sabato 27 ottobre 2012

«Spiccata capacità di delinquere. Delinquente naturale»

l’Unità 27.10.12
Bersani: progressisti alleati con i moderati
Il segretario Pd al congresso dei socialisti francesi lancia segnali al centro: «Ma non tiriamo Monti nella mischia»
Salutato come «l’angelo del fango»: fu volontario a Firenze nel ’66
di Simone Collini


Quando la deputata franco-canadese Axelle Lemaire lo presenta come «l’ange de la boue», l’applauso dei delegati si fa più sonoro che sulle parole «ministre» o «secrétaire». L’«angelo del fango» Pier Luigi Bersani sorride sorpreso mentre si avvicina al microfono e ringrazia gli «chers amis, chers camarades» riuniti a Tolosa per i congresso del Partito socialista francese. I collaboratori del leader Pd giurano che loro non c’entrano con l’uscita della giovane Lemaire, che la storia di quando nel ‘66 Bersani andò a spalare il fango nella Firenze alluvionata è arrivata Oltralpe senza spinte da parte loro. Però è in tema. Perché «solidarité» è parola che torna, negli interventi di Bersani, del presidente della tedesca Spd Sigmar Gabriel, di Ségolène Royal, del neosegretario del Ps Harlem Désir. Il concetto è: la linea del rigore rimane un punto fermo, ma la «solidarietà» non può mancare e allora servono anche misure per creare occupazione, che favoriscano la redistribuzione delle ricchezze, che creino maggiore equità. Un discorso che vale tanto per l’Europa quanto, nel ragionamento che fa Bersani, per l’Italia. Che dal 2013 dovrà tornare alla normale «fisiologia democratica», come da ragionamento fatto ventiquattr’ore prima all’Eliseo con François Hollande, cioè a un governo politico, sostenuto da una maggioranza omogenea.
SERVE UN GOVERNO POLITICO
«L’affidabilità e la reputazione internazionale che l’Italia ha recuperato grazie al governo Monti sono stati strumenti essenziali per il ritorno a un circolo virtuoso dice di fronte ai delegati del Partito socialista francese ma perché questo possa mantenersi a lungo termine, e uscire dalla recessione, occorre fare delle scelte a favore dell’uguaglianza e dello sviluppo. Scelte che questo governo tecnico non può realizzare, malgrado i vincoli interni ed esterni». Per questo Bersani sottolinea l’indisponibilità del Pd a sostenere in futuro un altro governo insieme a forze politiche avverse. Per realizzare le riforme necessarie, dice, occorre «ristabilire la fisiologia demo-
cratica nel Paese», e «in questo la spinta dei progressisti sarà determinante»: «Quando i progressisti e la sinistra europea sono uniti vincono contro una destra conservatrice, nazionalista e retrogada». Ma questa non sarà la sola «spinta», stando a quella che è la strategia del leader del Pd.
ASSE PROGRESSISTI-MODERATI
Non è casuale la scelta di Bersani di ribadire dal palco del Ps (Hollande vinse le presidenziali francesi anche grazie al sostegno del centrista Bayrou) nel giorno in cui si discute del manifesto targato Montezemolo e sottoscritto da personalità come Riccardi, Bonanni, Olivero, che per lui rimane strategico un asse tra progressisti e moderati. Quello che però non va fatto, per il leader Pd, è coinvolgere l’attuale premier in operazioni politiche finalizzate alla sfida del 2013. «Sul tema, Monti consiglierei di non metterlo nella mischia», risponde ai giornalisti che gli domandano un commento sull’appello di cattolici e moderati per una riconferma del presidente del Consiglio, che per Bersani «è sicuro che alla Bocconi non ci torna». Quanto al manifesto montezemoliano, «queste formazioni, queste personalità, cercano di costruire un’offerta politica centrale, è una cosa che va assolutamente seguita con attenzione. Noi stiamo organizzando le forze progressiste e abbiamo sempre detto che siamo disposti a un dialogo costruttivo».
PRIMARIE APERTE
Bersani insomma guarda già alle politiche di primavera, che dovranno «chiudere definitivamente la lunga stagione populista», e se parla delle primarie è per rivendicare la scelta di farle aperte, approvando anche una deroga allo statuto del partito, perché «il successo delle primarie porterà il successo nelle elezioni politiche» dice, proprio «come è successo in Francia». «Ascoltatemi bene: sono io, il segretario del Pd, che ha deciso di affidare la scelta del candidato premier alla coalizione e agli elettori, perché convinto che servono segnali forti. Il Pd ha deciso di non chiudersi nelle formule tradizionali del Pd e fare primarie aperte per scegliere il candidato premier. Io ho deciso di aprire la competizione a un altro candidato e l’ho fatto nella convinzione che la situazione che si è creata tra le istituzione e i cittadini richiede dei messaggi forti».
Renzi dall’Italia polemizza sulle regole adottate e ironizza: «Quelle francesi sono più semplici delle nostre, se le faccia raccontare». Bersani non ci pensa a replicare. E lunedì farà tappa a Firenze, per una visita all’azienda Selex Elsag. I lavoratori gli hanno chiesto di fermarsi a pranzo. L’appuntamento è alla mezza all’interno della mensa aziendale.

l’Unità 27.10.12
Bersani e il senso della sfida alle primarie
di Onofrio Romano


PARE CHE A SINISTRA IL DISCRIMINE FONDAMENTALE SI COLLOCHI TRA MODERATI E RADICALI. Tra coloro che indulgono, con diversi accenti, alle ricette montiane e quelli che premono per rompere gli argini del rigore e puntare sulla crescita, la redistribuzione del reddito, i diritti. Su quest’ultimo versante, poi, la gara al miglior offerente è spietata. Vi si rivede la scena di quel vecchio film di De Sica in cui il primo in elenco al «giudizio universale» afferma fiero: «Ho dato un milione ai poveri!». E Dio: «Perché non due?». La verità è che la ricetta in tasca non ce l’ha nessuno: si oscilla tra le chimere di un capitalismo tecno-soft e il ritorno ai fasti del vecchio welfare, buonanima.
Ma la sfida all’ordine del giorno è tutt’altra. Bisogna in prima istanza uscire da una lunga stagione nella quale si è puntato tutto sul motto «lasciar fare la società». Questo imperativo, funzionale agli interessi delle classi dominanti, ai padroni dei mercati (finanziari, innanzi tutto), è stato adottato senza indugi dalla sinistra. Pur nella buona fede. Ci siamo convinti, forse a seguito del trauma mai smaltito del socialismo reale, che il problema delle nostre società fosse la politica e che occorresse liberare le buone energie schiacciate sotto il suo peso eccedente. La politica andava recintata nel ruolo di regolatrice del traffico terrestre: da qui, la sostituzione della parola «governo» con l’inglesismo governance. Questa ideologia forte ed egemonica equivale al suicidio stesso della sinistra ed è stata interpretata paradossalmente anche dai suoi settori più radicali. Quale ne è il risultato? Il Sud è sempre più a Sud. I deboli sono sempre più deboli. Non sono affatto lasciati liberi di condurre il proprio gioco, in condizioni di generale equità. Mettere da parte la politica affinché i giovani precari, le donne, i lavoratori (dipendenti e autonomi) possano auto-organizzarsi ed esprimere il loro potenziale significa semplicemente lasciarli in pasto ai poteri forti, che al contrario sono organizzatissimi e ne fanno un sol boccone. È tutta «erba fresca al defoliante» come diceva il poeta.
Ripristinare l’idea stessa di una «politica organizzata» scrive Tronti deve essere il primo obiettivo di una sinistra che voglia tornare ad essere egemone. Sono i forti a mal sopportare le armature dell’organizzazione. I deboli hanno tutto da guadagnarci. Non è un caso che i bacini elettorali della sinistra si siano spostati rapidamente in questi anni dai quartieri periferici delle città alle vie del centro. Al contrario di quanto recitano le nostre pie illusioni, l’assenza della politica non permette ai deboli di diventare autonomi e protagonisti della scena. Quello che avviene nella realtà è tutt’altro: essi finiscono per consegnare tutte le loro speranze di cambiamento all’uomo della provvidenza che promette il cambiamento totale.
La liquefazione della società determina paradossalmente la solidificazione del potere attorno alla figura del leader carismatico. E un leader senza comunità politica è un pericolo per la democrazia, sempre, anche quando è armato delle migliori intenzioni, anche quando è «di sinistra». Egli non può fare altro che barcamenarsi tra le pressioni degli interessi e delle lobby che si esprimono direttamente, senza mediazioni. Così stando le cose, è impossibile cambiare alcunché. Il leader quando è «buono» non può fare altro che sparare «fuochi d’artificio» (festival, lustrini, best practice ecc.) a simulacro del cambiamento, senza alcuna possibilità di intervenire sui nodi strutturali che strozzano le esistenze delle persone.
La nostra Costituzione assegna ai partiti la funzione di «determinare» la politica nazionale. Ora, noi possiamo pensarla come ci pare sui partiti attualmente esistenti. Ma occorre per lo meno porsi una domanda: se togliamo di mezzo i partiti, chi determinerà la politica nazionale? Altri poteri, organizzati a esclusiva tutela dei propri interessi, non democraticamente sanciti o legittimati solo dal magnetismo carismatico. È per questo che è responsabilità di tutti invadere, occupare i partiti e pretendere che il collettivo torni ad essere sovrano sulla realtà.
Le primarie, soprattutto per come vengono svolte da noi, sono sempre uno strumento ambiguo e portatore in potenza di mille distorsioni. Ma qui siamo di fronte ad una sfida decisiva. Abbiamo l’opportunità di archiviare definitivamente il modello anti-politico e leaderista. Quel modello che tanto danno ha procurato al Paese negli ultimi vent’anni e che ha messo radici anche nel campo della sinistra. Abbiamo da un lato due «individui», che si ripropongono stancamente nel ruolo di supereroi in grado di «salvare il mondo» (come se non ne fossimo già stati ulcerati abbastanza), dall’altro chi promette di restituire lo scettro ad una comunità fatta di persone in carne ed ossa, di riportare il potere e la politica dentro una storia collettiva. Di popolo, ma aliena al populismo. Per questo è necessario dare forza a Bersani. Non a lui, personalmente, ma all’idea di politica che egli incarna. Su questo è necessaria una presa di coscienza da parte di tutti coloro che sostengono un’idea di riscatto dei deboli. Anche di coloro che non si identificano nel Pd e ne trovano timida la piattaforma programmatica, reclamando maggiore coraggio e radicalità. Qui è in gioco la ricostruzione della comunità politica della sinistra, anche di quella che travalica il recinto della coalizione impegnata nelle primarie. Se la sinistra non torna a riconoscersi in una soggettività larga e di ampio respiro, sarà difficile per chiunque coltivare aspirazioni di cambiamento o anche solo trovare un luogo nel quale esprimerle e discuterle collettivamente. Questa è oggi la partita. Al Sud più che altrove.
Renzi è Renzi. Vendola è Vendola. Bersani siamo noi.

Corriere 27.10.12
Il bivio di Vendola e l'idea di Bersani del listone con Sel
di Maria Teresa Meli


ROMA — Antonio Di Pietro si dice sicuro che Nichi Vendola verrà assolto. Pier Luigi Bersani lo invita a non rinunciare né alla politica né alle primarie: «Non voglio neanche pensare a una sua uscita di scena, perché se vanno via le persone perbene, poi chi ci rimane?».
Ma, come rivela il sito «Retroscena.it», molto vicino al mondo del centrosinistra, il governatore della Puglia è assai combattuto. E in effetti il leader di Sel lo ha spiegato allo stesso segretario del Partito democratico: «Non vorrei diventare un peso». Ma per il numero uno del Pd Vendola non è certamente un onere. Anzi. Se non ci fosse lui le primarie, di fatto, si trasformerebbero in un congresso anticipato perché tutti i riflettori sarebbero puntati solo sullo scontro Bersani-Renzi. Ed è esattamente quello che il segretario non vuole. C'è poi un altro elemento che spinge il leader del Pd a sperare che Vendola resti in campo: al ballottaggio potrebbero servirgli i suoi voti per vincere. Anche se questo è l'aspetto che sembra interessare meno Bersani, il quale è convinto, non da ora, che riuscirà a trionfare al primo turno, tanto più che i sondaggi, adesso, segnalano un'inversione di tendenza per lui assai importante: il sindaco di Firenze ha smesso di aumentare vorticosamente i suoi consensi e in tutte le rilevazioni continua a restare distanziato dal segretario.
C'è anche una terza ragione per cui il Pd vorrebbe Vendola alle primarie. L'idea di Bersani, infatti, è quella di avere delle consultazioni molto affollate: «Chi potrà proporre il Monti bis, di fronte a milioni di elettori che partecipano alle primarie per scegliere il loro candidato premier?». C'è poi un ultimo motivo per cui la presenza di Vendola alle primarie sarebbe necessaria. Ha a che fare con una grande operazione politica che il partito democratico vuole mandare in porto: la creazione di una grande lista unica che veda insieme il Pd, Sel e i socialisti di Nencini. E per stabilire quanti posti assegnare al movimento del governatore pugliese in questo listone, che dovrebbe presentarsi alle elezioni di aprile, è indispensabile sapere quale percentuale è in grado di guadagnare Vendola.
Ma il leader di Sel prima di prendere qualsiasi decisione sulle primarie aspetta la sentenza che lo riguarda, prevista per il 31 ottobre. Se venisse condannato, difficilmente risponderebbe di «sì» al pressing del Pd che lo vuole assolutamente in campo, anche perché i sondaggi che lo riguardano sono tutt'altro che buoni, visto che Bersani e Renzi hanno polarizzato la sfida delle primarie. Questo però non significa che Vendola, anche in caso di condanna, abbia deciso di non presentarsi poi ugualmente alle elezioni politiche.
L'obiettivo del partito democratico, dunque, è quello di imbarcare Sel e socialisti, anche se il lavorio a questo riguardo va avanti con grande segretezza. Soprattutto perché nel movimento di Vendola sono molte le voci contrarie al listone con il Pd. Due nomi, tanto per fare un esempio: il bertinottiano Alfonso Gianni e l'ex ds Fulvia Bandoli. Favorevole, invece, l'ex segretario di Rifondazione Franco Giordano. Il traguardo finale del Partito democratico è quello della costituzione di un gruppo parlamentare unico. L'operazione è abile e Bersani si è impegnato da tempo per raggiungere questo obiettivo. L'ideale per il segretario, anche se non si può dire ufficialmente, sarebbe andare con il listone e con il Porcellum, che garantirebbe al centrosinistra 340 deputati. Ma la partita della legge elettorale non si è chiusa definitivamente, sebbene il tempo stringa. Anche con un'eventuale riforma, comunque, l'obiettivo della lista unica non scomparirebbe dall'orizzonte politico del Pd.

Corriere 27.10.12
Vita da Moretti: tweet, passioni (e gaffe) dell'illustre sconosciuta scelta dal leader
di Angela Frenda


MILANO — Ad essere considerata l'Illustre sconosciuta, ci è abituata. Più o meno da quando è stata nominata (a sorpresa) vicesindaco di Vicenza accanto ad Achille Variati, 59 anni, democristiano di lungo corso che oggi veste, accanto a Matteo Renzi, i panni di picconatore del Pd (sul Giornale di Vicenza ha bollato le procedure del suo partito come «riti lessati»). Così oggi Alessandra Moretti, 39 anni, portavoce della campagna per le primarie di Bersani, accoglie con rassegnazione chi, a livello locale e nazionale, la indica come «la Carneade del Pd»: «Suscito invidia per il mio ruolo. Un po' mi sono abituata, ma a volte soffro ancora».
Avvocato, padre ex sindacalista della Cgil, madre insegnante in pensione, sposata con Tommaso, anche lui avvocato, due figli di 6 e 4 anni, Guido e Margherita, la sua biografia ufficiale recita che ha esordito con i movimenti nell'89, prima segretaria donna dell'Associazione Studenti di Vicenza. Laurea in giurisprudenza con tesi in criminologia su «Gli abusi sessuali intrafamiliari ai danni dei minori». Voto: 110 senza lode («partivo da 8 punti in meno, però»). Sgobbona, determinata, irascibile per sua stessa ammissione («ma non porto rancore»), la sua ascesa è cominciata in tv. A un certo punto ha «scalzato» Deborah Serracchiani nelle ospitate: Otto e Mezzo, Ballarò, Piazza Pulita... Moretti (straordinariamente simile a Carol Bouquet) buca il video. Poi, arriva l'investitura di Bersani: «Mi ha telefonato: ci ho pensato, fai tu il portavoce. E io, senza riflettere, ho detto sì. Che potevo fare? È un uomo autorevole dalla straordinaria normalità». Eppure la sua nomina, nel Pd veneto, è letta come uno schiaffo a Variati.
Nuotatrice, gran mangiatrice di pasta al pomodoro, ora è la voce di questa campagna per le primarie. «Troppa violenza verbale, troppa volgarità», lamenta Moretti, e il riferimento è agli avversari. Con Renzi (anche se al Lingotto nel 2009 lo elogiava tra «i volti vincenti» del Pd) non corre buon sangue: «È misogino, costruito a tavolino e maschilista. È uno che quando ti vede ti fa sempre prima un complimento su quanto sei carina, e poi parla di lavoro... A me queste cose mi fanno diventare una iena». Sentimenti che mostra spesso su Twitter, dove è arrivata a litigare con il sindaco di Firenze. Non nasconde di stimare D'Alema («intelligentissimo e simpatico. Quando l'ultima vota ha parlato in tv per difendersi mi sono commossa»), le va riconosciuto lo sdoganamento di Bersani sex symbol («è bello come Cary Grant»).
Twitta, interviene, commenta («Pier Luigi non interferisce mai»). Ammette: «Sono tutti lì ad aspettare che io sbagli...». E infatti c'è già chi ne sottolinea le gaffe. Come quella sull'elogio della cooptazione: criticata dal direttore de La nuova Vicenza in quanto paracadutata, si è difesa con una lettera pubblica in cui invitava a non demonizzare l'uso di questo metodo, anche nel suo caso. Subito attaccata da Mario Adinolfi — «La cooptazione da parte del capo premia le fedeltà e non i talenti» — che su Facebook l'ha definita in romanesco «una de passaggio». La elogia invece Luca Sofri sul Post: «Ha smontato il luogo comune della cooptazione male dei mali». Ma proprio con Sofri, Moretti su Twitter sbaglia il numero dei mandati di Bersani: dice due invece che tre. E l'errore gira in Rete. I renziani poi le contestano una candidatura nella lista «Under 35», alle provinciali 2007, in appoggio al centrista ed ex forzista Giorgio Carollo. Spiega oggi: «Eravamo giovani di sinistra e centro. Abbiamo chiesto ospitalità in una coalizione moderata. Nessun voltafaccia. Sono coerente con le mie idee di sinistra».
Ultimo, il caso della lapide. Agosto 2008: lei era insediata da poco e fece cancellare il nome dell'ex sindaco Enrico Hüllweck (FI) da quella per gli esuli istriani e dalmati apposta due anni prima in una scuola. E giù le accuse di «spoils system da lapide». Si è scusata: «Una leggerezza in buona fede». Intanto il suo look migliora, dicono. «Prima era stile oratorio, ora sembra uscita da uno shooting fotografico». Ma Moretti garantisce: «Col mio stipendio, vesto al massimo da Zara».

il Fatto 27.10.12
Dietro le quinte
“Sel a fine corsa senza Nichi”
di Sandra Amurri


Se Vendola sarà condannato e abbandonerà, come annunciato, la vita pubblica, le primarie per Sel diventeranno un ricordo, ma il partito, pur tra mille difficoltà, continuerà ad esistere”, sospira Fabio Mussi. Un anno e 8 mesi è la richiesta dei pm per Nichi Vendola, candidato alle primarie, accusato di abuso d’ufficio in concorso con l’ex dg della Sanità, Lea Cosentino, per averle chiesto di riaprire i termini del concorso per la nomina a primario del reparto di chirurgia toracica dell’ospedale San Paolo di Bari, affinché potesse partecipare il professor Paolo Sardelli. L’ultima parola tra 4 giorni al gup Susanna De Felice.
NELL’ATTESA Vendola ha già annunciato: “Una sentenza di condanna, sia pure relativamente a un concorso in abuso d’ufficio, per me sarebbe un punto di non ritorno, segnerebbe un mio congedo dalla vita pubblica”. Un’eventualità che per Fabio Mussi, presidente di Sel, sarebbe “una tragedia per la politica tutta: se per ragioni di personale coerenza, visto che Vendola rispetterebbe l’impegno preso, dovesse succedere l’impensabile, sarebbe un danno gravissimo per la situazione in cui versa il Paese. E mi fa piacere che, dalle dichiarazioni che ho letto, in particolare quella di Bersani (‘Se vengono a mancare le persone perbene come Vendola non so dove andremo a finire’), si scopra cosa vuol dire avere una sinistra con la testa sulle spalle”. Cosa ne sarà di Sel senza il suo fondatore e leader indiscusso? “Come dice il primo imperativo morale kantiano – risponde Mussi – fai quel che devi, accada quel che può. Gli effetti si valuteranno. È innegabile però che se dovesse davvero venir meno Vendola il ruolo di Sel ne sarebbe indebolito, ma il partito continuerebbe a esistere. Incrocio le dita e spero che il processo vada per il meglio come lui prevede. Resta che il suo gesto di abbandonare la vita pubblica è un atteggiamento che ci riporta a Socrate che beve la cicuta pur di rispettare il principio della legge, pur convinto di aver subito un’ingiustizia”. Ma le primarie diventerebbero un ricordo: “Certamente. Il candidato alle primarie è Vendola, se lui abbandona è ovvio”, e chiude con una proposta: “Si potrebbe pensare a una seria legge sulla corruzione adottando il codice Vendo-la: sono innocente, mi difendo nel processo, chiedo il rito abbreviato, non punto alla prescrizione, se vengo condannato esco dalla vita politica e continuo a difendermi come comune cittadino. Ecco, credo che applicato alla classe dirigente politica, bancaria, finanziaria, amministrativa saremmo a tre quarti dall’obiettivo di restituire dignità e credibilità a questo Paese”.
CHI L’IPOTESI di una condanna non vuol prenderla in considerazione è Gennaro Migliore, nella segreteria nazionale di Sel: “Non c’è un piano B, per me esiste solo la sua innocenza perché l’onestà, il rigore morale, appartengono al suo stile di vita privato e politico. Sono orgoglioso di militare nel partito di Vendola. Non stiamo mica parlando di Berlusconi, condannato a quattro anni e mezzo, che si è sempre difeso dal processo con leggi ad personam”. La musica non cambia per Nicola Fratoianni, assessore della giunta Vendola e capo del comitato per le primarie: “Non sono affatto sorpreso della decisione di Nichi”; e alla domanda “cosa resterà del partito e quali effetti avrebbero le sue dimissioni da Presidente della Regione in caso di una condanna? ”, taglia corto: “È un terreno su cui non voglio neppure mettere piede”. Per Franco Giordano, ex numero 2 di Rifondazione, ora nella presidenza nazionale di Sel, “la sua decisione prova di che pasta è fatto. Lo conosco da quando avevo 14 anni. Ci sono poche persone in politica su cui metterei la mano sul fuoco e la prima è Vendola. Sono convinto della sua innocenza”. E quando gli chiediamo se, nell’ipotesi che venga condannato, il partito si liquefarà ci consegna una risposta degna di una narrazione vendoliana: “Sel ha l’anima di Nichi e l’anima non muore mai”.

Repubblica 27.10.12
I nemici dell’anticorruzione
di Massimo L. Salvadori


Alla domanda su quale sia la prima qualità di cui necessita oggi chi aspira a governare in Italia, Bersani ha risposto in una recente intervista che è l’onestà. La risposta è pertinente e giusta, ma il messaggio che comunica è bruttissimo, poiché mette in piena luce come la crisi della Seconda repubblica si consumi nel quadro di una drammatica condizione dell’etica pubblica provocata dalla corruzione: eretta a sistema, penetrata massicciamente nel corpo del paese, invadendo insieme, con intrecci perversi, società politica e società civile. La corruzione di cui sono portatrici le organizzazioni mafiose è naturalmente gravissima, ma coerente con il motore che l’alimenta e gli scopi che persegue. La corruzione legata a interessi privati intesi a prevalere sulle leggi è una patologia presente in misura maggiore o minore sempre e dovunque, e anch’essa è coerente con la sua propria natura. Ma la dilagante corruzione pubblica nel nostro paese – messa in atto da governanti, rappresentanti del popolo, funzionari il cui compito è di rispettare e far rispettare la legge e anche da finanzieri, poliziotti e magistrati infedeli – ha raggiunto un picco eccezionale, diventando un cancro che divora le fibre profonde della società, con danni tanto morali quanto economici. Questa è la corruzione che vede coloro che dovrebbero essere i paladini del buon governo e della legalità diventarne gli affossatori.
Purtroppo, come noto, l’Italia si presenta come uno dei paesi più corrotti del mondo,
dove le forme della corruzione criminale, privata e pubblica si sono saldate in un unico sistema, causando un’“emergenza” che fa una cosa sola con lo stato comatoso dei partiti. Esiste però una terza forma: “la corruzione della mentalità”, penetrata in troppa gente, fatta di insensibilità o decisamente di disprezzo verso le regole, alimentata dallo spettacolo del malaffare dei poteri pubblici, tesa a mettere a profitto la debolezza dei controlli e la disponibilità di molti controllori ad accettare o imporre piccole o grandi mazzette. La Seconda repubblica, come ha osservato il ministro Severino, è minata dalla corruzione in una misura che è forse maggiore di quella che ha determinato la fine della Prima repubblica.
I numerosi scandali esplosi a catena e culminati nella Regione Lazio e nella Regione Lombardia suggeriscono considerazioni circa la tipologia della corruzione pubblica, sulla quale è opportuno soprattutto soffermarsi.
Nel comporla, alla “corruzione attiva” — propria dei soggetti che, sfruttando le istituzioni, rubano sfacciatamente e impunemente fino a che non vengono scoperti con le mani sul malloppo — si affianca la “corruzione passiva”, che è propria di quanti assistono al sacco d’Italia in una posizione di dormienti partecipando comunque ai benefici della spartizione di abnormi somme di danaro senza alzare un dito, per poi levare la voce quando emergono gli scandali e dirsi soltanto allora disposti a rivedere le regole e a ridurre le erogazioni, le spese e gli stipendi sproporzionati. Le dimissioni presentate dai consiglieri di opposizione alla Regione Lazio quando Fiorito è stato messo sotto accusa hanno costituito un caso esemplare di tale atteggiamento, che priva di credibilità i tardivi risvegli nei confronti degli artefici della corruzione attiva. Diciamo pure che i moralizzatori a scoppio ritardato e in uno stato divenuto di necessità screditano se stessi.
Combattere la corruzione è diventata una parola d’ordine sulla bocca di tutti. Si ripete il copione di Tangentopoli dell’inizio degli anni Novanta. Il che solleva l’interrogativo: ma come è potuto accadere che dopo la Tangentopoli Uno si sia arrivati alla Tangentopoli Due? Ebbene: la prima ragione è che usciamo dal ventennio berlusconiano in cui il Cavaliere – coinvolto in eloquenti processi con l’accusa di essere un grande corruttore – , il personale di cui si è circondato, il loro squalificante stile di vita, hanno fatto strame dell’etica pubblica. Essi sono stati i responsabili più attivi, il principale concime, il centro diffusore dinamico che ha portato alla seconda Tangentopoli: praticando l’illegalità e inneggiando alla bellezza del fare gli affari propri, alla capacità di accumulare danaro magari con l’eludere il fisco, al conseguimento della ricchezza come segno del merito benedetto e al successo perseguito per via clientelare e addirittura sessuale. Tutto ciò ha sempre più inquinato la mentalità di tanti che cantavano entusiasti «meno male che Silvio c’è». E a fronte di ciò vi è stata la debolezza delle forze di opposizione politica al berlusconismo, anch’esse apertesi all’inquinamento.
La disfatta del Cavaliere ha portato alla guida del paese un governo impegnato a varare finalmente nuove misure anti-corruzione, in lotta ogni giorno con gli ostacoli frapposti dai vecchi volti del potere, i quali, non potendo più impedirle, si adoperano nondimeno per porre pro domo sua freni e limiti. Il governo difende quanto ottenuto; ma il testo in materia approvato al Senato solleva un mare di critiche giustificate. Incombe insomma il pericolo che gli amici della corruzione riescano per aspetti importanti a imbrigliare la stessa legge fatta per combatterla e a indebolirne gli effetti. La partita è ancora in corso e dal suo esito dipenderà largamente il destino del paese. Vorrei a questo punto riportare le parole con cui Alessandro Galante Garrone aveva concluso il suo memorabile saggio L’Italia corrotta 1895-1996. Cento anni di malcostume politico: «Proprio come aveva scritto, nella sua ultima lettera prima della fucilazione, il partigiano diciannovenne Giacomo Ulivi: “Dobbiamo rifare noi stessi”. È questo il nostro filo di speranza: l’obbedienza al comandamento; dobbiamo rifare noi stessi».

Corriere 27.10.12
Diffamazione, il Pd tentato dallo stop
“Meglio le norme attuali della vendetta anti-giornalisti”. Lunedì sit-in della Fnsi
di Liana Milella


ROMA — Potrebbe arenarsi già lunedì pomeriggio il ddl sulla diffamazione. In aula al Senato. Giusto mentre, pochi metri più in là, in piazza del Pantheon, i giornalisti si raccolgono per un nuovo presidio promosso dalla Fnsi. Perché «è meglio lasciare in vigore la brutta legge attuale, persino carcere incluso ma affidato ai giudici saggi, se la riforma dev’essere ispirata a propositi di vendetta contro un’intera categoria». In effetti è proprio questo il rischio concreto, come s’è profilato nelle sedute di mercoledì e giovedì quando una nutrita pattuglia trasversale — quasi 80 senatori tra Pdl e Pd con netta prevalenza Pdl — ha cercato di superare qualsiasi intesa sia politica che tecnica per ottenere, in mancanza della cella, multe a cinque zeri e un’interdizione pesantissima dalla professione.
Il rischio già corso si può ripresentare identico. Franchi tiratori che non obbediscono ad alcuna direttiva di partito, ma ascoltano solo il richiamo della pancia, e mirano solo a vendicarsi della stampa. Difficile per i capigruppo avere certezza che, nel voto segreto, gli accordi vengano rispettati. Per questo, mentre il capogruppo Pdl Gasparri fa mostra di ottimismo ed è convinto che si andrà avanti, nel Pd si fa strada come prioritaria l’idea che sia meglio rinviare tutto in commissione per trovare lì un accordo duraturo. O comunque, a quel punto, per mettere questa brutta legge sul binario morto.
Gli umori, del resto, restano sempre identici. Basta leggere quanto scrive Rutelli, il fondatore dell’Api, già protagonista in aula di un intervento fortemente antistampa. Eccolo dire: «Occorre evitare che la legge salva-Sallusti diventi un via libera alla diffamazione facile. Togliamo il carcere, salviamo Sallusti, ma non passiamo a sanzioni ridicole, saremmo l’unico Paese che lo fa». Da un ex radicale ed ex Pd all’ex Guardasigilli Pdl Palma. Stessa musica: «La sanzione pecuniaria deve avere una sua consistenza». Identico mood per Mugnai (Pdl): «Perché le testate on-line dovrebbero ricevere un trattamento diverso rispetto a quelle cartacee?». Il capogruppo alla Camera Cicchitto soffia sul fuoco della repressione e descrive «la cosiddetta casta della politica scientificamente massacrata».
Nasce da qui la preoccupazione, anch’essa trasversale, che il voto in aula possa riservare sorprese perché non c’è accordo che tenga se la convinzione di una settantina di senatori tra Pdl e Pd, quelli che hanno già affondato l’intesa sugli editori, è quella che ai giornalisti vada data una lezione. Questo spinge il capogruppo Pd Finocchiaro a confessare: «Ho assistito a una degenerazione della discussione in Senato». Poi l’obiettivo della nuova legge: «Stiamo provando a convertire la pena del carcere in una pecuniaria ». Quindi niente cella, sì alle multe, ma contenute fino a 50mila euro. Che resta una cifra altissima, visto che ci sono colleghi nelle redazioni che lavorano un intero anno senza neppure raggiungerla.

La Stampa 27.10.12
Bonanni: siamo noi la maggioranza silenziosa e nazional-popolare
“Casini non ha nulla da preoccuparsi, so che è interessato”
La Cisl L’associazione sindacale moderata è tra i firmatari del manifesto lanciato da Luca di Montezemolo
di Carlo Bertini


«I tempi sono maturi per la nascita di un’aggregazione nazional-popolare che interpreti il sentimento della maggioranza silenziosa degli italiani: favorevole a larghe intese che consentano di proseguire l’esperienza del governo Monti». Raffaele Bonanni è infastidito dalle polemiche che hanno accompagnato l’uscita del Manifesto lanciato con Italia Futura, perché «non è il momento dei personalismi e di eccessi di protagonismo, altrimenti questa offerta politica non decollerà. Tutti devono avere un comportamento più sobrio, più capace di convergenze e di tolleranza, se vogliamo essere utili al paese».
Questo manifesto è la premessa per la nascita di un nuovo partito di centro o di unalista benedetta da Monti?
«A me interessa rigenerare un dibattito stantio che deve ripristinare un minimo di interesse dei cittadini nella politica. Poi chi deve candidarsi farà il resto, io non mi candiderò perché la Cisl deve rimanere autonoma dalla politica. Ma bisogna superare questa situazione in cui c’è una parte rilevantissima di elettori che si astiene: se la politica si indebolisce viene meno la democrazia e aumentano populismi e demagogie che sono i veleni peggiori nelle arterie del paese».
Si levano però voci critiche: Oscar Giannino di “Fermare il declino” ritiene che lei e Italia Futura siate partiti male. Poi è significativo che in calce al documento non vi siano le firme di Marcegaglia, Abete edi altri protagonisti del forum di Todi...
«A me risulta che siano tutti interessati. È noto che io ritengo deleteria per il paese ogni espressione di populismo, di destra o di sinistra. Spero che chi soffia sul fuoco e aspira a dare un contributo, non si comporti come quelle forze che hanno fallito, non usi un linguaggio esasperato e rifugga dalle contrapposizioni e dai personalismi. Chi vuole firmare un appello con me, lo sa che mi sta a cuore la coesione sociale e la ridefinizione di un welfare moderno, che sappia però dare sostegni alle realtà più deboli. Insomma, io non sono un liberista, ma un solidarista e per me la via è quella indicata dalla dottrina sociale della Chiesa, di una collaborazione forte tra lavoratori e imprese».
Lei ritiene che qualcuno sia preoccupato da questa operazione? Casini forse teme di perdere il controllo dell’area centrista?
«Nessuno deve temerla, se si hanno a cuore obiettivi condivisi. Possono essere preoccupati coloro che vogliono gestirsi gli ultimi cascami di rendite di posizione derivanti dalla seconda Repubblica; e altri poteri oligarchici auto-referenziali che hanno fatto solo danni. Casini non ha nulla da preoccuparsi e so che è molto interessato al progetto, tant’è che vede bene l’apertura di un dibattito nella società civile».
Ma si può dar vita ad una grande lista unitaria che raggruppi tutti questi mondi?
«Che ci debba essere una semplificazione del quadro politico è indubbio, per quanto riguarda le forme e gli strumenti, le indicheranno coloro che vorranno candidarsi. E non è un male che alcune personalità preferiscano non candidarsi in prima persona: denota una grande insofferenza rispetto alla situazione attuale; ma anche che si debba fare spazio a chi ha il coraggio di prendere il testimone e sia all’altezza delle sfide. Ciò rende ancora più nobile il progetto».
Questo polo nazional-popolare soffre la mancanza di una leadership legittimata dal basso? Anche voi avete bisogno del bagno rigeneratore delle primarie?
«E’ importante che vi siano tante persone che vogliano provocare una scossa. Che condividano il fatto che l’azione di Monti, per esser ancora più efficace nel 2013, abbia bisogno di un grande sostegno politico. Ma la situazione del paese è talmente complessa e il grado di fiducia rispetto alla politica è così basso che non si può risolvere con le primarie. Che risolvono solo problemi interni ai partiti e non degli italiani, visto che la metà degli elettori non andrà a votare».

Corriere 27.10.12
Il ministro Andrea Riccardi e il centro cattolico «Movimento, non partito»
l Manifesto di cattolici e moderati «Verso la Terza Repubblica»
Le firme? Speriamo se ne aggiungano Alle elezioni ci prenderemo le nostre responsabilità
di Roberto Zuccolini


Ministro Andrea Riccardi, come nasce l'idea del Manifesto «Verso la Terza Repubblica», di cui lei è uno dei più convinti promotori?
«Nasce dalla conversazione tra persone appartenenti a mondi diversi. Da Raffaele Bonanni e me, che ci interroghiamo da tempo sulla crisi della politica, da Montezemolo che ha lanciato il movimento Italia Futura a un esponente della giovane generazione, come il presidente delle Acli Andrea Olivero, a un uomo delle autonomie come il presidente della Provincia di Trento, Lorenzo Dellai. Un manifesto in cui vive l'innesto di una cultura laico liberale con quella cattolica e che raccoglie tante istanze che salgono dalla società civile e dal mondo produttivo».
Che cosa non ha funzionato nella Seconda Repubblica?
«La crisi è evidenziata da tanti fatti. Ne cito uno: l'immensa ondata dell'antipolitica che continua a essere sottovalutata, perché non basta chiudersi dietro le porte del Palazzo per fermare la delegittimazione popolare. È finita una stagione fatta troppo spesso da antagonismi e partiti emozionali e personali. Non che tutto sia da buttare, ma credo che a chiudere oggettivamente questa fase sia stata la scelta responsabile nel novembre scorso anche dei tre maggiori partiti quando hanno sostenuto il governo Monti».
Che cosa rappresenta l'area che si raccoglie attorno al vostro Manifesto? Volete fare un nuovo partito?
«Come per un tic, per un riflesso condizionato, si dice che questo è il partito di Montezemolo, di Bonanni o di Riccardi. Si tratta invece di uno spazio civico che non è personalizzato in un leader, ma che si offre come un movimento di idee: c'è proprio bisogno di idee in una stagione in cui la passione civile sembra ridotta e gli ideali diminuiti, come emerge dalla vicenda della nuova tangentopoli. E la nuova legislatura non deve essere il trascinamento dell'attuale, ancor più assediata dall'antipolitica, ma una stagione costituente in cui ripensare la costruzione del sistema e ravvivare lo spirito del Paese. Dobbiamo tenere insieme crescita e solidarietà, naturalmente nel rigore necessario».
Prima o poi però dovrete fare i conti con l'Udc di Casini che è da lungo tempo al centro degli schieramenti politici.
«Si deve riconoscere a Casini il merito di avere tenuto aperto uno spazio nella tenaglia del bipolarismo. Oggi sono saltate tante categorie politiche. Occorre saper interpretare una stagione nuova e diversa».
Dialogando più con il centrodestra che tenta di rinnovarsi o con il Pd delle primarie?
«Per un movimento di società civile come il nostro il problema non sono ora le alleanze ma la cultura politica e le idee. Il nostro è un manifesto per l'Europa perché la sua crescita e la sua unione sono una discriminante decisiva per affrontare non solo la crisi, ma i futuri scenari della globalizzazione. Senza Europa decliniamo nell'irrilevanza o in pericolosi populismi. Politicamente ci accomuna la convinzione che l'esperienza governativa di Mario Monti non sia il tramonto della Seconda Repubblica, ma la premessa e l'ispirazione di una legislatura costituente con riforme incisive. Per questo parliamo di agenda Monti e del ruolo che il presidente potrà giocare in futuro».
Le elezioni sono però vicine e prima o poi bisognerà fare delle scelte.
«La nostra è una lettera di invito a un momento di incontro, proponendo alcuni pensieri per inaugurare una nuova stagione della Repubblica. L'appuntamento di metà novembre non è la creazione di una lista elettorale. È la confluenza di idee e speranze per far rinascere la passione civile per la politica. Naturalmente le elezioni sono vicine e, al momento opportuno, coloro che aderiscono si prenderanno le loro responsabilità».
Dalla lista di chi ha già firmato il Manifesto mancano alcune personalità che hanno dialogato nelle ultime settimane con la vostra area, come Emma Marcegaglia e Oscar Giannino.
«È auspicabile che si aggiungano nuove firme. Certo, pensando all'Italia sono auspicabili molte altre adesioni, ma sono colpito dal fatto che in un solo giorno ne sono state raccolte 1.500».
Non c'è comunque una grande incognita al vostro percorso, che si chiama Porcellum? Se non cambia la legge elettorale non sarà difficile creare uno spazio politico per il centro?
«Alcuni sostengono che prima di prendere l'iniziativa bisogna aspettare che si sciolga il nodo della riforma elettorale. Ma la passione politica non può restare prigioniera di tatticismi vecchia maniera. Il Paese reclama a gran voce il cambiamento del modo di fare politica a partire dalla legge elettorale, lo stesso auspica da tempo il capo dello Stato. Disattendere questa richiesta sarebbe dare ragione all'antipolitica».
Roberto Zuccolini

l’Unità 27.10.12
Al liceo Giulio Cesare allontanata l’Anpi
Dopo il raid di Blocco studentesco era stato organizzato ieri un sit in dell’Associazione partigiani
Ma alcuni ragazzi hanno contestato: «Ci dissociamo, no a colori politici...». Per fortuna molti si sono ribellati
di Mario Castagna

Dopo i blitz «futuristi e dannunziani», come sono stati definiti dai dirigenti di CasaPound, arriva nelle scuole della Capitale la risposta delle forze democratiche alle incursioni degli scorsi giorni. Di fronte a diverse scuole, dal Benedetto Croce all’Isa Roma 2, dall’Aristofane al Giulio Cesare, l’Associazione nazionale partigiani italiani insieme alla Federazione degli studenti ha effettuato dei presidi e distribuito volantini per ribadire ancora una volta che nessuna forma di fascismo può essere accettata. Spiega Dario Costantino, portavoce della Federazione degli Studenti: «Siamo stati davanti alle scuole di Roma a presidiarle contro l’arroganza fascista troppo spesso coccolata, per vergogna o simpatia, dal sindaco Alemanno».
Qualche tensione, però, c’è stata al liceo Giulio Cesare, dove si svolgeva il sit in più importante della giornata, quando un gruppo di studenti dell’istituto ha cercato di allontanare i partigiani e gli studenti impegnati nella protesta pacifica. «Ci dissociamo da questa iniziativa spiegavano gli studenti contrari al sit in dell’Anpi perché la nostra protesta non ha colore e la scuola ce la difendiamo noi come studenti, non vogliamo essere strumentalizzati». Una contestazione in qualche modo ridimensionata da Tommaso Berardi, che frequenta il Russel e che era fra gli organizzatori della giornata di ieri: «Sono stati molto più numerosi gli studenti che hanno preso i nostri volantini che quelli che li hanno rifiutati e i partigiani non sono stati cacciati». Una versione che collima con quella resa dall’Anpi che ha sottolineato che «il presidio si è svolto pacificamente e regolarmente fino alla sua conclusione».
In ogni caso, quello andato in scena al Giulio Cesare, è un segnale del clima che si respira in questi mesi nelle scuole superiori romane dove le formazioni di estrema destra hanno guadagnato consensi e rappresentanza. Una tendenza che, però, non appartiene soltanto alla Capitale. Due sono le formazioni più attive nel panorama nazionale. La prima, Blocco Studentesco, è legata al movimento CasaPound che, partito dal primo centro sociale di ispirazione fascista occupato a Roma nel 2003, è arrivato ad avere una rete ormai estesa su tutto il territorio nazionale. La seconda formazione, spesso in competizione con Blocco Studentesco, è invece Lotta Studentesca, movimento nato da una forza partitica tradizionale di estrema destra come Forza Nuova.
Ma il sentimento antipartitico di queste formazioni è soprattutto di facciata visti i rapporti che hanno saputo costruire negli ultimi anni con la destra istituzionale. Anche per questo ieri studenti e partigiani hanno voluto ribadire a gran voce che l’antifascismo è caratteristica fondamentale della nostra Costituzione.

l’Unità 27.10.12
Questa Roma di Alemanno che «non vuole saperne...»
E a scuola c’è chi contesta l’Anpi
di Vittorio Emiliani


È SUCCESSO IN UN LICEO ROMANO, IL “GIULIO CESARE”, È SUCCESSO NELL’OTTOBRE 2012 E FA MOLTA IMPRESSIONE. Gruppi di squadristi lasciati impunemente crescere nella degradata Roma di Alemanno (attorniato da una selva di saluti romani il giorno in cui fu eletto sindaco), stanno compiendo spedizioni dimostrative a base di fumogeni, striscioni, slogan fascisti in varie scuole superiori, condendo il tutto con forme di protesta contro la riforma della scuola.
Ieri l’Anpi che fa un’opera più che meritoria di diffusione della memoria antifascista fra i giovani si è presentata con lo striscione «Ora e sempre Resistenza» al “Giulio Cesare” pensando di schierarsi a fianco degli studenti che protestano contro queste violenze destinate a preparare (lo si dice apertamente) la celebrazione, nientemeno, del 28 ottobre, 90° anniversario della marcia su Roma, resa della monarchia e fine della democrazia prefascista. Ma il presidio del liceo non ha voluto l’Anpi al proprio fianco. La nostra hanno spiegato è una protesta contro le misure a danno della scuola pubblica, «non vogliamo che sia politicizzata. E la scuola ce la difendiamo da noi».
E così gli esponenti dell’Anpi hanno dovuto attestarsi col loro striscione sul marciapiede opposto. Lo slogan «qui non si fa politica» è uno dei più ipocriti e dei più pericolosi, specie quando l’onda dell’anti-politica rischia di giungere a livelli mai visti, forse, dal ’45, dalla Liberazione del Paese dal nazifascismo.
Non fare politica o non discuterne è il miglior modo per lasciarla fare agli altri. A quelli che puntano come i gruppuscoli squadristi in azione a Roma (e non solo, purtroppo) a soffocare la libertà di pensare e di votare con la propria testa. Mettere l’Anpi sul piano di una forza partitica da tenere ben lontano dalla scuola vuol dire non sapere o non voler sapere che la nostra Costituzione, così convintamente liberale (basta rileggersi l’articolo 21 sulla libertà di espressione) viene dritta dalla Resistenza. Alla quale parteciparono donne e uomini di tutte le correnti politiche e culturali.
«No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere», esortava i propri coetanei uno studente di 19 anni, Giacomo Ulivi, prima di venire fucilato il 10 novembre 1944 a Modena dai fascisti. Un’esortazione attualissima da dedicare a tutti gli italiani: questa pesantissima crisi politica ed economica non è forse avvenuta anche perché troppi italiani come questi liceali «non ne vogliono sapere» della politica, vogliono anzi (cito ancora Ulivi) «allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica»?

il Fatto 27.10.12
Faccette nere. Crescono i fedeli della nuova destra
Il Blocco studentesco e la via segnata da casa Pound
I ragazzi che alla Play Station preferiscono le cinghie
di Paola Zanca

Hanno studenti che entrano nelle scuole incappucciati per protestare contro l'istruzione privata e pure contro chi invita a parlare i partigiani. Hanno ambientalisti che buttano vernice contro il coccodrillo e le pellicce nelle vetrine dei negozi di lusso. Tra i loro eletti c’è il figlio del sindaco di Roma, che in vacanza in Grecia saluta con il braccio destro alzato. A Casa Pound – nata a Roma, ora esportata in tutta Italia – offrono assistenza legale, medica, abitativa (previa dimostrazione del pedigree nazionale). Adesso hanno pure il sindacato: si chiama “Blu: blocco unitario lavoratori”. Si sentono “lo scudo e la spada di un popolo tradito, umiliato, venduto”. Ce l'hanno con “l’immigrazione di massa”, “la società multirazzista”, “le lobby sociali”, “il cosmopolitismo progressista”. La loro è “una politica di respiro identitario”, ma guai a chiamarli xenofobi: sono pronti ad andare allo scontro “se ne va della nostra sopravvivenza politica e fisica”. Mazze, caschi e spranghe ferrate si sono visti a Roma, nel quartiere Casalbertone. Hanno menato durante una manifestazione a piazza Navona, quattro anni fa. Sono entrati negli uffici della Rai per protestare contro Chi l'ha visto che aveva mandato in onda le loro facce. Uno di loro, Zippo, è finito in carcere per aver assalito dei ragazzi del Pd che attaccavano manifesti. E l’ultimo “schiaffone futurista” è volato contro il finiano Filippo Rossi, un vecchio amico che non riconoscono più. Ora sono tornati a farsi vedere. Ecco chi sono le giovani leve che vogliono “riprendersi tutto”. E, adesso che arrivano le elezioni, por-tarlo rigorosamente a destra.
Le prime leve
Blocco studentesco nasce nella Capitale, tra studenti che frequentano le scuole “bene” della città: il Visconti, il Cavour, il Farnesina. Capello corto per i ragazzi, testa mezza rasata per le ragazze con rigorosa frangetta liscia. Anfibi e bomber resistono al passare delle mode, ma non sono più un tratto distintivo dell’abbigliamento neofascista che in verità è molto più casual e conformista di quanto si possa immaginare. E nemmeno il nero, basta guardare le foto di questi giorni, è l’unico colore nei loro armadi.
Stile littorio
Negli slogan la tradizione resiste decisamente di più: “Giovinezza al potere”, è il grido di battaglia degli studenti di destra che riprendono il titolo dell’inno del partito unico di Benito Mussolini e lo usano per chiedere più rappresentanza studentesca nei consigli d’istituto. Tre giorni fa, in un istituto tecnico di Foligno hanno preso 406 voti su 608. I loro striscioni sono tutti rigorosamente scritti in font stile littorio, quello dei palazzi del ventennio. Recitano: “Assalta il futuro”, “La ricreazione è finita”, “Ora o mai più”.
I nemici
Per indicarli, hanno stampato un manifesto apposta. “I nemici del Blocco”, dunque sono: “Il secchioncello figlio di papà che ha paura della vita”. I “professori sessantottini: stanchi, frustrati, perbenisti” che “per riempire la loro vita vogliono la gogna degli studenti liberi”. Infine i “giornalisti” e la “repressione”, inspiegabilmente accomunati dalla voglia di “creare mostri per difendere il sistema sbagliato delle cose”.
Mattanza e libro unico
In linea con lo “spirito identitario ” della loro politica, sognano una scuola dove ci sia un “libro di testo unico”, dove si prevedano “borse di studio nazionali” e dove si ridia spazio alla “ginnastica” e alla “natura”: “escursioni in campi montani e marittimi” per ogni stagione, aumento delle ore di educazione fisica del 150 per cento. “Mens sana in corpore sano”. Tra le discipline in voga c’è la “cinghiamattanza” (“lotta di strada”, “caciara costruttiva” il combattimento a colpi di cinghia). Per i più tradizionalisti, c’è anche il “calciomattanza”, alternativa “al pomeriggio davanti alla playstation e all'idea del calciatore-modello”. Loro i pomeriggi preferiscono passarli così.

il Fatto 27.10.12
Le curve ultrà-razziste
Svastiche, spaccio, violenza. Non di rado tollerate dalle società di calcio
di Luca Pisapia


Pezzo di merda, Morosini pezzo di merda”. L’orrendo coro che i tifosi scaligeri hanno riservato durante Livorno-Verona alla memoria di Piermario Morosini, lo sfortunato calciatore deceduto a primavera con indosso la maglia amaranto del Livorno, è solo l’ultimo di una lunga serie di sintomi che certifica la malattia terminale del tifo e delle curve italiane. Rimanendo a Verona, questo non è certo il primo episodio vergognoso di cui si rende protagonista la nuova generazione di ultrà, nata dopo lo scioglimento della maggior parte dei gruppi organizzati nelle curve degli stadi italiani. Se già le dissolte Brigate Gialloblù si connotavano per l’appartenenza all’estrema destra e il razzismo – soprattutto nei confronti dei napoletani, con cori e striscioni tipo “Vesuvio pensaci tu”, cui i partenopei risposero con il memorabile “Giulietta è ‘na zoccola” – i loro eredi, quando l’allora presidente Mazzi era in procinto di acquistare il giocatore nero Ferrier, si presentarono con un manichino nero impiccato in curva sopra la scritta “Dagli lo stadio da pulire”. In egual modo pochi anni prima si comportarono a Udine per l’acquisto dell’israeliano Rosenthal. Tra svastiche e scritte sui muri come “Rosenthal nel forno”, la società friulana decise di fare retromarcia. Una rottura del contratto che anni dopo un tribunale considerò illegittima, obbligando l’Udinese a risarcire il giocatore. Ma i club sono spesso compiaciuti di essere ostaggio dei presunti ultrà, cui regalano biglietti e soggiorni per le trasferte, consentono il commercio di prodotti col marchio sociale e chiudono un occhio su quello di materiale contraffatto.
PER NON parlare dello spaccio, altro grande business del tifoso ‘duro e puro’ e causa di molti scazzi all’interno delle stesse curve. In cambio degli occhi chiusi su questi piccoli affari, le società ottengono il controllo delle curve, la possibilità di gestire le contestazioni a loro piacimento, e di allontanare i tifosi dissidenti con la linea societaria. Poi c’è la politica. I primi gruppi organizzati nascono negli anni della contestazione e si dividono tra opposte fazioni. Anche i gemellaggi tra le tifoserie seguono il credo politico, e negli anni Settanta e Ottanta gli scontri tra ultrà e gruppi extraparlamentari sono un’unica cosa. Con la nascita delle pay tv e la caduta del socialismo, comincia la barbarie: ovvero il riflusso, certificato dallo spostamento all’estrema destra di alcune storiche curve rosse. A Roma c’è la scomparsa dei Cucs (Commando Ultrà Curva Sud, di sinistra) e la presa del potere da parte di gruppetti che si dicono apolitici ma gravitano nella galassia dell’estrema destra capitolina. Caso analogo a Milano, dove la scomparsa di Fossa dei Leoni e Brigate Rossonere ha avvicinato nelle affinità elettive e politiche una curva tradizionalmente di sinistra come quella rossonera ai cugini interisti. E ora anche la Curva Sud milanista espone simboli che si rifanno a Forza Nuova o Terza Posizione. Dalla fine degli anni Ottanta poi, alla questione meridionale si è aggiunta quella etnica e razziale. Da “Milanisti ebrei, stessa razza stessa fine” (Curva Nord interista in un derby del 1986, poi anche un coro) a “Hitler: prima gli ebrei oggi i napoletani” (sempre interista, 1989). E a certificare la svolta a destra di Roma ecco che a “Squadra de negri, curva de ebrei” (Curva Nord della Lazio, 2001) risponde il “Lazio-Livorno: stessa iniziale, stesso forno” (Curva Sud della Roma 2006). Qui dovrebbe intervenire la legge. Invece nulla, nonostante l’articolo 62 delle Norme Organizzative Interne della Figc preveda la possibilità per l’arbitro, o per il responsabile dell’ordine pubblico allo stadio, di sospendere la partita in caso di cori o striscioni oltraggiosi.
ALLO STESSO modo, la legge 41 dell’aprile 2007, che proibisce di esporre negli stadi simboli politici, sembra abbia avuto effetto solo con le oramai introvabili falci e martello, o con l’icona del Che, dato che gli stadi sono domenicalmente invasi da celtiche e svastiche, per cui esisterebbe anche il reato di apologia di fascismo. Il problema non riguarda solamente il tifo dei club, ma anche della Nazionale, il cui tifo organizzato è nelle mani dei neonazisti di Ultras Italia: famosi per striscioni come “No alla nazionale multietnica” e per cori come “Non esistono negri italiani” o “Se saltelli muore Balotelli” (il cui copyright è delle curve di club, e il disco d’oro degli juventini che ne facevano il loro inno negli anni in cui Balotelli era interista). Ci si potrebbe chiedere perché la Figc almeno lì non intervenga, ma poi si scopre che è lo stesso capitano della Nazionale Buffon ad aver scelto il numero 88 (la famosa sigla neonazista per la doppia H di Heil Hitler) e a essersi presentato in televisione con la maglia con su scritto a pennarello lo slogan fascista “Boia chi molla”. Ed è sempre Buffon, in compagnia di Pirlo e De Rossi, che per festeggiare la vittoria ai Mondiali del 2006 sventolava un tricolore con una celtica in bella vista. Se le curve sono malate, in campo i giocatori non si sentono certo molto bene.

il Fatto 27.10.12
Lazio, il governo vuole elezioni subito
Il Consiglio dei ministri “auspica” le urne entro 90 giorni, ma Polverini ha altri piani
di Alessio Grossi


Il governo “auspica” elezioni nel Lazio entro fine anno, ma la Polverini non ci sente. È la sintesi dell’ennesima giornata di polemiche sulla data delle prossime Regionali. Ad aprire il diluvio di reazioni, una nota del Consiglio dei ministri: “Il Consiglio ha formulato l’auspicio che le elezioni per il Consiglio regionale del La-zio siano fissate dal Presidente della Regione al più presto, in armonia con il parere espresso dall’Avvocatura Generale dello Stato: 90 giorni dallo scioglimento del Consiglio”. Ovvero, il termine dei 90 giorni fissato dalla legge regionale dovrebbe essere interpretato come scadenza per lo svolgimento, e non per la convocazione, delle elezioni.
Questa la linea del governo, già illustrata dal Viminale all’ex governatore Renata Polverini. Dopo le dimissioni del 27 settembre scorso, è stata la stessa Polverini a chiedere più volte consigli al ministero dell’Interno, da dove le hanno “suggerito” di fissare il voto per il 16 dicembre. La stessa data invocata da tutto il centrosinistra e dalle associazioni produttive.
MA LA POLVERINI, che ha l’ultima parola in merito, ha altri piani. E ieri ha fatto trapelare di pensare a una data tra fine gennaio e inizio febbraio, con elezioni “non più per 70 ma per 50 consiglieri” (altro tema dibattuto). Il decreto di convocazione del voto verrebbe emanato a metà novembre. Numeri che ballano sul filo di norme e interpretazioni, e sui quali cui da un mese centrosinistra e Polverini litigano a gran voce.
A sostegno dell’ex governatore, gran parte del Pdl (diversi ex An sono per il voto a dicembre) e l’Udc, mentre Storace (La Destra) vuole subito le urne. Proprio come il centrosinistra, che ha già un candidato, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti. “Il pronunciamento del governo è chiarissimo, bisogna andare a votare al più presto, il Consiglio regionale costa dieci milioni al mese senza fare nulla” sostiene Zingaretti. Gli fa eco il segretario regionale del Pd, Enrico Gasbarra: “Il Consiglio dei ministri ha messo fine ai giochini, la Polverini ripristini le regole democratiche che ha cercato di ostacolare”. Fuori microfono, da sinistra ricordano che il 16 dicembre è proprio la data chiesta da Berlusconi per le primarie del Pdl, e che il rinvio del voto è essenziale a un centrodestra senza un candidato, e in chiaro caos. Il vicepresidente delle Regione, Luciano Ciocchetti (Udc), ribadisce la linea Polverini: “La presidente fisserà le elezioni entro i 90 giorni dallo scioglimento”. Per tenere nell’anno nuovo.

Corriere 27.10.12
Il governo: «Nel Lazio si voti al più presto»
Polverini pensa a gennaio-febbraio
di Alessandro Capponi


ROMA — L'«auspicio» di Mario Monti e del Consiglio dei ministri non placa le polemiche sulla data del voto nel Lazio. Anzi, dopo la nota di Palazzo Chigi — «Il Consiglio ha formulato l'auspicio che la data delle elezioni amministrative per il Consiglio regionale del Lazio sia fissata dal Presidente della Regione», Renata Polverini, «al più presto, in armonia con il parere espresso dall'Avvocatura generale dello Stato, novanta giorni dallo scioglimento del Consiglio» — subito, dalla sede della Regione, filtrano indiscrezioni sulla possibile data: tra la fine di gennaio e la prima metà di febbraio. Il Pd preme per votare entro dicembre. Il governo Monti, in questi giorni, potrebbe puntare a una sorta di «compromesso», il 20 gennaio. In ogni caso, dopo il comunicato del Consiglio dei ministri, lo scontro politico deflagra.
Dopo lo scandalo dei fondi pubblici utilizzati per cene a base di ostriche, che ha portato Renata Polverini alle dimissioni, la polemica non si è mai attenuata: fronti contrapposti, il centrosinistra a chiedere di andare «subito al voto», e il Pdl a resistere, a spostare le elezioni più in là. Il copione, dunque, si ripete. Perché l'interpretazione del centrodestra alle parole dell'esecutivo è, salvo rarissime eccezioni, quella del capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto: «Il Consiglio dei ministri conferma quanto da noi dichiarato sin dall'inizio, e cioè che l'individuazione della data delle elezioni è una prerogativa esclusiva del presidente della Regione Lazio e che esse devono essere "indette" e non "svolte" entro 3 mesi dallo scioglimento del Consiglio». Il candidato del Pd, Nicola Zingaretti, la pensa in modo diverso: «Il pronunciamento del governo è importante perché nettissimo, chiarissimo e spazza via qualsiasi tipo di interpretazione, strumentale o legittima che fosse, e dà delle indicazioni molto precise». Queste, per Zingaretti: «È importante che questo pronunciamento sia suffragato dall'autorevole parere dell'Avvocatura che va incontro alla richiesta di chiarimenti avanzata nei giorni scorsi dalla stessa presidente Polverini, dando dei termini certi». Il coordinatore Pdl Vincenzo Piso: «Rileviamo con soddisfazione che anche il Consiglio dei ministri, in linea con il ministro dell'Interno, ha fatto finalmente chiarezza, laddove afferma che la data delle elezioni sia "fissata" dalla presidente della Regione, prendendo atto della correttezza formale e sostanziale dell'operato della Presidenza». Il segretario regionale del Pd, Enrico Gasbarra, si rivolge così a Polverini: «Il Consiglio dei ministri mette fine ai suoi giochini. Il presidente dimissionario fissi immediatamente la data delle elezioni che dovranno svolgersi entro dicembre 2012 e ripristini quelle regole democratiche che ha cercato in ogni modo di ostacolare».

Repubblica 27.10.12
Pronunciamento del governo: data delle elezioni entro l’anno
Ma la governatrice: se ne parla tra tre mesi
La Polverini snobba il pressing di Monti ora il Lazio rischia il commissariamento
di Mauro Favale


ROMA — Come se nulla fosse. Dopo settimane di “moral suasion”, di appelli dell’opposizione, di allarmi lanciati dalle imprese, il consiglio dei ministri interviene ufficialmente sul caso Lazio. Per dire che «la data delle elezioni sia fissata dal presidente della Regione al più presto, in armonia con il parere espresso dall’Avvocatura dello Stato: 90 giorni dallo scioglimento del consiglio». Dunque entro il 28 dicembre prossimo, una scadenza che, però, Renata Polverini ha già scartato da tempo.
Ieri, nel suo 31esimo giorno da governatrice dimissionaria, la presidente non ha risposto al comunicato di Palazzo Chigi ma ha fatto filtrare il suo orientamento: voto tra gennaio e febbraio 2013, con una preferenza per la seconda opzione e un possibile scivolamento in primavera nel caso di election day. In sintesi, insomma, la presa di posizione del governo viene lasciata cadere nel vuoto.
E mentre Udc, Lista Polverini e parte del Pdl si avventurano in dispute terminologiche («Fissare non significa svolgere»), si rincorrono le voci, anche all’interno del centrodestra, che le resistenze della governatrice possano innescare la procedura di commissariamento della Regione. Una misura indicata dall’articolo 126 della Costituzione che prevede «la rimozione del Presidente della Giunta che abbia compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge».
Tra questi ultimi, un pezzo di centrodestra in Regione segnala non solo il ritardo nel voto ma anche le numerose delibere (per circa 300 milioni di euro) licenziate in questi giorni dalla Polverini senza alcun tipo di controllo da parte del Consiglio ormai sciolto. Ma l’articolo 126, finora mai applicato, ha anche un iter complesso: un decreto motivato del presidente della Repubblica, sentita una commissione bicamerale per gli affari regionali.
Difficilmente, dunque, una simile misura potrebbe consentire il voto il 16 dicembre, la data indicata in queste settimane dall’opposizione. Dopo la fine di ottobre sarà comunque troppo tardi, visto il limite minimo di 45 giorni per la campagna elettorale. Anche per questo il centrosinistra insiste per andare alle urne, affiancato da una parte del Pdl, quella che fa capo al deputato Fabio Rampelli. Per Nicola Zingaretti, candidato del centrosinistra, «il governo è nettissimo e il suo parere è in sintonia con il sentire di tutti i cittadini del Lazio».
Intanto la Polverini sta studiando il modo per ridurre i consiglieri da 70 a 50. Vista l’impossibilità da parte del consiglio regionale di modificare lo statuto (impossibile da parte di un’assemblea dimissionaria), la governatrice vorrebbe tentare una strada inedita e scivolosa: convocare le urne per eleggere 50 consiglieri, utilizzando la normativa generale del ‘95. In questo modo ci sarebbero 40 eletti col proporzionale e 10 con il listino bloccato. Comunque vada è prevista una pioggia di ricorsi da parte degli eventuali esclusi.

l’Unità 27.10.12
«Quei ragazzi vittime di false rassicurazioni»
«La commissione disse che non c’erano rischi, ora scopriamo che fu per superficialità e servilismo»
di Deborah Palmerini


L’AQUILA La verità la si dice. Ora più che mai. Dopo che la sentenza del processo alla commissione Grandi Rischi ha scatenato una mistificazione dei fatti tale da lasciare attoniti i cittadini aquilani. Per recuperare la verità si deve ripartire dai simboli. Uno di essi è la Casa dello Studente. Le sue macerie hanno sepolto otto giovani dai 20 ai 25 anni. Il blocco centrale dell’edificio, crollato il 6 aprile 2009, evidenziava da tempo crepe ma non ci fu evacuazione, nonostante già nel 2006 un rapporto di Abruzzo Engeneering evidenziasse criticità nella struttura.
Davide Centofanti viveva a Vasto, in provincia di Chieti, con la mamma Grazia e la sorella Lilli. Studiava Ingegneria all’Aquila. Risiedeva nella Casa dello Studente, in via XX Settembre. Davide non non è sopravvissuto. La zia Antonietta Centofanti è stanca e amareggiata.
Cosa le hanno raccontato di quella notte gli amici di Davide?
«Sono rimasti nelle loro stanze. Erano tranquilli. Dopo la prima scossa erano usciti in strada ma poi sono rientrati. Si sono comportati come ha fatto la città intera. Ci avevano ripetuto ossessivamente per giorni che il fenomeno in corso era normale, l’energia si stava scaricando, non c’era pericolo. Rassicurazioni che si sono rivelate tragiche».
Cosa avrebbe potuto salvarli?
«Bastava che fossero stati zitti. Dopo la riunione della Grandi Rischi ed anche prima. Davide e tutti noi ci saremmo regolati come ci è stato tramandato: quando c’è una scossa si esce e si sta fuori. Alcuni ragazzi non erano aquilani, non avevano la cultura del terremoto quindi si sono fidati, forti di una cognizione di tranquillità indotta in modo arbitrario». Cosa resta?
«Lo smarrimento e il dolore per vittime innocenti che avrebbero potuto salvarsi. Restano la superficialità e la leggerezza».
E restano le reazioni dopo la sentenza...
«I giornali, gli scienziati, i politici. Parlano senza sapere. Non conoscono il percorso dibattimentale. E fanno quadrato intorno alla categoria. Dalla commissione Grandi Rischi si dimettono perché hanno paura delle loro responsabilità, non per altro. Ma è il loro mestiere». Lei era presente in aula, cosa ha provato ascoltando la sentenza?
«La condanna di una persona è sempre un momento difficile. Ho provato un sentimento di pietas nei confronti degli imputati ma ora non più. Dopo le nuove intercettazioni fra Guido Bertolaso e Enzo Boschi credo che siano stati complici di un inganno ancora più grande. È una vergogna per la scienza, accondiscesa al dictat del potente di turno anziché svolgere il proprio ruolo».

Repubblica 27.10.12
La protezione incivile
di Francesco Merlo


La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati…: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.
Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.
Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.
Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna. Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.
Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa. Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita. Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma non certo perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.
E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole. Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendum
antinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo…».

Repubblica 27.10.12
Addio al divorzio breve altra promessa tradita
Salta il passaggio in Aula. I radicali: colpa del Vaticano
di Maria Novella De Luca


PIÙ che una legge, il fantasma di una legge. Appare, scompare, non viene mai discussa e tutto resta com’è. Milioni di italiani la aspettano da decenni, eppure la legge sul divorzio breve già pronta nel giugno scorso, è di nuovo scomparsa dal calendario dei lavori parlamentari. Missing. Inabissata nella lunga lista di testi di legge che non approdano mai alla discussione in Parlamento.
E GUARDA caso, commenta amara Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera, «si tratta quasi sempre di temi che riguardano i diritti civili o i diritti delle donne». La formula è semplice: “N. C.”, basta non calendarizzare, e quella legge scompare, per anni e anni, in una nebbia di rinvii e di rimandi di cui si perde traccia. Ed è questo il destino, sembra, del cosiddetto “divorzio breve”, disegno di legge che punta ad accorciare i tempi della separazione, da tre a due anni in presenza di minori e da tre anni a anno se nella coppia non ci sono figli. Una rivoluzione per il nostro paese, dove per un divorzio “medio” cioè consensuale ci vogliono quasi 5 anni, due sentenze, due avvocati e un fiume di soldi.
Così da ieri per denunciare il nuovo rischio di oblio della legge, i radicali della “Lega per il divorzio breve” hanno iniziato uno sciopero della fame, sostenuti da coppie e cittadini che da anni aspettano di poter sciogliere il proprio matrimonio. Spiega Rita Bernardini: «È evidente che c’è un veto da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che fanno leva su alcune forze politiche perché la conferenza dei capigruppo rinvii, sine die, la discussione della legge. E molti partiti incredibilmente temono ancora oggi di spaccarsi su un tema come il divorzio, ma forse si vergognano di ammetterlo. L’assemblea però si deve esprimere, avendo il coraggio di dire un sì o un no. Questa legge era stata calendarizzata: perché è stata cancellata dall’ordine del giorno e fatta scomparire? ». Chissà, forse c’è chi pensa che «42 anni siano ancora troppo pochi per modificare la legge sul divorzio» conclude sarcastica l’esponente radicale. In effetti dall’approvazione nel 1970, passando per il referendum del 1974, i tempi delle separazioni sono stati modificati soltanto una volta, nel 1987, passando da cinque e tre anni.
Nel 2003 la legge sul divorzio breve era riapprodata a Montecitorio, ma subito affossata da Lega e Udc, con presidente della Camera Pierferdinando Casini.
Poi soltanto tentativi falliti.
«Eppure questa volta dopo un lungo lavoro di mediazione e la stesura di un testo davvero moderato e attento, eravamo convinti di arrivare alla discussione » dice Giulia Bongiorno. Invece... «Invece credo che l’Italia stia per ricevere dall’Europa la maglia nera per i diritti civili. Sono cattolica, credente, ma so che le resistenze arrivano da lì, da quel mondo, da chi crede erroneamente che il divorzio breve potrebbe minare l’unità della famiglia. Ma da penalista vedo invece che è proprio dai tempi lunghi che nascono sofferenze e problemi». E la deputata di Fli ricorda quante leggi sui diritti civili si sono arenate: il diritto della madre a mettere alla nascita il proprio cognome al figlio, o la bocciatura sull’omofobia, «il cui testo da quattro anni torna in commissione».
Aggiunge Guido Paniz, avvocato, ex leader dei padri separati, deputato Pdl e relatore del testo sul divorzio breve: «Sono veramente sconfortato. Da mesi chiedo perché legge sia scomparsa dal calendario, ma dalla conferenza dei capigruppo soltanto risposte evasive. La verità è che molti partiti a cominciare dal mio sono spaccati, e più sensibili ai richiami di Oltretevere che ai bisogni dei cittadini». E poi, incalza Paniz, «faccio l’avvocato da decenni e so per esperienza che quando si è deciso di divorziare non si torna indietro, qualsiasi siano i tempi della separazione». Diego Sabatinelli, segretario della Lega per il divorzio breve, da ieri in sciopero della fame, parla di una legge «depennata senza motivo», e di quelle nuove famiglie che i separati formano nei lunghi anni di attesa del divorzio, «famiglie — dice Sabatinelli — senza tutele e senza diritto». Nebbie, silenzi, rinvii. E poche speranze che il divorzio breve torni all’ordine del giorno prima della fine della legislatura. Benedetto Della Vedova fa parte della conferenza dei capigruppo: «La legge slitta perché tra i partiti non c’è la volontà politica di discuterla. E non credo che ci sia il progetto di accelerare i tempi».

l’Unità 27.10.12
Affari di famiglia, Jiabao li oscura
La Cina blocca il sito del New York Times con un’inchiesta sulla straordinaria ricchezza dei familiari del premier: «Calunnie»
Reportage bomba a due settimane dal congresso del Pcc
di Gabriel Bertinetto


Nel 2007 un documento riservato dell’ambasciata Usa in Cina (poi divulgato da Wikileaks) attribuiva al premier Wen Jiabao «disgusto» per il modo in cui la consorte aveva usato il suo nome per ottenere lucrosi contratti nel commercio dei diamanti. Se Wen sia davvero vittima oppure complice di altrui intrallazzi, non è chiaro, ma un reportage del New York Times descrive ora con ricchezza di particolari l’impero finanziario di cui dispongono i suoi più stretti congiunti: mamma, moglie, figli, fratelli, cognati. Un patrimonio complessivo di 2,7 miliardi di dollari accumulato nei più vari settori economici, dalle assicurazioni all’edilizia.
Wen personalmente non compare mai come titolare, né i segugi del quotidiano statunitense hanno potuto «determinare se il premier sia estraneo a decisioni riguardanti gli affari dei suoi cari o se invece costoro abbiano fruito di un trattamento preferenziale». Quello di cui gli autori dello scoop sono sicuri è che «in molti i casi i nomi dei parenti di Wen sono nascosti dietro strati di compartecipazioni e investimenti che coinvolgono direttamente amici, colleghi, soci». Particolarmente imbarazzante per il primo ministro potrebbe risultare il caso della Ping An, un colosso assicurativo che avrebbe tratto enormi vantaggi da riforme varate nel 2004 per iniziativa di un’agenzia statale che era sotto la supervisione di Wen.
Pechino parla di «calunnie» diffuse con «secondi fini», e reagisce oscurando le versioni online in inglese e in cinese del New York Times, oltre che bloccando ogni sito e motore di ricerca sul web in cui compaiano termini riferibili al primo ministro cinese o al giornale americano. La bomba non poteva esplodere in un momento più drammatico per la Cina, alla vigilia del Congresso del partito comunista che l’8 novembre si riunisce con il compito di ridisegnare la mappa del potere. La marcia di avvicinamento all’evento è stata contrassegnata da tensioni, colpi di scena, scandali a ripetizione. Prima ancora di cominciare, il Congresso ha perso uno dei suoi potenziali protagonisti, Bo Xilai, leader della fazione neo-maoista. Bo aveva raggiunto una straordinaria popolarità su scala nazionale, grazie ai successi nella lotta alla corruzione nella megalopoli di Chongqing. Un mese fa è stato espulso dal partito, accusato di vari crimini, a cominciare proprio dalla corruzione e dal coinvolgimento nell’oscura vicenda di omicidio per cui è già stata condannata a morte la moglie Gu Kailai.
IL CASO BO XILAI
Ieri il Parlamento ha privato Bo Xilai dell’immunità, consentendo che sia processato. Inutilmente in suo favore si sono mobilitati 300 veterani del Pc e intellettuali che lo ritengono vittima di un complotto. In una lettera sul sito Cina Rossa avevano esortato l’Assemblea del popolo a non compiere un passo che avrebbe messo il deputato Bo alla mercé di un’iniziativa giudiziaria ostile e strumentale.
Così già qualcuno sospetta che le rivelazioni sulla «straordinaria ricchezza» della famiglia Wen siano la vendetta dei neomaoisti contro l’ala riformatrice che fa capo al premier. Dai loro ambienti sarebbero forse pervenute alcune delle informazioni che rischiano di inguaiare seriamente non tanto Wen, la cui uscita di scena era comunque prevista, quando la tendenza che a lui fa capo.
In realtà il quadro in cui si svolge la lotta politica a Pechino è molto confuso. La divisione tra nostalgici e innovatori, seguaci di Bo e seguaci di Wen, è una semplificazione assoluta. Nella categoria dei nostalgici vengono a volte inseriti personaggi che vogliono soltanto regole e tutele, per rimediare ai tremendi guasti sociali prodotti da uno sviluppo sfrenato di cui si avvantaggiano imprenditori spregiudicati con la protezione degli apparati statali. L'etichetta di riformatore poi si applica sia a coloro che reclamano cambiamenti democratici, sia ai molti che si accontentano delle innovazioni sul terreno economico senza intaccare il predominio del partito unico.
In questo complesso viluppo di idee, proposte, gruppi di interesse, Bo e Wen erano emersi negli ultimi anni come le figure più carismatiche, diventando i punti di riferimento principali per le varie anime del partito. Nel momento in cui Bo è caduto in disgrazia, parte dei suoi sostenitori ha reagito attaccando Wen. Due mesi fa 1600 funzionari del partito di ogni livello ne avevano chiesto le dimissioni. I promotori dell’iniziativa sapevano perfettamente che la carriera politica di Wen è al capolinea e il Congresso ne sancirà l’uscita di scena. In lui colpivano il pilastro o il simbolo della tendenza nemica, quella che, scrivevano, ha tradito la Costituzione e punta a «trasformare la Cina in uno Stato capitalista multipartitico». Salvo clamorose sorprese l’8 novembre Li Keqiao succederà a Wen Jiabao come premier, mentre a Hu Jintao nel ruolo di segretario e capo di Stato subentrerà Xi Jinping. Quest'ultimo è stato al centro di uno dei tanti misteri degli ultimi mesi, con la sua mai spiegata scomparsa dalla scena pubblica, durata quasi due settimane.

La Stampa 27.10.12
“Wen arricchito” E Pechino censura il New York Times
Inchiesta sugli affari del premier, oscurato il sito
La moglie ha accumulato una fortuna coi diamanti
Fratello e figlio si sono accaparrati il business delle assicurazioni e del riciclo dei rifiuti
2,7 miliardi, la fortuna accumulata da Wen Jiabao
di Ilaria Sala


Una macchia sull’uscita di scena Wen Jiabao è sopravvissuto alla repressione del dopo Tiananmen, quando andò a trovare gli studenti in piazza ma non venne punito dal Partito Dopo quasi nove anni al vertice, sarà sostituito al prossimo Congresso
In giugno, era stato il gruppo di stampa Bloomberg a fare i conti in tasca a Xi Jinping, il quasi certo prossimo Presidente cinese, rivelando che i suoi familiari avevano accumulato una fortuna miliardaria grazie alla risplendente carriera politica del loro promettente parente. Ieri, il New York Times ha pubblicato, in prima pagina, un grande articolo che illustra le ramificazioni della famiglia dell’attuale premier cinese Wen Jiabao, circondato da parenti che controllano una fortuna di almeno 2,7 miliardi di dollari americani. Pochi i settori disdegnati dalla famiglia Wen allargata: si va dai diamanti, di cui la moglie è una delle massime esperte nazionali, al riciclaggio dei rifiuti, di cui si occupa invece il fratello minore. Il figlio, Wen Yunsong, noto anche come Winston Wen, è attivo nelle telecomunicazioni e nelle assicurazioni. Starebbe cercando di approntare un collegio all’inglese per le élite cinesi, dopo aver espresso un certo cruccio nel constatare che i rampolli dei più alti politici e industriali non abbiano un luogo esclusivo dove accedere all’educazione e intessere relazioni significative fra di loro.
Ma quello che fece l’articolo di Bloomberg, e che ha fatto ieri quello del New York Times, è mostrare un fitto reticolato in cui, anche se l’uomo al centro delle vicende familiari in questione (Xi in un caso e Wen nell’altro) può mantenere le mani pulite, il concetto stesso di «conflitto di interessi» assume connotati più ampi che mai. Se la signora Wen, Zhang Beili, è un’esperta di diamanti e gemme, infatti, di certo non guasta che sia anche stata fra le persone che hanno stilato i regolamenti per il settore quando lavorava al Ministero della Geologia cinese, o che abbia gestito aziende statali di gioielli e diamanti proprio mentre queste venivano privatizzate (un documento di Wikileaks, citato dal New York Times, dice che Wen Jiabao stesso avrebbe considerato il divorzio, irritato dagli estesi interessi d’affari della moglie).
La madre di Wen, invece, Yang Zhiyun, povera maestra figlia di contadini prima della folgorante carriera del figlio, possiede una fortuna nella Ping An, la maggiore azienda assicurativa cinese, una delle più grandi del globo. Tutto questo ben di Dio che i parenti del «Tesoro di Famiglia» (traduzione letterale del nome Jiabao) hanno potuto accumulare è in stridente contrasto con l’immagine coltivata dal premier stesso, che nei dieci anni in cui è stato il Primo Ministro cinese si è dipinto come uomo «del popolo», pronto ad accorrere sui luoghi delle tragedie, a compatire chi soffriva promettendo che il governo se ne sarebbe preso cura, e con la lacrima facile. Molti si sono lasciati cullare dall’immagine del premier premuroso, tanto da chiamarlo Nonno Wen. Altri, come alcuni degli uomini più ricchi dell’Asia, ne hanno approfittato per mettersi in partnership con i familiari del premier. Altri ancora, invece, più cinici, come lo studioso Yu Jie, scrittore ora in esilio negli Stati Uniti, lo avevano battezzato «Il miglior attore della Cina» (dal titolo del libro che gli è valso l’esilio, e che è censurato in patria), decidendo che tanta empatia con il popolo altro non era che un grande talento teatrale.
L’articolo, che il New York Times ha anche prontamente tradotto per la versione cinese del quotidiano, ha suscitato le ire cinesi che hanno dunque bloccato l’accesso al New York Times dal Paese, e il portavoce del ministero degli Affari esteri, Hong Lei, ha accusato il quotidiano Usa di calunniare la Cina e avere «motivi ulteriori».
Tutto ciò non fa che dare un nuovo colpo alla facciata di «armonia» (la parola-chiave del Presidente Hu Jintao) con cui la dirigenza cinese avrebbe voluto andare al 18 Congresso del Partito, il prossimo 8 novembre, nel corso del quale verranno selezionati i nuovi leader nazionali.
Entrambi i casi, pur con le loro enormi differenze, mettono alla luce il tallone d’Achille della trasformazione cinese delle ultime decadi: un Paese lanciatosi in una corsa verso la crescita economica priva di controlli indipendenti, che siano una stampa libera o una magistratura autonoma o tantomeno la possibilità di ricorrere alle urne. Una situazione in cui tanto la corruzione che il profondo conflitto d’interessi sono inevitabili.

LA RAGNATELA QUI:
http://www.scribd.com/doc/111288625

Corriere 27.10.12
L'impero della famiglia Wen
Dalla madre 90enne ai cognati del premier: un clan miliardario
di Marco Del Corona


PECHINO — Tutto in un nome: Jiabao significa «tesoro di famiglia». Tutto in un soprannome: l'appellativo popolare «Baobao» vuol dire «tesorino». Il premier Wen Jiabao, che nei suoi quasi dieci anni di mandato ha più volte stigmatizzato le lusinghe dell'arricchimento facile, è incappato in un contrappasso feroce. Un dettagliato articolo del New York Times ha ricostruito gli interessi economici dei suoi famigliari, calcolati in 2,7 miliardi di dollari. La mappatura, a meno di due settimane dall'inizio del congresso comunista che segnerà il ricambio della leadership, ha scatenato l'ira delle autorità cinesi: bloccato il sito del giornale, spariti dal web i richiami alla vicenda e i nomi dei protagonisti, mentre il ministero degli Esteri ha dichiarato che il servizio «insozza il nome della Cina» ed ha «secondi fini».
La stessa sorte era toccata in giugno all'agenzia di stampa Bloomberg quando tracciò investimenti per 375 milioni di dollari associabili alla famiglia di Xi Jinping, che il Partito indicherà come numero uno. A tutt'oggi in Cina il sito Bloomberg è inaccessibile. E stavolta l'impatto appare più violento. Non solo perché a ridosso del congresso e perché Wen si è costruito come leader severo nel condannare la corruzione e aperto alle riforme (al punto che certe uscite particolarmente audaci sono state taciute dei media). Non solo perché Wen è destinato a restare premier fino a marzo. Ma perché la minuziosa elencazione dei capitali riconducibili a fratello e figlio, moglie e conoscenti, potrebbe avere a che fare con il confronto tra le varie anime del Partito in vista della composizione del comitato permanente del Politburo, cioè il vertice della leadership da cui il settantenne Wen uscirà per raggiunti limiti d'età.
L'articolo fa riferimento a documenti contabili e a verifiche incrociate. Un «ex collega di governo che conosce Wen Jiabao da più di vent'anni» spiega che «tra i leader di rango più alto non c'è famiglia che non abbia questi problemi», cioè fortune accumulate grazie all'influenza politica: in questo caso i «nemici» del premier «stanno intenzionalmente cercando di denigrarlo lasciando trapelare queste cose». La stessa tesi è stata rilanciata da Boxun, sito dietrologico basato negli Usa. A giochi precongressuali ancora aperti, i sostenitori dell'ex leader «neomaoista» Bo Xilai, avversato da Wen e dal segretario Hu Jintao, sparano infatti le loro ultime cartucce, proprio mentre il parlamento (è notizia di ieri) toglie il seggio allo stesso Bo: già espulso dal Partito e sollevato da tutti gli incarichi, contempla l'avvicinarsi del processo per corruzione e altri crimini.
Anche WikiLeaks aveva rivelato il «disgusto di Wen» per gli intrallazzi di famiglia, che — ammette il New York Times — non sembrano riguardare personalmente il premier. Ma la lista è imbarazzante, dai 120 milioni di dollari investiti a nome della madre di Wen nell'assicurazione Ping An al fratello Jiahong con i suoi tempestivi e lucrosi contratti, dallo zig-zag del figlio Yunsong (detto Winston) tra equity firm e profitti milionari fino alla moglie Zhang Beili, regina delle pietre preziose. Il tutto in un incastro di coperture e accorgimenti atti a sfuggire a occhi indiscreti e a scansare l'invito — sostenuto proprio da Wen — perché i dirigenti rivelino i loro patrimoni (ma madri, fratelli, cognati e nuore non rientrerebbero nell'obbligo). Comunque non bello per l'uomo del popolo, così solerte nel correre sui luoghi di terremoti e nel commuoversi in diretta.

l’Unità 27.10.12
La giustizia penale e il dolore delle vittime
di Luigi Manconi


LA GIUSTIZIA PENALE, CHE HA COME COMPITO L’ACCERTAMENTO E LA REPRESSIONE DEI REATI, PUÒ IGNORARE LA SOFFERENZA E I CORPI STRAZIATI DELLE VITTIME? Può essere indifferente rispetto alle domande di risarcimento materiale e immateriale dei sopravvissuti? Sono domande che attraversano la discussione pubblica dopo sentenze come quella per l’incendio alla Thyssen-Krupp o quella per il terremoto in Abruzzo. Partendo da quest’ultima, in un editoriale su Avvenire di mercoledì scorso, Marco Olivetti indica quali sono, a suo avviso, le deformazioni dell’amministrazione della giustizia ma, prima ancora, del funzionamento di uno Stato di diritto. Olivetti segnala tre tendenze negative di cui il verdetto dell’Aquila sarebbe espressione e, allo stesso tempo, fattore di incentivazione:
1) «la dilatazione senza limiti della sfera della giustizia penale che assorbe qualsiasi altro tipo di controllo. Se anche si ammettesse che i membri della Commissione Grandi rischi siano responsabili di una qualche forma di negligenza, la giustizia penale dovrebbe essere comunque l’extrema ratio».
2) La «estensione proteiforme» della nozione di responsabilità, anche in sede civile: «in questo contesto nessuno è certo che un qualsiasi suo comportamento non produca danni a terzi, specie a fronte di professioni (si pensi a quella medica) intrinsecamente connesse a possibili effetti dannosi di azioni o omissioni umane».
3) L’affermarsi di «una concezione della giustizia penale che mette al centro le vittime, invece della funzione statale di repressione oggettiva dei reati». La conseguenza di tutto ciò sarebbe progressivo slittamento del nostro Stato di diritto verso uno «Stato di giustizia», dove verrebbero soddisfatte le domande di equità e di risarcimento di vittime e gruppi sociali deboli, sostenuti da movimenti di opinione: e non verrebbero rispettati, invece, i principi classici del processo penale, come la «legalità, prevedibilità, stretta causalità, responsabilità personale».
Come si vede, quella esposta da Olivetti, è una sistematica analisi critica dell’amministrazione della giustizia in Italia e delle forzature e storture cui è sottoposto il diritto. È una diagnosi assai interessante, che merita di essere discussa e, a sua volta, sottoposta a critica.
Sul punto 1, il mio accordo è incondizionato: di pan-penalismo si parla ormai da decenni e, da decenni, si stigmatizza il ricorso esorbitante alla norma penale e per qualificare atti e comportamenti altrimenti sanzionabili, e per reprimere penalmente (in specie con la detenzione) qualsiasi fatto che corrisponda a un illecito. Dunque, non c’è il minimo dubbio che la giustizia penale, lungi dall’essere utilizzata come extrema ratio, viene costantemente applicata ai più diversi campi della vita sociale. Anche la questione della abnorme estensione del concetto di responsabilità è, in astratto, condivisibile. Ma nei fatti e nelle concrete circostanze di eventi luttuosi la responsabilità individuale per gli «effetti dannosi di azioni od omissioni umane» non può essere elusa.
Prendiamo due esempi evocati da Olivetti. L’incendio alla Thyssen-Krupp e le conseguenze di errori e colpe in materia sanitaria. Nel primo caso, la responsabilità appare ben definita e ben circoscritta, corposamente e materialmente riconoscibile e documentabile (si può discutere, eventualmente, se si tratti di dolo o colpa) una volta accertato il nesso causale tra l’evento letale e il mancato rispetto delle norme a tutela della sicurezza sul lavoro. Chi altri, se non proprietà e management, è responsabile di quel mancato rispetto? E, nel caso specifico, l’eventualità dell’incendio non era semplicemente un’ipotesi virtuale, bensì una conseguenza probabilisticamente plausibile dello stato in cui si trovavano gli stabilimenti; e degli atti, concreti e diretti, volti a ridurre per ragioni economiche le misure di sicurezza e a non rimuovere i fattori di rischio.
E questo vale anche per le professioni, come quella medica, dove la responsabilità relativa ad azioni e omissioni è messa alla prova costantemente. Massima cautela e ricorso a parametri scientifici di valutazione soprattutto nell’accertamento del nesso causale tra condotta umana ed evento, ma non si può ignorare che alcune professioni proprio perché ad altissimo tasso di responsabilità esigano il massimo senso di consapevolezza.
Descrivo uno scenario: quello del reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, tra il 31 luglio e il 4 agosto 2009. Osserviamo un uomo, legati i polsi e le caviglie, immobilizzato in uno stato di totale abbandono terapeutico. Attorno al suo letto per 82 ore (è quanto dura la sua agonia) si muovono 12 infermieri e 6 medici. È possibile sottrarre ciascuno di essi sì ciascuno di essi a una chiamata individuale di responsabilità? E quelle «azioni e omissioni umane» verificatesi in quel reparto psichiatrico (contenzione per un tempo irragionevolmente lungo e omissione di cura ma anche di nutrizione nei confronti di un ricoverato coatto) non configurano, forse, una fattispecie penale?
Infine, la questione più delicata: non c’è dubbio che la giustizia penale si fonda sulla «funzione statale di repressione oggettiva dei reati», ma immaginare che ciò escluda, o metta ai margini, la figura della vittima, mi sembra una conseguenza indebita. Assegnare alle vittime la giusta collocazione nel processo penale non significa in alcun modo come scrive Olivetti affidare «ai privati il diritto di farsi giustizia da sé» enfatizzando «elementi di vendetta, più o meno primitivi». Certo, la giustizia penale deve accertare reati, ma quei reati, oltre a violare norme e a causare disordine sociale, hanno prodotto lesioni su terzi. E, dunque, il diritto dei terzi (le vittime) a quel risarcimento che è la sanzione degli autori di reato, non può essere escluso dallo spazio del processo: anche per chi ritiene che il diritto penale debba essere soprattutto una «Magna Charta del reo».
In altre parole, in presenza di un «reato con vittima», la personalità giuridica, ma anche la corporeità di quest’ultima, è componente necessaria della dialettica processuale: e la sanzione del reato, quando vi sia, ha conseguenze che direttamente la riguardano. Dimenticarlo è un’offesa alle vittime, e al diritto.

il Fatto 27.10.12
L’anniversario
Marcia su Roma, golpe autorizzato
di Angelo d’Orsi


Novant’anni anni sono un buon tratto di tempo per riflettere su un avvenimento che ha cambiato la storia di un Paese, e ha contribuito a cambiare quella di un continente, e addirittura del mondo. Alludo alla Marcia su Roma, svoltasi negli ultimi giorni dell’ottobre 1922: uno strano evento, presentato spesso come un’allegra scampagnata; nella sostanza, si trattò di una dimostrazione di forza da parte di un movimento politico organizzato in forma di esercito, con il consenso delle autorità militari, nell’inerzia del governo, nel balbettio delle opposizioni, e, soprattutto, nella complicità del sovrano regnante. L’ascesa al potere di Mussolini fu effetto non della capacità militare dei fascisti, quanto del tradimento dei suoi doveri costituzionali perpetrato dal capo dello Stato, il re Vitto-rio Emanuele III, complice l’inettitudine della classe politica, pronta all’abbraccio, rivelatosi poi mortale, con i fascisti, oppure convinta che si trattasse di un fenomeno transitorio e trascurabile. Fu dunque un atto eversivo, ma con il consenso dell’autorità, dai più alti gradi, fino alle sedi periferiche del potere civile e militare, largamente occupate dagli squadristi, senza incontrare resistenza.
MAI SI ERA vista una mobilitazione insurrezionale di tale portata nella storia nazionale, anche se la Marcia fu poca cosa, anche per la disorganizzazione, la difficoltà dei collegamenti e delle comunicazioni. Verso Roma si diressero, la mattina del 28 ottobre, circa 14 mila camicie nere, che dopo la “vittoria”, il giorno 30, divennero circa il doppio. La Marcia – che ebbe come ispiratrice quella di D’Annunzio su Fiume del settembre ‘19 – e seguì all’adunata di Napoli, di pochi giorni prima, dove 30-40 mi-la camicie nere occuparono la città, per tre giorni (accolti dai saluti di Enrico De Nicola e dagli applausi di Benedetto Croce), avvenne solo nelle zone centrali del Paese, verso la capitale, a partire da Perugia dove si era installato il “quartier generale”, in un albergo di lusso, il Brufani, dalle cui suites i quattro capi designati (Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare De Vecchi, poi insigniti del titolo di “quadrumviri”), impartivano ordini, più o meno rispettati, mentre consumavano drink. Nessuno di loro prese parte alla camminata, e neppure il “duce”, rimanendo al sicuro a Milano, alla sua scrivania di direttore del Popolo d’Italia, pronto, come notarono non pochi osservatori, alla fuga, essendo Milano a meno di un’ora dal confine svizzero: un tragitto che poi fu costretto a sperimentare nell’aprile del ’45, con gli esiti che sappiamo.
Mussolini aveva espresso chiaramente la propria filosofia opportunista e illiberale, in articoli e discorsi, affermando che il fascismo intendeva giungere al potere, con le buone o le cattive. A nessun magistrato, a nessun ministro venne in mente che si trattava di minacce all’ordine costituzionale, minacce che, da almeno due anni, i fascisti, organizzati in “squadre d’azione”, armate di tutto punto, provviste di mezzi di locomozione, stavano traducendo in pratica, ai danni di socialisti, comunisti e, meno, cattolici.
In quelle convulse giornate del 27-30 ottobre ’22, i fascisti, peraltro divisi e in contrasto fra di loro, portarono avanti sia la linea militare ed eversiva, sia quella politica, trattativista.
VOLEVANO arrivare al governo, e davanti all’arrendevolezza delle autorità, nel silenzio della politica, alzarono ripetutamente la posta. Si sarebbero accontentati di qualche ministero, e finirono per avere la nazione, avviando, all’indomani della Marcia, con il famigerato discorso del bivacco (“Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli”), la trasformazione dello Stato liberale in regime totalitario. I fatti dell’ottobre furono quindi il punto d’arrivo di una violenza sistematica contro le organizzazioni e le strutture del movimento proletario, nelle campagne e nelle città. La Marcia segnò il salto di qualità, almeno simbolicamente: attacco diretto allo Stato ma, ecco il paradosso, in nome della sua difesa dal “bolscevismo”, ossia, le lotte operaie e contadine. Interrotta per ben due volte in seguito all’emanazione del decreto di stato d’assedio da parte del Governo Facta, per due volte respinto dal re, la Marcia si risolse in una parata per le vie di Roma, non senza violenza (per esempio nel quartiere “rosso” di San Lorenzo), mentre un telegramma a Mussolini lo invitava a Roma per formare il governo.
VIAGGIÒ in vagone letto, affacciandosi via via dal finestrino per discorsi alla folla, e giunto alla meta si recò in albergo, dove si cambiò d’abito, lasciando quello civile per una divisa militare, al sovrano che lo attendeva al Quirinale, disse che si scusava per gli abiti sporchi e impolverati per la “battaglia”, ma che gli portava “l’Italia di Vitto-rio Veneto”. Il “ventennio” cominciava con una tragica pagliacciata, che era l’altro volto del colpo di Stato monarchico; si sarebbe concluso, provvisoriamente, con un’altra buffonata, l’arresto di Mussolini nella notte del Gran Consiglio, il 25 luglio ’43 che, tecnicamente, fu un altro colpo di Stato del re, che tuttavia non pose fine al regime, la cui catastrofe fu accompagnata da quella della nazione nel doloroso biennio ’43-45. Ma, all’azione eversiva chiamata “Marcia su Roma” i consensi furono ampi, dal Corriere della Sera alla Confindustria. Rispetto al tragico “biennio nero”, la Marcia si concluse senza quasi colpo ferire, un dato tranquillizzante che in realtà poteva significare, come ebbe a notare un osservatore, Luigi Salvatorelli, “scarsezza di serietà morale”. Un dato che non ci lascia molta speranza per il futuro dell’Italia.

Corriere 27.10.12
La marcia su Roma
Le cinque cause della dittatura. Come il fascismo conquistò il potere
di Giovanni Belardelli


Alle 9 del mattino del 28 ottobre 1922, quando ormai era chiara la dimensione assunta dalla mobilitazione delle squadre fasciste convergenti su Roma, il presidente del Consiglio Luigi Facta si recò dal re per ottenerne la firma in calce al decreto che istituiva lo stato d'assedio. In questo modo, con il passaggio di tutti i poteri dall'autorità civile all'autorità militare, l'azione sediziosa dei fascisti, numerosi ma male armati, avrebbe potuto essere facilmente stroncata. Come è universalmente noto, quella firma non vi fu e lo stato d'assedio, benché già annunciato dai telegrammi inviati ai vari comandi militari, non entrò mai in vigore. In questo modo era aperta la via che di lì a due giorni avrebbe condotto Mussolini a ricevere l'incarico di formare un nuovo governo.
Sì è discusso molto sulle ragioni che indussero il re a quella decisione così gravida di conseguenze: tra esse, ebbe certamente un peso di rilievo il timore che l'esercito potesse rifiutarsi, ove fosse stato necessario, di sparare su dei rivoltosi che erano spesso ex combattenti e proclamavano di difendere la patria minacciata dai socialisti. In ogni caso, al punto in cui erano giunte le cose alla fine di ottobre del 1922, il fascismo era ormai l'attore chiave della scena politica italiana e una sua emarginazione appariva sostanzialmente impossibile.
Le ragioni che in soli tre anni e mezzo dovevano condurre Mussolini dalla fondazione, nel marzo 1919, di un minuscolo raggruppamento politico come i Fasci di combattimento alla presidenza del Consiglio furono varie. Una parte della responsabilità della vittoria fascista va attribuita al ceto politico liberale, soprattutto per l'illusione di poter utilizzare il movimento delle camicie nere al fine di riconquistare un'egemonia politica (e parlamentare). Un'egemonia che nel 1919 le varie e frastagliate forze liberali avevano perso a causa sia della nuova legge elettorale proporzionale, sia della nascita, per la prima volta da che esisteva lo Stato unitario, di un partito cattolico, il Partito popolare. In quella situazione la formazione di stabili maggioranze era resa molto difficile sia dalla diffidenza dei liberali a collaborare con i popolari (una diffidenza, peraltro, ricambiata), sia dall'impossibilità di una loro collaborazione con un Partito socialista nel quale la corrente riformista era di fatto ostaggio di una maggioranza su posizioni nettamente rivoluzionarie.
Una grande responsabilità nel determinare le condizioni che favorirono l'avvento al potere di Mussolini, probabilmente la responsabilità principale, la ebbe appunto il Partito socialista, uscito dalle elezioni del 1919 come la maggiore forza politica per numero di deputati. Fu da quel partito che venne allora il primo attacco allo Stato liberale durante il cosiddetto «biennio rosso» 1919-20, nell'illusione di poter realizzare la «dittatura del proletariato» e la «socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio». Si trattava di un programma sicuramente velleitario. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare i socialisti massimalisti come null'altro che dei rivoluzionari da operetta. La minaccia di una rivoluzione di tipo bolscevico, fondata o meno che fosse, alimentò infatti nel Paese un timore ben reale che fu all'origine delle simpatie per le camicie nere di tanti appartenenti ai ceti medi, disposti a considerare la violenza squadrista come una difesa — eccessiva nei modi ma giusta nella sostanza — delle istituzioni.
Proprio una valutazione — o meglio un'illusione — del genere doveva favorire un altro fattore decisivo del successo fascista: la tolleranza verso le azioni illegali dello squadrismo da parte di molti appartenenti alle forze dell'ordine e alla magistratura. Non meno importante nell'alimentare le simpatie per il fascismo fu la durissima campagna socialista contro il conflitto da poco terminato, che a una parte dell'opinione pubblica apparve come un intollerabile insulto ai molti che in quella guerra avevano combattuto, perdendovi spesso la vita.
Alle elezioni del novembre 1919 il movimento di Mussolini si era presentato soltanto a Milano, ottenendo un numero di voti irrisorio, ciò che sembrava annunciare la sua prossima uscita di scena. Due anni dopo raggiungeva invece i 200 mila iscritti (il doppio di quelli di un Partito socialista ormai stremato dalle violenze fasciste) e si affermava sempre più come il principale protagonista della politica italiana: nelle elezioni del 1921 i fascisti, alleatisi con le forze liberaldemocratiche, mandavano alla Camera 35 deputati (e molti rimasero allora colpiti dalla loro età media, 37 anni, che dava concretezza anagrafica alla canzone Giovinezza).
La causa principale di questa impetuosa crescita stava nello squadrismo, cioè nella reazione armata contro le organizzazioni socialiste cui i fascisti diedero vita nelle campagne centrosettentrionali (e in Puglia) a partire dalla fine del 1920. Non a caso lo squadrismo si sviluppò nelle stesse zone del Paese in cui le organizzazioni socialiste utilizzavano forme di coercizione e di violenza ai danni dei proprietari terrieri, spesso piccoli e medi, che ora vedevano nell'azione violenta del fascismo una sacrosanta reazione contro i «rossi». Si trattava di un meccanismo che è stato descritto molto efficacemente, anche nei suoi risvolti psicologici, nel romanzo di Antonio Pennacchi Canale Mussolini; protagonista del libro è infatti una famiglia di mezzadri della Bassa Padana che aderisce al fascismo dopo essere stata fatta oggetto di una violenta azione intimidatoria da parte dei socialisti.
Lo squadrismo fu essenziale nel portare Mussolini al successo non solo perché distrusse gran parte delle organizzazioni socialiste, facendo trasmigrare centinaia di iscritti nei nuovi sindacati fascisti messi in piedi in quattro e quattr'otto. Fu essenziale anche perché gli fornì una risorsa politico-militare che nessun altro possedeva. Veramente decisiva fu però la grande abilità del futuro Duce nello sfruttare politicamente la forza dello squadrismo, giocando per così dire su due tavoli: da una parte dichiarava la propria disponibilità a costituzionalizzare il fascismo, cioè a ricondurre lo squadrismo nell'alveo della legalità, dall'altra continuava invece a lasciare mano libera alle azioni violente. A partire dalla primavera del 1922 queste azioni si fecero anzi più intense arrivando all'occupazione di intere città, come Bologna o Ferrara.
Per mesi, fino al giorno stesso della marcia su Roma, Mussolini condusse trattative segrete con i principali esponenti della classe dirigente liberale, mandò messaggi rassicuranti al re e ai vertici militari, lasciò intendere che si sarebbe accontentato di una partecipazione di qualche ministro fascista al governo. In realtà puntava a una vittoria completa, che lo vedesse alla testa di un nuovo esecutivo. La marcia su Roma (benché in varie località del Centro-Nord comportasse l'occupazione di prefetture, questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi) doveva servire non a conquistare davvero il potere manu militari, ma a premere appunto sul re e sui maggiorenti del liberalismo perché si arrivasse a un governo presieduto dal leader fascista.
Si trattava di una strategia evidentemente rischiosissima, ma in qualche modo inevitabile. Vero o presunto che fosse, il «pericolo bolscevico» — che tanti consensi aveva portato al movimento dei fasci — ormai non esisteva più, annientato proprio dalla violenza squadrista. Per contro si faceva sempre più probabile una soluzione parlamentare della crisi politica italiana, magari con un ritorno di Giovanni Giolitti al potere. Fu per evitare un rischio del genere che Mussolini decise di troncare gli indugi e di fissare la marcia su Roma per il 28 ottobre.
Se il re non firmò lo stato d'assedio fu anche perché ritenne, come un po' tutto il vecchio establishment liberale, che fosse inutile arrivare a uno scontro, che rischiava di ristabilire l'ordine al prezzo di molte vittime, quando ormai sembrava matura la soluzione politica della crisi. Una soluzione che avrebbe dovuto consistere nell'inserimento dei fascisti in un nuovo governo presieduto da Antonio Salandra. Naturalmente chi puntava a questo si ingannava. Mussolini, che seguiva l'evolversi della situazione da Milano, fece sapere a tutti quelli che lo contattarono di non essere disponibile a nessuna soluzione che non prevedesse per lui la presidenza del Consiglio. Sapeva infatti che, dopo che lo stato d'assedio non era stato firmato, le carte vincenti stavano tutte nelle sue mani.
La mattina del 30 ottobre gli squadristi, fermi da due giorni nei pressi di Roma, cominciarono a sfilare nella Capitale. La sera dello stesso giorno si costituiva il ministero Mussolini: un governo di coalizione, nel quale però i fascisti avevano una rappresentanza nettamente superiore alla loro forza parlamentare. Non rappresentava ancora la dittatura, ma, per i modi in cui era nato nonché per le decisioni che doveva assumere, metteva il Paese su una china pericolosa che alla dittatura avrebbe presto portato.

Repubblica 27.10.12
Esce un saggio dello storico che rilegge quello che è accaduto 90 anni fa “Fin dal principio Mussolini ebbe una chiara intenzione totalitaria”
La marcia del dittatore
Gentile: “De Felice aveva torto, il regime fascista iniziò nel 1922
di Simonetta Fiori


«La marcia su Roma è stato uno degli eventi più tragici del Novecento, ma a distanza di novant’anni si tende a caricaturizzarla in “opera buffa”. Ma come è possibile che da una goffa kermesse sia scaturita la tragedia del fascismo italiano?». Emilio Gentile è appena rientrato dall’Università di Harvard, dove ha tenuto una lezione sulla marcia che approdò nei dintorni della capitale il 28 ottobre del 1922. Degli storici italiani è il più tradotto all’estero, e tra gli studiosi del regime fascista vanta un indiscusso prestigio. Il suo ultimo lavoro è una ricomposizione insolita di materiali raccolti nel corso di quarant’anni di ricerche, una sorta di narrazione storica dal ritmo incalzante che sin dal titolo – E fu subito regime (Laterza, pagg. 320, euro 18) – enuncia una tesi storiografica in contrasto con quella di molti storici, incluso il suo maestro Renzo De Felice. E ridimensiona il ruolo di Mussolini, ridotto da protagonista a comprimario.
Molti storici fanno nascere il regime con le leggi liberticide del 1925. Lei non è d’accordo.
«No. Fin dal principio Mussolini ebbe una chiara intenzione totalitaria. E il regime s’impose immediatamente dopo la marcia. Basta leggere le testimonianze dei contemporanei – Amendola o Salvatorelli – che da subito cominciarono a usare la parola regime in un’accezione nuova, intendendo la sottomissione dello Stato a un partito armato».
Secondo De Felice, invece, il duce non aveva allora una chiara volontà autoritaria.
«De Felice scrisse anche che il fascismo al principio, pur se contrario alla libertà che aveva contrassegnato lo Stato postunitario, non aveva una nitida alternativa a questo Stato. Anche Alberto Aquarone ne rimarcò “l’incertezza” e Roberto Vivarelli riferendosi al primo anno di governo arriva a definirlo una “nebulosa”. Tesi che mi lasciano molto perplesso. Certo Mussolini non aveva allora un dettagliato programma di trasformazione dello Stato, ma era consapevole della natura irrevocabile del suo regime. Anche nel celebre discorso nell’aula “sorda e grigia” annunciò: questa rivoluzione ha i suoi diritti e sarà implacabile. Qualcuno l’ha voluta liquidare come pura retorica, in realtà rifletteva azioni concrete – l’istituzione della Milizia della Sicurezza Nazionale, la violenza squadrista perpetrata con arroganza – che segnavano la rottura irreversibile con le istituzioni liberali».
Però molti contemporanei non compresero la drammaticità della marcia, liquidata in qualche caso con accenti grotteschi. E la tendenza alla caricatura è stata poi ereditata da alcuni storici.
«Sì, soprattutto dalla storiografia anglosassone ma anche da noi. Salvemini fu tra i primi a definirla “un’opera buffa”. E più di recente Donald Sassoon l’ha ritratta come patetica “adunata di utili idioti”. Il problema è come mai da un evento così ridicolizzato abbiano avuto origine vent’anni di minaccia mortale alla democrazia in Europa. Ma la “storiografia sarcastica” – diciamo così – non è la sola che tende a spegnere la portata di quegli eventi. In un recente lavoro pubblicato dal Mulino, uno studioso sottile come Sabino Cassese finisce per chiedersi se davvero sia esistito uno Stato fascista, o non si tratti d’una versione ancora più autoritaria del vecchio Stato liberale. Ragionamenti sofisticati, ma mi domando perché vengano applicati solo al fascismo».
Colpisce che a distanza di novant’anni gli studiosi facciano fatica a mettersi d’accordo.
«Ancora si esita a riconoscere il carattere totalitario del regime, considerato meno “fascista” del nazismo. Siamo al paradosso: non si vuole ammettere una realtà storica che è documentata dalla stessa consapevolezza dei contemporanei. Nel 1923 Salvatorelli e Amendola, Sturzo e Matteotti parlavano già di “totalitarismo”, identificato nella prevaricazione del fascismo armato sullo Stato. Vaneggiavano? Dobbiamo paragonarli ai bambini della famiglia Darling che credevano nell’isola che non c’è? Peccato che “l’invenzione” abbia portato persecuzione e in taluni casi perfino morte».
Ma lei come spiega questa infinita discussione storiografica?
«C’è difficoltà a prendere sul serio il fascismo italiano, le cui responsabilità vengono alleggerite nel confronto con le dittature segnate dal terrore di massa. Ma il carattere totalitario di un regime non si misura dal numero delle vittime, ma vedendo se l’assetto di quel regime renda possibile o meno fare vittime».
Nell’introduzione del suo ultimo libro, il terzo volume della Storia delle origini del fascismo, Roberto Vivarelli se la prende con quegli studiosi che «discettano di un fenomeno fascista», schiacciando l’esperienza italiana su quella del nazismo tedesco. Secondo Galli della Loggia, che ne ha scritto sul Corriere, il bersaglio è proprio lei, «rappresentante italiano di una imperversante storiografia anglosassone».
«Il libro di Vivarelli non l’ho ancora letto, escludo però che si rivolga a me in quel modo: non credo d’essere sospettabile di “discettare di un fenomeno fascista” senza confrontarmi con le vicende effettive del movimento di Mussolini. Quanto a Galli della Loggia, che devo dire? Evidentemente non ha mai letto un rigo di quel che ho scritto dal 1975 a oggi».
Nella sua ricostruzione delle origini del fascismo Vivarelli attribuisce una grande responsabilità al violento sovversivismo socialista: i primi a cominciare, in sostanza, furono i rossi.
«Ma non c’è alcun rapporto diretto tra la violenza del massimalismo socialista e la violenza fascista. Quando in Italia si afferma lo squadrismo, il pericolo bolscevico non esiste più. La paura del comunismo può essere stata una delle condizioni che hanno dato origine al fascismo, ma finché dura il cosiddetto “biennio rosso” il fascismo è un fenomeno marginale. Esso cominciò ad affermarsi quando il socialismo entra in crisi. E poi non c’è proporzione tra violenza rossa e violenza nera: i socialisti non hanno mai assaltato le case della borghesia né i circoli degli altri partiti; i fascisti applicano alla politica le pratiche da guerra civile. Questi i fatti. Naturalmente l’interpretazione può variare, ma non si può dire – come ha fatto Nolte – che Auschwitz è conseguenza del Gulag. È polemica, e basta».
Tradizionalmente la marcia su Roma viene considerata il capolavoro politico di un uomo solo, Benito Mussolini. Lei ne ridimensiona il ruolo.
«Sì, fu assai meno determinante di quanto solitamente si pensi, sia durante la marcia che nei primi tre anni di governo. Un ruolo decisivo fu esercitato dal quadrumviro Michele Bianchi, che del moto insurrezionale fu il primo e più deciso fautore. Nel mio racconto Mussolini è un leader che tende ad assecondare più che ad anticipare o decidere. E dovrà lottare un bel po’ prima di essere riconosciuto capo indiscusso».
In questo suo lavoro lei insiste molto sull’importanza dell’“attimo fuggente”. La marcia appare come una sequela di “attimi” in cui poteva cambiare il corso della storia.
«Bisogna tornare a raccontare la storia non giudicandola a posteriori, ma facendo parlare i fatti man mano che si svolgono. A decidere non sono mai le grandi strutture, astratte entità o anonime forze collettive, ma gli esseri umani, messi di volta in volta davanti a una scelta. Trovo sbagliato interpretare il fascismo come il risultato della debolezza dello Stato liberale. Che significa? Non è lo Stato liberale che cede, ma gli uomini incapaci di prendere decisioni adeguate. Ministri come Amendola, Taddei, Alessio avrebbero voluto stroncare la violenza fascista con le forze armate, però prevalse un’altra linea. Non è lo Stato liberale che sbaglia, ma alcuni dei suoi uomini che non seppero capire. La storiografia liberale ha sempre visto in azione le grandi idee, io mi concentro sulle individualità. Una sorta di storiografia esistenzialista, se possiamo dir così, che rende più viva e drammatica la storia».

Corriere 27.10.12
Churchill disse: uccidete subito i criminali nazisti
di Fabio Cavalera


LONDRA — Ma quale processo di Norimberga. Winston Churchill e i vertici dei servizi segreti inglesi avrebbero preferito usare giustizia sommaria coi nazisti: senza ricorrere a un tribunale internazionale e sulla base dei dossier preparati dal «Director of Public Prosecutions» (l'ufficio della pubblica accusa) si sarebbe dovuto concedere ai militari il potere di arrestare i responsabili dei crimini di guerra, di portarli davanti a una corte e in pochi giorni «sbarazzarsene» con la giusta punizione. I documenti dell'intelligence, declassificati e resi accessibili ieri dall'Archivio Nazionale di Londra, scrivono una nuova pagina di Storia. È il diario di Guy Lindell, conservato col nome in codice «Wallflowers», che ci racconta alcuni particolari sulla conferenza di Yalta nel febbraio 1945 e sulle divergenze fra Churchill da una parte e Roosevelt con Stalin (ma per diverse ragioni) dall'altra. Guy Lindell, che fra gli anni Quaranta e Cinquanta guidò il controspionaggio di Sua Maestà, ha tenuto un resoconto preciso delle settimane che precedettero la conclusione del conflitto e delle posizioni che erano maturate a Londra sul trattamento da riservare a Hitler e alle figure di primo piano del Terzo Reich. Downing Street, fra la fine del 1944 e l'inizio del 1945, affidò a sir Theobald Mathew, allora direttore del «Public Prosecutions Office», il compito di redigere un piano per affrontare e gestire la resa dei capi nazisti. Mathew indicò una strada, accolta da Winston Churchill e da Guy Lindell: la Camera dei Comuni avrebbe approvato un provvedimento contenente la delega concessa a qualsiasi corte militare, nei territori d'Europa liberati dagli Alleati, di processare immediatamente i gerarchi e di procedere con l'esecuzione delle sentenze. Nei casi più gravi «facendo fuori» (bumping off) i vertici del nazismo, negli altri casi valutando «in autonomia» la durata della carcerazione. Winston Churchill, ha annotato Guy Lindell nei suoi diari, andò a Yalta con questa posizione. Ma trovò il muro di Roosevelt e di Stalin. Il presidente degli Stati Uniti temeva che l'opinione pubblica non avrebbe mai accettato pronunciamenti al di fuori di un regolare processo pubblico. Il dittatore sovietico, invece, spingeva per istituire il tribunale di Norimberga in quanto il dibattimento sarebbe stato usato a fini propagandistici interni: un ammonimento agli oppositori del comunismo. Londra fu costretta alla marcia indietro e ad accettare la cornice legale di Norimberga sulle atrocità del nazismo. Il commento del capo del controspionaggio fu amaro: «Non è saggio, si è creato un precedente pericoloso». Anche Churchill la pensava così.

La Stampa TuttoScienze 24.10.12
Nascosta nel puzzle del Dna c’è l’origine delle lingue
Al via l’ambizioso progetto per studiare un milione di siti del Genoma
di Guido Barbujani


La culla delle parole Secondo uno studio pubblicato su «Science» l’anno scorso, le 6 mila lingue di oggi derivano da un unico idioma, parlato tra i 50 e 70 mila anni fa dai nostri progenitori africani.
Biologia e cultura. L’obiettivo è scoprire percorsi evolutivi spesso differenti

Tanto per cambiare, l'idea l'aveva avuta Charles Darwin. Se riuscissimo a ricostruire, scriveva nel 1871, l'albero genealogico delle lingue parlate sulla Terra, otterremmo al tempo stesso l'albero genealogico dell'umanità. Secondo Darwin, le differenze linguistiche e biologiche si sono accumulate in parallelo nel corso del tempo. Perciò popolazioni che parlano lingue simili discendono da antenati comuni vissuti pochi secoli fa, popolazioni che parlano lingue meno simili hanno avuto antenati in comune più indietro nel tempo, e gli antenati di tutti (ma questo Darwin non lo sapeva) stavano in Africa intorno a 100 mila anni fa.
Un’idea brillante, che potrebbe aiutarci a capire perché siamo come siamo e parliamo la lingua che parliamo. Ma quell'albero genealogico Darwin non poteva ricostruirlo: molte lingue non le aveva ancora studiate nessuno, e il Dna, fondamentale per capire i rapporti biologici fra le popolazioni, non si sapeva neanche cosa fosse. E poi le cose erano e sono più complicate, se non altro perché la lingua cambia in fretta e i geni meno. L'italiano di oggi non è più quello di 30 anni fa, mentre il Dna che riceviamo dai genitori è sostanzialmente lo stesso che trasmettiamo ai figli. Insomma, quella di Darwin era una previsione azzardata. Ma quando, negli Anni 80, nei laboratori americani di Robert Sokal e di Luca Cavalli-Sforza, si sono accumulati i dati necessari, si è visto che ci aveva preso. Ci sono eccezioni, ma di regola, più le lingue si assomigliano, più simili sono i Dna delle persone che le parlano.
Non tutti sono d'accordo, però. Per orientarsi, meglio ricordare che il Dna è identico in ogni cellula della stessa persona, mentre, prendendo due persone a caso sulla Terra (gemelli a parte), in media i loro Dna sono identici al 999 per mille. Quel piccolo uno per mille che rimane è però importante, perché è lì che sono scritte le nostre differenze ereditarie nell'aspetto fisico, nel gruppo sanguigno e in altre cose, come la capacità di digerire il latte o il rischio di sviluppare molte malattie. Piccole differenze, quindi: ma il Dna è grande, ne contiene milioni, e da lì possiamo misurare quanto diversi siamo a livello biologico.
Con le lingue, in linea di principio, si può fare lo stesso. Si contano in due vocabolari quante parole si assomigliano (come naso e nose in inglese) e quante no (come bocca e mouth). Ma è facile sbagliarsi. Per esempio, mucho in spagnolo e much in inglese sono quasi identiche e vogliono dire la stessa cosa molto ma hanno etimologie diverse. Queste false somiglianze confondono le acque, e poi le parole cambiano nel tempo; dopo un po' di millenni le loro relazioni diventano ambigue. Perciò ha senso confrontare i vocabolari di lingue vicine, per esempio italiano e russo (entrambe lingue indoeuropee), ma non lontane come italiano e turco o ebraico (queste ultime, rispettivamente, altaica e afro-asiatica).
Confrontare lingue vicine, e cioè popolazioni che hanno in comune antenati recenti, è importante, ma sugli ultimi millenni abbiamo informazioni storiche precise e dati archeologici abbondanti. Il confronto fra lingue e geni servirebbe soprattutto a raccontarci un passato più lontano, su cui disponiamo di poche altre informazioni. Ma come si fa? La soluzione l'hanno trovata due linguisti italiani, Giuseppe Longobardi dell'Università di Trieste (oggi a York) e Cristina Guardiano dell'Università di Modena, con un'idea semplice, ma tutt'altro che banale. Ci vuol poco perché entrino nel linguaggio termini come shopping, spread, e magari, all'estero, soprano e pizza. Non è però altrettanto facile che cambi la struttura della lingua: il posto del verbo nella frase o la presenza di un genere neutro. Forse, concentrandosi sulla grammatica e sulla sintassi, si può risalire più indietro nel tempo. È nato così un progetto, finanziato per cinque anni dallo European Research Council, nel quale biologi (gli antropologi bolognesi diretti da Davide Pettener e Gianni Romeo) e linguisti (diretti da Longobardi e Guardiano) viaggeranno insieme per mezzo mondo: i primi a raccogliere campioni il cui Dna verrà studiato in dettaglio, i secondi per ricostruire nelle stesse popolazioni la struttura della lingua. Così, poco alla volta, si costruirà un archivio di dati, su cui lavoreranno i genetisti dell'Università di Ferrara.
Non sarà uno scherzo: si punta a studiare un milione di siti variabili del Dna. Moltiplicando questo milione di caratteristiche individuali per 40 popolazioni, per una ventina di persone ciascuna, viene fuori una quantità di dati enorme.
Ci aspettiamo spiegherò al Festival di Genova che si confermi che a grandi linee Darwin aveva ragione. Ma le eccezioni saranno importanti quanto la regola, perché da lì capiremo in che aree del mondo, e in che periodi, si è alterata la relazione fra cambiamenti della lingua e del Dna. Vorrà dire che certe popolazioni si sono mescolate fra loro o, al contrario, che certe barriere (geografiche, ma anche culturali, religiose o politiche) hanno impedito la migrazione. Vorrà dire che certe lingue sono rimaste impermeabili alle novità e altre sono cambiate più in fretta. Alla fine speriamo che capire meglio come sono si sono evolute, nei millenni, la nostra biologia e la nostra cultura, aiuti un po' tutti a trovarsi a loro agio col patrimonio di differenze che rendono l'umanità così interessante.

La Stampa TuttoScienze 24.10.12
Giulio Giorello: “Da Darwin a Higgs gli straordinari poteri dell’immaginazione”
Alla ricerca del lato imprevedibile della scienza
di Gabriele Beccaria


Molti hanno visto cadere le mele, ma solo uno tale Isaac Newton ha capito che di mezzo c’era la gravità. Quasi due secoli dopo, il fisico inglese John Tyndall definì quel salto concettuale un atto di «prepared imagination». La razionalità scientifica, in effetti, è più sofisticata di quanto a volte suggeriscano provette e formule. Ed è questo il tema da cui sbocceranno gli incontri con i ricercatori al Festival della Scienza di Genova. Professor Giulio Giorello, lei è un filosofo della scienza, e nella sua lezione del 3 novembre affronterà la questione, sempre più d’attualità, degli intrecci ragione-fantasia: oggi, quando vogliono trasformarsi in divulgatori, gli scienziati sfruttano sempre più abilmente il potere delle immagini e delle provocazioni intellettuali. «Mi viene in mente il nuovo saggio del neuroscienziato Kevin O’Regan, che è immaginifico già dal titolo: “Perché i colori non suonano”. L’autore spiega che, se si mescolano due colori, il risultato è un colore nuovo, privo in apparenza di quelli originali, a differenza di di quanto accade invece con gli accordi musicali. Infatti, quando si uniscono note diverse, si ottiene un accordo, in cui si può ancora udire ogni nota singola. Il colore è quindi sintetico, il suono è analitico. E’ una realtà che segna una differenza tra la costruzione del mondo che facciamo con l’udito e quella che realizziamo con la vista e che dimostra come le percezioni non siano pure registrazioni, ma modi di esplorare, riprendendo un’idea che risale almeno a un filosofo come George Berkeley. Così l’immaginazione di O’Regan che definirei proprio filosofica diventa un programma di ricerca: è il suo approccio allo studio di che cos’è la coscienza». Lei farà un viaggio nell’immaginazione di Darwin, partendo dal libro di Desmond e Moore «La sacra causa di Darwin». Perché? «Il saggio propone una ricostruzione raffinata della polemica del padre dell’evoluzionismo contro i sostenitori dello schiavismo. A un avversario che simpatizza con il Sud degli Usa dice: “Anche chi scrive contro la verità può portare un buon servizio alla verità”. C’è un po’ di retorica, ma è interessante la capacità di mettere l’immaginazione al servizio della disputa scientifica. E’ una realtà che noi italiani dovremmo apprezzare, perché un maestro di questa arte della controversia è stato Galileo Galilei, il quale era capace di scovare argomenti pro e contro una teoria, seguendo l’idea che nell’incontro-scontro tra punti di vista, prima o poi, uno prevale e la scienza diceva “non può che aumentarsi”». Razionalità e immaginazione, scienza e arte: le due culture come le chiamava Edgar Snow ora sembrano dialogare di più. E’ così? «In effetti sembra che esserci stata una svolta. Nel saggio “L’età dell’inconscio” il Nobel per la Medicina Eric Kandel combina l’immaginazione delle tendenze stilistiche che nascono nella Grande Vienna una cui icona è Klimt con l’immaginazione della psicoanalisi di Freud e di quella della prima fase del neopositivismo. Sono percorsi intellettuali che evocano quelli di alcuni grandi autori del passato». Come il classico «The art of scientific investigation» di Beveridge? «Sì. Penso ai lavori di Gerard Holton, uno dei curatori dell’opera di Einstein, e a Karl Popper: nel suo “Poscritto alla logica della scoperta scientifica” ha ripreso alcuni spunti che risalgono al grande matematico Poincaré. Intuizioni filosofiche, voli della fantasia e immaginazioni spiega sono la fonte da cui zampilla la verità scientifica. Certo, tutto dev’essere poi dimostrato o per usare l’immagine di Richard Ellmann, grande biografo di James Joyce si verifica una specie di ebollizione che la logica cerca poi di controllare». Il coinvolgimento emozionale, oltre quello intellettuale, è lo strumento per avvicinare la scienza alle persone? «Sì. Non credo che le emozioni possano essere tagliate fuori dalla scienza. “Il cuore mi scoppiava in petto”, disse Einstein, quando seppe che le anomalie del perielio di Mercurio confermavano la Relatività, e non è esaltante che il sogno di Peter Higgs il bosone sia stato appena confermato?».
IL LIBRO: KEVIN O’REGAN «PERCHÉ I COLORI NON SUONANO» RAFFAELLO CORTINA

La Stampa TuttoScienze 24.10.12
Le meraviglie della biologia matematica
Pesci, zebre e tigri tra le equazioni di Turing
di Ian Stewart


IAN STEWART UNIVERSITY OF WARWICK CONTINUA A PAGINA III

Pittori, poeti e scrittori sono da sempre affascinati dalla bellezza degli animali allo stato selvaggio. Chi non restebbe colpito dall’eleganza di una tigre siberiana, dall’enormità di un elefante, dalla posa di una giraffa o dalle strisce pop di una zebra? Eppure ognuno di loro ha cominciato la propria esistenza come una singola cellula. E, allora, come si fa a stipare un elefante in una cellula?
Quando si è scoperto il Dna e si è rivelata la sua importanza, la risposta sembrava semplice. Ma non è così. Ciò che sta in un uovo di elefante sono le informazioni per farne uno, non l’elefante medesimo. Una cellula può contenere un sacco d’informazioni molecolari. E tuttavia un elefante ha un enorme numero di cellule e tutte devono essere assemblate in modo corretto. Ce ne sono così tante che una mappa di un elefante, cellula per cellula, non potrebbe essere contenuta nel Dna. I suoi geni non contengono informazioni sufficienti. Quindi qualcosa deve accadere in corso d’opera.
L’interrogativo è: che cosa? Una risposta come spiegherò al Festival della Scienza di Genova arriva dalla creatività di un grande matematico, Alan Turing, di cui si celebra il centenario. È famoso per il lavoro di crittografo durante la Seconda guerra mondiale e i fondamentali contributi all’informatica e all’intelligenza artificiale. E’ meno noto, però, che sia stato un pioniere della biologia matematica.
Nei primi Anni 50 Turing mostrava spesso ai colleghi disegni con macchie irregolari bianche e nere, chiedendo loro se fossero d’accordo sul fatto che sembrassero una mucca. Più precisamente, la pezzatura di una mucca frisona. I suoi disegni erano il risultato di complicati calcoli matematici, il primo passo di un progetto che mirava a rispondere a una delle grandi questioni della biologia. Molti animali hanno segnature sorprendenti: dalle macchie del leopardo alle strisce della tigre. Come nascono questi modelli?
Nel 1952 Turing pubblicò «Le basi chimiche della morfogenesi», in cui proponeva un meccanismo per la formazione delle macchie degli animali. Suggeriva che appaiano in due fasi. Quando l’animale è un embrione le molecole interagiscono e poi si diffondono. Il risultato è una «traccia» di sostanze chimiche che si trasforma nel modello visivo, innescato dai pigmenti. Chiamò «morfogeni» generatori di forma questi ipotetici agenti chimici. Il cuore della teoria è un sistema di equazioni «di reazione-diffusione», capace di simulare il modo in cui i morfogeni si manifestano nell’embrione.
I modelli che si generano includono righe, macchie e altre segnature complesse. Sono simili a quelli osservati su innumerevoli animali, dai pesci tropicali alle conchiglie, e sono spesso di straordinaria bellezza.
James Murray ha modificato le idee di Turing per spiegare i segni che appaiono su felini, giraffe e zebre. I due modelli classici sono le strisce e le macchie. Entrambi sono creati da strutture ondulatorie di tipo chimico. Le onde, lunghe e parallele come i cavalloni sulla spiaggia, producono le strisce. Altre onde, con angolazioni diverse, si frammentano e diventano macchie. Da un punto di vista matematico le strisce si trasformano in macchie quando il sistema delle onde parallele entra in una fase di instabilità. La scoperta ha spinto Murray a una curiosa previsione: un animale a macchie può avere una coda a strisce, ma un animale a strisce non può avere una coda maculata.
Nel ‘95 gli scienziati Shigeru Kondo e Rihito Asai applicarono le equazioni di Turing al pesce angelo imperatore, che ha suggestive strisce gialle e viola. Qui le formule producono una previsione sorprendente. Le strisce «si muovono». Quando i due hanno fotografato alcuni esemplari, hanno scoperto che le strisce stesse migrano lentamente sul corpo. Non solo. I difetti nel modello delle strisce regolari le dislocazioni si «rompono» e si riformano come prevedeva la teoria di Turing.
Hans Meinhardt ha invece dimostrato come alcune varianti delle equazioni di Turing spieghino molte caratteristiche dei segni sulle conchiglie. Questi modelli non devono essere semplici e regolari, come le macchie e le strisce. Molti sono complessi. Alcune conchiglie a cono, per esempio, sono ricoperte da casuali raccolte di triangoli. Eppure, sorprendentemente, modelli quasi identici si trovano di nuovo nelle equazioni di Turing. Si tratta dei frattali, un concetto reso popolare da Benoit Mandelbrot negli Anni 60. I frattali sono associati con il caos dinamico, un comportamento irregolare all’interno di un sistema matematico deterministico. Le conchiglie a cono combinano così le caratteristiche matematiche sia dell’ordine sia del caos.
La biologia contemporanea si incentra sulla genetica e sul Dna. Il modello di Turing, invece, è più legato allo spirito della vecchia biologia, focalizzato sugli animali stessi, e non contempla specifiche sostanze chimiche. E, tuttavia, nuove ricerche hanno iniziato a fornire maggiori dettagli.
Nel 2012 un gruppo del King’s College di Londra ha dimostrato che i modelli delle increspature nella bocca dei topi sono controllati da un «processo di Turing». Sono stati individuati due morfogeni che stabiliscono il punto in cui si forma ogni alterazione: sono il «fattore di crescita dei fibroblasti» e il «Sonic hedgehog» il riccio sonico così chiamato perché i moscerini della frutta privi di questo gene presentano molte più setole.
Altre ricerche hanno collegato il processo di «reazione-diffusione» di Turing allo sviluppo degli arti e a quello della mano dell’uomo. Si stanno così accumulando molte prove che il modello del celebre matematico sia il migliore per spiegare una vasta serie di esperimenti. E’ la realtà della biologia matematica, che ha fatto molta strada da quando Turing mostrò, per la prima volta, i suoi disegni sulle pezzature delle mucche. Traduzione di Carla Reschia

La Stampa TuttoScienze 24.10.12
La scoperta
La vita è nata da geni cooperativi


La vita sulla Terra è nata all’insegna della cooperazione, da reti di molecole capaci di replicarsi che, insieme, hanno portato alla formazione di entità sempre più complesse: è la tesi pubblicata su «Nature» e proposta da un gruppo di ricerca statunitense coordinato dall’Università dell’Oregon. Secondo la nuova teoria, le molecole di Rna tendono a creare reti «collaborative» che si sviluppano molto più velocemente rispetto ai sistemi «egoisti». Al centro della ricerca, coordinata da Nilesh Vaidya, alcune catene di Rna dei batteri Azoarcus: sono in grado di riassemblarsi da sole, se frammentate, grazie a un ciclo «virtuoso», nel quale ogni sezione dell’acido aiuta gli altri frammenti a ricostruirsi in modo corretto.

il Fatto 27.10.12
La “Nave dolce” e la Diaz albanese
Il documentario sullo sbarco dei 20 mila dannati della Vlora, destinati a una prigionia sudamericana a Bari
di Malcom Pagani


I poliziotti capirono, buttarono i fucili e vennero con noi. In 10 minuti diventammo 10 mila”. Sulla nave dolce, la vecchia Vlora, proveniente dai Caraibi e ancorata a Durazzo con il suo carico di zucchero, il 7 agosto 1991, alle 3 del pomeriggio, salì quasi il doppio della gente. Issandosi sui pennoni, stipando cessi e cabine, stringendosi in una miseria tenuta in piedi dalla prospettiva. Dipingere il futuro dirottando una carretta dai colori stinti. Fuggire dalla piccola Cina di Enver Hoxha ballando sulle onde di un’illusione. Senza acqua e cibo. Urlando al cielo la filastrocca che non si tramutò in asilo politico: “Italia, Italia”. Costeggiando via radio il rifiuto di Brindisi: “Vi aspettano a Bari, è tutto organizzato”. La Vlora ci arrivò in condizioni pietose alle 10 dell’8 agosto. Qualcuno non ce la fece e davanti alle banchine, come dalle torri gemelle 20 anni più tardi, infiammato dalla sete, si gettò dalla nave in mezzo agli idrocarburi. Dieci metri di volo mentre a terra, davanti a pochi poliziotti e alle navi da guerra in rada a incrociare la Vlora, sostava l’incredulità.
DANIELE VICARI, regista, è nato in montagna nel 1967. È di rigore anacronistico, di carattere non conciliante e non riesce a prendere il suo mestiere come un gioco. Studia. Scava. Va alle radici dell’indagine. È cresciuto alla scuola di Guido Aristarco. Il comunista che al cinema e nella vita dava agli effetti la stessa cittadinanza delle cause.
Con Diaz, risalendo dal burrone dell’ignominia, Vicari ha disegnato la violenza del silenzio. Girando il suo seguito ideale, La nave dolce, storia di una prigionia sudamericana in territorio nazionale, laboratorio genetico della metamorfosi dell’ordine pubblico nelle emergenze umanitarie e primo grande tavolo di confronto con quell’emigrazione che era stata tratto distintivo, rivelazione del razzismo dentro i patri confini e motore economico all’epoca del boom, si è ripetuto. Persero tutti, racconta Vicari. I baresi impegnati a portare pane e latte. Il sindaco, Enrico Dalfino, sceriffo buono annegato nelle spinte centrifughe del governo centrale. I pirati della Vlora, donne, bambini, civili, delinquenti. Rispediti alla casella del via. Cercavano il Paese di Totò Schillaci per inseguire un proprio posto sull’atlante dell’improbabile. Cercavano un’assunzione, un letto, un colpo di culo.
La tv italiana arrivava a Tirana e a Valona. Colpo grosso e i giochi a premi. Certe volte, quando il cielo lo permetteva, si poteva vedere dall’altra parte. Le vette dei palazzi, la costa, l’ingresso a portata di mano. A Bari vennero fatti scendere, assembrati come bestie, tenuti a bada da cani, idranti e manganelli. I panini gettati al di là delle transenne. Nel caos. Nella calca. Nei pugni, nel carbone, nelle pozzanghere. Tra il canto delle sirene, le ambulanze e i soldati dell’Esercito. Con scene bibliche, dantesche, ragazzi svenuti e volti da Huckleberry Finn. Ragazzini con il ciuffo all’indietro, il coraggio del giorno speciale e una cassa d’acqua sotto il braccio.
LA RICOMPENSA di una gita inattesa con sorpresa finale. Il premio non arrivò mai. Dai bus arancioni con la pubblicità del Crodino, gli albanesi vennero scaricati allo stadio della Vittoria, quello con i caratteri del ventennio incisi sulle mattonelle, la casa di un Bari che in Serie B riempiva l’impianto più di quanto non accadde poi con le astronavi progettate da Renzo Piano. Tutti sul prato, come in Cile nel ‘73 o in Argentina nel ‘78. Presto, le bande inferocite presero il controllo sul resto della truppa. Impedirono la distribuzione del cibo. Resero lo stadio un Bronx a zone d’influenza in cui organizzare sassaiole, tentare la fuga, chiedere un’ospitalità che non giunse mai. 1.500, forse 2.000 persone, scapparono. Per tutti gli altri, tra loro il ballerino di Amici Kledi Kadiu, il ministero degli Interni decise il rimpatrio immediato. Dalfino, il primo cittadino che aveva proposto una tendopoli, l’unico con don Tonino Bello ad aver coraggio di scendere nei gironi dell’arena, venne messo in un angolo e sfiduciato da Cossiga. Replicando la linea del ’77 bolognese, Cossiga improntò la linea generale dello Stato all’assoluta chiusura. Come a Genova due decenni più tardi, senza il grande narratore sardo, ma nel-l’alveo di un consolidato modello di ordine pubblico. Azione. Reazione. Paura. Repressione. Nel ’91, il presidente della Repubblica affidò l’operazione Vlora al capo della Polizia Parisi. Poi atterrò a Bari e demolì Dal-fino: “Il sindaco di Bari si è reso protagonista di dichiarazioni irresponsabili. Spero presenti le sue scuse, altrimenti sarà mia cura chiederne la sospensione”. L’altro rispose rivendicando libertà di parola: “Un sindaco non è un sepolcro imbiancato”. Poi venne spazzato via, si ammalò, morì e tacquero tutti. Gli albanesi riportati al di là del mare. Quelli rimasti in patria. I 230 mila stranieri che al tempo albergavano in Italia. I quasi 5 milioni di oggi. Un ingiallito cortocircuito di senso a cui Vicari con uso straordinario del repertorio e della musica di Theo Teardo (una chitarra malinconica messa a contrasto con la brutalità di un’operazione concentrazionale poi maestra nelle troppe Lampedusa d’Italia) restituisce una forza contemporanea. Da giallo, thriller incalzante, attualissima tragedia greca. Con uno slancio vitale per la ritmica del racconto e un’emozione non posticcia, da grande documentario americano. Ma “La Nave dolce” (in anteprima al Teatro valle di Roma il 6 novembre, nelle sale dall’8, ndr) l’hanno prodotto Francesca Cima e Nicola Giuliano. Un ex rugbista napoletano che sorride solo se non serve e che designato per la commissione Oscar con Diaz stoltamente ignorato, ha preferito dimettersi. Temeva che aver finanziato questa riflessione civile potesse condizionarlo. Vicari è della stessa pasta. Ha ricostruito il filo degli eventi senza girare nulla. Non ha emesso un lamento. Ha ascoltato poliziotti, giornalisti, profughi, traghettatori loro malgrado e volontari. Ha fatto parlare la storia. Quando si perde l’amore per se stessi, suggerisce, non si distinguono i confini. Nei confronti di chi non ha più nulla, testimonia, è più facile esercitare il dominio. Gli “orchi” di Durazzo tornarono nella caverne il 14 agosto ‘91. Con due agenti di scorta a testa. I gendarmi con i pennacchi di De André. Qualcuno a Bari, sotto il casco blu, prendeva ordini. Aveva 20 anni, uno sfollagente e pianse lacrime pasoliniane. In Albania non le vide nessuno. L’America era lontana. Persa nella foschia, nel sale, nelle nuvole all’orizzonte.

La Stampa TuttoLibri 27.10.12
«Sbatti Bellocchio in sesta pagina», di Steve della Casa e Paolo Manera edito da Donzelli
Le recensioni (da brividi) della sinistra extraparlamentare
Anni 70: stroncature a priori nel nome della rivoluzione
Quando il cinema non serviva il popolo
di Riccardo Barenghi


Se siete appassionati di cinema e se, magari, eravate nell’età della ragione negli Anni Settanta, vi divertirete a leggere Sbatti Bellocchio in sesta pagina di Steve della Casa e Paolo Manera edito da Donzelli. Un’antologia corredata da una prefazione di Marino Sinibaldi e da una postfazione dei due autori delle recensioni apparse sui giornali della sinistra extraparlamentare dal’68 al’76.  Farete un tuffo nel passato, probabilmente vi verranno i brividi di fronte a un certo tipo di linguaggio e a una serie di argomenti non solo datati ma anche alquanto rozzi. Però avrete anche qualche piacevole sorpresa nello scoprire punti di vista intelligenti, curiosità intellettuale e originalità nell’affrontare un mondo, quello della celluloide appunto, che non era esattamente il centro della lotta di classe, i cortei anche violenti, le occupazioni di case e scuole,l’imminente rivoluzione (mai arrivata ma invocata e creduta possibile), ciò che insomma era l’interesse principale dei gruppi della sinistra estrema e dei loro giornali.
Tuttavia c’è sempre un filo rosso (l’aggettivo in questo caso ha anche un significato politico)che percorre tutte le recensioni,anche le migliori: il film preso in esame deve sempre rispondere alla domanda di fondo, se cioè si tratta di un contributo alla causa oppure se, per quanto animato dalle migliori intenzioni, alla fine risulta un prodotto «borghese». Quindi da stroncare, magari boicottare, comunque bocciare. Gli esempi non mancano. Leggiamo su Lotta continua a proposito di «Allonsanfàn»: «Incapaci di stabilire un rapporto con la realtà della lotta di classe, incapaci di studiare i nodi del presente e i suoi germi di futuro, i Taviani si uniscono così alla vasta schiera di intellettuali dal pessimismo facile, che cercano giustificazioni alla loro separatezza, al loro isolamento, alle loro scelte revisioniste o reazionarie, con discorsi sempre più metafisici...». Oppure, ancora su Lotta continua troviamo un articolo su «Novecento» di Bertolucci, che «propaganda l’ideologia del compromesso storico», non a caso esso «è sostenuto concordemente dal Pci e dalla borghesia estetizzante tardo-capitalista, dalla Rai e insieme dai quotidiani revisionisti».Ma se vogliamo una sintesi efficace del discorso, basta leggere cosa scrive il Quotidiano dei lavoratori a proposito di «Sugarland express di Spielberg»: «Cosa si può chiedere in positivo a un prodotto della cinematografia borghese? Cosa aspettarsi di valido, dando per scontato il fatto che, per definizione, non nasce da un terreno e da un presupposto rivoluzionario proletario?».
Ovviamente e per fortuna ci sono anche articoli che entrano più nel merito del film, vedi per esempio la polemica tra lo stesso Quotidiano dei lavoratori e Roberto Rossellini (che per altro simpatizzava con Avanguardia operaia, editore del giornale) a proposito del suo «Anno uno». Oppure discorsi come quello di Umberto Eco sul manifesto (firmandosi Dedalus) in cui invitava i militanti a «usare anche Toro seduto», perché «ogni film può diventare  occasione di un discorso politico...». Tanto che sullo stesso quotidiano, Valentino Parlato scrive che «La classe operaia va in paradiso» «ha il merito di rispecchiare e comunicare questo mondo che conosciamo. Il limite, consistente, è di non essere un film militante e questa mancanza si riverbera sulla stessa narrazione. Tutto quel che il film dice è vero, ma appare insufficiente. Penso a quanto è difficile scrivere una corrispondenza di fabbrica veramente militante e so che i lettori del manifesto vorrebbero qualcosa di più dai film...».
Tuttavia si spera che quei lettori non siano accorsi in massa in qualche saletta fumosa per vedere due documentari realizzati dal «Centro cinematografico del Partito sotto la guida del Comitato nazionale Stampa e Propaganda. Il popolo calabrese ha rialzato la testa e Viva il Primo maggio rosso!». Lo scriveva Servire il popolo il 9 maggio 1969 aggiungendo una frase del presidente Mao: «Bisogna far sì che la letteratura e l’arte entrino a far parte integrante dell’intero meccanismo della rivoluzione, operino come un’arma potente per unire e educare il popolo a combattere come un sol uomo contro il nemico».