sabato 28 maggio 2011

La Stampa TuttoLibri 28.5.11
Il Nobel portoghese. Un deforme ritratto privato fondato sulle presunte infedeltà della giovane moglie
Saramago non era solo come un cane
di Angela Bianchini


http://www.scribd.com/doc/56539645

José Saramago con la moglie Pilar del Río, nell’isola di Lanzarote

Baptista-Bastos, SARAMAGO Un ritratto appassionato trad. di Daniele Petruccioli L’Asino d’oro, pp. 170, 15

Domingos Bomtempo S. IL NOBEL PRIVATO trad. di Joana Clementi Cavallo di Ferro, pp. 183, 15

Si intitola S. Il Nobel privato il romanzo di Domingos Bomtempo tradotto da Cavallo di Ferro, casa editrice benemerita per la pubblicazione di tanta letteratura portoghese. Quanto all’autore, come dice la quarta di copertina, «è di certo uno pseudonimo che nasconde chissà quale penna. Di lui non sappiamo niente». E l’argomento? Beh, sembra trattarsi degli ultimi anni del grande scrittore portoghese José Saramago, autore, fra l’altro, del Memoriale del convento , de L’assedio di Lisbona e di Cecità , coronato come primo premio Nobel della letteratura portoghese nel 1998.
Non c’è dubbio che questo Saramago è certamente molto privato: viene descritto nei suoi ultimi anni, quando lasciato il Portogallo, dopo le polemiche suscitate dal Vangelo secondo Gesù del 1991, si era ritirato con la giovane moglie nell’isola di Lanzarote. Lo troviamo che si sveglia a metà della notte, ascolta il suo cuore malandato e, soprattutto, svegliandosi, non fa che piangere: «Dava la colpa al vento dell’isola, ma lui lo sapeva bene che non era così. Al vento dell’isola era ormai abituato da anni, da quando si era unito a quella donna giovane e bella dall’udito crudele».
Condizione quasi uniforme del libro sono le notti, i risvegli, le angosce, la solitudine, appena interrotta dalla compagnia del fedelissimo cane, dai molteplici ricordi, da alcuni accenni (pochi, per dire la verità) ai grandi temi della sua narrativa, dalle immagini sbiadite di Lisbona e, soprattutto, da polemiche abbastanza banali con un giovane scrittore portoghese e un altro scrittore «che aveva fatto la guerra», entrambi aspiranti delusi al Nobel. Esistono anche rivalità con scrittori italiani, anche queste appena accennate e misteriose e, a quanto pare, ormai risolte.
Ma il tema di fondo, per Saramago e anche, si suppone, per i lettori, dovrebbe essere l’assenza della giovane moglie che lo ha seguito nell’isola ma lo tradisce di continuo: fa l’amore con tutti meno che con lui, torna a casa a notte fonda (oppure non torna) e lo tenta di continuo con la sua bellezza, la sua nudità, quelle tette straordinarie che lui sogna sempre di stringere, rimanendo sempre a mani vuote.
Che dire? Chi scrive ebbe la fortuna, anni e anni fa, di incontrare Saramago e la sua giovane moglie spagnola, Pilar del Río, a casa di Luciana Stegagno Picchio. Saramago non aveva ancora ricevuto il Nobel e la moglie era davvero bella e formavano una coppia unitissima. I resoconti della malattia e morte di Saramago sono stati unanimi nell’affermare che è stata lei ad assisterlo e aiutarlo fino all’ultimo momento.
A confermare questa impressione arriva ora (inaspettatamente, vorrei dire) una testimonianza preziosa: si tratta del volumetto José Saramago. Un ritratto appassionato di Baptista- Bastos con premessa di Pilar del Río, pubblicato da l’Asino d’oro. Raccoglie le conversazioni avvenute a Lanzarote, alcuni anni fa, tra Saramago e Baptista-Bastos, suo grande amico di sempre, «compagno della resistenza, del 25 aprile portoghese... due saggi a passeggio tra i vulcani, che guardano isole e tendono ponti», come dice Pilar del Río.
Eh, già: perché il libro, uscito nel 1986, è ora, per volere della Fondazione José Saramago, integrato da una preziosa cronologia e da altre informazioni. E, soprattutto, dalle parole di Pilar, datate aprile 2011.
E, come se non bastasse, c’è quella struggente fotografia dei due sposi, nello sfondo delle montagne verdi di Lanzarote, le bocche congiunte, lei quasi sdraiata sulla spalla di lui, a offrirci un Nobel davvero «privato» che vale tutte le boutades odivertissements di oggi.
L’omaggio appassionato di Baptista-Bastos smentisce il romanzo di Bomtempo, cosparso di banalità e rivalità

Corriere della Sera 28.5.11
Bersani: il premier prigioniero di ossessioni


«Abbiamo un presidente del Consiglio prigioniero delle sue ossessioni. Queste sue performance credo che siano viste con sgomento da parte degli italiani» . Pier Luigi Bersani reagisce così alla nuova ondata di dichiarazioni del premier. Da Rimini attacca Berlusconi che «vive dentro una sua ossessione e un suo film: intanto il nostro Paese va avanti col pilota automatico» . Per il segretario del Pd, il premier «è visibilmente in caduta libera nella credibilità internazionale e anche la scena di giovedì al G8 ci dimostra che non si può più andare avanti così» . Per Rosy Bindi, «l’Italia non merita queste figuracce: Berlusconi ha scambiato la tribuna mondiale del G8 con un palco di uno dei suoi comizi. Un’inaccettabile strumentalizzazione che umilia e ridicolizza l’Italia» . L’Idv, con Massimo Donadi, contesta le «figuracce in televisione» . Il finiano Fabio Granata va oltre: «Ormai non ci si riesce più a indignare, tanto è paradossale il suo comportamento. Le offese cominciano a essere da trattamento sanitario obbligatorio: servirebbe un’igienista mentale» . Vincenzo Vita (Pd) parla di «delirio di un Riccardo III in sedicesima» . Ma per l’opposizione, la vigilia dei ballottaggi è anche occasione per riaprire il tema delle alleanze. E Pier Luigi Bersani si rivolge ai centristi, convinto di un fatto: «In questi giorni c’è la sensazione che l’elettorato del cosiddetto polo di centro stia guardando con simpatia le proposte del centrosinistra» .

da DilloaObama, su Facebook:
“Mr Obama, non è che può far riunire i Beatles, che sono stati sciolti da Pisapia?”
“Presidente, mi perdoni ma la vicina del piano di sopra continua a bagnare le piante e a scrollare le tovaglie fuori agli orari consentiti. Siamo tutti nelle mani di questa comunista dell’ultimo piano”
“Mr Obama, chiedo scusa, qui un giorno fa caldo e quello successivo piove a dirotto... potrebbe dire ai giudici di sinistra di smetterla? Grazie”.

l’Unità 28.5.11
Un paziente psichiatrico da aiutare
Luigi Cancrini risponde a Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21


Il premier ci aveva fatto sapere che solo i matti votano a sinistra. Ieri ha infastidito Obama con la solita barzelletta della dittatura dei giudici. Un chiaro segno che i matti sono anche altrove. Se un matto fa il premier però bisognerebbe interdirlo. Forse se fossero stati negli Usa Obama avrebbe chiamato l'ambulanza...».
di Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21
L’espressione interdetta di Obama di fronte al poveretto fuori di testa che gli si avvicina con tanto di fotografo e di interprete per dirgli che in Italia c'è la dittatura dei giudici di sinistra è il migliore dei commenti possibili a questa ennesima sortita del premier. L’immagine che ha suscitato immediatamente in me, dopo tanti anni, è quella del paziente di un Ospedale Psichiatrico che, vedendo una faccia nuova, subito gli si avvicina chiedendogli una sigaretta o sussurrandogli in fretta che "la colpa era della suocera" e con un gran senso di pena mi è venuto da pensare a quello che sta accadendo all'uomo del bunga bunga, ai fantasmi che ormai da troppo tempo occupano la sua mente, a chi potrebbe e dovrebbe fermarlo e gli corre ancora dietro, invece, cercando di prendere ancora da lui, così ricco e potente, tutto quello che ancora c'è da prendere. Un uomo che sta così male andrebbe aiutato a "staccare” un po' la spina, godersi un po' di riposo cercando, con l’aiuto di un tranquillante, qualcuno che lo ascolti. Nello spazio privato della terapia invece che al vertice del G8.

l’Unità 28.5.11
2 giugno, Costituzione e libertà
A Milano, l’Anpi, la Cgil, le Acli, l’Arci, Libera e tante altre associazioni andranno in piazza per rilanciare la battaglia contro le spinte autoritarie e populiste ed esprimere la vocazione antifascista degli italiani
di Carlo Smuraglia


Dopo la bella manifestazione    dello    scorso anno, a Milano, con cui – per la prima volta – si festeggiavano insieme la Repubblica e la Costituzione, quest’anno l’iniziativa si ripete – il 2 giugno – con maggiore estensione e maggiore vigore. Il Comitato promotore è lo stesso, composto da dodici associazioni, tra le quali ANPI, CGIL, ACLI, ARCI, LIBERA, LIBERTÀ E GIUSTIZIA e tante altre. Una manifestazione unitaria, dunque, a carattere nazionale, con l’obiettivo preciso di manifestare la volontà di tanti di difendere e irrobustire i valori della Costituzione, consolidandone ed attuandone i princìpi, dando una risposta collettiva e imponente all’anelito di libertà, di giustizia, di democrazia che sta sempre più manifestandosi dall’interno di questo Paese “smarrito”.
In effetti, in quest’ultimo periodo, si sono manifestati, in modo ancora più virulento, il disprezzo per le regole e per le istituzioni di garanzia, l’insofferenza verso coloro che, al servizio dello Stato, assolvono semplicemente al loro dovere istituzionale, lo spregio per il principio di uguaglianza, per lo stato di diritto, per la divisione dei poteri. Tutto questo ha assunto ormai non solo il connotato dell’arroganza, ma anche quello della prepotenza e della prevaricazione. Nella campagna elettorale per le amministrative, poi, tutto questo è stato esasperato dalla maggioranza e da alcuni esponenti del Governo nazionale e di quello locale, attingendo a livelli che ci hanno ricondotto al clima delle elezioni del 1948, per non dire ancora di peggio. Lo spettacolo inverecondo dei colpi bassi, del richiamo ai peggiori istinti, delle accuse più fantasiose e pretestuose ha lasciato attoniti tutti coloro che credono nella democrazia e nella convivenza civile. Poi, il fastidio e la repulsa si sono estesi e sono arrivati anche a livello di soggetti spesso troppo silenti: sicché si sono potuti osservare toni diversi negli interventi di alcuni esponenti della Chiesa e prese di posizione inequivocabili, in senso positivo, da parte di esponenti della borghesia più illuminata. Per non parlare dell’impressione diffusa di un grave caduta persino di dignità, suscitata dalla incredibile, recentissima e squallida vicenda avvenuta poche ore fa al G8.
Insomma, sembra che la società si stia risvegliando da un torpore che, per troppo tempo, l’ha afflitta. Abbiamo avuto segnali di riscossa di importanza enorme, come la grande manifestazione femminile (e non solo) del 13 febbraio (“se non ora quando”), un impegno rinnovato e manifestato anche in forme originali, da parte di studenti e insegnanti, manifestazioni per la libertà dell’informazione, lo sciopero generale della CGIL del 6 maggio, la splendida riuscita della manifestazione, a Milano, del 25 aprile, che non solo si è svolta senza incidenti (che purtroppo si erano verificati negli anni scorsi), ma addirittura ha visto, nonostante la “Pasquetta”, una partecipazione enorme, perfino numericamente superiore a quella dello scorso anno. Abbiamo, infine, colto segnali importanti di volontà di cambiamento nelle votazioni per alcuni Comuni e in particolare per quello di Milano, oltre ai risultati altamente positivi di Torino e Bologna.
Vedremo, nei prossimi giorni, se e quale sarà il consolidamento di questi segnali; ma è certo che essi non si potranno cancellare e dovranno essere considerati come un’importante forma di reazione alla degenerazione del nostro sistema politico e sociale.
Tutto questo spiega con evidenza perché è importante che la manifestazione nazionale del 2 giugno, a Milano, sia imponente, partecipata e festosa. Si tratta di indicare con forza la volontà di cambiare, di tornare ai valori ed ai princìpi fondanti della Repubblica democratica e della Costituzione; si tratta di reagire alle spinte autoritarie e popuiste che in varie forme cercano di avanzare; si tratta di esprimere con forza la vera vocazione antifascista e democratica del popolo italiano.
Sappiamo bene che le grandi svolte non si determinano, nella vita politica, soltanto con le manifestazioni di piazza, anche se imponenti, e che occorre un impegno continuo, quotidiano, fatto di elaborazione di alternative possibili, di battaglie contro il degrado, dell’affermazione, anche nel vivere giornaliero, della profonda esigenza morale che deve caratterizzare un Paese che vuole essere civile. Sappiamo tutto questo e chiediamo a tutti, a cominciare dai partiti di opposizione, dalle forze sindacali, dall’associazionismo, di partire da questa esigenza di fondo per ispirare ad essa tutta la propria azione; assicurando che l’ANPI sarà in prima linea, impegnata, come sempre, non solo e non tanto a ricordare le pagine più belle della nostra storia, quanto e soprattutto a farle vivere, a ritrovare lo spirito che animò i resistenti e i combattenti per la libertà, l’entusiasmo e la saggezza dei Costituenti, quell’impegno collettivo che ha prodotto tanti risultati positivi (penso allo Statuto dei lavoratori ed alle leggi fondamentali degli anni ‘70), che oggi rischiano di essere vanificati. Ma sappiamo anche che sono molto importanti il desiderio, la volontà di manifestare insieme, ritrovando fratellanza e solidarietà e levando alta la voce di chi non vuole tornare indietro, agli anni più bui della nostra storia.
Sono queste le ragioni per cui bisogna esserci, il 2 giugno, nel corteo e nelle piazze di Milano, con la forza dei nostri convincimenti, con l’ardore delle nostre speranze, con l’entusiasmo di chi spera in un futuro migliore e possibile, e cerca di costruirlo assieme.
Questo è il segno, la finalità, lo spirito della manifestazione che si terrà il 2 giugno, nella quale ritroveremo nell’unione di tante forze diverse – quella voglia di cambiare il mondo che – da sempre – è il segno premonitore della vittoria della libertà, dell’uguaglianza, della democrazia sulle forze che puntano sull’egoismo, sul potere come tale, sull’affermazione di se stessi, sulla prevaricazione.
Se poi tra questi segni riusciremo ad inserire anche la volontà di esercitare concretamente il diritto, che la Costituzione ci riconosce, di manifestare direttamente la nostra volontà, attraverso l’arma del referendum, reagendo con forza ad ogni tentativo di vanificarla e poi andando in massa a votare in difesa dei beni comuni oggi – purtroppo in pericolo, allora potremo dire di aver fatto, almeno in questa forma, il nostro dovere di cittadini democratici e potremo proseguire concretamente la nostra marcia sul sentiero della riscossa.

l’Unità 28.5.11
La primavera araba
I giovani e le piazze: nel mondo son tornate le masse
di Luigi Bonanate


Mentre alla piazza mediatica stanno pensando i guru dell’informatica riuniti a Parigi nel loro “e-G8”, ce n’è un’altra, fatta di uomini, meglio di giovani, che sta scrollando la politica internazionale. Da alcuni anni sembra che tutto si vada facendo ogni giorno più difficile privando gli statisti dell’entusiasmo che potrebbero altrimenti mettere nel tentativo di migliorare le cose del mondo, affrontando diversamente la crisi finanziaria così come gli stupidi scandali sessuali di più di un personaggio importante in giro per il mondo. Ma molto più straordinario è che le masse hanno iniziato a scrivere una nuova pagina della loro storia senza stare ad aspettare gli insegnamenti dei vecchi politici. Dopo essere state considerate «pericolose» dai teorici ottocenteschi della politica, le masse sono diventate lo strumento cieco e ottuso nelle mani delle grandi dittature; sono passate attraverso il mito della classe operaia come soggetto rivoluzionario prima che i grandi populismi, dall’America Latina a varie altre parti del mondo (per carità, non diremo quali), le intruppassero in una posizione subalterna, di cassa di risonanza per le manipolazioni mediatiche dei detentori del potere comunicativo. Ma c’è stata una domenica, quella del 16 febbraio 2003, che svoltò una pagina di storia: anche se inutilmente, milioni di giovani in tutto il mondo e quasi contemporaneamente sfilarono contro il progettato attacco all’Iraq e stesero le bandiere della pace. Dopo di allora, un po’ per volta, i giovani hanno dovuto dibattersi tra facebook e l’impegno, tra l’individualismo e la socievolezza. E mentre per qualche anno abbiamo temuto che l’inerzia della partita fosse irrimediabilmente decisa, ecco che la politica internazionale è stata travolta da un movimento di giovani che potrebbe assomigliare
al nostro Sessantotto. Noi combattemmo per migliorare le nostre condizioni già privilegiate; i giovani tunisini, egiziani, libici, siriani, ma anche quelli dello Yemen, del Bahrein, della Giordania e in un certo senso quelli afghani e altri che ne verranno stanno lottando per la libertà e per la democrazia.
L’Occidente ha provato invano a portare la democrazia in Iraq con le armi; oggi la democrazia la chiedono con coraggio, senza aggressività e con pazienza i giovani del mondo dei diseredati, che noi pensavamo di poter mantenere ancora a lungo nella loro subalternità. Essi invece stanno cambiando la faccia dei loro Paesi e tutt’insieme quindi anche le logiche e le regole di una vecchia politica internazionale, fatta in difesa degli interessi nazionali euro-americani, e non dell’eguaglianza e della giustizia.
E invece ora qualche cosa di nuovo e di buono avanza davvero.
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l’Unità 28.5.11
La primavera impetuosa dei ragazzi del Mediterraneo
Quanto è accaduto in Nord’Africa, quanto sta accadendo in Spagna dovrebbe farci riflettere: hanno ragione loro. In base a come sapremo rispondere si giocherà anche il futuro dell’Italia
di Anna Finocchiaro


È un    dato    acquisito    che    le    rivoluzioni scoppiate in tanti Paesi della sponda Sud del Mediterraneo abbiano sorpreso diplomatici, intelligence, osservato-
ri politici. Mi pare altresì evidente che l'attenzione europea ma dell'Italia voglio parlare oggi stia esorcizzando quella sensazione di spaesamento che la sorpresa sempre conduce con sé, ripiegando l'attenzione quasi esclusivamente sulle conseguenze che quei rivolgimenti producono sulle politiche nazionali, e dunque sull'ondata migratoria, sull'impegno militare, sui rapporti di forza in ambito europeo.
Questioni molto serie, ma che rischiano di sottrarre all'analisi (forse anche alla curiosità di una conoscenza piena) proprio gli elementi di cambiamento di quelle rivoluzioni che, appunto, hanno spaesato una politica irrigidita dalle categorie della realpolitik, mostrandola incapace di cogliere quanto di straordinariamente forte, vitale e credibile, correva nel solco carsico delle società tunisine, egiziane, libiche, per fermarci ad esse.
Questo spostamento di attenzione può trasformarsi in un punto di debolezza del nostro Paese (e dell'Europa) suscettibile di produrre conseguenze negative anche di lungo periodo, mentre l'attenzione che il Presidente Obama ha manifestato in questi giorni, con la proposta per il prossimo G8 di Deauville, costituisce una indiretta conferma dell'importanza strategica di una relazione con quei Paesi che non sia stretta solo sul timore e sull'apprensione che oggi segna l'atteggiamento del governo italiano, tanto più evidente quanto più pesa l'interdetto politico della Lega. Colpiva, nella sua prima relazione al Senato, che il Ministro Frattini, qualificasse Lampedusa come "l'ultima frontiera d'Europa", inconsapevole che questo punto di vista (nel senso proprio) tradisse un errore prospettico grave, poiché i recenti eventi confermano il Mediterraneo come luogo geopolitico e geoeconomico tra i più interessanti del globo (e l'Amministrazione USA ne pare, al contrario, ben consapevole), e perché capovolgere quel punto di vista, e considerare Lampedusa e il Mezzogiorno italiano come la "prima" frontiera d'Europa nel Mediterraneo potrebbe essere assai utilmente speso sul tavolo europeo, magari con maggiore efficacia e successo di quanto non sia accaduto recriminando di essere stati lasciati soli nelle remote lande dell'ultima frontiera, in quell' "hinc sunt leones" nel quale si rifugiavano antichi e inconsapevoli geografi e, oggi, trova riparo la pavida e snervata politica italiana.Ma c'è dell'altro. Si è liquidata con troppa fretta un' evidenza: a suscitare la rivolta sono stati giovani uomini e giovani donne. Il resto, tutto il resto, è venuto dopo. Il gesto di rottura, coraggioso e perentorio, la sua ineluttabilità è stato dei giovani di quei Paesi. Ragazzi e ragazze che hanno studiato e hanno utilizzato e sfruttato le nuove tecnologie per informarsi, mettersi in rete, parlare al mondo. Questo è. E se questo è accaduto in Nord Africa, con una forza e una credibilità ignota e a tutt' oggi ignorata dalla esangue politica del nostro Governo, basta girare ancora un po' la testa verso la Spagna e guardare i suoi ragazzi "indignados" per capire cosa sta succedendo.
Il vento si sta alzando, e riempirà ognuna delle nostre piazze, ed è bene che sia così. Hanno ragione loro. Su quanto saremo capaci di vederli e capirli per davvero, su quanto saremo capaci di rispondere e offrire, su quanto sapremo lasciargli spazio e potere e responsabilità giocheremo la partita che riguarda il futuro dell'Italia e dell'Europa.Per quanto mi riguarda credo che questa dell'autonomia e della libertà delle nuove generazioni sia proprio gerarchicamente la prima questione che il Paese deve affrontare. E non sono affatto convinta che possiamo pensare che essa si risolverà "di risulta", migliorando le condizioni generali di crescita del Paese. Non è così. Quei ragazzi non sono solo "figli", non possiamo vederli solo attraverso i loro padri e le loro madri, sono persone che reclamano autonomia, libertà e piena cittadinanza. E quello che si manifesta è un nuovo soggetto politico, maschile e femminile, vitale e arrabbiato. Non riduciamoci a temere l'ira dei giusti e a fronteggiarla. Arriviamo, per una volta, prima pronti ad ascoltarla e accoglierla. Usiamo generosità. Quello che chiedono è placarla quell'ira, per trasformarla in forza. Loro e nostra.

il Fatto 28.5.11
I giovani deprezzati
di Alessandro Rosina


   Difficile capire la realtà e interpretare i cambiamenti in atto se ci mancano le parole per indicarli. Anche nell’innovazione del linguaggio siamo in ritardo e questo la dice lunga sulla nostra incapacità non solo politica, ma prima ancora culturale, di leggere il mutamento e coglierne le implicazioni. Un esempio? Nella lingua italiana il processo di continuo aumento della popolazione anziana viene chiamato “invecchiamento” demografico. Si usa invece il termine di “ringiovanimento” per indicare l’aumento della consistenza numerica delle nuove generazioni. Manca invece nel vocabolario un nome per indicare il processo opposto, quello che corrisponde alla progressiva riduzione del peso dei giovani nella popolazione.
   Un vocabolo mai introdotto prima anche perché in passato non serviva. Fino a trent’anni fa i giovani erano infatti un bene abbondantemente presente nella popolazione. Poi, come conseguenza dell’accentuata e persistente denatalità, hanno iniziato ad affacciarsi in età adulta generazioni via via quantitativamente sempre meno consistenti. Siamo stati il primo Paese al mondo che ha visto gli over 65 superare gli under 15. Secondo le previsioni Istat, nei prossimi dieci anni i ventenni e trentenni italiani verranno per la prima volta superati dai maturi cinquantenni-sessantenni scendendo al valore in assoluto più basso in tutta la storia della nostra Repubblica. Un fenomeno imponente, incisivo e inedito che però, come abbiamo detto, è orfano di nome formalmente riconosciuto.
   Non si tratta di una questione semplicemente nominalistica. Il linguaggio orienta il nostro pensiero, come ben racconta Orwell nel suo famoso libro 1984. Ecco allora che in assenza di un nome specifico, l’Istat usa ufficialmente la parola “invecchiamento” anche per indicare la perdita di consistenza delle nuove generazioni. Si tratta di un uso improprio e fuorviante del termine che porta a focalizzare l’attenzione solo sul fatto di avere sempre più vecchi, distraendo l’attenzione sociale e politica dalle possibili implicazioni dell’avere sempre meno giovani. Tanto più che gli effetti osservati sono controintuitivi. Ci si potrebbe aspettare, da un lato, che generazioni meno numerose che si affacciano all’età adulta si possano trovare complessivamente favorite in termini di spazi nella società e di opportunità occupazionali. Secondo la teoria economica, infatti, più un bene è raro sul mercato, più risulta prezioso e ricercato. E invece questo, paradossalmente, non è quello che sta accadendo per il “bene” giovani in Italia. Inoltre, anche in assenza di spontanei meccanismi virtuosi di aggiustamento, una società che si trova con una riduzione del peso delle nuove generazioni dovrebbe proprio per questo mettere in campo esplicite politiche che ne promuovano il contributo attivo. Compensando così la riduzione quantitativa con un potenziamento qualitativo del loro ruolo nella società e nel mercato del lavoro. Solo così il Paese può continuare a crescere e rimanere competitivo.
   In assenza di lungimiranza nella classe dirigente, l’alleggerimento dei giovani rischia, invece, di affievolirne le istanze e di vederne sottorappresentati gli interessi. Diventa più difficile superare le resistenze di chi difende lo status quo e le posizioni di rendita. L’esito è una società che diventa più chiusa, meno dinamica, ma anche più iniqua e più povera.
   Come segno tangibile di questa mancanza di lungimiranza possiamo indicare due esempi macroscopici che accentuano lo squilibrio generazionale e tarpano le ali ai giovani. Il primo è rappresentato dai vincoli anagrafici per entrare nel Parlamento italiano, insensatamente più severi rispetto a quanto previsto nelle altre grandi democrazie europee. Come conseguenza delle dinamiche demografiche e dell'inerzia nel riadattare e rivedere le regole del gioco della partecipazione democratica, i giovani italiani si trovano oggi a essere quelli con minor peso elettorale e politico nel mondo occidentale. In altri paesi si stanno facendo passi concreti per abbassare il voto a 16 anni. Nel nostro sistema bicamerale perfetto solo le generazioni over 40 sono rappresentate sia alla Camera che al Senato.
   Il secondo esempio è il macigno del debito pubblico. Difficile trovare un’altra grande democrazia nella quale la difesa del benessere presente dei padri è stata tanto clamorosamente e inopinatamente scaricata sul futuro dei figli. Ora quell’eredità pesa su una fascia della popolazione che nel frattempo è diventata demograficamente e socialmente sempre più fragile. L’allarme più recente è quello della Corte dei Conti e delle agenzie di rating che sottolineano l’importanza di misure più incisive per ridurre il debito e stimolare la crescita. Vengono in mente le parole di Edmondo Berselli che in un articolo su Repubblica il 20 ottobre 2008 scriveva sconsolatamente: “A lungo si è detto che con il debito pubblico stavamo ipotecando il futuro dei nostri figli. Evidentemente non bastava: noi siam fatti così, le nuove generazioni ci piace rapinarle”.
   *docente di Demografia alla Cattolica di Milano

l’Unità 28.5.11
Passignano sul Trasimeno Il piccolo aveva 11 mesi, il padre lo ha «dimenticato» nella vettura
L’accusa è omicidio colposo Oggi l’autopsia. Dieci giorni fa il dramma della bimba di Teramo
Lasciato in auto sotto il sole Jacopo è morto come Elena
Tragedia a Passignano sul Trasimeno dove il bimbo è morto ucciso dal calore nell’auto in cui il padre lo aveva lasciato per andare al lavoro. Una vicenda incredibilmente simile a quella accaduta a Teramo
di Max Di Sante


La disperazione del papà
«Come ho potuto farlo? Come è potuto succedere?»

È successo ancora. Jacopo, 11 mesi, è morto come Elena dieci giorni fa, lasciato dal padre nella sua auto parcheggiata per ore sotto al sole di fronte al Club velico del Trasimeno dove l’uomo, un quarantenne del posto, lavora come una sorta di factotum. Una giornata assolata in cui la temperatura si è avvicinata ai 30 gradi: quando si è accorto di lui era troppo tardi e anche i soccorsi sono stati inutili. Un tragico incidente per il quale a carico del padre del piccolo è stato ipotizzato il reato di omicidio colposo. Un atto dovuto in vista dell’autopsia che oggi dovrà definitivamente chiarire le cause della morte.
I genitori di Jacopo sono sotto choc e i carabinieri non li hanno ancora sentiti. Non è stato quindi accertato se l’uomo dovesse accompagnare il figlio all’asilo che frequentava da qualche tempo, come ipotizzato da alcune persone del posto. Per il resto la dinamica dei fatti è piuttosto chiara. Jacopo era l’unico figlio di Sergio Riganelli, che al circolo nautico lavora ogni mattina dal martedì alla domenica come marinaio curando anche la struttura, e di Eva, psicologa di origini albanesi. E ieri la famiglia ha lasciato la casa nel centro di Passignano, in provincia di Perugia, con il bambino sui sedili posteriori dell’Opel corsa nera del padre. L’uomo ha quindi accompagnato la moglie al lavoro e poi si è recato al club velico. Verso le 9-9.30, secondo la ricostruzione dei carabinieri del reparto operativo di Perugia e della compagnia di Città della Pieve coordinati dal sostituto procuratore Mario Formisano. Ha parcheggiato l’auto sotto al sole nel piazzale antistante il club quando il figlio era ancora sul seggiolino. Cosa sia successo in quei momenti non è ancora chiaro ma il comandante provinciale dei carabinieri colonnello Carlo Corbinelli ha subito sottolineato come «si sia trattato di una tragica fatalità».
E sarebbe stato proprio il padre stando almeno a quanto accertato sin qua dagli investigatori a trovare il bambino verso le 12.30, dopo circa tre ore, quando è tornato verso la sua auto per rientrare a casa. Ha tentato di soccorrere Jacopo e ha avvisato immediatamente il 118 e la moglie. «Abbiamo cercato di fare tutto il possibile per il piccolo e poi per sostenere fisicamente e psicologicamente i genitori» ha detto il coordinatore del servizio ambulanze dell’ospedale di Perugia, il dottor Paolo Doricchi. I soccorsi sono stati però vani. Arresto cardio-circolatorio causato da una prolungata esposizione ai raggi solari all’interno dell’auto del padre è la causa della morte ipotizzata dai carabinieri. A mettere un punto fermo sarà comunque l'autopsia disposta per oggi dal magistrato che ha anche fatto sequestrare l’Opel corsa.
Il corpo del piccolo è stato portato all’obitorio dell'ospedale di Perugia dove i genitori l’hanno potuto vedere per qualche attimo dopo essere stati assistiti al pronto soccorso. «Come ho fatto? Come è potuto succedere» le parole del padre mentre la moglie continuava a ripetere il nome del figlio. «Jacopo era il loro faro» ha detto sconvolto il presidente del circolo velico, Aurelio Forcignanò riferendosi ai genitori.
Il padre aveva lasciato il paese per lavorare in Svizzera. Dopo essere tornato, con Eva aveva cominciato a ristrutturare la casa dei genitori. «Innamoratissimi, li descrive ancora Forcignanò una famiglia unita. Ben voluta al club, dove anche il bambino si vedeva spesso, e a Passignano al quale erano molto legati tanto da sposarsi nella chiesa di una delle piccole isole del Trasimeno. Sergio è adorato dai soci del club per la sua disponibilità e serietà. Davanti a un dramma simile ci sentiamo impotenti». Di un uomo disponibile e gentile parlano anche i clienti di due bar vicini al club velico dove sono subito comparsi i cartelli con scritto «chiuso per lutto». Una famiglia senza particolari problemi ha detto chi li conosce.
La tragedia di Jacopo ricorda quella di Elena, la bambina di 22 mesi di Teramo morta dopo essere dimenticata per cinque ore nell’auto sotto il sole dal padre che doveva portarla all’asilo. Un dramma che aveva restituito la vita ad altri quattro bambini, tornati alla vita grazie agli organi espiantati con il consenso dei genitori di Elena. Sembrava una tragedia assurda e impensabile la sua, ma ieri a Passignano sul Trasimeno, è successo ancora.

Lo psichiatra Giovanni Battista Cassano
Corriere della Sera 28.5.11
«Un black out del cervello che può colpire tutti»

di Margherita De Bac

ROMA— «Non c’è da scandalizzarsi. Può succede a chiunque. Il nostro cervello attraversa fasi di amnesie che possono coinvolgere persone e oggetti importantissimi. Il portafoglio, i gioielli, lo stipendio. Dunque anche un figlio che dorme sul seggiolino» . Giovanni Battista Cassano, professore emerito di psichiatria all’Università di Pisa, non colpevolizza i genitori vittime di sbadataggine dagli esiti drammatici. Il nostro cervello è una macchina imperfetta? «Proprio così. Abbiamo sopravvalutato la capacità umana di operare scelte razionali in ogni momento. In realtà non succede e lo vediamo in ogni campo. La nostra memoria ha limiti enormi e funziona a fasi alterne. Per lunghi periodi siamo perfettamente consapevoli di ogni azione compiuta, in altri cancelliamo i ricordi, qualsiasi peso essi abbiamo» . Dunque potrebbe capitare a ognuno di noi di lasciare il bambino chiuso in auto al parcheggio? «La mente deficitaria può arrivare a tutto specie quando siamo assorbiti da pensieri, emozioni e preoccupazioni assillanti che distolgono la nostra attenzione e scalzano altri eventi. Il cervello ha migliaia di funzioni che in certi momenti possono essere sottotono o bloccarsi completamente. È un organo conformato in questo modo proprio per adattarsi alle esigenze dell’uomo» . Ci sono situazioni a rischio? «È meno improbabile dimenticare di compiere un’azione estranea alla routine quotidiana. Se non sono solito accompagnare il bambino a scuola e sono assorto nei miei pensieri ecco che mi scordo di consegnarlo alle maestre. L’uso di sedativi, ansiolitici, alcol o droghe influisce sulla memoria e può favorire amnesie. Poi ci sono condizioni psicopatologiche come la depressione, la demenza o l’euforia che ci espongono maggiormente a lacune transitorie» .

La Stampa 28.5.11
Un altro bimbo muore dimenticato in auto
di Elena Loewenthal


Quando si hanno dei figli, può capitare di tutto. Di amarli e patirli, di condividere e sentirsi distanti. Perdonare e incattivirsi. Ma dimenticarli, quello proprio non si può: quando si è genitori, l’oblio non è ammesso. I figli ti riempiono la vita con una prepotenza che non ha pari. Eppure, è capitato, e due volte nel giro di pochi giorni.
Lo scenario è una tragica copia conforme. Due bambini piccoli, ancora dentro quell’età in cui comunicare è una conquista giorno per giorno. Due automobili e una stessa calura, dentro l’abitacolo.
Due padri innocenti, eppure colpevoli. Di averli dimenticati lì, complice quel silenzio che quando si hanno figli piccoli è una rara benedizione e che invece è costato a loro due la morte. Perché sarebbe bastato un verso, un inizio di capriccio, uno starnuto o un colpo di tosse, per salvarli. Per far sì che questi due padri, innocenti eppure colpevoli, si ricordassero di loro, allacciati sul seggiolino, lì dietro, disgraziatamente fuori portata dello specchietto retrovisore.
Complice di queste due tragedie così terribilmente simili fra loro, in questo precoce principio d’estate, anche lo stress. La fatica di tirare avanti e mantenere una famiglia e non aver più tempo di pensare, ragionare.
E così, dimenticare anche una cosa tanto ovvia e banale come quella di avere un bambino in macchina, seduto alle tue spalle. La mamma della piccola Elena ha prontamente scagionato il marito, anzi ha fatto di più: in morte della figlia l’ha elogiato. Quella di Jacopo appare incredula, le mani quasi rivolte al cielo e una smorfia di dolore, mentre qualcuno tiene in braccio suo figlio morto, dentro un lenzuolo bianco. I due padri sono assenti, e chissà che cos’hanno disegnato in volto, in questi momenti. Una colpa che grida se stessa anche se tutto il mondo proclamasse la loro innocenza, anzi di più, la loro infinita bontà di padri modello. Una colpa dalla quale sarà impossibile trovare anche solo uno straccio di redenzione, per il resto della vita.
Perché dev’essere terribile, dimenticarsi un figlio e ritrovarlo morto.
Anche se tua moglie spiega davanti alla telecamera che sei il migliore dei mariti. Anche se non ce ne puoi proprio fare nulla, anche se non è colpa tua e amavi quel bambino più di ogni altra cosa al mondo.
Perché dimenticare un figlio non si può. Come si fa? È persino più inammissibile di ucciderlo. Un figlio ce l’hai davanti agli occhi e dentro la testa sin da quando ti viene al mondo - e anche prima. Sta lì, occupa tutto lo spazio che hai - dentro e fuori. Come fai a dimenticarlo? A ignorare la sua esistenza, anche solo per un pugno di ore ma sufficienti per farlo morire? Non hanno colpa, questi due padri. Però si sono scordati dei bambini in macchina e li hanno lasciati lì. Chissà come guarderanno, d’ora in poi, quel sedile dietro dell’automobile, vuoto per sempre.

La Stampa 28.5.11
«Il degrado familiare non c’entra: siamo tutti a rischio»
4 domande a Claudio Risè Psicoterapeuta


«Nella mia esperienza di analista ho conosciuto una decina di persone abbandonate in auto, in autogrill, in spiaggia, anche decenni fa. E' più diffuso di quanto percepiamo perché arrivano alle cronache solo i casi in cui i bimbi rischiano la vita», valuta Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, esperto di psicologia educativa.Quindi ha ragione la mamma di Elena, morta a Teramo pochi giorni fa: dimenticare un figlio in auto può capitare a chiunque?
«Ha assolutamente ragione. Il margine tra abisso e sentiero è molto stretto per tutti, e decisiva è la consapevolezza delle proprie ambiguità e delle proprie debolezze».
Ieri un nuovo caso: non sembra però ancora più strabiliante visto il clamore suscitato dalla tragedia di Teramo?
«Bisognerebbe vedere quanto questi genitori erano stati toccati da questo clamore. Molti vivono al di fuori dei circuiti dell'informazione o scelgono solo quello che li interessa, facendo una selezione automatica e inconscia delle notizie».
Colpisce che questi casi si siano verificati in contesti familiari sereni.
«Ma non ha nulla a che vedere con il degrado. Quando ci sono molti interessi, investimenti anche di tipo intellettuale, è più facile dimenticare fatti elementari».
Come potranno superare i genitori il dolore e un senso di colpa così grave?
«Decisivo sarà rendersi conto che siamo tutti colpevoli prima di accorgercene». [F. S.]

lo psichiatra Massimo Ammaniti
Repubblica 28.5.11
"Stress e black out mentale i papà sono sempre più fragili"
Lo psichiatra: a una mamma non può succedere
Le donne hanno una specie di sensore biologico che le porta a ricordarsi dei figli
di Maria Novella De Luca


ROMA - Colpa, fatalità, responsabilità. Com´è difficile di fronte alla tragedia di Elena, 22 mesi, e di Jacopo, 11 mesi, indagare sui meccanismi della mente. Di fronte a quegli identici gesti che in pochi giorni hanno portato due padri, fino a ieri presenti e amorevoli, a far morire i loro piccoli in auto diventate fornaci arroventate dal sole. Pena, sgomento, rabbia. Massimo Ammaniti è psichiatra di lungo corso, docente di Psicopatologia dello Sviluppo all´università La Sapienza di Roma. Ed è tra gli angoli più oscuri del comportamento apparentemente inspiegabile di questi due padri che Ammaniti prova ad entrare.
Professor Ammaniti, poteva capitare anche a una madre di dimenticarsi così a lungo un figlio, tanto da farlo morire?
«No, non credo. Le madri sempre, ma soprattutto nei primi anni di vita, hanno una sorta di sensore biologico, genetico, che le porta a ricordarsi dei figli in ogni caso. Anche in situazioni di forte stress e di giornate convulse. Basti pensare al classico esempio: se il neonato piange la madre si sveglia mentre il padre continua a dormire. La madre, ovunque sia, ha il pensiero alla vita dei figli. Molti uomini invece, ad esempio quando lavorano, creano una cesura totale verso la vita familiare».
Sì, ma in questo caso i padri avevano la responsabilità dei piccoli che stavano trasportando. Possibile che se li siano dimenticati?
«Sembra pazzesco ma è possibile. Nel senso che concentrati verso il loro obiettivo, in entrambi i casi il lavoro, hanno completamente rimosso la presenza dei bambini a bordo. Hanno cioè operato una scissione tra se stessi e i loro impegni familiari. Un meccanismo comune, ma in questo caso letale».
E c´è della colpa in questo?
«È difficile dirlo, e devo ammettere che i due padri mi fanno una profonda pena. Non so come faranno a sostenere il rimorso. Certo, di fronte alla legge sono responsabili. Ma c´è un elemento sociale da non sottovalutare».
Quale?
«I ritmi folli a cui oggi sono sottoposte le famiglie, con i bambini trasportati di qua e di là di corsa, chi al nido, chi all´asilo, ore e ore sul sedile posteriore, il padre guida ma con il pensiero è già in ufficio. La bimba dietro si addormenta, lui non la sente più...».
E allora?
«Allora può capitare così come è successo al padre della piccola Elena, di essere convinto di averla lasciata all´asilo e invece no, all´asilo non sono mai arrivati, ma il padre aveva fabbricato il falso ricordo di averlo fatto».
Scissioni, rimozioni, ricordi ingannevoli: tutto questo può capitare anche ad una persona normale?
«Sì, e non sono meccanismi patologici ma situazioni eccezionali, che avvengono e sconvolgono vite assolutamente normali. Come per il padre di Elena o quello di Jacopo».
Ma non ci sarà anche una mancanza di responsabilità da parte di questi padri?
«Forse. Ma non è facile dirlo di fronte a comportamenti così assurdi. A me sembra comunque che ci sia un calo di responsabilità generale verso i bambini, costretti a fare delle vite da adulti, senza ritmi precisi, senza orari, regole».
E spesso vivono situazioni di abuso e abbandono.
«Ci sono abbandoni evidenti, o abbandoni più nascosti, come non ascoltare i bisogni del proprio figlio, arrivare a prenderlo a scuola quando ormai se ne sono andati tutti ...».
Oppure dimenticarseli in macchina
«Sì, ma questa è una tragedia. E non è figlia né della droga né del degrado, ma della drammatica imprevedibilità della mente. Che condannerà quei due uomini ad un rimorso terribile».
Come difendersi allora?
«Rallentando i ritmi familiari, accorciando le distanze, facendo sì che anche tra i padri e i figli piccoli scatti quell´empatia, quella spinta all´accudimento primario, che le madri per loro fortuna portano da sempre dentro di sé».

Repubblica 28.5.11
Perché mi sento vicino a quei papà
di Francesco Merlo


Vorrei abbracciarlo quel povero papà perché sono papà come lui e so che il piccolo Jacopo è morto per uno dei paradossi dell´amore.
Difatti pure io mi porto i figli dietro, in auto, mentre lavoro, al supermercato e, come ormai succede a moltissimi altri padri, mi piace essere anche la madre dei miei bambini, partecipare allo svezzamento, nutrirli e spupazzarmeli fisicamente, e magari lo faccio per surrogare quei nove mesi che mi mancano, chissà. Ma sono padre e dunque come madre sono goffo sino alla sbadataggine, sino alla distrazione o sino all´apprensività più ansiosa che è poi la medesima cosa, l´altra faccia della stessa inadeguatezza.
Certo, per istinto di autodifesa il mio primo pensiero è stato «a me non sarebbe successo». Ma non è vero. E anche Sergio Riganelli deve avere pensato la stessa cosa quando, la settimana scorsa, ha letto della piccola Elena che è morta a Teramo, dimenticata nell´auto dal suo papà: «Al mio Jacopo non potrebbe succedere mai». E invece è successo. E quel primo pensiero di presunzione io l´ho buttato via. Può infatti accadere a tutti i papà, e soprattutto ai papà più amorevoli del mondo perché sono quelli che hanno il complesso dell´ippocampo, l´unico animale maschio che prende su di sé la gestazione e si occupa lui delle uova. Ma è appunto lì che sta in agguato la disgrazia, nell´avere un cuore troppo grande e due occhi soltanto, nel volere fare quelle mille cose che mia zia "la signorina" avrebbe commentato cosi: «‘mbriachi e picciriddi, centu occhi li devono guardare».
Dunque la sola cosa che possiamo permetterci è sentirci solidali con quel che resta di un padre consapevole di avere ammazzato la persona che più amava al mondo. Deve essere così l´inferno: chiamare Jacopo e non averlo più o peggio sentirlo dentro come un fantasma, come un eterno rimorso, come un perenne nodo in mezzo al petto che ogni tanto ridiventa fuoco. E rivedere il suo sorriso senza mai più gioirne, immaginarne la vita, risentire sui polpastrelli il tepore della pelle e custodirne il ricordo nel cavo della mano. Questo papà è un vivo con la morte addosso. Gli si deve dare amore. Anche se è inutile, anche se non ne spegnerà il senso di colpa, se non lenirà il dolore suo e quello di mamma Eva, né tanto meno resusciterà il bimbo di 11 mesi che sulla riva del lago Trasimeno è morto asfissiato in un´auto arroventata dal sole. E mi viene in mente che un po´ di colpa ce l´ha anche la dannatissima macchina, che è diventata il nostro guscio di lumaca, la viviamo come un´appendice di casa e si sa che in casa ci si può dimenticare la caffettiera sul fuoco e anche il bambino che dorme senza che accada l´irreparabile. E´ di Buzzati quel piccolo capolavoro che è ‘La dimenticanza´ di una madre che aveva lasciato la bambina in casa e finalmente se ne ricordò mentre qualcuno le domandava se avesse chiuso l´acqua: «Ada divenne del colore della morte. D´improvviso le era venuto un pensiero orrendo… come se nella memoria si fosse aperto un buco … Il caldo! Immaginò la bambina ormai distrutta dal caldo e dalla fame e pensò che forse la pazzia comincia così». Ma neppure la fantasia di Buzzati nel 1950 poteva immaginare la morte nell´automobile-casa, in una scatola di latta che ovviamente si arroventa sotto il sole, automobile-culla, e chissà quanti altri bimbi non sono morti solo perché sono stati dimenticati in primavera o magari all´imbrunire di un´estate un po´ più dolce.
Ma le tragedie solo sfiorate sono tragedie cancellate che non ti lasciano neppure l´insegnamento di non farlo. A un mio amico è accaduto di chiacchierare al telefonino mentre suo figlio di tre anni in piscina perdeva il controllo e veniva salvato da un altro bimbo un po´ più grande. E c´è anche il caso del «ci vai tu o ci vado io?» che è il primo anello di una catena di sbadataggini che arrivano a valanga, una dietro l´altra, compresa quella di pagare al supermercato mentre il bimbo si allontana e prima si perde tra la folla e dopo raggiunge l´uscita e finisce in strada dove sfrecciano le macchine e dove si salva solo quando, preso dalla paura, comincia a piangere.
E dunque bisogna accostarsi e subito ritrarsi rispettosamente dinanzi a queste tragedie della distrazione, lasciare al giudice l´impaccio di gestire l´omicidio come un paradosso dell´amore paterno. A noi spetta di dire chiaro e forte che non c´è dolo e che nessuno psicanalista deve permettersi di immaginare padri che inconsapevolmente vogliono liberarsi della paternità e dunque ricorrono alla sbadataggine come a un trucco della coscienza. Abbiamo già letto le loro dichiarazioni, ci auguriamo di non sentirli e soprattutto di non vederli ‘incattedrati´ a Porta a Porta. E´ la solita intelligenza dei cretini che non è verificabile e dunque non è neppure contestabile. C´è una sola certezza in questa tragedia: è morto il figlio di un padre affettuoso, vittima dell´amore di suo padre. Sul lago Trasimeno le luci dell´amore sono diventate così abbaglianti da oscurare la vista.

il Fatto 28.5.11
Eros e dintorni
Il giornalista tra amore, filosofia e politica
Scalfari, sono narciso, e allora?
di Silvia Truzzi


Il primo momento di tedio dev’essere arrivato al minuto 17, perché Eugenio Scalfari chiede di “essere corretto” se divaga troppo: in realtà vuol far presente che tempus fugit. Sesto piano del condominio Repubblica, la stanza del Fondatore è una bellissima biblioteca. In questi giorni sta presentando il suo libro – Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, 17 euro; 120 pagine) – e le buste con lo struzzo campeggiano candidamente abbandonate su un tavolo laterale. La noia è comprensibile: è reduce da una lunga intervista all’Espresso, in cui ha concesso perfino confidenze, dal non proprio tempestoso salotto di Che tempo che fa e dal non meno complimentoso colloquio sul divano dandinesco. Però parla anche con noi: ed è un battesimo. In cui si cerca di capire perché uno dei più grandi giornalisti italiani ha deciso di indossare l’abito del filosofo, tutti lo scambiano per una veste talare e lo trattano come un papa.
Cominciamo dal primo capitolo del libro: s’intitola La caverna di psiche. Un po’ cupo.
Direi oscuro. Noi avvertiamo gli istinti nel loro nascere: si trasformano in sentimenti quando irrompono dal profondo e vengono a contatto con la mente.
In un'intervista all'Espresso ha detto: “Parto da Freud, ma ne rovescio la logica”. Però la sua caverna sembra coincidere con l'Es freudiano.
È proprio l'Es, se vogliamo attenerci alla dinamica freudiana classica. L'istinto è la vita.
Leopardi lo diceva così: la vita è il sentimento dell'esistenza.
Giusto. L'istinto base da cui tutti gli altri derivano è quello di sopravvivenza. Ce l'hanno tutti i viventi, ma in noi si biforca in due istinti: l'amore per se stessi e l'amore per gli altri.
È già stato scritto. Sono due risvolti di un medesimo impulso: siamo animali sociali, abbiamo bisogno degli altri.
Infatti qualcuno lo dice. Ma pochi affermano che si tratta di istinto. Freud chiama l’amore per gli altri Super-io, quello che cerca di imporre all'Io, e quindi all'Es, un dover essere.
Perché ci occupiamo del bene comune?
Moltissimi filosofi si sono posti questa domanda, Schopenhauer con maggiore chiarezza di altri. La socievolezza però è sempre stata collocata in una dimensione sentimentale. Non istintuale. Se ciò che Freud chiama Super-Io fosse collocato nei dintorni della razionalità, non reggerebbe all'irruenza degli istinti. Non può resistere con l'ausilio dei Carabinieri, sarebbe travolto ogni volta che gli istinti si manifestano nella loro irruenza anti-sociale. Invece reggono: significa che questa forza di moderazione degli istinti è collocata in un luogo psichico diverso.
Nella caverna?
Sì. L’amore per gli altri è un fatto biologico. Negli animali non è così. La nostra è una specie desiderante, dove il desiderio è il desiderio di desiderare. Rivendico con umilità la collocazione della socievolezza nella sfera istintuale. Mentre il concetto di essere desiderante ovviamente non è mio.
Se gli altri sono solo la soddisfazione di un desiderio, vuol dire che le scelte che facciamo prescindono dalla loro soggettività. Un po’ avvilente.
Bè, che vuole, dopotutto è reciproco.
Nel libro parla anche di potere. Dice: è una condizione triste perché solitaria. E lei? Non negherà di essere un uomo di potere?
C'è potere e potere e natura e natura. Io sento molto Eros, nelle sue varie manifestazioni. E lo sento con una tonalità paternale. Mi sono sempre innamorato dell'amore: non succede a tutti. Per essere più pedestri, vuol dire innamorarsi della vita e far in modo di esercitare il potere in compagnia. Chi ha amore paternale non è solitario nell'esercizio del potere.
 Il padre però è uno e gerarchicamente superiore.
   Ma per me, per tutti quelli che fanno bene il mestiere di dirigere un gruppo, la coralità diventa un presupposto. Sono sempre andato al lavoro come si va a una festa.
   Giuliano Ferrara l’ha soprannominata “Io” alludendo, oltre che al titolo di un suo libro, al suo narcisismo.
   Non è solo Ferrara. Da parecchi anni mi sono appassionato della conoscenza e ho fatto due vite parallele: accanto alla carriera giornalistica e all’impegno politico ho avviato un percorso culturale. E il problema dell'Io è affiorato subito.
   Non ha risposto alla domanda : è innamorato di sé?
   Mi hanno invitato a presentare il mio libro alla Società di psicanalisi. A un certo punto mi hanno detto: ‘Se l'amore per sé è un colosterolo cattivo, la paternalità – che contiene una buona quota di amore per gli altri – è il colesterolo buono. Noi possiamo dire che ha ben bilanciato i due colesteroli’. Ho ringraziato per un giudizio che mi riconosceva equilibrio. In me c'è una dose notevole di narcisismo. Il fatto di saperlo può essere il colesterolo buono, ma la parte di colesterolo cattivo è alta.
   Non si annoia a essere trattato come un venerato maestro?
   Non mi dà fastidio. Il mio narcisismo lo accetta volentieri. Però quando mi fermavano per la strada per dirmi cose gentili, m’imbarazzavo. Domandavo molto bruscamente: ‘Perché si complimenta?’. Era una difesa. Quando mi chiedevano un autografo, rispondevo: ‘Si chiedono ai calciatori’.
   E questa non è superbia?
   No, autentico imbarazzo.
   È vero che quand'era deputato che disse a un vigile di Milano: “Lei non sa chi sono io”?
   È vero. Era il 1970, accompagnavo alla stazione mia moglie e le bambine. C'erano due posti vuoti riservati ai Carabinieri. Posteggiai, un vigile mi disse di andarmene. Gli spiegai che volevo solo aiutare con le valigie la mia famiglia. Intanto accostò, nell'altro posto riservato, una macchina, cui venne consentito di restare: era l'auto del questore. E allora dissi: “Io sono un deputato della Repubblica. Se ci sta il questore a maggior ragione ci posso stare io. Nessuno dei due è un carabiniere”. E me ne andai lasciando lì l’auto.
   Come finì?
   Mi ritirò la patente – era scaduta e non me ne ero accorto – mi diede la multa. Su tutti i giornali uscì la versione del vigile, perché il comando legato all’assessore al traffico che era socal-democratico telefonò all'Ansa. Io diedi la mia versione, ma la storia era troppo complicata. Ricevetti moltissime lettere di cittadini indignati.
   Torniamo al potere, in questo periodo sembra impossibile parlarne senza parlare di sesso: da Berlusconi a Strauss-Kahn.
   Sono degli ammalati. Esiste una malattia che la medicina ha identificato, si chiama satiriasi. Veronica Lario scrisse: ‘Mio marito è ammalato’. Strauss-Kahn è molto diverso da Berlusconi per capacità politiche e intellettuali, però pure lui sembra ammalato. Questi uomini a me paiono degli impotenti.
   Crede che il governo Berlusconi cadrà?
   Bisogna vedere se la Lega gli stacca la spina. Nel medio termine, avrebbe vantaggio a far cadere il governo. Ma su un orizzonte più lungo no. Certo se perde Milano salta il tappo. Berlusconi però è talmente ricco che i guai giudiziari non lo toccano più di tanto.
Può sfogare la sua satiriasi dove gli pare. Il suo guaio è l'egolatria.
   Molto colesterolo cattivo?
   Lui quello buono non ce l'ha per niente.
   E dall'altra parte? La classe dirigente che sta all'opposizione sembra del tutto non all'altezza.
   È una cosa che si dice. Voi del Fatto avete un fucile a due canne: sparate contemporaneamente un colpo sul Pdl e uno sul Pd.
   Grazie, siamo democraticamente cattivi. Vogliamo parlare della mai approvata legge sul conflitto d’interessi?
   Sbagliarono gravemente.
   Non è un dettaglio.
   No. Ma Bersani ha pubblicamente riconosciuto l'errore. Il Fatto somiglia al Corriere che cerca continuamente le crepe nel Pd perché l'ideologia di quel giornale è privilegiare il centro. Il Fatto non si capisce chi privilegia.
   Forse nessuno: il giornale non è un partito. È una voce critica, di stimolo e controllo sulla politica. Il famoso cane da guardia.
   Anche Repubblica non è un partito. Ma voi non stimolate. Sparate a pallettoni.
   I giornali generalisti perdono copie. Non è il momento di ripensarli?
   Questo riguarda in prima linea giornali come il Fatto. O come il Foglio.
   Piano con i paragoni...
   Voglio dire che il Foglio nella sua turpitudine esercita una funzione maieutica sul pubblico. Come fate voi. Ma cosa saranno il Foglio o il Fatto, quando Berlusconi e il berlusconismo non ci saranno più? Noi abbiamo uno sfoglio importante, ma è una fortuna. Perché da R2 in poi la politica scompare. Noi non avremo problemi nel dopo Berlusconi.
   Al di là della contingenza, non si compra più il quotidiano per sapere cosa succede. Il giornale dovrebbe guidare, evidenziare collegamenti, approfondire.
Per questo oggi sia Repubblica che il Fatto hanno in prima pagina il berlusconismo. Perché spiegano i motivi, incomprensibili se non li approfondisci, per cui nonostante tutto c'è ancora consenso attorno a Berlusconi. Non è cosa di cui compiacersi, ma il problema è la mancanza di un'alternativa valida.

Repubblica 28.5.11
Chi ci difenderà dalla Bellezza, dal Canone classico e dalle sue conseguenze: proporzione, armonia e simmetria? Ci difende l´arte contemporanea, quella del nostro mondo fuggitivo, frammentario, veloce, portatore di imprevedibili bellezze.
Ma se non c´è più canone, come ci orienteremo davanti alle opere di oggi? Come potremo giudicarle? Cosa ci dirà: questa è grande arte, questa no, questa, addirittura è un´impostura?
di Achille Bonito Oliva


Ecco un piccolo decalogo di istruzioni per l´uso.1. Bisogna arrivare davanti all´opera disarmati, anzi armati di un pregiudizio favorevole: essa è un pensiero visivo, una domanda sul mondo. Con una funzione: massaggiare il muscolo atrofizzato della nostra sensibilità, resa ormai superficiale e pellicolare (come un ritratto di Warhol) da un mondo che diffonde l´estasi del puro apparire e dell´intrattenimento domestico.
2. L´arte è forma. Lampante ed eloquente, come il taglio di Fontana e l´O di Giotto. Nei molteplici travestimenti e fuori dai generi codificati, l´opera vuol essere inciampo e sorpresa, creare una frattura nell´immaginario. La forma è il volto figurativo dell´opera, la parola silenziosa e visiva del suo corpo. Se ha bisogno di troppe spiegazioni, di didascalie, l´opera fallisce.
3. L´arte deve riflettere sul mondo. L´artista parte sempre da un non-luogo, per approdare inevitabilmente nei nostri paraggi, con le stimmate della propria epoca: tecnica e materiali variabili, sempre più multimediali, sempre più innovativi, sempre al passo con i tempi. Si misura con tutto ciò che la società produce e consuma: ce lo insegna la pop-art americana. L´arte parla di ora e qui, o è perduta.
4. L´arte crea catastrofi linguistiche. Nel suo continuo superamento e rinnovamento, l´opera deve porsi come rottura del linguaggio e dei codici della comunicazione. Irrompe tra le nostre consuetudini, aggredendo talvolta anche il nostro corpo: come nelle performance di Marina Abramovic. Deve distruggere e rifondare nuovi modelli del vedere, del pensare e dell´agire. Deve riuscire a spiazzarci.
5. Da qui l´ansia di continuo arrovellamento e rinnovamento linguistico e formale, l´adozione dell´interattività e dell´opera aperta. Ma rompere schemi non basta: nello stato di insonnia del contemporaneo, del fare e del contemplare, l´opera deve aprire nuove porte, dar luce a nuove visioni. Un esempio? Le installazioni video di Nam June Paik.
6. L´arte è un tentativo di ordine. Temporaneo, ma possibile. L´opera rappresenta un "cosmos" contro il caos dell´esterno: non fuga dal mondo ma progetto dolce che si mette a confronto con il principio di realtà. Insomma un´arte responsabile, così la definisce Michelangelo Pistoletto.
7. L´arte è la riserva indiana del senso. Ce lo insegna con la sua opera Joseph Kosuth, che riflette sulle parole e sul suo significato. Nel tempo comico della irrilevanza, dell´effimero e dello svuotamento, l´opera deve testimoniare la gravitas contro il superficialismo della nostra epoca, afflitta da un peronismo mediatico, da performatività e autoreferenzialità della politica.
8. L´arte deve essere una forma di difesa. Contro l´edonismo sperimentale, l´opera è giustificata dal rigore formale, prova della resistenza etica dell´artista che sfida le lusinghe della moda corrente. L´opera troppo easy è un tradimento. Riguarda più gli artieri della moda che apprezzano il monumentale cuore smaltato di Jeff Koons.
9. Non giudicare un´opera dal suo successo: il successo rappresenta la breve immortalità dell´arte. L´opera non deve celebrare soltanto il proprio valore economico e mediatico, ma costituirsi a futura memoria come storia dell´istante. È anche giudizio: il dito marmoreo di Cattelan di fronte alla Borsa di Milano. Essa è uno squarcio di significato nell´eterno presente della postmodernità.
10. L´arte è la domenica della vita. L´opera non rinuncia al tentativo di rappresentare in forme più o meno concettuali il sospetto di un´altra bellezza: la meraviglia dello sconcerto. Essa è un transito di intensità formale, un´apparizione fuggitiva dello spirito del tempo. Un lampo di felicità, come un grande disegno di Enzo Cucchi. Sì, l´arte è indecisa a tutto, ma non nell´inscalfibile desiderio di essere un´apparizione rara, epifania della vita.

Corriere della Sera 28.5.11
«Ingmar Bergman fu sostituito nella culla» (ma è solo un’ipotesi)


MILANO — Il regista de Il Settimo sigillo e Scene da un matrimonio potrebbe essere stato «scambiato in culla» , ma sono solo ipotesi che fanno sbizzarrire la stampa svedese. Di fatto però Ingmar Bergman non è figlio biologico della madre, Karin Akerblom Bergman, secondo il test del Dna eseguito dall’istituto di medicina forense svedese su richiesta dei familiari. «Ho contattato il consiglio dell’istituto di medicina forense per vedere se era possibile fare un esame del dna per chiarire la vicenda» , ha rivelato Veronica Ralston, nipote del grande cineasta scomparso nel 2007, al quotidiano svedese Dagens Nyheter. «Ho consigliato di analizzare dei francobolli che Ingmar Bergman aveva leccato per inviare lettere e cartoline ai parenti per compararlo con il mio Dna» , ha aggiunto la nipote, la quale ha pubblicato il libro Kärleksbarnet och bort-bytingen(Il figlio ille- gittimo e la sostituzione del bambino) che raccoglie le sue rivelazioni e ricostruisce ipoteticamente come andarono i fatti, cioè come il piccolo Ingmar sarebbe stato sostituito con un altro neonato nell’ospedale di Uppsala. Ralston si sarebbe ispirata a un altro libro-denuncia scritto l’anno prima sulla nascita poco chiara dell’autore di Il posto delle Fragole: Den jag ser pa älskar jag (Ciò che vedo è ciò che amo), scritto da una tale Louise Tillberg, la quale afferma che il padre avrebbe avuto un altro fratello, partorito dalla madre, che al tempo era ragazza-madre e avrebbe avuto una relazione con il padre di Bergman, il pastore luterano Erik. Il consiglio forense ha informato Ralston dei risultati. Nel suo libro la nipote ipotizza che Karin Akerblom Bergman, che era molto malata quando partorì Ingmar nel 1918, potrebbe avere dato alla luce un bimbo nato morto e allora il padre Erik potrebbe averlo scambiato con l’altro. Ma a parte la conferma ufficiale che il regista non era figlio di sua madre, su tutto ciò che è accaduto nelle stanze dell’ospedale di Uppsala quel 14 luglio del 1918 restano per il momento solo delle ipotesi. R. S. ©

La Stampa TuttoLibri 28.5.11
l potere dei sensi Come esercitare le nostre capacità percettive sommerse
E l’uomo vedrà con le orecchie come i pipistrelli
di Piero Bianucci


Lo psicologo Rosenblum illustra le scoperte delle neuroscienze: la rigidità del cervello non è più un dogma. Dall’udito all’olfatto, dal gusto al tatto, alla vista: i cinque sensi hanno potenzialità di cui ancora non siamo consapevoli, spiega Ronsemblum. Qui a fianco «Arlecchino pensoso» di Picasso, 1901

Lawrence D. Rosenblum LO STRAORDINARIO POTERE DEI SENSI. Guida all’uso Bollati Boringhieri, pp. 460, 20

Possiamo vedere con le orecchie, gustare il cibo con gli occhi, ascoltare con il tatto, assaggiare gli odori. Non sono doti paranormali. Sono «capacità percettive implicite» che tutti abbiamo. Non ne siamo consapevoli perché le esercitiamo raramente. Da qualche anno le neuroscienze hanno incominciato a esplorarle e ne emergono scoperte a getto continuo.

Lawrence D. Rosenblum vive a Los Angeles e insegna psicologia alla University of California a Riverside, famosa per il suo orto botanico. All’impero dei sensi sommersi è arrivato attraverso due ricerche applicate. L’associazione americana dei non vedenti gli aveva posto il problema delle auto ibride, così silenziose, con il loro motore elettrico, da essere un pericolo per i ciechi. Come proteggerli da questa nuova minaccia? Prima ancora, il National Insitute of Health e la National Science Foundation gli avevano finanziato una ricerca per aiutare i sordi a integrare la lettura labiale con altre percezioni sensoriali. Lo straordinario potere dei nostri sensi mette i risultati di queste ricerche a nostra disposizione: è una guida all’uso integrato e più efficace dei nostri cinque sensi.
I pipistrelli hanno una vista debolissima. Eppure volano nel buio con incredibile sicurezza. Emettendo ultrasuoni, evitano gli ostacoli grazie all’eco che muri, alberi e prede rimandano alle loro orecchie. Sono un successo dell’evoluzione biologica: ne esistono 1200 specie nel mondo, 32 in Italia, e alcune di queste in una notte riescono a inghiottire duemila zanzare. Ma l’ecolocalizzazione (che noi abbiamo imitato con macchine altamente tecnologiche come il sonar, il radar e l’ecografia) non è esclusiva dei pipistrelli. Anche noi possediamo questa facoltà, e benché sia meno sviluppata rispetto ai chirotteri, possiamo affinarla in modo sorprendente.
Tanto per cominciare esercitiamo continuamente l’ecolocalizzazione per il fatto ovvio che abbiamo due orecchie e ciò permette, con un ascolto stereo, di individuare la direzione da cui arriva un suono. Usiamo normalmente anche una raffinata interpretazione dei suoni: per esempio versando il vino in un recipiente a occhi chiusi sapremmo dire quando sta per traboccare.
Rosenblum ha studiato ciechi che facendo schioccare la lingua e ascoltando il suono riflesso si muovono sicuri in spazi aperti e ancora meglio in ambienti chiusi. Curiosa la storia di Daniel Kish: non ci vede ma va in bicicletta e fa da guida ad altri ciechi in mountain bike. Sistema una cartolina in modo che sbatta contro i raggi di una ruota, come facevamo da bambini per illuderci di andare in moto. L’eco del ticchettio gli svela tutti gli ostacoli e la direzione del percorso. Provate a bendarvi gli occhi e a trovare una porta aperta lungo un corridoio schioccando le dita. Capirete che con un po’ di allenamento potreste farlo anche voi. Il libro di Rosenblum è pieno di questi esperimenti sensoriali.
C’è poi una quantità di percezioni miste (visive, uditive, olfattive, tattili) che influenzano i rapporti interpersonali. Quando tra due persone si instaura una buona comunicazione, una incomincia impercettibilmente a imitare l’altra nel tono della voce, nella gestualità, nella mimica facciale. Con un’indagine più attenta si è visto che il cervello continuamente mette in atto processi di imitazione.
In sintesi: i sensi sono tutti correlati e hanno una forte predisposizione a vicariarsi l’un l’altro; le abilità multisensoriali alternative si acquisiscono con l’esercizio e nel tempo si fissano stabilendo nuove sinapsi (collegamenti elettro-chimici) tra i neuroni; speciali aree cerebrali presiedono alle facoltà imitative; tutto ciò può essere verificato con le più avanzate tecniche di imaging del cervello come la risonanza magnetica funzionale.
Sotto traccia stanno le due scoperte di neuroscienze più importanti degli ultimi trent’anni: la plasticità cerebrale e i neuroni specchio. Fino al 1985 la rigidità del cervello era un dogma. Non è così: il cervello riconfigura continuamente i suoi circuiti: nel cieco l’area visiva occipitale può acquisire funzioni tipiche del tatto e dell’udito. Quanto ai neuroni specchio, scoperti da Giacomo Rizzolatti e dal suo gruppo dell’Università di Parma, determinano i meccanismi di imitazione, apprendimento ed empatia, tutte funzioni mediate dai sensi. Sono nozioni che cambiano il modo di affrontare le disabilità, ma potrebbero cambiare anche il modo di concepire le relazioni sociali e – perché no? – persino i rapporti politici.

Repubblica 28.5.11
Pillole dell´amore, la nuova generazione e tra un anno il Viagra diventerà low cost
di Elena Dusi


Nel 2012 scade il brevetto della pillola blu che vale due miliardi di dollari l’anno
Sul mercato i fratelli del Viagra per non perdere il business record
Scade il brevetto, arrivano i generici. Sul mercato prodotti ancora più rapidi
Vince la praticità: alcune si masticano altre si sciolgono in bocca come caramelle
Benefici per i pazienti. Le case farmaceutiche all´assalto del principio attivo

PRESTO il Viagra non funzionerà più. Almeno per quanto riguarda la sua capacità di gonfiare le casse dell´azienda farmaceutica che lo produce. Il brevetto americano della pillola blu che aiuta scadrà infatti il 27 marzo 2012 diventando farmaco generico. E la Pfizer sta cercando in tutti i modi di prolungare l´efficacia del farmaco.
L´azienda è del resto assuefatta a quei due miliardi di dollari di introiti annui che il farmaco più popolare del mondo le garantisce dal 1998. Ha appena lanciato sul mercato messicano il Viagra Jet, una pillola da masticare anziché da inghiottire, ma che non sembra per questo capace di migliorare le performance della pasticca tradizionale. E in Nuova Zelanda (dove il brevetto scade a giugno di quest´anno) ha portato in farmacia una versione più a buon mercato del Viagra che si chiama Avigra. Ma che, pur cambiando l´ordine delle lettere, resta sempre lo stesso prodotto.
All´assalto della fetta di mercato delle pillole dell´amore che si libererà dal 2012 è partita la Bayer: anche lei ha prodotto una versione del suo Levitra che si scioglie in bocca come una caramella, distinguendosi per "discrezione e comodità", e che negli Stati Uniti è venduta col nome di Staxyn in una confezione nera e sottile studiata da una ditta londinese di design. L´azienda californiana Vivus poi ha in sperimentazione una pillola - l´Avanafil - che promette (ma deve ancora finire di dimostrare) di stimolare l´erezione nel giro di un quarto d´ora dall´assunzione. Un record che anche altre case farmaceutiche vantano, stirando forse un po´ troppo i loro dati.
La caduta del brevetto del Viagra (nel 2013, un anno dopo gli Stati Uniti, sarà la volta della maggioranza dei paesi europei) lascia in pole position il Cialis della Eli Lilly in un mercato che complessivamente muove 5 miliardi di dollari all´anno (esclusi i due miliardi circa di farmaci contraffatti) e che riguarda decine di milioni di pazienti. La ditta di Indianapolis conta l´anno prossimo di superare il Viagra nelle vendite, facendo diventare la sua pasticca, presente in Europa dal 2002 e nota come "la pillola del week-end" per il suo effetto che dura fino a tre giorni, il rimedio più diffuso contro l´impotenza nel mondo.
Delle grandi manovre per combattere la disfunzione erettile i veri favoriti sono i pazienti, che troveranno il Viagra nella sua versione generica a un costo più basso (ma sempre, in Italia, dietro presentazione di una ricetta medica). In Spagna, dove il brevetto è scaduto nel 2008, i prezzi sono scesi di circa un quarto. Meno di quanto ci si aspettasse, ma con la perdita dei diritti sia negli Stati Uniti (dove si consumano il 40 per cento delle pillole blu del mondo) che in Europa, la concorrenza dovrebbe contribuire ancor di più ad abbassare un costo che oggi supera i dieci euro a compressa.
«Il prezzo del Viagra andrebbe in effetti rivisto» commenta Andrea Lenzi, che insegna endocrinologia all´università La Sapienza di Roma. «Si tratta comunque di un farmaco molto potente, che ha effetto non solo sulla sfera sessuale e su cui la ricerca continua a investire. La pillola blu viene testata anche contro l´ipertensione polmonare, l´ipertrofia della prostata e per vari problemi cardiaci. In fondo, fu proprio per curare il cuore che il Viagra venne creato. Salvo poi mostrare degli effetti inaspettati sull´erezione».
Anche il suo scopritore, il medico americano Robert Furchgott, ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1998 (lo stesso anno in cui la pillola blu decollava nelle camere da letto) con la poco eccitante motivazione della "scoperta dell´azione dell´ossido di azoto come messaggero chimico del sistema cardiovascolare". Ma divenne famoso per aver inventato il marchio più popolare del pianeta, quello che di "pillola dell´amore" resterà sinonimo anche dopo la scadenza di qualunque brevetto.

venerdì 27 maggio 2011

l’Unità 27.5.11
Il leader Pd stasera in piazza Duomo: dopo il voto, chiediamo che vadano a casa
Lega e ministeri Volevano ridurli, umiliante per gli elettori leghisti questo accattonaggio
Bersani: «L’Italia ha bisogno di Milano. La riscossa parte qui»
«Da Milano è partita la riscossa civica e morale di tutto il Paesse». Bersani stasera sarà tra il pubblico in piazza Duomo, per la chiusura della campagna elettorale. Pisapia e i «senza cervello»: Berlusconi inaccettabile.
di Laura Matteucci


«C’è bisogno di Milano in questo Paese, da Milano si è alzato un vento di cambiamento che prenderemo per mano e porteremo in tutta Italia. Vinciamo noi, l’ho sempre detto, figuriamoci se non lo ripeto adesso. E sarà una riscossa civica e morale, prima ancora che politica». Per questo Pierluigi Bersani stasera sarà ancora qui, «in mezzo al pubblico in piazza Duomo per seguire l’ultima serata». Il leader del Pd è a Milano, parla in un incontro pubblico in una zona decentrata, punta alla vittoria promessa di lunedì di Giuliano Pisapia e guarda oltre il voto. Per lui sono i primi ritorni in città dopo «l’eccezionale risultato del primo turno». «Se si confermerà quest’onda dice bisognerà discutere di fisco, precarietà dei giovani, liberalizzazioni innanzitutto. Se il governo non è in grado di affrontare questi temi, noi chiediamo che vadano a casa e che si torni dagli elettori. Non fanno più niente, a parte aumentare il numero dei sottosegretari». Perchè questo «tramonto troppo lungo e fiammeggiante di Berlusconi» non permette «nemmeno di parlare dei problemi seri». Piuttosto tocca, come sempre, commentarne i deliri: già gli elettori di sinistra «senza cervello» sembrava potesse bastare per chiudere la campagna, e invece siamo alla farneticazione internazionale: «Berlusconi dice Bersani è riuscito a togliere due minuti del G8 a Obama per dire che il problema degli italiani sono i giudici rossi. Non sose gli chiederà l’intervento della Nato. È un’umiliazione che dobbiamo togliere di torno il prima possibile perchè stiamo perdendo peso a livello internazionale». Ma il nodo, ricorda, «non è solo mandare a casa Berlusconi, è liberarsi dal berlusconismo, una malattia entrata nelle vene del Paese». Se ci sarà uno spiraglio per parlare di una nuova legge elettorale, definita «priorità assoluta», «noi dice Bersani siamo disposti a discutere con chiunque». E la Lega che, tra l’ossessione ministeri e l’assenza di Bossi accanto a Letizia Moratti, in questa campagna elettorale sembra sempre più giocare una partita tutta sua? «Mi chiedo risponde lui dove sia finita la Lega di una volta, che i ministeri li voleva ridurre. Trovo davvero umiliante per gli elettori leghisti questo accattonaggio di ministeri».
Ultimo giorno di campagna elettorale, la più becera che la destra abbia mai messo in atto, la più autenticamente partecipata dai milanesi democratici. Pisapia continua ad incontrare pezzi di città, la Moratti se la prende col suo capo («noi danneggiati da campagna elettorale su temi nazionali»), incassa il forfait di Gigi D’Alessio al concerto di ieri sera (troppi insulti su Facebook da parte dei leghisti, alla faccia del patto di ferro col Pdl), e alla fine è riuscita a scusarsi per la diffamazione pubblica su Sky, dove ieri si è ri-confrontata da sola, visto che lui ha declinato l’invito. Ma gli attacchi del centrodestra non smettono mai: «Chi vota a sinistra è senza cervello? dice Pisapia Inaccettabile che un presidente del Consiglio continui ad insultare la maggioranza degli italiani».
Milano aspetta e si colora di arancione (il colore scelto per la campagna di Pisapia), tra le migliaia di gerbere distribuite dal Pd, le lenzuola alle finestre, le bandiere che sventolano a grappoli da auto e moto e biciclette. E che oscurano quei tragicomici manifesti su zingaropoli, abnormi moschee e più tasse per tutti. «Verranno seppelliti da una risata cita Bersani Il tentativo disperato di terrorizzare gli elettori è scivolato nel ridicolo». Del resto, «se Milano, grande capitale civile, la città che ci fa stare più di tutte in Europa, s’impressiona davanti a queste sciocchezze, che cosa dovrebbe fare il resto d’Italia?».
Stasera, allora, concerto finale, con Elio & co., Bisio, Lella Costa, Paolo Rossi: ci sarà Bersani tra le migliaia di persone in piazza Duomo, e pure il leghista Matteo Salvini, perchè Elio non se lo vuole perdere, dice. Il centrosinistra, del resto, è pronto a governare per tutti i milanesi.

l’Unità 27.5.11
Tomba Mediterraneo
1400 migranti spariti a largo di Lampedusa
Da gennaio di quest’anno sono morte più persone di quante persero la vita nell’intero 2008. È la strategia del Raìs: profughi spediti in Europa
di Gabriele Del Grande


Sono vent’anni che il Canale di Sicilia è attraversato dalle barche di chi viaggia senza passaporto verso la riva nord del Mediterraneo. Eppure una cosa così si era mai vista. Dall’inizio dell’anno è una strage senza precedenti. Sono già almeno 1.408 i nomi che mancano all’appello. Uomini, donne e bambini annegati al largo di Lampedusa. In soli cinque mesi. I dati sono quelli dell’osservatorio Fortress Europe. Da gennaio sono scomparse più persone di quante ne morirono in tutto il 2008, l’anno prima dei respingimenti, quando si contarono 1.274 vittime a fronte di 36.000 arrivi in Sicilia. Il tasso di mortalità delle traversate è aumentato in modo apparentemente inspiegabile. Ma è sufficiente scomporlo per farsi un’idea più precisa.
Dall’inizio dell’anno sono sbarcate circa 14.000 persone dalla Libia e 25.000 dalla Tunisia. Eppure di quei 1.408 morti soltanto 187 sono annegati sulla rotta tunisina. Mentre sulla rotta libica i morti sono addirittura 1.221. Come dire che sulla rotta tunisina ne muore uno su 130 mentre sulla rotta libica ne muore uno su 11. Dodici volte di più. I conti non tornano. Quei morti sono troppi. Non può essere soltanto il mare. E il dato potrebbe essere ancora più allarmante. Perché nessuno è in grado di dire quanti siano i naufragi di cui non si è saputo niente. L’ultimo l’ho scoperto per caso due giorni fa, parlando con alcuni superstiti in un centro di accoglienza del nord Italia.
«Eravamo 600 persone. Le barche erano talmente malridotte che ci veniva da piangere al solo pensiero di partire. Ma non avevamo scelta. I militari ci costringevano a salire. Sulla prima barca montarono in 320, c’erano tantissime donne e bambini, perché li avevano fatti salire per primi. Sulla nostra barca invece eravamo un po’ di meno, in 280. Siamo partiti così, loro davanti e noi dietro».
Sono le sette del mattino del 27 aprile 2011. E dal porto di Zuwara prendono il largo due vecchi pescherecci caricati all’inverosimile con 600 passeggeri. Il tempo all’inizio è buono. I comandanti sono tunisini. I due pescherecci navigano affiancati uno all’altro, verso nord. Ma già nel primo pomeriggio la bussola si rompe. O almeno così dice il capitano. Che propone di aspettare il tramonto del sole per potersi orientare con le stelle. Ma insieme al tramonto arriva anche una brutta tempesta.
«Eravamo in mezzo alla tempesta, la barca ogni volta che andava giù sembrava sprofondare nel mare, eravamo circondati da montagne di acqua, e le onde sbattevano sul ponte. Eravamo tutti fradici e infreddoliti, al buio... Io cercavo solo di stringere forte tra le mie braccia il bambino, che non faceva altro che piangere. A un certo punto abbiamo sentito
gli altri iniziare a gridare. Dicevano “Aiuto, aiutateci! Aiutateci, aiuto! Si rompe! Si rompe si rompe si rompe! Prendeteci prendeteci! È caduto è caduto!”. Sentivamo quelle grida in mezzo all’oscurità, senza capire da dove provenissero, se fossero davanti, a destra o a sinistra. Non vedevamo niente. C’è stata una grossa discussione a bordo. Alcuni dicevano che dovevamo aiutarli. Altri facevano notare che non c’era neanche il posto per noi a bordo, dove li avremmo messi? Rischiavamo di morire tutti per andarli a salvare».
Il capitano è tra quelli che volevano andare a prestare soccorso, ma alla fine si fa convinto a lasciarli al loro destino e con una virata si allontana dalla zona dell’incidente. Quando si alzano le prime luci dell’alba, la scena è terrificante.
«Il mare era cosparso di pezzi di plastica, sacchetti, vestiti, jilet di salvataggio. E in lontananza abbiamo visto anche dei corpi a galla ondeggiare. La barca si era spezzata e era colata a picco portandosi con sé tutti i 320 passeggeri. Nessun superstite. Eravamo terrorizzati, e per non cadere nel panico, abbiamo deciso di passarci alla larga per non vedere la scena del massacro».
Anche perché nel frattempo ci sono stati dei morti anche sul peschereccio del nostro testimone, una decina di persone cadute in mare spazzate via da un’onda che si è schiantata sul ponte durante la tempesta. L’incubo finisce il primo maggio alle quattro di pomeriggio, quando la barca attracca a Lampedusa. Nonostante la fine del viaggio, alcune donne a bordo continuano a piangere. Perché sull’altra barca avevano i mariti. Nella foga dell’imbarco infatti i militari al porto di Zuwara non avevano perso tempo a tenere uniti i nuclei familiari. E così alcune famiglie si sono ritrovate divise tra le due navi.
Questa testimonianza spiega meglio di ogni altra analisi politica i dati al rialzo delle stragi nel Mediterraneo. Non è il mare l’unico responsabile di tanti morti. Sono soprattutto i militari libici. Perché questa volta gli sbarchi sono davvero un’operazione interamente organizzata dal regime. Che a differenza delle mafie che gestivano le traversate prima, non ha bisogno che la merce arrivi a destinazione. Paga il regime. È l’ultima arma rimasta al regime libico. Le bombe umane. L’obiettivo è spedirne oltremare il maggior numero possibile, come ritorsione contro i paesi europei.    2/3 continua

il Fatto 27.5.11
@rivoluzione. Giovani contro satrapi
Primavera araba, il contaggio corre in rete
di Giovanna Loccatelli


Le rivoluzioni del mondo arabo e il ruolo dei social network raccontate attraverso i messaggi su Internet dei giovani: è il libro di Giovanna Loccatelli “Twitter e le rivoluzioni” nelle librerie da oggi.
11 gennaio 2011. Sul blog collettivo Na  waat.org   un giovane ventenne tunisino scrive: “Al liceo e al collegio si ha sempre paura di parlare di politica. Ci sono informatori ovunque, ci viene detto. Nessuno osa discutere in pubblico […] Siamo cresciuti con questa paura di impegnarci […] Ed ecco che Wikileaks rivela quello che tutti mormorano. Ecco un giovane s’immola nel fuoco. Ecco, venti tunisini vengono ammazzati in un sol giorno. E per la prima volta vediamo l’occasione per ribellarci, per vendicarci di questa famiglia reale che si è presa tutto, per rovesciare quell’ordine stabilito che ha accompagnato tutta la nostra giovinezza”. Vive in un contesto di perenne paura la generazione di ventenni, povera, istruita, digitalizzata e senza lavoro fisso che, grazie ad Internet, conosce il mondo e rivendica i diritti dei coetanei virtuali, al di là dei propri confini .
   LA RIVOLUZIONE, mediatica prima e reale poi, scoppia quando un ragazzo, Mohamed Bouazizi, si dà fuoco in un paesino vicino Tunisi. Le sue ultime parole su Facebook: “Me ne vado, mamma, perdonami, mi sono perduto lungo un cammino che non riesco a controllare, perdonami se ti ho disobbedito, rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca […]”. La polizia, corrotta, gli aveva confiscato il suo carretto di frutta. Le foto fanno il giro del mondo grazie ai social network. Al Jazeera comprende, prima di tutti gli altri media tradizionali, il valore di quel materiale e nel giro di poche ore la notizia diventa globale. Il tam tam contagia tutti i media sociali, sbarca anche su youtube. […] E poi la rivolta, con la velocità irrefrenabile della rete, arriva in Egitto. 8 febbraio 2011. @Ghonim “Non sono un eroe: sono soltanto abile con la tastiera del computer, gli eroi reali sono quelli in strada” dichiara Wael Ghonim, 30 anni, marketing manager di Google in Medio Oriente e Nordafrica. Ha orientato le masse giovanili della rivoluzione egiziana tenendo viva l'attenzione e la discussione online. Rapito dalla polizia e liberato dopo due settimane di reclusione subitotornainstradaetwittanelsuo microblog: @Ghonim “Piazza Tahrir è bloccata. Stiamo provando ad arrivare lì. Gli egiziani stanno facendo la storia”. Secondo Time è l’uomo più influente del 2011. Tanti, come lui, hanno twittato per strada con i propri cellulari. La diffusione dei telefonini, non a caso, ha registrato un boom storico nel 2009: 45,6 milioni circa le utenze attive nel paese, con una popolazione di circa 80 milioni di persone. C’è pure, però, chi ha twittato le voci degli egiziani in tempo reale fuori da questi paesi, chiuso nella propria stanza. È il caso di John Scott-Railton. Studente californiano che, durante il blocco della rete messo in atto dal regime di Mubarak, ha fatto sì che le notizie provenienti dal Medio Oriente arrivassero in tutto il mondo. Come? Registrando da un telefono fisso le voci di egiziani e libici per poi pubblicarle nel suo account […].
   GLI ATTIVISTI raggruppano in un archivio on line, “I’m jan 25” tutto il materiale audiovisivo della rivoluzione. Un enorme contenitore che immortala le testimonianze della sanguinosa rivolta. La consapevolezza, diffusa tra i cittadini, della potenza dei social network è tale che tra gli egiziani in festa dopo le dimissioni di Mubarak è circolata una barzelletta sui tre presidenti. La barzelletta riguarda l’incontro dei tre in paradiso. Quando Nasser e Sadat vedono arrivare Mubarak gli chiedono come sia morto. “È stato il veleno o eri sul palco?”. “Nessuna delle due – risponde Mubarak – è stato Facebook” Che in inglese rende ancora di più: “I was facebooked!”. E poi la Libia. Anche qui i giovani si sono uniti in un gruppo, ShababLybia, voce del Movimento dei giovani per la Libia. È un gruppo nato su face-book, ricreato su Twitter, che si ispira a quanto successo in Egitto. Mohammed Nabbous ha creduto, forse più di tutti, nella forza divulgatrice di questi strumenti. All’indomani dell’insurrezione del 17 febbraio, aveva fondato la Libya Alhurra tv, esempio massimo di giornalismo partecipativo. Un sito che trasmette quotidianamente i video degli scontri, le sparatorie, le mobilitazioni, e le vittime del regime di Gheddafi. […] Su Twitter: @Nabbous “Non temo di morire ma ho paura di perdere la mia battaglia per la libertà della Libia”. È stato freddato da un cecchino di Gheddafi mentre riprendeva le rivolte in presa diretta con il mondo. Era una fonte, autorevole, per tanti giornalisti, sparsi nel globo. Alla luce di questo viaggio virtuale: come sta cambiano pelle l’informazione globale? Difficile rispondere, è in atto però un esperimento, di successo, che si chiama Al Jazeera talk. Non esiste una redazione fisica, non esistono giornalisti dietro un computer in un ufficio, ma, esistono oltre 300 blogger sparsi nelle zone calde nel mondo che, in tempo reale, con il cellulare e un pc raccontano in diretta la storia.
   AHMED ASHOUR, direttore di questa piattaforma, racconta: “Nei giorni del blocco totale di Internet, i giovani che si erano riversati a piazza Tharir hanno fatto circolare alcuni fogliettini di carta, con sopra diversi messaggi. Era imperativo, scritto nero su bianco, l’ordine di farli circolare il più possibile da una mano all’altra”. Questa, secondo Ashour, è la mentalità dei social network che si è fatta carne ed ossa nelle rivoluzione della “primavera araba”. Funzionerà in altri contesti? Ma una cosa è certa: queste sono le prime rivoluzioni 2.0 nell’era dell’informazione globale. Nulla sarà più come prima.
Twitter e le rivoluzioni di Giovanna Loccatelli EDITORI RIUNITI, 240 PAGINE, 16 EURO

Repubblica 27.5.11
L´intervista/ Parla l´analista Alessandra Lemma. Un suo libro spiega il bisogno di modificarsi
Da Lacan ad Almadòvar, cambiare vita cambiando pelle
"Da sempre abbiamo cercato di mutare ma oggi la versione diversa che vogliamo dare è un progetto personale"
di Luciana Sica


"Io cerco il volto che avevo/ prima che il mondo fosse creato". Alessandra Lemma è una psicoanalista, ma ricorre ai versi di Yeats per dire quel desiderio onnipotente di un corpo non ancora contaminato dallo sguardo dell´altro e dalla consapevolezza della fragilità che segna la condizione umana.
«Il corpo dice l´analista si può sentire come aperto o chiuso, comunicativo o monadico, come il luogo dell´incontro o del rifiuto, ma inevitabilmente "siamo degli esseri guardati, nello spettacolo del mondo", per usare l´espressione di Lacan: esposti ai pensieri e ai sentimenti degli altri, senza poterli controllare. Il corpo quindi rimanda da sempre all´identità anche sociale, ma oggi è qualcosa di diverso, è un "progetto personale", è la versione di noi stessi che preferiamo, con un´implicita presa di distanza da quello che siamo e non vogliamo essere».
Nata a Genova ma da sempre a Londra, Alessandra Lemma ha scritto un libro sulle ragioni profonde che portano donne e uomini di ogni età a modificare il corpo, attraverso pratiche diffuse come la chirurgia estetica, i tatuaggi, i piercing. Ha quarantacinque anni, insegna all´University College London, appartiene alla British Society of Psychoanalysis, è l´editor di una prestigiosa collana pubblicata da Routledge, lavora alla Tavistock Clinic legata a grandi nomi come Winnicott, Bion, Bowlby. All´attivo ha una quindicina di libri, ma questo è il primo uscito da noi e s´intitola Sotto la pelle (Cortina, prefazione di Vittorio Lingiardi e Monica Luci, pagg. 230, euro 24).
Perché è così necessario, se non compulsivo, il desiderio di cambiare la pelle che si abita, per dirla con il film di Almódovar?
«Perché per la difficoltà di "rappresentare" quello che si è vissuto e spesso brucia ancora le parole e i pensieri vengono rimpiazzati da azioni sul corpo e a volte contro il corpo, lì dove concretamente si localizza il sentimento dell´insufficienza. Per quella che è la mia esperienza clinica, un nuovo tatuaggio come l´ennesima iniezione di botox possono servire a non crollare emotivamente. Sono casi in cui le emozioni negative come l´inadeguatezza, la colpa, la rabbia, l´odio emergono da "sotto la pelle" a "sopra la pelle". Il corpo diventa allora una tela che esprime le fantasie più inconsce».
Rivendicazione, corrispondenza perfetta, autocreazione: lei usa espressioni apparentemente bizzarre per definire queste fantasie. Intanto cos´hanno in comune?
«Anche se corrispondono a stati mentali qualitativamente molto diversi, è identica la loro finalità così spesso illusoria: quella di sostenere un equilibrio psichico precario... Parlo di fantasia di rivendicazione quando il soggetto vive il corpo come estraneo avvertendo dentro di sé una specie di "oggetto inquinante", una presenza aliena: lo modifica per dichiararne la proprietà, lo rivendica, appunto... La corrispondenza perfetta è invece la fantasia che sostiene la ricerca di un corpo perfetto come garanzia di amore e di desiderio da parte di un partner altrettanto perfetto: quella che chiamo "fusione di un Sé idealizzato con un oggetto idealizzato». La fantasia di autocreazione implica che il nostro corpo ci "disturba" perché per qualche ragione rifiutiamo la dipendenza. In questo caso c´è una profonda lamentela, un "attacco invidioso" spesso nei confronti di una madre vissuta come un´artefice onnipotente ma indisponibile sul piano emotivo, una donna che probabilmente non ha saputo o potuto trasmettere con lo sguardo e il contatto il dono dell´amore».
"Non possiamo far nascere noi stessi", scrive lei, per restituire il senso di queste fantasie inconsce... Ma perché è così difficile accettare un fatto così basilare della vita?
«Perché il corpo testimonia la nostra relazionalità, lo spazio fisico condiviso della madre e del bambino non è che il prototipo della nostra dipendenza psichica dagli altri. Se ci sono state difficoltà nella relazione con il primo oggetto del desiderio, può essere impossibile sentirsi a casa nel proprio corpo che potrà quindi essere "raffigurato" come "sfigurato", diventare strumento paradossale di autoaffermazione o di autodistruzione. È sottile il crinale tra la normalità e la patologia nella ricerca delle modificazioni corporee, ma quando si vuole "trionfare" sul corpo è comunque un dolore psichico che viene disegnato sulla pelle».

Repubblica 27.5.11
L’ossessione del corpo diventa una malattia
Così la cura del sé, dalla forma fisica al mangiar sano, è stata esasperata, trasformandosi, nei suoi eccessi, in una patologia
Quando il benessere diventa una ideologia non accettiamo più le nostre imperfezioni
di Massimo Recalcati


L´anziano protagonista di uno degli ultimi film di Woody Allen, Incontrerai l´uomo dei tuoi sogni, recitato da un raro Anthony Hopkins, esulta scoprendo che il suo DNA gli garantirà una vita inaspettatamente protratta. Il rifiuto dell´avanzare degli anni lo mobilita alla ricerca di una giovinezza perpetua che non implica solo il progetto tragicomico di sposare una escort in carriera, ma anche l´assoluta dedizione al potenziamento atletico e alla purificazione salutista del suo corpo come per suffragare scaramanticamente la previsione esaltante offertagli dal discorso medico. Questo personaggio non è un alieno ma una maschera tipica del nostro tempo. Il corpo diventa un tiranno esigente che non lascia riposare mai.
In uno dei suoi ultimi libri titolato Il governo del corpo (Garzanti 1995), Piero Camporesi aveva abbozzato l´idea che una nuova "religione del corpo" si stesse imponendo nella nostra Civiltà. Peccato non abbia avuto il tempo per elaborare con la giusta ampiezza questa intuizione che oggi si impone ai nostri occhi come un´evidenza. Aveva ragione Camporesi: il nostro tempo ha sposato l´ideale del corpo in forma, del corpo del fitness, del corpo in salute, come una sorta di comandamento sociale inedito. Si tratta di una religione senza Dio che eleva il corpo umano e la sua immagine al rango di un idolo. Così il corpo sempre in forma, obbligatoriamente in salute, assume i caratteri di un dover-essere tirannico, di un accanimento psico-fisico, di una prescrizione moralistica: ama il tuo corpo più di te stesso!
La nuova religione del corpo si suddivide in sette agguerrite. Ma il loro comune denominatore resta l´esasperazione della cura di sé che diventa la sola forma possibile della cura come tale. Quella dimensione la dimensione della cura che per Heidegger definiva in modo ampio l´essere nel mondo dell´uomo e la sua responsabilità di fronte al fenomeno stesso dell´esistenza, sembra oggi restringersi al culto narcisistico della propria immagine. La nuova religione del corpo richiede infatti una dedizione assoluta per se stessi. Volere il proprio bene, volersi bene, diventa il solo assioma che può orientare efficacemente la vita. Ogni sacrificio di sé, ogni arretramento rispetto a questo ideale autocentrato, ogni operazione di oltrepassamento dei confini del proprio Ego, ogni movimento di dispendio etico di se stessi viene guardato con sospetto dai fedeli di questa nuova religione. La stessa domanda rimbalza come una mantra dalla stanza dello psicoterapeuta sino negli studi dei talk show televisivi: perché non ti vuoi bene, perché non vuoi il tuo bene?
Le espressioni psicopatologiche di questa cultura si moltiplicano. La classificazione psichiatrica dei disturbi mentali (DSM) si arricchisce in ogni edizione di nuove sindromi che sono spesso l´effetto diretto di questa invasione sconsiderata della cura eccessiva di sé. Si pensi, per fare solo un esempio, alla cosiddetta ortoressia che etimologicamente deriva dal greco orhtos (corretto) e orexis (appetito). Si tratta di una nuova categoria psicopatologica che definisce, accanto all´anoressia, alla bulimia o all´obesità, una particolare aberrazione del comportamento alimentare caratterizzata dalla preoccupazione eccessiva per il "mangiare sano". Ma come è possibile che una giusta attenzione a quello che si mangia sia classificato come una patologia? L´ortoressia esibisce un tratto essenziale del nostro tempo; il perseguimento del benessere, dell´ideale del corpo in salute, del corpo come macchina efficiente, può diventare un vero incubo, un´ossessione, può trasformarsi da rimedio a malattia. Il corpo che deve essere perennemente in forma è in realtà un corpo perennemente sotto-stress.
La vita medicalizzata rischia di diventare una vita che si difende dalla vita. Il corpo si riduce ad una macchina di cui deve essere assicurato il funzionamento più efficiente. Il medico non è più, come indicava Georges Canguilhem, l´"esegeta" della storia del soggetto, ma il "riparatore" della macchina del corpo o del pensiero. La malattia non è un´occasione di trasformazione, ma un semplice disturbo da eliminare il più rapidamente possibile cancellandone ogni traccia. L´ortoressia riflette questa curvatura paradossale dell´ideologia del benessere mostrando come le attenzioni scrupolose alla protezione del proprio corpo possano trapassare nel loro contrario. Roberto Esposito ha da tempo messo in valore nei suoi studi di filosofia della politica sul paradigma immunologico questa contraddizione interna all´igienismo ipermoderno: il rafforzamento delle procedure di protezione della vita rischia di capovolgersi nel loro contrario facendo ammalare la vita.
Lo sfondo antropologico della nuova religione del corpo è quello del narcisismo ipermoderno che costituisce l´esito più evidente del tramonto di ogni Ideale collettivo. Se la dimensione dell´Ideale si è rivelata fittizia, se il nostro tempo è il tempo che non crede più alla potenza salvifica e redentrice degli Ideali, ciò per cui vale la pena vivere sembra allora ridursi al solo culto di se stessi. La nuova religione del corpo è un effetto (non certo l´unico) del declino nichilistico dei valori, del perdere valore dei valori. Il corpo eletto a principio assoluto sfida, nel suo furore iperedonista, ogni Ideale per mostrarne tutta l´inconsistenza di fronte alla sola cosa che conta: il proprio corpo in forma come realizzazione feticistica dell´Ideale di sé. L´igienismo contemporaneo opera così un rovesciamento paradossale del platonismo. Il corpo salutista non è affatto il corpo liberato, ma è un corpo che da carceriere è divenuto carcerato. Se per Platone il corpo era il carcere dell´anima, se era la sua follia impropria, il corpo salutista appare invece come un corpo che è divenuto ostaggio, prigioniero di se stesso, carcere vuoto, puro feticcio, idolo senza anima.
Il comandamento del benessere, come accade per tutti gli imperativi che si impongono come obbligazioni sociali, come misure standard alle quali dover uniformare le nostre vite perché siano considerate "normali", rischia di scivolare verso l´integralismo fanatico del salutismo ortoressico. Soprattutto se si considera che questo comandamento punta a rigettare lo statuto finito e leso dell´uomo, la sua insufficienza fondamentale. L´ideologia del benessere è infatti una ideologia che prova ad esorcizzare lo spettro della morte e della caducità. In questo svela il suo fondamento perverso se la perversione in psicoanalisi è il modo di rigettare la castrazione dell´esistenza, cioè il suo carattere finito. L´ideologia del benessere che alimenta la nuova religione del corpo sbatte la testa contro il muro della morte. E´ questo ostacolo inaggirabile che il nostro tempo vorrebbe espellere, cancellare, sopprimere e che invece ci rivela tutto il carattere di commedia che circonda il culto ipermoderno del corpo. Dobbiamo ricordarci che la cura di sé non esaurisce la dimensione della vita. La cura è innanzitutto cura dell´Altro. Nietzsche aveva indicato la virtù più nobile dell´umano nella capacità di saper tramontare al momento giusto. Rara virtù nei nostri tempi, da celebrare come una preghiera.
(L´autore è psicanalista e saggista, il suo ultimo libro "Che cosa resta del padre?", è pubblicato da Raffaello Cortina)