venerdì 30 marzo 2007

L’Unità 30.3.07
Bertinotti: «Unificare le sinistre? Un dovere»
I conti difficili di Prc. Verso un nuovo soggetto, senza più falce e martello. E quanto pesa stare al governo
di Wanda Marra


DOPO I FISCHI Sceglie la Versilia e lo spazio quasi post-moderno della Fiera di Carrara Rifondazione, per la sua Conferenza nazionale di organizzazione. Uno scenario inedito per un appuntamento centrale per fare il punto sulla situazione del partito, dopo
un anno, o quasi di esperienza nel governo, e "lanciarlo" verso la costituzione della Sinistra europea. E nella prima giornata carrarese di Rifondazione si respirano un po' tutte le spinte e le controspinte che vive il partito in questo momento.
Per l'apertura dei lavori arriva Fausto Bertinotti. Accolto calorosamente, come sempre dalla platea di Rifondazione non sale sul palco per prendere la parola ufficialmente. Segue i lavori seduto in prima fila, accanto a Gennaro Migliore. Parla però con i giornalisti. Le contestazioni «anche quando sono piccole e circoscritte vanno indagate per capire cosa c'è dietro, se c'è un disagio», dice a proposito di quella da lui subita. Anche se ci tiene a precisare che «lo stato di salute di Rifondazione è molto buono». Ribadisce la necessità della riunificazione delle sinistre: «Si può chiamare in molti modi, io l'ho chiamata cantiere, per dare l'idea che le sinistre in Italia devono ricominciare a discutere dalla cultura politica». E d'altra parte, la Conferenza di Rc si interfaccia anche temporalmente con la riunione della seconda mozione dei Ds, dove si ribadisce che sarà formato un movimento per un progetto alternativo con l'obiettivo di riunire tutta la sinistra italiana. Sulla situazione del governo, poi, Bertinotti interviene per dire che non vede cambi di maggioranza all'orizzonte. È la relazione introduttiva del responsabile organizzazione di Rc, Ciccio Ferrara a definire i confini entro cui si muove il partito, riaffermando la legittimità dell'«anomalia» di Rifondazione, «di voler stare dentro un crinale: quello del rapporto tra società e politica, tra movimenti e rappresentanza, di cercare e di tentare nuove forme di relazioni e di connessioni». E poi, a proposito della SE, rivolgendosi quasi esplicitamente alla sinistra della Quercia, dice: «Non pensiamo che si debbano o possano mettere discriminanti, né che possano essere posti vincoli al proseguo di questo confronto. Ognuno parte da sé: noi dalla Sinistra europea e dalla cultura politica della Rifondazione comunista; altri da altre ipotesi di collocazione internazionale e altri riferimenti, del tutto legittimi. Nessuno rinunci a nulla, la prospettiva deve essere il misurarsi in un confronto, i cui tempi e modalità vanno naturalmente condivisi».
Intanto, in platea si agitano e si confrontano le diverse anime del partito. Non ci sono Cannavò e Turigliatto, di Sinistra critica. Arriveranno domani per fare una conferenza stampa in cui chiederanno, tra le altre cose, un congresso straordinario. Che c'è aria di scissione ormai sembra chiaro. Contro il progetto di Se, e non solo. E se anche nessuno lo dice ancora ufficialmente, tra le ipotesi nella prospettiva della SE c'è anche quella dell'eliminazione dal simbolo di falce e martello Guido Cappelloni, Presidente del Collegio di Garanzia nazionale, esponente dell'Ernesto, vecchio comunista doc: «La Sinistra europea non è la risposta giusta». Nessuna voglia di scissione da parte loro, ci tiene a sottolinearlo, comunque. Ma mette sul piatto anche una domanda: «Rinunciando a falce e martello prenderemmo più o meno voti?». Posizione completamente diversa quella di Nicola Fratoianni, giovane segretario regionale della Puglia, che fu tra gli artefici delle primarie che videro Vendola vincitore. «Il progetto politico della Se non è, non può essere in discussione», dice. Come spiega che uscire dal governo per Rifondazione darebbe vita a uno scenario di "regressione". Il punto è il come andare avanti. Una possibilità la mette in campo: «Rilanciare il metodo delle consultazioni, anche sui contenuti. Per esempio: quali contenuti deve avere la SE? Ma anche, prendiamo il voto sull'Afghanistan: come deve comportarsi Rifondazione?» E a proposito delle spine di un Prc di governo alla domanda di un'inchiesta sul partito, fatta su oltre 2500 quadri locali, presentata ieri, «Quali effetti ha sul partito la partecipazione al governo?", il 42,5% non risponde, il 27,4% li valuta positivi e solo il 4,1% negativi del tutto.

L’Unità 30.3.07
I 92 anni di Pietro Ingrao
La sua storia per vedere al meglio il nostro presente
Di Pietro Barcellona


Presentando l’anno scorso a Firenze, con Givone e Cantarano, il libro di Ingrao, Volevo la luna, ho detto che si tratta di un grande romanzo familiare e insieme di un’epica della sconfitta. Mentre scorrono i ricordi di Ingrao, il paese, il nonno, la madre, la clandestinità, il partito, si avverte il presentimento di un destino: assistere al fallimento del più grande tentativo di assalto al cielo che gli esclusi, i dannati della terra abbiano mai tentato. Il filo rosso della vita di Ingrao è in quel ripetuto insistere sull’insorgenza che diventa agire politico, sia esprimendo la reazione all’esclusione, al persistere di uno stato di subalternità di grandi parti della società e del mondo, sia per dar corpo allo spirito di rivolta contro la mediocrità e l’assenza di valori della moderna borghesia. Come nella poesia, il bisogno di vincere il silenzio della storia sugli sconfitti di cui Ingrao ha subìto la fascinazione ambigua sin dai tempi della collaborazione con Luchino Visconti. La fine di ciò per cui una vita è stata spesa, insieme a tante altre.
Non è un caso che il libro si fermi agli anni ’80, subito dopo l’assassinio di Moro, e non parli neppure dell’89 e del crollo del comunismo. Forse tocca a noi che abbiamo condiviso questa sconfitta cercare di proseguire la ricerca oltre quella data fatale; provare a cercarne le ragioni profonde, il senso di questa fine d’epoca. In verità, ci troviamo in quel difficile passaggio in cui sono tramontati i vecchi dei e i nuovi non sono ancora nati.
Ciò che è diventato indefinibile è proprio l’oggetto di ogni nostro sapere, il riferimento di ogni discorso sensato sui significati dell’agire umano: la definizione di ciò che istituisce la specificità dell’essere umano. La domanda su ciò che dell’essere umano fa problema, ciò che costituisce il nucleo di ogni interrogazione che giustifica e legittima la stessa organizzazione della ricerca e del sapere: il problema di cos’è un uomo e di cosa sappiamo dire intorno ad esso è diventato nebuloso e incerto. L’uomo non è più definibile neppure come campo di interrogazione. Non è più possibile stabilire né quando nasce, né quando muore, è in gioco la stessa forma della finitezza umana. Siamo entrati nell’epoca del post-umano. (…)
Tutte le opposizioni sono conciliate e risolte in uno scenario di tipo evolutivo in cui l’organico e l’inorganico, la morte e la vita, sono le facce complementari di un unico processo «naturale» teso a produrre selezioni efficaci per la sopravvivenza in un universo insensato. L’unica legge che governa la vicenda della quale siamo spettatori passivi sembra essere quella di realizzare una perfetta integrazione tra cervello e computer, tra umanità e tecnica, capace di produrre un’intelligenza artificiale cosmica, immune da tutti i rischi legati alla materialità fisica.
Il campo dell’umano, che è stato sin qui il centro di attrazione storico, è letteralmente cancellato, in questo stadio del processo evolutivo che mira a realizzare l’esistenza di una perfetta intelligenza immateriale. L’artefatto, prodotto dagli uomini per ordinare il caos, appare oggi come uno stadio dell’evoluzione della natura vivente, che ha selezionato l’intelligenza calcolante come fattore della metamorfosi destinata a culminare in unica intelligenza cosmica non più condizionata dalla materia. La libertà e la volontà umane di cui tante volte ci siamo stoltamente compiaciuti sono totalmente sostituite dal caso e dalla necessità che presiedono al processo evolutivo guidato dall’intelligenza calcolante/selettiva. (…)
Se l’avvento di questo universo totalmente nuovo spiazza ogni discorso sulla realtà e sulla storia, in nome di chi e di che cosa posso prendere la parola per tenere una lezione magistrale? E, tuttavia, questo è il paradosso: l’avvento del nuovo non può essere pensato senza la dimensione della temporalità e non può essere presentato senza il linguaggio che scandisce il nostro rapporto con l’esperienza passata. Fino a quando la rappresentazione dell’accadere si manifesta nel tempo della parola è possibile recuperare uno spazio per interrogare il passato. La memoria resta, anzi, l’unico luogo - ce lo ricorda Ingrao - in cui è possibile ritessere la trama degli eventi futuri. (…)
Se siamo ancora qui a festeggiare il compleanno di Ingrao è perché egli appartiene, come ha scritto Mario Tronti, alla categoria dei «profeti», di coloro cioè che non si sono rassegnati a ridurre la politica ad economia. Tutta la vita e il lavoro di Ingrao, specie quella che attraverso una peculiare percezione dell’urgenza della crisi, negli anni che vanno dal ’79 all’89, hanno posto sul tappeto il tema di una nuova politica capace di «vedere» il presente. Gli anni poi di lavoro al C.r.s. come estremo tentativo di offrire una prospettiva alle donne e agli uomini che rischiavano di essere travolti dalle macerie dell’89, non un mero ritorno del tragico passato novecentesco, colmo di orrori, campi di sterminio e di gulag, ma un distanziamento dalla congiuntura che consenta di riaprire la prospettiva di una temporalità non esaurita.
Tutto il periodo della sua, della nostra ricerca al C.r.s. è un forte presagio della fine imminente, ma anche la prova della convinzione che ciò che è accaduto non sia solo nefandezze ed errori, ma anche grandi speranze e sacrifici generosi di tante donne e di tanti uomini anonimi.

L’Unità 30.3.07
Ds, Mussi annuncia l’addio
«Si è chiusa una storia, andremo via quando parte la costituente Pd»
Fassino: «Resta, sono convinto che stiamo facendo la cosa giusta»
di Ninni Andriolo


«Il dado è tratto» annunciano, mentre sciamano dalla sala conferenze di Piazza Montecitorio, dopo una lunga giornata di confronto. «Oggi si è chiusa una storia - commenta Fabio Mussi - non avrei mai immaginato di arrivare a tanto, sono quarantadue anni che milito nella sinistra...». È commosso, il leader della sinistra Ds. «I partiti non sono dei tram, scendi da uno e ti siedi su un altro - spiega, mentre morde il solito toscano -. Se la sinistra, come dice Bersani, esiste in natura, allora deve anche essere rappresentata politicamente».
Imboccheranno una strada diversa da quella scelta da Fassino. Il «no» all’appello del leader della Quercia è nettissimo: Mussi, Salvi, Spini, Bandoli, Fumagalli - insieme al gruppo dirigente della mozione - non giocheranno a sinistra nella squadra del Partito democratico.

L’«ESTREMO APPELLO» inviato a chi ha vinto il Congresso è chiaro: «Fermatevi, prima di chiudere i Ds». Separazione, quindi. Se consensuale o meno lo chiariranno le settimane che mancano dalle assise di Firenze. «Non dobbiamo ripetere la rottura del 1989», auspica Marco Fumagalli, alludendo al Pci e alle fratture del dopo Bolognina. «Serve rispetto reciproco, tra due realtà della sinistra che seguono prospettive diverse e che non si considerano nemiche», fa eco Fulvia Bandoli. Ognuno per la propria strada, allora, quelli della «svolta» che partorì Pds e Ds? Così sembra, stando a ieri. I punti interrogativi, semmai, riguardano il come e il quando. La separazione non dovrebbe avvenire prima del Congresso di Firenze. Anche perché, in questi giorni, dirigenti e iscritti che hanno votato «a sinistra per il socialismo», hanno dato uno stop all’ipotesi accarezzata da esponenti del gruppo dirigente della mozione. Quell’abbandono anticipato, infatti, avrebbe dato ragione a chi bolla il «no» al Partito democratico come una «scissione dai Ds». La scelta di partecipare al congresso verrà ufficializzata, però, soltanto il 16 aprile prossimo, sempre che non si apra un clima da «caccia alle streghe che impedisca un confronto rispettoso delle posizioni di tutti».
Il 16 aprile, appunto, si incontreranno a Roma i delegati della sinistra eletti nei congressi locali. L’appuntamento, che precederà di pochi giorni le assise diessine di Firenze, non era in calendario. Ma costituirà, da ieri, il primo momento di una consultazione tra gli iscritti della sinistra. Per decidere come e quando aprire il cantiere «di un movimento autonomo della sinistra» e per tastare il polso alla «base». Con una campagna di assemblee che servirà a registrare - anche - l’entità delle adesioni ad un percorso che si dovrebbe divaricare da quello che porta al Partito democratico. «Un quarto degli iscritti ai Ds è decisamente contrario, o molto perplesso, rispetto alla formazione del Pd - afferma Mussi - Un quarto è molto, e noi immaginiamo che tra gli elettori vi sia una quota larga di contrari al Pd». Il dibattito sui modi e sui tempi della strategia da mettere in campo, però, è ancora aperto. «Così come chiediamo alla maggioranza Ds una pausa di riflessione, anche noi della sinistra dobbiamo prenderci un po’ di tempo in più. Perché la fretta è cattiva consigliera», avverte Vincenzo Vita.
Quando avviare il percorso costituente che guarda a sinistra, anche allo Sdi, a Rifondazione e al Pdci attraverso una prospettiva di scomposizioni e ricomposizioni? Già al Congresso di Firenze, come spiega qualcuno? «Se loro accelerano con il Pd noi, certo, non possiamo restare fermi», sottolinea Alfiero Grandi, passando il cerino acceso nelle mani di Fassino e facendo capire che in gioco c’è la partita sulle responsabilità ultime della scissione, che la sinistra Ds non intende assumersi. «Nel momento in cui si apre la costituente del Pd, annunciamo che formeremo un movimento politico organizzato autonomo», spiega Mussi. L’avvio concreto del processo di costruzione del Partito democratico, però, potrebbe coincidere con appuntamenti diversi, più o meno prossimi. E c’è chi immagina già una fase post-congressuale in cui continueranno a convivere da «separati in casa» maggioranza e minoranza Ds. Mussi ha escluso, in ogni caso, che la sua componente possa votare a Firenze i nuovi organismi dirigenti della Quercia. Gruppi parlamentari autonomi della minoranza, all’indomani del congresso di Firenze? «Anche questa scelta verrà discussa il 16 aprile», spiega Cesare Salvi. L’obiettivo, per il momento, è quello di una «separazione» che consenta alla sinistra di affrontare anche i nodi organizzativi: fondi, sedi, ecc. E, insieme a questi, il tema delle prossime elezioni amministrative. La sinistra Ds pensa a liste comuni con la maggioranza del partito. Si vedrà nelle prossime settimane,sempre che il clima sia quello auspicato da Bandoli: «prendiamo strade diverse, facendoci reciprocamente gli auguri di buon lavoro».

L’Unità 30.3.07
A Firenze, poi l’addio. Una corrente in mare aperto
«Bisogna farci capire dai nostri militanti». Tra preoccupazioni e sospiri di sollievo
di Eduardo Di Blasi


QUANDO, intorno alle cinque del pomeriggio, terminata l’Assemblea della mozione Mussi, parlamentari, dirigenti e delegati territoriali, escono dalla sala del Garante della Privacy di piazza Montecitorio, qualcuno è anche felice. L’onorevole Katia Zanotti sorride: «Finalmente navighiamo in mare aperto». Pasqualina Napoletano scherza con il collega di Liberazione: «Torniamo insieme?». Però, chiarisce da vicepresidente del gruppo socialista europeo, «nel Pse».
L’assemblea ha appena accolto, con un lungo applauso, l’appello alla maggioranza Ds in cui è contenuta anche la «prospettiva di fronte al partito democratico». Un appello scritto durante la notte precedente, e proposto a una variegata platea di coloro che appoggiano la mozione Mussi.
Il primo dato emerge subito: tra i partecipanti all’assise nessuno esprime la propria volontà a fare la «minoranza» nel Pd. Nessuno. Valdo Spini spiega questa posizione con il “memento mori”: «Nell’Antica Roma c’era uno schiavo che dopo i trionfi in guerra e i successivi festeggiamenti del suo padrone, gli batteva sulla spalla e gli diceva: “Ricordati che devi morire”. Tutti quelli che erano qui oggi hanno scelto di non fare la parte di quello schiavo dentro il Pd». D’altronde, spiegava pochi minuti prima in piazza Montecitorio Luciano Pettinari: «Non è che possiamo decidere da adesso le parti in commedia nel Pd: “Io faccio la maggioranza, e tu fai l’opposizione”». Il secondo dato, chiaro dalla notte prima, è che al Congresso di Firenze ci si va.
Sul resto si discute. E il resto sono i tempi e i modi per navigare «in mare aperto». Sul limite della porta sigillata della sala del Garante della privacy, i delegati territoriali e i parlamentari discutono con trasporto. Pare che anche Walter Veltroni abbia fatto un tentativo per evitare di arrivare al rompete le righe. Uno dei delegati toscani, nella sala, lancia l’allarme: «Facciamo attenzione perché quello che decidiamo oggi non è uguale a quello che c’è nella mozione. Dobbiamo avvisare i compagni che ci hanno votato, prepararli a questo passaggio».
Spiega Adriano Labbucci, presidente del Consiglio provinciale di Roma: «I tempi e i modi sono importanti: i due processi costitutivi del Pd e della costituente della sinistra devono viaggiare assieme. Quindi dopo il congresso si deciderà». La preoccupazione della Sinistra Ds, che poi sarà fatta propria dall’appello accolto con l’applauso, è quella di recuperare «tutti quelli che hanno votato la mozione». Spiega la senatrice Silvana Pisa: «I nostri iscritti sono diversi dagli altri: sono abituati alla sezione, alle feste dell’Unità, alla politica attiva. Dobbiamo recuperarli, ridestarli. E dobbiamo recuperare anche gli operai del nord che votano per la Lega, con un grande progetto di sinistra». La questione non è semplice. Spiega Spini: «Alcuni ci hanno votato perché speravano facessimo da contrappeso a chi voleva il Pd. Adesso queste scelte andranno spiegate e condivise». Anche per questo nessuno ha intenzione di procedere a strappi. Il percorso dovrà essere condiviso. Fino al 16 aprile, quando si riuniranno i delegati al Congresso nazionale, «terremo le orecchie tese a ciò che vorrà fare la maggioranza», afferma Spini. Dopo il congresso si procederà alla creazione dei gruppi separati alla Camera e al Senato. Certo, tra la fine del Congresso e l’avvio della fase costituente ci sono anche le elezioni amministrative. Spiega Fulvia Bandoli: «Andremo assieme. Noi non vogliamo responsabilità per una eventuale sconfitta. Ma anche la maggioranza non può permettersi errori».

L’Unità 30.3.07
L’arcipelago della sinistra
Di Nicola Tranfaglia


La sinistra vive in Italia (ma potremmo dire in Europa e nel mondo intero) una fase di crisi e di intensa trasformazione. Nel nostro Paese ha a che fare con una destra che si è divisa almeno in parte: una parte, ma la più piccola numericamente che accetta alcune regole di democrazia e che vuole ostinatamente rompere l’attuale alternanza e chiamarsi “centro” secondo la tradizione democristiana e una più grande che fa capo al leader carismatico Berlusconi e abbraccia un populismo poco democratico.
La condizione della destra non aiuta la sinistra e questo è uno dei problemi che rischia di esser rinviato ancora di qualche anno. Non sappiamo di quanto tempo.
Ma è all’interno della sinistra che le cose incominciano a muoversi in una maniera che incoraggia qualche speranza. La formazione ormai molto avanzata del partito democratico è di sicuro l’avvenimento più significativo degli ultimi mesi.
La mozione firmata dal segretario Fassino ha conseguito all’interno dei quadri e dei gruppi dirigenti dei Democratici di sinistra una vittoria più netta di quanto molti all’interno e all’esterno del partito si aspettavano. Intorno ai due terzi dei voti, oltre il settanta per cento, riservando il quindici per cento alla sinistra di Mussi e di Salvi e il dieci per cento alle obiezioni, interne alla maggioranza, di Angius e di Zani. Ormai dunque i Democratici di sinistra viaggiano speditamente verso l’incontro con la Margherita con l’affermazione degli ex Popolari che hanno mandato all’opposizione il presidente Rutelli, indicando una linea meno centrista di quella perseguita dal vicepresidente del Consiglio.
Nasce insomma un partito di centro-sinistra che lascia scoperto il lato più di sinistra che, tradizionalmente, era stato fino a qualche anno fa proprio dai principali eredi del Pci, non solo Rifondazione comunista ma in parte il Pds dei primi anni novanta.
Gli elettori dei due partiti che formano il Partito Democratico sembrano essere in maggioranza collocati in una posizione più a sinistra della nuova forza politica: del resto a leggere i documenti e i discorsi della fase costituente si può constatare la corsa al centro da parte di Fassino e di Rutelli sia nel rapporto con la Chiesa di Benedetto XVI sia in materia economica,sociale e culturale.
Ad ogni modo, e a prescindere dal giudizio complessivo che si dà dell’operazione, non c’è dubbio sul fatto oggettivo di uno spazio a sinistra che resta disponibile per le altre forze che tuttavia sono assai frammentate. L’interrogativo maggiore riguarda il destino della sinistra diessina che in un primo tempo si prepara a formare un gruppo parlamentare autonomo sia alla Camera che al Senato: si tratta di ventisei deputati e dieci senatori che costituiranno la terza forza dell’arcipelago di centro sinistra, dopo il partito Democratico e Rifondazione comunista.
Restano per ora divise Rifondazione comunista, i Comunisti italiani e i Verdi anche se è finalmente balzata in primo piano l’esigenza di un raccordo verso processi di federazione o di unificazione proposte già da alcuni anni dal Pdci e che ora sembrano accettate anche da Bertinotti. Quest’ultimo ha parlato per la prima volta dell’esigenza di una “massa critica” da opporre all’esistenza di un partito più centrista come quello Democratico e di una destra in crisi ma comunque per la maggior parte raccolta intorno a Berlusconi.
È difficile prevedere se il processo andrà avanti rapidamente o se invece seguirà ritmi lenti e contorti. Gli elettori sono di sicuro in maggioranza favorevoli alla prima ipotesi ma non è detto che lo siano i gruppi dirigenti che negli ultimi anni hanno di frequente duellati opponendo al tema dell’unità quello della propria peculiare identità.
La stagione dei congressi che in primavera prevede più di un appuntamento ci dirà qualcosa ma non c’è dubbio sul fatto che i problemi di una nuova forza elettorale e quelli di una maggioranza parlamentare sempre sul filo, spingono le forze attualmente in gioco a uno sforzo eccezionale verso l’unità. Se si mettessero insieme i Verdi, la sinistra Ds, i Comunisti italiani e Rifondazione potrebbe nascere una forza di oltre il dieci per cento in grado di apportare al centro-sinistra un contributo assai più importante dell’attuale e di influire in maniera maggiore di quanto avvenga oggi sull’indirizzo e la direzione dell’alleanza. All’interno di Rifondazione esiste ormai una minoranza che non accetta la scelta governativa del gruppo dirigente e contesta, come si è visto non solo a Roma ma anche nei territori, l’atteggiamento tenuto in questi mesi sull’Afghanistan e sulla politica economica e sociale. Assisteremo a una ennesima scissione anche all’interno del partito di Bertinotti? Non si può escludere sia perché potrebbe includere scissionisti che hanno già lasciato quel partito sia pezzi rilevanti del sindacato Cgil che non condividono l'attuale indirizzo del gruppo dirigente nazionale.
In una conclusione che resta provvisoria siamo vicini a una svolta che probabilmente sarà influenzata dall’esito delle discussioni sulla nuova legge elettorale e che avrà efficacia se sarà in grado di elaborare una piattaforma programmatica chiara.
Una politica estera nella direzione già indicata dal governo Prodi ma una politica culturale, economica e sociale più avanzata di quella svolta finora, più nettamente preoccupata dei lavoratori,dei giovani e degli anziani, più aperta, nel senso di una democrazia moderna, alle libertà dei cittadini, dall’informazione ai nuovi saperi.
I tempi per una simile svolta sono maturi. Chi si opporrà alla formazione di una sinistra più unita porterà su di sé pesanti responsabilità in un Paese diviso come è ancora l’Italia.

Repubblica 30.3.07
A volte ritornano
Di Maria Novella Oppo


VESPA è tornato sul luogo del delitto con la solita compagnia di giro, appena un po’ cambiata. Non avrebbe dovuto esserci l’avvocato Taormina, ma c’era. E c’era anche (ma perché ?) Maurizio Belpietro, animato dal solito odio contro i magistrati, che osano cercare giustizia per il piccolo Samuele. Un bambino di tre anni, trucidato nella maniera più atroce e poi cancellato, perché tutte le telecamere fossero per lei, Annamaria Franzoni, illuminata, intervistata, replicata nei mille momenti di una esposizione mediatica senza precedenti. Vespa non ha nemmeno accennato alle critiche del procuratore nei confronti del processo televisivo. Anzi, ha concesso un’altra occasione a una tesi difensiva catastrofica, che è solo una tesi accusatoria nei confronti dei giudici, del Ris e del paesino di Cogne, che sarebbe abitato da un mostro in libertà. Un mostro di cui Taormina per 31 volte ha detto di conoscere il nome. Ma non lo ha rivelato, uscendo dal processo, vinto in tv, giusto in tempo per non perdere quello in tribunale.

Repubblica 30.3.07
Il presidente della Camera avverte Prodi e alleati: il problema del centrosinistra non è Casini
"L’Unione pensa troppo all'Udc ma la nostra sfida è il welfare"
Bertinotti: "Sulle pensioni non reggeremmo lo sciopero"
Socialista? io sono comunista Serve una riorganizzazione del campo della sinistra. Nuovo partito socialista? Sono comunista
I centristi non vogliono nulla I centristi non trattano e non chiedono nulla, il loro unico interesse è la legge elettorale
Di Umberto Rosso


CARRARA - «Ma ad uno come Casini, che sta costruendo un´identità e un progetto centrista, chi glielo fa fare di ammiccare al governo dell´Unione?». Parla il presidente della Camera, e scaccia via il fantasma di una nuova maggioranza. «Al leader dell´Udc non conviene legarsi le mani. Ha in testa solo la riforma elettorale. Le maggioranze variabili perciò non esistono. Il problema non è Casini. Per il centrosinistra il problema vero è un altro».
Fausto Bertinotti, sull´aereo che lo porta alla conferenza di organizzazione di Rifondazione, il primo grande appuntamento di partito che vive da presidente della Camera, sgombra il terreno da sospetti e manovre e spiega con che cosa veramente Prodi ha da fare i conti. «Il nodo da sciogliere per il governo è sempre lo stesso, esattamente uguale a quello del primo giorno di vita. Il problema è il rapporto con il paese, la capacità di far intrapresa politica, di dare risposte sul terreno sociale. Su tutto, dai Dico alle pensioni. La mediazione fra i partiti alla fine, come si è visto, la trovi. Ma se ti becchi uno sciopero generale sulle pensioni, si balla davvero». Messaggio ai navigatori, perciò. Meno Casini e più sociale per svoltare, che tanto non ci sono operazioni possibili di ingegneria politica al centro. Mentre, invece, si rischia di lasciare scoperto proprio il fronte che ha votato Unione aspettando riforme e novità. Ed è anche per questo che Fausto Bertinotti ha deciso che è arrivato il momento di accelerare sulla Sinistra Europea, aprendo a Mussi che ha appena lanciato il suo ultimatum al partito democratico ma nel «cantiere» che l´ex segretario ha in mente non c´è una Rifondazione allargata ma una «sfida unitaria» con Fassino, con singoli temi sui quali si può convergere. «Penso - dice - alla costruzione della Sinistra europea, in una riorganizzazione più complessiva del campo della sinistra. Un nuovo partito socialista? Io sono comunista, e poi alla mia età. «.
E una conferma il presidente la trova nel dossier che sta giusto sfogliando, insieme ai suoi collaboratori, sorvolando il Tirreno. Parla delle cose di casa sua, è una inchiesta dall´interno sul Prc, attese, aspirazioni ma anche mal di pancia di militanti e dirigenti. In un grafico c´è la summa degli umori del popolo di Bertinotti. Domanda agli intervistati: quali sono gli effetti della partecipazione di Rifondazione al governo? La reazione sembrerebbe sorprendente. «Il 42 per cento neanche risponde al quesito. Vuol dire che la nostra presenza a Palazzo Chigi viene considerata come una sorta di passaggio obbligato ma non come l´elemento più importante.
In cima alle attese c´è altro: il lavoro, l´ambiente, la cultura, sono questi tre punti che fanno il pieno, le domande forti». L´ex segretario non si meraviglia affatto. Anzi. E´ una conferma. «Ci ho fatto un congresso sopra, l´ultimo, quello di Venezia. Per dire che il governo non è la nostra bussola. E se cade per i militanti non sarà un dramma». La rotta, oggi come allora, continuano a indicarla i movimenti. Pure quei cinquanta che l´hanno contestato alla Sapienza di Roma? «Schegge, davvero piccole. Però bisogna sempre capire le ragioni che stanno dietro alle proteste». Piccola smorfia di fastidio, si capisce che non ha molta voglia di parlarne ancora. Torniamo al Palazzo, allora. Ai fantasmi di nuove maggioranze che turbano il sonno di molti uomini di Rifondazione e della sinistra radicale.
Non quelli di Bertinotti però, a quanto pare. «Casini non tratta e non chiede nulla al centrosinistra. Se vuoi fare il Bayrou devi essere iperrealista. Il suo unico interesse, come del resto ha lui stesso dichiarato apertamente: la legge elettorale, facendo saltare il referendum. Chi ci vede altri disegni, prende lucciole per lanterne. Ecco perché non mi preoccupa affatto il presunto pericolo di maggioranze variabili, né tantomeno siamo ad una sorta di appoggio esterno non dichiarato dell´Udc». Il capo dell´Udc si smarca da Berlusconi. «Maroni invece, pur avendo lo stesso identico obiettivo della legge elettorale, al leader della Cdl resta attaccato. Tattica. La Lega ormai va per conto proprio su tutto, però controlla da vicino Berlusconi perché non si fida: teme che voglia il referendum». E i numeri sul filo del rasoio, presidente, il rischio di qualche appoggio «sostitutivo» che aprirebbe venti di crisi? «Il vero problema non sono i numeri che, come si è visto anche nell´ultima tornata sull´Afghanistan, alla fine si recuperano sempre. Tutti temevano che il terreno della politica estera sarebbe stato esiziale per la vita del governo e invece, come del resto io ho sempre sostenuto, proprio lì il centrosinistra si è ricompattato». Non sono «le alchimie», le ipotesi di ingegneria politica «che peraltro a furia di parlarne allontanano sempre più i cittadini», per il presidente della Camera la chiave della stabilità. «All´interno della maggioranza la mediazione alla fine si trova sempre. E´ fuori dai giochi fra i partiti, nel rapporto con il paese, il luogo vero nel quale ricercare la soluzione dei problemi».

Correnti, verticismo, quote rosa terapia d'urto per Rifondazione
gli stati generali

CARRARA - Una "terapia d´urto" per Rifondazione comunista. E´ quel che ha chiesto, aprendo i lavori della conferenza di organizzazione del partito, Francesco Ferrara, responsabile organizzativo del partito. Ferrara ha elencato una lunga lista di mali da superare: «Burocratismo, autoreferenzialità, verticismo, correntismo esasperato, separatezza istituzionale». Tra gli obiettivi indicati nella relazione c´è anche quello di rispettare le quote rosa (60 posti agli uomini, 40 alle donne) negli organismi dirigenti: quando ciò non avverrà gli organismi saranno sciolti. Prevista l´incompatibilità fra incarichi di partito e incarichi amministrativi e il "tetto" di due mandati nelle assemblee elettive.

giovedì 29 marzo 2007

l’Unità 29.3.07
«Quarantamila diessini vogliono il socialismo europeo»
Oggi assemblea della mozione Mussi. Deciderà la strategia per il congresso nazionale di Firenze
di Eduardo Di Blasi


Al Congresso di Firenze andranno per dare battaglia, per dare voce alla propria contrarietà al progetto del partito Democratico. Dopo aver raccolto il 15% dei consensi nei congressi di sezione, gli esponenti della mozione Mussi («A sinistra per il socialismo europeo»), si riuniranno oggi in assemblea nazionale presso la sala del Garante della Privacy di piazza Montecitorio per decidere le prossime mosse in vista dell’assise di Firenze. Non vogliono sentir parlare della parola «scissione», e rispondono al segretario dei Ds Piero Fassino che ieri, dalle colonne de l’Unità, lanciava un appello a marciare uniti. Gli chiederanno di «fermare in tempo la locomotiva del partito democratico».

«IL PROBLEMA non è se andiamo o non andiamo al Congresso di Firenze. Il problema è che anche l’apertura fatta ieri su l’Unità da Fassino, alla fine non modifica di una virgola la posizione del segretario sul partito Democratico. Quindi, adesso, la scelta che ci troviamo davanti appare chiara: o si abbandona la posizione che abbiamo assunto fin qui o si va avanti». Il senatore Cesare Salvi non vuole sbilanciarsi sul contenuto della discussione che oggi interesserà il gruppo dirigente della mozione «A Sinistra per il Socialismo Europeo» di Fabio Mussi. Dalle nove e mezza della mattina alle quattro del pomeriggio, in una assemblea a porte chiuse, i componenti del Consiglio nazionale e del Consiglio nazionale dei garanti, i parlamentari italiani ed europei, i coordinatori regionali e provinciali e i dirigenti sindacali vicini alla mozione, si ritroveranno nella sala conferenze, presso la sede del Garante per la Privacy di piazza Montecitorio. «I congressi di sezione ci hanno detto che oltre 40mila compagni credono nel socialismo europeo - spiega il deputato Valdo Spini, tra i firmatari della mozione - Ci rivolgeremo alla maggioranza per chiedere di ragionare sui punti ancora controversi, come i tempi della discussione e l’approdo internazionale. Ma proporremo anche un disegno politico. Bisogna comprendere che sono in moto anche fatti esterni, e che una convergenza di tutta la sinistra italiana è un fatto possibile». Spini ha apprezzato, nei giorni scorsi, la posizione assunta dal segretario dello Sdi Enrico Boselli («Ha chiarito che il rilancio socialista non si può limitare a pezzi della diaspora dell’ex Psi e dell’ex Psdi»), ma non è solo da quella parte che sembra guardare l’ala sinistra dei Ds. L’orizzonte verso il quale navigano i firmatari della mozione Mussi non sembra finire prima del Congresso nazionale (al quale i delegati del «nuovo correntone» saranno presenti), ma quello che accadrà dopo, o durante l’assise di Firenze. Marco Fumagalli approva il distinguo di Cesare Salvi: «La discussione è posta in quei termini. Anche se io sposterei l’asse: non dobbiamo pensare a cosa sia utile che facciamo per noi, ma cosa sia utile che facciamo per l’Italia. Il tema è proprio in questi termini: i Ds scompariranno. Cosa è utile che noi facciamo?».
La domanda non sembra di facile soluzione. Anche perchè, stando a quanto afferma la combattiva deputata vicentina Lalla Trupia («Noi chiediamo a Fassino di tirare il freno. Per quello che mi riguarda il Pd, così come sta nascendo, non è un partito nuovo ma l’ultimo di quelli vecchi»), l’opzione che basti rallentare per raddrizzare la rotta non appare la più semplice da portare avanti. Fulvia Bandoli rimanda al mittente la proposta di Fassino: «Gli appelli pressanti di Fassino a Mussi e alla sinistra Ds ad entrare nel Pd denotano un rispetto ancora modesto delle opinioni diverse e finiscono per farci passare come “coloro che non vorrebbero l’unita”. In effetti la realtà è diversa e l’unità in questo caso non c’entra nulla: dopo il congresso inizia la fase costituente del Pd e mano a mano i Ds si scioglieranno come la Margherita in un nuovo partito, dunque siamo tutti in uscita dai Ds». Massimo Villone rincara: «Mi sento come uno che sta a casa sua e che viene cacciato dalla forza pubblica per ordine del padrone di casa...». Abdon Alinovi analizza: «Il rovesciamento della linea di Pesaro, cioè il rafforzamento dei Ds come forza aggregante della sinistra, dell’Ulivo e dell’Unione non è stato compiuto dalla sinistra. Sarebbe assurdo condividere ora la responsabilità dello scioglimento Ds e di uno sbocco che toglie autonomia e potenzialità alle sinistre ed alle stesse forze cattoliche-democratiche. Coltivo ancora la speranza che si mediti, al di fuori del trionfalismo sostenuto dall’aritmetica, al turbamento che esiste nella coscienza profonda del partito e dell’elettorato». Una riunione alla Camera, ieri sera, ha messo a punto il documento da presentare oggi in assemblea. A Firenze per dare battaglia.

l’Unità 29.3.07
Angius chiede un referendum sull’adesione al Pse
«Il 9% per una corrente che due mesi fa non esisteva neppure è un grande risultato»


GAVINO ANGIUS è soddisfatto. «Raccogliere 23mila voti con una mozione che non è una corrente, e che fino a due mesi fa non esisteva come aggregato umano è stato un fatto straordinario». Adesso, però, chiusi i congressi di sezione e «pesate» le rispettive idee, è il momento di ritornare a discutere. Così, al terzo piano di Palazzo Madama, il vicepresidente del Senato ribadisce le linee guida della propria mozione «Per un partito nuovo, democratico e socialista» (un partito democratico e socialista, di sinistra, parte integrante del Pse, e, soprattutto, «laico») e segna la differenza tra il «suo» partito Democratico e quello disegnato dalla mozione del segretario Piero Fassino. «Non diciamo la stessa cosa, e la maggioranza non può dire che l’85% del partito è favorevole al Partito Democratico, sommando i suoi voti con i nostri. Altrimenti - scherza - anche io posso dire di aver vinto il Congresso con l’85% dei consensi». Tornando sulla questione politica Angius lancia, assieme alla neonata componente, tre proposte alla maggioranza del partito. Una fase costituente che non si concluda «prima della fine del 2008», un’ulteriore verifica congressuale al termine di questa («dovremo verificare gli esiti politici e lo scioglimento del nostro partito»), l’adesione al Pse. Sul tema Angius lancia una doppia proposta: i Ds dovranno chiedere ai partner politici, durante la fase costituente, l’adesione formale al Pse. Nel caso i «partner politici» rispondessero di «no», propone l’idea di un «referendum» tra gli iscritti di tutti i soggetti del patto costituente. Certo, annota, in una pagina intera di intervista all’Unità, «il segretario del partito è riuscito a non citarci neanche una volta, anche quando ha aperto alla minoranza» (il segretario Ds, in una intervista rilasciata ieri sera al Tg1 ha aperto anche alla componente Angius-Zani: «Vogliamo realizzare il Pd con tutta la ricchezza del nostro partito e quindi io dico sia alla mozione Angius che alla mozione Mussi e a chi le ha sostenute: state dentro il nostro partito, state con noi, siate parte della costruzione di questo progetto»). Ma Angius avverte: «Il manifesto dei saggi sul partito democratico è inaccettabile, un ostacolo insormontabile. Cacciari lo trovò orripilante». Avvisa: «Preoccupa la lotta di potere interna alla Margherita rispetto alla grandiosità dell’obiettivo». Spera «in un congresso che non sia una kermesse o una messa cantata». Ritiene che se il Pd si caratterizzerà come una «forza di centro, chi a sinistra proporrà nuove iniziative troverà vasti spazi». Non guarda verso il progetto del Prc. Non dispiace il progetto socialista di Boselli. Per adesso, però la prospettiva resta quella del Pd, democratico, laico e socialista.
e.d.b.

Corriere della Sera 29.3.07
Klee - Kandinsky, un’arte per due
di Arturo Carlo Quintavalle


Coniugarono spiritualità e astrazione fondando la modernità

Due importanti mostre, «Kandinsky e l'astrattismo in Italia 1930-1950» a Palazzo Reale, curata da Luciano Caramel e «Paul Klee teatro magico» alla Fondazione Mazzotta, sono una occasione eccezionale che Milano offre per comprendere le matrici dell'arte moderna, ben al di là dell'esplicito racconto di Pablo Picasso.
Se le radici della astrazione, e non solo di quella in Italia, sono nella pittura di Wassily Kandinsky, quali sono le discendenze, chi sono i creati di Paul Klee? C'è un dialogo fra Klee e Wols, fra Klee e molti fra i protagonisti dell'Informale, fra i pittori dell'Action Painting e in genere con gli artisti che operano sulle «scritture»?
Le vicende di Kandinsky e di Klee sono diverse ma le loro storie si intrecciano nel secondo decennio e poi nel periodo della Bauhaus, negli anni Venti. Li accomuna lo studio nell'atelier Von Stuck a Monaco, ma il momento nodale del loro incontro coincide con la pubblicazione de Lo spirituale nell'arte di Kandinsky e poi con la collaborazione dello stesso Klee all'Almanacco del Cavaliere Azzurro (1912) curato dal russo insieme a Marc. Nel saggio sullo Spirituale, l'idea che arte sia espressione di un sentire globale che attraversa le forme e i colori, e li trasforma, suggerisce un dialogo dell'opera dipinta nella direzione della poesia espressionista fino a Trakl e del racconto letterario da Hoffmann in avanti, e propone le idee che erano di Wörringer nel volume Astrazione e empatia (1908), dove il peso delle forme determinerebbe le emozioni in chi guarda. La posizione di Kandinsky si trasforma; dopo il periodo di Murnau attorno al 1908-1910, progressivamente l'artista sceglie di abbandonare la figurazione per l'astrazione: niente più titoli descrittivi, niente più immagini definite, ma la scomposizione progressiva delle forme fino al dialogo del dipinto con la creazione musicale da cui si assumono coloriture, temi, ritmi.
Klee, d'altro canto, sceglie una strada diversa: dopo qualche tangenza con le ricerche cubista e futurista fra 1911 e 1912, e dopo il dialogo a Parigi con Robert Delaunay che gli farà scoprire il colore (che poi l'artista mitizzerà come scoperto nel viaggio in Tunisia del 1914), eccolo concepire la funzione del pittore come alchimista, dunque interprete del mondo. Per lui, quindi, la pittura è un microcosmo, sia essa orto botanico, giardino, città, e questo durerà per tutti gli anni Venti. Kandinsky e Klee collaborano alla Bauhaus e il russo sente il peso della ricerca di Klee: lo provano ad esempio alcune opere esposte a Palazzo Reale come Discreto 1, Falce, Moto scuro, tutte del 1926.
Ma nella seconda parte del decennio Kandinsky si avvia per strade diverse, quelle che teorizza in Punto Linea Superficie (1926) e da questa ricerca deriva appunto la idea di pittura astratta che si diffonde in Italia e in Europa nei tardi anni Venti e nei Trenta, arte come costruzione misurata, arte come racconto estraniato, assoluto.
Diversa la storia di Klee: per lui a partire dagli anni Trenta e fino alla morte, nel 1940, si apre una via nuova, che intende la pittura come scrittura che attraversa le tecniche più disparate con cui si trasforma, quasi alchemicamente, la materia. Per Klee il disegno è traccia quasi spermatica della ricerca, evocazione delle origini che attinge a modelli psicoanalitici. Klee era partito da una ricostruzione in chiave freudiana della propria infanzia nei Diari ma, nel corso del secondo decennio, la sua lettura del mondo assume valenze diverse, junghiane, che gli fanno scoprire il mondo come sistema di segni simbolici, di scritture possibili. Quando Wols riscopre la ricerca di Klee comprende il valore di quei nuclei, di quei grovigli di segni che diventano in lui emozioni, e muovono sempre da Paul Klee molti altri, da Jackson Pollock a Mark Tobey, per non parlare degli altri protagonisti della Action Painting fino a Rothko. L'idea dunque che dipingere sia prima di ogni altra cosa scrittura, magari tenendo conto di ritmi diversi, per Klee quelli di Mozart oppure di Bach, per Pollock i suoni delle culture centroamericane, per Tobey recupero delle grafie e dei ritmi estremo-orientali, va davvero alle radici dell'arte moderna e distingue in essa due grandi strade, quella del mondo come ragione e nello stesso tempo tensione verso l'assoluto che caratterizza la complessa, importante storia della astrazione, e quella dell'arte come dialogo con la materia, dell'arte in cui si condensano eventi simbolici dove ogni forma diventa un segno.
Per Picasso dipingere non era cercare, ma trovare; per Kandinsky era proporre un ordine nel dilatato espandersi del suono dipinto; per Klee dipingere era avvicinarsi, senza mai raggiungerlo, al centro della creazione, come a dire a quell'inconscio delle culture che Jung scopriva in Simboli di trasformazione (1912). Queste, credo, fino ai concettuali da un lato e ai graffitisti dall'altro, ancora oggi, sono le due strade dell'arte moderna.

saluteuropa.it 29.3.07
Cresce la bulimia tra le giovanissime e l'anoressia colpisce sempre più le "over 40"


Sono soprattutto donne, circa il 90% dei casi. E di ogni ceto sociale, a differenza di un tempo quando anoressia e bulimia riguardavano la fascia medio alta della popolazione. Diversa poi la localizzazione. L'anoressia è presente ovunque, nelle metropoli come nei piccoli paesi. Mentre la bulimia è più diffusa nelle grandi città. Inaspettata anche l'incidenza. Tra le giovani è prepotente la presenza della bulimia: nella fascia d'età tra i 12 e i 25 anni ne soffrono l'1% delle donne, contro lo 0,5% di chi ha un problema di anoressia. Nelle ultraquarantenni, invece, pressoché inesistente la bulimia: chi è in conflitto con il cibo, è anoressica. Devono far riflettere questi dati perché per la prima volta mostrano un identikit vero di chi soffre di mal di cibo. Se ne è parlato oggi nel corso dei lavori del 19° Congresso Nazionale dell'Andid, l'Associazione Nazionale dei Dietisti, in corso a Roma all'Aurelia Congress Center.

"Dati certi sulle over 40 non ce ne sono ancora dal momento che si tratta di una situazione recente - ha spiegato la dr.ssa Giovanna Cecchetto, Presidente Andid - ma notiamo un aumento di richieste di aiuto proprio in questa fascia di età e in alcuni casi persino dopo i 55-60 anni". È la punta estrema di un iceberg in continua espansione. Una vera e propria epidemia, come sono state definite l'anoressia e la bulimia. Perché riguarda adolescenti che non vogliono diventare "grandi". Ma anche donne che non sopportano l'arrivo della menopausa, vissuta come inizio della vecchiaia.

"In particolare per quanto riguarda le ultraquarantenni - ha continuato la Cecchetto - il cattivo rapporto con il cibo e il corpo ha di solito origini remote. Se infatti si ricostruisce il periodo dell'adolescenza della donna, si scopre che spesso aveva già avuto dei momenti se non di anoressia vera e propria, comunque di disequilibrio per quanto riguarda il comportamento alimentare".

Il conflitto con il cibo, dunque, è spesso alimentato dall'adesione a diete troppo severe. "Diete che - ha aggiunto - creano una vera e propria "dipendenza" dal grammo e portano a demonizzare proprio i cibi più appetibili e graditi (dolci, snack salati, bibite, ecc.) anziché fornire abilità di gestione e capacità di controllo sulle occasioni pericolose (ristorante, occasioni conviviali, ecc…). Diete che, essendo troppo restrittive e povere di calorie, affamano l'organismo e aumentano il desiderio dei cibi "proibiti", favorendo comportamenti variabili tra la restrizione e la perdita di controllo e di conseguenza, oscillazioni continue di peso, senso di insoddisfazione e scarsa stima di sé".

"Qualunque sia l'età d'esordio - ha spiegato il prof. Massimo Cuzzolaro, dipartimento fisiologia medica, Università degli studi La Sapienza di Roma - l'anoressia e la bulimia sono legate a una profonda sofferenza interiore. È difficile però che gli altri se ne rendano conto, tranne quando iniziano a manifestarsi i sintomi "visibili" della malattia.

Più eclatanti, quella dell'anoressia: magrezza eccessiva con un peso inferiore all'85% di quello ideale, pelle disidratata e con un colorito tendente al giallo, occhi cerchiati e arrossati, capelli opachi. Meno facili da individuare, quelli della bulimia, perché difficilmente si verificano oscillazioni significative di peso. Al contrario dell'anoressia, infatti, il segnale che fa riconoscere la bulimia è il desiderio irrefrenabile di mangiare. Le abbuffate sono delle vere e proprie crisi incontrollabili. Che, a seconda dei casi, possono avvenire tutti i giorni e anche più volte nell'arco della stessa giornata, oppure anche solo un paio di volte alla settimana, sia di giorno che di notte, alternate a giorni di digiuno con l'idea di bilanciare in questo modo ciò che si è ingerito. Si innesca così una spirale senza fine: le abbuffate danno piacere perché vengono vissute come una trasgressione, ma scatenano vergogna, stato di disgusto per se stesse, paura di ingrassare ed enormi sensi di colpa, che a loro volta portano a nuove crisi".

La cura consiste per ambedue le forme da una parte nel far affiorare il problema che ha scatenato la sofferenza e risolverlo. E dall'altra nella rieducazione a un'alimentazione equilibrata, rompendo la schiavitù della malattia e gli schemi che si auto-impongono i pazienti. "Un aspetto fondamentale della malattia - ha sottolineato la Cecchetto - sono i pensieri disfunzionali. In sostanza, sono pensieri di controllo del cibo e di manipolazione del corpo che vanno contro le naturali funzioni dell'organismo. Hanno un importante ruolo sia nella manifestazione, sia nel mantenimento della malattia. Affrontarli e riuscire a "scardinarli" con professionisti competenti e preparati come il dietista, lo psichiatra, e lo psicologo può risultare decisivo ai fini del trattamento".

Ma a che cosa stare attenti? Ci sono dei segnali caratteristici di tutte e due le forme. Presenti sempre, a qualsiasi età. "Il più comune - ha spiegato il prof. Cuzzolaro - è relativo all'esercizio fisico che viene praticato in modo esagerato. In pratica, non ha niente a che vedere con l'abituale attività che viene effettuata normalmente due, tre volte alla settimana. Agli esercizi invece si dedica del tempo tutti i giorni in modo maniacale, con crisi di astinenza se non si riesce ad andare un giorno in palestra".

Altrettanto diffuso è il vomito. "Chi soffre di anoressia - ha continuato - lo fa quando non riesce ad evitare di sedersi a tavola e a mangiare. Chi invece ha un problema di bulimia si induce il vomito dopo le abbuffate, per eliminare il troppo cibo ingerito".

Anche l'uso di farmaci è una caratteristica che riguarda ambedue i disturbi. C'è infatti un ricorso piuttosto elevato a lassativi e diuretici. "Nel caso dell'anoressia - ha spiegato - servono per accelerare la perdita di peso. Per quanto riguarda la bulimia invece, è il rimedio utilizzato per eliminare ciò che è stato ingerito con le abbuffate. Oltre ai farmaci, vengono anche utilizzati rimedi naturali con lo stesso scopo, come crusca, tisane, fibre".

In più, si modifica l'abbigliamento. C'è la tendenza a preferire abiti informi, larghi e di colori scuri, per nascondere il proprio corpo. Infine, ultimo ma non meno importante, c'è la tendenza a isolarsi, a ridurre al minimo i contatti sociali e a vedere raramente persino gli amici più cari.

Affari Italiani 29.3.07
Anoressia/ Sempre più precoce l'ossessione per la magrezza: inizia a 12 anni


Ragazzi - Il campione è costituito dagli allievi delle scuole superiori di Civitavecchia: Istituto professionale di Stato industria e artigianato (I.p.s.i.a.) “Luigi Calamatta”, Istituto onnicomprensivo: Istituto d’Arte, Alberghiero, Professionale Contabile-Turistico (I.i.s.) “Via Adige”, Liceo Psico-pedagogico “P. Alberto Guglielmotti”, Liceo Scientifico “Galileo Galilei”. I questionari presi in considerazione, in quanto compilati correttamente sono 530 (196 maschi, 334 femmine) suddivisi in tre diverse fasce d’età 15 anni (86 maschi, 132 femmine), 16 anni (68 maschi, 131 femmine) e 17 anni (42 maschi, 113 femmine). Sono stati esclusi quelli dei ragazzi di 14 e 18 anni in quanto non presenti in tutte le scuole. Dall’Edi sc (Symptom checklist) compilato dalle ragazze emerge, anche a conferma di quanto evidenziato dai dati precedenti, che moltissime di loro si limitano nell’assunzione di cibo perché preoccupate per la forma o il peso del corpo; iniziano a sottoporsi a queste limitazioni già in giovanissima età (media 12 anni).

Gran parte di loro, pratica attività fisiche tre volte a settimana, sia come forma di controllo del peso corporeo che per divertimento. Sono moltissime quelle che non praticano nessuna attività sportiva. Per quanto riguarda la “abbuffate” le ragazze affermano di aver avuto e di avere, con una frequenza almeno settimanale, episodi angosciosi di non controllo della quantità di cibo ingerito, in cui sentono di non potersi fermare, o di provarne piacere, ma non riescono a individuarne con precisione l’età d’inizio. Pur comparendo come pratica di “compenso”, non risulta frequentissimo il ricorso al vomito autoindotto mentre sono usati con una certa frequenza lassativi, pillole dimagranti, diuretici, integratori. Molte, alla domanda: “Che tipo di pillole dimagranti prendi?”, hanno risposto: barrette, preparati da sciogliere in acqua sostitutivi del pasto.

Molte ragazze hanno avuto difficoltà a rispondere alla domanda relativa l’anamnesi mestruale, tante sono le risposte non date, mostrando poca attenzione, interesse e conoscenza per un aspetto così importante di sé.

I dati emersi dall’Edi Sc (Symptom checklist), evidenziano delle differenze comportamentali dei ragazzi: alcuni dichiarano di limitare l’assunzione di cibo per preoccupazioni legate alla forma o al peso del corpo, moltissimi praticano esercizio fisico con assiduità, ma sono pochi quelli che lo fanno per controllare il peso, riguardo le “abbuffate”, i ragazzi sembrano averne con più frequenza rispetto alle ragazze, (anche 2/3 alla settimana) non accompagnate tuttavia da sensazioni di perdita di controllo o di angoscia, compare pochissimo l’induzione al vomito, il ricorso a lassativi e diuretici come pratiche di compensazione, mentre compare l’uso di pillole dimagranti.

Un dato che è interessante sottolineare è quello relativo la domanda:”Prendi abitualmente farmaci prescritti dal medico?”, a cui i ragazzi hanno risposto indicando come farmaco gli integratori.

Bdc/Adnkronos Salute 29.3.07
ANORESSIA: LO PSICHIATRA, VALUTARE RICORSO A RICOVERO OBBLIGATORIO


Roma, 29 mar. (Adnkronos Salute) - "In Italia è necessario riaccendere il dibattito sul ricovero obbligatorio per i casi gravi di anoressia. Non solo per prevenire la morte del paziente, ma anche per evitare le complicanze tipiche di questa malattia, fra cui ad esempio l'osteoporosi, molte delle quali sono irreversibili". Lo ha affermato lo psichiatra Massimo Cuzzolaro, del Dipartimento di Fisiologia medica dell'università 'La Sapienza' di Roma, durante un incontro stampa organizzato oggi nella Capitale in occasione del 19esimo Congresso nazionale dell'Associazione nazionale dietisti (Andid). (... )

LatinaOggi 29.3.07
La ricerca sulle immagini
Il maestro del cinema Bellocchio spiega agli studenti del Liceo Classico
di Licia Pastore


BELLOCCHIO, artista al di là e al di sopra delle etichette». E lo ha dimostrato davvero Marco Bellocchio sottoponendosi generosamente al fuoco incrociato delle numerosissime domande degli studenti del Classico «Alighieri». L’occasione è arrivata grazie all’iniziativa promossa dal preside Giorgio Maulucci, che ha proposto una rassegna partita il 26 marzo e conclusa ieri con il dibattito incontro. Quattro proiezioni che hanno ricostruito una parte del percorso artistico del maestro delle immagini Marco Bellocchio. Si tratta di «I pugni in tasca», di «Addio al passato», «Sorelle» e «Buongiorno notte». Una scelta che ha visto il Liceo «Alighieri» promotore di altre iniziative dedicate a Bellocchio, tornato tra gli studenti del Classico per la terza volta in pochi anni. Ed è stato proprio con «Buongiorno notte» che si è aperto il confronto con il regista piacentino. «Non è un film a tesi (il delitto del caso Moro). E’uno dei film più problematici e centrati di Bellocchio, un film per certi aspetti brechtiano, in cui prevale il controluce che obbliga il pubblico ad interrogarsi, a pensare». Il preside Maulucci ha presentato i lavori di Bellocchio sottolineando diversi aspetti con precisione certosina. «Guardando al percorso sia artistico che esistenziale del registra - ha detto il preside - compreso il periodo della collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli, al quale risalgono i film più apertamente psicanalitici, Diavolo in Corpo del 1986 e il Sogno della Farfalla del 1994, oggi ci rendiamo conto che egli non ha rinnegato affatto il suo passato di ‘arrabbiato’. Si è semplicemente, sapientemente evoluto, approdando ad una maturità d’artista e di cineasta indiscussa e unanimamente riconosciuta. Per tale motivo continua a rimanere una delle voci più significative ancora aggressive ed attuali del cinema, prerogativa, questa, di ogni autore autentico». E il filo del dibattito si è sviluppato sull’accostamento delle musiche alle scene, la centralità della figura femminile, le scelte attuali della sinistra e il linguaggio delle immagini originali proposte da Bellocchio. Stimoli a saperne sempre di più. E gli studenti si sono lasciati sedurre dai discorsi di Bellocchio che ha fatto più volte riferimento all’Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, elemento centrale della sua ricerca artistica e personale.

mercoledì 28 marzo 2007

un'altra e-mail ricevuta da "segnalazioni" sul caso della contestazione a Fausto Bertinotti alla Sapienza, lunedì

«Ho letto le e.mail e tutti gli articoli qui segnalati in merito alla contestazione subita ieri da Bertinotti alla Sapienza, e penso che per come è stata trattata da giornali e telegiornali manchino gli elementi fondamentali per inquadrare la vicenda. Vorrei tentare di rimediare, sperando di riuscire a proporre una chiave di lettura differente da quella ovunque spacciata come l'unica possibile.

Non entrerò nel merito della delle modalità della protesta, ma credo che alcune contestualizzazioni siano indispensabili. I giornalisti sono del tutto estranei alla realtà universitaria, alla quale si accostano solo in queste circostanze, ed i politici che commentano ne sanno ancora meno.
Sarò il più breve possibile ma non voglio dare nulla per scontato.

Forse il primo punto da chiarire riguarda proprio il tema della "non violenza". Nessuna delle due organizzazioni che ha partecipato alla protesta si qualifica come "non violenta" ma non è neppure possibile definirle violente solo in forza di questo, o identificarle come gruppi di facinorosi dediti all'insulto sistematico: si tratta infatti i organizzazioni di studenti, che frequentano e fanno esami.
L'attività principale della Rete per l'Autoformazione consiste nell'organizzazione di corsi e seminari, iniziative di studio collettivo, con o senza relatori esterni. Oggi ad esempio a Scienze Politiche si tiene un incontro organizzato da loro dal titolo "La Cina è vicina" al quale prenderà parte anche il preside della facoltà. Altra tematica al centro della loro attenzione è la crescente precarietà nel mondo della ricerca, ma per qualsiasi ulteriore chiarimento rimando al loro sito, dato che il pensiero complessivo sottostante non è semplice ed anzi è spesso contraddittorio.
Il Coordinamento dei Collettivi ha invece un carattere più "sindacale" e tende ad interessarsi di problematiche specifiche inerenti al diritto allo studio: tasse universitarie, alloggi, mense, numero chiuso per l'accesso ai corsi di studio, con speciale attenzione ai nuovi blocchi voluti dal ministro Mussi ai corsi di laurea specialistici che impediscono il proseguimento degli studi ai laureati triennali che non soddisfino arbitrari requisiti individuati dalle singole facoltà.

Un altro punto rilevante mi sembra quello della minoritarietà e quindi scarsa rilevanza della protesta: perché se è vero che è innegabile che cinquanta studenti rispetto alla popolazione della Sapienza sono pochissimi è vero pure che affermare che a sinistra di Bertinotti non c'è nessuno non è una spiegazione adeguata.
Un po' di storia, sperando di non annoiare…
Entrambe queste realtà – la Rete e il Coordinamento – sono state protagoniste del movimento che nell'autunno del 2005 ha tentato senza successo di opporsi alla ormai celebre Legge Moratti, osteggiata da tutto il centro-sinistra – ma che ancora sopravvive illesa, seppure congelata – riaprendo anche la discussione sulla precedente riforma Zecchino, il cosiddetto "3+2" voluto dal Ministro Berlinguer.
Si trattò di un momento di grande partecipazione che culminò con una manifestazione nazionale partecipata da più di centomila studenti, tra universitari e liceali, il giorno del voto della legge.
Per quella che è la mia conoscenza – molto limitata – delle precedenti esperienze di lotta nell'Università penso di poter dire che una delle particolarità di quella del 2005 sia stata l'attenzione speciale riservata a questioni non meramente materiali: la qualità della didattica e la libertà di ricerca. Alle recenti riforme si imputava – e si imputa tuttora – di aver frammentato i saperi al punto da impedire agli studenti una formazione di base solida e di aver frammentato i contratti di ricerca al punto da non consentire un'attività libera e serena, minandone la qualità. Abbiamo studiato le leggi che determinano i meccanismi attraverso i quali gli atenei ricevono i finanziamenti statali e li distribuiscono alle facoltà e queste ai dipartimenti, individuando una stretta correlazione tra questi e le scelte didattiche deleterie dei diversi Consigli dei Corsi di Laurea. Il problema è stato spostato in un certo senso dalla quantità alla "qualità" dei finanziamenti, ma di fronte ad un lavoro difficile e senza una rivendicazione di breve termine da portare avanti la partecipazione è calata e gli attriti tra le diverse organizzazioni sono emersi provocando rotture.
La finanziaria ha portato nuovi problemi, ma ad affrontarli non c'era nessuno o quasi. Le università si sono viste tagliare i fondi per le spese di medio termine – la corrente elettrica ma anche il rifornimento delle biblioteche (l'abbonamento annuo ad una rivista scientifica di prestigio costa circa 150.000 €) – di circa il 10% e le già misere borse di dottorato sono state tagliate di 40 euro, praticamente senza che volasse una mosca.
Ad ogni modo qualche attività ha avuto buon seguito. Ad esempio il Collettivo di Fisica (del quale faccio parte e che non è organico a nessuna organizzazione) ha ottenuto il ripristino dell'ordinamento semestrale abbandonato con l'attuazione del 3+2 in favore dei trimestri, raggiungendo almeno parzialmente l'obiettivo di arginare la frammentazione ed ha avviato un gruppo di studi per analizzare il problema dello strapotere delle gradi multinazionali editrici delle costosissime riviste di settore dalle quali la ricerca scientifica è completamente dipendente. Inoltre abbiamo recentemente intrapreso "L'iniziativa di ricerca Scienza&Guerra, per indagare i rapporti tra la comunità scientifica ed il potere" – alla quale partecipano studenti e ricercatori di diverse facoltà – discutendo della neutralità della scienza, della ricattabilità della figura ricercatore, ma anche di quale ruolo debba avere la scienza nella società e di molto altro che ancora non siamo riusciti a definire.

Ultimo punto: lo stato del dialogo con il governo, ovvero perché non ci sono le premesse per sedersi a discutere.
L'estate scorsa studenti della Rete e ricercatori precari dell'associazione PreCat (Precari Cattivi) hanno fatto incursione nella sala in cui si teneva un convegno dei Ds Scuola dove era presente il Ministro dell'Università e della Ricerca armati dei soliti striscioni al grido: "Mussi libero!". Oggetto della contestazione non era infatti il ministro ma il governo che voleva imporgli i tagli, in quella sede incarnato dal sottosegretario al medesimo ministero Luciano Modica, additato come "il sequestratore" ma fermamente difeso da Mussi stesso. Modica ha preteso di sostenere che qualunque ricercatore, anche l'ultimo dei precari, percepisce uno stipendio dignitoso, non inferiore ai 1300 euro ed ha fatto questo di fronte ad una schiera di assegnisti di ricerca (ricercatori a progetto) che indignati sventolavano il loro assegno mensile di neppure 950 euro. "Vi sbagliate!" replicava il signor Modica "prendete molto di più e non ve ne siete accorti!". Forse l'Università Italiana ha problemi più seri di quanto non si pensi se sforna gente che dopo 5 anni di studi universitari, 2 di dottorato e non so quanti di post-doc non è neppure in grado di leggere l'importo della propria busta paga.
La realtà è che non sono disponibili interlocutori in buona fede e che la gran parte degli studenti, così come pure dei cittadini italiani non di centro-destra, è convinta che opporsi ad un governo "di sinistra" sia semplicemente inutile, se non dannoso.
I problemi però restano e le zone di continuità con la politica del governo precedente sono più ampie di quanto non si pensi. Forse non c'è nulla che si possa fare, ma se l'Università prosegue su questa china di declino il Paese intero è condannato ad andargli dietro.

Inutile dire che qualunque richiesta di maggiori dettagli, spiegazioni (in particolare riguardo la connessione con il tema della guerra, che per motivi di brevità ho scelto di non affrontare), chiarimenti o anche repliche ed obiezioni, qualunque sincero interessamento è ben accetto. Andare in televisione pagando il prezzo di non far passare alcun contenuto non è un grande successo».

sofiapiloni@yahoo.it

l’Unità 28.3.07
DOPO LE CONTESTAZIONI
Rc si interroga su quanto accaduto a «La Sapienza». Su Liberazione scrive un leader del ’77 a favore, altri criticano il presidente
Bifo difende Bertinotti, don Vitaliano no...
di Wanda Marra

Il giorno dopo i fischi a Bertinotti alla Sapienza, Rifondazione fa quadrato intorno al Presidente della Camera. Ma non manca chi nelle minoranze del partito cavalca il dissenso, rimarcando il disagio che in alcune anime del Prc è ormai sul punto di rottura.
«A contestare Bertinotti non è stato il movimento pacifista, ma una piccola parte del movimento - spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rc in Senato - e quella parte che non si è ancora confrontata con il fatto che in politica sono necessarie mediazioni». E fa anche un’analisi “storica”: «La rottura si è consumata dopo il Congresso di Venezia sulla non violenza. Ma bisogna anche capire il rapporto forte tra i mezzi e i fini. A volte sono più non violenti dei mezzi per raggiungere dei fini». Russo Spena, però, non nega il disagio di «tutti noi, e mio per primo di votare delle missioni militari. Speriamo che con la Conferenza di pace questa sia l’ultima volta». Sottolinea come le contestazioni facciano parte della storia recente del Prc anche il deputato Ramon Mantovani. Mentre il senatore Tommaso Sodano rimarca le «brutte» modalità della contestazione, che definisce «pregiudiziale» e «prevenuta». Nessun timore dunque che una parte dell’elettorato di Rc si stia allontanando dal partito? «Non si tratta certo di un fenomeno di massa, che deve mettere in discussione la nostra linea politica», risponde Sodano. E ribadendo piena solidarietà a Bertinotti anche il capogruppo di Rc alla Camera, Gennaro Migliore fa notare come alla Sapienza non ci fossero che 50 persone.
Ma c’è anche chi dentro Rifondazione non la pensa così. Salvatore Cannavò, leader di Sinistra critica, che si è autosospeso dal partito dopo l’espulsione di Turigliatto, ci va giù duro: «Quella contestazione dimostra la profonda frattura che ormai esiste tra la politica istituzionale, quella del Parlamento per intenderci, e la società. È la frattura tra le ragioni del realismo politico e quelle dell'idealismo Questi ragazzi sentivano dire a Bertinotti no alla guerra “senza se e senza ma” e ora vedono che si mettono se e ma. Le persone che l'hanno contestato sono gente che fino a un paio d'anni fa lo adorava». Una posizione netta quella di Cannavò, che ormai da qualche tempo va dicendo che in realtà esistono due Rifondazioni: una che guarda a un nuovo soggetto anche con chi tra i Ds non entrerà nel Partito democratico, e una che guarda più a sinistra della stessa Rc. La sua non è però la posizione di tutta la minoranza. Claudio Grassi, leader dell’Ernesto, spiega che nella contestazione a Bertinotti sono stati usati termini «inaccettabili», che denotavano la non volontà di dialogo. Anche se rimarca il dissenso sulla missione in Afghanistan. Diverse interpretazioni in alcune figure vicine al partito. «Sono molto solidale con Bertinotti», dice Marco Revelli, uno degli intellettuali di riferimento di Rc, un tempo molto vicino al Presidente della Camera e ora molto critico. Aggiungendo che gli studenti «credono di poter risolvere, tramite fischi e urla, una questione profonda e terribilmente lacerante qual è quella della pace e della guerra». Secondo Revelli, «devono arrivare pensieri e non fischi» per risolvere il «nodo» del dibattito politico che «sulla pace, sulla guerra, sull'Afghanistan e sulle altre situazioni del mondo è molto al di sotto della serietà che sarebbe necessaria. E vedo in tutti i partiti, anche in Rifondazione, poco sforzo per essere all'altezza».
Si schiera nettamente dalla parte dei contestatori, invece, il prete no global, don Vitaliano Della Sala, molto vicino ai Disobbedienti (da dove proviene anche il deputato di Rc, Francesco Caruso) : «Pur di gestire spezzoni di potere, si sono svenduti la propria storia», denuncia, accusando Bertinotti di «aver svenduto sull'altare della governabilità e della poltrona la sinistra cosiddetta radicale, messa all'angolo dal centro moderato e dai Ds». Oggi, infine, «Liberazione» pubblica un articolo di uno dei protagonisti del ‘77 bolognese, Franco Berardi detto Bifo che difende Bertinotti, definendo «ignobile» dargli del guerrafondaio, mentre ricorda che far cadere il governo significa consegnare l’Italia al centrodestra.

Corriere della Sera 28.3.07
I FISCHI ALLA SAPIENZA
di Fabrizio Roncone

Figlia di lotta e madre di governo, lite in casa Mascia: «Vanessa non chiami me e Bertinotti guerrafondai»

ROMA- «Ne parliamo, ma a una condizione: lei deve scrivere subito, proprio all'inizio dell'articolo, che mia figlia è una ragazza intelligentissima e...». Forza, onorevole, aggiunga... «Mhm... deve scrivere pure che è del tutto libera di pensare e di agire, politicamente, come preferisce. Anche se poi quello che ha fatto l'altro giorno, all'università, beh... quello che ha fatto...». Allora, onorevole? «Mi fa incavolare, ma incavolare proprio di brutto».
Parola di mamma. Una mamma pazzesca. Tostissima. Una delle dure di Rifondazione. Graziella Mascia, filo di perle e cuore rosso. Una deputata che ancora parla come una militante. Che torna a casa (lunedì sera) e dice: accendiamo la tivù, vediamo chi ha osato contestare Fausto alla Sapienza.
Vediamo. «Eh... non è stato piacevole, lo ammetto, scoprire che tra i contestatori c'era anche Vanessa». Reazione? «Vuol sapere se abbiamo litigato?». Beh... «No, litigato no. Ma discusso, sì». In piccolo, nel vostro salotto, c'è un dibattito piuttosto simbolico per il partito della Rifondazione. «Simbolico?». Il movimento che vi molla, i giovani che contestano il realismo politico del líder maximo. «Diciamo che io e mia figlia abbiamo valutazioni diverse delle azioni parlamentari compiute, negli ultimi tempi, dal Prc».
Mamma e figlia, non più tardi di un mese fa, sfilavano nelle vie di Vicenza per protestare contro la costruzione della nuova base Usa. Cori e sciarpe. Bellissima coppia. Di lotta e di governo.
Di lotta, lei, Vanessa: la prima occupazione quando aveva 13 anni al liceo Mamiani, qualche spesa proletaria, qualche manifestazione un po' movimentata e poi sempre e ancora politica, anche adesso, a 23 anni, adesso che è studentessa universitaria, facoltà di Scienze politiche a Milano, ma militanza a Roma, nel centro sociale «Esc» («Eccedi, sottrai, crea»), centro sociale non qualsiasi, provocazioni piene di fantasia, un rapporto stretto con gli antagonisti del Nord-est, i quali insegnano che bisogna esserci quando ci sono i fotografi: come, appunto, lunedì mattina, all'università, alla Sapienza. Con Bertinotti che arriva, e con loro, con quelli dell'«Esc» che, spiccato senso mediatico, tempismo nell'azione, attaccano con gli sberleffi.
Di governo, la madre. «Guardi, più che di governo, di buon senso». Sarebbe, onorevole? «La politica è anche mediazione...». Bertinotti, veramente, fino a un anno fa, sosteneva che la politica dovesse cambiare la vita delle persone senza se e senza ma. «Infatti. Solo che ora ci troviamo in una coalizione, l'Unione, dove dobbiamo sempre trovare un equilibrio. Anche su temi importanti come quello della Pace. È grave trovare un equilibrio?». È grave, dicono i vostri giovani, finanziare le missioni militari. «E la conferenza di pace? Non è un'idea apprezzabile? Davvero facciamo sempre così tanti errori?». Fate cose per cui, sua figlia, stava lì con gli altri a strillare contro Fausto Bertinotti. «Buffone!». «Assassino!». «Guerrafondaio». «No, per carità, non stia anche lei a farmi la filastrocca». Seccante, eh? «Fastidioso». Però è ciò che gridavano, e pensavano, quegli studenti. «Guardi, l'ho detto pure a mia figlia: potete legittimamente contestare le nostre azioni politiche, ma non decidere se io sono o no "guerrafondaia". Questo, non lo permetto a nessuno». Neppure a sua figlia? «Neppure a lei».
C'è una madre che cerca comunque di capire le ragioni di una figlia, e c'è una figlia che contesta la madre, la politica della madre e del suo partito. «Non è semplice parlare con chi contesta — spiega ancora Graziella Mascia — ma non vorrei paragoni con i giovani del Sessantotto o del Settantasette. Perché quelli erano giovani che contestavano a prescindere i genitori e ciò che i genitori rappresentavano. Questi ragazzi qui, questa generazione che io chiamo "genovese", perché è dalla drammatica esperienza di Genova e del G8 che vengono, sono diversi. Con noi, insieme a noi, e per anni, hanno sfilato in mille cortei. Per la Pace e contro la guerra, contro Berlusconi, contro gli americani che vogliono costruire basi. Fino a ieri, per capirci, con mia figlia sono andata politicamente molto d'accordo...».
E lei, Vanessa? «Io che?». Perché ha contestato Fausto Bertinotti? «Senti, giornalista. Io non rilascio interviste». Basterebbe anche solo una piccola frase, signorina. «Signorina? Devi spa-ri-re. Capito?».

Corriere della Sera 28.3.07
LA PRECARIA SIMBOLO DELLA PROTESTA
di Paolo Brogi

Annetta l'«urlatrice»: ce l'ho con il suo ruolo, non con lui
L'ATTACCO DELLA RICERCATRICE
Nella foto, Annetta Curcio contesta Bertinotti alla Sapienza. Racconta: ho una borsa annuale di mille euro al mese

ROMA — Annetta torna alla Sapienza, sul luogo del delitto, nel pomeriggio. «Sei la nostra icona», le ripetono mentre va verso l'aula 13 di Scienze Politiche dove c'è un'«iniziativa». È lei, nuova icona del malcontento, la giovane immortalata sui giornali mentre urla qualcosa a Bertinotti.
«Cosa gli ho gridato esattamente non ricordo...», dice. «Ma è importante?».
La chiamano Annetta. «Annetta come?». «Curcio...», risponde e ride.
«Nessuna parentela con quello là».
Infatti viene da Cosenza, laurea in scienze politiche e tesi di sociologia urbana nel '96, dieci anni di «precariato» da dottoranda prima e poi da assegnista di ricerca, tre fratelli a Cosenza pure loro precari.
Annetta ha dunque 35 anni, campa con mille euro al mese di una borsa che finisce tra un anno, ne spende 500 per una stanza al Nomentano. «Ho l'età in cui le donne fanno un figlio — dice —. Ma io che futuro ho? Resto precaria...».
«Se abbiamo gridato assassino, buffone? Sono slogan della fase più concitata — spiega lei —. Lo abbiamo accolto con parole d'ordine più ironiche. Ma non ce l'avevamo con lui, quanto col ruolo che esercita. Con le scelte complessive del centrosinistra.
Avremmo contestato chiunque fosse venuto come sostenitore della presenza in Afghanistan. E poi qui abbiamo già contestato il ministro Mussi. Quello che se non mi danno i fondi, mi dimetto. Però è ancora lì...».
Contestazione a Bertinotti sguaiata e volgare, così il direttore di «Liberazione». «Fantastico. C'è un'intera classe politica che si concentra sullo stile. È evidente che hanno un grave problema di contenuti. Prima di andare al governo eravamo i precari da ascoltare. Ora invece siamo da dimenticare. Saremo una parzialità, ma importante...Se non altro per dire che il re è nudo».


Corriere della Sera on line 28.3.07

«Il parlamentare credente ha il dovere morale di votare contro il pdl»
Dico, i vescovi: «Cattolici tenuti ad obbedire»
Diffusa dalla Cei la nota sulla regolamentazione delle unioni di fatto: i fedeli non possono appellarsi al principio di pluralismo


ROMA - I cristiani sono tenuti ad obbedire al «magistero della Chiesa» e pertanto un fedele «non può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società ». Lo affermano i vescovi italiani nella Nota diffusa a proposito dei Dico, le nuove norme per la regolamentazione delle unioni civili contenute del disegno di legge dei ministri Bindi e Pollastrini.
«UN UOMO E UNA DONNA» - «Non abbiamo interessi politici da affermare - dicono ancora i vescovi -; solo sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di tanti cittadini che si rivolgono a noi». «Siamo convinti, insieme con moltissimi altri, anche non credenti - si legge poi nella Nota di tre pagine - del valore rappresentato dalla famiglia per la crescita delle persone e della società intera. Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna».
«IL NO E' DOVERE MORALE» - Il Consiglio permanente della Cei ricorda un pronunciamento della Congregazione della dottrina della fede del 2003 per ribadire nel caso del disegno di legge sulle coppie di fatto l’appello ai politici cattolici a «votare contro» un progetto di legge «favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali». «Ricordiamo - è scritto ancora nella nota - l’affermazione precisa della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo cui, nel caso di un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge».
28 marzo 2007


Corriere della Sera 28.3.07
STORIA Un saggio di Gianni Scipione Rossi denuncia le contraddizioni del teorico fascista
Evola, i due volti dell'antisemitismo all'italiana
L'alibi «spiritualista» servì a coprire un vero razzismo biologico
di GIOVANNI BELARDELLI


Durante il fascismo furono molti gli uomini di cultura che accettarono la politica del regime contro gli ebrei, spesso vedendo in essa, come ha scritto Renzo De Felice, un'occasione «per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori contro questo o quel loro collega». Furono pochi, però, gli intellettuali che condivisero davvero l'ideologia antisemita, come Julius Evola che, vissuto fino al 1938 abbastanza ai margini del regime, cercò di fondare una «dottrina della razza» diversa, a suo dire, da quella di Hitler perché basata non su elementi «biologici» ma «spirituali».
Eppure nonostante ciò, nonostante Evola sia stato uno dei più convinti antisemiti italiani, proprio a lui ha continuato a guardare dopo il 1945 una parte, minoritaria ma significativa, dell'estrema destra italiana, affascinata dal suo pensiero radicalmente antimoderno, guazzabuglio teorico a base di decadenza dell'Occidente, Tradizione (con la maiuscola), esoterismo, religioni orientali. Ciò è potuto avvenire appunto attraverso la preliminare minimizzazione dell'antisemitismo evoliano, considerato per un verso come una esperienza terminata con il 1945, per l'altro come una teorizzazione che poco o nulla avrebbe avuto a che fare con l'antisemitismo di Mussolini e di Hitler.
Entrambi questi assunti sono efficacemente criticati da Gianni Scipione Rossi, in un saggio dedicato appunto all'antisemitismo di Evola ( Il razzista totalitario, Rubbettino editore). Sulla prima questione, l'autore documenta come Evola non abbia mai preso le distanze, dopo il 1945, dai propri scritti antiebraici, continuando a rimanere fedele a posizioni razziste: ancora nel 1969, in un articolo sul Borghese formulava l'incredibile proposta che gli americani risolvessero il problema razziale sgomberando «dai bianchi uno degli Stati minori dell'Unione per mettervi tutti i negri statunitensi».
Quanto alla seconda questione, cioè alla pretesa evoliana di avere elaborato un antisemitismo solo o essenzialmente «spirituale», e perciò — si sostiene — meno infamante, Rossi la definisce puramente e semplicemente una leggenda, alimentata ad arte dai seguaci, ma priva di qualunque effettiva consistenza. È indicativa, al riguardo, la stessa parabola percorsa da Evola che, partito da un atteggiamento di superiorità nei confronti dell'antisemitismo nazista (non perché antisemitismo, si badi, ma perché fondato su basi teoriche a suo avviso troppo «banali »), avrebbe poi visto nelle SS «una nuova nobiltà politica razzialmente, moralmente e spiritualmente selezionata», destinata a fondare una nuova civiltà.
Per Evola, non esistendo più razze pure, si trattava di valutare gli «incroci» per la percentuale di «arianità» che contenevano; senza alcuna possibilità che gli appartenenti a una razza «inferiore» potessero elevarsi fino a una razza «superiore». Un razzismo dunque, il suo, non meno determinista di quello a sfondo biologico. Del resto, si può ben dire che ogni corrente e ogni tipo di antisemitismo ha sempre preteso di fondarsi anche su elementi «spirituali», sostenendo di colpire gli ebrei sulla base dei valori negativi dei quali li riteneva portatori. Fino al punto, messo di recente in luce da Francesco Germinario in un saggio dedicato all'immaginario antiebraico (sull'ultimo numero della rivista Il presente e la storia), che tanti antisemiti di fine Ottocento mostravano di odiare gli inglesi quanto e più degli ebrei, perché li consideravano appunto la personificazione di quei valori — l'ideologia del profitto, il liberalismo — individuati come la quintessenza «spirituale» dell'ebraismo. Visto in questa luce, confrontato con le tante citazioni di antisemiti che avevano giudicato gli inglesi «più ebrei degli ebrei stessi», appare evidente come l'antisemitismo cosiddetto spirituale di Evola non avesse alcuna particolare originalità.
Del resto, fu Evola che scrisse nel 1937 la prefazione a un concentrato dei principali luoghi comuni antisemiti come i Protocolli dei savi anziani di Sion, il famigerato testo fabbricato anni prima dalla polizia zarista per mostrare l'esistenza di una cospirazione ebraica volta alla conquista del mondo. Vi scriveva tra l'altro: «Fosse pur falso il documento (cioè i
Protocolli), non esistesse pur quella congiura metodicamente organizzata di cui esso parla, resta purtuttavia che essa è come se fosse davvero esistita». All'epoca era già stato accertato che si trattava di un falso, ma questo evidentemente — per Evola come per ogni antisemita — non aveva alcuna importanza.
• Il libro di Gianni Scipione Rossi, «Il razzista totalitario», (Rubbettino editore, pagine 118, e 9), è da oggi in libreria

Repubblica 28.3.07
Bertinotti: bene Casini, ma la coalizione non cambia. Prc: sulle pensioni niente mediazioni con l'Udc
E ora la sinistra teme maggioranze variabili
di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Se hanno baciato il rospo (Lamberto Dini) figuriamoci se non possono abbracciare il principe azzurro (il bel Pier Ferdinando Casini). Fermo restando che la «maggioranza non cambia - avverte Fausto Bertinotti - e deve continuare a fare la maggioranza». Sarà, ma ieri al Senato è stata ammainata la bandiera dell´autosufficienza che Rifondazione comunista aveva impugnato tante volte. Oggi il partito di Franco Giordano (e di Bertinotti) dice di non temere uno spostamento al centro dell´asse del governo. Malgrado il voto dell´Udc. «Non è possibile una politica dei due forni da parte di Prodi. Primo perché i numeri non bastano. Secondo, perché sarebbe il suo suicidio politico», dice il capogruppo di Prc Giovanni Russo Spena.
L´argomento però esiste, ne hanno ragionato a lungo dentro i partiti della sinistra radicale. È vero: i senatori dell´Udc sono 20 mentre ieri la sinistra radicale ha votato da sola contro un ordine del giorno di Calderoli raccogliendo ben 45 voti. Ovvero la sostituzione con i centristi è impossibile. Eppure i nodi della maggioranza allargata, dell´«appoggio esterno non dichiarato» di Casini, come lo chiamano a Prc, potrebbero venire al pettine. «Sulle politiche sociali non possiamo fare mediazioni con i centristi», avverte Russo Spena. Sono le pensioni la vera trincea di Rifondazione, lì non si accettano compromessi. «Oggi non abbiamo varato la politica della maggioranze variabili. Io - insiste Russo Spena - penso che Casini non abbia molti margini di manovra. Berlusconi lo massacrerà dopo il voto al Senato e lui non potrà imporre la sua linea al centrosinistra». Ma la riforma previdenziale è davvero una corda sensibile. «E di queste cose nell´Udc - si sente dire negli ambienti prc - si occupa Tabacci, un uomo vicino alla Confindustria».
Nella Margherita però la lettura è un´altra. Oggi anche i più critici di Dl con la sinistra radicale festeggiano soprattutto la vittoria dell´Unione e la crisi del centrodestra. «Questo è il dato - spiega Enzo Bianco - . Con Casini va bene il dialogo, ma non c´è nessun asse». Il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti parla invece di «una fase politica nuova. Il voto dell´Udc è molto positivo. Non sostituisce la sinistra radicale, ma ne dovremo tenere conto anche in futuro». E Antonio Polito commenta: «È una situazione ideale. Un governo che sa allargare la maggioranza costringe anche la sinistra radicale a comportamenti più responsabili».

Repubblica 28.3.07
Come trovare l'equilibrio tra ragione e desiderio
di JOAQUÍN NAVARRO-VALLS


Se c´è un pregio nel vivere in un mondo dominato dai media elettronici è che possiamo sapere sempre tutto di tutti. Apparentemente, almeno. È sufficiente fare una carrellata dei programmi televisivi pomeridiani per rendersi conto della totale esibizione che viene fatta di ogni aspetto personale ad un pubblico semplice e in un orario accessibile, senza alcuna inibizione.
Per quanto mi riguarda, non si tratta di lasciarsi andare a superficiali giudizi di disapprovazione verso qualcosa o qualcuno, ma soltanto riflettere su alcuni cliché che guidano l´attuale comportamento collettivo dove il dominio dalle emozioni e dai sentimenti è prevalente se non assoluto. Tanto che si ha l´impressione di assistere ad un ragionare non con la ragione ma con le emozioni e i sentimenti.
Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un fenomeno di attualità, se non fosse per il fatto che tali atteggiamenti erano conosciuti bene anche in passato. La cultura greca, culla della nostra civiltà, ci offre un contributo ampio in merito alla questione. La scuola degli Stoici, per esempio, aveva considerato attentamente tutti quei modi di agire propriamente umani che si esprimono in una inclinazione naturale ed irrazionale verso un piacere. Impulsi, passioni, desideri, legati spesso tra loro, nascono dalla tendenza assolutamente fondamentale negli animali a conservare la propria vita e ad ottenere ciò che è necessario per la sopravvivenza della specie.
Nel caso dell´essere umano, però, le cose si complicano. È per questo che le scuole Cirenaiche, celebri per il loro culto dei piaceri, consideravano con molta attenzione e prudenza gli aspetti irrazionali che muovono l´uomo verso l´appagamento incontrollato dei bisogni elementari.
Epicuro affermava, in tal senso, che nel rapporto tra l´uomo e i piaceri subentra un aspetto tutto particolare, definibile con il termine moderno di "inquietudine". Il consumo di un piacere fine a se stesso si traduce quasi sempre in un "turbamento" dell´anima, perché l´uomo, al contrario degli altri animali, è spinto a trovare nel piacere stesso qualcosa di più della mera fruizione temporanea di una sensazione, qualcosa di riconducibile alla sfera spirituale.
Questo tipo di conclusione assomiglia a quella a cui era giunto il poeta simbolista Baudelaire: la sfrenata consumazione di un piacere produce alla fine soltanto una grande solitudine. Mi sembra, tutto sommato, un buon punto di partenza per capire l´uomo di oggi, le sue inquietudini, le sue amarezze. O almeno alcune di esse.
La considerazione degli istinti e dei piaceri non dovrebbe, infatti, accompagnarsi né alla loro condanna, né alla loro esaltazione, ma semplicemente ad una loro valutazione all´interno di un discorso antropologico complessivo, che tenga conto di tutti gli aspetti autenticamente umani, sensibili o intellettuali, emotivi o razionali che siano. Platone, davanti all´alternativa se le soddisfazioni passionali siano un bene o un male, rispondeva sempre con un esplicito "dipende". Perché nell´uomo il raggiungimento degli ideali più spirituali è affiancato sempre dalla dinamica del desiderio e della soddisfazione soggettiva. La cosa importante, in ogni caso, è non perdere la libertà che da la padronanza di sé e si alimenta da motivi razionali e non soltanto da impulsi emotivi.
La peculiarità specifica della persona umana è non soltanto quella di conoscere a che cosa tende ma di valutare il desiderio stesso. Questo distanziarsi dai sentimenti per giudicarli sta tra le cose che distinguono radicalmente "l´homo sapiens" da qualsiasi altra forma di vita, anche quella dei primati più evoluti. Ed è la caratteristica che permette al genus "homo" di diventare persona.
Ogni persona non può limitarsi soltanto a desiderare i cibi che mangia, o ad amare le cose che reputa belle, ma ha un desiderio di conoscere il valore di ciò che ama e di ciò che considera piacevole. Negare questo fatto sarebbe come ritenere che qualcuno potesse amare una persona senza mai averla conosciuta, oppure desiderare di guardare un quadro o di ascoltare una sinfonia senza sapere realmente di che cosa si tratta, che significato possegga, ecc...
È chiaro che il fatto stesso di avere dei desideri per l´uomo non equivale automaticamente a conoscere il valore di ciò che desidera, e, meno ancora, significa sapere perché desidera qualcosa. Ma una volta conosciuto l´autentico valore di una cosa, nessuno di noi sarebbe pronto a sacrificarne il possesso per una cosa ritenuta peggiore. Quando, infatti, ci rendiamo conto che la compagnia di una persona è migliore di quella di un mazzo di carte, è chiaro che preferiamo andare a cena con gli amici, piuttosto che rimanere da soli a fare un solitario.
Certamente, sappiamo tutti quanto sia difficile a volte rimanere razionali davanti alla forza dei desideri, perché questi sono capaci di produrre in noi, se non controllati, una immagine travolgente, distorta e alterata sia della realtà che di noi stessi. Tuttavia, come ha rilevato Spaemann, nell´uomo «gli atti del pensare, del preferire e del volere sono, esclusivamente nell´essere umano e non negli animali, delle variabili indipendenti» con cui è possibile «giudicare» e «guidare» i propri istinti e con cui è possibile anche liberarsi dal loro dominio.
Una visione umanamente equilibrata non può pertanto né fare a meno delle passioni, né farsi trascinare dalle passioni, ma dovrebbe giungere ad una armonia razionale e volontaria di se stessi che permetta di avere dei buoni desideri e dei buoni sentimenti, facendo in modo che le forze istintuali che permettono la sopravvivenza della vita non divengano strumento di distruzione.
Conoscersi è, in definitiva, lavorare sulle stesse tendenze istintive e su se stessi, per convogliare e finalizzare razionalmente la vitalità delle passioni a quanto è giusto volere per essere - sarebbe meglio dire, per diventare - persone umane.
Oscar Wilde, con il suo umorismo, ammetterebbe che questo esercizio è un lavoro quotidiano che può produrre nel comportamento di una persona «sensibili miglioramenti». E a cominciare a sapere qual è il valore delle cose. Oltre al valore di noi stessi.

Repubblica 28.3.07
Apre ad Arezzo sabato 31 marzo
Il monarca della pittura che dominava colore e prospettiva
L´incanto metafisico discende da questo suo lucido e implacabile sguardo da scienziato della visione
Arte e scienza non furono ambiti separati: la sua opera è nutrita delle leggi ottiche sulla rifrazione luminosa
Non fu solo un grande artista ma investigò a fondo la matematica
Insieme ai capolavori una selezione di disegni, medaglie e manoscritti
di PINELLI


Arezzo. Sebbene Piero della Francesca abbia avuto in sorte una vita assai più lunga di quanto mediamente non fosse concesso di vivere ai suoi tempi e abbia inoltre svolto un´attività artistica molto intensa e feconda, il catalogo delle sue opere giunte fino a noi risulta, sfortunatamente, quanto mai esiguo. Se a ciò si aggiunge che parecchie di esse sono affreschi inamovibili o dipinti su tavola che è sconsigliabile spostare dai luoghi in cui sono custoditi, è facile comprendere perché di Piero non sia mai stata organizzata in passato, né potrà esserlo in futuro, una rassegna capace di esibire un cospicuo numero di sue opere autografe. Né fa eccezione, da questo punto di vista, la grande mostra che si inaugura ad Arezzo (Piero della Francesca e le corti italiane, 31 marzo-22 luglio), la quale, tuttavia, anche per l´intelligenza con cui è stata progettata da due grandi studiosi come Carlo Bertelli e Antonio Paolucci, costituisce un´occasione straordinaria per assaporare in tutta la sua grandezza e complessità l´arte di questo «monarca della pittura» (Luca Pacioli), che l´abate Lanzi definì, a giusto titolo, «un de´ pittori da far epoca nella storia».
L´esposizione sapientemente allestita nel museo statale di Arezzo fa infatti dialogare quei pochi capolavori di Piero che è stato possibile ottenere in prestito (il San Girolamo dell´Accademia di Venezia, il Ritratto di Sigismondo Malatesta del Louvre, il Dittico dei duchi di Urbino degli Uffizi, la Madonna di Senigallia) con una folta selezione di dipinti, disegni, medaglie, manoscritti e quant´altro è stato giudicato utile a ricostruire le tappe della carriera di Piero e la trama di intense relazioni che egli seppe intessere in tutte quelle città e corti dell´Italia centro-settentrionale - da Firenze a Roma, da Ancona a Ferrara, da Rimini ad Urbino - , nelle quali agì da protagonista, assorbendo la lezione di artisti più anziani di lui, come Domenico Veneziano, Pisanello, Angelico, Luca della Robbia, Donatello, i maestri fiamminghi, segnandone indelebilmente altri (da Girolamo di Giovanni a Fra Carnevale, da Antoniazzo a Lorenzo da Viterbo, da Melozzo a Giambellino, da Bartolomeo della Gatta a Signorelli), e dialogando alla pari con umanisti e scienziati del calibro di Leon Battista Alberti, Guarino Veronese e Luca Pacioli.
Mai come in questa occasione, tuttavia, la mostra non va interpretata da chi la visita come la meta unica del proprio viaggio, ma come il punto di partenza ed il prezioso viatico di un itinerario che lo porti, innanzi tutto, davanti a quel vertiginoso capolavoro che è il ciclo con la Leggenda della Vera Croce nella chiesa aretina di San Francesco: un´opera il cui restauro, diretto non molti anni fa da Giorgio Bonsanti e dalla compianta Anna Maria Maetzke, può davvero aspirare a quell´aggettivo "miracoloso", che si dispensa fin troppo benevolmente a operazioni conservative assai meno ardue e felicemente condotte. Da Arezzo, poi, il visitatore si recherà nella non lontana città natale dell´artista, quella Sansepolcro nel cui Museo civico potrà ammirare il maestoso Polittico della Misericordia e l´affresco con la Resurrezione, per poi spostarsi nella vicina Monterchi, dove si troverà a tu per tu con l´incantevole affresco della Madonna del Parto.
Dopo di che, perché no?, i più motivati potranno seguire le tracce del febbrile andirivieni di Piero tra Toscana, Umbria, Marche e Romagne, recandosi a Perugia (Polittico di Sant´Antonio), ad Urbino (la Flagellazione) e a Rimini (l´affresco nel Tempio Malatestiano). E qui mi fermo, anche se sarei tentato di segnalare ai tanti che neppure ne sospettano l´esistenza, che a Roma, dove Piero dipinse tante opere purtroppo andate perdute, una ne rimane, seppur ridotta quasi ad una larva, in S. Maria Maggiore, sulla volta di una cappella che per primo Roberto Longhi seppe riconoscere come indubitabilmente affrescata dal grande borghigiano.
Esibendo rari e preziosi manoscritti dei trattati di matematica e prospettiva redatti da Piero, la mostra mette anche nel giusto risalto questo meno noto risvolto della personalità dell´artista: egli non fu infatti soltanto un inimitabile pittore, ma investigò anche a fondo la matematica e, soprattutto, fu un grande studioso di geometria, ottica e prospettiva. Arte e scienza, del resto, non furono mai per lui ambiti separati e non comunicanti: la rappresentazione del mondo che Piero distilla dal suo pennello è filtrata attraverso l´ordito concettuale dei numeri e delle proporzioni, così come è nutrita di scienza prospettica e di leggi ottiche sulla rifrazione luminosa e sui valori cromatici. L´incanto metafisico che emana dalla sua pittura discende da questo suo lucido e implacabile sguardo da scienziato della visione, che traduce il mobile spettacolo della realtà fenomenica in una rappresentazione calma e solenne, severamente impersonale, che tuttavia non è astratta né incapace di cogliere la pelle sensibile delle cose, ma se mai è del tutto disinteressata ad esprimere le passeggere emozioni dei personaggi che ne animano le storie. Ecco perché essi ci appaiono stagliarsi maestosi ed «impassibili come macigni», secondo la mirabile definizione coniata da Berenson per le tre celebri ed enigmatiche figure che giganteggiano in primo piano nella Flagellazione di Urbino.
Una tavoletta, questa, su cui si sono finora inutilmente accaniti gli esegeti che hanno voluto a vedervi a tutti i costi chissà quali messaggi politici, mentre forse altro non è, come ho suggerito in un saggio che ha trovato eco favorevole nel catalogo della mostra, un´abbagliante dimostrazione pratica, offerta da Piero a Federico da Montefeltro, della sconvolgente rivoluzione operata dalla nuova scienza prospettica, che aboliva irreversibilmente le tradizionali gerarchie iconografiche e abitudini percettive, facendo giganteggiare le figure rappresentate in primo piano e rimpicciolendo proporzionalmente quelle dislocate in lontananza, e ciò del tutto indipendentemente dalla loro importanza all´interno del racconto visivo.

In viaggio con Piero
Quella luce che incantò Camus, Huxley e Pasolini

Da Arezzo a Monterchi e Sansepolcro, è ricco l´itinerario che attraversa i luoghi e i capolavori del maestro in un ricco telaio di ascendenze e discendenze
Le aste dei ceri. L´esordio fu assai modesto: allievo di Antonio d´Anghiari, dipingeva le aste dei ceri
Il primo dipinto. È la "Madonna con Bambino" il primo dipinto ora in mostra, già esposto una sola volta nel 1954
Molti scrittori furono folgorati dallo splendore della "Leggenda della Vera Croce". In mostra anche le opere di artisti che lo influenzarono o ne rimasero segnati come Veneziano Signorelli, Perugino e Alberti

Arezzo. Quando Aldous Huxley arrivò davanti alla Resurrezione di Piero della Francesca ebbe una folgorazione: «È il miglior dipinto del mondo», annotò nel suo diario. E Pier Paolo Pasolini fu ispirato dalla Battaglia di Eraclio e Cosroe: «Quelle braccia d´indemoniati, quelle scure/schiene, quel caos... «. Ma l´effetto Piero ha colpito Gabriele d´Annunzio, Albert Camus...
Non è un caso. È Piero della Francesca il fondatore della modernità artistica per il sintetismo prospettico tra forma e colore, come ebbe a teorizzare per primo Roberto Longhi, ed è questa la storia che racconta la mostra Piero della Francesca e le corti italiane, che apre ad Arezzo il 31 marzo nelle sale del museo statale d´arte medievale e moderna. È un´indagine sulla capacità dell´artista di incidere nella cultura del suo tempo, il suo decisivo contributo alla formazione dell´arte ferrarese, umbra, marchigiana. Al contempo l´esposizione è accompagnata da un itinerario che attraversa le sue terre e i suoi capolavori: la città stessa di Arezzo, con il ciclo de La leggenda della Vera Croce che è nella basilica di San Francesco e la Maddalena che è in Duomo; Monterchi, con la Madonna del Parto; Sansepolcro, con la Resurrezione e il Polittico della Misericordia.
Sansepolcro, anticamente Borgo San Sepolcro, è il paesino dove cominciò il percorso artistico di Piero, dov´era nato nel 1412, come dimostrano le ultime ricerche di James Banker e come racconta la prima delle nove sezioni di questa evocazione di un tempo di splendori e di profondi turbamenti. È un viaggio tra i gialli, i rossi, i cieli tersi di capolavori assoluti del maestro arrivati ad Arezzo - il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, prestato dal Louvre, il Dittico dei Duchi d´Urbino degli Uffizi, la Madonna di Senigallia della galleria nazionale delle Marche - circondati da un centinaio di opere di artisti che lo influenzarono o che attinsero alla sua lezione: Domenico Veneziano, Fra Carnevale, Pisanello, Leon Battista Alberti, Bono da Ferrara, Jacopo Bellini, Luca Signorelli, Rogier Van der Weyden, Pietro Perugino, Melozzo da Forlì, Antoniazzo Romano, Pedro Berruguete.
È un complesso telaio di ascendenze e discendenze (che Roberto Longhi portò fino a Cézanne), dagli esordi semplici e modesti: uno dei primi pagamenti di Piero, nel giugno del 1431, fu per "dipegnere l´aste dei ceri" della Confraternita dei Laudanesi di S. Maria della Notte di Borgo San Sepolcro. Lavorava con Antonio d´Anghiari, in qualche modo uno specialista di stemmi e stendardi, ma l´anno successivo era già "pittore" e non più apprendista. E già allora probabilmente avviò ricerche prospettiche se è vero, come scrisse il Vasari, «attese Piero nella giovinezza alle matematiche».
A Borgo e nelle sue vicinanze restò a lungo, tra il 1437 e il 1438 probabilmente arrivò a Perugia, a fianco di Domenico Veneziano, insieme al quale lavorò a Firenze dal 1439. Sono date importanti per capire la maturazione dello stile di Piero di cui ad Arezzo viene presentata una Madonna con Bambino, una tavola proveniente dalla collezione Contini Bonacossi ora di proprietà straniera, in Italia esposta una sola volta, nel 1954. È per un gruppo di storici il primo dipinto dell´artista a noi arrivato, ora datato dai curatori, Carlo Bertelli e Antonio Paolucci, 1435, lasciando intuire visite e incontri antecedenti a quelli ormai statuiti e che lo videro, negli anni, oltre che nel capoluogo toscano a Urbino, Pesaro ed Ancona, a Roma e Ferrara, a Rimini e Loreto.
Frenetici spostamenti, pittore davvero "globale", Piero entrò nella piena maturità artistica a metà del XV secolo. Lo testimoniano in mostra il San Girolamo e il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Matalesta ("figlio" dell´affresco che eseguì dopo la metà del Quattrocento a Rimini), a Sansepolcro il Polittico della Misericordia, ad Arezzo La leggenda della Vera Croce che l´artista realizzò nell´arco di quattordici anni, dal 1452 al 1466. In questo splendido ciclo colpiscono le scene di battaglia (che richiama una sezione della mostra), quella di Eraclio e Cosroe e quella di Ponte Milvio in cui il paesaggio che si intravede tra le zampe dei cavalli, la tranquillità del quotidiano, si oppone al furore di uno scontro che diventa vittorioso nel momento in cui Costantino protende in avanti la Croce.
Ma è la luce di Piero, chiara, solare, a giocare un ruolo fondamentale in questo affresco eseguito nella fase più matura dell´artista, sopravvissuto a mille ingiurie: dalla costruzione del campanile che insiste sulla zona dominata dal "Sogno di Costantino", il primo notturno della storia, agli incendi che affumicarono gli smaglianti colori della Leggenda. Per ottenere fantastici effetti di luce sui 275 metri quadrati della cappella, al «buon fresco» Piero affiancò una esecuzione a secco e tecniche tipiche della pittura su tavola: usò lacche, pigmenti legati con sostanze grasse. Arrivarono così i verdi, gli azzurri, i rosa, i bianchi delle vesti, che hanno il candore di quella che indossava Giovanni VIII Paleologo, imperatore d´Oriente, che arrivò a Firenze nel 1439 e che probabilmente Piero ammirò quando era insieme a Domenico Veneziano.
È da collocare nel periodo di questo ciclo la Flagellazione, dall´enigmatica e controversa lettura (ma non è stata spostata da Urbino) e, nella seconda metà degli anni Sessanta la Resurrezione di Sansepolcro e la Madonna del parto che è a Monterchi, straordinariamente affascinante nella sua semplicità. All´interno di una volumetria conica di un color rosso cupo appare la Vergine, gli occhi abbassati in segno di umiltà verso la presenza del Figlio, che abita il corpo ingrossato dalla gravidanza sotto la larga veste. Una mano si appoggia al ventre per segnalarne il prezioso contenuto mentre due angeli, che prendono forma dallo stesso cartone invertito, alzano la tenda con un gesto largo e di araldica fissità. Le tre teste sono prospetticamente disposte a triangolo.
Sono invece degli anni Settanta, dell´ultimo periodo, la Madonna di Senigallia, dal volto più squadrato ma anche più dolce dove il dominio dei grigi diventa più intransigente castigando l´effetto coloristico, e il Dittico con i ritratti di Battista Sforza e Federico da Montefeltro, che aveva radunato un cenacolo di cultura "internazionale": accanto a Piero lavorarono Francesco di Giorgio Martini, Laurana, Guido di Gand, Berruguete. È un dipinto segnato dall´estrema finezza della tavolozza e da un paesaggio profondo e chiarissimo, dove le catene dei monti quasi si dissolvono tra terra e cielo. È un ambiente rarefatto, che rende quasi inafferrabile il soggetto, anche se la compostezza imperturbata del Duca porta sul volto tracce che rivelano vicende personali, il suo carattere e la sua interiorità. Il condottiero è presentato di profilo con il cappello calato sulla fronte, di cui è leggibile un breve tratto verticale, e tra fronte e naso compare un brusco salto, quasi un´innaturale interruzione, innaturale perché determinata da una ferita di spada subita da Federico in guerra, e non da un tratto anatomico originario. Il ritratto di Battista, egualmente di profilo è quasi sicuramente posteriore alla sua morte tanto che Adolfo Venturi lo definì "maschera cerea di defunta".
È un capolavoro in cui convivono naturalismo e trasfigurazione, introspezione e componente psicologica del soggetto regolato da precisi rapporti matematici che rispecchiano l´armonia dell´universo. È una sacralità teorizzata da Piero nel De Prospectiva Pingendi (in mostra) dove si spiegano le tre parti della pittura: "disegno, commensuratio et colorare". "Commensuratio" ovvero la misurazione geometrica, proporzionale e prospettica, quasi a sottintendere un´identificazione della pittura con la prospettiva i cui piani sono il luogo d´incontro tra disegno e colore. «E i maggiori lumi che di tal cosa ci siano sono di sua mano...», commentò nelle Vite Giorgio Vasari
È il maestro dei maestri, della luce, di cui fu privato, come in una sorta di contrappasso dantesco, negli ultimi anni di vita. Piero della Francesca morì il 12 ottobre del 1492, cieco. Quello stesso giorno Cristoforo Colombo scoprì l´America. Una delle tre caravelle, la Santa Maria, secondo la tradizione, portava conficcato nell´albero maestro un pezzo di legno della croce di Cristo, argomento trattato dal maestro nel suo capolavoro, La leggenda della Vera Croce, il ciclo che ad Arezzo ancor oggi domina la chiesa di San Francesco.

l’Unità 28.3.07
«Subito il confronto sul futuro de l’Unità»
Ieri assemblea pubblica dei redattori
La Fnsi: non è possibile stravolgere il giornale


Sono sei anni che l’Unità è tornata nelle edicole. E quello di oggi è un compleanno amaro. Molte le incognite sul futuro. «L’Unità è un patrimonio insostituibile e faremo di tutto per difenderne l’identità. Non è possibile stravorgerla, farne un giornale residuale con soli 15 giornalisti», sottolinea Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione della Stampa, aprendo ieri i lavori dell’assemblea pubblica, nei locali dell’Associazione Stampa romana. Dopodomani si riunirà il Cda della Nie, la società editrice del quotidiano. Da qui l’appello di Comitato di redazione, Fnsi e Asr: «Azionisti uscite dall’ombra. Subito il confronto». E Umberto De Giovannangeli del Cdr precisa: «Il giornale vende oggi 54mila copie in edicola. Non poca cosa senza un supporto industriale e d’investimento, mentre le continue richieste di un rilancio sono rimaste lettera morta». Il silenzio dell’azienda è stato rotto solo da mezze informazioni: tra queste, la decisione della Nie di affidare ad una società di consulenza «che non ha mai avuto a che fare con il settore dell’editoria, la Value & Partners, la definizione di un piano industriale ed editoriale. Piano quest’ultimo che invece spetta alla direzione», precisa il Cdr. Insomma, l’Unità è di nuovo ad un bivio: «O c’è il rafforzamento del giornale o c’è un suo ridimensionamento. La via del galleggiamento non è accettabile», conclude De Giovannangeli.
La saletta di piazza della Torretta a Roma, si riempie. Ci sono i giornalisti de l’Unità, le agenzie di stampa, cronisti di altri quotidiani, esponenti del mondo del cinema e dello spettacolo. Arrivano Beppe Giulietti di Articolo21 che «se dovesse servire» si attiverà in Parlamento e apre il sito dell’associazione alla vertenza, Bruno Tucci dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, c’è Silvia Garambois, Fulvio Abbate, Adele Cambria, Bruno Guerra, Giuseppe Campos Venuti... Molti anche gli attestati di solidarietà: Ettore Scola, Dario Fo e Citto Maselli, il gruppo regionale Ds della Toscana. Mentre si cercano le sedie per far accomodare i registi Amedeo Fago, Beppe Gaudino, Isabella Sandi, Giuseppe Piccioni e Antonella De Lillo. Ed è un coro: «Non stravolgere l’Unità».
Serventi Longhi ha ancora il microfono in mano quando entra Ugo Gregoretti. Il regista, giornalista e scrittore ascolta tutto il dibattito, poi tira fuori dalla tasca tre fogli e comincia a leggere: «“Cara Unità”, questa era il familiare appellativo con il quale i tuoi lettori e sostenitori comunicavano con te per esprimerti dubbi, speranze, incertezze, domande e passioni. Aveva un bel suono “Cara Unità”: intimo, confidente, filiale, paterno. Veniva usato da i vecchi militanti e dai meno anziani iscritti da poco al Partito comunista, come me, che vi entrai nel ‘70, a quarant’anni, e mi vergognavo un po’ perchè a fronte dei vecchi compagni di avviata mi sentivo un parvénu(...). Suona bene ancora oggi questo modo di invocare il tuo spazio, forse è un po’ desueto ma poetico, musicale. Chi si sognerebbe mai di scrivere ad altri quotidiani appellandoli “Caro Corriere della Sera” o “Caro Sole 24 ore”! (...). “Cara Unità”, sono passati da allora quasi quarant’anni (...) il Pci non esiste più, anzi esiste ancora ma ormai vuol dire solo “personal computer”; ma l’affezione che nutro per te è talmente profonda da farmi dire: sono e sarò sempre con te».

Riformista Lettere 28.3.07
La nascita del PD

Caro direttore, ho letto con divertito stupore la lettera del compagno Antonio Finelli, la cui memoria sembra denunciare qualche lacuna rispetto alle vicende della politica negli anni che lo hanno visto esponente di spicco del Psi modenese. Finelli non si accontenta di manifestare la sua convinta, legittima adesione al progetto del Pd. A sostegno della posizione congressuale, si avventura nell’ardita ricerca dell’autorevole e nobile sponda di Riccardo Lombardi citato, con ben altra intenzione, in un pregevole intervento di Gigi Covatta, proposto di recente, in bella evidenza, dal “Riformista”. Dopo avere posto lo stravagante quesito sulla compatibilità della militanza lombardiana con il Pd, conclude la corretta rassegna delle scelte politiche compiute dal leader della sinistra socialista con la seguente incredibile affermazione: «Venendo ai giorni nostri, non ho dubbi che di fronte al progetto del partito nuovo, il Pd, lui sarebbe della partita...». L’appartenenza non superficiale alla corrente lombardiana e la conoscenza della storia e del pensiero di Riccardo Lombardi, segnato anche da una forte cultura laica e azionista, mi consentono di ritenere per nulla plausibile il suo ingresso nel Pantheon di Fassino (Gramsci, Berlinguer, Gobetti, De Gasperi, Moro, Don Minzoni, Spinelli, La Malfa, Gandhi, Einstein, Mandela, Luther King, Ernesto Rossi). Finelli dimentica che non gli piaceva il “compromesso storico”. Credo che gli piacerebbe ancora meno, con tutto il rispetto per gli amici diellini, il Margheritone. E, poi, vale sempre la vecchia massima «Scherza con i fanti....».
Pasquino Ferrioli membro della direzione Ds e dell’Associazione “Laburisti” di Ferrara