’Olanda fa i conti con i preti ventimila vittime di pedofilia
Una commissione elenca i reati della Chiesa cattolica dal 1954 a oggi
di Alessandro Oppes


Ventimila vittime, con il silenzio complice della gerarchia cattolica. Dopo l'Irlanda e gli Stati Uniti, l'Olanda si aggiunge alla lista nera dei paesi nei quali per decenni la Chiesa ha tollerato la vergogna degli abusi sessuali nei confronti dei minori in scuole, seminari e orfanotrofi. La commissione d'inchiesta guidata dall'ex ministro della Cultura democristiamo Wim Deetman, in un dettagliatissimo rapporto di 1200 pagine, denuncia le responsabilità di 800 religiosi nelle violenze e abusi compiuti a partire dal 1945 e almeno fino al 1981. Sotto accusa, la Conferenza episcopale e le congregazioni religiose, per il loro “silenzio e l'abbandono delle vittime”. Il documento rivela che la Chiesa è sempre stata al corrente dell'esistenza del problema della pedofilia al suo interno, ma ha preferito “lavare i panni sporchi in famiglia”. Dice Deetman: “Si cercarono soluzioni, compresa una presunta cura per la pedofilia, all'interno degli ordini religiosi. Ma la gerarchia era al corrente del problema degli abusi sui minori sin dal 1945. Lo sapevano”.
SIA I VESCOVI sia i superiori delle congregazioni religiose avrebbero dovuto informare la Santa Sede dei casi dei quali venivano a conoscenza. “Non sempre lo facevano – denuncia la commissione – Hanno applicato soluzioni interne pensando più all'aggressore che alle vittime”.
La commissione ha ricevuto quasi duemila denunce ed è riuscita a individuare i nomi di 800 autori di abusi, fra preti e laici, 150 dei quali sono ancora viventi, anche se non esistono informazioni dettagliate su quanti di essi siano ancora in attività e quanti siano stati rimossi o trasferiti dalle autorità ecclesiastiche. Nonostante la Chiesa sia stata sempre al corrente di quello che accadeva al proprio interno, ora la Conferenza episcopale reagisce con indignazione alle notizie che emergono dal rapporto. “Siamo sconvolti dagli abusi e dalle pratiche nettagliate nel documento – dicono in una nota – Questi episodi ci riempiono di vergogna e di dolore”. Ma alle “sincere scuse” della gerarchia, le associazioni delle vittime replicano con un duro atto d'accusa: “Il volto della Chiesa cattolica del passato non ci dà garanzie per sperare in un futuro migliore”.
GIÀ NELLE SCORSE settimane, prima ancora che si concludesse l'indagine della commissione, la Chiesa olandese aveva annunciato che si impegnerà a compensare le vittime degli abusi compiuti fra il 1960 e il '70. Per il momento, si prevede di stanziare almeno cinque milioni di euro a titolo di compensazione: dai 5000 euro nei casi di “insinuazioni o gesti sessuali che attentino contro l'integrità fisica o mentale del minore” fino ai 100mila per chi subì “abusi prolungati con conseguenze psichiche permanenti”. Un primo passo verso una completa ammissione di responsabilità dopo che, quando un giornalista di Radio Nederland cominciò nel febbraio del 2010 a rivelare lo scandalo, il cardinale Simonis (la figura cattolica più rilevante del paese) sorprese tutti dicendo: “Non sapevamo niente”.

La Stampa 17.12.11
Il rapporto della commissione d’inchiesta sugli anni 1945-2010
Olanda, 1 bimbo su 5 molestato in oratorio
Quasi 1800 denunce. Sotto accusa la chiesa liberal
di Giacomo Galeazzi


Lo scandalo pedofilia affonda la Chiesa olandese che, con l’interpretazione progressista del Vaticano II, intendeva modernizzare la fede

Dopo la deriva d’Irlanda, nel «clero infedele» si apre il fronte olandese: «Decine di migliaia di minori hanno subito abusi». Sono stime (e non ancora dati certi) basate su 1.795 segnalazioni. Lo scandalo pedofilia affonda la Chiesa «liberal», il laboratorio che, con il suo «catechismo» ultramoderno e l’interpretazione progressista del Concilio Vaticano II, intendeva modernizzare la fede e portare aria nuova nei Sacri Palazzi. Dal 1945 al 2010 in Olanda decine di migliaia di bambini e ragazzi hanno subito abusi sessuali in istituti ecclesiastici e centri cattolici.
La commissione d’inchiesta indipendente presieduta dall’ex ministro Wim Deetman è arrivata a una conclusione-choc identificando 800 autori di abusi (preti e personale laico), di cui 150 viventi. Un minore su cinque tra quelli entrati in relazione con strutture della Chiesa olandese dal 1945 al 2010 è stato costretto a subire abusi.
Si avvera la «profezia» di Benedetto XVI. Nella lettera ai cattolici d’Irlanda, il Papa aveva indicato tra le cause degli abusi i costumi rilassati del clero e l’accresciuta tolleranza «post-68» verso la libertà sessuale. Il disastro nella super-aperta Chiesa olandese gli dà ragione. La commissione stima che i minori che hanno subito violenze siano tra i 10 e i 20 mila; altre decine di migliaia sono stati vittime di comportamenti inappropriati.
Gli abusi sono per lo più palpeggiamenti, ma nel rapporto si parla di «diverse migliaia» di casi di stupro. Crimini consumati nelle istituzioni cattoliche che dovevano prendersi cura dei minori: convitti, seminari, orfanotrofi. «Gli ordini hanno avuto a che fare con questi casi. L’affermazione che la gente non sapesse e che gli amministratori non sapessero è insostenibile», denuncia la commissione. Di fronte a 800 molestatori, i vescovi olandesi e i capi degli ordini si dichiarano «scioccati» ed esprimono «vergogna e dispiacere».
Il dibattito sulle responsabilità dello scandalo è aspro all’interno della Chiesa dei Paesi Bassi. Secondo alcuni, tutto è nato dopo il Concilio, quando la Chiesa olandese spingeva per riformare in senso «liberal» il suo stesso Dna. Fu il cardinale Bernard Jan Alfrink, arcivescovo di Utrecht, a pubblicare con l’appoggio di diversi teologi (tra cui il domenicano Edward Schillebeeckx) un nuovo catechismo, portatore di grandi aperture sui temi dell’omosessualità, dell’aborto, delle pratiche anticoncezionali, del sacerdozio delle donne e del celibato dei preti. Per altri, invece, queste posizioni, seppure non condivisibili, sono il segnale di una Chiesa che non elude certi problemi.
Fino a pochi mesi fa il principale interprete di questa Chiesa in dialogo con il mondo era Adrianus Herman van Luyn, vescovo di Rotterdam, salesiano. Il 18 gennaio il Papa ha accettato le dimissioni per raggiunti limiti di età. Le gerarchie si impegnano adesso a «rendere giustizia alle vittime e ad aiutarli a guarire nella misura del possibile», ma le attuali procedure non bastano: «Può essere fatto ancora molto per aiutare le vittime e vogliamo contribuire personalmente a ciò». Ratzinger si è impegnato più di chiunque altro contro gli abusi del clero. Gli insabbiamenti vengono puniti: nel mondo 40 vescovi sono stati rimossi.

il Fatto 17.12.11
Suicidio assistito, ragioni e torti / a favore
Sei al giorno vi sembran pochi?
di Carlo Troilo


Concludiamo oggi, con l’intervento di Carlo Troilo dell’Associazione Luca Coscioni e la risposta di Marco Travaglio, la discussione de “Il Fatto” sul suicidio assistito, iniziata il 2 dicembre dopo la morte di Lucio Magri.

CI SONO DIVERSE cose che non condivido nell’articolo di Marco Travaglio (“Il medico salva, non uccide”) sulla vicenda di Lucio Magri. Vado per punti. Travaglio dice che è ipocrita parlare di “suicidio assistito” e invece si deve parlare di “omicidio del consenziente”. E cita l’articolo 575 del codice penale, che a mio avviso non c’entra con il caso Magri poiché riguarda tout court l’omicidio. Vi sono invece altri due articoli sulle scelte di fine vita: il 579, che riguarda il reato di “omicidio del consenziente”; il 580, che si occupa di “istigazione o aiuto al suicidio” (come dire di “suicidio assistito”), ed è quindi quello applicabile al caso Magri. In entrambi i casi sono previste pene detentive molto severe. Ma, imprecisioni a parte, quel che colpisce è il fare riferimento a un codice penale emanato 80 anni fa, nel 1930, in pieno regime fascista. Un codice che negli anni Settanta – quelli del divorzio e dell’aborto – ha visto spazzati via, grazie alle dure battaglie di politici “riformisti” come i socialisti e i radicali, numerosi articoli ormai in insanabile contrasto con il comune sentire (tra gli altri, il delitto d’onore, il matrimonio riparatore, l’adulterio e il concubinato).
IN SECONDO luogo, l’articolo parla del “muro invalicabile” costituito dal “giuramento di Ippocrate”. Travaglio sembra trascurare due dati di fatto: 1) che una eventuale legge sull’eutanasia prevederebbe naturalmente (come già nei paesi che l’hanno legalizzata) l’obiezione di coscienza per i medici, la stessa che nel caso dell’aborto viene invocata dal 70,7% dei ginecologi italiani; 2) che, secondo studi molto autorevoli, negli ospedali oltre il 60% dei malati terminali muore proprio con l’aiuto dei medici, i quali evidentemente sanno coniugare il giuramento di Ippocrate con l’umana pietà per chi soffre inutilmente. L’eutanasia clandestina, dunque, è un fenomeno di massa in Italia. E forse proprio per questo la quasi totalità delle forze politiche ha più volte respinto la richiesta dei Radicali di un’indagine parlamentare su questo tema. Perché è meglio seguire l’insegnamento della Chiesa: si fa ma non si dice. In terzo luogo, a Travaglio sembra impossibile – nel caso di una legge sull’eutanasia – definire quali patologie la consentano (ed egli afferma tra l’altro, un po’ apoditticamente, che “nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è irreversibile”). E fa balenare il caso di “un parente ansioso di ereditare” che mente al medico sulla volontà del suo congiunto per accelerarne il decesso e passare all’incasso. Eppure, nei paesi in cui l’eutanasia è già legale, le patologie sono state precisamente definite e i controlli contro gli abusi sono rigidissimi. La stessa clinica in cui è morto Magri respinge oltre la metà delle richieste di suicidio assistito per mancanza dei presupposti medici.
INFINE, Travaglio scrive che “il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della ‘libertà’, di un Paese. E quando i suicidi sono troppi – aggiunge – il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e trovare i rimedi”. Ebbene, l’Istat ci dice che nel 2008 sono stati 2828 i suicidi “riusciti”, 3327 quelli “tentati”. Sul totale di oltre 6000, circa 2000 erano malati terminali: il doppio dei morti sul lavoro, per i quali giustamente si indignano sindacati e partiti. E non sapremo mai il numero dei suicidi per i quali medici amici certificano la “morte naturale” per evitare ai familiari quella sorta di riprovazione morale che ancora, assurdamente, circonda il suicidio. Essendo il fratello di un malato terminale che nel 2004 ha trovato la sua “uscita di sicurezza” gettandosi dal quarto piano, domando a Travaglio: sei suicidi al giorno possono essere definiti “troppi” o non bastano ancora per “trovare i rimedi”, cioè per affrontare il tema della eutanasia?
*Associazione Luca Coscioni

il Fatto 17.12.11
Suicidio assistito, ragioni e torti /contro
Morte di Stato: no, grazie
di Marco Travaglio


RISPONDO IN BREVE alle contestazioni di Carlo Troilo e a quelle (pubblicate mercoledì) di Maurizio Mori a proposito del “suicidio assistito”. Brevemente perché Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta, intervistato dal Fatto mercoledì, ha già chiuso la questione con parole definitive. Mori sostiene, in base alla sua “logica”, che chi chiede aiuto a un medico per farla finita rimane padrone della sua vita, così come il risparmiatore rimane proprietario dei suoi beni anche se li affida a una banca e come l’elettore rimane titolare della sua sovranità politica anche se la delega a un parlamentare.
MA IL PARAGONE non regge: chi chiede aiuto a un medico per suicidarsi la vita la perde, mentre chi affida i suoi risparmi alla banca lo fa per svilupparli, non per farseli rubare; e chi delega la sua sovranità politica a un parlamentare lo fa perché quello tuteli meglio i suoi interessi e quelli generali, non perché lo cancelli dalla società. Infatti il Codice pena-le punisce le banche che rubano i soldi dei clienti e i politici che si fanno gli affari propri, esattamente come punisce (giustamente) il medico che toglie una vita invece di fare di tutto per salvarla. Troilo si meraviglia che io citi il Codice penale “emanato 80 anni fa, nel 1930, in pieno regime fascista”: con questa “logica” dovremmo abolire le pensioni, solo perché il sistema previdenziale è nato durante il Ventennio. O dovremmo rendere lecito l’omicidio solo perché a punirlo è il Codice “fascista”. Si dirà: il Codice penale può essere aggiornato. Certo. Io però mi auguro che continui a punire chiunque provoca la morte di un altro uomo innocente. Sia nel caso dell’omicidio classico, sia in quello dell’“istigazione o aiuto al suicidio”, sia in quello dell’“omicidio del consenziente”. Ringrazio Troilo di avermi ricordato la differenza fra i tre reati, che peraltro conoscevo bene: l’importante, per me, è che restino reati. Nessuno, per quanto si arrampichi sugli specchi, è ancora riuscito a spiegare come possa un medico, che ha il dovere di salvare vite, tradire anzi ribaltare di 180 gradi la sua missione spegnendole con un’iniezione letale. Lo so che molti lo fanno di nascosto: il che non mi pare un buon motivo per consentirgli di farlo a norma di legge. Un sacco di gente ruba: che facciamo allora, legalizziamo il furto? Sia Mori sia Troilo tirano poi in ballo l’eutanasia e la sospensione delle terapie, che sono due cose differenti fra loro, e totalmente estranee al “suicidio assistito”. L’eutanasia riguarda i malati incurabili in fase terminale in preda ad atroci sofferenze: questione terribile e complessa che meriterebbe lunghi discorsi, ma sempre caso per caso, anche alla luce delle più moderne tecniche di terapia del dolore.
LA SOSPENSIONE delle cure, invece, è un diritto sacrosanto già riconosciuto dalla legge: vedi i testimoni di Geova che rifiutano anche le trasfusioni di sangue. Se una terapia o una macchina tiene in vita artificialmente una persona che, in assenza di quella, morirebbe, quella persona ha tutto il diritto di rifiutarla. A maggior ragione si può rifiutare, anche ex post, l’accanimento terapeutico. Ma un conto è “lasciar morire”, un altro è uccidere. Il “suicidio assistito” riguarda invece chi continuerebbe a vivere anche senza terapie e vuol farla finita comunque: in questo caso, mi spiace, ma deve pensarci da solo, senza coinvolgere un terzo estraneo. Il suicidio di Stato, garantito dal medico “curante” (si fa per dire) e magari anche dal Servizio sanitario nazionale, è una mostruosità che ha un solo nome: omicidio. Con tutte le possibili attenuanti, giustificazioni, ragioni di umana pietà. Ma pur sempre omicidio.

l’Unità 17.12.11
Il leader Pd: «Sostegno fino al 2013 ma c’è il rischio di avvitamento tra disciplina e recessione»
Il sì di Bersani: non solo rigore «Il nostro orizzonte è il voto»
Bersani assicura il sostegno al governo fino al 2013, ma sottolinea che solo col rigore si rischia di favorire la recessione e che per il Pd l’orizzonte rimangono le elezioni. Franceschini: «Il cammino comincia ora».
di Simone Collini


Un sì alla manovra. Accompagnato da un monito e da una precisazione: con il solo rigore «si va a sbattere contro un muro»; convinto sostegno al governo per uscire dalla crisi ma «l’orizzonte per ricostruire il Paese rimangono le elezioni».
Alla vigilia della fiducia Pier Luigi Bersani ha riunito i suoi deputati per blindare il voto del Pd («chi vota no a Monti vota contro di me»), perché la compattezza mostrata oggi sarà la condizione per ottenere domani quanto non ottenuto con questa manovra. Poi ieri, già prima di intervenire in serata nell’aula di Montecitorio per le dichiarazioni di voto finali, il segretario del Pd ha messo in chiaro che il suo partito continuerà a sostenere con «fermezza e coerenza» questo governo, ma sottolineando che insistere troppo sull’austerità senza accelerare su misure per la crescita (comprese le liberalizzazioni) può essere controproducente e favorire, anziché evitare, la recessione. E che comunque il suo partito continua a guardare alla prossima tornata elettorale.
IL RISCHIO AVVITAMENTO
Prima di intervenire a Montecitorio Bersani partecipa insieme al candidato socialista alle presidenziali francesi François Hollande alla conferenza dedicata dal Pd al “Futuro dell’Europa”, e la critica alla linea iper-rigorista è soprattutto all’asse Merkel-Sarkozy («l’Italia non manderà a fondo l’Europa ma loro non mandino a fondo tutti»). Ma non è solo in chiave comunitaria che parla, il leader dei Democratici, quando dice «no alla sola disciplina» o quando evoca il «rischio di avvitamento tra rigore e recessione»: «È un rischio incombente che noi italiani conosciamo per primi», dice evocando le diverse manovre già approvate. Ora ne è passata un’altra, «molto pesante». E Bersani avverte: «Non intendiamo rincorrere manovra su manovra perché facendo così si va a sbattere contro un muro». Il Pd, assicura, sarà «coerente e fermo» nel sostenere «con la generosità necessaria di quello che è il primo partito italiano» questo governo, anche se non farà «il 100 per cento di quel che faremmo noi», perché ora «l’Italia deve allontanarsi dal fronte più esposto della crisi». Ma aggiunge: «Questa fase non è il nostro orizzonte, che è invece un appuntamento elettorale in cui proporre la ricostruzione democratica e sociale del Paese».
LE SCELTE
Non si tratta di un cambio di linea rispetto al sostegno al governo Monti, che Bersani durante l’intervento a Montecitorio garantisce sarà «senza alcun limite temporale che non sia la naturale fine della legislatura». Però il leader del Pd iniste sulla necessità di «rompere il circolo vizioso tra rigore e recessione» perché vuole che il suo partito incida come e più di quanto avvenuto in questo passaggio quando si tratterà di assumere nuove decisioni: sulle liberalizzazioni, sul mercato del lavoro («il problema oggi è entrarvi dentro, non essere buttati fuori», dice i Aula mandando un chiaro segnale sull’articolo 18), su un «grande progetto sulle tutele e gli ammortizzatori sociali», sulla riforma delle pensioni («meriterebbe una qualche gradualità e ponderazione in più», dice chiedendo di «non lasciar marcire» e invece di «intervenire subito» sulla questione dei lavoratori precoci).
Bersani sa bene che questo è solo l’inizio dell’operazione che dovrà portare l’Italia fuori dal «baratro» dopo anni di cura Pdl-Lega (a cui il leader Pd fa notare che è poco serio prendersela con chi è al governo da pochi giorni, dopo aver governato otto anni: «Volete farci credere che venite dalla Padania di Marte?»). Così come lo sa bene Dario Franceschini, che lo dice in chiaro intervenendo per il voto di fiducia: «Noi avremmo voluto di più, ma continueremo la battaglia per la crescita, per la giustizia sociale perché il cammino non finisce con questa manovra, ma comincia con essa, e noi saremo dentro questo percorso con le nostre proposte e i nostri valori». Soprattutto, dice il capogruppo del Pd alla Camera, i Democratici nelle prossime settimane e mesi punteranno a dar «voce agli italiani che non hanno più voce e non riescono ad essere ascoltati».
LA CONTRARIETÀ DI IDV E SEL
I vertici del Pd sanno che l’operazione in corso è rischiosa, in termini di consensi tra il proprio elettorato. Per il peso in sé della manovra votata ieri e perché c’è anche chi, come l’Idv , sta giocando una partita che a Bersani e soci piace poco. «Hanno scelto di cavalcare il disagio e la protesta», nota Franceschini. Nel Pd c’è chi guarda con favore al no espresso ieri dall’Idv, perché è un voto che può archiviare definitvamente “la foto di Vasto” («è ingiallita», fa notare Paolo Gentiloni, «ora è caduto anche l’ultimo bullone di quel palco», dice Marco Follini). Quel che è certo è che la questione delle alleanze (anche Vendola dice che se fosse stato in Parlamento avrebbe votato contro) ora è tutta da discutere.

l’Unità 17.12.11
Il Pd e l’orgoglio di salvare l’Italia
I democratici stanno ridefinendo il loro profilo come partito della nazione e non basta più dire le cose di prima. Bisogna ridefinire il patto sociale e politico per dare forza a una nuova idea di Europa
di Alfredo Reichlin


Mi sembra importante ragionare sul ruolo politico che il Pd sta giocando e sul significato delle responsabilità che ci siamo assunti rispetto alle sorti incerte della democrazia italiana. Non voglio qui ripetere le cose dette sullo stato di straordinaria emergenza in cui ci muoviamo. Né tornare sulla semplice verità che il dovere di «salvare l’Italia» è la condizione per evitare il massacro del mondo del lavoro italiano. Qualcosa come in Grecia: drastico taglio dei salari, licenziamenti in massa, gli ospedali che non hanno più i soldi per comprare i medicinali stranieri. Spero che questo rischio per noi si stia allontanando. Voglio solo aggiungere qualcosa sul perché il Pd dovrebbe andare a questa prova con più orgoglio. L’orgoglio di una forza che sta ridefinendo il suo profilo come quel partito della nazione di cui un paese così diviso ha assolutamente bisogno e che comincia ad avere una visione più chiara delle nuove sfide che ci stanno di fronte.
Però qui è il nostro banco di prova. È adesso, è oggi. Dopo molti anni è nel fuoco di una drammatica emergenza che le forze politiche, le culture, gli assetti sociali e perfino le basi morali dell’Italia di domani sono costrette a ridefinirsi. Ma la condizione è che questo Paese non si dissolva. Esiste quindi è vero uno stato di necessità. Ma non è solo questo che muove il Pd. Tra tante difficoltà, tanta confusione anche a sinistra e tanti errori di un governo che non è il nostro, noi dobbiamo essere pienamente consapevoli del salto che sta avvenendo e in parte è già avvenuto nella lotta politica italiana. Non si ritornerà più al gioco di prima, così come era giocato dai partiti di prima. Anche noi potremmo perdere agli occhi della gente ogni significato, prestigio e capacità di guida se non scendessimo sul terreno nuovo e più avanzato che si è creato. Stiamo attenti. Che significa proporsi come una alternativa reale e chiedere la fiducia della gente? Non basta più dire le cose di prima. La lotta per l’egemonia (per un partito a vocazione maggioritaria, per dirla come Veltroni) comporta avere uno sguardo più lungo e la capacità di muoversi non solo sul terreno nazionale. Vin-
cerà chi penserà le alternative politiche nel quadro dei grandi spazi dell’Europa dove è in atto una guerra, la guerra per l’euro la quale non riguarda solo la moneta ma il chi comanda e quale ruolo assume il vecchio continente nel mondo nuovo. Bisognerebbe leggere il magnifico discorso di Helmut Schmidt sul ruolo storico della Germania al congresso della socialdemocrazia tedesca. Le «escort» di Berlusconi hanno nascosto per troppi anni la realtà vera, ed è anche questo che ha consentito alla destra di saccheggiare la nazione italiana. Ma la colpa non è solo degli altri. La verità è che abbiamo toccato con mano i limiti dei vecchi partiti. E anche quando il gioco tornerà in un Parlamento nuovo, eletto e non nominato, dovremo tener conto che è cambiato il rapporto tra la politica e le tecno-strutture. Dire «Salvare l’Italia» non è quindi retorica. È la condizione per muoversi sul terreno su cui oggi, non domani (quando vinceremo) si costruiscono le alternative.
A volte mi sembra di rivedere il vecchio Marx che torna a spiegarci il senso delle cose. Non voglio spaventare nessuno. Voglio solo notare che il premier britannico Cameron ha abbandonato la riunione di Bruxelles quando si è cominciato a discutere sul come difendere l’euro, finora moneta a rischio perché senza Stato e quando, quindi, si è posto il problema per come dare ad esso, finalmente, una sovrastruttura politica in grado di regolare i mercati finanziari. È a questo punto che il vero liberale ha sbattuto la porta con l’argomento (esplicito, non mascherato), che non poteva danneggiare la City, cioè il luogo dove l’alta finanza ha il potere di muovere, senza alcun controllo, i grandi capitali, anche quelli speculativi.
Dovremmo quindi cercare di uscire da dispute del tutto vane come quelle sulla famosa e terrificante «foto di Vasto». Tanto più vane perché sta nelle cose la ragione vera, di fondo, che dovrebbe spingere il Pd tutto il Pd ad allargare la sua base politica e culturale e dare un fondamento più forte alla alleanza della sinistra con i democratici moderati. Basterebbe allargare la visione delle cose e chiederci perché la crisi che stiamo vivendo è così devastante. Al fondo, la spiegazione sta nel fatto che il patto politico e sociale che è stato alla base della democrazia europea è in disfacimento. Di questo si tratta. Non è un problema tecnico da affidare ai tecnici. Il ruolo del riformismo è affrontare la grandezza e la drammaticità di questo passaggio per proporre un nuovo patto sociale, ed è capire meglio che cosa è in gioco, che tipi di assetti della vita sociale sono in discussione, quali compromessi storici stanno saltando. Non si fa grande politica senza un linguaggio, è questo non può ridursi alle banalità del giornalismo o all’economicismo dei tecnici.
Di quali mercati si va parlando? Si sono rovesciati i rapporti di forza tra i governi e le multinazionali, tra il capitale e il lavoro, tra la politica e l’oligarchia finanziaria. È diventata abissale la distanza tra chi produce la ricchezza reale e chi specula sui movimenti finanziari, creando così una enorme rendita che poi la povera gente deve pagare. Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Mi chiedo se noi abbiamo misurato abbastanza gli effetti dell’enorme squilibrio che è in atto nella distribuzione della ricchezza e quindi nel mondo dei valori e dei significati dell’esistenza. Non mi sembra un piccolo problema. La ricerca senza limiti dei guadagni in conto capitale ha fatto sì che valori come lealtà, integrità, fiducia, significati della vita, venissero via via accantonati per fare spazio al risultato monetario a breve termine.
I tecnici sono importanti ma non è vero affatto che la politica ha perduto spazio. Non condivido certi ragionamenti che poi, alla fin fine, tendono tutti a squalificare la sinistra che c’è e che sta tenendo botta. È vero che governare significa arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici). Bisogna tener conto della dimensione e del condizionamento internazionale dei problemi e ciò comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma non è vero affatto che non servono più i partiti. La vera, grande, novità che emerge dal modo come il super capitalismo finanziario ha sconvolto i legami sociali è che per garantire il «governo lungo» della società più che mai ci vogliono organismi ai quali spetta rendere chiara e mettere in campo un’agenda politica più vasta. Questo è il punto. Il partito come «padrone» del governo recede, ma come fattore guida della comunità avanza più di prima sulla scena. Un partito può anche apparire meno utile come strumento di potere, ma più che mai di c’è bisogno partiti che si pongono come guida etico-politica e come riformatori della società, in quanto capaci di mobilitare forze, intelligenze e passioni. Io credo che questo è il compito del Pd, che qui sta il suo grande spazio, e che questo è ciò che rende necessario questo strano miscuglio di culture socialiste e cattoliche.

l’Unità 17.12.11
Il governo vara un pacchetto sulla sicurezza e gli istituti. Si mira a ridurre i detenuti «transitori»
di Marzio Cecioni


Tra gli effetti delle misure un risparmio di 375mila euro al giorno per l’amministrazione
Approvato lo «svuota carceri» Fuori oltre tremila detenuti
Il governo prende provvedimenti per snellire il funzionamento delle carceri. Una serie di decreti che tra l’altro permetteranno a tremila detenuti di scontare gli ultimi 18 mesi agli arresti domiciliari.

Meno detenuti in carcere, meno spese per l’amministrazione penitenziaria: il ministro della Giustizia Paola Severino ha provato a sintetizzare gli effetti del pacchetto su carceri e giustizia approvato dal Consiglio dei ministri. Tra i primi effetti del pacchetto, l’uscita progressiva dal carcere di circa 3.300 detenuti, per effetto del decreto che alzerà fino a 18 mesi la pena residua che si può scontare ai domiciliari. Inoltre sancisce l’uscita dal circuito carcerario per gli arrestati in flagranza di reato, e in generale di quanti alimentano il fenomeno delle cosiddette «porte girevoli», entrando in carcere per la sola immatricolazione per poi essere scarcerati o inviati ai domiciliari. In questo caso il beneficio sarebbe di circa 21mila detenuti di passaggio in meno ogni anno negli istituti detentivi italiani Il complesso dei provvedimenti prevede un disegno di legge e un decreto legislativo.
Contrastando il fenomeno delle «porte girevoli», il ministro conta di ridurre la popolazione detenuta «transitoria» di «un numero molto considerevole, non posso dire ha spiegato 16 o 17mila ma parliamo di numeri considerevoli». Quanto all’altro intervento contenuto nel decreto carceri, saranno «circa tremila» i detenuti destinati a uscire per scontare gli ultimi 18 mesi di pena ai domiciliari. Un effetto di sfollamento destinato a produrre «un risparmio di 375mila euro al giorno per l’amministrazione».
Sul versante della giustizia, con lo schema di decreto legislativo che attua la prima parte della delega per il riordino della geografia giudiziaria, il ministro ha spiegato di prevedere una riduzione di qualche centinaio di circoscrizioni assegnate ai giudici di pace: «Il numero varia seconda che si consideri o non si consideri il criterio dell’ampiezza territoriale oltre a quello del bacino di utenza».
Applaude al provvedimento il Pd, come sottolinea la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti. «Le prime misure del governo in materia di giustizia vanno sicuramente nella giusta direzione e recepiscono molte delle sollecitazioni che il Pd aveva avanzato al nuovo guardasigilli. Abbiamo sempre contrastato un’impostazione miope aggiunge Ferranti che vedeva la soluzione al sovraffollamento solo nell’ampliamento e adeguamento dell’edilizia carceraria. Servono invece norme di natura processuale, di modifica del codice penale e dell’ordinamento penitenziario per alleggerire il carico degli istituti, che stanno vivendo una vera e propria situazione di emergenza umanitaria e consentire ai detenuti di effettuare il percorso di recupero sociale richiesto dalla Costituzione».
Molto critica la Lega: «Con il provvedimento svuota-carceri il governo dei tecnici, diciamo che si sta un po’ allargando» dice l’ex ministro dell’Interno della Lega, Roberto Maroni. Con i circa 3 mila detenuti che saranno mandati ai domiciliari, il decreto «non mi sembra che c’entri molto con la crisi economica» dice ancora Maroni.
Sono più di 68.144 mila i detenuti nelle 206 carceri italiane che potrebbero ospitarne non più di 45.654. L’overbooking è di oltre 23 mila unità: una situazione esplosiva. Gli stranieri sono 24.584. I detenuti imputati sono 28.324, dei quali 14.482 in attesa di primo giudizio. I condannati definitivi sono 38.133. Grazie alla legge cosiddetta «svuota carceri» approvata nel novembre del 2010, sono 4.102 i condannati con un anno di pena residua che hanno lasciato il carcere per andare in detenzione domiciliare. Nessuna recidiva.
Il carcere con il maggior tasso di sovraffollamento è quello di Lamezia Terme (183%), seguito da Brescia (177%), Busto Arsizio (162%), Como (150%) e Ancona (145%), dove è esplosa l’ultima rivolta. Il 42% dei detenuti è in attesa di condanna definitiva. Una buona fetta (il 36% del totale) è rappresentata da stranieri: sono 24.638, di cui 23.452 uomini e 1186 donne. Alto l’allarme suicidi. Dall’inizio dell’anno, 61 detenuti si sono tolti la vita e 924 sono stati i tentativi di farla finita in cella.

Corriere della Sera 17.12.11
«Amnistia? Pronta a sostenerla»
Apertura del ministro Severino. Via al piano «svuota-carceri»
di Dino Martirano


ROMA — «Il carcere è il primo dei miei pensieri anche se sarei davvero una sognatrice se pretendessi di risolvere il problema con un decreto...». Parla di un mondo che conosce bene il ministro della Giustizia, l'avvocato Paola Severino, che — nella sua prima conferenza stampa a Palazzo Chigi — non ha remore a definire «umilianti e invasive» le perquisizioni personali previste per i cosiddetti «nuovi giunti». Per cui — quando le chiedono un parere su un eventuale provvedimento di clemenza — il Guardasigilli non si tira indietro: «Non ho mai escluso che l'amnistia e l'indulto siano mezzi per contribuire a svuotare le carceri ma ho sempre ricordato che non sono provvedimenti governativi. E se il Parlamento deciderà di adottarli certamente non mi opporrò».
Il governo Monti, dunque, rispetta i tempi annunciati per il varo del pacchetto svuota-carceri che contiene alcune novità anche sul processo civile (converrà di più ricorrere alla procedura di conciliazione), sulla razionalizzazione degli uffici dei giudici di pace (ne potrebbero sparire 500), sulle procedure che interessano le famiglie e le piccole imprese sovra indebitate.
Sul carcere il ministro Severino ha ottenuto il ricorso al decreto legge. Un provvedimento d'urgenza per arginare il fenomeno delle «porte girevoli» che determinano ogni anno 21 mila presenze limiate ai 3 giorni di permanenza in cella. Si tratta per lo più «dei soliti noti» — pizzicati per reati di non particolare gravità per i quali è previsto l'arresto obbligatorio — che d'ora in poi resteranno nelle camere di sicurezza delle questure e della caserme dell'Arma (sono 706 quelle agibili) a patto, però, che il giudizio direttissimo venga svolto entro le 48 ore dall'arresto e non più entro 96 ore. «L'arrestato dovrà essere, di norma, custodito dalle forze di polizia salvo che ciò non sia possibile per mancanza di adeguate strutture o per altri motivi quali lo stato di salute dell'arrestato o la sua pericolosità». In questo modo, ogni anno, non entrerebbero più in carcere molte migliaia di persone.
Ma l'uso delle camere di sicurezza consente il contatto ravvicinato tra il «detenuto» e gli agenti che hanno operato l'arresto. Tant'è che l'ex ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma — cui si deve l'istruttoria sul pacchetto ora varato dalla Severino — aveva proposto che ai soggetti non pericolosi fossero concessi i domiciliari anche in attesa del rito direttissimo. Il decreto prevede poi che vadano ai domiciliari i detenuti con pena residua di 18 mesi (e non più di 12 mesi come stabilito dal precedente governo). L'effetto è di 3.300 detenuti in uscita nel 2012 ma, osserva Antigone, molto dipende dai magistrati di sorveglianza che impiegano anche 140-180 giorni per decidere.
Con un disegno di legge, invece, si prevede la sospensione del procedimento per gli irreperibili, la messa in prova anche per gli adulti (pena massima 4 anni e impiego in lavori di utilità sociale) e la depenalizzazione dei reati che prevedono la sola pena pecuniaria.
Alla Severino, infine, si deve una piccola rivoluzione: l'inserimento nel codice penale, tra le pene principali decise senza automatismi dal giudice, della reclusione presso la propria abitazione per le condanne fino a 4 anni. Verrà varata infine la carta dei diritti e dei doveri dei detenuti stampata in più lingue. E tutto questo arriva alla vigilia della visita in carcere del Santo Padre che domani celebrerà la messa a Rebibbia.

Repubblica 17.12.11
Fiom: "Assunto a Pomigliano solo chi non ha tessere Fiom"


TORINO Se hai la tessera della Fiom resti in cassa integrazione. Nella nuova fabbrica di Pomigliano nessuno dei 600 dipendenti finora assunti è iscritto ai metalmeccanici della Cgil. Lo denuncia Maurizio Landini nella conferenza stampa in cui illustra le iniziative del suo sindacato contro l´accordo separato del Lingotto. «E´ in atto una discriminazione pesante dice Landini non solo i nostri iscritti non vengono assunti ma vengono caldamente consigliati a restituire la tessera. Su questo faremo un libro bianco».
A Pomigliano la Fiom ha il 10 per cento degli iscritti. Dunque nel passaggio dalla vecchia alla nuova fabbrica oggi i metalmeccanci della Cgil dovrebbero essere una sessantina. Invece non ce n´è nessuno. Al Lingotto non commentano e lasciano intendere che il numero degli assunti è ancora troppo basso per fare una statistica. Contro l´accordo separato Landini ha annunciato un pacchetto di scioperi a gennaio e uno sciopero generale dei metalmeccanici l´11 febbraio.

Corriere della Sera 17.12.11
«Meno nascite per tutelare i (pochi) figli unici»
di Leonard Berberi


MILANO — Meno figli «per colpa dell'affetto». Poi, certo, c'è anche la crisi. Ma se nel nostro Paese nascono meno bambini è perché i genitori «vogliono troppo bene ai loro neonati e temono di penalizzarli se ne fanno più di uno». Gianpiero Dalla Zuanna, demografo e preside della facoltà di Scienze statistiche dell'università di Padova, i dati dell'Istat un po' se li aspettava.
Professore, non sarà che si fanno meno figli anche perché le prospettive economiche non sono delle migliori?
«Anche. Ma il vero motivo è che i genitori investono sui propri piccoli in modo diverso rispetto ai decenni passati: ora preferiscono concentrare gli sforzi e le risorse su uno soltanto, piuttosto che "disperdersi" su due o tre. Questo non vuol dire che non ne vogliano altri, ma i tempi — e le norme del Paese — per ora non consentono di fare di più».
Come si può far ripartire il tasso di natalità?
«Servono politiche che, per una volta, non siano pensate per i genitori, ma per i figli».
Insomma bisognerebbe cambiare prospettiva?
«Si deve iniziare a pensare a provvedimenti fiscali che facciano avere più fratelli ai bambini e non più figli alle coppie. E ancora: iniziare a pensare che il bambino non è un bene privato, ma pubblico».
Poi però bisogna fare i conti con il calo dei matrimoni.
«Gli italiani non lo concepiscono più come un aspetto centrale della propria vita. Basti ricordare che uno su due convive e un bambino su quattro è nato fuori dal matrimonio. In tutto questo, la crisi non aiuta: le coppie preferiscono rimandare la celebrazione».
Se la popolazione italiana cresce, secondo l'Istat lo si deve agli stranieri.
«Di fatto hanno sostituito gli italiani non nati negli anni Ottanta e Novanta. Non è una cosa da poco. Rappresentano la ventunesima regione».
Però anche tra gli immigrati si fanno meno figli rispetto agli anni passati.
«Si stanno adeguando ai nostri comportamenti: tra una generazione i numeri saranno gli stessi».

l’Unità 17.12.11
Colloquio con François Hollande
«Saremo noi progressisti a far cambiare rotta all’Europa di Merkozy»
Il candidato all’Eliseo «Propongo un patto di responsabilità con Pd e Spd: sì al risanamento e al rigore fiscale ma nel segno dell’equità e della crescita»
di Umberto De Giovannangeli


Un Patto per l’Europa. Un patto di responsabilità fondato su visioni, ideali, progetti e priorità che differenziano profondamente l’Europa dei progressisti da quella praticata dai conservatori, sia nella versione neoconservatrice che in quella, altrettanto perdente, populista. Istruzione, crescita, riequilibrio dei bilanci ma nella giustizia sociale e fiscale. È l’Europa di François Hollande. Una Europa aperta, federale, capace di sfidare il direttorio «Merkozy». Un’idea di Europa, quella che il candidato socialista all’Eliseo porta a Roma e rilancia nel colloquio con l’Unità, fortemente condivisa dal Pd e dal suo leader, Pier Luigi Bersani. «L’obiettivo spiega Hollande è di dar vita a un Patto di responsabilità, di governance e di crescita condivisa con i democratici italiani e i socialdemocratici tedeschi. Insieme possiamo vincere le sfide elettorali che nei prossimi 18 mesi ci attendono».
A cominciare dalle presidenziali francesi del maggio 2012. Hollande è a Roma nel giorno in cui la Camera vota la fiducia al governo Monti. Gli chiediamo un giudizio sul precedente governo. Il leader dei socialisti francesi non si trincera dietro frasi di circostanza: «Come europeo e democratico dice mi sono rallegrato della fine del governo Berlusconi. Ora con l’esecutivo Monti l’Italia può far sentire la sua voce in Europa e preparare serenamente il suo futuro». Gli italiani, aggiunge, ora hanno «un programma politico di correzione indispensabile e la sinistra italiana ha ruolo di grande responsabilità».
Parla da leader socialista ma anche da statista che i sondaggi danno come favorito nella corsa all’Eliseo. «Se sarò eletto annuncia rinegozierò l’accordo raggiunto di recente al Consiglio europeo perché è del tutto insufficiente». In quell’accordo, rimarca Hollande, «manca una doppia dimensione: finanziaria, di rigore finanziario e soprattutto di crescita». L’Europa merita di più, servono strumenti ben più potenti e forti. Con il leader del Pd c’è sintonia politica e stima personale. E una condivisione di fondo. Che Hollande sintetizza così: «L’Europa è la soluzione, non il problema. Dobbiamo lavorare assieme, per armonizzare le politiche di bilancio e perché si rafforzi l’idea di una Europa che pratica il riequilibrio dei bilanci ma nella giustizia sociale e fiscale».
Il leader socialista non ama sentir parlare di direttorio «Merkozy». Hollande si dice favorevole al motore franco-tedesco («è molto prezioso»), ma spiega non «deve essere un direttorio, deve indicare una traiettoria, non deve essere ripiegato su se stesso bensì coerentemente aperto agli altri». Insomma, se “coppia” deve essere, che quella franco-tedesca sia una “coppia aperta”. La memoria torna alla grande manifestazione d’inizio novembre organizzata dal Pd a Piazza San Giovanni. Allora, il candidato all’Eliseo fu presente con un video messaggio. Di persona, oggi, è a Roma per dire che «in molti avete chiesto la partenza di Berlusconi. Ma anche in Francia molti si sono sentiti sollevati», sorride Hollande. E aggiunge: «Abbiamo bisogno di un’Italia che chiude la parentesi berlusconiana e si apre alle esigenze che noi condividiamo, essere parte attiva di una nuova Europa che noi vogliamo costruire». Il meeting di Roma è anche l’occasione per il segretario del Ps francese di lanciare una proposta, subito raccolta da Bersani: nel corso della campagna elettorale per le presidenziali, «intendo organizzare in Francia una convention con i progressisti europei. L’obiettivo è mostrare che la politica che propongo per l’Europa è una proposta collettiva di tutti i leader progressisti europei».
È questo il senso politico del Patto di responsabilità. Concetto su cui Hollande insiste anche con l’Unità: «Su di noi progressisti europei la responsabilità di risanare i conti pubblici, di eliminare il debito dai nostri Stati per  ritrovare la sovranità nei confronti del mercato. Dunque dobbiamo impegnarci ad assumere impegni reciproci per poter fissare la strada da seguire. Possiamo farlo se c’è rispetto, se c’è controllo reciproco, ma anche governance. Cioè se c’è una politica economica europea che permetta di guardare a quello che dobbiamo fare oggi come un investimento per il futuro: la crescita, che noi dobbiamo preparare».
Cambiare rotta all’Europa: è il patto che lega Hollande e Bersani. «Insieme formuleremo delle proposte comuni per i prossimi mesi. Siamo coscienti dell’urgenza e della necessità di decisioni immediate e se vogliamo cambiare l’Europa dovremo ed io lo proporrò dare all’Europa contenuto e forme giuridiche, ma anche una volontà politica per metterle in pratica».
Una pratica che passa anche per la conquista dell’Eliseo. «Mi auguro che il mio Paese non perda la tripla A», afferma il leader socialista. «Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per mantenere questa nota», aggiunge, ribadendo l’importanza di un’agenzia di rating europea pubblica, mentre finora osserva si è preferito a livello europeo dettare «buone pratiche» per queste agenzie. «Il mio dovere dice ancora Hollande non è solo di battere Sarkozy ma è anche quello di sconfiggere l’estrema destra e dare una speranza ai francesi». Una speranza chiamata Europa. L’Europa dei progressisti.

La Stampa 17.12.11
Il fruttivendolo che ha cambiato il mondo
di Domenico Quirico


Ci sono eroi più grandi, più puri delle rivoluzioni che hanno inventato, creato, fatto esplodere. Uomini di impeto e di sacrifico; perché ogni rivoluzione è l’opera di un principio e solo chi segue con imperterrita fede quel principio può compierla felicemente. Poi viene il tempo degli altri, i regolarizzatori, i garbuglioni del realismo e della necessità, infidi, tentennanti, armistizianti, capitolanti, che si sono affilati i denti per distruggerla. Mohamed Bouazizi, tunisino, fruttivendolo e rivoluzionario senza ideologie un anno fa si è dato fuoco a Sidi Bouazid, città garrotata dalla miseria e dalla paura dei potenti. Da quel tragico giorno l’aria del mondo arabo trasporta le molecole del suo gesto, leggera come il polline e dura come il piombo; e quei semi sono caduti nei solchi e nei cuori, danno alle cose aria di primavera o di battaglia, producono fiori o proiettili. Senza quel sacrificio, nella piazza principale davanti agli occhi imbambolati dei perditempo dei caffè, oggi il Nord Africa sarebbe quieto alle riverenze del comando assoluto, obbediente a Ben Ali, Gheddafi, Mubarak, sauri giganteschi, superstiti di un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Anche il siriano Assad sarebbe uno statista ragionevole e non assediato, come Macbeth, dal conto strabocchevole dei propri delitti.
E invece quel giorno di un anno fa Mohamed fece conoscere al mondo arabo l’evidenza del vero principio rivoluzionario, che una prima ingiustizia è fonte di ingiustizie infinite. Mohamed il tunisino non ha inventato ideologie e non ha coniato gli slogan sobillatori dell’Islam politico, non ha imbracciato mitra e corano, non ha mai schiacciato un tasto per navigare su Internet, non ha fatto proseliti sulla Rete o su Facebook. Dignità: e questa la sua parola. La prima rivoluzione del terzo millennio è stata creata da un gesto antico che sa del sacrificio di Abramo. Solo così poteva dimostrare a plebi inerti sotto decennali dittature che il coraggio è attaccaticcio come la paura. E senza di lui noi, in Europa, dall’altra parte del mare, non avremmo scoperto che ogni uomo che arrivava a Lampedusa non era solo un clandestino, era un romanzo con capitoli solitudini pianti risa speranze, con in tasca una storia che sbalordiva come una rivoluzione vittoriosa.
Lo ricorderanno oggi in Tunisia, Mohamed, nella capitale e nella sua città. Ma con pudica sommessità. Non saranno celebrazioni fastose, rievocazioni da padre della patria. Eppure senza di lui Moncef Marzouki oggi non sarebbe presidente nel Palazzo di Cartagine ma un esule parigino alla ricerca difficile di intervistatori interessati a sentirlo contumeliare il padrone del suo Paese. E gli islamici che hanno vinto le elezioni, le prime libere senza brogli e che hanno in mano tutte le leve del Potere, sarebbero nelle galere o dispersi ai quattro capi del mondo a spazzolar via la patente di fiancheggiatori di Al Qaeda. Perfino a Sidi Bouazid i suoi coetanei, i primi scesi in strada con le pietre e con la rabbia del suo sacrifico hanno votato per un telepopulista che faceva opposizione, pantofolaia, da Londra e che ha promesso di donare denaro a tutti.
No, i giorni che sono venuti dopo quelle settimane di furia e di vittoria, migranti finora da una miseria cupa ad un’altra, non assomigliano a Mohamed. Lo prova il fatto che nessun partito ha osato proclamarsi erede o sacerdote del suo culto. Anzi, hanno perfino cercato di insudiciare e avvilire quel gesto, sproloquiando che non è stata una scelta volontaria ma un incidente e che la sua famiglia ha speculato sulla sua morte procurandosi denaro e vantaggi.
Eppure dal quel giorno di un anno fa i popoli arabi hanno raccolto due tesori, uno di odio verso tutti coloro, in barracano o in doppio petto, vogliono riprendersi quella loro dignità, e uno di fiducia, che una rivoluzione se sarà necessario si può ripetere.

il Riformista 17.12.11
Nella culla della Primavera araba i ragazzi sognano ancora di partire
Un anno dopo. Il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi si diede fuoco per protestare contro i soprusi della polizia. Fu l’inizio delle rivolte mediorientali. Ma a Sidi Bouzid la democrazia non ha portato né pane né lavoro. E gli amici di Mohammed sperano sempre di attraversare il Mediterraneo.
di Francesco Candelari


Si chiamava Mohamed Bouazizi, era un venditore ambulante. Tirava la sua carretta, nel vero senso della parola, per sbarcare il lunario. Per 50 euro al mese o poco più. Ma quel 17 dicembre, un anno fa, la polizia gliene aveva chiesti 10. Era la mazzetta da pagare per continuare a lavorare. Non contenta, una questurina lo aveva insultato. In pubblico, sbeffeggiandolo. Per Mohamed Bouazizi fu la goccia che fece traboccare il vaso. Presa una tanica di benzina e un fiammifero, si presentò davanti alla prefettura e si diede fuoco. Iniziava così la Primavera araba.
Mohamed Bouazizi avrebbe saputo poco o nulla del seguito. Dopo una corsa disperata all’ospedale di Sfax, i medici constatarono ustioni sull’80% del corpo. Seguiranno tre settimane di agonia, pure una visita beffa dell’allora presidente Ben Alì, e la morte, il 4 gennaio successivo.
Ma di lì a pochi giorni Ben Alì cadrà sotto la pressione dei seguaci di Bouazizi. E dopo cadrà pure Mubarak. E Gheddafi. Mohamed Bouazizi è il primo martire della rivoluzione, il simbolo di un anno che ha cambiato il volto del Nordafrica e del Medioriente.
A Sidi Bouzid, a partire da ieri, per tre giorni di seguito, si celebra il Festival della rivoluzione del 17 dicembre. Dibattiti, incontri, commemorazioni. E una manifestazione per la quale sono attese 50mila persone. «Si sono dimenticati di noi troppo in fretta» confessa al telefono Moez Ghardi, membro della Mezzaluna rossa cittadina. «La rivolta è partita da qui. I gelsomini di Tunisi sono arrivati dopo. Mentre i gas lacrimogeni a Sidi Bouzid li abbiamo respirati sin da subito».
Oggi non si celebra solo a Sidi Bouzid, ma le commemorazioni si susseguono in tutto il Paese. E anche sui social network si rincorrono i commenti e le manifestazioni di sostegno. Nouha pubblica la genealogia delle rivoluzioni arabe. Con Bouazizi in cima.
«Ma la rivolta di Sidi Bouzid coi social network c’entra poco» prosegue Moez. «Mohammed Bouazizi era un ambulante, non un blogger. La sua preoccupazione era il pane più che la democrazia. Ed era stufo di subire le angherie della polizia di Ben Alì e non poter far nulla per cambiare».
Che Sidi Bouzid faccia un po’ storia a sé, lo dimostrano anche i risultati delle elezioni del 23 ottobre scorso. Qui non si sono fidati né dei discorsi sull’identità islamica del partito vincitore Ennahda, né dei ragionamenti complessi sulla costruzione della democrazia, promossi dai vari partiti di centro e di sinistra.
A Sidi Bouzid hanno votato l’enfant du pays, quell’Hachmi Hamdi, magnate della televisione emigrato a Londra, che ancora non si è fatto vedere dopo la conquista del secondo posto al voto. Ma si sono fidati delle sue promesse mirabolanti: copertura sanitaria universale, un consistente sussidio di disoccupazione per tutti i senza lavoro, trasporti pubblici gratuiti per gli over 65, e pure la realizzazione di un tunnel fra Tunisia e Italia.
Perchè a Sidi Bouzid, in un anno, sembra cambiato poco. C’è libertà di riunione, di espressione, di manifestazione. Ma gli amici di Bouazizi continuano a sognare l’Europa e, se li hanno, sono ancora pronti a pagare mille euro per provare ad attraversare il Mediterraneo. La disoccupazione è sempre a livelli altissimi e l’economia non è ripartita.
Eppure, se c’è un paese che può dire di aver guadato il fiume, questo è proprio la Tunisia. In un anno, il piccolo stato di fronte alla Sicilia ha cambiato davvero. La dittatura è lontana e tutto qui parla di una democrazia magari giovane e immatura, ma pur sempre di una democrazia.
L’Assemblea costituente ha aperto i battenti, il primo ministro Hamadi Jbeli e il presidente Moncef Marzouki sono entrati in carica, l’ultimo solo tre giorni fa. La loro nomina è stata il frutto di consultazioni e trattative fra i partiti di maggioranza come in ogni sistema parlamentare. Non mancano le tensioni fra islamisti e laici, ma le manifestazioni di dissenso sono apparse espressione della normale dialettica democratica.
Se negli altri Paesi l’esito della Primavera araba è ancora un punto interrogativo, in Tunisia sembra invece una certezza. Khalil Chemli, dei Giovani democratici di Tunisi, sottolinea. «Abbiamo tanto da fare, ma oggi dobbiamo anche ammettere che abbiamo fatto tanto».
Manoubiyeh Bouazizi, la madre di Mohamed, sa che suo figlio non tornerà. Ne ha parlato su queste pagine lo scorso giugno, intervistata da Gilberto Mastromatteo. «Mohamed amava la vita. Voleva costruirsi una famiglia, voleva dei figli. Cercava di vivere onestamente. Alla fine non è riuscito a sopportare la prepotenza e le umiliazioni che il vecchio regime gli aveva inflitto, giorno dopo giorno, per anni. Oggi non so darmi pace. Ma almeno lo rivedo ogni giorno nello sguardo di tutti i tunisini che ha contribuito a rendere liberi».

La Stampa 17.12.11
Chris Bale voleva visitare l’attivista cieco Chen
Cina, botte a “Batman” La polizia ferma la star di Hollywood
Incarcerato per tre anni anche l’avvocato Gao Zhisheng
di Ilaria Maria Sala


Christian Bale, la star hollywoodiana che ha interpretato Batman, è stato picchiato da alcune guardie mentre cercava di rendere visita all’avvocato e attivista per i diritti umani Chen Guangcheng, privo di vista e agli arresti domiciliari illegali nello Shandong. Bale si trova in Cina per la prima del suo ultimo film, «I Fiori della Guerra», del regista cinese Zhang Yimou. Mega produzione parzialmente sponsorizzata dal governo (è costata 70 milioni di euro, il più costoso film mai girato in Cina), narra una vicenda di fantasia ambientata nelle terribili giornate del massacro di Nanchino, nel 1937, quando le truppe giapponesi invasero la città cinese con una violenza brutale, che portò alla morte di almeno 150 mila persone, soprattutto civili.
Il film fa parte dell’ambizioso progetto nazionale di espandere la presenza culturale cinese nel mondo, e il suo «soft power», teso anche a controbilanciare quella che il governo reputa essere una percezione negativa della Cina all’estero.
Ma proprio quest’ultimo obiettivo potrebbe essere mancato in pieno con l’incidente avvenuto nei pressi della casa di Chen, finito nei guai con le autorità cinesi dopo avere scoperto miriadi di brutali abusi da parte delle autorità locali nell’applicare la politica del figlio unico – con aborti forzati anche al nono mese di gravidanza. Dopo avere scontato tre anni di prigione per aver «disturbato l’ordine pubblico» e ostruito il traffico, Chen ora vive sotto stretta sorveglianza, e tutti quelli che cercano di avvicinarsi alla sua casa per rendergli visita vengono intercettati, spesso picchiati e anche detenuti.
Nelle ultime settimane la campagna nazionale per la liberazione di Chen si era andata intensificando sia sul web, dove molti simpatizzanti hanno pubblicato foto con occhiali neri come i suoi, sia per le strade dello Shandong, con innumerevoli sostenitori che sfidavano le percosse delle guardie che sbarrano il passaggio, pagate dalle autorità locali. Bale, intervistato dalla «Cnn», ha dichiarato di aver voluto «andare a stringere la mano a quest’uomo» per esprimergli la sua ammirazione.
Sempre ieri si sono avute notizie di un altro noto avvocato difensore dei diritti, Gao Zhisheng, che era scomparso da 18 mesi dopo un lungo periodo di prigione: è stato imprigionato per tre anni, malgrado le pressioni internazionali per il suo rilascio.

l’Unità 17.12.11
La nostra storia
Bufalini, il cardinale di Togliatti
Il convegno a dieci anni dalla morte dell’esponente comunista che ebbe un ruolo chiave nella costruzione del partito nuovo e nella tessitura del dialogo con i cattolici. Antifascista e latinista alla fine dissentì da Berlinguer
di Bruno Gravagnuolo


Nasce a Roma nel 1915 e nel 1937 è già diventato comunista
Giame Pintor disse di lui: era il vero capo del soviet romano
Il dopoguerraProtagonista delle lotte agrarie e di quelle contro Tambroni
L’Unione Sovietica Appoggia l’Urss nel 1956 ma l’attacca su Afghanistan e missili

Ma che sei matto, te metti a contraddì er senatore!». Primi anni 80, Roma, ristorante La Carbonara, in Campo de’ Fiori. Il senatore era Paolo Bufalini, e il caveat romanesco, con calcio sotto il tavolo al contraddittore, era di Antonello Trombadori, devotissimo al senatore. A contraddire Bufalini, incautamente, c’era chi scrive. Tema della disputa: Manzoni. Con noi a sollevare qualche dubbio, sull’eccessivo provvidenzialismo (e quietismo cattolico) di Don Lisander. E Bufalini a magnificare con pacatezza e distacco lo scrittore. Ma a un certo punto il Senatore «gioca» un argomento che ci stende. E ci affascina: «Manzoni era un grande cineasta, scrive come se girasse. Con piani sequenze, primi piani, flash back, grandangoli, e monta il “girato” alla moviola...». E così in un solo colpo il mitico Paolo Bufalini (ai nostri occhi la quintessenza del «destro» Pci) dissipò subito due facili pregiudizi: che fosse «incontraddicibile» e collerico. E che fosse un mero passatista. Già, perché l’umanista, lo storicista e latinista, discettava alla Dziga Vertov, alla Bazin, o a alla Godard su cinema e narrativa! E quanto a Manzoni, ci vedeva l’Italia spagnolesca di quegli anni 80. L’Italia «bloccata» e nazione post-feudale senza stato.
E qui veniamo davvero alla personalità culturale di Bufalini, scomparso il 19 dicembre di dieci anni fa, e di cui ieri l’altro a Palazzo Giustiniani del Senato si è celebrato il decennale della morte. Alla presenza di Giorgio Napolitano, «compagno d’arme» di Paolo. E c’erano a parlarne Emanuele Macaluso, Albertina Vittoria, Nicola Mancino, Ivano Dionigi, rettore a Bologna, Gennaro Acquaviva, il presidente del Senato Renato Schifani e Anna Finocchiaro. Il tutto presentato da Guido Albertelli, per l’Associazione Perseguitati politici antifascisti, e da Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci. In sala, oltre a studiosi, pubblico vario e alla famiglia Bufalini, altri compagni d’arme (anche da avversari interni): Reichlin, Chiarante, Tortorella.
LA BIOGRAFIA
Ma riprendiamo il filo, che è poi questo: Bufalini, la storia d’Italia, il Pci. Stesso filo dipanato al convegno, e in vario modo. Per dire una cosa essenziale: nessuna figura, compendia integralmente in sé il nesso antifascismo/ partito nuovo con ascesa e crisi del medesimo di quanto non accada con Paolo Bufalini. Al punto che si dovrebbe aggiungere alla famosa triade ritmata «Gramsci TogliattiLongo Berlinguer», anche il suo nome (lo diceva l’ex presidente del Senato Mancino). Perché? Per rispondere occorre dare un’occhiata alla sua biografia. Dunque, figlio di un cancelliere del Tribunale di Roma e di una casalinga molto religiosa e ascendenze piccolo-nobiliari, Bufalini classe 1915 è uno studente modello al prestigioso Visconti. Un giovane fascista di «fronda». Ma che nel 1937, a 22 anni, è già iscritto al Pc d’I clandestino. Era lui, scrisse Giame Pintor, «il capo del soviet romano» di allora. Con dentro Pietro e Antonio Amendola, Pietro Ingrao, Aldo Natoli, Gastone Manacorda. E un po’ a distanza all’inizio, Guttuso, Alicata e Trombadori (frondisti legati a Primato di Bottai). Da supplente al Visconti incontra i giovani Franco Rodano e Marisa Cinciari.
Le figure chiave per il giovane Bufalini? Giorgio Amendola e i professori antifascisti del Visconti. Di lì inizia il suo percorso. Dalla «fronda» a Marx e al Pci: via Croce, De Sanctis e Labriola. Presto, come dirigente clandestino viene scoperto. Anche per aver aiutato Giorgio Amendola ad espatriare a Parigi (si dà da fare con Giolitti e Trombadori lanciando stelle filanti, con falce e martello e scritte pacifiste). E così, spezzato il filo cospirativo, viene spedito al confino di Alatri, poi in Montenegro in guerra. Dove con l’8 settembre passa coi partigiani.
Internato in un lager austriaco, fugge ed è a Roma in piena costruzione del Pci, dopo la famosa «Svolta di Salerno», la cui onda nazionale e gradualista sposa fino in fondo. Diventa costruttore del partito. In Abruzzo, Sicilia, poi a Roma, da segretario federale (al tempo della lotta a Tambroni, che anima a Porta San Paolo). Di lì in poi la leggenda Bufalini è già fatta, ma continua. Si sa che è stato nel 1947 tra gli architetti dell’art.7, e del Concordato in Costituzione.
I FATTI DI UNGHERIA
Combatte da togliattiano la sua battaglia all’VIII Congresso(dove esce l’amico Giolitti): sì ai carri a Budapest, e però rinnovamento deciso di gruppi dirigenti. Su «pluralismo giuridico», democrazia e vie nazionali (lo ricordava bene Macaluso). Ha già animato le lotte agrarie in Abruzzo e Sicilia, ma presto diviene insieme il cardinale delle relazioni privilegiate col Vaticano e il massimo responsabile della politica estera. Frattanto è senatore (e ininterrottamente dal 1963 al 1992). Concorre in prima linea al tema del «valore universale della democrazia». Apre un fronte coi sovietici, contro gli Ss20 e contro l’invasione in Afghanistan. È durissimo contro gli estremisti del 1977: li chiama «diciannovisti e squadristi». E, pur da interlocutore privilegiato di Moro, è inflessibile sulla fermezza: nessuna trattativa. Poi con gli anni 80, il dissenso con Berlinguer. Bufalini vive male la fine del compromesso storico, che in sottofondo elaborò assieme ad Enrico su Rinascita nel 1973. E peggio ancora vive la rottura con Craxi. La sua tesi era: trattare, competere e cooperare. Egemonicamente. Senza farsi mettere sotto, e senza rinunciare all’unità coi socialisti. Questa fino all’ultimo fu la sua posizione anche da «riformista» (l’area che a casa sua rivela Macaluso stilò il suo documento nel 1989). Infine il Bufalini umanista e traduttore di Orazio. «Straordinario ermenueta», ha detto il classicista Dionigi. Soprattutto per una cosa: l’accettazione del cosmo pagano e classico. Accettazione epicurea e oraziana, della morte e del tempo. In un fatalismo virile splendidamente conciliato col suo «storicismo» dalla parte degli umili.

il Riformista 17.12.11
La lezione di democrazia di Bufalini
di Laura Landolfi


«Le lotte politiche devono svolgersi alla luce del sole, nel pieno rispetto delle prerogative del Parlamento e dell’autonomia propria di tutte le assemblee elettive»: sono parole di Paolo Bufalini che, a dieci anni dalla sua morte, non smette di insegnare qualcosa ai politici di oggi.
Così, nel ricordarlo giovedì scorso in una sala Zuccari (Palazzo Giustiniani) affollata, alla presenza del Capo dello Stato, il presidente del Senato ne sottolineava la chiarezza delle posizioni politiche. E ancora, commentando il passo sopracitato diceva: «È questo, un terreno decisivo per il dialogo, per il confronto, la ricerca di intese e di unità tra tutte le forze democratiche e progressive, sia laiche che del mondo cattolico». Secondo Renato Schifani questi «concetti e parole conservano un’innegabile attualità e contengono oggi, più che mai insegnamenti preziosi di fronte alle sfide che ci troviamo ad affrontare».
Al convegno organizzato dall’Anppia e dall’Istituto Gramsci e dedicato dal presidente Guido Albertelli «a coloro che mantengono vivi i valori che sono alla base dell’unità del paese, ai partigiani e a color che, dopo la Liberazione lottarono per i diritti civili. Un esempio da seguire per far uscire il nostro paese dalla tempesta» appariva chiaro come questo antifascista, dirigente politico, parlamentare, latinista e ancora altro abbia dato un decisivo contributo alla costruzione dell’Italia democratica.
Colui cui il Pci affidò i rapporti con le forze cattoliche è tanto più importante da ricordare «in un momento difficile per il paese» ma in cui si avverte un «ripensamento
critico» su quella vicenda, e su quei personaggi, che hanno popolato la cosiddetta Prima Repubblica. Come ha sottolineato Emanuele Macaluso ricordando «il travaglio politico-culturale della generazione che in Italia, negli anni del fascismo, della guerra, della resistenza e in quelli immediatamente dopo la Liberazione, diede un contributo decisivo alla rifondazione del Pci ma anche alla rinascita della democrazia italiana». Una generazione che, ricordiamolo, scelse la politica di unità a sinistra e di alleanza con le forze democratiche, laiche e cattoliche, non come fatto occasionale ma come fondamento della democrazia cui si avviò il paese attraverso gesti concreti come i governi di unità nazionale e attraverso la scrittura della Costituzione.
Se Nicola Mancino ne ha ricordato il dialogo con il Psi e il suo progetto di vedere tutte le forze laiche collaborare alla creazione della democrazia, Gennaro Acquaviva ha parlato del suo contributo alla stesura del Concordato «andando oltre la tradizione togliattiana», non più solo collaborazione infatti ma «riconoscimento reciproco di valori». Vale a dire che l’attività di Bufalini per l’unità della sinistra, e il suo tessere i rapporti con tutte le forze democratiche è ben lontana dunque dal partito unico incarnato dal Pd.
Interprete «acuto e inflessibile» della linea togliattiana del «rinnovamento nella continuità» che lo portò ad essere contestato da compagni a lui vicini come Amendola con il quale aveva combattuto contro il fascismo. Fu, Bufalini, interprete della via italiana al socialismo e, dopo la svolta dell’89, sarà tra i promotori dall’area riformista. E qui Macaluso ha ricordato come il primo incontro si svolse proprio a casa sua, quando si chiedeva di fare del nuovo partito una formazione socialista. E lo si chiedeva «con nettezza».

il Fatto 17.12.11
Goodbye Mr. Hitchens, una vita contro l’ovvietà
Morto a 62 anni il polemista globale, best seller delle verità controcorrente
di Alessio Altichieri


Con Christopher Hitchens, morto a 62 anni in una clinica del Texas per cancro all’esofago, la cultura anglosassone perde il maggior epigono dei polemisti antichi, da Jonathan Swift a Thomas Paine, l’unico che osasse confrontarsi con Orwell, uno dei pochi (assieme a Camus, da questa parte della Manica) che seppe guardare il potere in faccia, vedere che il re (o Stalin, Kissinger, il Papa) era nudo, e scriverne senza timore. È vero che nella sua vita Hitchens ha avuto, in proporzione al merito, un successo scandalosamente maggiore di Orwell (mezzo milione di copie per “God is not Great”, pamphlet contro le religioni e munifici compensi per la column su Vanity Fair), ma ciò non riduce i meriti. Se è vero che “tutti viviamo nelle fogne”, come disse Oscar Wilde, “ma alcuni di noi guardano alle stelle”, certo “Hitch” ha alzato gli occhi sopra il paesaggio dell’ovvio.
HITCHENS non lascia un banale esempio di coerenza politica, se iniziò trotzkista e finì seguace di George W. Bush, se a Oxford stava con le tute blu di giorno e alla sera si metteva il “dinner jacket” per cenare all’All Souls, il college dell’establishment, né tanto-meno ideologica, se passò da sinistra a destra con tale rivendicazione: “Non sono più socialista, ma resto marxista”. L’esempio che lascia è quello di un provocatore che assale senza deferenza i grandi temi – la religione, la guerra, l’America – e li traduce per tutti, allargando il dibattito e, in ultima analisi, la democrazia. Uno spirito libero, diremmo noi, liberale e forse libertino (certo omosessuale da ragazzo, poi etero convinto, due volte marito, tre volte padre), fumatore e bevitore, dotato di memoria prodigiosa e del talento naturale che, dopo un lunch innaffiato da whisky, gli permetteva di scrivere di getto un piccolo saggio su Auden, il poeta. Come epigrafe all’ultimo libro, “Arguably” (intraducibile, se non con “giustificabilmente”), aveva apposto una citazione dagli “Ambasciatori” di Henry James: “Vivi fino in fondo. È un errore non farlo”. È stato coerente. Nato nel ’49 a Portsmouth da un ufficiale di marina e una madre adorata (era “la panna nel caffè, il gin nel Campari”), cresciuto all’ombra di Martin Amis, il romanziere amico e collega nell’esordio al giornalismo, e di tanti che da principio gli facevano ombra, come Ian McEwan, Julian Barnes e Clive James, Hitchens potrebbe essere raccontato attraverso i nemici che ha aggredito con la penna, da Madre Teresa di Calcutta (“una nana albanese fanatica e ladra”) a Bill Clinton, “bugiardo abituale e professionale”.
INVECE lo si capisce di più tramite le conversioni, o le prese di coscienza. Quando scoprì che la madre, suicida con l’amante in una stanza d’albergo ad Atene, aveva lontane radici ebraiche, Hitchens, fino ad allora incurante di religioni, reclamò, per discendenza materna, l’identità ebrea. Forse qui nacque la sua posizione su Israele: non tollerava l’antisemitismo, madifendevaidirittidei palestinesi contro il sionismo che, diceva, “offre agli antisemiti la premessa” per sostenere “un’anormalità degli ebrei”. Ovvio che Hitchens piacesse a Chomsky, Edward Said, Tariq Ali, alla sinistra Usa (dove s’era trasferito nel 1981). E naturale che facesse scandalo, poi, l’incondizionato appoggio a Bush e all’invasione dell’Iraq, per impedire che Saddam Hussein ne facesse “la sua personale camera di tortura”.
MA L’INTERVENTISMO di Hitchens veniva da lontano, dal sostegno alla Thatcher nella guerra delle Falklands, o all’intervento Nato in Bosnia, certo dalla guerra in Afghanistan, dopo l’11 settembre 2001, contro i talebani e il “fascismo dal volto islamico”. Fu l’aspra campagna contro l’“islamofascismo” che fece di Hitchens un personaggio pubblico, che osa dire apertamente quello che molti pensano. Quasi attesa, sulle orme dell’ateo professionale Richard Dawkins, l’ultima incarnazione, quella del nemico delle religioni, l’islam e poi il cristianesimo. Enorme successo editoriale (“Dio non è grande”, Einaudi, 2007), rivelò Hitchens al suo massimo zelo di crociato anti-teista, contro le fedi che sono al meglio una sciocchezza, al peggio una licenza alle violenze, basate su testi come il Nuovo Testamento, “grossolano lavoro di falegnameria, messo assieme molto tempo dopo i presunti accadimenti”. Parole che non fanno di Hitchens un nuovo Orwell, ma che giustificano l’emozione con cui ieri l’Inghilterra ha accolto la notizia della sua morte, quasi fosse stato, dicono i critici, “una principessa Diana del giornalismo”.

Repubblica 17.12.11
Il grande polemista si è spento all´età di 62 anni: "Il gioco valeva la candela"
il mio testamento
 di Christopher Hitchens


Al pari dell´uomo della ben nota storiella, talvolta scoppio a ridere pensando che se avessi saputo che avrei vissuto fino a questa età mi sarei preso meglio cura di me stesso. Gli aneddoti sul mio "stile di vita" bohémien sono esagerati, ma forse neanche troppo.
Avevo messo a punto uno stile di vita molto produttivo e anche soddisfacente per me. Se in parte il mio regime dipendeva un po´ dai cocktail, dalle ore piccole fatte per leggere o discutere fino a tardi, o addirittura da qualche ricaduta nel vizio del fumo, ho sempre pensato che il gioco valesse la candela.
La mia salute attuale peggiora più che migliorare. Sono costretto a fare duplici preparativi per morire e per andare avanti a vivere. Avvocati al mattino e medici al pomeriggio, ero solito dire. Una delle dimensioni più piacevoli della mia vita, quella dei viaggi, mi è ora preclusa, con mia grande infelicità. Ho scoperto però di possedere ancora il desiderio di scrivere, così come ciò che più è indispensabile a ogni scrittore: il bisogno famelico di leggere.
Nella mia vita ho avuto una causa contro la quale mi sono battuto, la superstizione, il che – tra le altre cose – significa affrontare le paure delle quali essa si nutre. Per qualche inesplicabile ragione, la nostra cultura considera per i fedeli normale, perfino encomiabile, ammonire coloro che si ritiene che stiano morendo. Quantunque avrei scelto di offendermi (qualora fossi stato ipocritamente invitato a ripudiare le mie convinzioni proprio in extremis: che insulto e che non-sequitur, come se non bastasse!), in realtà sono grato per la grande attenzione ricevuta da chi ha fede. Se preferite, ho concesso al mio ateismo di aprirsi a nuove prospettive. E ciò oltretutto mi ha aiutato a mantenere aperto un dibattito che prosegue da tempo e al quale sono orgoglioso di aver dato nel mio piccolo un contributo. Affermare che tale dibattito mi sarebbe sopravvissuto in ogni caso è sempre stato vero.
Ho trascorso buona parte degli ultimi dodici mesi a registrarmi come cavia per test e controlli di molte sperimentazioni cliniche e protocolli. Il mio scopo ovviamente non è del tutto disinteressato, ma molte sperimentazioni sono nella fase in cui il loro risultato è talmente lontano nel tempo da non essermi di aiuto. In questo libro cito un imperativo categorico di Horace Mann: «Dovresti vergognarti a morire prima di aver compiuto qualcosa per l´umanità». Pertanto questa è una risposta modesta e inconsistente alla sfida da lui lanciata, certo, ma è la mia. L´irruzione della morte nella mia vita mi ha permesso di esprimere un po´ più concretamente il mio disprezzo per il falso conforto della religione, e il principio della centralità della scienza e della ragione.
Non tutte le mie opinioni sono state suffragate, neppure ai miei occhi. Vedo di aver scritto che «Io in persona voglio "sottopormi" alla morte in modo attivo e non passivo, ed essere lì per guardarla negli occhi, e fare qualcosa quando arriverà il mio turno». Alla luce di ciò che adesso so, non posso ribadire questa stessa baldanza. Qualora i migliori tentativi dei miei amici medici dovessero risultare inefficaci, ormai mi sono fatto un´idea abbastanza chiara di come il cancro esofageo allo stadio quattro miete le proprie vittime. La fase terminale non consente molto dal punto di vista dell´"attività", né di composti addii, per non parlare di saluti stoici o socratici. E questo è il motivo per il quale sono profondamente grato per aver già goduto di un lucido intervallo sufficientemente lungo, e di averlo riempito con quegli stessi elementi – amicizia e amore, letteratura e dialettica – con i quali spero di aver reso vivace e interessante questo libro. Non sono nato per fare nessuna delle cose di cui parlo in questo libro, ma sono nato per morire. E questa coda deve essere il mio tentativo di portarne a conclusione la narrazione.
Traduzione di Anna Bissanti) © 2010 by Christopher Hitchens per l´edizione italiana © 2012 by Giulio Einaudi Editore

Repubblica 17.12.11
Il grande polemista e ateo militante che ha sfidato il tabù della malattia
È scomparso ieri all´età di 62 anni Nel 2010 disse pubblicamente di avere un tumore e di essere alla fine
di Enrico Franceschini


Gore Vidal lo definiva il suo erede, Martin Amis lo considerava un fratello, Salman Rushdie lo ricorda come «una grande voce e un grande cuore». È morto di tumore a 62 anni Christopher Hitchens, scrittore, giornalista e polemista inglese, e il mondo delle lettere e della critica internazionale si inchina al cospetto di una delle menti più brillanti, anticonformiste e coraggiose della sua generazione.
Negli ultimi tempi era noto soprattutto per le sue radicali posizioni contro la religione, ogni tipo di religione, che giudicava un´ideologia «violenta, irrazionale, intollerante, razzista, tribale, bigotta e ignorante»: soggetto del suo ultimo libro, Dio non è grande (pubblicato in Italia da Einaudi), un best-seller che ha venduto più di mezzo milione di copie. Ma in precedenza era stato un inviato nelle rivoluzioni e nelle guerre di mezzo mondo, dal Portogallo alla Polonia, dal Nicaragua all´Iraq, e un columnist sferzante, difensore degli oppressi e degli ideali progressisti, ma pure pronto a denunciare con passione il terrorismo di al Qaeda, da lui definito «un fascismo con il volto dell´Islam».
La lotta contro il male che lo ha colpito nel 2010 non aveva rallentato la sua prodigiosa attività editoriale, anzi era diventata un nuovo campo di battaglia, smascherando il cancro come un tabù di cui spesso la società ha ritegno di parlare, minimizzandolo come «qualcosa di così prevedibile e banale che annoia perfino me». E ironizzando: «Non dico più alcune cose con la stessa convinzione di prima. In particolare ho smesso di dire che quello che non ti ammazza ti ingrassa». Arrivato all´ultimo stadio della malattia, affermava: «Soffro di un tumore all´esofago di quarto grado. E non esiste quinto grado». Ringraziava i medici per le cure con cui lo assistevano, promettendo serenamente di «resistere meglio che posso, anche se solo passivamente».
Tributi e omaggi di amici e colleghi hanno fatto seguito alla notizia della sua scomparsa, avvenuta a Houston, in Texas, dove era ricoverato dopo avere preso la cittadinanza americana nel 2010. «Era un coraggioso combattente contro tutti i tiranni, incluso Dio», ha detto il filosofo Richard Dawkins, che aveva condiviso con Hitchens un´attiva campagna per l´ateismo e specialmente contro la Chiesa cattolica, e che lo ha intervistato poche settimane or sono per il settimanale laburista New Statesman, di cui Hitchens è stato una delle firme principali. Lo scrittore Ian McEwan ha ricordato alla Bbc il loro ultimo incontro: «Fino alla fine, quando era debolissimo e il tumore aveva cominciato ad avere la meglio, aveva chiesto una scrivania vicino alla finestra della sua stanza d´ospedale, lontano dal letto nell´unità di terapie intensive. Suo figlio ed io lo abbiamo spostato in carrozzina, attaccato alle flebo, fino al tavolo con il computer ed ecco un uomo con solo pochi giorni da vivere che riusciva a scrivere tremila parole di getto in tempo per la deadline». Salman Rushdie ha affidato a Twitter il suo cordoglio: «Arrivederci, mio amato amico. Una grande voce diventa silenziosa. Un gran cuore si è fermato». Graydon Carter ha scritto sul sito dell´edizione americana di Vanity Fair, la rivista da lui diretta e di cui Hitchens era tuttora collaboratore: «Un uomo di insaziabili appetiti, per le sigarette, lo scotch, la compagnia, la bella scrittura e, soprattutto, la conversazione». Il New Yorker pubblica un lungo elogio di Christopher Buckley, altra penna dissacrante come Hitchens: «Uno dei nostri pranzi cominciò all´una e mezza e finì mezz´ora prima di mezzanotte. Verso le nove di sera lui chiese: "Dobbiamo ordinare altro cibo?". Io tornai a casa e per giorni restai col ghiaccio sulla testa e sotto osservazione medica. Christopher probabilmente andò a casa e scrisse una biografia di Orwell». Tina Brown, direttrice di Newsweek, lo definisce semplicemente «il più coraggioso e più bravo che io abbia conosciuto». E il deputato inglese Denis MacShane, suo compagno di studi a Oxford: «Nuotava sempre contro corrente. Era un incrocio tra Voltaire e Orwell. Più di ogni cosa amava scrivere. Poteva bere una bottiglia di whisky, e il mattino dopo si svegliava pronto a scrivere un lungo articolo senza cambiare una virgola».
Figlio di un ufficiale dell´esercito e di una madre intellettuale, che fin da piccolo vedeva in lui un prodigio, dopo le scuole si iscrisse a Oxford dove condusse, per sua stessa ammissione, «una doppia vita», come «alleato della classe lavoratrice», ma pure frequentatore dei cocktail party dell´establishment. Dopo la laurea approdò a Fleet street, la "via dell´inchiostro" dove avevano la redazione tutti i giornali del regno, e si affermò rapidamente come commentatore e inviato speciale. Poi sono venuti i saggi da polemista, i libri, le lezioni universitarie, l´amicizia con Gore Vidal, che disse: «È il mio erede intellettuale», e con Martin Amis, per il quale era «più che un fratello» (con il proprio fratello Peter, giornalista e scrittore anche lui ma di idee politiche diametralmente opposte, Hitchens aveva quasi interrotto i rapporti). La sua autobiografia, Hitch 22, allusione al famoso romanzo Comma 22 di Joseph Heller sull´insensatezza della vita militare, contiene quello che potrebbe essere l´epitaffio di questo incrollabile razionalista: «L´unica certezza è che non esistono certezze».

il Riformista 17.12.11
Hitchens, Madre Teresa lo attende
di Francesco Longo


«Pensa come un bambino, scrive come un autore illustre e parla come un genio», scrisse uno dei più importanti scrittori inglese, Martin Amis, riferendosi al suo polemista preferito, Christopher Hitchens. Ma poi aggiunse: «ha un disprezzo per il buon senso che fa quasi tenerezza». È proprio l’innata propensione ad essere fuori dal coro il pregio e il limite di Christopher Hitchens. Dopo un cancro all’esofago che lo aveva assalito un anno fa, è morto giovedì per una polmonite, a 62 anni. Martin Amis scrisse quel necrologio quando l’amico era ancora in vita, sapendo che mancava poco tempo. Fu Hitchens stesso, col cinismo amaro che lo contraddistingueva, ad affermare di recente: «Come sto? Sto morendo».
Hitchens è un personaggio controverso, saggista, giornalista di guerra, scriveva sulle pagine di Vanity Fair e firmava una rubrica sul Wall Street Journal. Scrittore con un passato da trotzkista e una maturità da marxista, è stato addirittura accusato di essere diventato neoconservatore. Ostentava una verve impareggiabile, era terribilmente acuto, caustico e blasfemo, aveva fatto dell’irriverenza una divisa e della dissacrazione un impiego a tempo pieno. Commentatore dell’attualità, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, parlò di «fascismo dal volto islamico» e si immerse nel mondo islamico. Hitchens amava George Orwell che considerava il suo autore di riferimento, Gore Vidal invece lo
presentò come suo successore. È stato compagno di strada di Susan Sontag e ieri, alla notizia della sua morte, Salman Rushdie ha scritto su Twitter: «Un grande cuore si è fermato». Stimato dai colleghi, apprezzato per la lucidità e l’asprezza con cui si lanciava nelle sue battaglie, si era fatto anche una schiera di nemici.
Britannico di origine, viveva da tempo negli Stati Uniti. I suoi interessi sono confluiti spesso nei molti libri di cui è autore. Tra questi, va ricordata la biografia su Thomas Jefferson, la sua autobiografia Hitch 22, e un libro contro Madre Teresa, La posizione della missionaria. Teoria e pratica di Madre Teresa (minimum fax). Molte delle sue più accese polemiche, e però anche delle sue cadute di stile, sono infatti legate alla battaglia ideologica contro le religioni e la chiesa cattolica in particolare. Confondeva spesso il monoteismo col fondamentalismo, la libertà di critica con la mancanza di rispetto, l’ironia tagliente con la superficialità. Per un intellettuale, profanare ciò che per altri è sacro non è mai infatti un segno di profondità. Considerava Madre Teresa subdola e la fede un retaggio del passato. Ecco la tenerezza che coglieva l’amico Martin Amis, quella di un combattente, a volte ingenuo, che si innamora più delle sue arguzie che dell’oggetto a cui le rivolge. Preferiva il clamore della controversia, al silenzio della verità. Se un aldilà esiste, sarà andata a prenderlo proprio Madre Teresa. Avrà cura anche di lui.

La Stampa 17.12.11
Bertolucci: l’adolescenza per me è irresistibile
Concluse le riprese di “Io e te” dal libro di Ammaniti “Niente 3D, è troppo lento e non arricchisce il linguaggio”
di Fulvia Caporara


ROMA. Un adolescente in cantina, deciso a fuggire da un mondo di adulti distratti, una sorellastra confusa, irruente, vitale, un autore che torna dietro la macchina da presa dopo quasi dieci di pausa e gira un film seduto su una «sedia elettrica», libero di essere quello che è sempre stato, regista di grandi idee e di grandi visioni, a prescindere dagli spazi in cui prendono in corpo, che siano quelli immensi e monumentali del Piccolo Buddha oppure quelli soffocanti e minimali dell’ Assedio. Nella zona più affascinante di Trastevere, a due passi da via della Lungara, lontano da ogni frastuono turistico-romanesco, Bernardo Bertolucci ha appena finito di girare (ieri era l’ultimo giorno di riprese) Io e te, basato sul romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti che ha partecipato alla sceneggiatura firmata da Francesca Marciano e Umberto Contarello:
«Resisto poco quando mi si parla di adolescenti. Il passare del tempo in quell’età, che poi vuol dire crescere, mi ha sempre attratto. Penso a Rimbaud e a quei suoi versi che dicevano " non si è tanto seri quando si hanno 17 anni e dei tigli verdi sulle nostre passeggiate" ». È in quella fase che il materiale umano acquista il massimo del fascino: «Devi acchiappare il momento, altrimenti ti sfugge».
Il romanzo è il punto di partenza, il trampolino da cui spiccare il volo, al cinema è sempre stato così, e Bertolucci non lo nega: «Parlando con Moravia, ai tempi del Conformista, gli dissi " per essere fedele al tuo romanzo, mi tocca tradirlo", lui accolse la cosa con molta serenità, partecipando alla sceneggiatura». Stavolta il cambiamento forte riguarda Olivia, la sorellastra che irrompe nella vita di Lorenzo, mandando in pezzi il suo piano di auto-segregazione. La interpreta Tea Falco, attrice, fotografa da quando aveva 13 anni e artista di fama riconosciuta: «Ha nutrito e arricchito il personaggio, cerco sempre di far fondere i miei protagonisti con le loro realtà». Nei panni di Lorenzo recita Jacopo Olmo Antinori, 14 anni, alla prima prova cinematografica, dopo aver debuttato a teatro quattro anni fa: «Lavorare con Bertolucci è un’esperienza impressionante», dice arrossendo sotto la selva di capelli ricci. Intorno a loro un universo di adulti «che stanno lì per caso», impersonati da Sonia Bergamasco, Pippo Delbono, Veronica Lazar. La scena, nello studio dell’artista Sandro Chia, è un polveroso ammasso di sedie, legno e vecchi relitti, un cunicolo stretto, pareti opprimenti: «E’ un luogo in cui circolava qualcosa, sembrava pronto per essere invaso dal mio film, mi sono accorto subito che ci stavo proprio bene, come un topo nel formaggio. In questo caso, più che di claustrofobia, parlerei di claustrofilia».
A «45 secondi» da casa (tanto impiega a raggiungere il set ogni mattina), Bertolucci ha ritrovato intatto il suo entusiasmo creativo, le passioni e le ossessioni come quella del ballo, presente anche in questo film, nei pochi minuti svelati ieri alla stampa: «Prima o poi nelle mie pellicole c’è sempre gente che danza, i momenti di musica permettono di dire di più, sono come spazi poetici in cui ci si può azzardare». Lorenzo e Olivia ballano avvinghiati dopo aver urlato, litigato, e manifestato in ogni modo i loro rispettivi disagi: «È strano per me fare un film di cui tutti conoscono la trama, il libro di Ammaniti si trova ovunque ed è stato letto da moltissimi giovani, io stesso l’ho finito in poche ore».
Si era parlato, all’inizio, di una versione in 3D, poi abbandonata: «Ho fatto dei provini a Cinecittà e mi sono accorto che il processo di riprese sarebbe stato rallentato, avrei dovuto cambiare tutto. Poi ho pensato al digitale, ma sono rimasto sconcertato dalla diabolica precisione di questa tecnica. Se mi fosse venuta qualche tentazione impressionistica, non avrei potuto seguirla. Così, dopo Avatar, e dopo Pina di Wenders, che è molto bello, sono tornato tranquillamente al 35mm, mi interessano le cose che possono arricchire il linguaggio». Prodotto da Fiction e da Mario Gianani in collaborazione con Medusa Film, Io e te sarà pronto per maggio, periodo dell’anno che fa immediatamente pensare al Festival di Cannes, platea ideale per la rentrée del grande maestro: «Soltanto un anno fa non avrei mai pensato di poter girare un altro film, e invece l’ho fatto, con un po’ di difficoltà di movimenti, ma l’ho fatto, e mi sono divertito moltissimo».

Repubblica 17.12.11
Un saggio di Covacich e un altro uscito da Carocci affrontano il tema
Perché bisogna spiegare l’arte contemporanea
di Maurizio Ferraris


I due testi cercano di spiegare a cosa serve vedere video e installazioni che usano così tanto la tecnologia quando quegli oggetti sono già presenti nelle nostre vite

Nel Pigmalione di Shaw un professore, Henry Higgins si impegna a trasformare una fioraia, Eliza Doolittle, in una donna del bel mondo. Il topos viene capovolto da Mauro Covacich in L´arte contemporanea spiegata a mio marito, uscito da Laterza, dove per l´appunto è lei, una ipotetica moglie o compagna colta, a trarre lui, uomo benestante e istruito ma riottoso, dall´abisso di ignoranza e soprattutto di diffidenza nei confronti dell´arte contemporanea spiegandogli per filo e per segno (ma senza troppa albagia) il senso delle provocazioni di Duchamp (orinatoio nella galleria), di Cattelan (papa colpito da meteorite) e di Manzoni (cacca in scatola). O perché Marina Abramovic ha passato il suo tempo a spolpare ossa alla biennale di Venezia. O cosa c´è di bello nel Kitsch di Koons. Covacich spiega trenta artisti partendo da un´opera paradigmatica, e lo fa senza gergo e con chiarezza, come farebbe un bravo professore di storia dell´arte (anche se di formazione è filosofo e di mestiere è scrittore), un po´ come avveniva in opere come Saper vedere di Matteo Marangoni (1933).
Solo che qui l´impresa è molto più difficile. Perché non si tratta di spiegare come mai Picasso disegna donne che assomigliano così poco al naturale, ma perché ci sia un´arte che si impegna a dire: «Guarda come sono brutta ma intelligente, e se non sei d´accordo lo stupido sei tu».
Nel percorso disegnato da Covacich, lui è redento da lei, e alla fine capisce. Un happy ending, dunque. Secondo me, invece, anche se vince quasi tutte le sue battaglie, Eliza perde la guerra, non per colpa sua, ma dell´oggetto. Mentre l´iniziazione ha luogo più e più volte Covacich osserva che Pigmalione, mentre lei gli spiega l´arte, pensa ai suoi gadget tecnologici, che lo appassionano davvero. E se avesse ragione lui? Perché – ecco un´impressione a cui è difficile sottrarsi – è chiaro che la visita ha spesso luogo in un obitorio. E, soprattutto, molte delle opere più recenti che lei spiega a lui (da Viola a Calle, ancora in epoca pre-digitale, a Barney e a Hockney, con cui si chiude la rassegna) strizzano l´occhio precisamente a quegli oggetti a cui lui pensa con nostalgia mentre lei se lo trascina dietro nei musei. Vien da pensare che quegli oggetti, di cui pullulano gli schermi della pubblicità e del web, e che riempiono la vita tanto di Pigmalione quanto di Eliza, non emergano per contrasto, ma per associazione di idee. Portandosi con sé un retropensiero: perché venire fin qui a guardare video e installazioni quando tutto questo è disponibile, in tecnologie e oggetti innovativi di cui le opere esposte qui sono spesso l´eco arretrata e prolissa?
Così, mentre ascoltava le spiegazioni di Eliza, Pigmalione avrebbe potuto, con una mossa a sorpresa, tirar fuori un altro libro appena uscito, Parole chiave della nuova estetica, curato da Riccardo Finocchi e Daniele Guastini per Carocci, dove, su 82 voci scritte da 38 autori, una cinquantina buona riguarda proprio il momento tecnologico, gli iPhone, le webcam, le flash memory, mentre una rappresentativa minoranza riguarda i sensi, il gusto, lo slow food: l´utile, il dilettevole, il pratico, ossia il rimosso della Grande Arte e della sua erede, l´Avanguardia. L´ipotesi da cui muove questo libro è quella della "estetizzazione diffusa": oggi siamo circondati da oggetti carichi di seduzioni estetiche. Il che è vero. Ma non è vero che lo siamo più che in altre epoche: basti confrontare l´elmetto chiodato del Kaiser e l´ermellino di Napoleone con le giacche verdi della Merkel e le grisaglie di Sarkozy. Di certo, quello che avviene non è il fenomeno di un´arte che esce dalle gallerie ed entra nella vita, anche perché in effetti succede esattamente il contrario. Piuttosto: la morte dell´arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l´arte, ma solo l´arte visiva che si autocomprende come Grande Arte Concettuale, mentre altre arti stanno benissimo, e ne nascono di nuove. Non sarebbe la prima volta (per esempio, a un certo punto sono scomparsi i poemi epici e sono apparsi i romanzi), e la cosa davvero interessante è chiedersi che cosa ci sarà dopo, o se il dopo è già qui.

il Riformista 17.12.11
Pasolini per parlare ai radicali
di Massimo Bordin


L’inedito di Pasolini pubblicato ieri ma c’era stato il referendum sul divorzio e da
dall’ Espresso, un dialogo-dibattito a Stoccolma con cinefili svedesi, pochi giorni prima della sua morte, non contiene clamorose novità ma aiuta forse a riflettere. Sull’utilizzo di attori non professionisti Pasolini sostiene «Fossi in Svezia prenderei solo attori perché da voi non c’è più differenza fra un borghese e un operaio». Sembra un inno alla socialdemocrazia, invece no. Pasolini parla con rimpianto agli svedesi dei contadini e della loro ormai perduta fedeltà alla chiesa, rimpiange le file di seminaristi per Roma e depreca le chiese vuote e il fatto che non ci siano più nemmeno i marxisti, divenuti altra cosa, e che alle elezioni trionfino i laici. Attenti alle date, siamo nell’ottobre 1975, l’anno prima c’era stato il referendum sul divorzio e da pochi mesi Roma, Napoli e Torino avevano sindaci comunisti.
Pasolini, che pure ha sicuramente votato Pci, vede solo il trionfo del “consumismo” che equipara al nazismo. Certo c’è l’ iperbole che accompagna ogni artista.
Certo Pasolini non può non sapere che proprio i consumi, il reddito conquistato, tengono lontani i figli di operai e contadini dai seminari. Ma non può evitare il rimpianto. E forse non c’è contraddizione se l’ultima cosa che scrisse fu una lettera ai radicali a congresso in cui li invitava a restare se stessi, sempre imprevedibili e per lui importanti. Tutto ciò per parlare di Pasolini, ma forse anche dei radicali, che Pasolini sentono simile a loro.

il Fatto 17.12.11
Capolinea “Liberazione”, in rosso anche i conti
Le pubblicazioni dello storico organo di Rifondazione comunista cesseranno dal 31 dicembre
di Chiara Paolin


La società editrice è giunta alla dolorosa determinazione di sospendere cautelativamente le pubblicazioni il 31 dicembre prossimo, onde evitare l’aggravarsi di uno squilibrio economico gestionale nel prossimo esercizio”. Così Marco Gelmini, amministratore unico della società che edita Liberazione, ha fissato la data di una chiusura più volte annunciata. Si convochi immediatamente un tavolo al sindacato per gestire la posizione di giornalisti e poligrafici, ha scritto in una lunga lettera inviata ieri a tutte le parti interessate: è ora di calcoli e carte da firmare per una minaccia diventata realtà. Liberazione sarà in edicola ancora per due settimane, poi basta.
I numeri di Gelmini sono espliciti: “Relativamente all’esercizio 2010 – spiega la lettera – si registrerà un minore ricavo del 15 per cento a causa delle ridotte provvidenze dell’editoria (-511mila euro). Relativamente all’esercizio 2011, si può prevedere un minor ricavo da provvidenze per l’editoria nell’ordine del 70 per cento (superiore quindi ai 2 milioni di euro rispetto alle previsioni di bilancio della società editrice!) ”. Il direttore Dino Greco traduce: “Di fatto siamo al capolinea, hanno deciso di tenere l’acqua sporca e gettare il bambino. Con un piccolo aiuto alle testate che fanno davvero informazione si poteva portare avanti un patrimonio economico, prima ancora che libertario. Come mai questi tecnici non lo capiscono? E come mai la gente invoca la selezione selvaggia del mercato senza rendersi conto che sindacati fuori dalle fabbriche e giornali col bavaglio sono la ricetta già vista in Italia nel 1933? ”. Di certo la sinistra italiana rischia di sparire in blocco dalle edicole: Unità, Europa, manifesto, Liberazione. “In vent’anni non avevamo mai smesso di uscire, mai – spiega Carla Cotti del cdr –. Siamo molto preoccupati. Dopo il sacrificio degli ultimi anni ci bastava poco per ripartire. L’organico al lavoro è passato da 30 a 7 redattori, da 20 a 6 i poligrafici, tutto per mantenere una testata storica, e libera. Vogliamo lasciare l’Italia in mano solo ai grandi editori? Perché non sostenere la piccola stampa con un fondo di solidarietà a carico di chi si spartisce la pubblicità? ”.
Liberazione, nata negli anni Settanta per gemmazione gratuita del settimanale edito dai Radicali, dal 1991 a oggi ha rappresentato la voce dei comunisti italiani. Lanciata da Oliviero Diliberto, magnificata da Sandro Curzi nel suo momento di massima affermazione intorno agli anni Duemila, ha poi vissuto un declino costante.
La gestione di Piero Sansonetti, cercando il rilancio e aumentando le spese, aveva lasciato un conto pesante. Con Dino Greco, dopo tre anni di sacrifici, la scialuppa era tornata sulla linea di galleggiamento. Stavolta, però, sta mancando l’acqua, si va tutti in secca.