sabato 7 ottobre 2006

Affari Italiani Sabato 07.10.2006 10:00
Sinistra Europea/ Il Prc, la Fiom e il Correntone. Ecco il progetto di Bertinotti


La sinistra italiana è in movimento. E il processo rivoluzionario è destinato a modificare gli assetti dell'attuale maggioranza. Al difficile cammino verso il partito democratico di Prodi, che coinvolge Ds e Mergherita, si contrappone il progetto della Sinistra Europea, al quale sta alacremente lavorando Fausto Bertinotti, in sintonia con il segretario del Prc Franco Giordano e il rifondarolo indipendente ex Quercia Pietro Folena. L'idea di fondo è quella di ricreare in Italia la Sinistra Europea, ovvero la federazione dei partiti radicali e non riformisti, presieduta proprio dal numero uno della Camera dei Deputati.

E il modello - secondo quanto risulta ad Affari - è quello tedesco. Ovvero quello che ha portato alla formazione della "Die Linke" (La Sinistra), forza politica nata dalla fusione tra la Pds (gli ex comunisti sorti dalle ceneri del partito unico della Germania dell'Est), la WASG (movimento creato da alcuni sindacalisti del potente IG Metal) e i transfughi dei socialdemocratici guidati da Oscar Lafontaine. La nuova formazione è ormai una realtà della politica tedesca, tanto d'aver raggiunto l'8,5% alle elezioni politiche dell'anno scorso. E proprio la sua forza in Parlamento ha costretto Cdu e Spd alla Grande Coalizione, a causa del no di Schroeder ad alleanze con gli eredi del regime della Ddr.

Bertinotti e Giordano puntano proprio a mutuare lo schema tedesco. Come? Partendo dall'attuale Rifondazione Comunista e allargandosi sia ai sindacati, in particolare la Fiom, sia ai Ds delusi dall'Ulivo di Prodi, ovvero il Correntone di Mussi e Salvi. Il tutto per creare la nuova sinistra alternativa e radicale italiana, che faccia da contraltare al partito democratico e che sia in grado di raccogliere la protesta e le istanze dei movimenti no global. Con l'obiettivo finale di superare il 10% già alle prossime elezioni europee del 2009.

In questo progetto, però, non c'è spazio né per i Verdi né per i Comunisti Italiani di Diliberto. I primi perché hanno una loro storia differente e autonoma, come suggerisce anche l'esempio tedesco, i secondi perché vengono considerati da Rifondazione come dei nostalgici del socialismo reale, attaccati alla bandiera anacronistica di Cuba. La Sinistra Europea, invece, vuole essere una realtà totalmente diversa, capace di rispondere ai problemi del terzo millennio e non rimpiangere il passato.

Aprileonline 7.10.06
Orvieto. Un salto nel buio


Palla lunga e pedalare. Sembra questa metafora calcistica la più appropriata per definire il disegno strategico delineato, alla due giorni di Orvieto, da Prodi & C. per realizzare il partito democratico. Cosa c'è di politicamente rilevante oltre al fatto che Ds e Margherita si siano incamminate su una strada sconosciuta da cui, da oggi, sembra ormai difficile per entrambi tornare indietro? Niente. Nessuno dei nodi politici, infatti, è stato risolto. Anzi. Alcuni si sono ingarbugliati ulteriormente. Un esempio. La forma organizzativa del nuovo soggetto politico. La relazione del professore prodiano, Salvatore Vassallo, secondo il quale i partiti dovrebbero prima sciogliersi e poi i loro rappresentanti dovrebbero entrare singolarmente nel nuovo soggetto, dove varrà il principio "una testa un voto", è contestata da molti sia nei Ds che nella Margherita. "I voti almeno nella fase di transizione - dice Pierluigi Castagnetti - non si contano ma si pesano". Piero Fassino è d'accordo. Il segretario Ds non risparmia l'affondo al professore prodiano: "L'idea che il partito democratico nasca a prescindere dai partiti che hanno costruito l'Ulivo è velleitaria. Non nasce. Chi pensa che i partiti siano un inutile retaggio del passato, sbaglia. Anche perché bisognerebbe conoscerli...". Anche Massimo D'Alema difende la forma-partito: "Le primarie sono state uno straordinario momento d'allargamento del campo democratico, ma so che senza le sezioni dei Ds e i circoli della Margherita le primarie non si sarebbero potute tenere". Il partito all'americana che tanto piace al professor Parisi, vuoto di politica e leggero nella struttura, non si farà. Questo sembra certo. Le resistenze sono troppo forti e politicamente significative. Alla fine delle due giornate nessuno sa come si procederà.

Un altro nodo irrisolto riguarda l'appartenenza europea del nuovo soggetto politico. Partito socialista europeo o nuova formazione internazionale? Anche qui, le posizioni restano immutate. Fassino ribadisce l'intenzione di iscriversi al Pse. Francesco Rutelli rimanda la discussione a data da destinarsi. E il premier preferisce glissare sull'argomento. All'orizzonte si delineano più ombre che luci. A meno che, nel frattempo, Prodi non riesca nel miracolo culturale e politico di avvicinare Partito democratico americano e Pse. Improbabile.

L'ultima contraddizione, la più grande è lasciata sullo sfondo. Il rapporto tra cultura laica e cattolica. Nessuno si inoltra su un terreno tanto minato. Neanche il premier.

Dopo Orvieto, sono in molti a pensare che si sia superato il punto di non ritorno. Verso dove e cosa, però, nessuno lo sa con certezza. Sembra un salto nel buio.

venerdì 6 ottobre 2006

il manifesto 6.10.06
l'opinione. Venature di sinistra nel partito democratico
di Pietro Folena


Quando, oltre un anno fa, abbandonai non senza sofferenza i Ds, scrissi in una lettera a Piero Fassino i motivi che mi spinsero a quella scelta. Tra questi, la convinzione che il processo che portava al partito democratico era oramai irreversibile. Allora molti non mi capirono perché non credevano a questa previsione. E in effetti nei mesi successivi non sono stati pochi gli alti e bassi. Ma se uno si allontana un attimo dalle contingenze del momento, è facile comprendere che quel progetto ha una sua forza che va al di là della volontà dei singoli dirigenti, i quali possono riuscire a rallentarne il percorso, ma non a fermarlo. Il Partito democratico è la logica conseguenza di un cammino. Non quello che parte dalla Bolognina - come sostiene Fassino - e neppure quello che parte dal «compromesso storico» - come ha affermato D'Alema -. Neanche quello che nasce con l'Ulivo del '96, come sostiene Prodi. Tutte e tre queste cose sono ben diverse dal Partito democratico, che invece trova a mio parere la sua origine non in un momento preciso della storia degli ultimi anni, quanto in un «filo rosa» che l'ha percorsa: l'introiezione graduale, da parte della sinistra riformista, del liberalismo e persino del liberismo. E così l'ipotesi, in un certo senso ragionevole e non priva di fascino, che in Italia si possa costruire un grande partito liberale democratico, con venature progressiste, si è fatta strada. Non si tratta di una «anomalia italiana»: Blair in Gran Bretagna, ma anche l'ultimo Schroeder in Germania non sono più «a sinistra» dei Ds. Anzi. La left of the center della Terza Via, il Neue Mitte dei socialdemocratici tedeschi e molti contenuti e toni della campagna di Ségolène Royal in Francia, sono forme diverse, in contesti diversi, per indicare lo stesso obiettivo del partito democratico: il superamento della sinistra verso quell'approdo liberal-democratico. E' pur vero che negli altri paesi resiste un certo invidiabile attaccamento alla parola «socialismo», ma nei contenuti c'è un'identità sostanziale. Anzi, si potrebbe dire che nel Partito democratico permangono venature di sinistra - per fortuna, perché così si rende possibile la grande alleanza dell'Unione - più visibili di quelle del New Labour o dell'Spd, almeno di quella dell'Agenda 2010.
Oggi credo che la mia previsione trovi una clamorosa conferma nei fatti. Il seminario ulivista di Orvieto, lungi dall'essere «solo» un seminario su qualcosa di futuribile e incerto, ha assunto i tratti di un vero e proprio atto pre-fondativo. Una carta dei valori, una discussione sulle forme organizzative, persino la calendarizzazione dei congressi dei due soggetti fondatori. A questo atto le minoranze dei Ds hanno deciso di dire no, disertandolo. Si tratta di una posizione molto interessante per chi crede nella costruzione di un nuovo soggetto della sinistra. C'è un'area consistente che non vuole essere portata verso i lidi del liberalismo (ben) temperato, ma che ritiene necessaria la presenza di una sinistra riformatrice. Per chi come me ha compiuto già da tempo una scelta di separazione, non può che far piacere vedere che anche il gruppo dirigente della Sinistra Ds ha maturato la convinzione che non vi siano spazi residui per combattere una battaglia quando l'esito è già scontato, dopo che nei mesi scorsi aveva aderito ai gruppi unici del Partito democratico. Numerosi dirigenti locali della Sinistra Ds avevano in precedenza segnato la loro distanza e credo che non sia stato indifferente che mentre procedeva il cammino del Partito democratico, a sinistra nasceva il cantiere della Sinistra Europea e a Orvieto tre associazioni davano vita a una riflessione sulla futura sinistra. Un cantiere per il quale una parte della Sinistra Ds - quella «per il socialismo» di Cesare Salvi - ha mostrato subito interesse anche in virtù della sua critica costante al Partito democratico.
Ognuno fa le sue scelte. Rispetto lo scetticismo di una parte del gruppo dirigente della Sinistra Ds nei confronti della Sinistra Europea. E' legittimo e forse persino salutare per noi, perché ci spinge a dimostrare che questo cantiere è migliore di quanto appaia ai loro occhi. O, se non lo è, a renderlo migliore. Sicuramente occorre prendere atto che parti crescenti della Sinistra Ds si sono avvicinate in questi mesi. Alcuni hanno preso anche la pala e si sono messi a lavorare. Altri ci hanno incitati a proseguire. Rifondazione - con Bertinotti e Giordano - ha compiuto un grande atto di generosità, mettendosi in discussione, accettando di essere un partner alla pari degli altri. Certo non tutto è luce, e vi sono delle ombre che vanno diradate. Come in tutti i percorsi politici ci sono resistenze, ma come per il Partito democratico credo che oramai siamo di fronte a un processo irreversibile che porterà in futuro ad avere un soggetto della sinistra di trasformazione, socialista, pacifista e libertario (mai liberale).
Nessuno, ora, chiede alle Sinistre Ds di aderire alla Sinistra Europea. Ma alle compagne e ai compagni più scettici dico che il nostro incontro forse non è per domani mattina, ma sicuramente ci sarà e credo presto. Non ha senso, infatti, nel 2006 (per me neppure negli anni '90), sventolare una bandierina - ieri il comunismo, oggi il socialismo -: ha senso invece ragionare su quale socialismo, quale società, quale lavoro, quale trasformazione. Lo chiedono i fatti, lo chiede il popolo della sinistra, per il quale sarebbe incomprensibile avere un nuovo piccolo partito quando c'è l'occasione di fare insieme un soggetto più grande, competitivo con i riformisti. E l'occasione c'è perché le nostre culture politiche sono oramai largamente coincidenti, altrimenti io e tanti compagni che vengono dalla Sinistra Ds mai avremmo potuto dare il nostro contributo, così com'è nell'esperienza di Uniti a Sinistra, alla Sinistra Europea.
Se perdessimo un'occasione come questa saremmo tutti puniti. Giustamente.
* Prc-Sinistra europea

il manifesto 6.10.06
croce uncinata
Il Führer e il prelato, cattolici con la svastica
di Martino Patti


L'apertura degli archivi del vescovo filonazista Alois Hudal, rettore per decenni del Collegio pangermanico di Santa Maria dell'Anima a Roma ripropone la necessità di una analisi in profondità dei rapporti tra la gerarchia cattolica tedesca e l'ideologia hitleriana

Da tempo, ormai, il dibattito storiografico sui rapporti tra chiesa cattolica e Germania nazista sembra essersi impantanato sull'enigmatica figura di Pio XII. Ben sapendo che una porzione consistente delle carte resta ancora sotto chiave negli archivi vaticani (ognuno ha i suoi tempi, per carità) si continuano a costruire le ipotesi più fantasiose sui presunti silenzi del pontefice, sul suo presunto antisemitismo, sulle sue presunte responsabilità nelle vicende legate al secondo conflitto mondiale e all'Olocausto, quasi fosse questa la sola cosa essenziale. Certo il reality - vero o falso che sia - vende discretamente bene e a molti, in fondo, imbastire polemiche conviene.
Ma sul serio non c'è dell'altro? Sul serio, per comprendere in che modo - tanto per iniziare - il cattolicesimo tedesco reagì alla virulenta ondata hitleriana e alla demolizione definitiva della Repubblica, non possiamo prescindere dal povero Pacelli, e provare a ritagliare un numero esauriente di casi empirici, da cui dedurre - come richiederebbero le leggi più elementari della storiografia - situazioni, convergenze ricorrenti e eventualmente una prima interpretazione? «Guré, guré behet kalaja» recita un antico proverbio albanese: pietra su pietra, si fa il castello.
Un prelato arrivista
Gli spazi di lavoro, del resto, sono ampi e variegati. Talvolta, persino al di qua del Brennero: come ci dimostra il Collegio Pangermanico di Santa Maria dell'Anima in Roma, che con un doveroso gesto di coraggio (tardivo anch'esso, ma comunque ammirevole) inaugura oggi l'apertura agli studiosi degli archivi personali di monsignor Alois Hudal. Il passaggio è di notevole importanza, anche se forse sull'infame Netzwerk Odessa saranno poche le sorprese. I novantasei faldoni hudaliani, infatti, oltre a gettare luce sulla personalità (contorta e arrivista) dell'autorevole prelato austriaco, a confermare in maniera non più discutibile le tristi immagini affrescate da Ernst Klee nei suoi brillanti reportage (tradotti in italiano in Chiesa e nazismo, Einaudi 1993) e a suggerire nuove piste di ricerca, mettono bene in risalto l'ingombranza fastidiosa dell'enorme piattaforma mentale e culturale offerta da ampi settori del cattolicesimo di ambientazione germanica alla presunta «rivoluzione nazionale» ventilata dal Führer e dal suo movimento.
Le simpatie di monsignor Hudal per il nazismo non sono una novità per nessuno né si dimentica che, ancora nei primi anni '60, fu lo stesso rettore emerito del prestigioso istituto pontificio a ribadire con superbia, dall'esilio forzato di Grottaferrata, tra le righe dei Römische Tagebücher (i «Diari romani»), la sua tesi ributtante: sempre meglio Hitler che la paccottiglia giudeo-bolscevica, la democrazia socialdemocratica o per contro il capitalismo americano. E ai forni polacchi neanche un accenno, una allusione di pietà.
Trent'anni addietro, inoltre - al chiaro scopo di convincere le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici più «illuminati», e tuttavia ancora timorosi, circa l'intrinseca bontà o recuperabilità in chiave cristiana del nazismo - Hudal aveva dato alle stampe il ponderoso trattato Die Grundlagen des Nationalsozialismus («I fondamenti spirituali del nazionalsocialismo», Lipsia-Vienna, 1936).
Condanne in contumacia
Nessuno sgomento, dunque, nel ritrovare, tra i forzieri rinascimentali dell'Anima, obbrobri clamorosi quali la dedica del volume al dittatore tedesco («Al Führer del Risorgimento tedesco. Al novello Sigfriedo della grandezza e della speranza della Germania - Adolf Hitler») o la copia del telegramma datato 15 luglio 1937, con cui Hudal, ormai vescovo titolare di Ela, esprimeva alla dirigenza del Reich le proprie cordiali congratulazioni per la buona riuscita dell'Anschluß. Di fronte a simili sbottate lo sdegno è sacrosanto. E tuttavia, condannare in contumacia i monsignori - com'è d'uso da almeno mezzo secolo - basta davvero a far progredire la ricerca? Evidentemente no. Quel che serve, semmai, è afferrare le radici nel profondo, stabilire legami verosimili tra il presente e il passato - e poi, è ovvio, agire e contestare se necessario. È una questione anche di strategia: per poterlo sconfiggere, prima bisogna conoscerlo, il nemico. Ma da questo punto di vista è desolante constatare quanto superficiale sia stato finora, in generale, l'approccio analitico al fenomeno del consenso cattolico nei confronti dei regimi autoritari fioriti in mezza Europa tra le due guerre mondiali. Che non si sia compreso come il sostegno di Hudal al nazismo, lungi dal rappresentare il singolare esito patologico di una qualche deviazione individuale, riassuma in miniatura una intera stagione teologico-intellettuale, e forse persino magistrale, precisamente questo è grave.
Ma cosa dicono le fonti? In realtà, le più recenti acquisizioni documentarie, e segnatamente gli scritti di monsignor Hudal, suggeriscono la netta impressione che, specie nei primi ventiquattro mesi di dittatura - sullo sfondo della modernità illuminista e liberale, della secolarizzazione, del Kulturkampf «d'infausta memoria» e della minacciosa rivoluzione d'Ottobre - sia scattata una sciagurata interferenza tra la profezia ideologica divulgata, e in parte poi inverata, dalla Nsdap (il partito nazista) e le correnti teologiche più avanzate dell'epoca. Nella congiuntura di sofferta transizione scaturita da Versailles, contrassegnata dalla depressione economica e dal radicalizzarsi del conflitto sociale, la lezione aristotelico-tomista e agostiniana (mediata tra Otto e Novecento da pensatori neoscolastici del calibro di Josef Kleutgen, di Martin Grabmann, di Erich Przywara) sembra infatti aver fornito ai genî più volenterosi - tra cui Hudal in prima fila - il presupposto logico necessario per tradurre in certe istanze restaurative della condizione di Ordine la riproposizione del primato, tutto medievale, del dato oggettivo su quello soggettivo, dello stato (civitas) e dell'auctoritas sul contrattualismo illuminista, dell'unità responsabile sugli egoismi frammentari e particolaristici. In tal modo, la collaborazione con il nuovo stato avrebbe potuto concretizzarsi (e si concretizzò, sovente) intorno a quattro poli fondamentali.
La coscienza tedesca
Prima di tutto l'impero, perché l'unico schema politico-istituzionale in grado di salvaguardare l'ordine cristiano della creazione, l'ordine buono vero e giusto del reale (natürliche Weltordnung), era quello in cui l'autorità derivava da Dio e non dall'uomo, cioè dalla repubblica democratica: come del resto esigeva la migliore tradizione nazional-germanica che, a prescindere dalla volgare retorica hitleriana, contemplava già per conto suo il Führerprinzip autoritario. Al riguardo, basti pensare al caso paradigmatico di Otto von Bismarck. In secondo luogo l'unità, perché del Kulturkampf, almeno una conseguenza non potrà mai esser posta in discussione dagli storici: aver approfondito l'infausta spaccatura ereditata da Lutero, frantumando ulteriormente la coscienza nazionale dei tedeschi e generando, nei cattolici, la sgradevole sensazione di essere, in fondo, una minorità ingiustamente perseguitata dallo Stato. Ma cosa sventolava il buon Ottone redivivo, sotto il naso dei tedeschi, se non proprio la solenne immagine programmatica della Volksgemeinschaft, della Volkswerdung ossia dell'agognata riunificazione di tutti i Volksgenossen (termine che non si traduce in italiano con «cittadini», ma piuttosto con «membri» cioè «fratelli nel sangue, nella lingua e nella terra condivisa») nella ritrovata comunità nazionale ed ecclesiale? Terzo punto, la totalità: sin dai tempi di Pio IX, il magistero ufficiale aveva adottato l'antica visione teologica, anche questa di chiara matrice patristica e aristotelico-tomista, secondo la quale, nei limiti della Creazione divina, la sfera politico-civile si vedrebbe destinata, secondo natura, ad armonizzarsi alla dimensione religiosa e sovrannaturale, pur restando entrambe ermeticamente separate. Ed ecco, se da un lato la politica religiosa del regime in via di normalizzazione a nient'altro mirava che alla spoliticizzazione coatta delle chiese in quanto associazioni tra le tante, dall'altro lato larghi settori del cattolicesimo tedesco non disdegnarono affatto la formula del «cristianesimo positivo», che avrebbe permesso loro di affossare, insieme agli altri partiti d'epoca liberale, il Zentrum scellerato, riducendo la chiesa al suo più genuino ufficio spirituale. Infine, il corporativismo organicista: con rara fermezza, nell'enciclica Quadragesimo anno, Pio XI aveva preso posizione contro «la lotta di classe fratricida fomentata dal bolscevismo marxista», invitando i cristiani a ristrutturare il corpo sociale in direzione sia della definitiva redemptio proletariorum sia, soprattutto, della berufsständische Volksordung. Questa espressione - legata per definizione ai concetti di natura (Natur), di ordine cosmico naturale (natürliche Ordnung) e di ordine stabilito da Dio (gottgewollte Ordnung) - non gode di una traduzione immediata in italiano ma è densa di significato perché sottende una forte valenza non solo metafisica, ma anche etica. Stando alla lettera, infatti, essa raffigura per un verso quell'Ordine ideale, quell'articolazione «ontologica» che il Volk (che non vuol dire «popolo» quanto piuttosto «nazione», anch'essa creata nel sangue dalla mano paterna di Dio) tenderebbe ad assumere in ragione dell'attuazione da parte di ogni suo membro delle proprie doti naturali (natürliche Fahigkeiten) ma per un altro verso, anche, quella realtà comunitaria (Gemeinschaft, non Gesellschaft) che, strutturandosi per ceti o corporazioni professionali (Berufstände, berufsständische Körperschaften), esclude o congela la possibilità stessa della mobilità sociale: giacché, in quella prospettiva, «professione» significa né più né meno «risposta a una vocazione naturale» (si pensi a Max Weber). Ma, quantomeno sul piano delle similitudini formali, non è possibile rilevare una certa contiguità tra questa visione ideale e l'impianto classista della riforma giuslavorista varata dai ministeri Schmitt-Mansfeld il 20 gennaio 1934 nel quadro più o meno emergenziale della nuova economia di guerra? Inoltre, se è vero che il dottor Angelico aveva sentenziato «Bonum commune melius est et divinius bono unius», non è altrettanto vero che Hitler e i suoi scherani inneggiavano nei discorsi ufficiali e negli scritti programmatici al primato del bene comune sull'interesse privato («Gemeinnutz vor Eigennutz!»)?
Sebbene sia ancora troppo presto per lanciarsi in categoriche asserzioni positive, alla luce di queste osservazioni si è comunque tentati di stabilire un paio di conclusioni. In primo luogo, dal punto di vista metodologico (come amava insegnare Edward Hallett Carr), colui che vuol spiegare la storia in tutta la sua complessità materiale deve non solo introdurre una gerarchia tra diverse cause in inter-relazione, ma anche rivivere interiormente ciò che avvenne nelle menti delle sue dramatis personae, ascoltando prima di giudicare. Ma nel nostro caso specifico questo può significare una cosa soltanto: abbandonare quell'ottica forzatamente laicizzante che da decenni ormai ci impedisce di discutere in maniera adeguata questioni le cui radici affondano anche in un humus palesemente storico-religioso e teologico.
Oltre le versioni ufficiali
In secondo luogo, premesso che in effetti sarebbe rischioso «anche solo supporre un atteggiamento univoco o unitario di tutta la Chiesa cattolica o di tutta la Curia romana nei confronti del nazionalsocialismo» (Hubert Wolf), e che certo vi è una differenza sostanziale tra la fase della Machtergreifung (30 gennaio 1933) e quella successiva - inaugurata il 30 giugno 1934 con la liquidazione del fronte conservativo: la cosidetta «notte dei lunghi coltelli» - viene da chiedersi se alla fine dei conti non sia ingenuo accettare la versione ufficiale dei fatti e credere che la «grande conciliazione» (Günter Lewy) dischiusa alle relazioni tra stato e chiesa cattolica in Germania dalla storica conferenza di Fulda (30 maggio-1 giugno 1933), con l'abolizione del divieto episcopale di adesione alla Nsdap ad esempio, sia stato il semplice risultato di una serie di circostanze accidentali e di eventi contingenti. Non è forse arrischiato ridurre il concordato, siglato con il Reich nel luglio '33, al provvidenziale strumento giuridico intessuto dall'astuta diplomazia pacelliana per attuare una improbabile opposizione al regime oppure per salvare il salvabile ed evitare il collasso letale - e niente più? Smettiamo di fare apologia, da una parte e dall'altra, e affrontiamo la realtà.
Molto probabilmente, nella misura in cui il nuovo Stato totale avesse conformato anche solo in via preliminare la propria politica interna a un modello rigido di tipo etico e organicista, lasciando intravedere la restaurazione, da operarsi anche manu militari, della Weltanschauung dell'Ordine naturale, il ripristino dell'Ordine della Creazione, la Chiesa avrebbe sostenuto senza troppo tergiversare e anzi con viva sollecitudine l'opera del Führer. E del resto, dato quel passato, dato quel presente, data quella mentalità, data quella sensibilità morale, non è verosimile pensare che, quantomeno a livello gerarchico e organizzativo, difficilmente sarebbe potuto accadere altrimenti?

A convegno
Nell'archivio di monsignor Hudal
In occasione dell'apertura degli archivi di monsignor Alois Hudal, rettore dal 1923 al 1952 del Collegio tedesco di S. Maria dell'Anima di Roma, l'Istituto storico austriaco organizza oggi e domani due giornate di studio. Nel corso del simposio, che si terrà presso la sede dell'Istituto pontificio di Santa Maria dell'Anima, studiosi di diverse aree e provenienze analizzeranno la figura controversa del vescovo austriaco, noto per le sue aperte simpatie hitleriane e per il ruolo giocato nel dopoguerra nella Ratline, la rete che consentì a numerosi criminali nazisti di scappare dall'Europa. Fra gli altri, Jure Kristo, dell'Istituto storico croato, che parlerà appunto dei rapporti fra Hudal e la Ratline, e Philippe Chenaux, che approfondirà il complesso intreccio di relazioni fra il prelato e la curia romana.

Il Giornale 6.10.06
Diritto d'adozione per gli omosessuali in Spagna
La rivoluzione che ha cancellato i diritti dei bimbi

di Bruno Fasani


L'adozione di un bambino da parte di due uomini gay spagnoli, regolarmente sposati, segna l'ovvio compimento della rivoluzione Zapatero. Era il 2005 quando, legalizzando le coppie omosessuali, dichiarava con enfasi compiaciuta: «Oggi il nostro Paese fa un ulteriore passo in avanti verso la libertà e la tolleranza». In realtà è difficile pensare ad un caso spagnolo come a una questione locale. Ciò che in Italia raccontiamo con malcelato stupore è il frutto più evidente di quella rivoluzione sessuale, che si sta verificando in Occidente da trent'anni a questa parte. È vero che le applicazioni pratiche risentono di diverse sensibilità politiche, culturali e religiose, ma il dato di fondo rimanda a un comune denominatore, dalle cui premesse deriva quello che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti. Una rivoluzione che è consistita nella privatizzazione della dimensione affettiva e sessuale. Con l'introduzione generalizzata delle leggi sull'aborto e sul divorzio è avvenuto un radicale mutamento culturale.
La famiglia e la procreazione hanno cessato d'essere temi socialmente rilevanti, per ridursi a puro affare privato. È come se lo Stato avesse consegnato due chiavi, con cui il cittadino può gestire tutti i problemi inerenti la propria vita affettiva e le sue ricadute.
Dietro i grandi canti di vittoria si decretava, di fatto, la fine della famiglia come bene pubblico e sociale, lasciando allo Stato il compito di notaio, intento esclusivamente a prendere atto di ciò che il cittadino liberamente decideva.
Si è trattato di una rivoluzione culturale, che avrebbe prodotto, a cascata, tutta una serie di modificazioni sostanziali. I diritti sociali lasciavano sempre più spazio a quelli individuali mentre, sul piano del costume, ognuno reclamava il riconoscimento del proprio sentire individuale. L'idea di bene perdeva il carattere di oggettività a vantaggio di una concezione soggettiva e poliforme. La domanda, partendo dal caso spagnolo, a questo punto ci porta su due fronti. La prima riguarda il bene oggettivo di un bambino.
Davvero una coppia di uomini o di donne è in grado di garantire quell'armonia e completezza formativa, che normalmente dovrebbe garantire una coppia eterosessuale? Sento già le obiezioni che ho sentito tante altre volte: se un bambino soffre perché senza genitori, tanto vale affidarlo ad una coppia gay. Altro argomento: ci sono tante famiglie dissestate e bambini che vivono in situazioni di sofferenza. Perché due omosessuali dovrebbero garantire meno amore rispetto a queste situazioni? A quest'ultima considerazione bisognerebbe rispondere che non si possono creare nuovi disagi, giusto per il fatto che i bambini li soffrono anche altrove. Il punto di partenza è il diritto alla felicità di ogni bambino che esige, se mai non sia retorico ricordarlo, l'urgenza di ripristinare la tenuta della famiglia eterosessuale come condizione fondamentale per una sana ecologia sociale. La politica, prima di dare risposte economiche, deve dare indirizzi culturali, andando a definire in maniera non equivoca cosa sia famiglia e cosa non lo sia. Se non ci si pone in questo orizzonte saranno sempre i desideri degli adulti a tenere banco sul piatto delle rivendicazioni legislative, piuttosto che la preoccupazione di dare risposta ai diritti dei minori.
Personalmente sono poi indignato dal silenzio di tanta scienza circa la ricaduta psicologica di un'educazione gestita da due «genitori» dello stesso sesso. Chi ha una qualche infarinatura minima di queste discipline, sa quanto inchiostro è stato versato per richiamare la differenziazione del ruolo paterno e materno nell'evoluzione psicologica di un bambino. Il complesso di Edipo, la «morte» del padre, il ruolo femminile e maschile non sono invenzioni bibliche.
Sono piuttosto l'osservazione di quel processo di natura, sì proprio di quella natura che si vorrebbe piegare alle variabili culturali, che esige una adeguata ecologia applicativa, se non vogliamo ritrovarci con il «clima delle coscienze» improvvisamente impazzito.

giovedì 5 ottobre 2006

Aprileonline 5.10.06
Il Pd come salto nel passato
di Marzia Bonacci


Alla lettera aperta con cui diversi parlamentari dei Ds hanno fatto sapere di non partecipare al seminario di Orvieto, è seguita oggi la risposta pubblica di Fassino. Ne abbiamo discusso con Lalla Trupia

Con una lettera pubblicata oggi su La Repubblica e L'Unità, il Segretaio nazionale dei Democratici di Sinistra Piero Fassino ha risposto alla scelta compiuta dai alcuni deputati Ds di non partecipare all'incontro previsto venerdì ad Orvieto.
Ricordando il più che decennale cammino politico de l'Ulivo, rivendicando dibattiti e discussioni in merito alla fusione con la Margherita, e appellandosi al desiderio di unità dell'elettorato di centro-sinistra, Fassino ha rilanciato nelle sue righe il progetto di un partito unico e ha esortato i "dissidenti" che non parteciperanno a Orvieto a rivedere le proprie posizioni, augurandosi infine di vederli presenti all'incontro.
Di ciò che si muove nel partito dei Democrati di Sinistra, del Pd, e più in generale della politica italiana abbiamo parlato con Lalla Trupia, deputata Ds e firmataria della lettera di astensione al seminario di sabato.
Come ti senti di commentare la lettera pubblicata oggi da La Repubblica e da L'Unità con cui Fassino risponde alla vostra scelta di disertare l'appuntamento di Orvieto?
Nella sua lettera di oggi, Fassino fa riferimento a l'Ulivo come esperienza cominciata 11 anni fa e in cui noi siamo stati partecipi. Ma il progetto di allora era molto diverso da quello odierno. Purtroppo. Perchè l'Ulivo era una grande casa inclusiva, più ampia e più vasta di quella di adesso, in cui la sinistra era una parte visibile, fondamentale, importante. Adesso l'Ulivo è un luogo più piccolo, che si è perso per strada molti pezzi e che pare volersi collocare in quell'area un po' grigia e moderata che si chima centro. Perciò, non reputo questi 11 anni come lineari non credo abbiano rafforzato l'Ulivo, ma al contrario lo hanno ridotto a qualcosa di meno attrattivo.
Fassino vi rimprovera una sorta di incoerenza di fondo perchè l'Ulivo, esperienza appunto iniziata 11 anni fa, vi ha sempre visti protagonisti e, parafrasando il segretario Ds, "alcuni di voi sono stati candidati ed eletti" proprio con il simbolo dell'alleanza Ds-Dl...
Noi siamo stati candidati e abbiamo dato un contributo elettorale alla lista dell'Ulivo. Abbiamo partecipato con lealtà alla lista e aderiamo oggi a questo gruppo. Anche se va ricordato che non siamo mai stati d'accordo ad un progetto di fusione partitica. La nostra adesione è stata comunque motivata dal fatto c'è stata sempre data la garanzia che si trattasse di una scelta elettorale e non del primo passo verso la creazione di un partito unico. Non era quindi, la nostra, l'adesione al Partito Democratico, ma ad una alleanza elettorale.
Fassino si augura che alla fine decidiate di partecipare all'incontro del 6 ottobre per poter discutere insieme...
E' un po' curioso che il Segretario dica questo perchè noi chiediamo di discuterne da tantissimo tempo e lo abbiamo ribadito in tutte le sedi in cui ci è stata data la facoltà di farlo. Soprattuto pensiamo che per discutere davvero si debba decidere insieme ogni singolo passo, e soprattutto bisogna analizzare ogni progetto che sta alla base delle intenzioni politiche. Invece, ci troviamo sistematicamente davanti a fatti compiuti. L'impressione è che ci potremmo trovare, per inerzia, in un partito senza che gli iscritti abbiano mai deciso. Ci troviamo in pratica in una terra di nessuno che permette a pochi, ad una piccola inamovibile oligarchia di decidere sulla testa di tutti gli iscritti e le iscritte dei Ds. Perciò è così urgente convocare un congresso.
D'altra parte, ci sono almeno tre nodi non sciolti che riguardano il profilo politico e l'identità della futura formazione. Sono tre i punti nevralgici irrisolti: l'appartenenza al socialismo europeo, verso cui la Margherita si dichiara esplicitamente contraria; la posizione sul tema dei diritti civili declinati secondo una cultura laica, verso cui sempre la Margherita, e non solo, si pone con ostilità; e la questione delle ragioni del mondo del lavoro. Quindi non si tratta di questioni secondarie, ma di nodi centrali che esigono un chiarimento congressuale.
Trovo sconvolgente che il Segretario del mio partito confessi in questa lettera di voler dar vita ad un nuovo partito, ma al contempo di non volere il congresso subito, appellandosi alla ragione che un congresso non si indice sulla base di "un'intenzione" e senza un progetto. Allora mi domando: è possibile che un gruppo dirigente si dimostri così convinto di portare una grande tradizione, come è quella della sinistra italiana, in un altro partito solo sulla base di una intenzione, come la definisce Fassino, senza un ambizioso progetto culturale, politico alle spalle. Credo che dovrebbe essere l'inverso: bisognerebbe fare un congresso per delineare questo progetto e quindi poter poi, sulla base di quel progetto, decidere democraticamente. Mi spaventa che si compiano atti senza tutto questo.
Ma Fassino afferma che il congresso è un momento di ratifica del passaggio al Pd...
Ma per ratificare bisogna che ci siano progetti ambiziosi, idee. Un partito non può nascere nelle segrete stanze, senza che si sappia come si collochi sul piano internazionale, quali sono i modi con cui debba rappresentare la società. Il processo è all'inverso.
Il Segretario motiva la nascita del Pd richiamando la volontà dell'elettorato all'unità...
La politica e questi partiti, anche il nostro chiaramente, credo che abbiano esaurito la loro spinta propulsiva e siano espressione solo di comitati elettorali autoreferenziali che agiscono a livello locale e nazionale; realtà che si concentrano intorno a pochi soggetti che per altro si contendono i posti di comando. Dico questo perchè noi ad Orvieto non andiamo non per piantare la bandierina in difesa dell'esistente, ma al contrario perchè ci sia un cambiamento della situazione attuale, che non ci piace affatto. C'è bisogno di una discontinuità e di innovazione politica, non solo nel merito delle idee ma anche nei modi di farla: i partiti attuali sono realtà in cui non viene mai consultato nessuno, dove la democrazia e gli organismi non esistono. Il Pd così come si configura adesso, come una fusione a freddo fra il ceto politico di due partiti in crisi, non è assolutamente un'innovazione, ma al contrario è un'azione di veccha politica da prima Repubblica, che per tanto si presenta come già consumata, logora. Ci vuole un rinnovamento della classe dirigente, occorre che si rilanci un soggeto giovane che dia nuovi contenuti e nuove idee al socialismo, che rimane ancora valido ed attuale.

Aprileonline 5.10.06
No al Pd, sì ad una sinistra unita
di Gianni Zagato*


Caro Piero, sono uno dei firmatari del "noi non ci saremo" , nel senso che non parteciperò, come gli altri sottoscrittori, al seminario previsto nei prossimi giorni ad Orvieto. Un seminario che abbiamo preso molto sul serio, perché tanto nella lettera di chi l'ha più che autorevolmente convocato - il presidente del Consiglio Romano Prodi - quanto nell'impianto delle tre relazioni a partire dalle quali si avvierà la discussione, si prefigura un "salto di qualità" nel dibattito tanto controverso sulla nascita in Italia di un nuovo soggetto politico destinato a chiamarsi Partito Democratico.
E' a tutti evidente che dal seminario scaturiranno decisioni, scadenze, impegni che costituiranno - forse già ora costituiscono - ben più che un'intenzione. Costituiranno un dato di fatto, uno di quei dati di fatto che, seppure sorti al di fuori di ciò che chiamiamo ancora "partito politico" (un organismo che è pur sempre fatto di regole, statuti, organismi dirigenti, vita democratica), finisce per condizionare l'autonomia politica, organizzativa e culturale dei Democratici di Sinistra. A tal punto che quando i Democratici di Sinistra - i suoi iscritti, i suoi dirigenti - saranno chiamati a decidere, nel solo luogo dove una simile decisione può essere legittimamente assunta e cioè il congresso - congresso del quale tuttavia ancora non sappiamo né quando né come si svolgerà -, quella decisione risulterà in effetti una ratifica, una "presa d'atto", dalla quale tornare indietro non sarà più possibile.
Io non ho la presunzione di rispondere alla lettera nella quale tu dici "ripensateci". E' una lettera che contiene intera il tuo stile, di uomo attento all'unità, leale e sincero negli argomenti che porta. Di questo è giusto darti atto, con semplicità e trasparenza, senza imbastire di retorica non - appunto - una "risposta", ma qualche sparsa considerazione. Ma è anche una lettera che contiene, a mio parere, un errore e una omissione. E' un errore dire che del progetto politico di cui stiamo parlando e che è posto al centro del seminario di Orvieto, "ne ha discusso il Congresso di Roma". Il Congresso di Roma aveva una proposta politica molto netta e chiara: dare vita a una Federazione tra Ds e Margherita e per la verità anche con lo Sdi e con i Repubblicani Europei. Questo accadeva solo un anno fa, poco più. Né nella tua apertura, né nella tua conclusione, né nell'intervento del Presidente del partito viene mai usata l'espressione "partito democratico", come aveva fatto invece in prossimità di un altro congresso, quello di Torino del 2000, con molta franchezza Arturo Parisi. A Roma, ancora un anno fa, tu parli dell'identità dei Ds, cioè di una "forza di sinistra", che si colloca "nei valori del socialismo europeo". Il Presidente del partito, d'altra parte, rassicura, nello stesso congresso dell'anno scorso, sul fatto che "non è all'ordine del giorno il partito unico", perché i "partiti non nascono a tavolino". Oggi, un anno dopo, è ancora così? Noi che pure abbiamo contrastato al congresso la proposta politica della Federazione (ed infatti non ha funzionato) pensiamo che il punto a cui oggi siamo giunti sia di qualità completamente diversa rispetto a quanto hai sostenuto al congresso di un anno fa. Non c'è sviluppo, c'è piuttosto rottura, se non è chiaro - come non è affatto chiaro - il se e il come stiamo dentro i valori del socialismo europeo. O pensiamo possa nascere in Italia un nuovo soggetto, che si propone di essere il più grande partito del paese, che dirà di avere nel suo dna i valori dell'europeismo e poi, al dunque, chi va di qua chi di là, in qualcosa di veramente mai visto e non solo in Europa?
Per questo ci vuole un nuovo congresso e forse, con la proposta di stamattina in segreteria, di convocare uno entro l'estate del prossimo anno. Forse ci siamo. Forse, perché ancora vediamo condizioni o condizionamenti che potrebbero diluire in là nel tempo una decisione che nascerà comunque tardiva. E' mai possibile che mentre i socialisti francesi si riuniranno tra alcune settimane per scegliere, con voto segreto degli iscritti, nella sostanza un vero e proprio referendum interno, candidato e programma per l'Eliseo, noi ci veniamo a trovare nella condizione di cambiare nome, simbolo, forse appartenenza europea e ancora non sapere quando e come i "soci fondatori" del partito potranno discutere e decidere?
E' vero infine, come affermi nella tua lettera, che attorno alla questione dell'Ulivo c'è un'omissione. Ma è tua più che nostra. Perché ostinarsi a dire che questo progetto ha "11 anni di vita"? E' sempre difficile, con i tempi incalzanti della politica odierna, stabilire confronti tra il presente e il passato, anche recente. Indubbiamente esistono continuità, sviluppi, processualità, dato che niente nasce ogni volta per caso dal nulla o dal vuoto. Ma dire che l'Ulivo del '95 non poteva altro che portare al partito democratico del 2008, anno in cui verosimilmente si terrà il congresso di scioglimento dei Ds, significa rifugiarsi in un continuismo per cui, a ritroso, l'Ulivo deriva dal compromesso storico e questo dalla svolta di Salerno.
Dovremmo spiegarlo così agli amici della Margherita? La storia recente ci dice, viceversa, che l'Ulivo nasce - e ognuno di noi lì sin dall'inizio ci ha lavorato e creduto - come impulso vitale e reciproco di partiti, associazioni, sindacati, singoli uomini e donne, come fucina quasi di culture, identità, storie, percorsi molteplici e differenti. Non era scritto allora, nessuno aveva detto, non era stabilito che l'approdo finisse per essere il partito unico democratico, fusione di due forze politiche che ancora non riescono a redigere l'inventario delle cose su cui sono d'accordo. L'Ulivo del 2001 è già diverso, ma dentro ci stanno tutti, tranne Rifondazione e Italia dei valori. Ci sono certo continuità, ma ci sono anche salti, scarti nel percorso. Non possiamo, appunto, omettere, perché possono essere salti che allargano oppure restringono l'orizzonte. E l'orizzonte di oggi, dell'Ulivo, ognuno vede come sia più ristretto, esile, sopito rispetto a quello di pochi anni fa. Orvieto rischia da una parte di accelerare il processo e dall'altra di rinchiuderlo ancora di più dentro una somma tra Ds e margherita, mentre ci sono dentro questi due partiti domande, dubbi, incertezze e contrarietà con cui, nel merito, non si è ancora fatto veramente i conti.
E' stato ricordato già altre volte, ma è un paradigma della politica europea contemporanea a cui non ci si può sottrarre. Agli inizi degli anni Settanta un uomo politico di nome Francoise Mitterand pose la questione di come riformare la politica francese. La sua operazione partì da Epinay, si imperniò su due parole simbolo, "Socialismo" ed "Europa", si pose come obiettivo la riunificazione di una sinistra che allora appariva frantumata, anchilosata, datata. Ci vollero dieci anni, ma la sua scommessa - tanto cara ad Enrico Berlinguer - fu vinta. Possiamo tornare a rifletterci?
*Coordinatore organizzativo Sinistra Ds

l’Unità 5.10.06
Angius: «Così, non ci sto a fare il Partito democratico»
di Andrea Carugati


CONSIDERAZIONI AMARE dal vicepresidente del Senato Ds: «È stato detto che i socialisti sono degli zombi. Non ci sto. E allora Zapatero, Blair, Ségolène Royal? È difficile dire che sono zombi anche loro... Si discute troppo di contenitori e poco di contenuti. A Orvieto ascolterò, ma tutto è predeterminato...»
«Vedo che la road map del partito democratico è stata approvata dalla segreteria Ds: mi sembra dunque di capire che la decisione è stata presa, si va avanti. Nessuno vuole o può impedire che questo avvenga, ma non si può obbligare nessuno ad aderirvi, se non c’è un profondo convincimento personale. La politica per qualcuno è ancora così, una parte di sé. In un partito si può essere anche un’infima minoranza, ma per restarci si deve condividere il nucleo essenziale di idee che ne sono il fondamento, la ragion d’essere: io questo nucleo non lo vedo, forse per un mio difetto».
Le parole di Gavino Angius suonano come un preoccupato richiamo rispetto alle accelerazioni in corso sul partito democratico. E arrivano proprio alla vigilia del seminario di Orvieto che dovrebbe sancire l’avvio della fase costituente del nuovo soggetto. «Senza che gli interrogativi posti sulla nascita e sul carattere del partito democratico abbiano avuto risposte convincenti- spiega Angius-. Anzi, i problemi aumentano e gli interrogativi ricevono risposte sempre più elusive ed evasive, che rimandano a un futuro lontano». Angius domani sarà a Orvieto, ma solo da spettatore: «Ascolterò, se la proposta mi convincerà la praticherò, diversamente no. Ma mi pare che molto sia già stato predeterminato...».
Senatore Angius, il problema del Pd è un’identità che non si vede o c’è un’identità che lei non condivide?
Ci sono questioni di fondo e pregiudiziali: un partito è un insieme di pensieri, un movimento di donne e uomini, un’intelligenza collettiva. Per esserlo non serve un dogma, ma una razionalità critica sul mondo contemporaneo, una memoria condivisa del passato senza cui non ci può essere una visione comune del futuro. Su questo tema dell’identità siamo lontani da un’ipotesi di fusione di culture di cui si era parlato: stiamo discutendo di una sorta di convivenza che in realtà c’è già con l’Ulivo. Dunque la motivazione mi sembra abbastanza debole. Ci sono dei punti sui quali bisognerebbe scavare.
Quali?
Il primo è una comune visione critica del presente: è stato detto che il socialismo è morto, dunque i socialisti sarebbero degli zombi. Ma non si è detto niente delle crisi profonde che il capitalismo produce nelle società contemporanee. La sfida della modernità deve cominciare da qui: dalle domande che interrogano la politica sulla nozione stessa di libertà, sulla concezione della democrazia, sulla frontiera della bioetica, sulle più spaventose disuguaglianze mai conosciute nella storia. Io credo che quel valore e quell’aspirazione che è l’essenza stessa dell’idea socialista e che si chiama uguaglianza sia un valore da mantenere e declinare in modo nuovo. Questo per me è il futuro, non il passato. Zapatero, Blair, o Ségolène Royal: è difficile dire che siano zombi anche loro.
E tuttavia in Italia l’ipotesi di un robusto partito socialdemocratico non sembra praticabile. Di qui l’Ulivo e ora il partito democratico...
Non ho mai pensato che i popolari, eredi e interpreti nuovi di una tradizione politica importante, siano dei cani morti. Penso che abbiano cose da dire per il futuro, che con loro valga la pena lavorare insieme a un comune progetto per l’Italia: l’Ulivo era questo. Altra cosa, però, è pensare a un partito dove devono convivere vincitori della storia e reprobi: questo è un problema enorme. Si sarebbe dovuti partire dalla memoria condivisa del passato, condizione di una comune visione del futuro.
Fassino dice che senza timone riformista il governo è molto più debole.
Non sono d’accordo: il timone riformista c’è già, sostenere che si fa un partito per rendere più stabile il governo sarebbe un orizzonte piuttosto limitato. I problemi del governo non si risolvono nel rapporto Margherita-Ds, riguardano, semmai, la piena condivisione del progetto di rinnovamento del Paese da parte di tutta l’Unione, il pieno sostegno all’azione del premier. Questi mi sembrano i temi urgenti.
C’è però un percorso fatto di liste e gruppi unitari...
L’esperienza dei gruppi dell’Ulivo non sta andando benissimo: vedo un deficit di discussione e confronto, almeno al Senato. Il paradosso è che quando c’erano i gruppi di Ds e Margherita si discuteva assai di più: c’è un continuo timore a confrontarsi nel merito, ad avere opinioni diverse. Per fare un salto del genere come dar vita a un partito non basta constatare che siamo stati tanto tempo insieme. Non è una questione di poco conto sostenere, come è stato detto, che il riferimento principale di valori del Pd deve essere quello della cultura politica cattolica.
Teme di morire democristiano?
No, penso però che sia un un errore rimuovere le questioni aperte. Come i caratteri di un grande partito: io lo vorrei diffuso, popolare, di massa, invece ho letto da parte di Parisi delle considerazioni sconcertanti sulle modalità attraverso cui dovrebbe nascere il nuovo partito, che ritengo poco democratiche.
Si riferisce alla proposta di adesioni individuali? Nelle parole di Parisi sembra cogliersi la preoccupazione che il Pd nasca come somma di oligarchie e nomenklature. Lei cosa ne pensa?
Di cosa stiamo parlando? Parisi non fa parte di una nomenklatura? Ci sono forze politiche che hanno consenso, persone elette, alcune centinaia di migliaia di iscritti che fanno politica nelle sezioni. Cosa sono automi? Gente comandata a bacchetta? O loro non sono la società civile?
Forse si parlava della necessità di aprire le porte al popolo delle primarie, agli ulivisti senza partito.
Il popolo delle primarie è un altro artificio retorico: erano persone di tutto il centrosinistra, non solo dell’Ulivo, che volevano scegliere il candidato da opporre a Silvio Berlusconi. Dire che quello è il popolo del Pd non corrisponde ai fatti.
C’è il rischio di una mera spartizione dei posti di comando tra Ds e Margherita?
Il problema è che si discute troppo di contenitori e assai poco di contenuti: in questo vedo il segno di una crisi della politica che non si alimenta più di esercizio critico, di un aperto confronto tra idee.
Vede un rischio di eterodirezione per il Pd?
C’è una crisi dell’autonomia della politica, che soffre di condizionamenti veri, pesanti. Solo in Italia c’è questo perverso intreccio tra banche, industrie e giornali. Questo è un punto politico di primaria grandezza per la nostra democrazia.
Vede nelle parole di Parisi sulle adesioni individuali un replay del 2000, quando vi propose di sciogliere i Ds alla vigilia del congresso di Torino?
La domanda va fatta a lui. È evidente che Parisi esprime un’opinione precisa sui caratteri del nuovo partito e sulle sue modalità di formazione, che è molto diversa da quella che avrei io. Su questo condivido le parole di Castagnetti: se si chiedono nuove abiure si devastano gli alleati.
Si intravede un parallelismo con i popolari di Chianciano. Vi accuseranno di eccesso di nostalgie...
Il problema non è questo, non ne soffro affatto. Il punto è che non vorrei essere considerato un tollerato, l’espressione di un pensiero morto... E capisco l’orgoglio identitario e la voglia di dare un contributo per il futuro da parte dei cattolici democratici: un’ambizione del genere può averla anche una persona che ha militato nella sinistra e nel Pci di Berlinguer, che fa parte di questo campo da quando era ragazzo e vorrebbe restarci, anche nella terza età, come esponente del riformismo socialista.
Immaginiamo che il Pd fermi il suo cammino. Che seguito darebbe alle liste e ai gruppi unitari?
L’esperienza in corso, i gruppi unitari, non è una cosa da poco e ha bisogno di essere consolidata. Non capisco l’assillo, la fretta. Soprattutto quando in gioco c’è l’appartenenza al socialismo europeo, che è parte fondamentale della nostra identità.
Non crede che, anche tra i militanti ds, questa questione dei gruppi europei abbia un po’ stancato?
Ribalto la domanda: cosa ci diranno quando gli faremo sapere e capiranno che il Pd non può appartenere al socialismo europeo?
Vede il rischio di una disaffezione?
Sì, di un abbandono.

il manifesto lettere 5.10.06
Una dottrina sociale antisocialista. Ecco cos'era la Rerum Novarum
di Mario Alighiero Manacorda


Filippo Gentiloni mi ha dato qualche dispiacere, nel suo articolo del 4 luglio, E' sempre più flebile la voce del Vaticano, con le sue tesi su Leone XIII (1878-1903), cui anche egli fa risalire la famosa dottrina sociale della Chiesa che, scrive, oggi è ridotta «alle questioni morali sulla procreazione e poco più». L'enciclica Rerum novarum (1891), avrebbe rappresentato «una mediazione fra il capitalismo che in nome della libertà rischiava di minacciare i poveri, e il socialismo che in nome dei poveri rischiava di minacciare la libertà».
Non credo che allora il socialismo fosse visto come una minaccia alla libertà, era visto come minaccia alla ricchezza: il socialismo europeo era piuttosto anarchico che marxista, e Labriola scriveva i suoi saggi con accenti estremamente liberali.
Anch'io riconosco la novità di quella enciclica rispetto al Sillabo del 1864 di Pio IX, secondo il quale la Chiesa non sarebbe mai venuta a patti con la società moderna, la democrazia e il socialismo, Leone XIII apre alla borghesia liberale. Ma in funzione antisocialista, ammonendola a tenersi buoni gli operai dando loro la giusta mercede. (E quale sarà la mercede giusta?) Tutta qui la sua dottrina sociale.
E' settaria questa mia interpretazione? Consideriamo il contesto. Due anni prima, il 14 luglio 1889 era stata fondata a Parigi la Seconda Internazionale. Leone XIII, che già nell'enciclica Libertas (1888) aveva denunciato ogni rivendicazione popolare come violenza della «torbida plebe, anelante di lanciarsi sui palazzi dei più doviziosi», nel 1891 ribadisce l'attacco contro i «sediziosi», anarchici e socialisti, che sobillano la classe operaia, e invoca: «Intervenga lo Stato!». E lo Stato intervenne in tutto il decennio successivo, reprimendo con l'esercito nel 1893 i fasci siciliani e i moti anarchici dell'Apuania, nel 1896 le manifestazioni contro la guerra in Eritrea, e nel 1898, i moti per fame dilagati dalla Puglia a Milano. Quella repressione (centocinquanta morti solo a Milano, pochi meno di quanti ne aveva fatti Radetzki cinquant'anni prima) fu premiata dal «re buono» Umberto I con la medaglia d'oro al generale Bava Beccaris. Seguirono le repressioni giudiziarie contro i socialisti e il primo barlume di una «democrazia cristiana» auspicata da Romolo Murri. A Leone XIII non dispiacquero.
Che ciò portasse poi all'uccisione del «re buono» a opera di Gaetano Bresci, prova il peso della repressione e l'immaturità storica dei ceti oppressi. Ma pochi conoscono la reazione al regicidio di un esimio prelato piemontese, succeduto al vescovo Franzoni nella cattedra soppressa negli anni '50 da Rattazzi e Cavour e poi opportunamente ricostituita. Costui (per la cronaca, si chiamava Emiliano Manacorda), espresse la sua deplorazione scagliandosi anche contro la scuola di stato, dalla quale uscivano rivoluzionari e regicidi che non sarebbero mai usciti dalla scuola ecclesiastica. Dimenticava che dalla scuola ecclesiastica erano usciti i Mazzini, i Garibaldi, i Felice Orsini, i Ciro Menotti, i Tito Speri. E suggeriva l'alleanza tra borghesia liberale e Chiesa cattolica che si sarebbe conclusa undici anni dopo nel cosiddetto Patto Gentiloni. (Caro Filippo, stiamo parlando di nostri antenati). Nei venti anni che vanno dalla Rerum Novarum al Patto Gentiloni corre un filo che tesse ancora la storia nostra: per questo è importante non equivocare su certe vicende. L'intervento antisocialista a favore della borghesia è a parer mio una costante della Chiesa fino ad oggi. Per questo la Rerum novarum è piaciuta ai successori di Leone XIII, Pio XI che l'ha celebrata nella Quadragesimo anno e Giovanni Paolo II, che l'ha celebrata nella Centesimus annus.
Come definirla di alto livello, perfezionata da papa Wojtyla nella Laborem exercenses? Lascio da parte l'azione politica di quel papa nella sua patria, di cui oggi si vedono i risultati. La Centesimus annus elogiava la Rerum novarum come difesa dei lavoratori. Quella lettura, smaccata falsificazione storica, parve ai più veritiera e mirabile. Ma la Chiesa non ha nessuna comprensione dei rapporti sociali e non suggerisce nulla per mutarli. La Rerum novarum ammetteva la costituzione di sindacati, nei quali però fossero rappresentati insieme operai e padroni. Era un'idea medieval-cattolica che, ignara degli sviluppi del capitalismo industriale, pensava alle corporazioni artigianali del medioevo. Il suggerimento leonino fu poi teorizzato dall'economista cattolico Giuseppe Toniolo, dichiarato venerabile (se non sbaglio da Pio XI) e nel 1926 Bottai, ministro delle Corporazioni, la tradusse nella Carta del lavoro, creando le corporazioni fasciste. E' vero che nella enciclica c'è una riga in cui si concede la costituzione di sindacati di soli operai. Ma come avevo visto alcuni decenni fa, è un'aggiunta inserita all'ultimo momento, forse per iniziativa di qualche prelato un po' più illuminato, come ha confermato l'analisi, condotta in Vaticano, delle scritture originali del testo. In quell'anno erano sorte in Italia le prime Camere del lavoro a Milano, Torino e Piacenza, in qualche modo bisognava pur prendere atto della realtà. Basta per parlare di una dottrina sociale? Insomma, mi sembra che la Chiesa non abbia mai accolto una sia pur minima rivendicazione del socialismo. Del resto, che altro ci si può aspettare da una Chiesa costituita non come «assemblea» dei fedeli, ma come separazione del clero dalla massa? Può rappresentare le esigenze popolari? Il popolo cristiano deve rappresentarsi da sé. A meno che non si prenda sul serio l'invito a non eccedere nel lavoro, fatto proprio da papa Ratzinger sulla base delle parole di S. Bernardo che aveva davanti a sé aspetti del lavoro lontanissimi dai nostri. Con chi ce l'ha Benedetto XVI? Col lavoratore costretto a un doppio lavoro per sopperire ai più elementari bisogni o col capitalista che gli impone un lavoro stressante e mal remunerato?

il manifesto 5.10.06
Filippo Gentiloni, risposta a Manacorda
Mario Alighiero Manacorda ha letto con grande attenzione quello che avevo scritto su queste pagine parecchio tempo fa (4 agosto:«E'sempre più flebile la voce del Vaticano»). Con attenzione e, aggiungerei, affetto e spirito correttamente critico. Lo ringrazio. Anche perché non mi capita spesso di essere criticato perché troppo favorevole alle posizioni vaticane: una eccezione, questa di Manacorda, particolarmente gradita. Nella prima parte della riflessione scrivevo che il Vaticano aveva trovato verso la fine dell'Ottocento, una voce un po' nuova, quella della famosa dottrina sociale della chiesa (svariate encicliche, dopo la prima, la «Rerum novarum» di Leone XIII). Una voce che pian piano si era affievolita, soprattutto per la dominante paura del comunismo.
Manacorda critica la prima parte della mia riflessione, che - dice - potrebbe dare l'idea che la dottrina sociale della chiesa fosse stata vicina al socialismo. Vicina, incline, favorevole. Si potrebbe pensare - dice - a una specie di «svolta» a sinistra del magistero. Così non fu. Tutt'altro. Si è trattato, invece, di una mossa abile per rafforzare la borghesia che il socialismo - poi il comunismo - minacciavano.
Una analisi interessante ben motivata - aggiungo - condivisa da molti. Confermata dagli sviluppi anche recenti della dottrina «sociale»: penso alla teologia postconciliare della liberazione, che i palazzi vaticani hanno duramente contestato.
Comunque vorrei precisare che intendevo sottolineare la novità della posizione del Vaticano, non una eventuale svolta a sinistra. Dottrina sociale, non socialista. Per la prima volta l'attenzione vaticana si rivolge non ai dogmi o alle questioni decisamente religiose, ma alle questioni riguardanti la vita della gente: famiglia, occupazione, salari, lavoro e simili. Una - relativa - novità. Che, comunque, non comporta un giudizio positivo sulle posizioni attribuibili, più o meno direttamente, al socialismo che per il Vaticano rimane il grande avversario.
Ha ragione Manacorda. La borghesia domina la situazione; domina anche le stanze vaticane. Le quali pensano e sperano che la borghesia possa salvare la fede. Il Vaticano scende su un terreno che prima non gli era proprio ma non cambia posizioni e alleati.
Lo conferma, qualche decennio dopo la prima enciclica, il «patto Gentiloni» (il quale non era, però, un mio antenato ma un lontano parente dei miei antenati).
Comunque le osservazioni di Manacorda valgono ancora: il Vaticano sempre più strettamente vicino ai ricchi e potenti del mondo. Le voci che contestano il dominio di Bush e dei suoi non mancano, ma rimangono deboli, spesso ambigue, sempre flebili. Confermerei, comunque, quello che scrivevo un mese fa: il grido della beatitudine dei poveri non è più, come allora, legato all'ateismo. Forse la chiesa domani potrà accoglierlo e farlo suo. Oggi non ancora.

il manifesto 5.10.06
Ma il Vangelo non è solo amore. Rossana, sei diventata buonista?
di Rossana Rossanda

Caro Mario Alighiero, io persisto e firmo. Nei Vangeli non si trovano inviti alla guerra, alla rissa, alla vendetta personale. Non sono tali i passi che tu citi: della geenna, sono minacciati i peccatori dopo la morte; l'idea della dannazione è forte, ma non ha nulla a che vedere né con la guerra, né con la punizione in terra, né con la vendetta personale. La spada che Gesù viene a portare è metaforica, è la divisione nella dottrina - per il mio nome vi dividerete, sarete odiati. E in che somiglia la cacciata dei mercanti al tempio a un esproprio proletario (che poi non è il peggio che sia avvenuto da noi negli anni '70)? Gesù non si appropria dei beni e dei profitti dei mercanti, li butta fuori da quella che è la casa del Padre. Quando nell'orto del Getsemani un discepolo estrae la spada e ferisce uno dei soldati, Gesù gliela fa riporre e ammonisce di non ricorrere alla spada mai. Né chiede al Padre vendetta per sé - le pagine del Getsemani sono di grande solitudine e angoscia. E' un uomo che muore e vorrebbe che fosse allontanato da lui quel calice, ma lo deve accettare.
Questa immagine di dio fatto uomo, e sofferente e impotente, cambia l'idea del divino, ed è molto più audace delle libertà del politeismo. E' una proiezione di tempi terribili. La Palestina ribolle di predicatori in attesa d'un messia che non viene e colui che viene non promette alcuna vittoria in terra, enuncia beatitudini paradossali, non suggerisce né chiede violenze. Muore fra i delinquenti. Chi aveva ed ha un'idea onnipotente di Dio rifiuta del cristianesimo proprio questo.
Ma che senso ha che noi due, vecchi compagni e non credenti, ci palleggiamo le citazioni? Il cristianesimo è una cesura tale che dopo i primissimi tempi, la discussione sul canone è complessa e fin drammatica. Ma è un momento alto, che la chiesa non reggerà.
Tanto più dopo Costantino. Ma ti sono grata per la correzione. Tuttavia l'Editto di Milano garantisce i cristiani, perché prima non erano sicuri come tu dici, e sulla leggenda (leggenda non è vulgata) e la restituzione dei beni si basa il potere temporale della Chiesa. E' questo che ne fa anche un potere politico in senso proprio, che come tale gioca nei rapporti di forza, copre o esige conflitti, teorizza con non pochi giuristi la guerra giusta, se non addirittura santa. Quando Wojtyla dirà che la guerra è sempre una sconfitta dell'umanità, dirà qualcosa mai detto prima, anche in contrasto con il catechismo (di Ratzinger). Perché negare che la Chiesa ha una sua terrestre e interessante storia? Della quale non fa parte che Agostino fosse un guerriero, né grande né piccolo, e non so se si possa dirlo di Ambrogio, già funzionario dell'impero, che fulminerà di scomunica proprio quel Teodosio per il massacro di Tessalonica.
C'è nell'ateismo tuo e di altri amici una passione che definirei religiosa e che a me manca del tutto... Con questa freccia del Parto, ti abbraccio.

il manifesto 5.10.06
Vita ascetica dell'antica Grecia


Sfumano nella leggenda i contorni della figura di Orfeo, mitico musico della Tracia e fondatore di quel movimento iniziatico, l'orfismo appunto, assai diffuso in Grecia a partire dall'età arcaica. La fortuna del personaggio - noto per la partecipazione alla spedizione degli Argonauti a caccia del vello d'oro, ma più ancora per la sua discesa agli inferi per riportare in vita la sposa Euridice - fu enorme nelle arti antiche e moderne. Quanto all'orfismo, è uno dei temi più complessi della storia della filosofia e della religione antica. Già nel VI e V secolo a.C. circolava un cospicuo numero di scritti orfici, poemi in esametri dattilici attribuiti a Orfeo (e a Museo, cantore altrettanto leggendario). I riferimenti sono numerosi in vari autori dell'età classica, che trattano l'orfismo con venerazione oppure lo bollano di ciarlataneria, rispecchiando contrastanti atteggiamenti diffusi nella società. In mancanza di buone fonti antiche, il papiro di Derveni assume un'importanza enorme: i testi di poesia orfica che ci sono pervenuti sono più tardi di vari secoli e identificare le credenze e le pratiche proprie del più antico ascetismo orfico è un problema inestricabile. La ricerca tende oggi a privilegiare gli aspetti comportamentali della cosiddetta «vita orfica», accanto all'insieme di dottrine proprie dell'orfismo. A quanto pare, alla base stava l'idea che l'uomo ha un'anima immortale, temporaneamente imprigionata in un corpo mortale. Per assicurare la salvezza dell'anima bisognava perseguire la purezza con regole di vita pratica (essenziale l'astensione dal mangiare carne), con atti rituali periodici di purificazione e con cerimonie di consacrazione iniziatica. I risvolti potevano essere molteplici: per esempio, le usanze alimentari orfiche impedivano di partecipare ai sacrifici cruenti agli dèi della religione ufficiale, con possibili ripercussioni di carattere socio-politico. Il fatto è che l'iniziato orfico non si accontenta del rapporto con il divino garantito dalla religione e dal culto comune e pubblico, ma aspira a una relazione mistica privilegiata. Una parte importante delle credenze orfiche era poi rappresentata dalla cosmogonia. All'inizio di tutto era Chronos, il tempo, da cui nacquero Etere, Chaos e Erebo, entità che rappresenta il regno dei morti; da Etere e Chaos fu formato un uovo primordiale da cui nacque Phanes, dio ermafrodito della generazione; da Phanes e da Notte provennero le stirpi divine fino a Zeus. A seguito di una violenza incestuosa, Zeus con la figlia Persefone (nata da lui e da Demetra) genera Dioniso: i Titani lo fanno a pezzi e ne mangiano le membra, ma Zeus li distrugge col fulmine e dalle ceneri nascono gli uomini, partecipi di una natura malvagia e titanica e di una natura divina e dionisiaca. E appunto la figura di Dioniso, che rinasce dai suoi resti ricomposti per divenire il dio della futura regalità, gioca un ruolo centrale nell'orfismo, in quanto dottrina misterica in contrasto con la religione olimpica, fondamento della concezione dell'anima, di una ritualità mistica e iniziatica.

il manifesto 5.10.06
Orfeo rinasce su un fragile rotolo
A oltre quarant'anni dalla scoperta, viene pubblicata l'edizione ufficiale del papiro di Derveni, il più antico libro scritto in greco. Un testo poetico e religioso destinato a gettare luce sui riti mistici e iniziatici dell'orfismo
di Franco Montanari

Ora io indosso bianchissime vesti e fuggo il parto dei mortali, né mi accosto alle tombe e mi guardo dal cibarmi di esseri animati (Euripide)

Sarà forse banale, ma la storia del papiro di Derveni potrebbe fornire lo spunto per uno di quei romanzi di contenuto storico-archeologico che ogni tanto conoscono una vampata di moda: al centro della vicenda, un testo poetico-religioso dell'antica Grecia la cui scoperta, del tutto casuale, è stata seguita da un intreccio di gelosie accademiche, rivalità internazionali e colpi bassi, trascrizioni pirata e una pubblicazione differita per decenni e attesa con ansia crescente. La storia però non solo è vera, ma ha una notevole rilevanza scientifica, e per fortuna ha conosciuto proprio nei giorni scorsi il lieto fine tanto atteso.
Il 15 gennaio 1962, due chilometri e mezzo circa a sud della località di Derveni (un passo di montagna sulla strada che da Salonicco conduce verso la Macedonia orientale e la Tracia), nel corso di alcuni lavori una macchina scavatrice portò alla luce una tomba ancora intatta. L'eforo - cioè il soprintendente - alle antichità di Salonicco, Charalambros Makaronas, fece eseguire scavi nell'area sotto la supervisione dell'archeologo Petros Themelis (che nel 1997, insieme a I.P. Touratsoglou, avrebbe portato a termine la pubblicazione completa dell'intero sito archeologico) e furono così scoperte altre sei tombe, solo due delle quali violate di recente, le altre piene di tesori. Venne alla luce una grande quantità di reperti, sepolti come offerte funerarie: vasi (tra cui un cratere stupendamente decorato), gioielli e oggetti di vario genere, tutti ora esposti nel Museo Archeologico di Salonicco.
Nella tomba dell'iniziato
Il centro abitato della zona, a nord del passo, era l'antica Lete. Un santuario di Demetra e Kore ha restituito sculture databili a partire dalla metà del IV secolo a.C. e allo stesso periodo appartiene un'iscrizione riguardante attività di cittadini della città presso altre comunità: testimonianze di un considerevole sviluppo sul piano urbano, economico e politico. La necropoli della città si trovava a nord del passo e ha restituito tombe databili dal VI al IV secolo a.C., il che vuol dire che l'area era abitata fino dall'età arcaica. Le «tombe di Derveni» invece erano collocate fuori da questo cimitero, a una distanza dal passo di oltre due chilometri: chi erano le persone sepolte così lontano e qual era il motivo di questa collocazione? Importanti cittadini di Lete, nobili e ricchi? Personaggi di alto rango militare, come indicherebbero le armi e i resti di cavalli bruciati sulle pire? Alcune iscrizioni lascerebbero supporre che si tratti di notabili di Lete di origine tessala, presenti nella zona a causa delle - peraltro mutevoli - relazioni del re Filippo II di Macedonia (il padre di Alessandro Magno) con le famiglie dinastiche della Tessaglia intorno alla metà del IV secolo.
Sta di fatto comunque che le tombe sono databili fra la seconda metà del IV e gli inizi del III secolo a.C e che in quella che è stata individuata come tomba A, venne trovato, fra i resti bruciati di un rito funerario, un rotolo carbonizzato diventato poi celebre in tutto il mondo come il papiro di Derveni. In base alla ricostruzione più probabile, il morto venne cremato su una pira presso la tomba, poi i resti suoi e di altre cose combuste furono posti in un cratere di bronzo, cui si diede sepoltura. Il fatto che anche il rotolo di papiro venne bruciato ha probabilmente una relazione con il suo testo di contenuto religioso, legato alle credenze orfiche, mentre la vicinanza al santuario di Demetra e Kore indica che il defunto era probabilmente un iniziato, seguace dei connessi riti misterici. In ogni caso, non sfuggì ai primi scopritori l'eccezionalità del ritrovamento del rotolo di papiro. Come è noto, il materiale scrittorio fatto di papiro non si è conservato in Grecia per ragioni climatiche, a differenza di quanto è accaduto in Egitto o anche a Ercolano dove i papiri carbonizzati furono preservati sotto il materiale eruttivo del Vesuvio. Quello di Derveni era dunque il primo papiro ritrovato sul suolo della Grecia, e la datazione alla fine del IV secolo ne faceva inoltre probabilmente il più antico libro scritto in greco, coevo al massimo di un altro paio di provenienza egiziana, anche se il confronto delle scritture può essere problematico data la diversità geografica. (Esiste per la verità anche un piccolo frustulo trovato nel 1982 in una tomba di Atene e datato al V secolo: ma per quanto riguarda il testo, nulla di paragonabile né per quantità né per valore).
Il rotolo era ovviamente di una estrema fragilità: bastava sfiorarlo per ridurlo in polvere. Trasferito al museo archeologico di Salonicco, si ruppe in pezzi e rivelò che l'interno era scritto: Makaronas chiese allora al filologo Stylianos G. Kapsomenos di occuparsene, conferendogli i diritti della pubblicazione del testo. Fu subito chiamato Anton Fackelmann, celebre conservatore dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Vienna, che aveva sperimentato un metodo di restauro di papiri carbonizzati, basato sull'applicazione di succo fresco di papiro e gomma arabica e sulla separazione dei diversi strati grazie a un effetto termico ed elettrostatico. Compiuto il lavoro nel luglio 1962, oltre 260 frammenti furono distesi, posti fra due strati di vetro e resi leggibili. Da allora, i vetri non furono più aperti: ulteriori restauri non sono infatti possibili, neppure per distendere piccole ripiegature, pena un danno assai superiore al vantaggio. Le fotografie prese allora restano dunque la documentazione migliore del testo, dato che allo stato attuale, anche le più avanzate tecnologie di lettura di manoscritti non possono portare più avanti.
Fu dunque Kapsomenos ad annunciare per primo il ritrovamento nel 1963 e a pubblicare l'anno dopo una descrizione generale con la trascrizione di alcuni brani del testo. Il mondo scientifico fu messo a rumore e la pressione morale e psicologica sui responsabili fu pesante e crescente. Tutti volevano conoscere il testo e vedere le fotografie: il papiro di Derveni divenne una ossessione, l'oggetto di una insostenibile curiosità per papirologi, studiosi di storia della letteratura greca antica, della storia della filosofia e delle religioni, della lingua, del libro e della scrittura. Più la pubblicazione ritardava, più le richieste aumentavano e sottolineavano il valore del ritrovamento, ma una sorta di paralisi psicologica si impadroniva dei responsabili. Il papiro di Derveni restava inedito e diventava per i più una chimera: a disposizione, infatti, c'erano solo le anticipazioni di Kapsomenos e la piccola foto di una sola colonna, e con il tempo la situazione editoriale si complicò ancora con modalità tipiche del mondo accademico e della ricerca.
La rottura di un tabù
Alla morte di Kapsomenos, il diritto e la responsabilità dell'edizione passarono a Kyriakos Tsantsanoglou e Georgios M. Parássoglou, docenti dell'università di Salonicco. Ma nel 1982 una edizione pirata comparve in fondo a un fascicolo di una rivista tedesca, in pagine non numerate nel corpo della rivista, senza firma né assunzione di responsabilità e senza dichiarazione di origine. Il testo, incontrollabile per assenza di riproduzioni e di possibilità di autopsia, non autorizzato da chi ne aveva i diritti, fu dichiarato pubblicamente incompleto, provvisorio e in parte errato: probabilmente era stato sottratto con astuzia da qualcuno che aveva avuto in mano una trascrizione di lavoro. Un tabù però si era rotto e ne seguì una lunga storia di riprese del testo dervenico, inclusione di sue parti in raccolte particolari (quali ad esempio edizioni dei frammenti di poesia orfica), traduzioni (in inglese e in francese), progressi in singoli punti compiuti grazie a informazioni elargite con generosità dai responsabili greci, sottoposti sempre più a una sorta di accerchiamento.
Gli studi si susseguivano, del papiro di Derveni si conosceva molto e molto più si ipotizzava, ma per gli studiosi era impossibile verificare la correttezza delle loro ipotesi testuali ed esegetiche. Mancava quello che tutti aspettavano da quasi mezzo secolo: l'edizione ufficiale e autorizzata, completa e condotta di prima mano, corredata di una valida riproduzione di tutti i frammenti, che fissasse lo stato reale del testo in ogni suo punto e mettesse chiunque in condizione di controllare l'attendibilità delle proprie ipotesi di integrazione e costituzione del testo, vale a dire della base irrinunciabile per l'interpretazione. E finalmente in questi giorni, grazie all'aiuto decisivo di Theokritos Kouremenos, un giovane e attivo studioso dell'università di Salonicco, l'attesa edizione affidata a Kyriakos Tsantsanoglou e George M. Parássoglou è uscita a distanza di oltre quarant'anni dalla scoperta.
Fra poesia e dottrina
Ma cosa contiene questo straordinario reperto, cosa c'è scritto nel papiro di Derveni? Il rotolo doveva essere lungo in tutto oltre tre metri e alto forse 16-17 centimetri: ne sopravvivono circa due metri e mezzo, in tutto ventisei colonne frammentarie in condizioni assai diverse di conservazione: di alcune infatti non rimangono che poche lettere. Forse i numerosi piccoli frustuli non collocati potranno permettere in seguito di ricostruire altre parti (nel libro sono tutti accuratamente riprodotti e gli esperti avranno da esercitare la loro acribìa).
Appare acquisito che il testo sia stato scritto tra la fine del V e gli inizi del IV secolo, più o meno intorno al 400 a.C.: dunque, quando fu copiato nel rotolo di Derveni (scritto alla fine del IV secolo) era già vecchio forse poco meno di un secolo. L'autore cita brani di poesia orfica (qualcuno dei versi era già noto da altre fonti) e svolge su di essi un commento dottrinale: il tema dei versi e della trattazione riguarda la cosmogonia, negli aspetti peculiari che essa assumeva per le credenze orfiche (il nome di Orfeo è conservato alla colonna 18). Al centro del discorso è Zeus, ma sono menzionate anche diverse altre figure divine, alle quali si applica una interpretazione allegorica. La genealogia cosmogonica mostra la peculiarità di provenire dalla coppia Etere-Notte, che gioca un ruolo particolarmente importante, ma ogni singolo elemento deve essere considerato alla luce del confronto con le altre fonti su un insieme di dottrine e interpretazioni altamente problematiche.
Un libro della religione, dunque, che contiene sia il testo di riferimento del fondatore Orfeo che la trattazione esegetica. Nelle fonti antiche, del resto, si fa spesso riferimento ai «libri» orfici, a sottolineare l'importanza che l'orfismo attribuiva al libro scritto, alla parola autorevole dell'interprete sacerdote iniziato, accanto alla ritualità delle purificazioni e delle cerimonie cultuali. L'uomo sepolto a Derveni, così, portò con sé nell'oltretomba, bruciato con lui, il rotolo prezioso che l'avrebbe seguito in quella vicenda post mortem alla quale aveva attribuito tanta importanza durante la sua «vita orfica».

Testi integrali
Quei frammenti riprodotti per intero
Il volume «The Derveni Papyrus» (a cura di Theokritos Kouremenos, George M. Parassoglou, Kyriakos Tsantsanoglou, Leo S. Olschki Editore, pp. XIV + 308 + 30 tavole), con l'attesa edizione e la riproduzione completa dei frammenti del rotolo di Derveni, vede la luce nel quadro di un progetto scientifico italiano di grande prestigio internazionale, il «Corpus dei Papiri Filosofici Greci e Latini», guidato da un comitato scientifico di nove studiosi (otto italiani di diverse università e uno inglese di Cambridge), sotto gli auspici dell'Accademia «La Colombaria» di Firenze, dell'Unione Accademica Nazionale e dell'Union Académique Internationale, in collaborazione con il fiorentino Istituto Papirologico «G. Vitelli».

Repubblica Salute 5.10.06
Tra forme angosciose e "melancoliche"

Nel 2020 la depressione sarà, secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la principale causa di disabilità per malattia dopo la cardiopatia ischemica.
Attualmente più del 17% della disabilità legata a problematiche di SALute mentale è causata dalla depressione; si calcola sia una patologia che colpisce il 5% della popolazione nei paesi industriali. Il rischio di sviluppare un episodio depressivo nel corso della vita è molto alto: 5-12% per gli uomini e 10-25% per le donne, che appaiono dunque più vulnerabili. La malattia può insorgere ad ogni età, ma il primo episodio compare solitamente tra i 20 e i 50 anni. Il primo e fondamentale sintomo della malattia depressiva è la tristezza: ma cosa distingue la tristezza "normale", che tutti proviamo in determinate situazioni, dalla tristezza "depressiva"? Innanzitutto quest'ultima può insorgere senza alcuna motivazione comprensibile, senza alcun legame con eventi di perdita, e non è influenzata da circostanze positive: non lascia spazio alla speranza. Nella tristezza normale è invece mantenuta la capacità di reagire e di pensare al futuro in termini positivi. La tristezza depressiva è inoltre avvertita anche sul piano fisico, come un sentimento di perdita di vitalità, di inerzia, di oppressione, che può essere vagamente localizzato nella testa, nel petto, nello stomaco. La persona depressa perde la capacità di provare piacere, e può avvertire la perdita di ogni sentimento. Sul piano del pensiero la tristezza depressiva si traduce spesso in convinzioni angosciose e non realistiche: il paziente si accusa di colpe terribili, o pensa di avere una grave malattia fisica, o è certo che lui e la sua famiglia finiranno in rovina. Anche la memoria e la concentrazione possono essere compromesse, così come l'appetito ed il sonno: nelle forme tipiche (dette "melancoliche") i malati soffrono di inappetenza ed insonnia, quest'ultima caratterizzata soprattutto da risvegli troppo anticipati, mentre nelle forme cosiddette "atipiche" si osserva aumento dell'appetito e del sonno. Nelle forme tipiche il mattino è il momento peggiore e ogni nuovo giorno è accolto con angoscia; in quelle atipiche i sintomi sono invece più gravosi alla sera. Una forma particolare di depressione "atipica" è il "disturbo affettivo stagionale", sindrome depressiva ricorrente che si presenta regolarmente in autunno-inverno, mentre le depressioni a ricorrenza estiva mantengono di solito le caratteristiche "tipiche".
Se i sintomi depressivi si presentano con minore gravità ma tendono ad accompagnare l'individuo per molti anni, o per tutta la vita, si parla di "personalità depressiva". Numerose sono le interpretazioni psicologiche del vissuto depressivo. Le scuole psicoanalitiche hanno legato la depressione alle esperienze di perdita: queste possono riguardare le persone amate o fattori importanti per l'autostima della persona (lavoro, status....). Di fatto esperienze di perdita precedono spesso il primo episodio depressivo. Altri autori hanno individuato alcuni tratti temperamentali "predisponenti": la scrupolosità, la coscienziosità, il senso del dovere, la tendenza ad evitare i conflitti. Secondo Hagop Souren Akiskal (Centro Internazionale per i Disturbi dell'Umore, San Diego), il temperamento depressivo sarebbe caratterizzato da una alterata regolazione di due emozioni fondamentali: la paura e la rabbia.
La relazione tra stress e depressione è stata studiata approfonditamente (sarebbe iperattivo il sistema ipotalamo-ipofisi-surrene) ma ancora non è stata completamente chiarita: stress nelle fasi precoci dello sviluppo (ad es. lunghe separazioni dalla madre nelle prime fasi della vita) renderebbero più vulnerabili. Ereditarietà ed esperienze avrebbero un ruolo importante. Occorre riconoscere e curare subitp l'episodio depressivo. Una terapia psicologica e farmacologica appropriata e mantenuta sufficientemente a lungo riduce drasticamente la durata dei sintomi ed aiuta a prevenire le ricadute. Una buona rete di relazioni interpersonali rappresenta un fattore positivo, mentre l'abuso di alcol o altre sostanze può peggiorare la prognosi. (f. c.)

Repubblica Salute 5.10.06
Agire con una psicoterapia sulla base di diagnosi certe
Conoscere le peculiarità con cui la depressione si manifesta nelle differenti età della vita può essere utile per riconoscere i sintomi depressivi, ed intervenire di conseguenza.
Particolarmente problematiche appaiono la diagnosi e la cura della depressione nei bambini e negli adolescenti. Recenti studi hanno dimostrato che la depressione negli adolescenti è meno rara di quanto non si credesse in passato. Comunque la malattia può presentarsi anche nei bambini in età prescolare.
Il riconoscimento della depressione del bambino si deve basare sull'osservazione nel suo ambiente naturale (famiglia, scuola, amici). Si deve tenere presente che l'umore dei bambini e degli adolescenti depressi può essere molto spesso più irritabile e "arrabbiato" che triste. Negli adolescenti gli sbalzi d'umore sono normali e questo può, in alcuni casi, nascondere o mascherare la presenza di un disturbo depressivo. La presenza di disaccordi familiari o di persone depresse in famiglia può rappresentare un fattore di rischio. La maggior parte degli episodi depressivi giovanili va incontro a guarigione, tuttavia sono possibili le ricadute. La psicoterapia cognitivo-comportamentale sembra essere l'intervento più efficace in queste fasce di età, mentre sull'utilità delle terapie farmacologiche esistono dati contrastanti. Sebbene l'allarme sul rischio di comportamenti suicidi indotti dagli antidepressivi nei giovanissimi sia stato
abbastanza ridimensionato, un recente studio dell'University of Texas Southwestern Medical Center di Dallas, che ha esaminato oltre 200 pazienti di età compresa tra i 7 e i 17 anni, non ha rilevato particolari benefici apportati dalla terapia antidepressiva.
Un'altra fascia di età nella quale la diagnosi di depressione può presentare qualche difficoltà è quella degli anziani. Molte ricerche riportano una minore diffusione di questo disturbo nella popolazione over 65, ma questo dato, peraltro non univoco, potrebbe essere spiegato anche con la maggiore tendenza delle persone anziane a lamentare malesseri fisici, "mascherando" i sintomi depressivi.
La prognosi della depressione nella persona anziana è migliore di quanto non si ritenesse in passato: gli interventi farmacologici e psicoterapeutici (terapia cognitiva) permettono in molti casi di raggiungere la guarigione. Il medico dovrà tenere presente la maggiore sensibilità di questi pazienti agli effetti collaterali dei farmaci e considerare le possibili interazioni con altre medicine. Talvolta la depressione nell'anziano si può manifestare con disturbi della concentrazione, della memoria e dell'orientamento che simulano una demenza ("pseudodemenza", che guarisce quando viene superato l'episodio depressivo). Altre volte la depressione è, invece, il sintomo iniziale di una demenza. Le malattie cardiovascolari e l'ipertensione aumentano il rischio di depressione.
Negli uomini, con l'età, la diminuzione del livello degli ormoni androgeni (testosterone) può produrre una sintomatologia caratterizzata da debolezza, perdita del desiderio sessuale, ansia, irritabilità, insonnia: è la sindrome da parziale deficienza androgenica dell'invecchiamento, descritta da Mario Amore (Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma). In questi casi può anche essere presa in considerazione una terapia ormonale sostitutiva con androgeni. (f. c.)

Il manifesto 5.10.06
Lo scandalo etnico-confessionale
di Giuliana Sgrena


Non mi scandalizza il fatto che in una sala del Viminale, martedì, al termine della riunione del ministro dell'interno con la Consulta islamica, si sia celebrato il Ramadan. Vi siete mai scandalizzati di fronte alla messa che viene celebrata in ogni occasione ufficiale? O al fatto che un funerale di stato in Italia può essere solo religioso e secondo il rito cattolico? Nonostante la religione cattolica non sia più la religione di stato mantiene di fatto una supremazia sulle altre. Ed è partendo da questa «nostra» identità religiosa che il governo propone il riconoscimento degli stranieri non cattolici e degli italiani convertiti sulla base della loro appartenenza etnico-confessionale. Questo sì fa accapponare la pelle e non solo perché ci riporta subito ai drammatici scontri etnico-religiosi che dissanguano l'Iraq e che hanno dilianiato Jugoslavia, Afghanistan, Ruanda e altri paesi, ma anche perché così facendo si distrugge il concetto stesso di cittadinanza.
Quando il ministro Amato chiede alla Consulta di sottoscrivere una Carta dei diritti e dei valori - ipotesi contestata dall'Ucoii e poi abbandonata in attesa della elaborazione di una Carta dei valori che dovrà essere accettata da tutte le comunità etniche e religiose -- riafferma quei principi di libertà e uguaglianza nati dalla rivoluzione francese, ma dimentica di valorizzare il termine di «cittadino» che ne fu protagonista. Questo appellativo usato indistintamente per tutti gli individui, con la rivoluzione francese diventa simbolo di libertà e di uguaglianza. Il ritorno alla definizione in base all'appartenenza etnico-religiosa è la negazione della libertà: un musulmano che vive in Italia perché non può essere riconosciuto in quanto individuo invece che in quanto credente e appartenente alla comunità islamica? I musulmani hanno diritto alla laicità, come noi. E infatti solo una piccola minoranza dei musulmani in Italia frequenta le moschee, eppure l'Ucoii può vantare tanto potere perché controlla la maggior parte dei luoghi di preghiera. Il riconoscimento religioso aumenta il potere dei gruppi islamisti, soprattutto i più radicali, che hanno maggiori mezzi coercitivi per controllare le loro comunità. È proprio questa la logica da sconfiggere per cominciare a disinnescare i ricatti e le provocazioni dell'Ucoii e dei Fratelli musulmani.

mercoledì 4 ottobre 2006

il Riformista 4,10.06
Riccardo Lombardi, una storia del «socialismo difficile»
di Paolo Franchi


Prima di tutto, un’avvertenza. Questa non è un’intervista, ma il resoconto, spero fedele, di una lunga e appassionata conversazione con Fausto Bertinotti su Riccardo Lombardi, il Cinquantasei, la complessa e ricca vicenda dell’autonomismo socialista in Italia. Che prende spunto da due considerazioni. La prima: i suoi primi passi in politica il leader di Rifondazione comunista, oggi presidente della Camera, li ha mossi da socialista lombardiano. La seconda: sempre lui, Bertinotti, ha voluto che il partito della Sinistra europea, in cui le formazioni vetero, post e neocomuniste pesano in modo determinante, tra le «tracce» storico-politiche meritevoli di essere seguite e indagate.
Grava su Lombardi, morto ventidue anni fa di questi giorni, il peso dell’oblio. E ancor più, forse, un giudizio o un pregiudizio diffusi che lo considerano, nel migliore dei casi, un acchiappanuvole preda di astratti furori ideologici. Inutile dire che a Bertinotti queste valutazioni non tornano affatto. «La storia socialista dell’ex azionista Lombardi, che si definiva in tempi non sospetti un a-comunista, è sin dall’inizio tutta interna a quella dell’autonomismo. E nel Psi “autonomia” voleva dire autonomia dal Pci. Anzi, vorrei dire che, almeno sul piano politico, Lombardi fu forse il più autonomista di tutti». Sul concetto di autonomismo, però, anche perché si parla di storie dell’altroieri, è il caso di intendersi. «C’è stato, nel Psi, un riformismo autonomista che non ha mai rifiutato in via di principio l’idea di una rottura del sistema capitalistico, ma non l’ha mai cercata, e anzi ha accettato l’idea di un compromesso strategico con il capitalismo. Lombardi no, Lombardi era un riformista rivoluzionario…». Se è così, si capisce bene perché faticassero a convivere, due concezioni così radicalmente diverse. «Faticavano, naturalmente, ma si rispettavano. Vuole un parere pro veritate? L’altro giorno è venuto a trovarmi un vecchio e illustre socialista della prima schiatta, Giovanni Pieraccini, e mi ha portato il suo ultimo libro (Socialismo e riformismo, Marietti 1820, ndr). Certo, anche Pieraccini rimprovera a Lombardi, cui pure riconosce “una personalità complessa, affascinante, acuta, colta”, una forte dose di “astrattezza ideologica”. Ma descrive nitidamente il suo pensiero, l’idea cioè delle riforme di struttura, il cavallo di battaglia lombardiano, “come una serie di duri colpi all’accumulazione capitalistica, e quindi al sistema”. E, se ne contesta il carattere irrealistico, agli albori del centro-sinistra, è soprattutto per via dei rapporti di forza politici: come si poteva pensare, dice, di lavorare alla demolizione del capitalismo con un Psi al 14 per cento e una Dc al 38, che controlla tutto o quasi il potere?».
Se Pieraccini, in sostanza, contesta a Riccardo Lombardi di essere stato Riccardo Lombardi, nella sinistra europea c’è chi lo capisce. «Su tutti, il giovane André Gorz, in un libro, Il socialismo difficile, che in molti trovammo affascinante». Perché difficile? «Prima di tutto, e per l’epoca non è davvero poco, perché non ha niente da spartire con il cosiddetto socialismo reale dell’Est. E poi perché si fonda su una strategia, quella delle riforme di struttura, che vuole modificare dall’interno le strutture economiche e sociali del capitalismo per trascenderlo».
Mi viene in mente una espressione tipica di Lombardi: si tratta di cambiare il motore con la macchina in movimento. «Sa che cosa diceva scuotendo la testa il riformista padano Fernando Santi, ogni volta che Lombardi la ripeteva? “E pensare che è un ingegnere”… Rispetto a tutti gli altri uomini della sinistra italiana che Gorz individua come possibili protagonisti della costruzione del “socialismo difficile”, mi vengono in mente Lelio Basso, Vittorio Foa, Pietro Ingrao, Bruno Trentin, Lombardi è il meno curioso verso i mutamenti che la ripresa del conflitto sociale determina nella società, non vede quello che cambia nella Cisl, o tra i metalmeccanici. Per dirla con un linguaggio attuale, è tutto fuorché un movimentista. Esagerano, i suoi critici, quando sostengono che vuole fare il socialismo per legge. Ma, se è lecito immaginare un giacobinismo senza ghigliottina, Lombardi è un neogiacobino. Un grande neogiacobino».
Facciamo qualche passo indietro. Fino al Cinquantasei, al XX Congresso del Pcus, all’insurrezione ungherese: perché se Lombardi è autonomista già da un pezzo, la stagione della speranza autonomista comincia qui. «Qualcosa si è già messa in movimento prima. Al congresso socialista di Torino, nel ’55, è Rodolfo Morandi, non certo un uomo della destra socialista, a pronunciare, poco prima di morire, un discorso importantissimo di apertura ai cattolici e alla Dc. Ma è il Cinquantasei ad aprire una prospettiva nuova a forze autonomiste che fin lì erano state costrette a mordere il freno. E quanto più Palmiro Togliatti frena il cambiamento tanto più si rafforza il loro ruolo». Insisto: non tutti gli autonomismi socialisti hanno lo stesso segno. «Dovessi giudicare con gli occhi di oggi, direi che c’è un autonomismo di destra, quello che comincia con l’incontro tra Pietro Nenni e Giuseppe Saragat a Pralognan, e finisce con il centrosinistra e l’unificazione tra Psi e Psdi; e un autonomismo di sinistra di cui Lombardi è l’esponente più significativo. Ma allora le cose erano molto più complicate. Anche uomini del socialismo di sinistra, cito per tutti Raniero Panzieri, Luciano Della Mea, Luciano Libertini si dicono e dicono ai compagni: “Vediamo cosa fa Nenni, vediamo dove va Nenni”…: l’autonomismo socialista del Cinquantasei racchiude destini politici assai diversi, il centro-sinistra, il riformismo rivoluzionario di Lombardi, l’operaismo di Panzieri».
Lombardi, il neogiacobino, interpreta, secondo Bertinotti, lo spirito del tempo, in un’Italia che, magari confusamente, dall’apertura a sinistra si aspetta molte cose. «Prepara attivamente il centro-sinistra, contro i suoi amici Basso e Foa. Ma non accetta di annacquarne il programma: alla prova del governo, di fronte all’idea che bisogna allearsi con la Dc soprattutto per salvare la democrazia, rompe. E torna a investire sul partito, nella speranza di accumulare le forze per rilanciare le riforme di struttura». Una speranza vana. «Sì, anche perché il neogiacobino Lombardi, che segue con attenzione estrema quel che capita non solo nella politica ma anche nel mondo cattolico al tempo del Concilio, non dispone direi quasi concettualmente della risorsa società: non vede il Sessantotto e l’autunno caldo». Da questo punto di vista sembrerebbe un leader politico lontano anni luce dal movimentista Bertinotti. «Rivendicarne l’attualità mi sembrerebbe una sciocchezza, stiamo parlando di un’altra stagione, quando in campo, oltre tutto, c’erano le classi, non i movimenti. Se ho pensato e penso che nella lezione dell’a-comunista Lombardi ci sia qualcosa di importante per la Sinistra europea e per Rifondazione, è perché trovo tuttora straordinario il suo arrovellarsi, che è anche il mio, sul socialismo. Su un socialismo, dico, che, per recuperare tutte le forze almeno disponibili alla ricerca che sono in campo, deve essere nutrito di una cultura esplicitamente neorevisionistica».
Quasi dimenticavo di chiedere a Bertinotti come mai, in politica, ha cominciato da socialista e da lombardiano. «Le rispondo in modo molto netto: non ho mai provato l’attrazione togliattiana. Al gruppo dirigente comunista riconosco un merito storico straordinario, che i socialisti non possono neanche sognarsi di accampare: è riuscito a impiantare saldamente il Pci nel profondo della società italiana, a farne un partito di massa. Ma la tradizione comunista mi è sempre parsa troppo sicura di sé e del suo percorso, troppo aliena, fatta eccezione per l’inquietudine di Pietro Ingrao, dal dubbio. Il dubbio, nella storia della sinistra italiana, è più roba da socialisti».

l'Unità 4.10.06
TRENTIN E L’UNGHERIA 1956
E Togliatti attaccò Di Vittorio
di Bruno Ugolini


Torna alla ribalta il tema del dissidio tra Togliatti e Di Vittorio
sui fatti d’Ungheria del 1956. La Fondazione Di Vittorio ha, infatti,
indetto per domani, giovedì, un apposito convegno. Sarà anche letto
(accanto alla relazione di Adolfo Pepe e gli interventi di Piero
Boni, Antonio Carioti, Luciana Castellina, Piero Fassino, Adriano
Guerra, Guglielmo Epifani, Carlo Ghezzi) un contributo di Bruno
Trentin. Lo scritto era stato composto dall’ex segretario generale
della Cgil, poco prima dell’incidente che lo ha colpito questa estate.
Trentin riporta alla ribalta e approfondisce, tra l’altro, un
episodio già presente in un libro realizzato con Adriano Guerra e
uscito nel 1997 («Di Vittorio e l’ombra di Stalin», Ediesse). È un
episodio rimasto un po’ in ombra e che riguarda quel terribile 1956.
Giuseppe Di Vittorio era stato giudicato colpevole da Togliatti per
aver difeso le ragioni degli operai ungheresi. Il tutto si era
trasformato in un attacco alla Cgil - sostiene Trentin - poi
sviluppato in tutte le sezioni del Pci e culminato «in una lettera di
Togliatti, nella quale informava il Comitato centrale del Pcus
dell’esistenza nel Pci di gruppi che sostenevano l’insurrezione di
Budapest. Nella lettera, inoltre, si sottolineava che tali gruppi
esigevano che l’intera direzione del partito venisse sostituita, con
Di Vittorio nuovo segretario». «Questa denuncia di carattere
delatorio prosegue Trentin (nessun gruppo, come Togliatti sapeva
bene, aveva avanzato la candidatura di Di Vittorio alla segreteria
del Pci, né Di Vittorio l’avrebbe mai avallata), tendeva
evidentemente a delegittimare il leader della Cgil fra i sovietici e,
attraverso il loro intervento, nella FSM (l’organizzazione sindacale
mondiale, ndr)».
Trentin chiama poi in causa altri dirigenti sottolineando «l’attacco
a Di Vittorio da parte della Direzione del Pci, e l’aggressione
faziosa, in particolare, di Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta,
Paolo Bufalini e Mario Alicata. Solo Luigi Longo si distinse per la
sua volontà di dialogo. E la figura di Longo va profondamente
riconsiderata, contro molte caricature che ne sono state fatte. Penso
alla sua analisi lucida e rispettosa dell’esperienza e dell’eredità
togliattiana, che però non ne ignorava i limiti e le contraddizioni;
ai primi contatti avviati (attraverso Giorgio Napolitano) con la SPD
di Willy Brandt; all’apertura di un dialogo con le forze di sinistra
che combattevano lo stalinismo (che andrà avanti fino alla
partecipazione “autorizzata” mia e di Rosario Villari - al Convegno
internazionale di Venezia sull’opposizione nei Paesi dell’Est,
promosso dal Manifesto nei giorni immediatamente precedenti la
cosiddetta “Biennale del dissenso” del novembre 1977. Partecipazione
bollata da Armando Cossutta come antisovietica...)».
Una testimonianza inedita e importante, questa di Trentin, che
ripropone il tema vero presente anche nel convegno della Cgil, quello
della conquista dell’autonomia da parte del sindacato. La “rottura”
di Di Vittorio, spiega ancora Trentin, «non fu un fulmine a ciel sereno.
Essa maturò dopo un lungo processo d’incubazione, scandito da una
serie di altri fatti: le lotte per il Piano del lavoro; il programma
di riforme elaborate anche mediante un confronto vivo con settori
importanti della cultura economica e sociale italiana; il grande e
articolato movimento di massa nelle campagne; gli scioperi al
rovescio per ottenere la costruzione di nuove centrali elettriche nel
Sud; il rilancio dell’azione rivendicativa contro le forme più odiose
di sfruttamento e di limitazione della libertà sindacale
nell’industria del Nord; la battaglia per imporre una politica di
riconversione dell’industria bellica. Insomma: un enorme patrimonio
programmatico e rivendicativo, che rispecchiava l’autonomia anche
culturale - raggiunta dalla Cgil nel corso degli anni cinquanta.
Una tensione progettuale e una capacità di lotta che mettevano
oggettivamente in questione il monopolio dei partiti della sinistra
non solo sulla politica internazionale, ma anche sulla politica
economica e sul grande tema dei diritti individuali. Penso, ancora,
alla lungimiranza di Di Vittorio quando lanciò il grande obiettivo
dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Penso al dibattito sul
“Piano Vanoni” (concepito come risposta al Piano del lavoro):
occasione di un altro attacco del Pci all’approccio critico ma
costruttivo della Cgil (Amendola se ne lamentò fortemente sia al
Comitato centrale del partito sia in Parlamento), volto sempre alla
ricerca di un interlocutore, fuori da una logica d’opposizione
subalterna. Lo stesso avvenne durante il confronto, duro ma
dialogante, con Pietro Campilli, Presidente della Cassa per il
Mezzogiorno. Per non parlare delle divergenze sul “Piano Pieraccini”,
che aveva tra i suoi ispiratori intellettuali del rango di Giorgio
Ruffolo, su cui i deputati sindacalisti della Cgil si astennero,
nonostante il voto contrario del Pci. Mentre nel 1970 fu il Pci ad
astenersi sullo Statuto dei diritti dei lavoratori, che, su impulso
di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, sanzionava con una legge dello
Stato le conquiste dell’autunno caldo».
È una lunga storia che ha accompagnato le celebrazioni per i 100 anni
della Cgil. Un sindacato, come ha voluto sottolineare Carlo Ghezzi,
presidente della Fondazione Di Vittorio, presentando il convegno,
che, proprio in riferimento ai fatti d’Ungheria, non abbisogna oggi
«di alcuna autocritica


Corriere della sera 4.10.06
Psicoanalisi e nuovi orizzonti
IL TRANSFERT È COME UN FILM
di Silvia Vegetti Finzi


L'offerta di psicoterapie è ormai così ricca e variegata che si rende necessaria una mappa per orientarsi. Uno dei riferimenti più sicuri è costituito dalla Società Italiana di Psicoanalisi (Spi), che rappresenta la più convalidata genealogia freudiana. Molti temono che un'istituzione così ufficiale si sia arroccata nella difesa dell'ortodossia e della corporazione. Ma se c'è un merito della psicoanalisi è la sua capacità di interrogarsi, di mettersi in crisi, di formulare, pur nel costante riferimento ai capisaldi della disciplina, metodi e obiettivi nuovi. Un secolo di ascolto clinico non è trascorso invano e la consapevolezza raggiunta è tale da indurre un raffronto, in corrispondenza al centocinquantesimo anniversario della nascita di Freud, tra le origini della psicoanalisi e i suoi attuali sviluppi. L'occasione è stata fornita dal XIII Congresso nazionale della SPI, appena svoltosi a Siena, sul tema: «Il transfert. Cambiamenti nella teoria e nella pratica clinica». Le due relazioni principali, quella storica affidata a Stefania Turilazzi Manfredi, psicoanalista fiorentina di vasta e raffinata cultura, e quella clinica attribuita ad Antonino Ferro, didatta dell'Istituto di Milano, hanno permesso di valutare i mutamenti intervenuti negli ultimi anni rispetto alla tradizione. Ferro rappresenta, in questo momento, una figura centrale nel campo psicoanalitico internazionale, come attestano le traduzioni delle sue numerose opere in quasi tutte le lingue occidentali.
In questo momento privilegiare il tema del transfert è stata, come hanno argomentato in apertura il presidente della Società Fernando Riolo e la responsabile scientifica Anna Ferruta, una scelta coraggiosa perché il transfert, inteso come scambio incrociato di pensieri, parole, affetti ed emozioni tra analista e paziente, costituisce al tempo stesso il motore e il combustibile della cura freudiana. Certo il transfert funziona anche fuori dallo studio psicoanalitico e, con maggiore o minore intensità, alimenta tutte le nostre relazioni. Ma la psicoanalista ha un occhio in più in quanto monitorizza contemporaneamente il paziente, se stesso e gli scambi reciproci. L'importanza di questo dispositivo è tale che si può organizzare la storia della psicoanalisi intorno alle sue successive elaborazioni e trasformazioni.
Mentre Freud lo considerava soprattutto un veicolo per riportare nel presente dell'analisi esperienze del passato non metabolizzate, rendendole così disponibili a una successiva elaborazione, le ultime tendenze si soffermano piuttosto sull'apertura al futuro che tale dinamica comporta.
Nella «cucina» analitica di Ferro troviamo pertanto, oltre all'interpretazione e alla ricomposizione della memoria, che conservano un indubbio potere euristico e terapeutico, anche nuove ricette per trasformare, insieme ai pensieri, l'assetto della mente, contenuto e contenitore. Ad esempio, di fronte agli effetti negativi di un trauma infantile, non basta rievocarlo e scioglierlo in una narrazione che lo renda pensabile, dicibile e condivisibile. Non è sufficiente che la psicoanalisi ripari i danni subiti dal paziente se può ottenere, con nuovi dispositivi, che il suo apparato psichico, ricostituito, metta in atto capacità inespresse, realizzi potenzialità insperate.
Per raggiungere risultati così radicali è però necessario che il radar analitico ampli il suo raggio d'intercettazione sino a captare sensazioni oscure, emozioni grezze, vissuti che non hanno mai raggiunto la mente, che non sono mai divenuti pensiero. MauroMancia, psicoanalista e neurofisiologo, li colloca nella memoria implicita dove sono depositate sensazioni precocissime, suscitate dal contatto del neonato con il corpo e la voce della madre. Prive di rappresentazione, quelle emozioni non sono mai state memorizzate. Tuttavia urgono nel sogno e nel transfert e possono essere recuperate alla cura se l'analista coglie l'«intonazione musicale» con cui si esprimono e la trasforma in una «fiaba», capace d'integrare le lacune della biografia.
Secondo Ferro, per recuperare emozioni non legate al ricordo si può utilizzare qualsiasi mezzo espressivo: la parola, la musica, il disegno, il gesto, il fumetto, il film e non importa se essi non riportano la storia reale del paziente perché oggetto della psicoanalisi sono gli stati della mente, non del mondo. «In ultima istanza il transfert è la forza che porta ciascuno a mettere in scena un dramma che sarà poi sciolto in modi imprevedibili». Lo schermo sul quale si proiettano le emozioni da configurare è costituito dalla mente dell'analista che, dopo aver accolto materiali amorfi, pezzi di pensieri e brandelli di affetti, li monta in un filmato inedito, girato dal pensiero onirico del giorno e della notte. Il risultato di questo lavoro condiviso sarà inatteso, sorprendente, unico, così com'è irripetibile ogni opera d'arte. A proposito di metafora cinematografica, il premio «Cesare Musatti» è stato attribuito quest'anno al regista Bernardo Bertolucci.
Uno «scambio» che è motore e combustibile della cura freudiana.

Repubblica 4.10.06
Minaccia di scissione contro il partito democratico: alle Camere già possibile il gruppo autonomo
Sinistra ds verso la rottura "Noi, terza forza dell'Unione"
Appello al premier: si fermi e ragioni con noi
I vertici della Quercia irritati con Parisi per "l'ennesima entrata a gamba tesa"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Qualcuno l'ha già immaginata, la scissione sotto la Quercia. «Non prevedo uno strappo traumatico come nell '91, al congresso di Rimini. Nessuno avrà da recriminare. Ci faremo gli auguri. E ognuno per la propria strada», dice Carlo Leoni, esponente del correntone e vicepresidente della Camera. «Detto questo - aggiunge - speriamo di non arrivarci». Ma i motori di una separazione in casa Ds sono accesi. Ci sono i numeri, le condizioni e anche lo spazio politico (con il riferimento al socialismo europeo che tanto divide i protagonisti del Partito democratico) per creare nuovi gruppi parlamentari alla Camera e al Senato. «Diventiamo la terza forza della coalizione», annuncia orgoglioso Cesare Salvi, il leader della corrente «per il socialismo». «Siamo già un gruppo più grande di Pdci e Verdi. Possiamo crescere», spiega Marco Fumagalli. E ripete i numeri: «Ventitrè deputati, dieci senatori, tre europarlamentari... ». Parla dei firmatari della lettera aperta con cui le minoranze diessine hanno annunciato la loro assenza al seminario sul Partito democratico a Orvieto. Con quelle adesioni si possono creare formazioni politiche autonome in Parlamento. «Il nostro messaggio è rivolto a tutti - avverte Fumagalli -. Ai Ds, ma anche a Prodi». Come dire: Romano fermati. Perché le scissioni non aiuteranno la stabilità del tuo governo. «Il premier - dice Salvi - deve tenere conto di una rappresentanza parlamentare come la nostra. Deve ragionare con noi».
Le minoranze hanno gettato il sasso e ieri si sono goduti i risultati. Il ridimensionamento dell'appuntamento di Orvieto, la rabbia della maggioranza diessina nei confronti di Arturo Parisi, che con l'intervista a Repubblica, ha di nuovo accelerato immaginando lo scioglimento dei partiti. Con i Ds ci aveva già provato. Alla vigilia del congresso di Torino. Pierluigi Bersani lo ha criticato in maniera esplicita sottolineando il valore dell'iniziativa degli ex popolari a Chianciano. Il percorso identitario in fondo è l'unico che può evitare un'emorragia consistente dentro la Quercia. E anche nel prevertice dei Ds tenuto prima della riunione con Prodi, Piero Fassino e Massimo D'Alema hanno condannato «l'ennesima entrata a gamba tesa» di Parisi mentre Anna Finocchiaro metteva in guardia lo stato maggiore: «Al Senato il gruppo socialista di Salvi può nascere sul serio». Gli uomini e le donne del correntone non fissano scadenze, non preparano iniziative pubbliche. Gli basta incassare i successi che vengono dalle difficoltà altrui. L'ipotesi del Partito democratico ha rivitalizzato una minoranza che all'ultimo congresso di Roma, nella sua componente più grande, quella che fa capo a Fabio Mussi, era stata ridotta al lumicino del 14,5 per cento. Con Walter Veltroni ormai concentrato su Roma e Sergio Cofferati «in sonno» a Bologna. Le minoranze erano divise: Mussi da una parte, Salvi dall'altra, Fulvia Bandoli nella trincea ecologista. Oggi invece sono tutti lì, in calce alla lettera che difende il governo Prodi, ma rivendica un soggetto che abbia i nomi «socialista» e «sinistra». Fare dei nuovi gruppi parlamentari, poi, può essere un'esigenza politica ineluttabile e anche conveniente. Si ottengono dei finanziamenti, cresce il potere contrattuale, si può lavorare su una sinistra alternativa al «moderatismo» del Partito democratico. La nuova forza del «socialismo europeo» manterrebbe anche un ministro nell'esecutivo. «Mussi è lì in rappresentanza della sinistra ds. Chi può chiedergli di lasciare?», fanno osservare i suoi compagni di corrente. Forse dovrebbe rinunciare Leoni, alla Camera. «Certo - dice lui -. Ma non sarebbe un problema».
L'intervista di Parisi che ha irritato i vertici del Botteghino, di riflesso, non è dispiaciuta alle minoranze. Perché secondo loro alimenta la confusione. E «condivido le parole del ministro: la strada non è segnata, non si crea un partito solo perché non si può tornare indietro», sorride Leoni. Per il momento, forti di numeri e di uno spazio che consentono autonomia di movimento, i «dissidenti» del Pd non cercano raccordi con i partiti dell'ala radicale. Anzi, la loro è una sfida. «La Sinistra europea di Pietro Folena oggi è tutta una cosa di Rifondazione, piuttosto il nostro riferimento è la Cgil», osserva Leoni. Non ci sono contatti con i «ribelli» Gavino Angius, Gianni Cuperlo e Peppino Caldarola, che criticano il progetto prodiano. Semmai una fase di studio. In attesa che dalla maggioranza congressuale si sfilino altri dirigenti. «Del resto - dice Fumagalli - è vero che i Ds ormai hanno il fiato corto. Ma la somma di un partito asfittico e di un partito del cavolo come la Margherita non darà vita a un capolavoro».