sinistral'Unità 12.10.05Bertinotti: «Un voto di sinistra all’Unione»SIENA «A queste primarie occorre partecipare perché un’occasione per esprimere la propria opinione. Ma anche perché bisogna dare un segno di sinistra all’Unione. Ne abbiamo davvero bisogno». Così Fausto Bertinotti ieri a Siena per il suo giro elettorale come candidato alle primarie.
Il leader del Prc è stato accolto da moltissime persone al cinema Moderno, ma non si è voluto sbilanciare sulla partecipazione alla consultazione. «Difficile far previsioni anche perché non ci sono precedenti. Bisogna vedere fin dove arriva l'informazione. Certo in una città come questa, in Toscana informare è abbastanza semplice. Lo è meno in grande aree metropolitane come Roma, Milano, Napoli è molto difficile arrivare alle singole persone. Siamo in un incognita». Ma secondo Bertinotti «saranno in tanti ad andare a votare perché la partecipazione che ho incontrato in questo viaggio nelle primarie è stato eccezionale».
Bertinotti dopo le considerazioni generali nel dibattito è entrato anche nel merito del programma dell’Unione. Partendo dai problemi di oggi. Ha attaccato la legge Bossi-Fini sull’immigrazione «da abrogare per costruire una cittadinanza di uguali» ricordando come sono trattati gli immigrati nei centri di accoglienza temporanea. «In realtà - è la lettura che Bertinotti fa di questa legge - nessuno vuol mandare via gli immigrati. Ma piuttosto tenerli senza diritti per poterli meglio sfruttare».
Ha bocciato la politica scolastica del ministro Moratti che punta ad una scuola «finalizzata ad un lavoro incerto. Se il lavoro è povero e precario non c'è una buona scuola, una buona salute. Noi - ha proseguito citando il don Milani (che diceva senza giri di parole "che la scuola è meglio della merda”) - stiamo tornando alla scuola di classe».
Sul tema dei Pacs Bertinotti ha invitato a partire dalla realtà sostenendo che la Repubblica di deve dare leggi condivisibili da tutti. «I pacs sono il minimo comune denominatore di un'alleanza come l’Unione per rendere civile questo paese». E già che c’era ha bacchettato il cardinale Ruini. «Non ci troverei niente di strano se il cardinale convincesse chi convive al matrimonio religioso.Ma ciò che non può fare è stabilire in confine della legge italiana. Della costituzionalità delle nostre risponde la corte costituzionale e il popolo italiano».
Infine si è concesso anche una digressione sulla legge elettorale di stretta attualità politica: «stanno facendo cose davvero scandalose e credo anche manifestamente anticostituzionali. La più clamorosa è quella che consente di leggere il voto rompendone la segretezza».
violenza contro le donne
Corriere della Sera 13.10.05Un rapporto del Fondo delle Nazioni unite per la popolazioneUna donna su tre nel mondo subisce violenzeÈ stata picchiata, costretta ad avere rapporti sessuali o abusata, in genere da un membro della famiglia o da un conoscenteil documento integrale in inglese:
www.unfpa.orgUna donna su tre nel mondo ha subito violenze fisiche, psicologiche o sessuali, ad opera degli uomini. E’ uno dei dati che autorizza a parlare di «apartheid femminile» e che è contenuto nel rapporto-denuncia presentato ieri dall’Unfpa, il Fondo Onu per la popolazione. E’ il nodo che rischia di bloccare il raggiungimento di tutti gli altri obiettivi fissati dalle Nazioni Unite nel 2015: dimezzare l’estrema povertà, raggiungere l’educazione elementare universale, contenere la diffusione dell’Aids. «Non possiamo affrontare questi problemi - ha detto il direttore dell’Unfpa Thoraya Ahmed Obaid - finché non fermiamo la violenza contro le donne. E finché le donne non godranno appieno dei loro diritti sociali, culturali, economici e politici». Maggiore uguaglianza tra i sessi, calcola il rapporto, salverebbe nel prossimo decennio 2 milioni di donne e 30 milioni di bambini.
NEW YORK - Nel mondo una donna su tre è stata picchiata, costretta ad avere rapporti sessuali o abusata, in genere da un membro della famiglia o da un conoscente. Lo denuncia il rapporto sullo stato della popolazione nel mondo 2005 messo a punto dall'Unfpa (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione). La violenza contro donne e ragazze (sono 1,7 miliardi le donne tra i 15 e i 49 anni nel mondo) è «un'epidemia mondiale, silenziosa e di dimensioni allarmanti. La discriminazione contro donne e ragazze sottrae allo sviluppo di intere nazioni il pieno contributo delle capacità individuali di oltre metà della popolazione».
VIOLENZA UBIQUITARIA - La violenza sulle donne «continua incontrastata» sia nelle nazioni ricche che in quelle più povere, dice il rapporto. Gli autori delle violenze restano spesso impuniti, lasciando alle donne prive di qualsiasi possibilità di risarcimento tenendo conto inoltre che circa i due terzi degli oltre 800 milioni di adulti analfabeti sono donne. Dei 137 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni analfabeti, il 63% sono donne.
IN POLITICA - In media nel mondo le donne detengono solo il 16% dei seggi parlamentari (in Italia molto meno). Alcuni Paesi in via di sviluppo hanno però fatto passi avanti in questo campo: il Ruanda, per esempio, ha la più alta percentuale di deputate al mondo (49%) superando la Svezia (45%). L'Unfpa afferma che molti Paesi non hanno mantenuto l'impegno di eliminare le leggi discriminatorie contro le donne entro il 2005 come richiesto dalla Conferenza di Pechino del 1995. Per promuovere l'uguaglianza di genere e ridurre la povertà, secondo l'Unfpa è necessario coinvolgere attivamente gli uomini e ragazzi.
LA SALUTE FEMMINILE - Mezzo milione di donne muore ogni anno per cause legate alla gravidanza e al parto. Per ogni donna che muore per questi motivi, però, altre 20 soffrono di invalidità o malattie, per una cifra che va dagli 8 ai 20 milioni ogni anno. Si contano 76 milioni di gravidanze indesiderate ogni anno nei soli Paesi in via di sviluppo. Ogni anno circa 14 milioni di adolescenti fra 15 e 19 anni diventano madri. L'Unfpa stima che nei prossimi dieci anni circa 100 milioni di adolescenti saranno costrette a sposarsi prima dei 18 anni. Circa la metà delle persone sieropositive sono donne. Una donna su due ha accesso alla contraccezione (in Africa una su cinque). Il 99% delle morti delle madri avviene nei Paesi in via di sviluppo. Nell'Africa sub-sahariana meno del 40% delle donne partorisce con assistenza specializzata. Dei 130 milioni di bambini che nascono ogni anno, 4 milioni muoiono nel primo mese di vita. Il 99% delle morti neonatali avvengono nei Paesi a reddito basso o medio e quasi la metà avvengono a casa.
Emma Boninodi Costantino MuscauIl rapporto del Fondo delle Nazioni Unite sulla popolazione: nel mondo una donna su tre subisce violenze L’Onu denuncia: apartheid sessuale Emma Bonino: «Molti abusi nei Paesi ricchi, ma ci sono progressi»
«In Kuwait le donne eleggeranno i deputati nel 2007; l’Arabia Saudita ora ammette che il voto femminile non è più un tabù voluto dalla religione, e che è stato rinviato per motivi tecnici; a Kandahar (già roccaforte talebana) le candidate al parlamento hanno incontrato a volto scoperto i giornalisti maschi; a Herat una candidata fa l’estetista; le denunce delle mutilazioni femminili, dei matrimoni obbligati sono diventate pubbliche... No, non è vero che tutto va male nel pianeta donna. Ci sono elementi di avanzamento, lentissimi, faticosissimi, spesso pagati col sangue, ma ci sono». L’eurodeputata radicale Emma Bonino, da decenni protagonista di battaglie storiche sulla questione femminile e ora capo della missione di osservazione elettorale dell'Ue in Afghanistan, non vede tutto nero nel rapporto sullo stato della popolazione nel mondo 2005 diffuso ieri dall’agenzia Onu. «Mi sono profondamente emozionata - continua la Bonino, da Bruxelles dove sta preparando proprio una pre-relazione sull’andamento del voto in Afghanistan - nel vedere centinaia di ragazzine sciamare all’uscita dalle scuole afghane...Una scena inimmaginabile nel 1997 quando venni arrestata dai Talebani. Certo resta l’emarginazione complessiva, il dominio sulla popolazione femminile: basti pensare al protagonista del romanzo "Il libraio di Kabul": un uomo illuminato, colto, che considera le donne della sua famiglia come serve, un padre padrone per cui è scontato che la donna sia inferiore..Ma forse che in Occidente il potere maschile e maschilista vuole mollare la presa?».
L’ex commissaria europea si riferisce al fatto che un quarto dei casi di abusi sessuali si verifichi in nazioni sviluppate, come Australia, Canada, Israele, Usa. «Per non parlare della Spagna - aggiunge - dove la crudeltà domestica ha acquistato una tale rilevanza pubblica che, unico Paese in Europa, ha aperto "rifugi" per donne maltrattate e varato una legge contro la "violenza di genere"». Ma Emma Bonino punta il dito accusatore anche sull’egoismo delle donne occidentali da una parte, e sulla discriminazione (soprattutto politica), dall’altra. «Da noi, o per individualismo o per indifferenza, ci si occupa sempre meno delle nostre sorelle più sfortunate in quanto a diritti, che spesso vivono a poche ore d’aereo. Eppure queste nostre sorelle, 2-3 generazioni indietro rispetto a noi, hanno bisogno di supporto internazionale. Ci dimentichiamo che noi stesse in Italia abbiamo avuto bisogno di essere "accreditate" per l’aborto, il divorzio, da eminenti figure europee come Simone Veil. Purtroppo le italiane stanno perdendo persino la forza di difendersi dagli attacchi a certi diritti...».
Sulla discriminazione politico-sociale, Bonino rincara la dose: «Quante sono le direttrici di giornali, di banche, di grandi aziende in Italia? Per non parlare delle segretarie di partito. A parte Adelaide Aglietta, o me o Grazia Francescato chi se ne ricorda un’altra? Vogliono fissare le quote per le donne in politica? Ma via! E’ una scorciatoia inammissibile. E perché non facciamo le quote per colore della pelle? La verità è che la discriminazione della donna è frutto del potere maschile. E il potere chi ce l’ha non vuol perderlo. In Italia come nel resto del mondo. E strapparlo è molto difficile».
Cina /1Corriere della Sera 13.10.05La svolta La parola d’ordine del regime di Pechino: meno divario ricchi-poveri
Ridurre le enormi disparità fra ricchi e poveri, mettere fine agli sprechi indiscriminati di risorse naturali e alla devastazione dell’ambiente. E’ una svolta epocale quella che si prepara in Cina. Un addio a quello slogan, «arricchitevi», coniato dal «piccolo timoniere» Deng Xiao Ping a fine anni ’70, che ha dato il via a un boom
Cina /2aprileonline.info 13.10.05 Quando il Dragone va in orbita Oriente. Parte dalla base spaziale “Città dello spazio Vento dell’Est” (Mongolia), la navicella Shenzhou VI (Vascello divino). Il secondo lancio con gli occhi a mandorla della storiadi Sandro De ToniMercoledì 12 ottobre, in concomitanza con la riunione annuale del plenum dell’Assemblea del popolo, il parlamento cinese, e a pochi giorni dalla festa della Repubblica popolare del 1° ottobre, il lancio di un secondo satellite da parte del Paese del Dragone con due astronauti a bordo è pienamente riuscito.
Il vettore “Lunga marcia” ha messo in orbita la navicella Shenzhou VI (Vascello divino). Il lancio, che è avvenuto dalla base spaziale “Città dello spazio Vento dell’Est” vicino alla città di Jiuquan, nella Mongolia interna, è stato trasmesso in diretta dalla televisione nazionale. Due anni fa il primo lancio in orbita di un astronauta con gli occhi a mandorla.
I due taikonauti ( come gli chiamano in mandarino – per la verità la parola esatta sarebbe “taikongren”) sono Fei Junlong di 40 anni e Nie Haisheng di anni 41. Il nome deriva dalla parola che in putonghua (la lingua comune, ossia il dialetto di Pechino) designa lo spazio, “taikong” o “grande vuoto”, alla quale i cinese hanno aggiunto il suffisso in uso in diverse lingue occidentali per nominare i visitatori degli astri e del cosmo.
Nel frattempo la neve cadeva sulla base spaziale che è ubicata nel deserto di Gobi. Migliaia di bambini, malgrado il gran freddo, hanno così festeggiato l’avvenimento nelle strade di Jiuquan, una città che si trova a mille chilometri ad ovest di Pechino, al limite del deserto di Gobi, ed è abitata da circa 300mila persone. L’evento ha dato vita anche a qualche sfruttamento commerciale: il marchio “Shenzhou” è diventato quello di un famoso vino di riso prodotto in zona. D’altronde Jiuquan è una città che non è stata toccata dallo sviluppo delle zone costiere e che riceve un minimo di benessere solo dal turismo.
Sul posto era presente il primo ministro Wen Jiabao, il quale ha dichiarato che il lancio della navicella “è stato un successo totale…il mondo intero ha potuto vedere il successo del volo della navicella abitata Shenzhou VI”. I cosmonauti rimarranno in orbito cinque giorni.
Prosegue dunque con successo il programma spaziale di Pechino. Anzi, secondo l’esperto Philippe Coué, è il solo al mondo che va avanti.
La prima missione spaziale cinese risale a due anni fa quando fu messo in orbita un satellite con dentro il colonnello Yang Liwei il 15 ottobre 2003. Con quel lancio la Cina fu il terzo Paese al mondo a realizzare un volo simile dopo l’Urss e gli Stati uniti d’America.
Si prevede una prossima tappa nel 2006. Nel 2007 ci saranno due voli abitati, uno lanciato quattro mesi prima dell’altro, con delle uscite degli astronauti nello spazio e con la presenza contemporanea nello spazio di due navicelle cinesi. A medio termine, tra il 2008 ed il 2009, la Cina punta a disporre di una stazione spaziale con importanti ricadute militari e civili. L’obiettivo a lungo termine è quello di inviare intorno all’anno 2017 un veicolo sulla luna per esplorarla. I Cinesi hanno la reale intenzione di installarsi sul nostro satellite.
Una Cina dunque concorrenziale non solo sul tessile o sulle calzature ma anche nell’ambito della alte tecnologie e che si appresta a diventare un Paese competitore con gli Usa, con la Ue e con il Giappone, a tutto campo.
Cina /3
La Stampa 13.10.05Pechino vuole diventare una potenza spazialeL’impero celeste torna in orbita e sogna la LunaDue colonnelli a bordo del «Vascello divino» Partita la seconda missione dei «taikonauti»di Francesco SisciPECHINO. La Cina non si chiama impero celeste per caso. L’imperatore era il figlio del cielo, e quello che da noi si chiama «volere degli dei», qui è il «mandato del cielo». Così la nave spaziale cinese lanciata ieri verso l’empireo è il compimento di un destino millenario, la realizzazione di una vocazione iscritta nel nome stesso del Paese (oltre alla più banale ricerca di gloria e potenza). I due colonnelli Fei Junlong, 40 anni, e Nie Haisheng, 41, saranno nello spazio per una settimana, in un altro passo verso il viaggio del primo cinese sulla Luna, che dovrebbe avvenire entro il prossimo decennio. Sarà il culmine di una lunga corsa nello spazio proceduta negli ultimi 50 anni in modo discontinuo. E, nonostante ieri i leader di Pechino si siano affrettati a dichiarare le intenzioni pacifiche del programma spaziale cinese, è chiaro il profondo contenuto strategico di questo e dei prossimi lanci.
I primi lavori per arrivare a un razzo cinese cominciarono con l’aiuto dei russi, nel 1956. Ma i cinesi dovettero aspettare 14 anni per lanciare il loro primo satellite, l’«Oriente è rosso», decollato al culmine della rivoluzione culturale, nel 1970. Nel decennio successivo il potente ministero dell’aerospaziale si concentrò nel lavoro per il controllo dei satelliti da terra. Tutto era improntato allo scopo di migliorare il sistema di lancio dei missili: se si potevano collaudare decolli accurati con i satelliti, allora lo si poteva fare anche con i vettori balistici per gli ordigni atomici.
Ma il salto tecnologico cominciò solo dal 1985, quando la Cina mise sul mercato i suoi razzi per portare satelliti commerciali nello spazio. Di lì cominciarono gli studi avanzati per passare dal carburante liquido a quello solido. Contemporaneamente avanzava il lavoro per aumentare la capacità di trasporto dei razzi. Nel 1990 si passava al «Lunga Marcia 2» con una capacità di trasporto di oltre 9 tonnellate, e si era in dirittura di arrivo per la navetta spaziale. Per evitare dubbi sullo scopo del lancio nell’ottobre di quell’anno due topolini, cavie cinesi, finirono in cielo, ad aprire lo spazio poi al lancio umano.
In quel momento cominciava anche una rivoluzione della dottrina militare cinese dopo le analisi della prima Guerra del Golfo. Fino a quel momento la strategia cinese era concentrata sulla guerra di fanteria, grandi masse umane che non avanzavano in maniera coordinata appoggiati da carri armati e cannoni. Era la grande guerra di movimento su modello sovietico, ripresa dopo che il modello delle ondate umane era stato provvisoriamente abbandonato con il fallimento del breve conflitto contro il Vietnam nel 1979. La Guerra del Golfo però aveva mostrato che gli Usa avevano vinto conquistando il controllo del cielo, lo spazio. Erano le teorie degli anni ‘20 del generale piemontese Giulio Douhet, della guerra dal cielo, che vennero rinfrescate e diedero nuovo potere di leva e di espansione per l’industria aeronautica.
Quel decennio carico di ottimismo cominciò però per una serie di insuccessi nei lanci dei razzi. La repressione del movimento di Tiananmen aveva bloccato il flusso di tecnologia dall’Occidente e solo intorno alla seconda metà degli anni ‘90 la Russia di Eltsin aprì alla collaborazione militare, e aeronautica, con la Cina. Allo stesso tempo, pare che anche gli americani della Hughes e della Loral collaborassero con i cinesi nel miglioramento dei sistemi di controllo del lancio. Da allora finirono la serie di razzi che scoppiavano e missili che precipitavano a terra, e iniziò la marcia che portò il primo astronauta cinese nello spazio. Il «taikonauta» (tai kong in cinese significa spazio) Yang Liwei nell’ottobre del 2003 compì 14 orbite della Terra in 21 ore e 23 minuti sul suo Shenzhou (Vascello divino) V.
Oggi Fei e Nie hanno un compito diverso, staranno in cielo più tempo e compiono un serio passaggio per la preparazione che poi dovrà portare un equipaggio cinese sulla Luna. Lo scopo sarà la gloria del cielo, ma intanto il lancio è avvenuto mentre era in corso il plenum del partito, e il giorno prima c’era stato un altro lancio, quello del nuovo piano economico quinquennale. Simbolicamente insieme, presidente e vice presidente dello Stato, Hu Jintao e Zeng Qinghong hanno seguito il decollo dalla sala di comando e controllo a Pechino. L’occasione fa pensare a una possibile promozione di Zeng a vice presidente dell’onnipotente Commissione militare centrale, responsabile del programma spaziale.
È il futuro che si riallaccia al passato. Oggi la Cina, adoratrice della storia, racconta che il suo viaggio verso il cielo è cominciato con i suoi primi razzi spinti da polvere da sparo. Spiega che il primo inventore di una specie di propulsore jet fu nel 1400 Wan Hu che esplose nel tentativo di farsi sparare in cielo su un aquilone montato su 47 tubi di bambù. Mentre l’Occidente si dimentica che il primo razzo prese volo da Taranto nel 400 avanti Cristo, costruito da Archita, tiranno-filosofo della città e modello di Platone per la sua Repubblica.
Corriere della Sera 13.10.05L'uso politico della Storiada Erodoto a Stalingradodi Luciano CanforaQuando i sovrani dell’antico Oriente diffusero nei loro regni grandi lapidi murate in luoghi pubblici o eminenti recanti il racconto delle loro gesta, quello fu l’atto di nascita dell’uso pubblico della storia. Era quello il racconto della storia che il sovrano imponeva al suo popolo: l’unico «vero». Fu un greco d’Asia, Ecateo di Mileto, che alzò il capo e disse: «Io racconto come sembra a me». Ed è del tutto comprensibile che un altro greco d’Asia, in opposizione spirituale al dispotismo, abbia scritto, con le sue forze e sviluppando la sua individuale «ricerca» (è questo che significa «storia»), la storia della rivolta, infelicissima, dei greci d’Asia contro la Persia, e soprattutto la storia del regno persiano - non più quella ufficiale ma quella indagata da lui - e, a coronamento di tale «ricerca», la storia delle due invasioni persiane della Grecia, finite l’una e l’altra con la inopinata vittoria di Atene sulle sterminate truppe d’invasione. Così Erodoto - che apparteneva ad una famiglia di esuli di Alicarnasso, ma si era stabilito ad Atene - innalzò un «monumento» agli ateniesi. E quella sua storia incominciò a recitarla nella pubblica piazza. Quando Erodoto leggeva in piazza parti della sua storia, il pubblico non soltanto applaudiva ma, se del caso, partecipava criticamente. Una volta, quando Erodoto sostenne che, nel corso della traumatica crisi dinastica esplosa in Persia al passaggio da Cambise a Dario, era stata autorevolmente prospettata l’instaurazione in Persia della «democrazia», «alcuni Greci» non gli avevano creduto. Lo racconta lui stesso un paio di volte rivendicando - invece - di aver detto la pura verità.
È questo un episodio istruttivo. Ci fa capire che l’opera erodotea che noi leggiamo non è la pura e semplice trascrizione di quanto lui veniva leggendo dinanzi al pubblico in diverse città, ma piuttosto la rielaborazione scritta e collocata in una sapiente impalcatura dei materiali che, almeno in parte, in precedenza avevano avuto immediata fruizione pubblica. Era uno «spettacolo» che poteva risolversi, o meno, in un successo. Tradizioni antiche (ad esempio il continuatore dello storico Eforo, vissuto un secolo dopo) parlavano di un premio, di un consistente premio in denaro attribuito ad Erodoto dalla città di Atene: la notizia è ripresa moltissimo tempo dopo (quasi sette secoli dopo) dal cronografo e storico cristiano Eusebio di Cesarea, il quale precisa che il premio gli fu dato «perché Erodoto aveva dato lettura dei suoi libri davanti all’assemblea». Si era anche formata la leggenda che tali letture si svolgessero ad Olimpia in occasione dei giochi panellenici, e addirittura che tali letture comportassero un accompagnamento musicale. Luciano di Samosata, il greco di Siria che al tempo di Antonino Pio e di Marco Aurelio rivendicava la grecità contro Roma, scrive che ad Olimpia l’opera di Erodoto veniva «cantata».
Che ci fossero premi per gli scrittori che si impegnavano in favore della città di Atene (per rivendicarne o esaltarne la grandezza e il ruolo politico) ci è noto anche per altri casi. Così ad esempio sappiamo da Isocrate - che era un coetaneo di Platone - che Pindaro, il grande poeta tebano, per aver definito Atene «baluardo della Grecia» era stato, a suo tempo, nominato «prosseno» (una sorta di console onorario) e gratificato con un premio di diecimila dracme.
Definire Atene «baluardo della Grecia» non era affatto una ovvietà e nemmeno, almeno a partire da un certo momento in poi, una affermazione indolore. Al contrario, era una rivendicazione che risultava sempre più sgradita alle molte città greche che, dopo gli anni eroici in cui Atene aveva ripetutamente sconfitto i persiani (appunto, «baluardo della Grecia»), avevano cominciato a detestare l’egemonia e il dominio «tirannico» di Atene. Su quella storica vittoria, che aveva ricacciato il «barbaro», Atene aveva costruito la sua «alleanza», presto divenuta «impero». Una traiettoria analoga a quella che, millenni dopo, da Stalingrado portò al «patto di Varsavia».
Erodoto, che non era ateniese ma aveva scelto di vivere in quella città e di appoggiarsi alla cerchia di Pericle che ne incarnava la leadership, difese apertamente il diritto di Atene ad appellarsi pur sempre a quella remota vittoria liberatrice: anche in anni in cui ciò era malvisto dagli «altri greci», come egli stesso dice. (Quei greci che, subentrato al predominio ateniese quello, durissimo, di Sparta che pure aveva proclamato di «portare la libertà», cominciarono a rimpiangere Atene). E dunque il premio dato a lui era per ragioni sostanziali affine a quello dato a Pindaro. Entrambi avevano ribadito il merito storico di Atene.
Non paia modernistico affermare che in quella antica vicenda vi sono già in nuce gli elementi essenziali di ciò che oggi chiamiamo «uso pubblico della storia». Nell’esplicita «presa di posizione» o «schieramento» partitico che una tale pratica comportava, la vicenda trattata era, anche, la posta in gioco dello scontro politico: sia sul piano interno (ad Atene i nemici del «potere popolare» erano stufi di quella retorica della «vittoria sul barbaro») sia sul piano internazionale.
Ma da quella pubblica fruizione della storia potevano discendere esiti imprevisti. Racconta la biografia antica che Tucidide - il futuro storico -, da fanciullo, aveva assistito alle letture erodotee e ne era rimasto talmente scosso e conquistato da scoppiare in lacrime. Erodoto lo notò e si avvicinò al padre del fanciullo, preconizzando in lui «natura ardente per la conoscenza». Si sa che l’antica biografia metteva in relazione i grandi autori del passato, istituiva anzi tra loro un «passaggio di mano del testimone» (una
traditio lampadis). E nondimeno questa leggendaria o storica commozione di Tucidide, del futuro grandissimo interprete e critico della politica ateniese, racchiude dentro di sé un singolare paradosso. Tucidide ha certamente mosso i primi passi, come storico, sulle tracce di Erodoto, continuando l’opera di lui, scrivendo come lui. Ed ha incominciato anche lui con «letture» che forse non ebbero analogo successo. Ma quando esplose la crisi latente - che era crisi politica e militare, nel precipitare dei rapporti internazionali verso un irreparabile conflitto - e scoppiò la «guerra più grande di tutte le precedenti», come egli la chiama, Tucidide cambiò radicalmente registro. Inventò una scrittura totalmente nuova (la storia monografica di un solo grande avvenimento, ma paradigmatico) e si ritrasse dalla «gara» pubblica, dalla «storia in piazza». Scrisse liberamente, e assai criticamente, della tara profonda che erodeva l’impero, smascherò il ragionamento patriottico che ne costituiva l’architrave (il «diritto all’impero» nel nome di Maratona e Salamina) e inventò un nuovo prodotto letterario destinato ad un pubblico non solo cittadino. La sua scelta di non parlare per assecondare la retorica imperiale intrecciata con quella democratica fu sintomo e causa insieme della nascita di un pubblico di lettori nonché, per una lunga fase storica, della divaricazione tra storia e piazza, tra storici e popolo.
I due autori che raccontarono le guerre della GreciaErodoto e Tucidide sono i due grandi storici greci del V secolo a.C. Il primo, nato ad Alicarnasso, visse per diversi anni ad Atene. Le sue Storie nei primi quattro libri descrivono i costumi di vari popoli antichi e negli altri cinque narrano la lotta vittoriosa dei greci contro gli invasori persiani. Tucidide, nato ad Atene, partecipò alla guerra del Peloponneso contro Sparta (431-404 a.C.) e venne esiliato dalla sua città per lunghi anni. Al conflitto tra ateniesi e spartani, concluso con la vittoria di questi ultimi, è dedicata la sua opera storiografica, considerata un autentico capolavoro dell’antichità.
storia dell'uomo /1Corriere 12.10.05Il ritrovamento del primo scheletro un anno fa in IndonesiaL'hobbit non era solo: scoperti nuovi restiTrovati altri 9 scheletri che confermano l'ipotesi che 18 mila anni fa esistesse un umano basso, con i piedi grossi e le braccia lunghe
di Alessandra BraviFLORES (INDONESIA) - Non sarà la Terra di Mezzo, ma certo era un'isola alquanto strana. Popolata da elefanti nani, lucertole giganti e uomini alti un metro, mento sfuggente, con le braccia lunghe e i piedi grossi. E' l'isola di Flores, in Indonesia. La terra degli Hobbit, forse. Perchè lì, nella caverna di Liang Bua, un anno fa furono scoperti i resti fossili di un ominide, ribattezzato
Homo Floresiensis, che ricordava la creatura inventata da Tolkien. E adesso, un anno dopo, di questi scheletri se ne sono trovati ben nove, con braccia e gambe che danno un quadro più preciso della strana creatura. E che confermano l'ipotesi che 18mila anni fa esistesse una razza umana molto diversa da quella che siamo abituati a conoscere.
La scoperta, fatta dall'equipe di antropologi australiani guidata da Mike Morwood, dell'Università della New England di Armidale, in Australia, gli stessi che nel 2004 avevano trovato il teschio piccolo e schiacciato dell'ominide e avevano parlato di nuova razza umana preistorica, è stata pubblicata sulla rivista scientifica londinese,
Nature, e ripresa da molti media inglesi.
Caratteristica principale dell'
Homo Floresiensis, chiamato così dal luogo in cui i resti sono stati trovati, è la statura minuta: appena un metro di altezza, che aveva fatto sospettare che il primo esemplare appartenesse ad un individuo adulto affetto da microcefalia. Conclusione sbagliata alla luce dei nuovi ritrovamenti che permettono di formulare l'ipotesi che esistesse davvero una comunità di ominidi diversi dalle altre specie umane che la preistoria ci ha insegnato a classificare. La nuova specie - che potrebbe aver convissuto con gli ultimi rappresentanti di
Homo erectus e prima della colonizzazione della regione da parte di
Homo sapiens - si lega perfettamente alla fauna fossile dell'isola, in passato habitat di specie arcaiche estinte in altri luoghi e spesso conservate in forme estreme: lo stegodonte, una specie di elefante nano, o il Drago di Komodo, una lucertola gigante.
All'epoca del ritrovamento i resti del teschio erano stati ritenuti una stranezza antropologica, fossili appartenenenti ad un individuo malato di nanismo. Diversi scienziati avevano attaccato l'ipotesi formulata dallo studioso australiano, secondo cui quell'individuo, denominato
Homo Floresiensis ma soprannominato Hobbit per via della sua bassa statura, potesse rappresentare un'altra specie di
Homo. Ora
Nature svela che esisteva davvero una tribù di
Homo Floresiensis, che abitò a Liang Bua per almeno sei millenni: il fossile di ominide più antico in quella caverna risale a 18.000 anni fa, e il più recente a 12.000 anni fa, ossia pochi millenni prima che l'
Homo Sapiens inventasse l'agricoltura e, ponendo fine al nomadismo, desse vita alle civiltà stanziali e urbane.
storia dell'uomo /2La Stampa 13.10.05Uomo di Pechino
chi l'ha visto?
Un numero verde per i reperti scomparsi
di Gabriele BeccariaC’È un numero verde per trovare sei uomini scomparsi di 500 mila anni fa. E c’è qualcuno che telefona, come il signor Ren, che dice di aver conosciuto una persona che potrebbe sapere dove li hanno nascosti.
Non era una riunione di pazzi, quella che si è svolta in un piccolo centro non lontano da Pechino. Anzi. C’erano archeologi, paleontologi, geologi e gli immancabili rappresentanti delle autorità: erano severi e allo stesso tempo euforici, com’è giusto esserlo quando si cerca il Sinanthropus pekinensis, universalmente noto come l’Uomo di Pechino, ominide-chiave nella storia dell’evoluzione della nostra specie e che molti libri di testo del regime considerano il padre di tutti i cinesi, anche se non doveva essere attraente né aitante.
Scoperte nel 1929 e quasi subito perdute, nel 1941, le ossa racchiudono uno dei grandi gialli del XX secolo che si prolunga anche nell’attuale. «Speriamo di riportarli tutti a casa presto!», hanno concluso i presenti, gridando uno slogan in stile archeo-comunista. Alle spalle c’era un poster con i disegni dei sei crani (o di quel che resta) del grande antenato. Da 64 anni sono l’obiettivo di una caccia, a volte pubblica e a volte segreta. Ma ora la Cina fa in grande: ha istituito un team apposito, degno della potenza che è diventata, e che agli occidentali è stato prolissamente presentato come il «Working committee to search for the lost skullcaps of Peking Man». Un comitato operativo, insomma.
Era il 2 dicembre 1929, quando l’archeologo Pei Wenzhong (che, secondo la leggenda, teneva un martelletto in una mano e una candela nell’altra) si calò in un crepaccio e portò alla luce uno straordinario cranio. Poi nel paese di Zhoukoudian, 50 chilometri a Sud-Ovest di Pechino, le scoperte si moltiplicarono e si trasformarono in un evento di risonanza mondiale: dalla caverna battezzata «Dragon Bone Hill» emersero altri cinque teschi e le ossa fossilizzate di 40 individui, che avevano colonizzato l’area 500 mila anni prima. Il look era ancora scimmiesco: piccoli (tra 1 metro e 44 e 1 metro e 56) e dalla fronte sfuggente, erano però tutt’altro che stupidi. Dalla loro avevano la tecnologia. Erano tra i primi a conoscere il fuoco, come dimostravano i resti carbonizzati di molti animali.
Il meglio degli studiosi europei e americani si riversò in Cina. Tra loro Teilhard de Chardin (il celebre paleontologo, filosofo e teologo) e Davidson Black, che con il sostegno della famiglia Rockefeller creò un laboratorio dove raccogliere tutto, dai denti ai femori, e svelarne i segreti. Ma il tempo non sarebbe bastato. Prima lo scoppio della guerra civile, poi l’invasione giapponese e la seconda guerra mondiale resero le ricerche sempre più rischiose, finché nel 1941, alla vigilia di Pearl Harbor, i reperti furono raccolti in due casse e spediti nel porto di Chingwangtao per essere caricati sul cargo «President Harrison», con destinazione California. Ma là non arrivarono mai.
Colpa della scorta dei marines? Oppure furono razziati dai militari giapponesi? O, ancora, nascosti a Pechino? L’indagine è appena cominciata, mentre al numero 86.10.69.30.12.87 si susseguono segnalazioni sconcertanti. «Vi dirò dove furono sepolti i frammenti dei sei teschi», sostiene un anonimo. Dice di avere 121 anni e una memoria eccezionale.
patologie infantiliYahoo Salute 12.10.05Sovrappeso e salute mentale tra le patologie più rilevanti tra i bambini italianiL'alta mortalità neonatale nel Sud Italia, gli incidenti, la salute mentale, il sovrappeso e l'obesità: sono queste le principali criticità per la salute di bambini e adolescenti in Italia.
Questo è quanto emerge dal Rapporto “ La salute del bambino in Italia: problemi e priorità ”, realizzato dall'Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Burlo Garofolo d Trieste.
Il tasso di mortalità infantile in Italia (4,4 per mille nati vivi) risulta molto vicino alla media UE (4,2 per mille – dati 2001), ma, tra le regioni italiane, persistono differenze notevoli nella sua componente principale, ovvero la mortalità neonatale.
Infatti, nel Nord Italia solo il 2,5 per mille dei neonati muore tra il primo e il 28° giorno di vita; la percentuale nel Centro Italia sale al 2,9 per mille, per giungere al 4,3 per mille nel Sud Italia. Considerando il tasso di mortalità infantile nell'intero primo anno di età, il dato medio nazionale del 4,4 per mille nati vivi evidenzia ancora una volta la disparità tra le regioni: 3,5 per mille al Nord, 3,9 per mille al Centro, 5,6 per mille al Sud Italia.
“Il dato indica che nel Sud Italia un bambino ogni duecento muore entro il primo anno di età, mentre al Nord ne muore uno ogni trecento - precisa Giorgio Tamburlini . I dati mostrano come le regioni del Sud Italia evidenzino livelli di mortalità perinatale e neonatale tra i più alti di tutta l'Unione Europea, compresi i Paesi di recente annessione: Slovenia, Ungheria, Repubbliche Ceca e Slovacchia mostrano, infatti, a oggi indicatori migliori delle regioni meridionali italiane, pur in presenza di livelli socioeconomici meno favorevoli”.
Ulteriori differenze tra Nord e Sud si notano nella mortalità per la fascia di età 15-24 anni.
In questo caso, però, il fenomeno appare rovesciato: è più elevata la mortalità al Nord, rispetto quella al Sud, tanto che tutto il vantaggio accumulato dalle Regioni del Nord nel primo anno di vita in termini di minore mortalità viene completamente annullato ai 25 anni di età. In questa fascia, infatti, il differenziale esistente tra Nord Italia, il cui il dato risulta essere più elevato (0,54 per mille) rispetto al Centro e al Sud Italia (rispettivamente 0,45 e 0,42 per mille), è legato alla differenza per mortalità da traumatismi e avvelenamenti, al Nord pari ai 0,39 per mille, contro lo 0,24 per mille al Sud. Sono quindi gli incidenti – e in particolar modo gli incidenti stradali – ad annullare il vantaggio della minore mortalità in epoca neonatale riscontrato al Nord.
Anche il settore della salute mentale si rivela una della aree di maggior rilievo. I dati a disposizione indicano che circa il 17% della popolazione in età pediatrica (inferiore ai 18 anni) soffre di disturbi mentali: i disturbi dell'apprendimento riguardano circa il 6% della popolazione pediatrica, quelli del comportamento l'1,6%, i disturbi pervasivi dello sviluppo incidono per lo 0,8%, mentre la depressione riguarda l'8% dei ragazzi; bulimia e anoressia incidono assieme tra l'1,6 e il 2,8%.
Di grande attualità risulta inoltre il problema del sovrappeso e dell’obesità dei bambini italiani. Lo standard per la misurazione del sovrappeso e dell'obesità è stato, infatti, adottato solo recentemente: i primi studi effettuati in Italia, utilizzando l’indice di massa corporea ( BMI ) proposto nel 2004, evidenziano che il 36% dei bambini italiani di 9 anni risulta in sovrappeso, di cui il 12% è decisamente obeso. Anche in questo settore, persistono differenze tra il Nord e il Sud, con un numero più elevato di obesi al Sud; il dato italiano è ben superiore al dato europeo.
Il Rapporto evidenzia alcuni indici che permettono di paragonare la situazione sanitaria dell'infanzia in Italia e in Europa (a 15 membri): dal confronto emerge che l'Italia si trova in posizione più favorevole per quanto concerne il numero di gravidanze in adolescenti e il suicidio, mentre evidenzia dati peggiori alla media europea sul fronte della mortalità neonatale, dell’obesità, dell'incidenza del morbillo e della mortalità per cause violente nei giovani adulti (fino a 24 anni). (
Xagena)
dibattiti nella sinistra
l'Unità 12.10.05Intellettuali e marxismoUna vicenda chiave per la cultura italiana di questo dopoguerra: Della Volpe e il dellavolpismo. La parabola di un marxista non togliattiano e quella del suo allievo più famosoDella Volpe e Colletti?Era meglio il primodi Bruno GravagnuoloC’erano una volta Della Volpe e Colletti. E poi «l’ultima» crisi del marxismo. Più di trent’anni fa questa, almeno a far data dalla celebre
Intervista politico-filosofica (Laterza) del 1974 a cura di Perry Anderson. Con la quale Lucio Colletti, allievo di Galvano Della Volpe, diede l’addio al suo marxismo, «scientista» e un po’ canonico, benché professato con rigore illuminista. E c’erano una volta i dibattiti su
Rinascita dedicati «contraddizione dialettica» («reale» oppure soltanto del pensiero?). Con Luporini da una parte e Della Volpe dall’altra, nel 1962. E quelli su «Rousseau e Marx». E sugli scritti giovanili di Marx (giovanili o già maturi
in nuce?). O infine sulla scienza marxiana - antihegeliana o no? - e sul «verosimile filmico», nozione chiave della famosa
Critica del gusto, opera fondamentale di Della Volpe. Di tutto questo s’è riparlato un anno fa in un convegno indetto dal Comune di Roma per iniziativa di Gianni Borgna. Molti materiali del quale tornano oggi nell’ultimo numero di
Micromega (con i saggi di Nicolao Merker, Giulio Giorello, Mario Tronti, Paolo Casini, Angelo Bolaffi, Alessandra Attanasio e Paolo Flores D’Arcais)
Era quella un’altra stagione. Fatta di passioni ideologiche e teoriche, sull’onda dell’indimenticabile 1956 che imponeva al marxismo di ripensarsi, sotto il peso della tragedia ungherese. Di ripensarsi a confronto con le scienze umane e con le repliche della storia. E che via via si intrecciò col 1968, frutto indiretto anche del marxismo anni ’60 e ’70, di cui Della Volpe (1895-1968) fu un nume ascoso in retrovia. E propaggine di tale temperie fu la vicenda di Lucio Colletti, scomparso prematuramente nel 2001 e interprete di un marxismo dellavolpiano poi rovesciatosi nel suo contrario: in liberalismo conservatore. Propaggine meno smagliante. Perché se un pregio di coerenza l’ebbe l’autocritica collettiana sul marxismo - rigettato in quanto insostenibilmente dialettico e «mistico» alla Hegel (ma Della Volpe aveva detto «tutto» sul «misticismo platonico» di Hegel) - l’approdo di Lucio Colletti ai lidi di Forza Italia apparve invece più deriva esistenziale e scettica. Che non coerente epilogo di un liberalismo democratico post-marxista, o anche «anti». E a ragione Flores chiarisce che la deriva ultima di Colletti veniva proprio dal rifiuto di ogni dimensione etica nel marxismo. Ebbene, dell’ultimo Colletti ci hanno parlato l’anno scorso sia un libro stampato da «Ideazione» (
Lucio Colletti, scienza e libertà, pagg. 297, Euro 15) e scritto da Pino Bongiorno e Aldo G. Ricci. Sia appunto il convegno intitolato a Della Volpe e Colletti, figure non scindibili. Tornare sul tema è utile. Per misurare gli esiti di una parabola culturale, quella di Colletti e del «dellavolpismo», incisiva nella storia della cultura italiana. Inclusi gli esiti paradossali e conservatori del «caso Colletti». Esiti che in parte scaturiscono da fraintendimenti teorici dello «scientismo» dellavolpiano («orfano della scienza», come dice Flores, Colletti si ritrova stregato dalla
Realpolitik). E per altro verso si legano all’ondata neoliberale e conservatrice degli ultimi decenni.
Il libro segnalato su Colletti è un segnavia, utile a rifare la strada collettiana. Ma che prende un po’ troppo per buono quel tipo di marxismo poi rigettato dallo studioso. E molto benevolo altresì nel registrare andirivieni e contraddizioni (qui sì contraddizioni!) del Colletti riformista craxiano, poi critico di Craxi, poi ostile al maggioritario, poi favorevole, poi forzista eletto nel 1996. Infine cantore disilluso di una rivoluzione liberale impossibile - lo diceva lui stesso - all’ombra di un Berlusconi troppo «moroteo», che gli bocciò persino una prefazione agli Scritti Parlamentari, perché venata di qualche distinguo.
E Della Volpe? Fu proprio lui - l’ex gentiliano e «fascista» di sinistra, passato tramite David Hume al marxismo come «Scienza positiva» - il vero maestro di Colletti. Il pensatore che a Colletti fornì lo strumentario di un marxismo senz’altro originale, ma anche qua e là ingessato. Quale? Un marxismo kantiano e humeano. Incentrato da un lato sul «molteplice sensibile», sulla materialità del dato esterno al pensiero tradotta in sensazioni. E dall’altro sulle famose «astrazioni determinate», frutto dell’intelletto critico che accoglie e ordina il dato materiale. In un circolo «astratto/concreto» il cui lavoro è l’essenza del «galileismo morale», abito etico ideale e anti-ideologico della scienza dellavolpiana. Era un metodo questo che Della Volpe applicava alle scienze sociali, e insieme all’Estetica. Anch’essa segnata in Della Volpe dal primato dell’«Intelletto critico» (La Critica del Gusto antiromantica) generatore di metafore e stilemi «polisemici», ambivalenti. Sulla base del «materiale letterale» storico trasfigurato dall’arte. Ovvio che in tutto questo per Della Volpe non v’era spazio per «contraddizioni dialettiche», se non nel senso dell’ambiguità dell’arte. Contraddizioni ai suoi occhi ridotte a meri conflitti sociali (Lavoro astratto/Capitale, come in Chiave della dialettica storica). E a conflitti da concettualizzare come «opposizioni reali» e non come «contraddizioni dialettiche». Oppure da rifiutare, come incongruità logiche rispetto alla coscienza rischiarata. Rischiarata da una Ragione che scava nei problemi e tiene aperti i contrasti. E che rinviava la sintesi alla descrizione critica liberatrice. Che smascherava le «presupposizioni viziose»: i contenuti storici spacciati per naturali (proprietà, merce,capitale). Oppure alla politica. Ad una
praxis distinta dal
theorein, che incorporava la seconda come presupposto analitico. Benchè sia poi assente in Della Volpe una specifica dimensione autonoma del «Politico», rispetto al diritto e alla critica dell’ideologia.
Ebbene, la tarda revisione del 1974 di Colletti stava già tutta in Della Volpe (che aveva ripreso molto dall’antihegeliano Trendeleburg). Stava nel rifiuto dellavolpiano di una contraddittorietà dialettica e logica del capitalismo, finalisticamente volta al suo autosuperamento. Ma col rifiutare il «già rifiutato» Colletti buttava a mare anche l’alienazione marxiana. Cioè l’immagine del capitalismo come capovolgimento alienante della coscienza frutto del dominio della merce sull’umano. Cancellava il «feticismo delle merci», che era nel Capitale reificazione psicologica dei rapporti umani. Un punto al quale Colletti nel Marxismo ed Hegel (Laterza, 1969) s’era applicato con interessanti risultati, in debito con gli odiati Adorno e Horkheimer, e radicalizzanti la lezione dellavolpiana. Quegli Adorno e Horkheimer che lo indussero a ravvisare nell’ideologia economica borghese non tanto un «errore» prospettico della mente (come in Della Volpe) volto a eternizzare i rapporti di produzione capitalistici. Quanto un «Immaginario» pervasivo e quotidiano, che capovolgeva le relazioni umane in fantasmagoria astratta e cosificata: «denaro», «rendita», «scambio tra equivalenti», «salario», «profitto». Tutte divinità dispotiche, che velavano e nascondevano i rapporti di produzione e riproduzione della «vita reale». Con le annesse gerarchie di forza, facenti corpo con essa. Era però una descrizione psicologica e fenomenologica quella di Marx - così recuperato da Colletti - permeata di conflitti. Non una profezia scientifica necessaria, destinata per forza a rovesciarsi nel suo contrario per via di superamenti dialettici (e idem per la celebre diagnosi sulla «caduta tendenziale del saggio di profitto»!). E meno che mai era una sequela di proposizioni positivistiche: «popperiane» e incontraddittore. Al contrario. Era un’analisi fenomenologica oscillante, e conflittualmente «contraddittoria». Socialmente e psicologicamente. Ma lo scientista Colletti - dapprima comunista di sinistra e nemico del revisionista Bernstein - non poteva che accettare unicamente un Marx scienziato duro. Per poi inevitabilmente rigettarlo. Piccolo particolare politico: Della Volpe, guardò infine al Pci come a una «socialdemocrazia dinamica». Come a una forza che - facendo leva sull’emancipazione graduale di una «persona umana integrata» nei diritti e liberata attraverso il lavoro - mirava a espandere concretamente tutte le libertà. Nel solco di quella Costituzione democratica italiana che lo studioso imolese definì una «Costituzione post-borghese»: nel 1967 e a un anno dalla morte (
Critica dell’Ideologia contemporanea, Editori Riuniti). Senza scindere la «libertà di», dalla libertà liberale «da», e oltre la «legalità socialista». Sicché fu revisionista nel giusto e anzitempo Galvano Della Volpe. Implicitamente autocritico, rispetto alla sua lunga polemica col riformista Mondolfo. E revisionista ben prima di Colletti. Che prima della sua revisione, guardò invece al parlamentarismo in chiave negativa e «soviettista». Avendo a modelli la Comune di Parigi e
Stato e Rivoluzione di Lenin.
ricevuto da Barbara De LucaLe Scienze 21.09.2005 Mobilità sociale e depressioneLa discesa nella scala sociale risulta più dannosa per i maschi Secondo uno studio pubblicato sulla rivista "
Journal of Epidemiology and Community Health", gli uomini che vedono peggiorare il proprio stato sociale nel corso della vita sono maggiormente suscettibili di depressione rispetto alle donne nella stessa posizione. Le donne, infatti, hanno due volte più probabilità di scendere nella scala sociale, ma generalmente questo fatto non provoca in loro la depressione e lo scarso benessere psicologico che i ricercatori hanno osservato negli uomini.
Lo psichiatra Paul Tiffin e colleghi dell'
Università di Newcastle upon Tyne hanno seguito fino all'età di 50 anni 224 uomini e 283 donne nati nel 1947 a Newcastle, prendendo in considerazione la posizione lavorativa del capofamiglia come indice di stato sociale. Gli uomini che hanno sperimentato una discesa sociale sono risultati quattro volte più predisposti alla depressione rispetto a quelli che invece hanno migliorato il proprio status; fra le donne non è stata notata una differenza significativa simile nella salute mentale.
I risultati potrebbero essere spiegati dal fatto che gli uomini nati in quell'epoca ottenevano gran parte della propria autostima dagli esiti della propria carriera, mentre le donne ricevevano soddisfazione da altri ambiti sociali esterni al lavoro, per esempio dai figli o dalle amicizie. Secondo i ricercatori, è anche possibile che le donne siano più stabili emotivamente in questo tipo di situazioni.
"Social mobility over the life course and self reported mental health at age 50: prospective cohort study". Journal of Epidemiology and Community Health, 59: 870-2 (2005).
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una mostra
l'Unità 13.10.05
Quant’è bella la malinconia
Francesco Poli
PARIGI. FINALMENTE Jean Clair è riuscito a realizzare il progetto espositivo a cui più teneva, una grande esposizione di taglio storico critico sul tema della Melanconia. Questa mostra doveva essere presentata già vari anni fa al Grand Palais, ma era stata bloccata perché considerata troppo triste e depressiva. Si vede che oggi la crisi della modernità occidentale, e in particolare la depressione collettiva che sembra dominare in Francia, ha reso più attuale questo argomento. Descritta, analizzata e interpretata in termini contraddittori da filosofi, teologi, medici psichiatri, letterati e artisti, la melanconia è uno stato d'animo profondamente e inesorabilmente legato alla condizione umana d'esistenza, quella fisica organica e psicologica come perdita di tensione vitale, come definizione più nobile di depressione) e quella culturale come attitudine che stimola la creatività attraverso la meditazione e la contemplazione.
L'affascinante ambiguità della melanconia era già stata delineata nella Grecia classica dal punto di vista medico e filosofico. Ippocrate collega la melanconia alla bile nera (di qui la denominazione), uno dei quattro umori che secondo la scienza antica circolavano nel corpo umano. E Aristotele si chiedeva perché ne fossero affette le persone geniali. Dunque se da un lato la melanconia è una malattia del vivere, è infelicità e depressione (da tamponare se non curare con il Prozac) è impotenza di agire, dall'alto lato può essere anche una caratteristica fondamentale delle persone creative. Per questo motivo gli artisti erano definiti «nati sotto Saturno», pianeta melanconico freddo e oscuro (perché lontano dal sole), da tutti gli autori del tardo Medioevo e del Rinascimento, che facevano riferimento all'astrologia araba.
Questa mostra di Jean Clair ha tra i principali testi di riferimento il famoso saggio di Klibansky, Panofsky e Saxl, Saturno e la melanconia, che è incentrato sull'interpretazione iconologia dell'incisione di Albrecht Dürer, Melencolia I (1514) ma che è anche una straordinaria ricognizione di tutta la tradizione medica, filosofica, astrologica, letteraria e artistica sul tema della melanconia, finalizzata all'analisi del formarsi della moderna concezione del genio rinascimentale, la cui attitudine spirituale è allegoricamente rappresentata dalla donna con la testa inclinata sostenuta dalla mano sinistra, che si vede nell'immagine di Dürer (che a sua volta era stato influenzato da Marsilio Ficino). Anche se è forse la più piccola delle opere esposte, ed è messa modestamente in mezzo a altre incisioni, si può ben dire che la Melanconia di Dürer è il perno di tutta l'esposizione per quello che riguarda sia i secoli precedenti sia quelli successivi fino alla contemporaneità.
Ci sono almeno tre opere che rendono esplicitamente omaggio ad essa. Il poliedro in pietra estrapolato dall'incisione diventa una grossa scultura in gesso di Giacometti, e anche un grosso blocco di marmo nero scolpito di Claudio Parmiggiani; e la figura seduta e corrucciata della donna che si sostiene la testa si trasforma in un gigantesco uomo nudo di impressionante iperrealismo (di Ron Mueck) che nella stessa posizione, chiude in modo anche troppo ad effetto il percorso dell'esposizione. Ma questa posizione emblematicamente melanconica (la testa piegata in giù e appoggiata alla mano) è una costante che si ritrova in moltissime opere di ogni epoca: dalla piccola scultura classica che rappresenta Aiace Telamonio a certe figure di santi medioevali, dalla Maddalena «à la chandelle» di De La Tour al ritratto di profilo di Nietzsche in litografia, dal ritratto del dottor Gachet di Van Gogh a un Archeologo di de Chirico. Di quest'ultimo, artista melanconico per eccellenza c'è anche una enigmatica Piazza di Italia del 1912, con al centro una statua sdraiata (con la testa appoggiata a una mano) che è una citazione dalla Arianna dei Musei Vaticani, ma che ha scritto sul piedistallo "Melanconia", un omaggio a Nietzsche.
La mostra presenta circa duecentocinquanta opere (dipinti, sculture, disegni, incisioni) installate con molto equilibrio e chiarezza in otto sezioni, corredate di molte scritte esplicative di commento, che seguono una scansione cronologica. Dopo il prologo, intitolato «La melanconia antica» seguono «Il Bagno del Diavolo. Il Medioevo» (con immagini dove la melanconia è diabolizzata); «I figli di Saturno. Il Rinascimento» (con opere di Dürer, Baldun Grien, Arcimboldo e oggetti scientifici); «L'anatomia della Melanconia. L'Età classica», titolo che si riferisce al fondamentale saggio di Robert Burton (con opere di Domenico Fetti, De La Tour, Sweerts, Poussin); I Lumi e le ombre. Il XVIII secolo (con opere di Watteau, Piranesi, Fuessli, Goya); «Dio è morto. Il Romanticismo» (con opere di Delacroix, Chasseriau, Friedrich, Boecklin); «La naturalizzazione della melanconia» e cioè l'interpretazione positivista della melanconia (con opere di Msserschmidt, Van Gogh, Eakins, Gericault). E infine «L'Angelo della Storia. Melanconia e tempi moderni», che fa riferimento al fallimento delle grandi utopie sociali e delle ideologie politiche e propone una serie di lavori di Redon, Munch, Rodin, de Chirico, Dix, Artaud, Ricasso e Hopper.
Al centro della grande sala è collocata l'opera che più funziona per il discorso del curatore: l'aereo da guerra realizzato da Kiefer con lamine consunte di piombo, un simbolo della disfatta bellica e morale della Germania, ma ha anche valenze di significato molto più generali. Su un'ala è posta una struttura di ferro con superfici vetrate che, guarda caso, ha la stessa conformazione del poliedro in pietra di Dürer. La mostra è una vera mostra di studio, caratterizzata da una notevolissima struttura di contenuti storico critici (con un monumentale catalogo edito da Gallimard) ma allo stesso tempo risulta di grande interesse anche per il grande pubblico, soprattutto per la qualità assoluta di molte opere.
Per concludere val la pena di citare un grande dipinto, proveniente dal museo di Cleveland, che è un capolavoro assoluto: Gesù bambino che si ferisce con la corona di spine (1630) di Francisco de Zurbaran. La scena è una cameretta dove da un lato è seduto il bambino che con un'espressione melanconica guarda la goccia di sangue che esce dal dito e dall'altro lato la Madonna che guarda suo figlio con un'espressione enigmatica con una diversa valenza melanconica. Non c'è assolutamente nulla di patetico né di esplicitamente drammatico. Nel bambino-dio c'è la consapevolezza del suo futuro martirio, nella madre invece soltanto un'intuizione che viene dal profondo delle viscere. I due differenti stati d'animo sono simbolizzati anche dal cielo grigio e minaccioso di una finestra dietro Maria, e da una tenda ben poco realistica, accanto a Gesù, che si apre su un cielo luminoso e trascendente.
sinistra
AGIRoma, 13.10.05 - 10:51BERTINOTTI:
LISTONE? NOSTRO NO POLITICO NON SETTARIOFausto Bertinotti conferma il 'no' al 'listone' dell'Unione e la presenza sulle schede elettorali del simbolo di Rifondazione comunista. "Per noi - sottolinea il segretario Prc, in un colloquio con il quotidiano del partito Liberazione - non è una questione di resistenza o di sopravvivenza: e' un ragionamento politico di fondo. Nel progetto di Rifondazione i lati sono due: un governo di svolta, cioé la sconfitta del centrodestra, e la costruzione della Sinistra Alternativa. L'uno non vive senza l'altro". Bertinotti spiega ancora: "Per il nostro progetto politico generale di trasformazione è essenziale, ovvero è un passaggio obbligato, la sconfitta del centrodestra e delle politiche neoliberiste. Ma se ci annullassimo in un puro cartello elettorale, magari contrattando un buon numero di spazi o di posti, rinunceremmo, non solo simbolicamente, proprio a quel progetto strategico. Ne riveleremmo il carattere secondario, subordinato: questa è la ragione del nostro no, non certo un improvviso sussulto settario". (AGI)
Cpt
l'Unità 13.10.05Bossi-Fini e psicofarmaci, il cocktail di Ponte GaleriaSecondo "Medici del Mondo" vengono distribuiti in massa contro l’ansia e la depressione in dosi quattro volte superiori a quelle consigliate
Psicofarmaci come caramelle. Distribuiti agli immigrati del Cpt di Ponte Galeria, senza alcuna consulenza psichiatrica. E poi episodi di autolesionismo, botte per insegnare la «disciplina», scarso collegamento con le strutture sanitarie esterne. È il quadro della situazione nel centro di permanenza romano, delineato dall’organizzazione umanitaria transnazionale Medici del Mondo. Un rapporto centrato sull’assistenza sanitaria e realizzato in condizioni difficili, tra reticenze e ostacoli delle autorità. In un campo dove, ad agosto, un bangladese ha tentato di impiccarsi per disperazione.
È dal 2003 che Medici del Mondo monitora i Cpt italiani. Modena, Foggia, Lecce, e quest’anno anche Ponte Galeria, il campo attivo dal settembre ‘99 nella periferia sud-ovest della capitale. Una struttura, gestita dalla Croce rossa, che oggi ospita circa 200 persone, ma ne può contenere anche 300. L’associazione umanitaria ha visitato il campo tre volte: a gennaio, luglio e ottobre. Sempre in compagnia di un parlamentare, perché solo senatori e deputati possono entrare “liberamente” nei Cpt. Tre visite (due senza preavviso) in cui hanno raccolto testimonianze, talvolta contraddittorie, dei medici. E, con grande difficoltà, alcune denunce degli immigrati.
Il disagio psichico è il problema principale. Ansia e depressione, soprattutto. Che qualche volta portano a episodi di autolesionismo. Due o tre all’anno, secondo il coordinatore medico; almeno uno al mese, per altri medici del Cpt. Nel campo ci sono due psicologhe e, in caso di crisi psichiatrica acuta, si fa riferimento al Forlanini. Non esiste, però, un servizio stabile di psichiatria per assistere le persone con gravi disturbi mentali. E così, probabilmente, si rimedia con gli psicofarmaci.
«Gli immigrati che prendono tranquillanti sono circa il 20%», dicevano qualche mese fa i medici del centro. Ma, nella visita di ottobre, il medico di turno ha parlato di un 50-60%, soprattutto nordafricani. A consumare Valium e Minias sono soprattutto uomini, 10 volte più che le donne. «Un rapporto anomalo: normalmente sono le donne a farne un uso maggiore», spiega Paolo Decina, specialista psichiatrico. Un immigrato ha raccontato che ogni sera «si formavano code di 60-80 persone» in attesa della dose di tranquillanti. Dosi che, secondo quella testimonianza, sono spesso 3-4 volte superiori alla quantità consigliata. Alcuni suoi compagni di stanza, dopo un cocktail di ansiolitici e ipnotici, crollavano a letto stravolti.
Una realtà complessa e discussa, quella dei Cpt, su cui ogni giorno emergono particolari inquietanti. «Serve un organismo indipendente di controllo di tutti i centri», è la richiesta di Medici del Mondo. E Chiara Acciarini, senatrice Ds, aggiunge: «Stiamo accettando, nel nostro paese, qualcosa che è indegno di un paese civile».