sabato 15 ottobre 2005

sinistra
il manifesto
«Bisogna dire no»

«Per la buona politica - dice Fausto Bertinotti - si deve partire da un no. Come il no alle truppe in Iraq». Il segretario del Prc non vuole «mettere limiti alle previsioni ottimistiche»

sinistra
Corriere della Sera 15.10.05
LA LETTERA
Bertinotti alla Panzino: io sessista?
di Fausto Bertinotti

Caro direttore, non avrei scritto queste poche righe se fossero state rivolte critiche alle mie scelte politiche. Critiche che ciascuno è libero di esprimere e alle quali non mi sottraggo certamente. Ma nell'articolo pubblicato a pagina 8 dal Corriere della Sera di venerdì 14 ottobre e dal titolo "Bertinotti arrogante e anche un po' sessista", la Panzino con la sua ricostruzione di ciò che sarebbe accaduto lunedì 10 ottobre al Tpo di Bologna, mette in discussione uno stile di vita e un comportamento a cui tengo in modo particolare perché li considero parte decisiva della politica e dell'idea che uno ha di essa. La Panzino definisce il mio comportamento «arrogante e anche un po' sessista», «forse» perché avrei «perso le staffe» con Casarini e Lutrario «che erano in platea» (sempre parole della Panzino). In realtà, nel momento più intenso della discussione, sia Lutrario che Casarini stavano con noi sul palco. La discussione è stata accesa. Ma non avevo alcuna ragione per innervosirmi di fronte ad una platea molto attenta e partecipe che mi ha manifestato spesso il suo consenso, tanto da essere accusata da uno dei miei contraddittori di essere una claque.
Al contrario di ciò che mi si vuole attribuire, «un Bertinotti celodurista», l'uso della frase volgare stigmatizzava e rifiutava il comportamento volgare descritto nella frase. Si trattava cioè di un invito ad abbandonare ogni atteggiamento aggressivo e di confrontazione militare per assumere una pratica di non violenza e di rispetto reciproco come fondamento del confronto politico, in particolare tra persone e realtà che pur essendo diverse, non hanno alcuna ragione per confliggere irriducibilmente.
Del resto, tutto il mio atteggiamento in quella serata è stato improntato, come in ogni occasione, alla ricerca di un dialogo fruttuoso tra tutte le componenti del movimento. L'assemblea ha dimostrato di averlo inteso perfettamente, come ognuno può constatare ritrovando su Internet le cronache della serata. Un tardivo tentativo di rovesciarne il senso, non può mettere in discussione la fedeltà, che mi è cara, ad una modalità di comportamento e ad uno stile di vita che è tanta parte dell’idea che ho della politica.

sinistra
ANSA 15.10.05
"Otto e mezzo", arriva la Armeni
Da lunedì sostituirà Gad Lerner
L'ospite: Fausto Bertinotti

(ANSA) - ROMA, 15 OTT - A partire da lunedì 17 ottobre alla conduzione di "Otto e mezzo" su La7 ci saranno Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni. La Armeni, che aveva già affiancato Ferrara lo scorso anno, sostituisce Gad Lerner. Ospite della puntata sarà Fausto Bertinotti, Segretario di Rifondazione Comunista, con il quale si parlerà dei risultati delle primarie del centrosinistra.

una segnalazione di Sergio Grom
Repubblica 15.10.05
Al Grand Palais di Parigi un'eccezionale rassegna d'arte
La mostra sulla melanconia il vero carcere dell'anima
Quel carcere senza nessuna via d'uscita

di Pietro Citati

COME ci informano i giornali, la malattia dei nostri tempi è la depressione: oppure quella che, con più proprietà ed eleganza, i trattatisti classici chiamavano col nome di melanconia. Quanti disperati si affidano agli psicologi e ai neurologi: quanti destini dipendono da farmaci assorbiti secondo ritmi precisi: quanti malati assistono atterriti all´alternanza ciclica di freddezza ed ardore, sterilità ed euforia.
Curata da Jean Clair, la rassegna ospita centinaia di opere, da Bosch a Dürer, da Goya a Friedrich e Max Ernst, intorno al mito più grandioso elaborato dalla civiltà occidentale
Al tempo dei Greci antichi il dio Saturno regnava sopra i melanconici
Non è affatto un sentimento ma una forza vera e terribilmente oggettiva
Starobinskij richiama per analogia l´antica possessione divina
Si distingue per tre gesti: mento sulla mano, gomito sul ginocchio, occhio assente, quante desolazioni senza rimedio, anime illividite e abbrunate, discese nell´abisso, suicidi.
Perciò immagino che nessuna mostra d´arte avrà più eco di quella, bellissima, che il 13 ottobre si è aperta al Grand Palais di Parigi. La cura il più colto ed intelligente tra i critici d´arte francesi: Jean Clair. Le opere esposte sono centinaia: dal piccolo, meraviglioso Ajace dei tempi d´Augusto a Bosch a Dürer a Cranach a Goya a Füssli a Friedrich a De Chirico a Picasso a Max Ernst. Al catalogo hanno collaborato i migliori studiosi d´arte, filosofia, psicologia, letteratura, che oggi possegga la Francia. Alla fine, i visitatori hanno l´impressione di scorgere, con uno sguardo solo, l´anima nascosta dell´Europa.
Credo che la melanconia sia il mito più grandioso che, durante ventiquattro secoli, abbia elaborato la civiltà occidentale. Nessuno la eguaglia: né Apollo, né Dioniso, né Ermes, né Cristo (perché Cristo è "anche" un mito); nessuno ha la sua vitalità, molteplicità, inafferrabilità, forza di contraddizione; nessuno è così infinito. Il paradosso è che la melanconia sia nata in Grecia e si sia diffusa sopratutto in Europa: vale a dire in una civiltà che ha sempre cercato di espandersi, di dilatarsi, di conquistare o almeno di illuminare e possedere con l´intelligenza tutte le cose dell´universo. Forse è l´ombra dell´attiva e brillante luce occidentale: a meno che la vera luce d´Europa sia proprio lei - la notturna, tenebrosa malinconia, con i suoi pipistrelli, le comete, i crogioli alchemici, le erbe magiche, i cani desolati.
Subito, la melanconia si distingue per tre gesti: il mento sulla mano, il gomito sul ginocchio, l´occhio che non vede, perché guarda dentro sé stesso, nei paesaggi dell´anima. Col tempo assume molti nomi: melanconia, acoedia, taedium, tristitia, spleen, noia, depressione, psicosi maniaco-depressiva. In ventiquattro secoli, non ci ha mai abbandonato. Non sono mai esistite epoche che abbiano fatto a meno di lei: perché è malinconica la Grecia, quando un allievo di Aristotele annuncia che tutti gli uomini di genio sono malinconici: malinconici sono i conventi del Medioevo: malinconicissimi il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, quando centinaia o migliaia di trattati la descrivono con precisione scrupolosa: malinconica una parte del diciottesimo secolo, della quale Watteau è il fiore: travolta e quasi distrutta dalla malinconia è la fine del diciottesimo e l´inizio del diciannovesimo secolo; mentre quello che noi chiamiamo moderno non è altro che malinconia portata all´estremo. Malgrado le variazioni della storia, essa non è mai mutata: si è soltanto spostata da un estremo all´altro di sé stessa, sostando qualche tempo per riprendere fiato.
La melanconia non è affatto un sentimento o un intrico di sentimenti, ma una forza terribilmente oggettiva. Come scrive Starobinskij, essa è l´erede, in noi, di quella che una volta veniva chiamata possessione divina. Se siamo malinconici, qualcuno ci possiede. Non sappiamo quale ne sia il nome: quello di un dio o di un demone, o un dio travestito da demone o un demone travestito da dio, o un luogo sconosciuto di noi stessi. Qualunque sia l´origine, una terribile forza ci assale dal di fuori. Siamo aggrediti; e in quell´aggressione lo spirito diventa corpo, il corpo diventa spirito. Un fatto mi sembra unico. Le definizioni cliniche e mitiche della malinconia sono quasi identiche: il medico antico e moderno scrivono su di lei le stesse parole pronunciate dal poeta, dall´artista o dal mitografo.
Quando la malinconia scende su di noi all´improvviso, la nostra prima sensazione è di essere rinchiusi in un carcere. Il carcere non ha fori, o aperture, o finestre: non ci sono che mura, mura, altissime mura. Non c´è nessuna via d´uscita: nessuna via d´entrata. Siamo lì, e non vediamo nemmeno una pietra, perché l´occhio è fisso verso il nostro interno. Eppure, dentro quelle mura chiuse, la malinconia non smette di sgorgare, di fluire, di inondarci, di farci parlare, talvolta delirare. La sua fonte è un luogo profondissimo che sta non sappiamo dove: ma certo molto più in basso di quello che siamo abituati a chiamare "inconscio". Qualcuno lo chiama lo Stige nero. La penna vi affonda, si nutre di quel liquido vischioso e non si arresta mai di scrivere: migliaia e migliaia di pagine, assai più di quelle che ci ispirano le Muse.
Come tutti i grandi miti, la melanconia è il luogo dell´antitesi e della contraddizione. La melanconia è la passione della lentezza: il sole si arresta in cielo: ma anche la passione della velocità; tutto corre freneticamente, e noi non riusciamo mai a raggiungere quei perenni fuggiaschi che siamo noi stessi. Il melanconico è immobile come un monaco nella sua cella, e sempre in viaggio come gli aristocratici inglesi alla fine del diciottesimo secolo. È abbattuto e furibondo. La melanconia è nera e rossa: pesantissima e leggerissima - come diceva Leopardi, che la chiamava "noia" e scriveva che aveva "la natura dell´aria": "tenuissima, radissima e trasparente". Qualcuno si chiederà come sia possibile che cose tanto opposte posseggano lo stesso nome e la stessa natura. Ma l´universo della mente umana non è retto da figure lineari o geometriche: ciò che lo domina sono grandi nodi vibranti di contraddizioni e di paradossi.
* * *
Al tempo dei Greci, un dio regnava sopra i melanconici: Saturno. Da un lato, Saturno era stato l´architetto del mondo: aveva inventato il tempo e l´agricoltura: aveva regnato sulla terra nell´età dell´oro, quando una primavera eterna accarezzava i fiori nati senza semenza. Ma d´altro lato, era stato un dio "odioso, superbo, empio, crudele": cercava di divorare i figli, e Giove l´aveva detronizzato, esiliandolo nel Tartaro e sotto il Tartaro, legato in catene. Il dio Saturno era un astro. Siccome era il pianeta più alto, dominava il sistema solare: ma era anche freddo, sinistro, bianco ed enigmatico; detestava gli esseri umani e mandava sulla terra una luce debolissima e fioca, suscitando la neve ed il ghiaccio. Nei corpi umani, Saturno esercitava il suo influsso sulla milza, dove si raccolgono gli umori della "bile nera": la melanconia.
Quando la bile nera è fredda, il melanconico diventa "torbido, indolente ed ottuso". All´improvviso, perde la facoltà di vedere. Come se qualcuno avesse spento un interruttore gigantesco, la luce lascia il mondo visibile. Qualsiasi cosa il malinconico guardi, è fissa, livida e spettrale: vuota come il guscio di una conchiglia o una casa bruciata dall´interno. Il mondo è opaco, immobile, silenzioso: sembra che nessuno vi si sia mai mosso, o abbia cercato di ridere. La vita si è arrestata. Il cielo soffoca come la pietra di un sepolcro. Allora il melanconico perde ogni desiderio di vivere. Ogni scintilla si spegne nella sua anima. Tutto ciò che attrae gli altri non lo attrae: tutto ciò che amano gli altri lo infastidisce; la primavera lo annoia come l´autunno, l´inverno e l´estate sono identici davanti ai suoi occhi.
Sebbene esecri la propria casa, il melanconico vi resta rinchiuso come un prigioniero. Sta seduto in poltrona, senza fare niente, senza pensare ad altro che alla propria interminabile malattia. Ogni istante conosce il morso della noia. Quando la noia si lacera, egli è preda di sospetti, di paure, di terrori senza nome e significato: il suo nemico lo assale da tutte le parti: l´assedio non ha soste; e lui scoppia in lacrime, tanto il nemico - lui stesso - sembra prossimo alla vittoria. Ogni mattina, davanti allo specchio, vorrebbe tagliarsi la gola: se resiste, è soltanto perché sa che dopo la morte entrerà in un universo ancora più squallido. Non si ama, e pensa che tutti gli altri lo sospettino, lo detestino e gli preparino agguati.
L´altro polo della malinconia ha i colori del fuoco. Quando la bile nera è calda, il melanconico diventa "vivace e brillante". La salute sembra tornare. Sebbene si tratti di un´euforia opposta ed identica alla fase apatica, essa apre le porte della felicità.
Quando il melanconico risanato si sveglia, scorge un raggio di sole penetrare dalle persiane: si alza, pieno di gioia, si affaccia alla finestra, mentre da lontano ascolta il rumore dei tram e dei clacson; ed ecco che il mondo intero, come diceva Baudelaire, «si offre con un rilievo possente, una nettezza di contorni, un´ammirevole ricchezza di colori». Non c´è più traccia di monotonia né di freddezza. Tutto è lieto, allegro, vivace, percorso da un movimento e da un fremito: la luce bagna le cose; le forme si sciolgono nell´immensa liquidità dell´universo.
Spesso, l´euforia assume tratti dionisiaci. Le passioni avvampano: l´affetto e l´odio accendono il cuore: il desiderio erotico colma l´animo: l´orgoglio, la loquacità, l´ira, il vino, l´esaltazione generano un entusiasmo, che assomiglia al furore che Platone attribuiva ai veri poeti. Con una velocità paurosa, e una specie di estasi lirica, il melanconico reagisce a tutte le sensazioni, e le impressioni. Quando la personalità si concentra in sé stessa, lo spirito è assalito dalla grazia divina, dalle visioni, dal dono dei vaticini.
Quest´alternanza tra il nero e il rosso, tra la nera Melencolia di Dürer e la rossa Melanconia di Cranach, non ha mai fine. Il melanconico ignora la vita lineare e limitata degli altri esseri umani. Obbedisce al ritmo del ciclo: passa di continuo dall´abbattimento all´esaltazione, dal torpore all´euforia, dalla desolazione all´estasi, dall´ombra al colore. Non è altro che ondulazione e capovolgimento.
* * *
Un uomo come il melanconico, così polare e paradossale, non sopporta la vita degli altri uomini, dominata dal battito sempre uguale degli orologi. Non può soggiornare nel tempo. Tra gli antichi psicologi, si diffonde presto la convinzione che l´esistenza normale - ammesso che esista - non è fatta per lui. Egli ha un altro destino. Un allievo di Aristotele afferma che tutti gli uomini straordinari sono melanconici: Marsilio Ficino ripete che Dio rivela soltanto ai figli di Saturno i misteri della terra e del cielo; Kant aggiunge che soltanto la melanconia è sublime. Spesso, si tratta di una condizione terribile. Mentre gli altri uomini sono protetti da una specie di equilibrio, il melanconico conosce ogni istante l´alternanza, la contraddizione, la dismisura, lo squilibrio, la rottura, l´eccesso: dolore interminabile, sovrumana felicità, disperato gelo, totale tenebra, totale luce. Vive nell´ombra, col rimpianto dell´età dell´oro, che talvolta riesce a scorgere: sosta sull´orlo di tutti i precipizi: cammina tra le voragini; ogni momento, corre il rischio di sgretolarsi e di andare a pezzi, come la più informe rovina. Forse, questo è il suo trionfo.
Così i trattatisti, specialmente nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, cercano di salvare i malinconici dai pericoli che li minacciano. I loro rimedi sono deliziosi ed assurdi: le pietre preziose, tra le quali sopratutto il berillo, il topazio e il calcedonio; e caute tisane di valeriana, di menta e di camomilla. Dubito che il berillo e la valeriana potessero salvare Baudelaire dai terrori che comprimevano il suo cuore come un pezzo di carta. L´unico vero rimedio è quello che Marsilio Ficino aveva proposto secoli prima: accettare sino in fondo, senza incertezze e senza ritegni, la vocazione della malinconia, vivendo in lei così profondamente da trarre dal proprio male le leggi e la salvezza del mondo.
In un giorno di settembre 1926, Virginia Woolf si risvegliò alle tre del mattino. Sentì, vide un´onda dolorosa che si gonfiava e si ritraeva nelle regioni del cuore, e la sballottava. L´onda si sollevava, la innalzava, la gettava in alto, e si rovesciava terribilmente sopra di lei. A un tratto, vide una pinna misteriosa fendere il mare deserto e vuoto. Virginia Woolf comprese che l´onda e la pinna erano il segno della mania depressiva che, quattordici anni più tardi, l´avrebbe condotta al suicidio nella acque del fiume Oose. «Che orrore...sono infelice, infelice, infelice. Mio Dio, vorrei essere morta!...Ma perché provare questo? Lasciatemi guardare come l´onda si alza. Guardo. Il fallimento...Il fallimento, il fallimento!...Spero di essere morta! Spero di non aver più che pochi anni da vivere! Non posso affrontare quest´orrore».
Virginia Woolf affrontò il doppio orrore dell´onda e della pinna. Comprese che non poteva fuggire né evitare quei segni dolorosi. Doveva scendere in basso, sempre più in basso, cautamente, gradino dopo gradino, nel suo pozzo, nell´abisso della follia. Là niente la proteggeva contro gli "assalti della verità". «Là, non posso leggere né scrivere. Ma esisto. Sono». Qualche anno più tardi, compose Le onde: forse il suo capolavoro, affrontando di nuovo le minacce della melanconia. Le onde e la pinna le ricordavano, come a un filosofo presocratico, il ritmo dell´universo: apertura e chiusura, espansione e contrazione, morte e rinascita. Non c´era altro.
Quello che salvava la Woolf era appunto il ritmo delle onde, dove una volta aveva visto il segno angoscioso della mania depressiva. Tutto veniva accettato: lo strazio diventata unità, la discontinuità ritmo, il caos pienezza, la malattia psichica si dissolveva nel gioco della espansione e della chiusura. Non c´era più orrore. C´era luce: «eterno rinnovamento, movimento incessante che si innalza e ricade, cade e si innalza di nuovo».

l'Unità 15.10.05
Finché c’è capitale c’è Marx, altro che soffitta
di Bruno Gravagnuolo

«Basta revisionismi... si torna a Marx». Così titolava qualche giorno fa Il Secolo d’Italia. Nel deprecare che al Salone del libro storico - l’iniziativa di Storia & Memoria a cura dell’associazione librai italiani - si stesse per far uscire Marx dalla soffitta... con il dibattito svoltosi ieri l’altro tra Guido Carandini, Giacomo Marramao, Giorgio Ruffolo e Massimo Salvadori (e chi scrive a far qualche domanda).
Buon segno, l’irritazione. Si vede che al Secolo fiutano nell’aria qualcosa. E magari c’è da crederci. Anche se poi arrivano buoni ultimi sulla notizia. Visto che del ritorno del gran barbone ci han già parlato un mucchio di segnali. Come le sviolinate dell’Economist all’acutezza preveggente di Marx, in tempo di globalizzazione. Quella di Der Spegel, che ha pubblicato una copertina col Dott. Karl che fa il segno di vittoria alla Churchill, e il titolo-parafrasi del celebre incipit del Manifesto: «Uno spettro ritorna ad aggirarsi per l’Europa». E poi i cento «best» coevi delle riviste Respect e Foreign affairs, con dentro Toni Negri e Michael Hardt (esagerati!). Per non dire del primo posto assoluto del Marxone nel sondaggio Bbc On line, a molte spanne da Hume e Wittgenstein, Platone e Aristotele. E per finire con saggi, riedizioni dei classici marxiani o dibattiti come quello di Micromega su Della Volpe e Colletti (a un anno dal convegno del Comune di Roma). Tutte cose che, prima o poi, vista l’aria che tira in Germania, a sinistra della Spd e non solo, faranno resuscitare l’interrotta edizione delle Opere Complete, un dì in corso nella Rdt e troncata a mezzo, manco fosse roba da Stasi.
E torniamo al convegno incriminato, quest’anno dedicato ai grandi dibattiti dell’Italia contemporanea (al Tempio di Adriano in Piazza di Pietra a Roma fino a domani, tra 20mila volumi esposti). In fondo con Marx non fa nient’altro che registrare una tendenza, oltre a includere per dovere di memoria un capitolo decisivo del dibattito culturale di questo dopoguerra, e il marxismo lo è. Senza affatto poi rinunciare al «revisionismo», prova ne sia che oggi pomeriggio alle 17,30 incrocerranno le lame su intellettuali migranti tra fascismo e post, gente diversa. Come Belardelli, di Rienzo, Tranfaglia, Vacca, oltre a Mirella Serri curatrice della manifestazione che è autrice dei Redenti, di cui abbiam già discusso criticamente su queste colonne. E Marx? È vivo e lotta insiema a noi. E la miglior prova è che l’altra sera la discussione è stata vivacissima, dinanzi a un pubblico folto e attento fino all’ultimo. Intanto il titolo del confronto: Tutto Marx deve stare in soffitta?. Certo che no. Questo nemmeno i più accaniti detrattori hanno mai osato dirlo, non foss’altro che moltissimi di essi, si chiamassero Aron o Milton Friedeman, hanno poi concepito la loro opera come replica ostinata a Marx. In realtà quel «Marx in soffitta» fu invenzione «mediatica» di Giovanni Giolitti, che nel 1911 la usò nell’invitare i socialisti al governo («Lo hanno messo in soffitta e dunque...»). E però, malgrado Croce dicesse cose analoghe, a partire dal celebre Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, e malgrado il revisionista Bernstein (marxista!) e tanti altri... Marx in soffitta non c’è mai entrato. Lo stesso Croce, che ne ammirava l’aspetto realista, lo celebrava come creatore di metodo storico, interpretando la sua legge del «plusvalore/sfruttamento» come «paragone ellittico» tra presente e futuro. Come idea-forza mitico-emancipativa (idem in Gramsci). Inoltre nel giro di pochi anni partì allora il dibattito revisionista di sinistra: dalla Luxembourg a Lenin. E poi il fascismo, e il New Deal. Due modernizzazioni - reazionaria e no - che molto devono al pungolo marxista. Fino al Welfare del dopoguerra e alle crisi anni sessanta: sempre Marx esce dalla soffitta. Con beffardo paradosso, sulle ceneri del socialismo reale. Quando non solo certe diagnosi del Manifesto sul mercato mondiale si rivelano aderenti al nuovo contesto. Ma allorché è proprio il «turbo-capitale» a rivelarsi marxista. Praticando espansione senza freni, smaterializzazione finanziaria. riduzione della politica a economia e lobbies (come negli Usa di Bush). E generando polarizzazioni, guerra, ineguaglianze ed esercito di riserva flessibile, nel sospingere in avanti le forze produttive. Ebbene tutti gli interventi erano «sintonici» nel riconoscere l’aderenza di Marx al presente. Persino spingendosi con Salvadori a citare un Popper ben strano, ma vero: «Marx? Uno dei grandi liberatori del genere umano» . Ovviamente non mancavano «i vuoti» marxiani: «la teoria dello stato» assente, denunciata da Bobbio. E l’etica e le forme di coscienza troppo schiacciate su alienazione e dominio dell’economia (Marramao). E infine la novità del presente, segnalata da un intervento di Lucio Villari: Il capitale senza borghesia. Impersonale, manageriale, diffuso, speculativo. E però certe cose Marx le aveva intraviste, come segnalava Ruffolo nell’introduzione al bel volume di Guido Carandini in difesa della teoria dello sfruttamento: Un altro Marx, lo scienziato liberato dall’utopia (Laterza, 2005). E cioè, scriveva Marx: «Tutto un sistema di frodi e imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata». Insomma, quali che siano certe metamorfosi, finché c’è Capitale c’è Marx. Capito sinistra?

l'Unità 15.10.05
L’Occidente dei cialtroni
di Moni Ovadia

Il sole sfolgorante della Grecia volgeva al tramonto un giorno di venticinque secoli fa. Quel giorno, i primi cittadini del mondo a chiamare e a fondare la prima forma di democrazia, si avviavano verso un luogo deputato che in seguito l’umanità intera avrebbe conosciuto come teatro. In quello spazio venivano a conoscere e a conoscersi. Un intero popolo sperimentava una forma di psicoanalisi collettiva a cielo aperto. La rappresentazione a cui gli spettatori assistevano, coniugava mito e storia nella sublime forma poetica della tragedia e permetteva loro di accedere ad una bildung identitaria: la grecità. Il teatro greco sintesi contraddittoria e geniale di apollineo e dionisiaco - come intuì Nietzsche nel suo memorabile saggio «La nascita della tragedia» -, è stato uno dei pilastri di tutto l’Occidente e continua ad esserlo. Da quel momento, il teatro tout court, ha dato un contributo imprescindibile alla costituzione della nostra identità e della nostra cultura, dimostrazione ne è il conferimento del Nobel per la Lettratura al drammaturgo Harold Pinter.
Il nome di Shakespeare, il genio che ha «inventato l’uomo moderno» secondo l’affermazione del grande critico Harold Bloom, apodittica e purtuttavia condivisibile, basterebbe da solo a legittimare la necessità di fare del teatro e di tutte le arti della rappresentazione un fondamento delle nostre società. L’Italia ha fra i suoi tesori più preziosi, paradigma di grandezza e di unicità che tutto il mondo ci invidia e da cui trae ammaestramento, la commedia dell’arte e il melodramma. Queste cose sono universalmente note. Non ai nostri governanti. Questi sedicenti difensori dei valori dell’Occidente, con una legge finanziaria schifosa tentano di vibrare un colpo mortale a tutto ciò che è cultura, bellezza, civiltà, democrazia, diritto al sapere e all’arte. L’Occidente senza la propria cultura, senza i valori della socialità, senza luoghi di elaborazione del pensiero e delle emozioni, è solo il topos del danaro con tutte le sue aberrazioni. L’ideologia del liberismo selvaggio con la sua crudeltà e le sue forme di sopraffazione dei poveri e dei deboli, è una forma di terrorismo in sé e ha l’effetto di fornire pretesti e legittimazioni al terrorismo feroce e sanguinario dei kamikaze. Il nostro governucolo abitato da cortigiani e avventuristi avvitati sugli interessi del padrone dei media la cui idea di cultura si riflette catarro di volgarità e di idiozia che fuoriesce dalle sue televisioni e da quelle che controlla, (fatte salve le rarissime e sempre più lodevoli eccezioni) manifesta nei confronti della cultura e delle arti vive lo stesso disprezzo che avevano i nazifascisti, solo i mezzi sono diversi ma i fini sono uguali: colpire con lo strumento finanziario, l’indipendenza del pensiero e la formazione delle coscienze, patrimonio vero e autentico della Weltanschauung occidentale. Il provvedimento di sottrazione di oltre il 30% delle risorse al Fus (Fondo Unitario per lo Spettacolo) è di natura puramente demagogica, perché le risorse liberate dal taglio, al deficit dello Stato non gli fanno neppure il solletico sotto le ascelle. Probabilmente serviranno solo a finanziare i clientes degli uomini del centro destra nel disperato tentativo di restare al governo per la prossima legislatura e fare dell’Italia un paese in via di sottosviluppo. Quel taglio, in compenso porterà via lavoro a più di cinquantamila esseri umani che non godono neppure del meccanismo degli ammortizzatori sociali. Non sono i grandi nomi noti al pubblico, sono i lavoratori del settore: macchinisti, attrezzisti, elettricisti, fonici, datori luce, autisti, facchini, impiegati, camionisti, attori, musicisti, danzatori, impresari, manager, insegnanti delle scuole d’arte drammatica etc. Il loro lavoro forma e ha formato anche i beniamini del grande pubblico come Luca Zingaretti, Roberto Benigni, Antonio Albanese, Sabrina Ferilli, Gigi Proietti, solo per nominare i più noti. Contrastare l’ignobile provvedimento di demolizione del patrimonio delle arti vive e il miserabile governo che lo vuole non ha nulla a che vedere con l’essere di destra o di sinistra, è un atto di civiltà per difendere ciò che abbiamo di più prezioso.

venerdì 14 ottobre 2005

IL SONDAGGIO DI REPUBBLICA ALLE 17.30 DI VENERDI': BERTINOTTI 22%, PRODI 58%

DOMENICA: SI VOTA PER LE PRIMARIE DELL'UNIONE

Un milione e mezzo di visitatori al giorno per il sito dell’Unione (www.unioneweb.it), 30mila telefonate al numero verde (800.90.80.28) in meno di cinque giorni, 100mila volontari al lavoro, oltre 9800 seggi allestiti (di cui 165 all’estero): mentre ormai mancano solo due giorni a domenica, la data delle primarie del centrosinistra, l’interesse suscitato dalle consultazioni si vede anche da questi numeri.
Le informazioni sui seggi.
Chi ancora non sapesse dove deve andare a votare, può consultare l’apposito inserto che esce domani e dopodomani su "Liberazione" e su "l'Unità" con l’elenco dei seggi regione per regione. L’elenco si trova anche sul sito www.unioneweb.it, o si può richiedere al numero verde (800.90.80.28), attivo dalle 8 alle 22, fino a domenica sera. Basterà leggere il numero della propria sezione sulla scheda elettorale, e vedere il seggio corrispondente. Chi vive o lavora in un Comune diverso dalla sua residenza, può votare solo se si è registrato negli elenchi del posto dove si trova. La stessa registrazione, richiesta ai cittadini immigrati, residenti in Italia da almeno tre anni, ha portato a ben 10mila iscritti tra gli immigrati. Gli studenti, che diventeranno maggiorenni entro il 13 maggio 2006, invece, potranno andare a votare nel seggio più vicino al loro domicilio.
Dove si vota.
Sono stati allestiti a seggio, con l’apposito kit fatto di schede elettorali, loghi dell’Unione, manifesti con i nomi dei candidati e matite copiative (ne sono state ordinate 25mila), cinema, teatri, gazebi, club calcistici, sedi comunali, librerie, e - ove d’accordo tutti i partiti della coalizione - anche sezioni.
Come si vota.
Basterà presentarsi al seggio con il proprio documento di identità e la tessera elettorale, compilare una scheda con i propri dati, sottoscrivere il «progetto» dell’Unione, e versare almeno un euro per contribuire alle spese elettorali.
Quando si vota.
Le urne saranno aperte nella sola giornata di domenica dalle 8 alle 22.
I risultati.
Lo spoglio comincerà subito dopo la chiusura delle urne. Verso le 23 verranno resi noti i dati sull’affluenza, mentre tra mezzanotte e l’una ci saranno i primi risultati, senza però exit poll. I risultati definitivi ci saranno lunedì mattina.

sinistra
Liberazione 13.10.05
Bertinotti vede il rischio del centrismo: «La borghesia lo vuole, noi siamo l'argine»
di Rina Gagliardi

Il voto delle primarie dell'Unione, ormai imminente. Il mutamento della legge elettorale - la nuova legge-truffa voluta dal centrodestra - anch'esso ormai forse imminente. La finanziaria che mette alla prova l'opposizione sociale e politica, L'avvio di una campagna elettorale che durerà sei od otto mesi. L'inedito equilibrio che si va definendo in Europa, a partire dal governo tedesco di "Grosse Koalition" della signora Merkel. Ce n'è abbastanza, in Italia e nel teatro europeo, per rendere queste settimane, queste giornate, del massimo rilievo politico - per cominciare a tracciare bilanci, speranze, auspici, previsioni politiche. Ma anche per cominciare a capire qualcosa che forse si muove nelle profondità del Paese, ben oltre la superficie e le stesse inesorabili leggi formali della politica. Così, se si rivolge a Fausto Bertinotti la prima e la più ovvia delle domande - "Come va? Come sono andate le tue primarie"? - il segretario di Rifondazione dà una risposta relativamente sorprendente: «Non ho mai vissuto una campagna elettorale umanamente così intensa». Dove la chiave sta nell'avverbio, «umanamente», e nel rinvio alla vera novità di questo grande giro d'inchiesta, fra i treni dei pendolari, le fabbriche in lotta, le università in sciopero, le piazze piene di gente preoccupata perché non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese: la comunicazione, il rapporto diretto, il circolo virtuoso che di colpo si è stabilito tra una proposta politica, e una comunità sociale. Non era scontato, dice Bertinotti, cercando di spiegare - e di spiegarsi - la diversa qualità degli incontri realizzati nel corso della campagna: qualcosa di diverso dai comizi di grande successo, ai quali per altro è abituato da anni. «Emerge il bisogno di parlare, e di parlare di politica, con la tua soggettività piena - coinvolta - con la tua vita quotidiana, i tuoi bisogni, i tuoi problemi che c'entrano, fino in fondo». Siano essi quelli degli operai dell'Italtel, o dei giovani studenti senesi, o dei pendolari di Corbetta, a due passi da Milano, che hanno diffuso, per accogliere il candidato Bertinotti, un originale volantino ("Per fare una parete bianca, ci vuole un parlamentare rosso"). Insomma, è come se un pezzetto d'Italia avesse scritto, in questo periodo un grande post-it collettivo: «Come se si fossero rotte delle paratìe, come se si manifestasse una soggettività politica diffusa, densa, per altro, di calore e di sentimenti, che nei partiti, o nel partito, non riesce ad esprimersi».

Vogliamo dire che si è manifestata la possibilità di un'uscita da sinistra dalla crisi della politica? Da sinistra, cioè verso esiti potenziali di natura collettiva, corale, trasformativa. Non è detto, certo, se e quanto tutto questo si tradurrà in una cifra consistente, "adeguata". Non è detto, cioè, che la novità sociale e culturale - anche di massa - si esprima compiutamente fin nei seggi, nell'atto formale del voto, nella scelta di un candidato: i meccanismi elettorali sono notoriamente complessi, e determinati da fattori (come i grandi numeri) non riducibili alla "nuova domanda di politica" che emerge dalla società italiana. Anche per questo, sempre - e domenica prossima - «il voto è una grande sfida», dice Bertinotti. Si tratta di definire un connotato decisivo dell'Unione: se e quanto è in grado di aprirsi, appunto, ad istanze che sono sì radicali e di sinistra, ma vanno perfino oltre. Oltre che cosa? «Non voglio ridurre questo processo creativo, anzi questa vera e propria sperimentazione, ad una sintesi precoce. Avverto una possibilità che è reale e non piccola: una radicalità che investe l'idea stessa della rappresentanza, il rapporto tra la soggettività comunitaria e la Grande Politica, la possibilità di avviare un ciclo di ricomposizione che non passa per i legami ideologici tradizionali. E' meglio fermarsi, per ora, sulla soglia di tante narrazioni, intense e coinvolgenti. Sono loro che intanto confermano la validità di questa scelta e di questa sperimentazione». In sostanza, tra le primarie, così come sono state percorse, e la strategia politica di Rifondazione comunista non potrebbe esserci nesso più organico: la stessa logica, come si diceva qualche anno fa, di unità e radicalità. La stessa sfida di tenere insieme la battaglia per un governo di svolta, e la costruzione di un'altra sinistra. E la stessa ambizione di "starci", essendo chiaro che il tuo "star-ci" non è mai statico, ma sempre rinvia a qualcosa che "non ci sta" - magari sta fuori delle compatibilità - e che potrebbe prima o poi o starci, o comunque definire un terreno più avanzato, più conflittuale, più contraddittorio. Un'idea della politica che non è, nient'affatto, la riedizione del vecchio rapporto tra tattica e strategia, o il percorso dei due (o tre o quattro o enne) tempi, o la necessaria commistione di sapienza strategica e furbizia quotidiana: è, se si può usare un ossimoro, il tentativo di praticare, oggi e domani, un "ordinato disordine" dell'esistente. Così, il Bertinotti che si presenta alle primarie non solo scombina completamente le intenzioni di chi, consapevolmente o no, le riduceva ad un rito scontato, ma attiva una potenzialità di sinistra che altrimenti sarebbe rimasta sotto traccia. Così Rifondazione comunista che partecipa all'Unione, quasi come una pregiudiziale, ne combatte positivamente la tendenza a trasformarsi, di fatto, in una mera alleanza elettorale "antifascista" e antiberlusconiana, che tutto riduce al minimo comun denominatore del cacciare la destra dal governo del paese. Né l'uno né l'altro, cioè, possono rinunciare alla prerogativa essenziale: l'autonomia politica e strategica. Inevitabile, qui, soffermarsi sul dibattito politico-elettorale di questi ultimi giorni: la richiesta esplicita fatta al Prc di rinunciare a presentare - al Senato - le proprie liste e di entrare a far parte di un maxilistone, l'intera Unione.

Abbiamo cortesemente detto: no: Per puro interesse di partito? «No, per noi non è una questione di resistenza o di sopravvivenza: è un ragionamento politico di fondo. Nel progetto di Rifondazione, i lati sono due: un governo di svolta, cioè la sconfitta del centrodestra, e la costruzione della Sinistra Alternativa. L'uno non vive senza l'altro». Ancora un nesso stringente, ancora un'opzione "organica". «Certo, per il nostro progetto politico generale di trasformazione è essenziale, ovvero è un passaggio obbligato, la sconfitta del centrodestra e delle politiche neoliberiste. Ma se ci annullassimo in un puro cartello elettorale, magari contrattando un buon numero di spazi o di posti, rinunceremmo, non solo simbolicamente, proprio a quel progetto strategico. Ne riveleremmo il carattere secondario, subordinato: questa è la ragione del nostro "no", non certo un improvviso sussulto settario». Ma perché, nelle forze di centrosinistra, ci si affanna tanto sulle tattiche elettorali del futuro? E' l'effetto della nuova legge elettorale così detta proporzionale, o c'è qualcosa di più? No, come spesso succede, nei meccanismi concreti - e perfino nella piccola politica quotidiana - si manifestano tendenze ben più di fondo. Questa faccenda elettorale, dice Bertinotti, non va vista soltanto nel contesto italiano: è dentro, in realtà, ad una tendenza europea, più generale. Quale tendenza? «Il neocentrismo. La Grande Coalizione, che già è all'opera in Germania e produce i suoi effetti divisori tra i socialisti francesi. Un mutamento della politica che coinvolge tutta la borghesia europea. Riassumiamolo, questo mutamento, per grandi linee: lo schema più adeguato alle politiche neoliberiste era quello dell'alternanza, dice Bertinotti. Due schieramenti che si alternano al governo, facendo in sostanza la stessa politica, e soprattutto la stessa politica economica. Ma l'alternanza funziona - forse - solo quando all'interno della società non si manifestano veri conflitti, movimenti reali, domande radicali: quando questo è successo, come è successo in tutta Europa, da Genova in poi, quello schema è andato in crisi. Non funziona più, non stabilizza i governi, non produce sviluppo». E quindi? «Quindi le classi dominanti - che dovrebbero rivedere la loro opzione neoliberista, ma continuano invece a riproporla, forse anche perché non ne conoscono un'altra - cambiano schema politico: basta con il bipolarismo, è l'ora del Grande Centro. Chiamalo come vuoi, le forme possono essere le più svariate, ma la filosofia è la stessa: offrire alle politiche di destra, dalla flessibilità alle privatizzazioni, una base politica ampia - la Grande Coalizione. Così la sinistra viene tendenzialmente tagliata fuori, o marginalizzata, o resa comunque meno efficace». In Italia potrebbe succedere? Bertinotti non lo esclude, anche se naturalmente sa che allo stato attuale è molto complicato, per tutte le forze coinvolte. «Per esempio, si dice che Montezemolo stia oscillando verso il centrodestra. Io penso che non sia questo il problema: ma che Confindustria, al di là dei suoi apparenti pendolii, si proponga come una calamita ai due schieramenti, non all'uno e all'altro». Diventano più comprensibili, perciò, le sofferenze dell'Unione: se questo è il progetto sul quale lavora la borghesia italiana, è vero che a farne le spese rischiano di essere sia Romano Prodi sia, soprattutto, i Democratici di sinistra: il primo perché la sua leadership è legata per nascita al maggioritario ("non a caso ha dichiarato, il Professore, che "morirà maggioritario"), i secondi perché rischiano di dover scegliere, tra una prospettiva neocentrista e un nuovo ancoraggio a sinistra che in ogni caso li dividerebbe.

E allora? Allora, grazie a Rifondazione comunista, e alla sua esistenza, questi complessi processi della politica possono non richiudersi nelle stanze della politica, e ridursi a mere operazioni di partiti. Torniamo alle primarie, al voto di domenica. «Qual è il nostro vero tentativo? Dislocare tutti questi problemi su una base diversa: oltre le segreterie e le leadership, all'interno del popolo elettore. Un soggetto che può scombinare, se vuole, tutti i calcoli, ma ridando fiato e senso alla politica, alla sinistra». Sì, dice Bertinotti, «per uscire dalle trappole della legge elettorale e delle contraddizioni che la destra sta rovesciando sull'Unione, c'è una sola terapia davvero efficace: l'unità di popolo». La sinistra che reinventa e si reinventa - a cominciare da domenica sera

sinistra
Libertà 14.10.05

L'Unione scelga Bertinotti per battere il berlusconismo
di Franca Bassi*

Molto pragmaticamente penso che oggi la proposizione di una serie di valori che vengono definiti “di sinistra e radicali” possa essere la risposta che molte e molti si aspettano
Domenica 16 ottobre le elettrici e gli elettori dell'Unione sceglieranno in modo “universale” il loro candidato a sfidare Berlusconi per la guida del governo.
Sulle primarie molto si può dire e molto si potrà fare per migliorare i processi partecipativi a tutti i livelli, tuttavia oggi esse costituiscono un appuntamento importante che sarebbe un peccato snobbare con aristocratica superiorità in quanto possono contribuire a caratterizzare in un senso o nell'altro il processo di fuoriuscita dalle politiche neoliberiste.
Da questo punto di vista, pur con tutto il rispetto per gli altri contendenti, mi pare che nell'unica vera contesa, quella tra Prodi e Bertinotti, risiedano le sorti della capacità dell'Unione di attrarre gli strati sociali che più sono stati colpiti dalla crisi, compresi quelli che nel decennio trascorso sono rimasti affascinati dalle sirene berlusconiane. L'idea che la moderazione, il centrismo, sia il fattore in grado di unificare le vittime, gli scontenti ed i delusi dal centrodestra è un teorema smentito dalla vicenda Puglia con Vendola e che trova la sua ragione nel fatto che ai disastri prodotti dalle politiche neoliberiste ci si può credibilmente opporre con proposte radicalmente alternative che diano la chiara percezione di un diverso modello di società e dei rapporti tra le persone.
Mi sembra infatti un po' astratta ed ideologica la visione per cui le elezioni si vincono “conquistando il centro”; forse un moderato sarebbe in disaccordo col fatto di mantenere la sanità, i servizi, l'istruzione pubblici? Abbandonare il pantano iracheno e le altre guerre americane è una proposta pericolosamente estremista? Pretendere per i nostri giovani un futuro lavorativo di diritti con un salario ed una pensione sicuri e dignitosi è fondamentalismo? Difendere i territori dal cemento, l'aria dalle polveri sottili, l'acqua e il cibo dai pesticidi è un obiettivo che può scandalizzare qualcuno?
Molto pragmaticamente penso che oggi la proposizione di una serie di valori che vengono definiti “di sinistra e radicali” possa essere la risposta che molte e molti si aspettano per chiudere con questo ultimo brutto decennio. Voterò Bertinotti, anche se penso che l'esito sia prevedibilmente a favore di Prodi, perché l'Unione ha bisogno di questa anima radicale e concreta.
Fausto Bertinotti, al di là dei personalismi, rappresenta un percorso critico - e penso pure sofferto - che ha portato la sinistra comunista italiana ad abbandonare un ruolo di conservazione e marginale per divenire un soggetto vitale che pone la nonviolenza, l'ambiente, la solidarietà al centro della propria riflessione ed azione politica, candidandola oggi ad incarnare quella modernità rivoluzionaria nonviolenta in grado di ridare centralità ad una multiforme umanità rispetto le fredde ragioni dell'economia capitalista.
Leggo in questo senso, tra le altre, la sperimentazione per la quale il PRC si è battuto affinché in queste primarie potessero esprimersi i nostri fratelli migranti, una sperimentazione che in caso di vittoria dell'Unione diverrà diritto effettivo all'elettorato. Pur non condividendo la logica delle "quote", quasi che l'universo femminile, la metà del mondo più creativa, operosa e sfruttata sia considerata alla stregua di una specie protetta da salvaguardare, credo sia importante ed innovativa la proposta di Bertinotti di prevedere nel futuro auspicabile governo dell'Unione che la metà dei ministeri sia guidato da donne.
Insomma credo che scegliere il leader di Rifondazione possa contribuire ad alzare il tasso di "alternatività " del centro-sinistra, una coalizione nella quale esiste già una base programmatica comune, ma nella quale convivono sensibilità differenti. Il voto a Bertinotti il 16 ottobre può far contare di più quella diversità che vuol battere con Berlusconi anche la base politica della sua idea di società; il voto a Bertinotti aiuta quella concreta, radicale profezia di un altro mondo possibile di cui la sinistra è portatrice.
*ex parlamentare dei Verdi

ricevuto da Marco Pizzarelli
Repubblica Salute pag.55
Alfabeto sessuale
di Gioconda Pompei (Psicologa Aied)

FETO
Viene chiamato feto il prodotto del concepimento dalla fine della dodicesima settimana di vita intrauterina in poi . Nel periodo precedente si parla di embrione e in questa fase dell’embriogenesi vengono abbozzati tutti gli organi e apparati del futuro bambino; il cuore comincia a pulsare tra la sesta e la settima settimana e alla fine dell’ottava possono già rilevarsi i primi movimenti fetali, che la madre, però, non è in grado di percepire.
E’ solo intorno alla ventesima settimana che i movimenti attivi del feto potranno essere avvertiti dalla madre e più avanti dal padre poggiando la mano sul ventre materno .
Alla dodicesima settimana il corpo del feto misura circa sette centimetri e presenta sembianze umane, anche se vi è ancora una notevole sproporzione tra la dimensione della testa e quella del corpo Oltre il quarto mese i suoi organi sono molto simili a quelli del neonato, comprendono anche le più piccole strutture degli apparati . In questo periodo però lo sviluppo cellulare delle varie strutture è ben lontano dall’essere completo . Sono necessari i restanti cinque mesi di gestazione per ultimare e raggiungere le condizioni necessarie per una vita autonoma . Il feto si trova immerso nel liquido amniotico e viene alimentato attraverso la placenta, un organo che ha la funzione di nutrire e di eliminare i residui del metabolismo . E’ grazie alla placenta, collegata al bambino dal cordone ombelicale, che egli riceve nutrimento dal sangue della madre pur non venendo mai a contatto diretto con esso . Con le moderne strumentazioni tecnologiche è stato scoperto che la vita del feto è molto più animata di quanto si potesse supporre un tempo : si stira, si succhia il pollice, sbadiglia, ruota la testa, si rannicchia in un angolo, si distende nello spazio della cavità uterina, si gira su se stesso . Oggi sappiamo anche che è in grado di percepire stimoli e di integrarli nella sua esperienza, costituendo le basi del sé e della sua coscienza . Le stimolazioni che riceve sono di vario tipo come ad esempio la voce dei genitori, le onde ritmiche del respiro della madre, i battiti del suo cuore e degli altri suoni – se pur attutititi – provenienti dall’ambiente circostante .
Tutto ciò lascia supporre che il rapporto con la madre inizi già durante la gravidanza e che le esperienze prenatali abbiano un’influenza sulle sue funzioni mentali e dimensioni affettive.

giovedì 13 ottobre 2005

sinistra
l'Unità 12.10.05
Bertinotti: «Un voto di sinistra all’Unione»

SIENA «A queste primarie occorre partecipare perché un’occasione per esprimere la propria opinione. Ma anche perché bisogna dare un segno di sinistra all’Unione. Ne abbiamo davvero bisogno». Così Fausto Bertinotti ieri a Siena per il suo giro elettorale come candidato alle primarie.
Il leader del Prc è stato accolto da moltissime persone al cinema Moderno, ma non si è voluto sbilanciare sulla partecipazione alla consultazione. «Difficile far previsioni anche perché non ci sono precedenti. Bisogna vedere fin dove arriva l'informazione. Certo in una città come questa, in Toscana informare è abbastanza semplice. Lo è meno in grande aree metropolitane come Roma, Milano, Napoli è molto difficile arrivare alle singole persone. Siamo in un incognita». Ma secondo Bertinotti «saranno in tanti ad andare a votare perché la partecipazione che ho incontrato in questo viaggio nelle primarie è stato eccezionale».
Bertinotti dopo le considerazioni generali nel dibattito è entrato anche nel merito del programma dell’Unione. Partendo dai problemi di oggi. Ha attaccato la legge Bossi-Fini sull’immigrazione «da abrogare per costruire una cittadinanza di uguali» ricordando come sono trattati gli immigrati nei centri di accoglienza temporanea. «In realtà - è la lettura che Bertinotti fa di questa legge - nessuno vuol mandare via gli immigrati. Ma piuttosto tenerli senza diritti per poterli meglio sfruttare».
Ha bocciato la politica scolastica del ministro Moratti che punta ad una scuola «finalizzata ad un lavoro incerto. Se il lavoro è povero e precario non c'è una buona scuola, una buona salute. Noi - ha proseguito citando il don Milani (che diceva senza giri di parole "che la scuola è meglio della merda”) - stiamo tornando alla scuola di classe».
Sul tema dei Pacs Bertinotti ha invitato a partire dalla realtà sostenendo che la Repubblica di deve dare leggi condivisibili da tutti. «I pacs sono il minimo comune denominatore di un'alleanza come l’Unione per rendere civile questo paese». E già che c’era ha bacchettato il cardinale Ruini. «Non ci troverei niente di strano se il cardinale convincesse chi convive al matrimonio religioso.Ma ciò che non può fare è stabilire in confine della legge italiana. Della costituzionalità delle nostre risponde la corte costituzionale e il popolo italiano».
Infine si è concesso anche una digressione sulla legge elettorale di stretta attualità politica: «stanno facendo cose davvero scandalose e credo anche manifestamente anticostituzionali. La più clamorosa è quella che consente di leggere il voto rompendone la segretezza».

violenza contro le donne
Corriere della Sera 13.10.05

Un rapporto del Fondo delle Nazioni unite per la popolazione
Una donna su tre nel mondo subisce violenze
È stata picchiata, costretta ad avere rapporti sessuali o abusata, in genere da un membro della famiglia o da un conoscente

il documento integrale in inglese: www.unfpa.org

Una donna su tre nel mondo ha subito violenze fisiche, psicologiche o sessuali, ad opera degli uomini. E’ uno dei dati che autorizza a parlare di «apartheid femminile» e che è contenuto nel rapporto-denuncia presentato ieri dall’Unfpa, il Fondo Onu per la popolazione. E’ il nodo che rischia di bloccare il raggiungimento di tutti gli altri obiettivi fissati dalle Nazioni Unite nel 2015: dimezzare l’estrema povertà, raggiungere l’educazione elementare universale, contenere la diffusione dell’Aids. «Non possiamo affrontare questi problemi - ha detto il direttore dell’Unfpa Thoraya Ahmed Obaid - finché non fermiamo la violenza contro le donne. E finché le donne non godranno appieno dei loro diritti sociali, culturali, economici e politici». Maggiore uguaglianza tra i sessi, calcola il rapporto, salverebbe nel prossimo decennio 2 milioni di donne e 30 milioni di bambini.
NEW YORK - Nel mondo una donna su tre è stata picchiata, costretta ad avere rapporti sessuali o abusata, in genere da un membro della famiglia o da un conoscente. Lo denuncia il rapporto sullo stato della popolazione nel mondo 2005 messo a punto dall'Unfpa (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione). La violenza contro donne e ragazze (sono 1,7 miliardi le donne tra i 15 e i 49 anni nel mondo) è «un'epidemia mondiale, silenziosa e di dimensioni allarmanti. La discriminazione contro donne e ragazze sottrae allo sviluppo di intere nazioni il pieno contributo delle capacità individuali di oltre metà della popolazione».
VIOLENZA UBIQUITARIA - La violenza sulle donne «continua incontrastata» sia nelle nazioni ricche che in quelle più povere, dice il rapporto. Gli autori delle violenze restano spesso impuniti, lasciando alle donne prive di qualsiasi possibilità di risarcimento tenendo conto inoltre che circa i due terzi degli oltre 800 milioni di adulti analfabeti sono donne. Dei 137 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni analfabeti, il 63% sono donne.
IN POLITICA - In media nel mondo le donne detengono solo il 16% dei seggi parlamentari (in Italia molto meno). Alcuni Paesi in via di sviluppo hanno però fatto passi avanti in questo campo: il Ruanda, per esempio, ha la più alta percentuale di deputate al mondo (49%) superando la Svezia (45%). L'Unfpa afferma che molti Paesi non hanno mantenuto l'impegno di eliminare le leggi discriminatorie contro le donne entro il 2005 come richiesto dalla Conferenza di Pechino del 1995. Per promuovere l'uguaglianza di genere e ridurre la povertà, secondo l'Unfpa è necessario coinvolgere attivamente gli uomini e ragazzi.
LA SALUTE FEMMINILE - Mezzo milione di donne muore ogni anno per cause legate alla gravidanza e al parto. Per ogni donna che muore per questi motivi, però, altre 20 soffrono di invalidità o malattie, per una cifra che va dagli 8 ai 20 milioni ogni anno. Si contano 76 milioni di gravidanze indesiderate ogni anno nei soli Paesi in via di sviluppo. Ogni anno circa 14 milioni di adolescenti fra 15 e 19 anni diventano madri. L'Unfpa stima che nei prossimi dieci anni circa 100 milioni di adolescenti saranno costrette a sposarsi prima dei 18 anni. Circa la metà delle persone sieropositive sono donne. Una donna su due ha accesso alla contraccezione (in Africa una su cinque). Il 99% delle morti delle madri avviene nei Paesi in via di sviluppo. Nell'Africa sub-sahariana meno del 40% delle donne partorisce con assistenza specializzata. Dei 130 milioni di bambini che nascono ogni anno, 4 milioni muoiono nel primo mese di vita. Il 99% delle morti neonatali avvengono nei Paesi a reddito basso o medio e quasi la metà avvengono a casa.

Emma Bonino
di Costantino Muscau

Il rapporto del Fondo delle Nazioni Unite sulla popolazione: nel mondo una donna su tre subisce violenze L’Onu denuncia: apartheid sessuale Emma Bonino: «Molti abusi nei Paesi ricchi, ma ci sono progressi»
«In Kuwait le donne eleggeranno i deputati nel 2007; l’Arabia Saudita ora ammette che il voto femminile non è più un tabù voluto dalla religione, e che è stato rinviato per motivi tecnici; a Kandahar (già roccaforte talebana) le candidate al parlamento hanno incontrato a volto scoperto i giornalisti maschi; a Herat una candidata fa l’estetista; le denunce delle mutilazioni femminili, dei matrimoni obbligati sono diventate pubbliche... No, non è vero che tutto va male nel pianeta donna. Ci sono elementi di avanzamento, lentissimi, faticosissimi, spesso pagati col sangue, ma ci sono». L’eurodeputata radicale Emma Bonino, da decenni protagonista di battaglie storiche sulla questione femminile e ora capo della missione di osservazione elettorale dell'Ue in Afghanistan, non vede tutto nero nel rapporto sullo stato della popolazione nel mondo 2005 diffuso ieri dall’agenzia Onu. «Mi sono profondamente emozionata - continua la Bonino, da Bruxelles dove sta preparando proprio una pre-relazione sull’andamento del voto in Afghanistan - nel vedere centinaia di ragazzine sciamare all’uscita dalle scuole afghane...Una scena inimmaginabile nel 1997 quando venni arrestata dai Talebani. Certo resta l’emarginazione complessiva, il dominio sulla popolazione femminile: basti pensare al protagonista del romanzo "Il libraio di Kabul": un uomo illuminato, colto, che considera le donne della sua famiglia come serve, un padre padrone per cui è scontato che la donna sia inferiore..Ma forse che in Occidente il potere maschile e maschilista vuole mollare la presa?».
L’ex commissaria europea si riferisce al fatto che un quarto dei casi di abusi sessuali si verifichi in nazioni sviluppate, come Australia, Canada, Israele, Usa. «Per non parlare della Spagna - aggiunge - dove la crudeltà domestica ha acquistato una tale rilevanza pubblica che, unico Paese in Europa, ha aperto "rifugi" per donne maltrattate e varato una legge contro la "violenza di genere"». Ma Emma Bonino punta il dito accusatore anche sull’egoismo delle donne occidentali da una parte, e sulla discriminazione (soprattutto politica), dall’altra. «Da noi, o per individualismo o per indifferenza, ci si occupa sempre meno delle nostre sorelle più sfortunate in quanto a diritti, che spesso vivono a poche ore d’aereo. Eppure queste nostre sorelle, 2-3 generazioni indietro rispetto a noi, hanno bisogno di supporto internazionale. Ci dimentichiamo che noi stesse in Italia abbiamo avuto bisogno di essere "accreditate" per l’aborto, il divorzio, da eminenti figure europee come Simone Veil. Purtroppo le italiane stanno perdendo persino la forza di difendersi dagli attacchi a certi diritti...».
Sulla discriminazione politico-sociale, Bonino rincara la dose: «Quante sono le direttrici di giornali, di banche, di grandi aziende in Italia? Per non parlare delle segretarie di partito. A parte Adelaide Aglietta, o me o Grazia Francescato chi se ne ricorda un’altra? Vogliono fissare le quote per le donne in politica? Ma via! E’ una scorciatoia inammissibile. E perché non facciamo le quote per colore della pelle? La verità è che la discriminazione della donna è frutto del potere maschile. E il potere chi ce l’ha non vuol perderlo. In Italia come nel resto del mondo. E strapparlo è molto difficile».

Cina /1
Corriere della Sera 13.10.05
La svolta La parola d’ordine del regime di Pechino: meno divario ricchi-poveri

Ridurre le enormi disparità fra ricchi e poveri, mettere fine agli sprechi indiscriminati di risorse naturali e alla devastazione dell’ambiente. E’ una svolta epocale quella che si prepara in Cina. Un addio a quello slogan, «arricchitevi», coniato dal «piccolo timoniere» Deng Xiao Ping a fine anni ’70, che ha dato il via a un boom

Cina /2
aprileonline.info 13.10.05
Quando il Dragone va in orbita
Oriente. Parte dalla base spaziale “Città dello spazio Vento dell’Est” (Mongolia), la navicella Shenzhou VI (Vascello divino). Il secondo lancio con gli occhi a mandorla della storia
di Sandro De Toni

Mercoledì 12 ottobre, in concomitanza con la riunione annuale del plenum dell’Assemblea del popolo, il parlamento cinese, e a pochi giorni dalla festa della Repubblica popolare del 1° ottobre, il lancio di un secondo satellite da parte del Paese del Dragone con due astronauti a bordo è pienamente riuscito.
Il vettore “Lunga marcia” ha messo in orbita la navicella Shenzhou VI (Vascello divino). Il lancio, che è avvenuto dalla base spaziale “Città dello spazio Vento dell’Est” vicino alla città di Jiuquan, nella Mongolia interna, è stato trasmesso in diretta dalla televisione nazionale. Due anni fa il primo lancio in orbita di un astronauta con gli occhi a mandorla.
I due taikonauti ( come gli chiamano in mandarino – per la verità la parola esatta sarebbe “taikongren”) sono Fei Junlong di 40 anni e Nie Haisheng di anni 41. Il nome deriva dalla parola che in putonghua (la lingua comune, ossia il dialetto di Pechino) designa lo spazio, “taikong” o “grande vuoto”, alla quale i cinese hanno aggiunto il suffisso in uso in diverse lingue occidentali per nominare i visitatori degli astri e del cosmo.
Nel frattempo la neve cadeva sulla base spaziale che è ubicata nel deserto di Gobi. Migliaia di bambini, malgrado il gran freddo, hanno così festeggiato l’avvenimento nelle strade di Jiuquan, una città che si trova a mille chilometri ad ovest di Pechino, al limite del deserto di Gobi, ed è abitata da circa 300mila persone. L’evento ha dato vita anche a qualche sfruttamento commerciale: il marchio “Shenzhou” è diventato quello di un famoso vino di riso prodotto in zona. D’altronde Jiuquan è una città che non è stata toccata dallo sviluppo delle zone costiere e che riceve un minimo di benessere solo dal turismo.
Sul posto era presente il primo ministro Wen Jiabao, il quale ha dichiarato che il lancio della navicella “è stato un successo totale…il mondo intero ha potuto vedere il successo del volo della navicella abitata Shenzhou VI”. I cosmonauti rimarranno in orbito cinque giorni.
Prosegue dunque con successo il programma spaziale di Pechino. Anzi, secondo l’esperto Philippe Coué, è il solo al mondo che va avanti.
La prima missione spaziale cinese risale a due anni fa quando fu messo in orbita un satellite con dentro il colonnello Yang Liwei il 15 ottobre 2003. Con quel lancio la Cina fu il terzo Paese al mondo a realizzare un volo simile dopo l’Urss e gli Stati uniti d’America.
Si prevede una prossima tappa nel 2006. Nel 2007 ci saranno due voli abitati, uno lanciato quattro mesi prima dell’altro, con delle uscite degli astronauti nello spazio e con la presenza contemporanea nello spazio di due navicelle cinesi. A medio termine, tra il 2008 ed il 2009, la Cina punta a disporre di una stazione spaziale con importanti ricadute militari e civili. L’obiettivo a lungo termine è quello di inviare intorno all’anno 2017 un veicolo sulla luna per esplorarla. I Cinesi hanno la reale intenzione di installarsi sul nostro satellite.
Una Cina dunque concorrenziale non solo sul tessile o sulle calzature ma anche nell’ambito della alte tecnologie e che si appresta a diventare un Paese competitore con gli Usa, con la Ue e con il Giappone, a tutto campo.

Cina /3
La Stampa 13.10.05

Pechino vuole diventare una potenza spaziale
L’impero celeste torna in orbita e sogna la Luna
Due colonnelli a bordo del «Vascello divino»
Partita la seconda missione dei «taikonauti»
di Francesco Sisci

PECHINO. La Cina non si chiama impero celeste per caso. L’imperatore era il figlio del cielo, e quello che da noi si chiama «volere degli dei», qui è il «mandato del cielo». Così la nave spaziale cinese lanciata ieri verso l’empireo è il compimento di un destino millenario, la realizzazione di una vocazione iscritta nel nome stesso del Paese (oltre alla più banale ricerca di gloria e potenza). I due colonnelli Fei Junlong, 40 anni, e Nie Haisheng, 41, saranno nello spazio per una settimana, in un altro passo verso il viaggio del primo cinese sulla Luna, che dovrebbe avvenire entro il prossimo decennio. Sarà il culmine di una lunga corsa nello spazio proceduta negli ultimi 50 anni in modo discontinuo. E, nonostante ieri i leader di Pechino si siano affrettati a dichiarare le intenzioni pacifiche del programma spaziale cinese, è chiaro il profondo contenuto strategico di questo e dei prossimi lanci.
I primi lavori per arrivare a un razzo cinese cominciarono con l’aiuto dei russi, nel 1956. Ma i cinesi dovettero aspettare 14 anni per lanciare il loro primo satellite, l’«Oriente è rosso», decollato al culmine della rivoluzione culturale, nel 1970. Nel decennio successivo il potente ministero dell’aerospaziale si concentrò nel lavoro per il controllo dei satelliti da terra. Tutto era improntato allo scopo di migliorare il sistema di lancio dei missili: se si potevano collaudare decolli accurati con i satelliti, allora lo si poteva fare anche con i vettori balistici per gli ordigni atomici.
Ma il salto tecnologico cominciò solo dal 1985, quando la Cina mise sul mercato i suoi razzi per portare satelliti commerciali nello spazio. Di lì cominciarono gli studi avanzati per passare dal carburante liquido a quello solido. Contemporaneamente avanzava il lavoro per aumentare la capacità di trasporto dei razzi. Nel 1990 si passava al «Lunga Marcia 2» con una capacità di trasporto di oltre 9 tonnellate, e si era in dirittura di arrivo per la navetta spaziale. Per evitare dubbi sullo scopo del lancio nell’ottobre di quell’anno due topolini, cavie cinesi, finirono in cielo, ad aprire lo spazio poi al lancio umano.
In quel momento cominciava anche una rivoluzione della dottrina militare cinese dopo le analisi della prima Guerra del Golfo. Fino a quel momento la strategia cinese era concentrata sulla guerra di fanteria, grandi masse umane che non avanzavano in maniera coordinata appoggiati da carri armati e cannoni. Era la grande guerra di movimento su modello sovietico, ripresa dopo che il modello delle ondate umane era stato provvisoriamente abbandonato con il fallimento del breve conflitto contro il Vietnam nel 1979. La Guerra del Golfo però aveva mostrato che gli Usa avevano vinto conquistando il controllo del cielo, lo spazio. Erano le teorie degli anni ‘20 del generale piemontese Giulio Douhet, della guerra dal cielo, che vennero rinfrescate e diedero nuovo potere di leva e di espansione per l’industria aeronautica.
Quel decennio carico di ottimismo cominciò però per una serie di insuccessi nei lanci dei razzi. La repressione del movimento di Tiananmen aveva bloccato il flusso di tecnologia dall’Occidente e solo intorno alla seconda metà degli anni ‘90 la Russia di Eltsin aprì alla collaborazione militare, e aeronautica, con la Cina. Allo stesso tempo, pare che anche gli americani della Hughes e della Loral collaborassero con i cinesi nel miglioramento dei sistemi di controllo del lancio. Da allora finirono la serie di razzi che scoppiavano e missili che precipitavano a terra, e iniziò la marcia che portò il primo astronauta cinese nello spazio. Il «taikonauta» (tai kong in cinese significa spazio) Yang Liwei nell’ottobre del 2003 compì 14 orbite della Terra in 21 ore e 23 minuti sul suo Shenzhou (Vascello divino) V.
Oggi Fei e Nie hanno un compito diverso, staranno in cielo più tempo e compiono un serio passaggio per la preparazione che poi dovrà portare un equipaggio cinese sulla Luna. Lo scopo sarà la gloria del cielo, ma intanto il lancio è avvenuto mentre era in corso il plenum del partito, e il giorno prima c’era stato un altro lancio, quello del nuovo piano economico quinquennale. Simbolicamente insieme, presidente e vice presidente dello Stato, Hu Jintao e Zeng Qinghong hanno seguito il decollo dalla sala di comando e controllo a Pechino. L’occasione fa pensare a una possibile promozione di Zeng a vice presidente dell’onnipotente Commissione militare centrale, responsabile del programma spaziale.
È il futuro che si riallaccia al passato. Oggi la Cina, adoratrice della storia, racconta che il suo viaggio verso il cielo è cominciato con i suoi primi razzi spinti da polvere da sparo. Spiega che il primo inventore di una specie di propulsore jet fu nel 1400 Wan Hu che esplose nel tentativo di farsi sparare in cielo su un aquilone montato su 47 tubi di bambù. Mentre l’Occidente si dimentica che il primo razzo prese volo da Taranto nel 400 avanti Cristo, costruito da Archita, tiranno-filosofo della città e modello di Platone per la sua Repubblica.

Corriere della Sera 13.10.05
L'uso politico della Storia
da Erodoto a Stalingrado
di Luciano Canfora

Quando i sovrani dell’antico Oriente diffusero nei loro regni grandi lapidi murate in luoghi pubblici o eminenti recanti il racconto delle loro gesta, quello fu l’atto di nascita dell’uso pubblico della storia. Era quello il racconto della storia che il sovrano imponeva al suo popolo: l’unico «vero». Fu un greco d’Asia, Ecateo di Mileto, che alzò il capo e disse: «Io racconto come sembra a me». Ed è del tutto comprensibile che un altro greco d’Asia, in opposizione spirituale al dispotismo, abbia scritto, con le sue forze e sviluppando la sua individuale «ricerca» (è questo che significa «storia»), la storia della rivolta, infelicissima, dei greci d’Asia contro la Persia, e soprattutto la storia del regno persiano - non più quella ufficiale ma quella indagata da lui - e, a coronamento di tale «ricerca», la storia delle due invasioni persiane della Grecia, finite l’una e l’altra con la inopinata vittoria di Atene sulle sterminate truppe d’invasione. Così Erodoto - che apparteneva ad una famiglia di esuli di Alicarnasso, ma si era stabilito ad Atene - innalzò un «monumento» agli ateniesi. E quella sua storia incominciò a recitarla nella pubblica piazza. Quando Erodoto leggeva in piazza parti della sua storia, il pubblico non soltanto applaudiva ma, se del caso, partecipava criticamente. Una volta, quando Erodoto sostenne che, nel corso della traumatica crisi dinastica esplosa in Persia al passaggio da Cambise a Dario, era stata autorevolmente prospettata l’instaurazione in Persia della «democrazia», «alcuni Greci» non gli avevano creduto. Lo racconta lui stesso un paio di volte rivendicando - invece - di aver detto la pura verità.
È questo un episodio istruttivo. Ci fa capire che l’opera erodotea che noi leggiamo non è la pura e semplice trascrizione di quanto lui veniva leggendo dinanzi al pubblico in diverse città, ma piuttosto la rielaborazione scritta e collocata in una sapiente impalcatura dei materiali che, almeno in parte, in precedenza avevano avuto immediata fruizione pubblica. Era uno «spettacolo» che poteva risolversi, o meno, in un successo. Tradizioni antiche (ad esempio il continuatore dello storico Eforo, vissuto un secolo dopo) parlavano di un premio, di un consistente premio in denaro attribuito ad Erodoto dalla città di Atene: la notizia è ripresa moltissimo tempo dopo (quasi sette secoli dopo) dal cronografo e storico cristiano Eusebio di Cesarea, il quale precisa che il premio gli fu dato «perché Erodoto aveva dato lettura dei suoi libri davanti all’assemblea». Si era anche formata la leggenda che tali letture si svolgessero ad Olimpia in occasione dei giochi panellenici, e addirittura che tali letture comportassero un accompagnamento musicale. Luciano di Samosata, il greco di Siria che al tempo di Antonino Pio e di Marco Aurelio rivendicava la grecità contro Roma, scrive che ad Olimpia l’opera di Erodoto veniva «cantata».
Che ci fossero premi per gli scrittori che si impegnavano in favore della città di Atene (per rivendicarne o esaltarne la grandezza e il ruolo politico) ci è noto anche per altri casi. Così ad esempio sappiamo da Isocrate - che era un coetaneo di Platone - che Pindaro, il grande poeta tebano, per aver definito Atene «baluardo della Grecia» era stato, a suo tempo, nominato «prosseno» (una sorta di console onorario) e gratificato con un premio di diecimila dracme.
Definire Atene «baluardo della Grecia» non era affatto una ovvietà e nemmeno, almeno a partire da un certo momento in poi, una affermazione indolore. Al contrario, era una rivendicazione che risultava sempre più sgradita alle molte città greche che, dopo gli anni eroici in cui Atene aveva ripetutamente sconfitto i persiani (appunto, «baluardo della Grecia»), avevano cominciato a detestare l’egemonia e il dominio «tirannico» di Atene. Su quella storica vittoria, che aveva ricacciato il «barbaro», Atene aveva costruito la sua «alleanza», presto divenuta «impero». Una traiettoria analoga a quella che, millenni dopo, da Stalingrado portò al «patto di Varsavia».
Erodoto, che non era ateniese ma aveva scelto di vivere in quella città e di appoggiarsi alla cerchia di Pericle che ne incarnava la leadership, difese apertamente il diritto di Atene ad appellarsi pur sempre a quella remota vittoria liberatrice: anche in anni in cui ciò era malvisto dagli «altri greci», come egli stesso dice. (Quei greci che, subentrato al predominio ateniese quello, durissimo, di Sparta che pure aveva proclamato di «portare la libertà», cominciarono a rimpiangere Atene). E dunque il premio dato a lui era per ragioni sostanziali affine a quello dato a Pindaro. Entrambi avevano ribadito il merito storico di Atene.
Non paia modernistico affermare che in quella antica vicenda vi sono già in nuce gli elementi essenziali di ciò che oggi chiamiamo «uso pubblico della storia». Nell’esplicita «presa di posizione» o «schieramento» partitico che una tale pratica comportava, la vicenda trattata era, anche, la posta in gioco dello scontro politico: sia sul piano interno (ad Atene i nemici del «potere popolare» erano stufi di quella retorica della «vittoria sul barbaro») sia sul piano internazionale.
Ma da quella pubblica fruizione della storia potevano discendere esiti imprevisti. Racconta la biografia antica che Tucidide - il futuro storico -, da fanciullo, aveva assistito alle letture erodotee e ne era rimasto talmente scosso e conquistato da scoppiare in lacrime. Erodoto lo notò e si avvicinò al padre del fanciullo, preconizzando in lui «natura ardente per la conoscenza». Si sa che l’antica biografia metteva in relazione i grandi autori del passato, istituiva anzi tra loro un «passaggio di mano del testimone» (una traditio lampadis). E nondimeno questa leggendaria o storica commozione di Tucidide, del futuro grandissimo interprete e critico della politica ateniese, racchiude dentro di sé un singolare paradosso. Tucidide ha certamente mosso i primi passi, come storico, sulle tracce di Erodoto, continuando l’opera di lui, scrivendo come lui. Ed ha incominciato anche lui con «letture» che forse non ebbero analogo successo. Ma quando esplose la crisi latente - che era crisi politica e militare, nel precipitare dei rapporti internazionali verso un irreparabile conflitto - e scoppiò la «guerra più grande di tutte le precedenti», come egli la chiama, Tucidide cambiò radicalmente registro. Inventò una scrittura totalmente nuova (la storia monografica di un solo grande avvenimento, ma paradigmatico) e si ritrasse dalla «gara» pubblica, dalla «storia in piazza». Scrisse liberamente, e assai criticamente, della tara profonda che erodeva l’impero, smascherò il ragionamento patriottico che ne costituiva l’architrave (il «diritto all’impero» nel nome di Maratona e Salamina) e inventò un nuovo prodotto letterario destinato ad un pubblico non solo cittadino. La sua scelta di non parlare per assecondare la retorica imperiale intrecciata con quella democratica fu sintomo e causa insieme della nascita di un pubblico di lettori nonché, per una lunga fase storica, della divaricazione tra storia e piazza, tra storici e popolo.

I due autori che raccontarono le guerre della Grecia
Erodoto e Tucidide sono i due grandi storici greci del V secolo a.C. Il primo, nato ad Alicarnasso, visse per diversi anni ad Atene. Le sue Storie nei primi quattro libri descrivono i costumi di vari popoli antichi e negli altri cinque narrano la lotta vittoriosa dei greci contro gli invasori persiani. Tucidide, nato ad Atene, partecipò alla guerra del Peloponneso contro Sparta (431-404 a.C.) e venne esiliato dalla sua città per lunghi anni. Al conflitto tra ateniesi e spartani, concluso con la vittoria di questi ultimi, è dedicata la sua opera storiografica, considerata un autentico capolavoro dell’antichità.

storia dell'uomo /1
Corriere 12.10.05
Il ritrovamento del primo scheletro un anno fa in Indonesia
L'hobbit non era solo: scoperti nuovi resti
Trovati altri 9 scheletri che confermano l'ipotesi che 18 mila anni fa esistesse un umano basso, con i piedi grossi e le braccia lunghe
di Alessandra Bravi


FLORES (INDONESIA) - Non sarà la Terra di Mezzo, ma certo era un'isola alquanto strana. Popolata da elefanti nani, lucertole giganti e uomini alti un metro, mento sfuggente, con le braccia lunghe e i piedi grossi. E' l'isola di Flores, in Indonesia. La terra degli Hobbit, forse. Perchè lì, nella caverna di Liang Bua, un anno fa furono scoperti i resti fossili di un ominide, ribattezzato Homo Floresiensis, che ricordava la creatura inventata da Tolkien. E adesso, un anno dopo, di questi scheletri se ne sono trovati ben nove, con braccia e gambe che danno un quadro più preciso della strana creatura. E che confermano l'ipotesi che 18mila anni fa esistesse una razza umana molto diversa da quella che siamo abituati a conoscere.
La scoperta, fatta dall'equipe di antropologi australiani guidata da Mike Morwood, dell'Università della New England di Armidale, in Australia, gli stessi che nel 2004 avevano trovato il teschio piccolo e schiacciato dell'ominide e avevano parlato di nuova razza umana preistorica, è stata pubblicata sulla rivista scientifica londinese, Nature, e ripresa da molti media inglesi.
Caratteristica principale dell'Homo Floresiensis, chiamato così dal luogo in cui i resti sono stati trovati, è la statura minuta: appena un metro di altezza, che aveva fatto sospettare che il primo esemplare appartenesse ad un individuo adulto affetto da microcefalia. Conclusione sbagliata alla luce dei nuovi ritrovamenti che permettono di formulare l'ipotesi che esistesse davvero una comunità di ominidi diversi dalle altre specie umane che la preistoria ci ha insegnato a classificare. La nuova specie - che potrebbe aver convissuto con gli ultimi rappresentanti di Homo erectus e prima della colonizzazione della regione da parte di Homo sapiens - si lega perfettamente alla fauna fossile dell'isola, in passato habitat di specie arcaiche estinte in altri luoghi e spesso conservate in forme estreme: lo stegodonte, una specie di elefante nano, o il Drago di Komodo, una lucertola gigante.
All'epoca del ritrovamento i resti del teschio erano stati ritenuti una stranezza antropologica, fossili appartenenenti ad un individuo malato di nanismo. Diversi scienziati avevano attaccato l'ipotesi formulata dallo studioso australiano, secondo cui quell'individuo, denominato Homo Floresiensis ma soprannominato Hobbit per via della sua bassa statura, potesse rappresentare un'altra specie di Homo. Ora Nature svela che esisteva davvero una tribù di Homo Floresiensis, che abitò a Liang Bua per almeno sei millenni: il fossile di ominide più antico in quella caverna risale a 18.000 anni fa, e il più recente a 12.000 anni fa, ossia pochi millenni prima che l'Homo Sapiens inventasse l'agricoltura e, ponendo fine al nomadismo, desse vita alle civiltà stanziali e urbane.

storia dell'uomo /2
La Stampa 13.10.05
Uomo di Pechino
chi l'ha visto?
Un numero verde per i reperti scomparsi
di Gabriele Beccaria


C’È un numero verde per trovare sei uomini scomparsi di 500 mila anni fa. E c’è qualcuno che telefona, come il signor Ren, che dice di aver conosciuto una persona che potrebbe sapere dove li hanno nascosti.
Non era una riunione di pazzi, quella che si è svolta in un piccolo centro non lontano da Pechino. Anzi. C’erano archeologi, paleontologi, geologi e gli immancabili rappresentanti delle autorità: erano severi e allo stesso tempo euforici, com’è giusto esserlo quando si cerca il Sinanthropus pekinensis, universalmente noto come l’Uomo di Pechino, ominide-chiave nella storia dell’evoluzione della nostra specie e che molti libri di testo del regime considerano il padre di tutti i cinesi, anche se non doveva essere attraente né aitante.
Scoperte nel 1929 e quasi subito perdute, nel 1941, le ossa racchiudono uno dei grandi gialli del XX secolo che si prolunga anche nell’attuale. «Speriamo di riportarli tutti a casa presto!», hanno concluso i presenti, gridando uno slogan in stile archeo-comunista. Alle spalle c’era un poster con i disegni dei sei crani (o di quel che resta) del grande antenato. Da 64 anni sono l’obiettivo di una caccia, a volte pubblica e a volte segreta. Ma ora la Cina fa in grande: ha istituito un team apposito, degno della potenza che è diventata, e che agli occidentali è stato prolissamente presentato come il «Working committee to search for the lost skullcaps of Peking Man». Un comitato operativo, insomma.
Era il 2 dicembre 1929, quando l’archeologo Pei Wenzhong (che, secondo la leggenda, teneva un martelletto in una mano e una candela nell’altra) si calò in un crepaccio e portò alla luce uno straordinario cranio. Poi nel paese di Zhoukoudian, 50 chilometri a Sud-Ovest di Pechino, le scoperte si moltiplicarono e si trasformarono in un evento di risonanza mondiale: dalla caverna battezzata «Dragon Bone Hill» emersero altri cinque teschi e le ossa fossilizzate di 40 individui, che avevano colonizzato l’area 500 mila anni prima. Il look era ancora scimmiesco: piccoli (tra 1 metro e 44 e 1 metro e 56) e dalla fronte sfuggente, erano però tutt’altro che stupidi. Dalla loro avevano la tecnologia. Erano tra i primi a conoscere il fuoco, come dimostravano i resti carbonizzati di molti animali.
Il meglio degli studiosi europei e americani si riversò in Cina. Tra loro Teilhard de Chardin (il celebre paleontologo, filosofo e teologo) e Davidson Black, che con il sostegno della famiglia Rockefeller creò un laboratorio dove raccogliere tutto, dai denti ai femori, e svelarne i segreti. Ma il tempo non sarebbe bastato. Prima lo scoppio della guerra civile, poi l’invasione giapponese e la seconda guerra mondiale resero le ricerche sempre più rischiose, finché nel 1941, alla vigilia di Pearl Harbor, i reperti furono raccolti in due casse e spediti nel porto di Chingwangtao per essere caricati sul cargo «President Harrison», con destinazione California. Ma là non arrivarono mai.
Colpa della scorta dei marines? Oppure furono razziati dai militari giapponesi? O, ancora, nascosti a Pechino? L’indagine è appena cominciata, mentre al numero 86.10.69.30.12.87 si susseguono segnalazioni sconcertanti. «Vi dirò dove furono sepolti i frammenti dei sei teschi», sostiene un anonimo. Dice di avere 121 anni e una memoria eccezionale.

patologie infantili
Yahoo Salute 12.10.05
Sovrappeso e salute mentale tra le patologie più rilevanti tra i bambini italiani

L'alta mortalità neonatale nel Sud Italia, gli incidenti, la salute mentale, il sovrappeso e l'obesità: sono queste le principali criticità per la salute di bambini e adolescenti in Italia.
Questo è quanto emerge dal Rapporto “ La salute del bambino in Italia: problemi e priorità ”, realizzato dall'Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Burlo Garofolo d Trieste.
Il tasso di mortalità infantile in Italia (4,4 per mille nati vivi) risulta molto vicino alla media UE (4,2 per mille – dati 2001), ma, tra le regioni italiane, persistono differenze notevoli nella sua componente principale, ovvero la mortalità neonatale.
Infatti, nel Nord Italia solo il 2,5 per mille dei neonati muore tra il primo e il 28° giorno di vita; la percentuale nel Centro Italia sale al 2,9 per mille, per giungere al 4,3 per mille nel Sud Italia. Considerando il tasso di mortalità infantile nell'intero primo anno di età, il dato medio nazionale del 4,4 per mille nati vivi evidenzia ancora una volta la disparità tra le regioni: 3,5 per mille al Nord, 3,9 per mille al Centro, 5,6 per mille al Sud Italia.
“Il dato indica che nel Sud Italia un bambino ogni duecento muore entro il primo anno di età, mentre al Nord ne muore uno ogni trecento - precisa Giorgio Tamburlini . I dati mostrano come le regioni del Sud Italia evidenzino livelli di mortalità perinatale e neonatale tra i più alti di tutta l'Unione Europea, compresi i Paesi di recente annessione: Slovenia, Ungheria, Repubbliche Ceca e Slovacchia mostrano, infatti, a oggi indicatori migliori delle regioni meridionali italiane, pur in presenza di livelli socioeconomici meno favorevoli”.
Ulteriori differenze tra Nord e Sud si notano nella mortalità per la fascia di età 15-24 anni.
In questo caso, però, il fenomeno appare rovesciato: è più elevata la mortalità al Nord, rispetto quella al Sud, tanto che tutto il vantaggio accumulato dalle Regioni del Nord nel primo anno di vita in termini di minore mortalità viene completamente annullato ai 25 anni di età. In questa fascia, infatti, il differenziale esistente tra Nord Italia, il cui il dato risulta essere più elevato (0,54 per mille) rispetto al Centro e al Sud Italia (rispettivamente 0,45 e 0,42 per mille), è legato alla differenza per mortalità da traumatismi e avvelenamenti, al Nord pari ai 0,39 per mille, contro lo 0,24 per mille al Sud. Sono quindi gli incidenti – e in particolar modo gli incidenti stradali – ad annullare il vantaggio della minore mortalità in epoca neonatale riscontrato al Nord.
Anche il settore della salute mentale si rivela una della aree di maggior rilievo. I dati a disposizione indicano che circa il 17% della popolazione in età pediatrica (inferiore ai 18 anni) soffre di disturbi mentali: i disturbi dell'apprendimento riguardano circa il 6% della popolazione pediatrica, quelli del comportamento l'1,6%, i disturbi pervasivi dello sviluppo incidono per lo 0,8%, mentre la depressione riguarda l'8% dei ragazzi; bulimia e anoressia incidono assieme tra l'1,6 e il 2,8%.
Di grande attualità risulta inoltre il problema del sovrappeso e dell’obesità dei bambini italiani. Lo standard per la misurazione del sovrappeso e dell'obesità è stato, infatti, adottato solo recentemente: i primi studi effettuati in Italia, utilizzando l’indice di massa corporea ( BMI ) proposto nel 2004, evidenziano che il 36% dei bambini italiani di 9 anni risulta in sovrappeso, di cui il 12% è decisamente obeso. Anche in questo settore, persistono differenze tra il Nord e il Sud, con un numero più elevato di obesi al Sud; il dato italiano è ben superiore al dato europeo.
Il Rapporto evidenzia alcuni indici che permettono di paragonare la situazione sanitaria dell'infanzia in Italia e in Europa (a 15 membri): dal confronto emerge che l'Italia si trova in posizione più favorevole per quanto concerne il numero di gravidanze in adolescenti e il suicidio, mentre evidenzia dati peggiori alla media europea sul fronte della mortalità neonatale, dell’obesità, dell'incidenza del morbillo e della mortalità per cause violente nei giovani adulti (fino a 24 anni). (Xagena)

dibattiti nella sinistra
l'Unità 12.10.05

Intellettuali e marxismo
Una vicenda chiave per la cultura italiana di questo dopoguerra: Della Volpe e il dellavolpismo. La parabola di un marxista non togliattiano e quella del suo allievo più famoso
Della Volpe e Colletti?
Era meglio il primo
di Bruno Gravagnuolo

C’erano una volta Della Volpe e Colletti. E poi «l’ultima» crisi del marxismo. Più di trent’anni fa questa, almeno a far data dalla celebre Intervista politico-filosofica (Laterza) del 1974 a cura di Perry Anderson. Con la quale Lucio Colletti, allievo di Galvano Della Volpe, diede l’addio al suo marxismo, «scientista» e un po’ canonico, benché professato con rigore illuminista. E c’erano una volta i dibattiti su Rinascita dedicati «contraddizione dialettica» («reale» oppure soltanto del pensiero?). Con Luporini da una parte e Della Volpe dall’altra, nel 1962. E quelli su «Rousseau e Marx». E sugli scritti giovanili di Marx (giovanili o già maturi in nuce?). O infine sulla scienza marxiana - antihegeliana o no? - e sul «verosimile filmico», nozione chiave della famosa Critica del gusto, opera fondamentale di Della Volpe. Di tutto questo s’è riparlato un anno fa in un convegno indetto dal Comune di Roma per iniziativa di Gianni Borgna. Molti materiali del quale tornano oggi nell’ultimo numero di Micromega (con i saggi di Nicolao Merker, Giulio Giorello, Mario Tronti, Paolo Casini, Angelo Bolaffi, Alessandra Attanasio e Paolo Flores D’Arcais)
Era quella un’altra stagione. Fatta di passioni ideologiche e teoriche, sull’onda dell’indimenticabile 1956 che imponeva al marxismo di ripensarsi, sotto il peso della tragedia ungherese. Di ripensarsi a confronto con le scienze umane e con le repliche della storia. E che via via si intrecciò col 1968, frutto indiretto anche del marxismo anni ’60 e ’70, di cui Della Volpe (1895-1968) fu un nume ascoso in retrovia. E propaggine di tale temperie fu la vicenda di Lucio Colletti, scomparso prematuramente nel 2001 e interprete di un marxismo dellavolpiano poi rovesciatosi nel suo contrario: in liberalismo conservatore. Propaggine meno smagliante. Perché se un pregio di coerenza l’ebbe l’autocritica collettiana sul marxismo - rigettato in quanto insostenibilmente dialettico e «mistico» alla Hegel (ma Della Volpe aveva detto «tutto» sul «misticismo platonico» di Hegel) - l’approdo di Lucio Colletti ai lidi di Forza Italia apparve invece più deriva esistenziale e scettica. Che non coerente epilogo di un liberalismo democratico post-marxista, o anche «anti». E a ragione Flores chiarisce che la deriva ultima di Colletti veniva proprio dal rifiuto di ogni dimensione etica nel marxismo. Ebbene, dell’ultimo Colletti ci hanno parlato l’anno scorso sia un libro stampato da «Ideazione» (Lucio Colletti, scienza e libertà, pagg. 297, Euro 15) e scritto da Pino Bongiorno e Aldo G. Ricci. Sia appunto il convegno intitolato a Della Volpe e Colletti, figure non scindibili. Tornare sul tema è utile. Per misurare gli esiti di una parabola culturale, quella di Colletti e del «dellavolpismo», incisiva nella storia della cultura italiana. Inclusi gli esiti paradossali e conservatori del «caso Colletti». Esiti che in parte scaturiscono da fraintendimenti teorici dello «scientismo» dellavolpiano («orfano della scienza», come dice Flores, Colletti si ritrova stregato dalla Realpolitik). E per altro verso si legano all’ondata neoliberale e conservatrice degli ultimi decenni.
Il libro segnalato su Colletti è un segnavia, utile a rifare la strada collettiana. Ma che prende un po’ troppo per buono quel tipo di marxismo poi rigettato dallo studioso. E molto benevolo altresì nel registrare andirivieni e contraddizioni (qui sì contraddizioni!) del Colletti riformista craxiano, poi critico di Craxi, poi ostile al maggioritario, poi favorevole, poi forzista eletto nel 1996. Infine cantore disilluso di una rivoluzione liberale impossibile - lo diceva lui stesso - all’ombra di un Berlusconi troppo «moroteo», che gli bocciò persino una prefazione agli Scritti Parlamentari, perché venata di qualche distinguo.
E Della Volpe? Fu proprio lui - l’ex gentiliano e «fascista» di sinistra, passato tramite David Hume al marxismo come «Scienza positiva» - il vero maestro di Colletti. Il pensatore che a Colletti fornì lo strumentario di un marxismo senz’altro originale, ma anche qua e là ingessato. Quale? Un marxismo kantiano e humeano. Incentrato da un lato sul «molteplice sensibile», sulla materialità del dato esterno al pensiero tradotta in sensazioni. E dall’altro sulle famose «astrazioni determinate», frutto dell’intelletto critico che accoglie e ordina il dato materiale. In un circolo «astratto/concreto» il cui lavoro è l’essenza del «galileismo morale», abito etico ideale e anti-ideologico della scienza dellavolpiana. Era un metodo questo che Della Volpe applicava alle scienze sociali, e insieme all’Estetica. Anch’essa segnata in Della Volpe dal primato dell’«Intelletto critico» (La Critica del Gusto antiromantica) generatore di metafore e stilemi «polisemici», ambivalenti. Sulla base del «materiale letterale» storico trasfigurato dall’arte. Ovvio che in tutto questo per Della Volpe non v’era spazio per «contraddizioni dialettiche», se non nel senso dell’ambiguità dell’arte. Contraddizioni ai suoi occhi ridotte a meri conflitti sociali (Lavoro astratto/Capitale, come in Chiave della dialettica storica). E a conflitti da concettualizzare come «opposizioni reali» e non come «contraddizioni dialettiche». Oppure da rifiutare, come incongruità logiche rispetto alla coscienza rischiarata. Rischiarata da una Ragione che scava nei problemi e tiene aperti i contrasti. E che rinviava la sintesi alla descrizione critica liberatrice. Che smascherava le «presupposizioni viziose»: i contenuti storici spacciati per naturali (proprietà, merce,capitale). Oppure alla politica. Ad una praxis distinta dal theorein, che incorporava la seconda come presupposto analitico. Benchè sia poi assente in Della Volpe una specifica dimensione autonoma del «Politico», rispetto al diritto e alla critica dell’ideologia.
Ebbene, la tarda revisione del 1974 di Colletti stava già tutta in Della Volpe (che aveva ripreso molto dall’antihegeliano Trendeleburg). Stava nel rifiuto dellavolpiano di una contraddittorietà dialettica e logica del capitalismo, finalisticamente volta al suo autosuperamento. Ma col rifiutare il «già rifiutato» Colletti buttava a mare anche l’alienazione marxiana. Cioè l’immagine del capitalismo come capovolgimento alienante della coscienza frutto del dominio della merce sull’umano. Cancellava il «feticismo delle merci», che era nel Capitale reificazione psicologica dei rapporti umani. Un punto al quale Colletti nel Marxismo ed Hegel (Laterza, 1969) s’era applicato con interessanti risultati, in debito con gli odiati Adorno e Horkheimer, e radicalizzanti la lezione dellavolpiana. Quegli Adorno e Horkheimer che lo indussero a ravvisare nell’ideologia economica borghese non tanto un «errore» prospettico della mente (come in Della Volpe) volto a eternizzare i rapporti di produzione capitalistici. Quanto un «Immaginario» pervasivo e quotidiano, che capovolgeva le relazioni umane in fantasmagoria astratta e cosificata: «denaro», «rendita», «scambio tra equivalenti», «salario», «profitto». Tutte divinità dispotiche, che velavano e nascondevano i rapporti di produzione e riproduzione della «vita reale». Con le annesse gerarchie di forza, facenti corpo con essa. Era però una descrizione psicologica e fenomenologica quella di Marx - così recuperato da Colletti - permeata di conflitti. Non una profezia scientifica necessaria, destinata per forza a rovesciarsi nel suo contrario per via di superamenti dialettici (e idem per la celebre diagnosi sulla «caduta tendenziale del saggio di profitto»!). E meno che mai era una sequela di proposizioni positivistiche: «popperiane» e incontraddittore. Al contrario. Era un’analisi fenomenologica oscillante, e conflittualmente «contraddittoria». Socialmente e psicologicamente. Ma lo scientista Colletti - dapprima comunista di sinistra e nemico del revisionista Bernstein - non poteva che accettare unicamente un Marx scienziato duro. Per poi inevitabilmente rigettarlo. Piccolo particolare politico: Della Volpe, guardò infine al Pci come a una «socialdemocrazia dinamica». Come a una forza che - facendo leva sull’emancipazione graduale di una «persona umana integrata» nei diritti e liberata attraverso il lavoro - mirava a espandere concretamente tutte le libertà. Nel solco di quella Costituzione democratica italiana che lo studioso imolese definì una «Costituzione post-borghese»: nel 1967 e a un anno dalla morte (Critica dell’Ideologia contemporanea, Editori Riuniti). Senza scindere la «libertà di», dalla libertà liberale «da», e oltre la «legalità socialista». Sicché fu revisionista nel giusto e anzitempo Galvano Della Volpe. Implicitamente autocritico, rispetto alla sua lunga polemica col riformista Mondolfo. E revisionista ben prima di Colletti. Che prima della sua revisione, guardò invece al parlamentarismo in chiave negativa e «soviettista». Avendo a modelli la Comune di Parigi e Stato e Rivoluzione di Lenin.

ricevuto da Barbara De Luca
Le Scienze 21.09.2005
Mobilità sociale e depressione
La discesa nella scala sociale risulta più dannosa per i maschi

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista "Journal of Epidemiology and Community Health", gli uomini che vedono peggiorare il proprio stato sociale nel corso della vita sono maggiormente suscettibili di depressione rispetto alle donne nella stessa posizione. Le donne, infatti, hanno due volte più probabilità di scendere nella scala sociale, ma generalmente questo fatto non provoca in loro la depressione e lo scarso benessere psicologico che i ricercatori hanno osservato negli uomini.
Lo psichiatra Paul Tiffin e colleghi dell'Università di Newcastle upon Tyne hanno seguito fino all'età di 50 anni 224 uomini e 283 donne nati nel 1947 a Newcastle, prendendo in considerazione la posizione lavorativa del capofamiglia come indice di stato sociale. Gli uomini che hanno sperimentato una discesa sociale sono risultati quattro volte più predisposti alla depressione rispetto a quelli che invece hanno migliorato il proprio status; fra le donne non è stata notata una differenza significativa simile nella salute mentale.
I risultati potrebbero essere spiegati dal fatto che gli uomini nati in quell'epoca ottenevano gran parte della propria autostima dagli esiti della propria carriera, mentre le donne ricevevano soddisfazione da altri ambiti sociali esterni al lavoro, per esempio dai figli o dalle amicizie. Secondo i ricercatori, è anche possibile che le donne siano più stabili emotivamente in questo tipo di situazioni.

"Social mobility over the life course and self reported mental health at age 50: prospective cohort study". Journal of Epidemiology and Community Health, 59: 870-2 (2005).

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una mostra
l'Unità 13.10.05

Quant’è bella la malinconia
Francesco Poli

PARIGI. FINALMENTE Jean Clair è riuscito a realizzare il progetto espositivo a cui più teneva, una grande esposizione di taglio storico critico sul tema della Melanconia. Questa mostra doveva essere presentata già vari anni fa al Grand Palais
, ma era stata bloccata perché considerata troppo triste e depressiva. Si vede che oggi la crisi della modernità occidentale, e in particolare la depressione collettiva che sembra dominare in Francia, ha reso più attuale questo argomento. Descritta, analizzata e interpretata in termini contraddittori da filosofi, teologi, medici psichiatri, letterati e artisti, la melanconia è uno stato d'animo profondamente e inesorabilmente legato alla condizione umana d'esistenza, quella fisica organica e psicologica come perdita di tensione vitale, come definizione più nobile di depressione) e quella culturale come attitudine che stimola la creatività attraverso la meditazione e la contemplazione.
L'affascinante ambiguità della melanconia era già stata delineata nella Grecia classica dal punto di vista medico e filosofico. Ippocrate collega la melanconia alla bile nera (di qui la denominazione), uno dei quattro umori che secondo la scienza antica circolavano nel corpo umano. E Aristotele si chiedeva perché ne fossero affette le persone geniali. Dunque se da un lato la melanconia è una malattia del vivere, è infelicità e depressione (da tamponare se non curare con il Prozac) è impotenza di agire, dall'alto lato può essere anche una caratteristica fondamentale delle persone creative. Per questo motivo gli artisti erano definiti «nati sotto Saturno», pianeta melanconico freddo e oscuro (perché lontano dal sole), da tutti gli autori del tardo Medioevo e del Rinascimento, che facevano riferimento all'astrologia araba.
Questa mostra di Jean Clair ha tra i principali testi di riferimento il famoso saggio di Klibansky, Panofsky e Saxl, Saturno e la melanconia
, che è incentrato sull'interpretazione iconologia dell'incisione di Albrecht Dürer, Melencolia I (1514) ma che è anche una straordinaria ricognizione di tutta la tradizione medica, filosofica, astrologica, letteraria e artistica sul tema della melanconia, finalizzata all'analisi del formarsi della moderna concezione del genio rinascimentale, la cui attitudine spirituale è allegoricamente rappresentata dalla donna con la testa inclinata sostenuta dalla mano sinistra, che si vede nell'immagine di Dürer (che a sua volta era stato influenzato da Marsilio Ficino). Anche se è forse la più piccola delle opere esposte, ed è messa modestamente in mezzo a altre incisioni, si può ben dire che la Melanconia di Dürer è il perno di tutta l'esposizione per quello che riguarda sia i secoli precedenti sia quelli successivi fino alla contemporaneità.
Ci sono almeno tre opere che rendono esplicitamente omaggio ad essa. Il poliedro in pietra estrapolato dall'incisione diventa una grossa scultura in gesso di Giacometti, e anche un grosso blocco di marmo nero scolpito di Claudio Parmiggiani; e la figura seduta e corrucciata della donna che si sostiene la testa si trasforma in un gigantesco uomo nudo di impressionante iperrealismo (di Ron Mueck) che nella stessa posizione, chiude in modo anche troppo ad effetto il percorso dell'esposizione. Ma questa posizione emblematicamente melanconica (la testa piegata in giù e appoggiata alla mano) è una costante che si ritrova in moltissime opere di ogni epoca: dalla piccola scultura classica che rappresenta Aiace Telamonio a certe figure di santi medioevali, dalla Maddalena «à la chandelle» di De La Tour al ritratto di profilo di Nietzsche in litografia, dal ritratto del dottor Gachet di Van Gogh a un Archeologo di de Chirico. Di quest'ultimo, artista melanconico per eccellenza c'è anche una enigmatica Piazza di Italia del 1912, con al centro una statua sdraiata (con la testa appoggiata a una mano) che è una citazione dalla Arianna dei Musei Vaticani, ma che ha scritto sul piedistallo "Melanconia", un omaggio a Nietzsche.
La mostra presenta circa duecentocinquanta opere (dipinti, sculture, disegni, incisioni) installate con molto equilibrio e chiarezza in otto sezioni, corredate di molte scritte esplicative di commento, che seguono una scansione cronologica. Dopo il prologo, intitolato «La melanconia antica» seguono «Il Bagno del Diavolo. Il Medioevo» (con immagini dove la melanconia è diabolizzata); «I figli di Saturno. Il Rinascimento» (con opere di Dürer, Baldun Grien, Arcimboldo e oggetti scientifici); «L'anatomia della Melanconia. L'Età classica», titolo che si riferisce al fondamentale saggio di Robert Burton (con opere di Domenico Fetti, De La Tour, Sweerts, Poussin); I Lumi e le ombre. Il XVIII secolo (con opere di Watteau, Piranesi, Fuessli, Goya); «Dio è morto. Il Romanticismo» (con opere di Delacroix, Chasseriau, Friedrich, Boecklin); «La naturalizzazione della melanconia» e cioè l'interpretazione positivista della melanconia (con opere di Msserschmidt, Van Gogh, Eakins, Gericault). E infine «L'Angelo della Storia. Melanconia e tempi moderni», che fa riferimento al fallimento delle grandi utopie sociali e delle ideologie politiche e propone una serie di lavori di Redon, Munch, Rodin, de Chirico, Dix, Artaud, Ricasso e Hopper.
Al centro della grande sala è collocata l'opera che più funziona per il discorso del curatore: l'aereo da guerra realizzato da Kiefer con lamine consunte di piombo, un simbolo della disfatta bellica e morale della Germania, ma ha anche valenze di significato molto più generali. Su un'ala è posta una struttura di ferro con superfici vetrate che, guarda caso, ha la stessa conformazione del poliedro in pietra di Dürer. La mostra è una vera mostra di studio, caratterizzata da una notevolissima struttura di contenuti storico critici (con un monumentale catalogo edito da Gallimard) ma allo stesso tempo risulta di grande interesse anche per il grande pubblico, soprattutto per la qualità assoluta di molte opere.
Per concludere val la pena di citare un grande dipinto, proveniente dal museo di Cleveland, che è un capolavoro assoluto: Gesù bambino che si ferisce con la corona di spine (1630) di Francisco de Zurbaran. La scena è una cameretta dove da un lato è seduto il bambino che con un'espressione melanconica guarda la goccia di sangue che esce dal dito e dall'altro lato la Madonna che guarda suo figlio con un'espressione enigmatica con una diversa valenza melanconica. Non c'è assolutamente nulla di patetico né di esplicitamente drammatico. Nel bambino-dio c'è la consapevolezza del suo futuro martirio, nella madre invece soltanto un'intuizione che viene dal profondo delle viscere. I due differenti stati d'animo sono simbolizzati anche dal cielo grigio e minaccioso di una finestra dietro Maria, e da una tenda ben poco realistica, accanto a Gesù, che si apre su un cielo luminoso e trascendente.

sinistra
AGIRoma, 13.10.05 - 10:51

BERTINOTTI:
LISTONE? NOSTRO NO POLITICO NON SETTARIO


Fausto Bertinotti conferma il 'no' al 'listone' dell'Unione e la presenza sulle schede elettorali del simbolo di Rifondazione comunista. "Per noi - sottolinea il segretario Prc, in un colloquio con il quotidiano del partito Liberazione - non è una questione di resistenza o di sopravvivenza: e' un ragionamento politico di fondo. Nel progetto di Rifondazione i lati sono due: un governo di svolta, cioé la sconfitta del centrodestra, e la costruzione della Sinistra Alternativa. L'uno non vive senza l'altro". Bertinotti spiega ancora: "Per il nostro progetto politico generale di trasformazione è essenziale, ovvero è un passaggio obbligato, la sconfitta del centrodestra e delle politiche neoliberiste. Ma se ci annullassimo in un puro cartello elettorale, magari contrattando un buon numero di spazi o di posti, rinunceremmo, non solo simbolicamente, proprio a quel progetto strategico. Ne riveleremmo il carattere secondario, subordinato: questa è la ragione del nostro no, non certo un improvviso sussulto settario". (AGI)

Cpt
l'Unità 13.10.05

Bossi-Fini e psicofarmaci, il cocktail di Ponte Galeria
Secondo "Medici del Mondo" vengono distribuiti in massa contro l’ansia e la depressione in dosi quattro volte superiori a quelle consigliate

Psicofarmaci come caramelle. Distribuiti agli immigrati del Cpt di Ponte Galeria, senza alcuna consulenza psichiatrica. E poi episodi di autolesionismo, botte per insegnare la «disciplina», scarso collegamento con le strutture sanitarie esterne. È il quadro della situazione nel centro di permanenza romano, delineato dall’organizzazione umanitaria transnazionale Medici del Mondo. Un rapporto centrato sull’assistenza sanitaria e realizzato in condizioni difficili, tra reticenze e ostacoli delle autorità. In un campo dove, ad agosto, un bangladese ha tentato di impiccarsi per disperazione.
È dal 2003 che Medici del Mondo
monitora i Cpt italiani. Modena, Foggia, Lecce, e quest’anno anche Ponte Galeria, il campo attivo dal settembre ‘99 nella periferia sud-ovest della capitale. Una struttura, gestita dalla Croce rossa, che oggi ospita circa 200 persone, ma ne può contenere anche 300. L’associazione umanitaria ha visitato il campo tre volte: a gennaio, luglio e ottobre. Sempre in compagnia di un parlamentare, perché solo senatori e deputati possono entrare “liberamente” nei Cpt. Tre visite (due senza preavviso) in cui hanno raccolto testimonianze, talvolta contraddittorie, dei medici. E, con grande difficoltà, alcune denunce degli immigrati.
Il disagio psichico è il problema principale. Ansia e depressione, soprattutto. Che qualche volta portano a episodi di autolesionismo. Due o tre all’anno, secondo il coordinatore medico; almeno uno al mese, per altri medici del Cpt. Nel campo ci sono due psicologhe e, in caso di crisi psichiatrica acuta, si fa riferimento al Forlanini. Non esiste, però, un servizio stabile di psichiatria per assistere le persone con gravi disturbi mentali. E così, probabilmente, si rimedia con gli psicofarmaci.
«Gli immigrati che prendono tranquillanti sono circa il 20%», dicevano qualche mese fa i medici del centro. Ma, nella visita di ottobre, il medico di turno ha parlato di un 50-60%, soprattutto nordafricani. A consumare Valium e Minias sono soprattutto uomini, 10 volte più che le donne. «Un rapporto anomalo: normalmente sono le donne a farne un uso maggiore», spiega Paolo Decina, specialista psichiatrico. Un immigrato ha raccontato che ogni sera «si formavano code di 60-80 persone» in attesa della dose di tranquillanti. Dosi che, secondo quella testimonianza, sono spesso 3-4 volte superiori alla quantità consigliata. Alcuni suoi compagni di stanza, dopo un cocktail di ansiolitici e ipnotici, crollavano a letto stravolti.
Una realtà complessa e discussa, quella dei Cpt, su cui ogni giorno emergono particolari inquietanti. «Serve un organismo indipendente di controllo di tutti i centri», è la richiesta di Medici del Mondo. E Chiara Acciarini, senatrice Ds, aggiunge: «Stiamo accettando, nel nostro paese, qualcosa che è indegno di un paese civile».