Repubblica 2.7.16
Yves Bonnefoy la musica delle parole
Il grande poeta francese è morto ieri a Parigi all’età di 93 anni. Aderì all’avventura surrealista e contestò Valéry
di Valerio Magrelli
Nei
tempi andati, osservò un grande musicista, il calzolaio faceva le
scarpe per gli altri: oggi, invece, le fa solo per sé. Nella sua
disarmata semplicità, questa citazione riassume lo sviluppo delle arti
negli ultimi due secoli, da quando, appunto, si consumò il divorzio fra
l’autore e il suo pubblico. Infatti, a cominciare proprio dalla musica,
tale distanza si è talmente ampliata da costituire, in molti casi, una
barriera invalicabile, che ha escluso l’ascoltatore medio dalla
possibilità di un godimento estetico. Questo per dire come molta parte
della produzione artistica risulti oggi estranea ai “normali” fruitori.
Ciò vale anche per la poesia, che è andata inesorabilmente
allontanandosi
dal gusto medio. Il preambolo ci porta alla
domanda: come invitare a un’opera complessa come quella di Yves
Bonnefoy, uno dei maggiori poeti del secolo scorso, morto ieri a Parigi
all’età di 93 anni? Partiamo dicendo che, oltre ai suoi versi, egli ha
composto saggi che spaziano dalla critica d’arte alla storia della
letteratura, con interventi su Giacometti o Piero della Francesca, su
Ariosto, Shakespeare, Leopardi o Baudelaire. Con lui scompare un poeta
che, pur provenendo da una matrice speculativa, volle sempre aderire
alla realtà in maniera concreta, materica.
Diamo allora uno
sguardo alla sua formazione. Tra le letture predilette troviamo da una
parte Plotino, Hegel, Cèstov, Kierkegaard, dall’altra Dante, Racine,
Mallarmé, Bataille, e molti testi arcaici quali il Popol-Vuh, il Libro
dei morti egizio o il Kalevala finnico. A ciò si aggiunga l’influsso
dell’esistenzialismo e della fenomenologia. Si è parlato al riguardo di
una suspense metafisica, di una teologia negativa, di una concentrazione
che ricorderebbe il dialogo agostiniano dell’anima con se stessa.
Tuttavia, tale legame fra poesia e filosofia non deve far dimenticare la
ricchezza delle opere in prosa. Al pari di poeti quali Auden, Brodskij o
Paz, Bonnefoy ha cioè offerto avvincenti testimonianze di “saggistica
creativa”.
E dunque, rispondendo alla domanda iniziale, forse un
lettore non specialista dovrebbe proprio partire da questi libri, per
poi passare al nucleo centrale dei versi. Si pensi al Giacometti del
1991, un testo che, definito «biografia di un’opera», meriterebbe
l’appellativo di romanzo. Basti un esempio. Un giorno l’artista rimase a
casa di un’amica per badare al figlio. Al ritorno, la donna li trovò in
un silenzio glaciale. Cosa è successo? «Non ha voluto disegnarmi un
coniglio», dice il bambino in lacrime. «Non so disegnare un coniglio»,
rispose tetro l’improvvisato baby sitter. Nascosto alla fine del volume,
in qualche modo l’aneddoto ne costituisce il fulcro. A ben vedere,
infatti, tutto il libro non è che un illuminante commento a tale
incapacità di rappresentare la vita naturale. Ma se un artista non sa
disegnare conigli e rifiuta il richiamo del vero, quale sarà l’oggetto
della sua arte? La risposta sta appunto nello sguardo del
poeta-biografo, che tramite il doppio registro psicoanalitico e
fenomenologico incrocia la vita di Giacometti con la sua arte.
Nato
a Tours nel 1923 da padre operaio e madre insegnante, Bonnefoy studia
filosofia (prima alla Sorbona, poi con Gaston Bachelard) e si avvicina
al surrealismo, stringendo amicizia con scrittori e pittori quali Paul
Celan, Philippe Jaccottet, André Frénaud, Balthus e Pierre Klossowski.
Tra le sue raccolte di versi, dopo il grande successo di Du mouvement et
de l’immobilité de Douve (1953), si segnalano Hier régnant désert
(1958), Pierre écrite
(1965), Dans le leurre du seuil ( 1975), Ce
qui fut sans lumière (1987), La vie errante (1993), Les Planches Courbes
(2001) e L’heure présente (2013). Da segnalare la cura di un Dizionario
della mitologia in tre volumi (poi edito da Rizzoli nel 1989). Fra le
prose, L ´ Arrière- Pays (1972) e Rue Traversière (1977). Sposato nel
1968 con la pittrice americana Lucy Vines, nel 1972 ha una figlia,
Mathilde, oggi regista. Dal 1981 viene nominato alla cattedra di “Studi
comparati della funzione poetica” al Collège de France. Una curiosità:
nel romanzo di Leonardo Sciascia Candido ovvero un sogno fatto in
Sicilia, compare proprio Bonnefoy (autore, non a caso, di un testo
intitolato Un sogno fatto a Mantova, tradotto da Sellerio nel 1979).
Ma
torniamo all’avventura surrealista. Dopo una prima adesione al
movimento, già nel 1947 Bonnefoy rifiuta di firmare un manifesto
surrealista. Motivo del distacco è il rimprovero, rivolto a Breton e
compagni, di sostituire alla realtà una surrealtà. Eccoci al centro
della sua ispirazione: attingere a una sorta di infanzia linguistica,
per ritrovare, come è stato detto, la nativa vicinanza delle parole e
delle cose minacciata dalla concettualizzazione e dall’astrattezza. Da
qui la violenta polemica con Valéry. La sua indagine vuole restare
ancorata alla sfera mondana, e lo dimostrano sia il titolo della prima
raccolta ( Anti- Platone), sia l’intento di «restituire all’oggetto
terrestre la sua vocazione all’assoluto».
Come mi capitò di
notare, il suo universo lirico pare ridursi ad alcuni elementi
primordiali (pietra, fuoco, sangue, spada, vento, albero, schiuma,
acqua, ferro, terra, lampada, alba, uccello, riva, stella), “sostanze”
che formano un dettato chiuso e sigillato, spesso ermetico, benché
animato da misteriose, vivissime presenze. Possiamo dire insomma che la
sua scrittura, in versi o in prosa, abiti una dimensione fatta di enigmi
e presagi, come si legge in uno dei suoi capolavori, L’Arrière- Pays
(1972), ossia L’entroterra, uscito da Donzelli nel 2004. Quando una
strada si leva, scoprendo in lontananza altri percorsi nelle pietre;
quando il treno si infila in una stretta valle, all’imbrunire, passando
davanti a certe abitazioni dove per caso si accende una finestra; quando
la nave segue da vicino una costa, mentre il sole ha un bagliore su un
vetro distante; quando il mistero tocca per un attimo cose umili quali
uno specchio consunto, un cucchiaino di stagno, un giardino scorto
attraverso una siepe — ebbene, quando ciò accade, allora la realtà
sembra dischiudersi e divaricarsi come a un bivio. Che nome hanno quei
villaggi laggiù? Perché sta ardendo un fuoco su quella terrazza? Chi è
che ci fa segno? A chi è rivolto quel saluto?
Epifanie,
apparizioni, presentimenti, costituiscono un tratto inconfondibile della
sua ricerca, e a partire da questa idea di soglia della percezione,
Jean Starobinski ha individuato il sussistere di un atteggiamento
gnostico, rimpianto di una perdita originaria: «In simili occasioni, è
rapida in me una particolarissima emozione. Credo di essere vicino, mi
sento chiamato alla vigilanza. Basta un cenno perché l’essere e la sua
luce si divida, e io mi senta in esilio». Ecco, Bonnefoy ci ha lasciato,
ma lasciandoci un inesausto desiderio di senso e insieme di fratellanza
verso il Creato.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 2 luglio 2016
Corriere 2.7.16
Addio a Yves Bonnefoy il poeta che doveva diventare capocantiere
di Stefano Montefiori
PARIGI Yves Bonnefoy ha concluso a 93 anni la sua vita di poeta, ieri a Parigi, poche settimane dopo avere pubblicato un importante saggio autobiografico — lui così schivo — che indagava sugli inizi della sua vocazione. Nell’ Echarpe rouge ( La sciarpa rossa , edito come sempre da Mercure de France), il più grande poeta francese contemporaneo evoca l’infanzia e la sua relazione con i genitori, con la madre maestra ma soprattutto con il padre operaio, che sognava per il figlio un avvenire da capocantiere.
Bonnefoy racconta di un padre silenzioso fino al mutismo, sopraffatto dalle incombenze quotidiane, possessore di un unico libro — sulle locomotive —, un uomo che non rideva, non scherzava, non parlava. «Non aveva vissuto abbastanza infanzia per comprendere che cosa potesse succedere nella mia», scrive il poeta con affetto, dispiacere, mai rivalsa.
L’incapacità paterna di comunicare con le parole spinse il Bonnefoy bambino a interessarsi a quella realtà così misteriosa ed esotica, la poesia, ma con un senso di colpa che non lo abbandonerà mai: più leggeva e scriveva, più imparava a giocare e a destreggiarsi con le parole, più il fossato con il padre si approfondiva, fino al rimorso finale di avere compreso solo tardi che «il silenzio è la risorsa di coloro che riconoscono nobiltà al linguaggio».
Nato a Tours il 24 giugno 1923, Bonnefoy ha studiato matematica al liceo di Tours e all’università di Poitiers prima di trasferirsi a Parigi nel 1943 e consacrarsi alla poesia. Dopo un iniziale periodo di interesse per il surrealismo, se ne distaccò rifiutandosi di firmare nel 1957 il manifesto dell’Eposizione universale del surrealismo. Negli anni Cinquanta i viaggi in Italia, e nel 1953 la pubblicazione della sua raccolta di esordio, Movimento e immobilità di Douve , accolta da un grande successo di critica. Seguiranno Ieri deserto regnante , Pietra scritta fino all’opera forse più conosciuta, La vita errante edita nel 1993.
La fascinazione di Bonnefoy per le parole si espresse anche nell’interesse per la traduzione, in particolare delle opere di William Shakespeare, ma anche della poesia di W. B. Yeats, John Keats, Giacomo Leopardi e Francesco Petrarca. A partire dal 1960 Bonnefoy ha regolarmente tenuto lezioni all’estero, dalla City University di New York a Yale, dal Williams College all’università di Ginevra.
Nell’introduzione al libro Il digamma (edito da Es nel 2015), il suo traduttore italiano Fabio Scotto scrive: «Con La vita errante trova sempre maggior spazio, nelle raccolte dette poetiche, la prosa (...).
La produzione di Bonnefoy in prosa è quantitativamente più cospicua del lavoro squisitamente poetico, a significare, nel segno della migliore tradizione francese che, da Nerval a Baudelaire, attraverso Rimbaud e Baudelaire, ha progressivamente sottratto al verso l’esclusività dell’espressione poetica, come la poesia sia ovunque, nella letteratura come nell’arte, nell’architettura come nella musica, quando l’essere si rivela nella sua più autentica presenza. Ecco perché ogni scritto di Bonnefoy ha un tasso di poeticità altissimo». Bonnefoy riconosceva anche dal punto di vista teorico l’importanza dell’infanzia «che non finisce», e la sua connessione intima con le poesia.
«La poesia è associabile all’infanzia e anche ai primi momenti di vita in un modo assolutamente essenziale — spiegò una volta in un’intervista a Rodica Draghincescu —, perché? Perché verso i sette o otto anni la cristallizzazione delle grandi articolazioni concettuali del nostro rapporto al mondo sostituisce all’esperienza aperta e diretta degli esseri e delle cose che predominava nel bambino, una rappresentazione di un gran numero di loro aspetti che sarà ormai astratta, e dunque parziale, tanto che non si potrà più restare con loro nell’intimità di prima, con le cose e gli esseri non si avrà più quel rapporto immediato che ne faceva delle presenze piene, fossero esse amichevoli o nemiche.
È di questa presenza — così intensamente vissuta, in quegli "anni profondi", che talvolta se ne provava angoscia — che la poesia si ricorderà più in là nella vita, con nostalgia. E la poesia avrà allora il desiderio di farla rivivere, è questo rapporto al mondo perduto che la poesia cercherà di ricreare con i suoi propri mezzi. Ecco perché si può dunque ben dire che la poesia è infantile».
Un tema, quello dell’infanzia, che Yves Bonnefoy ha ripreso nell’altro libro uscito settimane fa assieme a L’Echarpe rouge , ovvero Ensemble encore , una raccolta di poesie in gran parte mai pubblicate.
La morte lo ha colto mentre stava preparando l’edizione della sua opera completa nella collana Pléiade di Gallimard.
Addio a Yves Bonnefoy il poeta che doveva diventare capocantiere
di Stefano Montefiori
PARIGI Yves Bonnefoy ha concluso a 93 anni la sua vita di poeta, ieri a Parigi, poche settimane dopo avere pubblicato un importante saggio autobiografico — lui così schivo — che indagava sugli inizi della sua vocazione. Nell’ Echarpe rouge ( La sciarpa rossa , edito come sempre da Mercure de France), il più grande poeta francese contemporaneo evoca l’infanzia e la sua relazione con i genitori, con la madre maestra ma soprattutto con il padre operaio, che sognava per il figlio un avvenire da capocantiere.
Bonnefoy racconta di un padre silenzioso fino al mutismo, sopraffatto dalle incombenze quotidiane, possessore di un unico libro — sulle locomotive —, un uomo che non rideva, non scherzava, non parlava. «Non aveva vissuto abbastanza infanzia per comprendere che cosa potesse succedere nella mia», scrive il poeta con affetto, dispiacere, mai rivalsa.
L’incapacità paterna di comunicare con le parole spinse il Bonnefoy bambino a interessarsi a quella realtà così misteriosa ed esotica, la poesia, ma con un senso di colpa che non lo abbandonerà mai: più leggeva e scriveva, più imparava a giocare e a destreggiarsi con le parole, più il fossato con il padre si approfondiva, fino al rimorso finale di avere compreso solo tardi che «il silenzio è la risorsa di coloro che riconoscono nobiltà al linguaggio».
Nato a Tours il 24 giugno 1923, Bonnefoy ha studiato matematica al liceo di Tours e all’università di Poitiers prima di trasferirsi a Parigi nel 1943 e consacrarsi alla poesia. Dopo un iniziale periodo di interesse per il surrealismo, se ne distaccò rifiutandosi di firmare nel 1957 il manifesto dell’Eposizione universale del surrealismo. Negli anni Cinquanta i viaggi in Italia, e nel 1953 la pubblicazione della sua raccolta di esordio, Movimento e immobilità di Douve , accolta da un grande successo di critica. Seguiranno Ieri deserto regnante , Pietra scritta fino all’opera forse più conosciuta, La vita errante edita nel 1993.
La fascinazione di Bonnefoy per le parole si espresse anche nell’interesse per la traduzione, in particolare delle opere di William Shakespeare, ma anche della poesia di W. B. Yeats, John Keats, Giacomo Leopardi e Francesco Petrarca. A partire dal 1960 Bonnefoy ha regolarmente tenuto lezioni all’estero, dalla City University di New York a Yale, dal Williams College all’università di Ginevra.
Nell’introduzione al libro Il digamma (edito da Es nel 2015), il suo traduttore italiano Fabio Scotto scrive: «Con La vita errante trova sempre maggior spazio, nelle raccolte dette poetiche, la prosa (...).
La produzione di Bonnefoy in prosa è quantitativamente più cospicua del lavoro squisitamente poetico, a significare, nel segno della migliore tradizione francese che, da Nerval a Baudelaire, attraverso Rimbaud e Baudelaire, ha progressivamente sottratto al verso l’esclusività dell’espressione poetica, come la poesia sia ovunque, nella letteratura come nell’arte, nell’architettura come nella musica, quando l’essere si rivela nella sua più autentica presenza. Ecco perché ogni scritto di Bonnefoy ha un tasso di poeticità altissimo». Bonnefoy riconosceva anche dal punto di vista teorico l’importanza dell’infanzia «che non finisce», e la sua connessione intima con le poesia.
«La poesia è associabile all’infanzia e anche ai primi momenti di vita in un modo assolutamente essenziale — spiegò una volta in un’intervista a Rodica Draghincescu —, perché? Perché verso i sette o otto anni la cristallizzazione delle grandi articolazioni concettuali del nostro rapporto al mondo sostituisce all’esperienza aperta e diretta degli esseri e delle cose che predominava nel bambino, una rappresentazione di un gran numero di loro aspetti che sarà ormai astratta, e dunque parziale, tanto che non si potrà più restare con loro nell’intimità di prima, con le cose e gli esseri non si avrà più quel rapporto immediato che ne faceva delle presenze piene, fossero esse amichevoli o nemiche.
È di questa presenza — così intensamente vissuta, in quegli "anni profondi", che talvolta se ne provava angoscia — che la poesia si ricorderà più in là nella vita, con nostalgia. E la poesia avrà allora il desiderio di farla rivivere, è questo rapporto al mondo perduto che la poesia cercherà di ricreare con i suoi propri mezzi. Ecco perché si può dunque ben dire che la poesia è infantile».
Un tema, quello dell’infanzia, che Yves Bonnefoy ha ripreso nell’altro libro uscito settimane fa assieme a L’Echarpe rouge , ovvero Ensemble encore , una raccolta di poesie in gran parte mai pubblicate.
La morte lo ha colto mentre stava preparando l’edizione della sua opera completa nella collana Pléiade di Gallimard.
La Stampa TuttoLibri 2.7.16
Dio non si immagina: si può “vedere” solo nella Scrittura
L’iconoclastia dall’Islam all’Isis
Una lunga vicenda storica, fino ai nostri giorni, contrassegnati dagli attacchi terroristici
di Federico Vercellone
Nei drammi della contemporaneità ritroviamo spesso un passato che non passa e che va di volta in volta fatto riemergere per capire che cosa davvero stia capitando. Ce lo insegna questo bel libro di Maria Bettetini,
Distruggere il passato
il cui sottotitolo significativamente suona «L’iconoclastia dall’Islam all’Isis».
È innanzi tutto una ricostruzione affascinante e chiara della lunga lotta tra iconoduli e iconoclasti, tra amici e nemici delle immagini e del loro culto dall’antichità ebraica a oggi, e cioè sino alla nostra «civiltà dell’immagine». La quale eccita talora, come purtroppo ben sappiamo, gli istinti iconoclasti che si annidano aggressivi nel DNA del nostro passato. Il conflitto intorno alle immagini è quanto mai vivo come testimonia la sanguinosa catena di attacchi terroristici contro giornali, luoghi altamente simbolici come le Torri gemelle, siti monumentali. Questo dipende dal fatto che le immagini sono decisive nel definire la nostra identità sociale in toto, e non solo quella religiosa, più evidentemente generatrice di conflitti. Basti pensare alla loro influenza nella moda, nell’arte pubblica, in ambito politico e in infiniti altri contesti.
Nella lunga vicenda storica ricostruita da Bettetini si dipana una storia che ci riguarda inquietantemente da vicino. Questo dipende per larga parte da un paradosso che rende potenzialmente esplosiva in ogni momento la nostra cultura. Comunichiamo per lo più verbalmente, ma ci identifichiamo soprattutto grazie a immagini-guida. In altri termini, anche nello scambio culturale e simbolico, la ragione non coincide con il cuore, e argomentiamo con rigore ma non riusciamo a riconoscerci sino in fondo in quello che affermiamo su basi razionali. Le immagini sono assolutamente potenti nel veicolare identificazioni affettive coinvolgenti, che si tratti di figurazioni religiose o di bandiere di una nazione in guerra, o di tifare per la maglia una squadra di calcio.
In questo contesto conoscere la storia è quanto mai importante. Senza aver nozione della sua provenienza non potremmo riconoscere il nostro presente. Ed è dunque preziosa questa mappa di un viaggio immaginario disegnata da Maria Bettetini che ci conduce attraverso le ragioni profonde e contraddittorie dell’iconoclastia, a cominciare da quella ebraica. Si tratta di un’iconoclastia quasi assoluta, all’interno della quale fa spicco una grande eccezione, quella del meraviglioso Tempio di re Salomone sontuosamente adornato e rimpianto nei secoli dopo la sua distruzione. L’iconoclastia pervade, com’è noto, anche l’Islam (fatta eccezione per le miniature, vere e proprie testimonianze dello splendore del creato) a partire dallo stesso Maometto. Per l’Islam Dio è tutto nella Scrittura. Non vanno così le cose per il cristianesimo che lascia spazio all’interpretazione del testo sacro. Il mondo cristiano ha così una quanto mai travagliata relazione con le immagini che sembra risolversi provvisoriamente con il secondo Concilio di Nicea, svoltosi nel 787. In questo contesto la liceità delle immagini viene riconosciuta in quanto esse si limitano a richiamare un archetipo senza volerlo riprodurre.
Tutta questa vicenda getta luce sul presente nel quale, tra l’altro, una minoranza islamica infinitamente rozza e nutrita di fanatismo, lontana dalle sue origini autentiche, ha messo insieme la guerra terroristica contro gli infedeli con la distruzione di siti monumentali musulmani e non. Una parte minoritaria ma immensamente influente del mondo contemporaneo invaso dalle immagini resuscita violentemente l’ iconoclastia. L’orrore non si sottrae infine al paradosso: ogni gesto iconoclasta viene immensamente amplificato proprio grazie al grande sviluppo delle tecnologie dell’immagine.
Dio non si immagina: si può “vedere” solo nella Scrittura
L’iconoclastia dall’Islam all’Isis
Una lunga vicenda storica, fino ai nostri giorni, contrassegnati dagli attacchi terroristici
di Federico Vercellone
Nei drammi della contemporaneità ritroviamo spesso un passato che non passa e che va di volta in volta fatto riemergere per capire che cosa davvero stia capitando. Ce lo insegna questo bel libro di Maria Bettetini,
Distruggere il passato
il cui sottotitolo significativamente suona «L’iconoclastia dall’Islam all’Isis».
È innanzi tutto una ricostruzione affascinante e chiara della lunga lotta tra iconoduli e iconoclasti, tra amici e nemici delle immagini e del loro culto dall’antichità ebraica a oggi, e cioè sino alla nostra «civiltà dell’immagine». La quale eccita talora, come purtroppo ben sappiamo, gli istinti iconoclasti che si annidano aggressivi nel DNA del nostro passato. Il conflitto intorno alle immagini è quanto mai vivo come testimonia la sanguinosa catena di attacchi terroristici contro giornali, luoghi altamente simbolici come le Torri gemelle, siti monumentali. Questo dipende dal fatto che le immagini sono decisive nel definire la nostra identità sociale in toto, e non solo quella religiosa, più evidentemente generatrice di conflitti. Basti pensare alla loro influenza nella moda, nell’arte pubblica, in ambito politico e in infiniti altri contesti.
Nella lunga vicenda storica ricostruita da Bettetini si dipana una storia che ci riguarda inquietantemente da vicino. Questo dipende per larga parte da un paradosso che rende potenzialmente esplosiva in ogni momento la nostra cultura. Comunichiamo per lo più verbalmente, ma ci identifichiamo soprattutto grazie a immagini-guida. In altri termini, anche nello scambio culturale e simbolico, la ragione non coincide con il cuore, e argomentiamo con rigore ma non riusciamo a riconoscerci sino in fondo in quello che affermiamo su basi razionali. Le immagini sono assolutamente potenti nel veicolare identificazioni affettive coinvolgenti, che si tratti di figurazioni religiose o di bandiere di una nazione in guerra, o di tifare per la maglia una squadra di calcio.
In questo contesto conoscere la storia è quanto mai importante. Senza aver nozione della sua provenienza non potremmo riconoscere il nostro presente. Ed è dunque preziosa questa mappa di un viaggio immaginario disegnata da Maria Bettetini che ci conduce attraverso le ragioni profonde e contraddittorie dell’iconoclastia, a cominciare da quella ebraica. Si tratta di un’iconoclastia quasi assoluta, all’interno della quale fa spicco una grande eccezione, quella del meraviglioso Tempio di re Salomone sontuosamente adornato e rimpianto nei secoli dopo la sua distruzione. L’iconoclastia pervade, com’è noto, anche l’Islam (fatta eccezione per le miniature, vere e proprie testimonianze dello splendore del creato) a partire dallo stesso Maometto. Per l’Islam Dio è tutto nella Scrittura. Non vanno così le cose per il cristianesimo che lascia spazio all’interpretazione del testo sacro. Il mondo cristiano ha così una quanto mai travagliata relazione con le immagini che sembra risolversi provvisoriamente con il secondo Concilio di Nicea, svoltosi nel 787. In questo contesto la liceità delle immagini viene riconosciuta in quanto esse si limitano a richiamare un archetipo senza volerlo riprodurre.
Tutta questa vicenda getta luce sul presente nel quale, tra l’altro, una minoranza islamica infinitamente rozza e nutrita di fanatismo, lontana dalle sue origini autentiche, ha messo insieme la guerra terroristica contro gli infedeli con la distruzione di siti monumentali musulmani e non. Una parte minoritaria ma immensamente influente del mondo contemporaneo invaso dalle immagini resuscita violentemente l’ iconoclastia. L’orrore non si sottrae infine al paradosso: ogni gesto iconoclasta viene immensamente amplificato proprio grazie al grande sviluppo delle tecnologie dell’immagine.
La Stampa TuttoLibri 2.7.16
E l’uomo divenne predatore cacciando i suoi simili
Un viaggio nell’oscuro, indistinto mondo delle origini, regno della metamorfosi, quando anche l’invisibile era visibile
di Lorenzo Mondo
C’era un tempo in cui anche l’invisibile era visibile e i viventi erano sottoposti a una continua mutazione. Gli animali potevano essere uomini o dèi, demoni o antenati. E agli stessi uomini accadeva di assumere forme diverse e transitorie. Tutto l’universo appariva come il regno della metamorfosi. Su questo oscuro mondo delle origini indaga Roberto Calasso nel libro intitolato
Il Cacciatore Celeste
. La pratica della caccia rappresenta in effetti nei primordi un misterioso legame e un discrimine. All’inizio, non c’era un uomo che inseguiva un animale, in ciascuno dei due poteva nascondersi un altro essere. Fino a quando, nel corso dei millenni, si verificò l’evento capitale che nessuno è stato in grado di raccontare, il distacco dell’uomo dalle maglie dell’indistinto. Egli prese alcuni animali al suo servizio e si difese dai predatori imitando e potenziando, con l’ausilio di armi elementari, i loro comportamenti. Diventò così il più temibile tra gli animali da preda, tanto da accanirsi contro la sua stessa specie. Resiste tuttavia nel tempo la memoria di quella separazione, il senso di colpa per una ferita ancestrale: espresse nel rispetto e nella venerazione per l’animale ucciso. E’ un peccato originale di cui si serba traccia nei miti e viene esorcizzato nei riti delle più lontane culture, connettendosi alla percezione del divino che, per quanto separato e invisibile, impone la sua presenza. Calasso ci chiama allo stupore davanti alla pressochè universale «lettura» delle costellazioni: «Non sarà facile spiegare perchè nello stesso spicchio del cielo, non soltanto in Grecia ma in Persia, in Mesopotamia, in India, in Cina, in Australia e anche nel Suriname, per millenni si siano viste ogni volta le imprese di un Cacciatore Celeste che non ci si stanca di contemplare».
Colpisce a prima vista in questo libro la sbalorditiva cultura dell’autore che si muove a proprio agio tra le varie scienze dell’uomo, dall’antropologia alla filosofia, alla letteratura. Ed un lettore non sufficientemente provveduto deve procedere prendendo il giusto respiro; favorito in questo dallo stile adottato dall’autore. Che non ci dà una narrazione fluente, alla quale osterebbero le ombre e gli spazi bianchi di una materia sfuggente, e la stessa necessità di seguire l’affioramento delle analogie e delle metafore. Egli si comporta al modo degli antichi rapsodi, le cui storie, apparentemente discontinue, erano tenute insieme da da «uno stesso tessuto, solo in parte visibile, lacunoso e sfilacciato». Ne risulta una scrittura a frammenti o schegge che, per quanto meditativa, non si nega poetiche suggestioni. Dalle lontane origini il libro spazia verso altri mondi, registrando il lento svellersi dell’uomo dall’animale e il bersaglio sempre più raffinato della sua «caccia». La mitologia greca viene rivisitata in pagine di grande freschezza sulla scorta di Ovidio, che ne offre il più ampio repertorio: dove un superstite tremore sembra inchinarsi, modernamente, all’assoluto della letteratura. Siamo poi intrattenuti sul singolare culto degli animali, vivi e imbalsamati, nell’Egitto dei Faraoni e, con ardito trapasso, sulle speculazioni di Plotino (seguì la spedizione dell’imperatore Gordiano in Persia per acquistare una conoscenza diretta della religione e della filosofia iranica e indiana, ma nelle Enneadi si appagò di Platone, che aveva detto tutto, e doveva soltanto essere accompagnato, chiarito, nella sua ascesa all’ineffabile Uno).
Eleusi infine, con il suo intatto Mistero. L’iniziazione a questo culto, che rappresenta un unicum nella religione greca, sembra connessa con l’aspirazione alla sopravvivenza, in corpo e anima, dopo la morte. Quella garantita, nella sua letteralità, dalla religione cristiana. E’ il capitolo che chiude provvisoriamente, perfino casualmente, il percorso del Cacciatore Celeste, un libro caratterizzato dalla ricerca ininterrotta, affascinata, del numinoso.
E l’uomo divenne predatore cacciando i suoi simili
Un viaggio nell’oscuro, indistinto mondo delle origini, regno della metamorfosi, quando anche l’invisibile era visibile
di Lorenzo Mondo
C’era un tempo in cui anche l’invisibile era visibile e i viventi erano sottoposti a una continua mutazione. Gli animali potevano essere uomini o dèi, demoni o antenati. E agli stessi uomini accadeva di assumere forme diverse e transitorie. Tutto l’universo appariva come il regno della metamorfosi. Su questo oscuro mondo delle origini indaga Roberto Calasso nel libro intitolato
Il Cacciatore Celeste
. La pratica della caccia rappresenta in effetti nei primordi un misterioso legame e un discrimine. All’inizio, non c’era un uomo che inseguiva un animale, in ciascuno dei due poteva nascondersi un altro essere. Fino a quando, nel corso dei millenni, si verificò l’evento capitale che nessuno è stato in grado di raccontare, il distacco dell’uomo dalle maglie dell’indistinto. Egli prese alcuni animali al suo servizio e si difese dai predatori imitando e potenziando, con l’ausilio di armi elementari, i loro comportamenti. Diventò così il più temibile tra gli animali da preda, tanto da accanirsi contro la sua stessa specie. Resiste tuttavia nel tempo la memoria di quella separazione, il senso di colpa per una ferita ancestrale: espresse nel rispetto e nella venerazione per l’animale ucciso. E’ un peccato originale di cui si serba traccia nei miti e viene esorcizzato nei riti delle più lontane culture, connettendosi alla percezione del divino che, per quanto separato e invisibile, impone la sua presenza. Calasso ci chiama allo stupore davanti alla pressochè universale «lettura» delle costellazioni: «Non sarà facile spiegare perchè nello stesso spicchio del cielo, non soltanto in Grecia ma in Persia, in Mesopotamia, in India, in Cina, in Australia e anche nel Suriname, per millenni si siano viste ogni volta le imprese di un Cacciatore Celeste che non ci si stanca di contemplare».
Colpisce a prima vista in questo libro la sbalorditiva cultura dell’autore che si muove a proprio agio tra le varie scienze dell’uomo, dall’antropologia alla filosofia, alla letteratura. Ed un lettore non sufficientemente provveduto deve procedere prendendo il giusto respiro; favorito in questo dallo stile adottato dall’autore. Che non ci dà una narrazione fluente, alla quale osterebbero le ombre e gli spazi bianchi di una materia sfuggente, e la stessa necessità di seguire l’affioramento delle analogie e delle metafore. Egli si comporta al modo degli antichi rapsodi, le cui storie, apparentemente discontinue, erano tenute insieme da da «uno stesso tessuto, solo in parte visibile, lacunoso e sfilacciato». Ne risulta una scrittura a frammenti o schegge che, per quanto meditativa, non si nega poetiche suggestioni. Dalle lontane origini il libro spazia verso altri mondi, registrando il lento svellersi dell’uomo dall’animale e il bersaglio sempre più raffinato della sua «caccia». La mitologia greca viene rivisitata in pagine di grande freschezza sulla scorta di Ovidio, che ne offre il più ampio repertorio: dove un superstite tremore sembra inchinarsi, modernamente, all’assoluto della letteratura. Siamo poi intrattenuti sul singolare culto degli animali, vivi e imbalsamati, nell’Egitto dei Faraoni e, con ardito trapasso, sulle speculazioni di Plotino (seguì la spedizione dell’imperatore Gordiano in Persia per acquistare una conoscenza diretta della religione e della filosofia iranica e indiana, ma nelle Enneadi si appagò di Platone, che aveva detto tutto, e doveva soltanto essere accompagnato, chiarito, nella sua ascesa all’ineffabile Uno).
Eleusi infine, con il suo intatto Mistero. L’iniziazione a questo culto, che rappresenta un unicum nella religione greca, sembra connessa con l’aspirazione alla sopravvivenza, in corpo e anima, dopo la morte. Quella garantita, nella sua letteralità, dalla religione cristiana. E’ il capitolo che chiude provvisoriamente, perfino casualmente, il percorso del Cacciatore Celeste, un libro caratterizzato dalla ricerca ininterrotta, affascinata, del numinoso.
Repubblica 2.7.16
L’economista Piketty: la Brexit non è un voto contro la Ue ma contro l’immigrazione e i mercati che creano diseguaglianze
“Il capitalismo ha bisogno di regole per tornare al servizio della collettività”
di Anais Ginori
PARIGI. «Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità» spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.
La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
«Si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato ».
Quando?
«Nel primo ciclo della globalizzazione, tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali, fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta, siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta dell’Urss».
Non vede nessun segnale di autocritica?
«Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che cavalcheranno questi sentimenti».
Come Donald Trump o Marine Le Pen?
«Molti dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi del sistema capitalistico ».
Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
«Il quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società. Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la nascita di movimenti come Podemos o Syriza».
Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
«Pablo Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania».
Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
«Non avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi».
Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
«No, francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale».
Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
«Se l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani, allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua ad avere un atteggiamento insopportabile».
A quale atteggiamento si riferisce?
«Avere l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione. L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si ripete adesso».
L’economista Piketty: la Brexit non è un voto contro la Ue ma contro l’immigrazione e i mercati che creano diseguaglianze
“Il capitalismo ha bisogno di regole per tornare al servizio della collettività”
di Anais Ginori
PARIGI. «Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità» spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.
La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
«Si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato ».
Quando?
«Nel primo ciclo della globalizzazione, tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali, fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta, siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta dell’Urss».
Non vede nessun segnale di autocritica?
«Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che cavalcheranno questi sentimenti».
Come Donald Trump o Marine Le Pen?
«Molti dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi del sistema capitalistico ».
Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
«Il quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società. Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la nascita di movimenti come Podemos o Syriza».
Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
«Pablo Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania».
Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
«Non avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi».
Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
«No, francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale».
Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
«Se l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani, allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua ad avere un atteggiamento insopportabile».
A quale atteggiamento si riferisce?
«Avere l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione. L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si ripete adesso».
La Stampa 2.7.16
Ballottaggio annullato in Austria
Torna l’incubo populista per la Ue
La Corte costituzionale rivela irregolarità nel secondo turno delle presidenziali Nuova sfida in autunno fra Van der Bellen e il candidato dell’estrema destra Hofer
di Alessandro Alviani
Da ieri l’Austria si ritrova catapultata di nuovo in campagna elettorale. La Corte costituzionale ha annullato il ballottaggio del 22 maggio che si era concluso con la vittoria di Alexander Van der Bellen, il candidato indipendente (ma sostenuto dai Verdi) che aveva battuto per appena 30.863 voti lo sfidante del partito della destra populista Fpö, Norbert Hofer. I giudici hanno accolto il ricorso presentato dalla Fpö, che aveva denunciato irregolarità nelle operazioni di scrutinio in 94 dei 117 distretti elettorali. E così l’8 luglio, giorno in cui era previsto il giuramento di Van der Bellen, sarà Hofer a ritrovarsi presidente - ad interim e non da solo: con la scadenza del mandato di Heinz Fischer, infatti, le funzioni del capo dello Stato saranno svolte fino all’autunno da un collegio composto dalla presidente del parlamento austriaco, Doris Bures, e dai suoi due vice Karlheinz Kopf e Norbert Hofer.
La Corte non ha individuato manipolazioni, ma, dopo aver ascoltato 90 testimoni, ha stabilito che durante lo spoglio delle schede rispedite per posta si sono verificate irregolarità tali da poter influenzare il voto. Le schede, ad esempio, sono state aperte in anticipo rispetto all’inizio dello scrutinio o sono state conteggiate senza che fosse presente l’intera commissione elettorale. Tali irregolarità si sono verificate in 14 dei 20 distretti esaminati dalla corte e riguardano 77.926 schede – molte di più, quindi, di quelle che erano bastate a Van der Bellen per vincere. Il voto per corrispondenza si era rivelato decisivo per ribaltare il risultato del primo turno e assegnare la vittoria all’ex professore di economia, che si era imposto col 50,3% dei voti, contro il 49,7% di Hofer.
I giudici hanno inoltre criticato la pratica del ministero degli Interni di inviare a media e istituti di ricerca, a urne aperte, i risultati parziali del conteggio: così si rischia che i dati diventino pubblici tramite i social media e venga influenzato il voto.
Il ballottaggio andrà ripetuto. «Se ce l’ho fatta una volta, ce la posso fare anche una seconda», ha commentato Van der Bellen. «Sono deciso a vincere», ha replicato Hofer. Le reazioni della sua base sono inequivocabili. «Giustizia è fatta», «Chi l’avrebbe detto che c’è ancora giustizia nel nostro Paese?» sono i commenti pubblicati sulla pagina Facebook del leader della Fpö, Heinz-Christian Strache, che aveva impugnato il voto con un ricorso.
Resta da capire in che misura Brexit influenzerà il voto. Nei giorni scorsi Hofer, che potrebbe diventare il primo presidente espresso dalla destra populista in Europa, ha spiegato che, se l’Unione non cambierà rotta, anche l’Austria dovrà organizzare un referendum sulla sua permanenza nella Ue.
La nuova elezione dovrebbe svolgersi tra settembre e ottobre. E stavolta il ministro degli Interni sta pensando di inviare osservatori dell’Ocse nei distretti in cui ci sono state irregolarità.
Ballottaggio annullato in Austria
Torna l’incubo populista per la Ue
La Corte costituzionale rivela irregolarità nel secondo turno delle presidenziali Nuova sfida in autunno fra Van der Bellen e il candidato dell’estrema destra Hofer
di Alessandro Alviani
Da ieri l’Austria si ritrova catapultata di nuovo in campagna elettorale. La Corte costituzionale ha annullato il ballottaggio del 22 maggio che si era concluso con la vittoria di Alexander Van der Bellen, il candidato indipendente (ma sostenuto dai Verdi) che aveva battuto per appena 30.863 voti lo sfidante del partito della destra populista Fpö, Norbert Hofer. I giudici hanno accolto il ricorso presentato dalla Fpö, che aveva denunciato irregolarità nelle operazioni di scrutinio in 94 dei 117 distretti elettorali. E così l’8 luglio, giorno in cui era previsto il giuramento di Van der Bellen, sarà Hofer a ritrovarsi presidente - ad interim e non da solo: con la scadenza del mandato di Heinz Fischer, infatti, le funzioni del capo dello Stato saranno svolte fino all’autunno da un collegio composto dalla presidente del parlamento austriaco, Doris Bures, e dai suoi due vice Karlheinz Kopf e Norbert Hofer.
La Corte non ha individuato manipolazioni, ma, dopo aver ascoltato 90 testimoni, ha stabilito che durante lo spoglio delle schede rispedite per posta si sono verificate irregolarità tali da poter influenzare il voto. Le schede, ad esempio, sono state aperte in anticipo rispetto all’inizio dello scrutinio o sono state conteggiate senza che fosse presente l’intera commissione elettorale. Tali irregolarità si sono verificate in 14 dei 20 distretti esaminati dalla corte e riguardano 77.926 schede – molte di più, quindi, di quelle che erano bastate a Van der Bellen per vincere. Il voto per corrispondenza si era rivelato decisivo per ribaltare il risultato del primo turno e assegnare la vittoria all’ex professore di economia, che si era imposto col 50,3% dei voti, contro il 49,7% di Hofer.
I giudici hanno inoltre criticato la pratica del ministero degli Interni di inviare a media e istituti di ricerca, a urne aperte, i risultati parziali del conteggio: così si rischia che i dati diventino pubblici tramite i social media e venga influenzato il voto.
Il ballottaggio andrà ripetuto. «Se ce l’ho fatta una volta, ce la posso fare anche una seconda», ha commentato Van der Bellen. «Sono deciso a vincere», ha replicato Hofer. Le reazioni della sua base sono inequivocabili. «Giustizia è fatta», «Chi l’avrebbe detto che c’è ancora giustizia nel nostro Paese?» sono i commenti pubblicati sulla pagina Facebook del leader della Fpö, Heinz-Christian Strache, che aveva impugnato il voto con un ricorso.
Resta da capire in che misura Brexit influenzerà il voto. Nei giorni scorsi Hofer, che potrebbe diventare il primo presidente espresso dalla destra populista in Europa, ha spiegato che, se l’Unione non cambierà rotta, anche l’Austria dovrà organizzare un referendum sulla sua permanenza nella Ue.
La nuova elezione dovrebbe svolgersi tra settembre e ottobre. E stavolta il ministro degli Interni sta pensando di inviare osservatori dell’Ocse nei distretti in cui ci sono state irregolarità.
La Stampa 2.7.16
Ora Praga vuole imitare Londra
“Referendum per uscire dall’Unione”
Il presidente Zeman: “Decideranno i cittadini”. Il premier Sobotka frena Dall’Olanda a Francia e Germania le elezioni del 2017 spaventano Bruxelles
di Marco Zatterin
Confusione. Mentre incontra gli abitanti di Velke Mezirici, cittadina da 11 mila anime nella regione di Vysocina, il presidente della Repubblica ceca, Milos Zeman, promette che farà «tutto il possibile perché chi è in favore dell’uscita dall’Ue possa avere un referendum e sia in grado di esprimersi». Certo, precisa, lui non è d’accordo con la fuga dall’Europa, eppure le sue parole bastano a dare un nuovo brivido al patto delle dodici stelle che già naviga nel mare dell’insicurezza gonfiato da Brexit e ora agitato anche dal ballottaggio austriaco da rifare. Così è costretto a intervenire da Praga il premier Sobotka, per precisare che non c’è intenzione di indire una consultazione sulla permanenza nell’Unione o nella Nato. Polemica chiusa. Forse.
Il caso esplode nell’esatta ora in cui, a Bratislava, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e il premier slovacco, Robert Fico, stano tenendo una conferenza stampa in cui cercano di ricucire almeno in apparenza i dissidi fra i nuovi e vecchi soci dell’Unione, fra i fautori di una più stretta integrazione e quelli che, se va bene, accetterebbero un poco di manutenzione allo status quo. Dal 23 giugno l’Europa non è più la stessa e il lussemburghese invita a non «aggiungere incertezza all’incertezza». Il voto britannico alimenta il virus della paralisi. Le interferenze sono tali che la stampa tedesca versa piombo per chiedersi se Juncker andrà o no al vertice della Brexit di settembre, come se fosse il problema centrale.
L’Europa è assediata. Dal populismo che avanza, come dall’ondata di voti e consultazioni popolari che affollano il calendario. «Il referendum è diventato per la democrazia quello che la pornografia è per il sesso», prova a scherzare una fonte diplomatica. C’è poco da ridere. Di qui a dodici mesi, salvo svolte serie, l’Ue si ritroverà con le ossa un poco più rotte a ogni spoglio ultimato.
Apre la lista delle incognite il ballottaggio austriaco, vinto di un soffio dai moderati sulla destra radicale, e ora da rifare. Johannes Hahn, viennese e commissario Ue all’allargamento, assicura di non essere preoccupato perché «probabilmente il risultato sarà confermato». I funzionari europei si chiedono se gli effetti della Brexit convinceranno gli elettori a mantenersi sul centrosinistra o inciteranno i più arrabbiati che Londra è un buon esempio. Il rischio è alto. Un paese dell’Eurozona nelle mani di un partito scettico è una contraddizione.
Non poteva capitare in un momento peggiore. Brexit ha scosso il tempio europeo dalle fondamenta. In ottobre si tiene in Ungheria il referendum voluto dal populista-popolare Viktor Orban sulle quote di riallocazione obbligatoria dei rifugiati, indetto per dare uno schiaffo alla Commissione e al Consiglio. Bloccherebbe il piano e l’agenda migranti, per la gioia del quartetto dei Paesi di Visegrad, a partire dallo slovacco-presidente di turno Fico.
Quasi contemporaneamente arriva il referendum sulle riforme italiane, che non è legato a Bruxelles, però rischia di diventare un sondaggio su Matteo Renzi, con le politiche europee destinate a orientare consensi e dissensi. Nel marzo 2017 si vota in Olanda, dove l’antislamico Wilders potrebbe conquistare la maggioranza relativa dei suffragi. Il primo passo dopo il trionfo (improbabile) sarebbe un referendum anti-Ue. Lo stesso discorso porta a maggio e alle presidenziale francesi. Anche qui la cittadina Le Pen vuole far esprimere il popolo su Bruxelles. In autunno, voto insidioso in Germania, con Merkel in pericolo. La combinazione dei peggiori scenari potrebbe mettere democraticamente fuori dalla storia. «Come il sesso con la pornografia», direbbe con facile probabilità di essere contestato il diplomatico europeo che non ama i referendum.
Ora Praga vuole imitare Londra
“Referendum per uscire dall’Unione”
Il presidente Zeman: “Decideranno i cittadini”. Il premier Sobotka frena Dall’Olanda a Francia e Germania le elezioni del 2017 spaventano Bruxelles
di Marco Zatterin
Confusione. Mentre incontra gli abitanti di Velke Mezirici, cittadina da 11 mila anime nella regione di Vysocina, il presidente della Repubblica ceca, Milos Zeman, promette che farà «tutto il possibile perché chi è in favore dell’uscita dall’Ue possa avere un referendum e sia in grado di esprimersi». Certo, precisa, lui non è d’accordo con la fuga dall’Europa, eppure le sue parole bastano a dare un nuovo brivido al patto delle dodici stelle che già naviga nel mare dell’insicurezza gonfiato da Brexit e ora agitato anche dal ballottaggio austriaco da rifare. Così è costretto a intervenire da Praga il premier Sobotka, per precisare che non c’è intenzione di indire una consultazione sulla permanenza nell’Unione o nella Nato. Polemica chiusa. Forse.
Il caso esplode nell’esatta ora in cui, a Bratislava, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e il premier slovacco, Robert Fico, stano tenendo una conferenza stampa in cui cercano di ricucire almeno in apparenza i dissidi fra i nuovi e vecchi soci dell’Unione, fra i fautori di una più stretta integrazione e quelli che, se va bene, accetterebbero un poco di manutenzione allo status quo. Dal 23 giugno l’Europa non è più la stessa e il lussemburghese invita a non «aggiungere incertezza all’incertezza». Il voto britannico alimenta il virus della paralisi. Le interferenze sono tali che la stampa tedesca versa piombo per chiedersi se Juncker andrà o no al vertice della Brexit di settembre, come se fosse il problema centrale.
L’Europa è assediata. Dal populismo che avanza, come dall’ondata di voti e consultazioni popolari che affollano il calendario. «Il referendum è diventato per la democrazia quello che la pornografia è per il sesso», prova a scherzare una fonte diplomatica. C’è poco da ridere. Di qui a dodici mesi, salvo svolte serie, l’Ue si ritroverà con le ossa un poco più rotte a ogni spoglio ultimato.
Apre la lista delle incognite il ballottaggio austriaco, vinto di un soffio dai moderati sulla destra radicale, e ora da rifare. Johannes Hahn, viennese e commissario Ue all’allargamento, assicura di non essere preoccupato perché «probabilmente il risultato sarà confermato». I funzionari europei si chiedono se gli effetti della Brexit convinceranno gli elettori a mantenersi sul centrosinistra o inciteranno i più arrabbiati che Londra è un buon esempio. Il rischio è alto. Un paese dell’Eurozona nelle mani di un partito scettico è una contraddizione.
Non poteva capitare in un momento peggiore. Brexit ha scosso il tempio europeo dalle fondamenta. In ottobre si tiene in Ungheria il referendum voluto dal populista-popolare Viktor Orban sulle quote di riallocazione obbligatoria dei rifugiati, indetto per dare uno schiaffo alla Commissione e al Consiglio. Bloccherebbe il piano e l’agenda migranti, per la gioia del quartetto dei Paesi di Visegrad, a partire dallo slovacco-presidente di turno Fico.
Quasi contemporaneamente arriva il referendum sulle riforme italiane, che non è legato a Bruxelles, però rischia di diventare un sondaggio su Matteo Renzi, con le politiche europee destinate a orientare consensi e dissensi. Nel marzo 2017 si vota in Olanda, dove l’antislamico Wilders potrebbe conquistare la maggioranza relativa dei suffragi. Il primo passo dopo il trionfo (improbabile) sarebbe un referendum anti-Ue. Lo stesso discorso porta a maggio e alle presidenziale francesi. Anche qui la cittadina Le Pen vuole far esprimere il popolo su Bruxelles. In autunno, voto insidioso in Germania, con Merkel in pericolo. La combinazione dei peggiori scenari potrebbe mettere democraticamente fuori dalla storia. «Come il sesso con la pornografia», direbbe con facile probabilità di essere contestato il diplomatico europeo che non ama i referendum.
Corriere 2.7.16
Guntram Wolff, economista, è il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori di cose europee:
«Attenzione, c’è il rigetto di tutto l’establishment politico»
Prima la Brexit, poi l’annuncio del secondo voto in Austria, subito dopo l’estate. Che cosa rischia l’Unione Europea?
intervista di Luigi Offeddu
«In molti Paesi c’è una sensazione generale: il rigetto di ogni establishment politico. E questa è una minaccia presente non solo in Europa, ma in tutto il mondo occidentale, anche negli Usa con la possibile vittoria di Donald Trump».
Guntram Wolff, economista, è il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori di cose europee: l’Ecofin o i Parlamenti tedesco, inglese e francese come quello Ue lo chiamano spesso per ascoltare i suoi pareri.
Come può reagire l’Ue a questa minaccia?
«Deve dimostrare i suoi valori, e questo non può essere fatto soltanto con fatti economici. L’Ue deve mostrare che sa affrontare meglio problemi concreti e attuali come l’immigrazione, il controllo delle frontiere, la disoccupazione, i fondi europei. Deve raggiungere il cuore della gente, saperle parlare. Ci vuole più leadership, ci vuole una miglior comunicazione».
E sul piano economico?
«È necessario subito uno stimolo agli investimenti pubblici, pari all’1-2% del Pil nel Nord Europa, per esempio in Germania, Francia, Olanda. E allo 0,5-1% al Sud, per esempio in Italia».
A proposito dell’Italia, che cosa può o deve fare a sua volta?
«Qualcosa di assolutamente imperativo: risolvere i suoi problemi nel sistema delle banche, ripulirlo. Pena conseguenze negative per l’economia, o l’occupazione. Poi, il problema fondamentale da 20 anni, quello della crescita: il sistema dei salari non è adattato allo sviluppo della produttività. Ma se non si risolvono i problemi della corruzione e del crimine organizzato, specie al Sud, laggiù il problema resterà».
Torniamo all’Ue. Per qualcuno quest’ultima è una sfida più grande di quella portata dalla caduta del Muro…
«Forse. Una cosa è certa: la crisi del 2008, la cui minaccia immediata è stata superata, colpì l’establishment economico; questa volta, come si diceva, c’è il rigetto di quello politico… Eppure, razionalmente l’Ue è una parte della soluzione del problema: per esempio, se non ci fosse l’Ue, l’immigrazione verrebbe affrontata meglio? Io non credo proprio, tutto sarebbe anzi più difficile».
Questa crisi ci ha insegnato comunque qualcosa, ci sono dei casi esemplari da tener presenti, in positivo o in negativo?
«Certo. Guardiamo per esempio alla Gran Bretagna: le regioni che pochi giorni fa più hanno sostenuto la scelta della Brexit, l’addio all’Unione, sono state quelle colpite economicamente per vent’anni dal declino industriale. Mentre in Germania la Ruhr, regione delle miniere e dell’acciaio che da ragazzo io ricordo anch’essa colpita da una pesante crisi, si è reinventata: lo ha fatto con la cultura, con le industrie creative, e oggi possiamo dire che è una regione relativamente a posto».
Guntram Wolff, economista, è il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori di cose europee:
«Attenzione, c’è il rigetto di tutto l’establishment politico»
Prima la Brexit, poi l’annuncio del secondo voto in Austria, subito dopo l’estate. Che cosa rischia l’Unione Europea?
intervista di Luigi Offeddu
«In molti Paesi c’è una sensazione generale: il rigetto di ogni establishment politico. E questa è una minaccia presente non solo in Europa, ma in tutto il mondo occidentale, anche negli Usa con la possibile vittoria di Donald Trump».
Guntram Wolff, economista, è il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori di cose europee: l’Ecofin o i Parlamenti tedesco, inglese e francese come quello Ue lo chiamano spesso per ascoltare i suoi pareri.
Come può reagire l’Ue a questa minaccia?
«Deve dimostrare i suoi valori, e questo non può essere fatto soltanto con fatti economici. L’Ue deve mostrare che sa affrontare meglio problemi concreti e attuali come l’immigrazione, il controllo delle frontiere, la disoccupazione, i fondi europei. Deve raggiungere il cuore della gente, saperle parlare. Ci vuole più leadership, ci vuole una miglior comunicazione».
E sul piano economico?
«È necessario subito uno stimolo agli investimenti pubblici, pari all’1-2% del Pil nel Nord Europa, per esempio in Germania, Francia, Olanda. E allo 0,5-1% al Sud, per esempio in Italia».
A proposito dell’Italia, che cosa può o deve fare a sua volta?
«Qualcosa di assolutamente imperativo: risolvere i suoi problemi nel sistema delle banche, ripulirlo. Pena conseguenze negative per l’economia, o l’occupazione. Poi, il problema fondamentale da 20 anni, quello della crescita: il sistema dei salari non è adattato allo sviluppo della produttività. Ma se non si risolvono i problemi della corruzione e del crimine organizzato, specie al Sud, laggiù il problema resterà».
Torniamo all’Ue. Per qualcuno quest’ultima è una sfida più grande di quella portata dalla caduta del Muro…
«Forse. Una cosa è certa: la crisi del 2008, la cui minaccia immediata è stata superata, colpì l’establishment economico; questa volta, come si diceva, c’è il rigetto di quello politico… Eppure, razionalmente l’Ue è una parte della soluzione del problema: per esempio, se non ci fosse l’Ue, l’immigrazione verrebbe affrontata meglio? Io non credo proprio, tutto sarebbe anzi più difficile».
Questa crisi ci ha insegnato comunque qualcosa, ci sono dei casi esemplari da tener presenti, in positivo o in negativo?
«Certo. Guardiamo per esempio alla Gran Bretagna: le regioni che pochi giorni fa più hanno sostenuto la scelta della Brexit, l’addio all’Unione, sono state quelle colpite economicamente per vent’anni dal declino industriale. Mentre in Germania la Ruhr, regione delle miniere e dell’acciaio che da ragazzo io ricordo anch’essa colpita da una pesante crisi, si è reinventata: lo ha fatto con la cultura, con le industrie creative, e oggi possiamo dire che è una regione relativamente a posto».
Corriere 2.7.16
Voto nullo, Vienna torna alle urne Ora la destra «vede» la presidenza
A maggio aveva vinto di un soffio il candidato dei Verdi Van der Bellen: tutto da rifare
La Fpö riproverà a diventare il primo movimento radicale a esprimere un presidente Ue
di Danilo Taino
VIENNA Rumori di referendum sulla Ue anche in Austria. Ieri, la Corte Costituzionale ha annullato il secondo turno delle elezioni presidenziali dello scorso 22 maggio — vinte per pochi voti dal Verde Alexander Van der Bellen sul nazionalista Norbert Hofer. Si dovranno ripetere a settembre o a ottobre: ciò lancia il Paese in una nuova campagna elettorale che si giocherà in gran parte sulla necessità o meno di seguire la Gran Bretagna fuori dall’Unione. «La questione del momento è la Brexit, lo sarà anche in autunno», ha detto Van der Bellen.
La Corte costituzionale ha giudicato un ricorso presentato da Heinz-Christian Strake, il leader del Partito della Libertà (Fpö), la formazione di destra radicale che ha condotto una campagna presidenziale su una piattaforma anti-immigrati, ha vinto il primo turno elettorale e ha sfiorato la maggioranza al ballottaggio.
La conta finale dei voti, il 22 e 23 maggio era in effetti stata curiosa. La sera del voto, dopo lo scrutinio delle preferenze espresse ai seggi, in testa era risultato il candidato dell’ Fpö, Hofer. Subito, però, i sondaggisti dicevano che i voti inviati per posta, non ancora in teoria scrutinati, avrebbero ribaltato la situazione. La mattina dopo, infatti, venivano contate le 740 mila schede postali e Van der Bellen sorpassava l’avversario per vincere con un margine di un po’ meno di 31 mila voti (50,3% a 49,7%).
La stranezza del processo e il sorpasso annunciato quando le lettere di voto in teoria erano chiuse insospettiva l’ Fpö, che svolgeva indagini e faceva ricorso alla Corte, sostenendo che in 94 dei 117 distretti elettorali si erano registrate irregolarità. Soprattutto, i voti inviati per posta erano spesso stati scrutinati in anticipo sui tempi previsti e senza la presenza dei funzionari della Commissione elettorale.
I giudici della Corte hanno così svolto un’indagine, sentito 90 testimoni e ieri hanno spiegato di non avere trovato prove di manipolazioni ma di avere stabilito che irregolarità erano in effetti avvenute e coinvolgevano 78 mila voti, più del doppio del margine di vittoria di Van der Bellen.
Tanto bastava loro per decidere di annullare il risultato e stabilire che il ballottaggio va ripetuto. Ricontare le schede è stato ritenuto non sufficiente per affermare un corretto funzionamento della democrazia. Van der Bellen, che avrebbe dovuto insediarsi l’8 luglio, dovrà dunque rigiocare la sfida a due. Nel frattempo, la presidenza a interim sarà tenuta da una troika parlamentare della quale — coincidenza — fa parte Hofer: dice che non ne approfitterà; certo, però, occuperà una posizione che nei prossimi tre mesi gli darà una statura non ancora guadagnata.
Ora, il Partito della Libertà, che aveva fatto onde alte sfiorando la presidenza, avrà una seconda chance per essere il primo movimento di destra radicale a esprimere un presidente in un Paese della Ue. Ma in una situazione europea ben diversa da quella del maggio scorso. Oggi, era del post-Brexit, può influire in misura non indifferente sul futuro europeo.
Domenica scorsa, Hofer ha sostenuto che se tra un anno la Ue non avrà cambiato pelle e non sarà diventata meno centralizzata e meno politica, l’Austria dovrà tenere un suo referendum sul rimanere o meno. Da presidente, se in autunno venisse eletto, non potrebbe convocare il referendum, ma avrebbe una notevole influenza su un parlamento e su un quadro politico in pieno disorientamento.
Il fatto è che un referendum in Austria, Paese che a differenza del Regno Unito fa parte dell’Eurozona, metterebbe la moneta unica sotto pressioni fortissime. Al momento, questo scenario è lontano, non probabile: gli austriaci non vogliono uscire dalla Ue, quindi l’Fpö dovrà essere prudente. La situazione austriaca, però, conferma che l’Europa è entrata in quelle fasi in cui ogni crisi ha un effetto moltiplicatore che ne crea altre.
Danilo Taino
Voto nullo, Vienna torna alle urne Ora la destra «vede» la presidenza
A maggio aveva vinto di un soffio il candidato dei Verdi Van der Bellen: tutto da rifare
La Fpö riproverà a diventare il primo movimento radicale a esprimere un presidente Ue
di Danilo Taino
VIENNA Rumori di referendum sulla Ue anche in Austria. Ieri, la Corte Costituzionale ha annullato il secondo turno delle elezioni presidenziali dello scorso 22 maggio — vinte per pochi voti dal Verde Alexander Van der Bellen sul nazionalista Norbert Hofer. Si dovranno ripetere a settembre o a ottobre: ciò lancia il Paese in una nuova campagna elettorale che si giocherà in gran parte sulla necessità o meno di seguire la Gran Bretagna fuori dall’Unione. «La questione del momento è la Brexit, lo sarà anche in autunno», ha detto Van der Bellen.
La Corte costituzionale ha giudicato un ricorso presentato da Heinz-Christian Strake, il leader del Partito della Libertà (Fpö), la formazione di destra radicale che ha condotto una campagna presidenziale su una piattaforma anti-immigrati, ha vinto il primo turno elettorale e ha sfiorato la maggioranza al ballottaggio.
La conta finale dei voti, il 22 e 23 maggio era in effetti stata curiosa. La sera del voto, dopo lo scrutinio delle preferenze espresse ai seggi, in testa era risultato il candidato dell’ Fpö, Hofer. Subito, però, i sondaggisti dicevano che i voti inviati per posta, non ancora in teoria scrutinati, avrebbero ribaltato la situazione. La mattina dopo, infatti, venivano contate le 740 mila schede postali e Van der Bellen sorpassava l’avversario per vincere con un margine di un po’ meno di 31 mila voti (50,3% a 49,7%).
La stranezza del processo e il sorpasso annunciato quando le lettere di voto in teoria erano chiuse insospettiva l’ Fpö, che svolgeva indagini e faceva ricorso alla Corte, sostenendo che in 94 dei 117 distretti elettorali si erano registrate irregolarità. Soprattutto, i voti inviati per posta erano spesso stati scrutinati in anticipo sui tempi previsti e senza la presenza dei funzionari della Commissione elettorale.
I giudici della Corte hanno così svolto un’indagine, sentito 90 testimoni e ieri hanno spiegato di non avere trovato prove di manipolazioni ma di avere stabilito che irregolarità erano in effetti avvenute e coinvolgevano 78 mila voti, più del doppio del margine di vittoria di Van der Bellen.
Tanto bastava loro per decidere di annullare il risultato e stabilire che il ballottaggio va ripetuto. Ricontare le schede è stato ritenuto non sufficiente per affermare un corretto funzionamento della democrazia. Van der Bellen, che avrebbe dovuto insediarsi l’8 luglio, dovrà dunque rigiocare la sfida a due. Nel frattempo, la presidenza a interim sarà tenuta da una troika parlamentare della quale — coincidenza — fa parte Hofer: dice che non ne approfitterà; certo, però, occuperà una posizione che nei prossimi tre mesi gli darà una statura non ancora guadagnata.
Ora, il Partito della Libertà, che aveva fatto onde alte sfiorando la presidenza, avrà una seconda chance per essere il primo movimento di destra radicale a esprimere un presidente in un Paese della Ue. Ma in una situazione europea ben diversa da quella del maggio scorso. Oggi, era del post-Brexit, può influire in misura non indifferente sul futuro europeo.
Domenica scorsa, Hofer ha sostenuto che se tra un anno la Ue non avrà cambiato pelle e non sarà diventata meno centralizzata e meno politica, l’Austria dovrà tenere un suo referendum sul rimanere o meno. Da presidente, se in autunno venisse eletto, non potrebbe convocare il referendum, ma avrebbe una notevole influenza su un parlamento e su un quadro politico in pieno disorientamento.
Il fatto è che un referendum in Austria, Paese che a differenza del Regno Unito fa parte dell’Eurozona, metterebbe la moneta unica sotto pressioni fortissime. Al momento, questo scenario è lontano, non probabile: gli austriaci non vogliono uscire dalla Ue, quindi l’Fpö dovrà essere prudente. La situazione austriaca, però, conferma che l’Europa è entrata in quelle fasi in cui ogni crisi ha un effetto moltiplicatore che ne crea altre.
Danilo Taino
Avvenire.it 1/07/16
Migranti morti
La giusta pietà e il dovere
di Eraldo Affinati
I migranti morti, la grande poesia, l'azione politica Di fronte al peschereccio tirato in secca dalla Marina italiana ad Augusta, dove nelle prossime settimane si procederà all'identificazione delle centinaia di corpi affogati più di un anno fa nel Canale di Sicilia, io penso a Ugo Foscolo. «All'ombra de' cipressi e dentro l'urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?» si chiedeva il poeta, lo stesso che in questi giorni è materia d'interrogazione agli esami orali della maturità. La risposta, da brividi sulla pelle non solo per i letterati, consiste nella «celeste corrispondenza d'amorosi sensi» che può scattare fra noi, credenti e non credenti, e gli estinti, a patto di trovare, sosteneva l'autore dei 'Sepolcri', «un sasso/ che distingua le mie dalle infinite / ossa che in terra e in mar semina morte». Stiamo parlando di un uomo nato nell'isola di Zante, dall'altra parte del Mediterraneo, sulla sponda greca, uno dei maestri della nostra lingua, che pure apprese come seconda, prima a Spalato, poi a Venezia, il quale, dopo una vita randagia e avventurosa, morì esule a Londra, poverissimo e dimenticato, lontano dalla Patria. In un altro sonetto immortale, che tutti abbiamo studiato a scuola ma troppo spesso vorremmo nascondere in bacheca, quasi fosse un gesso d'accademia, Foscolo implora per se stesso una degna sepoltura: «Straniere genti, almen l'ossa rendete / allora al petto della madre mesta». Un'esigenza che in tanti villaggi africani troppi genitori non vedono soddisfatta, costretti a vivere nel ricordo sempre più sbiadito dei figli perduti e mai più ritrovati. Io le ho incrociate queste persone, sedute a terra nei capanni di paglia, a Sare Gubu, in Gambia, anziani che si sventolavano la fronte con stracci di fortuna, alla ricerca di un impossibile refrigerio. Quando dicevo loro che ero italiano, mi chiedevano se potevo aiutarli a ritrovare Mohamed o Babucar, partiti a piedi tanto tempo prima verso le città del benessere e della felicità. Come se Roma o Milano fossero luoghi dove tutti si conoscono e bastasse fare un fischio per parlare con questo o quello. Il nostro giovane premier, cresciuto a Firenze dove, nella chiesa di Santa Croce sono conservate le spoglie del grande scrittore, stanziando quasi dieci milioni di euro per procedere alle operazioni di recupero dell'imbarcazione naufragata con il suo carico di centinaia e centinaia di vite distrutte, forse la strage più grave mai avvenuta nei nostri terribili anni di migrazioni forzate, ha affermato un principio di civiltà che solo chi è in malafede potrebbe negare. Al contrario, questo è il compito da svolgere superando le divisioni ideologiche precostituite. L'ecatombe peraltro continua. Il gommone rovesciatosi ieri a venti miglia dalla costa libica ha causato la morte di dieci donne: giovani esistenze che, attraverso la maternità, avrebbero potuto rinsaldare la catena umana, invece spezzata. Dall'inizio dell'anno alla fine di maggio sono affogati 2.510 migranti. Dovremmo continuare a coltivare l'orticello? Ma ventimila sono sbarcati, molti dei quali strappati a stento dalla furia delle acque. E vivono in mezzo a noi. È il motivo che ci dovrebbe spingere a proseguire nell'impegno di soccorso, proprio nel momento in cui lo spirito ardito del Vecchio Continente sembra atrofizzarsi, pronto a rinchiudersi nella morsa atroce degli egoismi nazionali. La pretesa di tagliare le corde lasciando al proprio destino chiunque resti dietro, senza neppure guardarlo in faccia, non tiene conto del fatto che siamo tutti nella medesima barca, che ce ne accorgiamo o meno. Dobbiamo scoprire azioni comuni in grado di unirci, al di là delle differenze culturali e politiche, ecco perché le tensostrutture nella rada del porto siciliano dove i vigili del fuoco stanno effettuando i primi rilievi sul relitto recuperato, rappresentano un monito per l'Europa. Così gli italiani si mostrano all'altezza dei versi, e degli ideali, più nobili della loro tradizione.
Migranti morti
La giusta pietà e il dovere
di Eraldo Affinati
I migranti morti, la grande poesia, l'azione politica Di fronte al peschereccio tirato in secca dalla Marina italiana ad Augusta, dove nelle prossime settimane si procederà all'identificazione delle centinaia di corpi affogati più di un anno fa nel Canale di Sicilia, io penso a Ugo Foscolo. «All'ombra de' cipressi e dentro l'urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?» si chiedeva il poeta, lo stesso che in questi giorni è materia d'interrogazione agli esami orali della maturità. La risposta, da brividi sulla pelle non solo per i letterati, consiste nella «celeste corrispondenza d'amorosi sensi» che può scattare fra noi, credenti e non credenti, e gli estinti, a patto di trovare, sosteneva l'autore dei 'Sepolcri', «un sasso/ che distingua le mie dalle infinite / ossa che in terra e in mar semina morte». Stiamo parlando di un uomo nato nell'isola di Zante, dall'altra parte del Mediterraneo, sulla sponda greca, uno dei maestri della nostra lingua, che pure apprese come seconda, prima a Spalato, poi a Venezia, il quale, dopo una vita randagia e avventurosa, morì esule a Londra, poverissimo e dimenticato, lontano dalla Patria. In un altro sonetto immortale, che tutti abbiamo studiato a scuola ma troppo spesso vorremmo nascondere in bacheca, quasi fosse un gesso d'accademia, Foscolo implora per se stesso una degna sepoltura: «Straniere genti, almen l'ossa rendete / allora al petto della madre mesta». Un'esigenza che in tanti villaggi africani troppi genitori non vedono soddisfatta, costretti a vivere nel ricordo sempre più sbiadito dei figli perduti e mai più ritrovati. Io le ho incrociate queste persone, sedute a terra nei capanni di paglia, a Sare Gubu, in Gambia, anziani che si sventolavano la fronte con stracci di fortuna, alla ricerca di un impossibile refrigerio. Quando dicevo loro che ero italiano, mi chiedevano se potevo aiutarli a ritrovare Mohamed o Babucar, partiti a piedi tanto tempo prima verso le città del benessere e della felicità. Come se Roma o Milano fossero luoghi dove tutti si conoscono e bastasse fare un fischio per parlare con questo o quello. Il nostro giovane premier, cresciuto a Firenze dove, nella chiesa di Santa Croce sono conservate le spoglie del grande scrittore, stanziando quasi dieci milioni di euro per procedere alle operazioni di recupero dell'imbarcazione naufragata con il suo carico di centinaia e centinaia di vite distrutte, forse la strage più grave mai avvenuta nei nostri terribili anni di migrazioni forzate, ha affermato un principio di civiltà che solo chi è in malafede potrebbe negare. Al contrario, questo è il compito da svolgere superando le divisioni ideologiche precostituite. L'ecatombe peraltro continua. Il gommone rovesciatosi ieri a venti miglia dalla costa libica ha causato la morte di dieci donne: giovani esistenze che, attraverso la maternità, avrebbero potuto rinsaldare la catena umana, invece spezzata. Dall'inizio dell'anno alla fine di maggio sono affogati 2.510 migranti. Dovremmo continuare a coltivare l'orticello? Ma ventimila sono sbarcati, molti dei quali strappati a stento dalla furia delle acque. E vivono in mezzo a noi. È il motivo che ci dovrebbe spingere a proseguire nell'impegno di soccorso, proprio nel momento in cui lo spirito ardito del Vecchio Continente sembra atrofizzarsi, pronto a rinchiudersi nella morsa atroce degli egoismi nazionali. La pretesa di tagliare le corde lasciando al proprio destino chiunque resti dietro, senza neppure guardarlo in faccia, non tiene conto del fatto che siamo tutti nella medesima barca, che ce ne accorgiamo o meno. Dobbiamo scoprire azioni comuni in grado di unirci, al di là delle differenze culturali e politiche, ecco perché le tensostrutture nella rada del porto siciliano dove i vigili del fuoco stanno effettuando i primi rilievi sul relitto recuperato, rappresentano un monito per l'Europa. Così gli italiani si mostrano all'altezza dei versi, e degli ideali, più nobili della loro tradizione.
La Stampa 2.7.16
Bastoni e mazze
Così le ronde cinesi si fanno giustizia
Prato, picchiatori contro “neri”, “zingari” e per proteggere le proprie attività criminali
di Marco Menduni
Prato. Capannoni e fabbriche tessili svuotate dai camion delle bande criminali. Continui furti, scippi, rapine e aggressioni per la strada. Il 16 gennaio 200 cinesi di Prato erano in piazza: «Vogliamo più sicurezza». Tante bandierine: “Amo Prato”, “Viva la pace”, “No delinquenza”.
La richiesta di punizioni più severe: «In Italia ci vogliono leggi più severe, i delinquenti sanno di rischiare poco o niente». L’iniziativa era firmata da un’associazione culturale, il “Cervo bianco”. Parole d’ordine: integrazione e convivenza civile. Tra le fila dei cinesi, quelli del “Cervo bianco”, c’era anche chi aveva già deciso di non fidarsi più dello Stato, della magistratura, delle forze dell’ordine. Non tutti. Sette persone ora nel mirino dei pm. Avevano deciso di farsi giustizia da sé. Per difendere la comunità dei connazionali dalle prevaricazioni e per proteggere le proprie attività criminali.
Prendiamo, ad esempio, quello ritenuto uno dei leader, Jacopo Hsiang, in carcere per sfruttamento della prostituzione e spaccio. Con un manipolo di amici, aveva formato una squadra punitiva. Obiettivo: i sospettati di aver compiuto reati contro i cinesi. I «mendicanti neri», poi gli «zingari». Africani e rom che vivono a Prato, colpevoli perché tali, sulla base del pregiudizio e della diffidenza, senza nessun riscontro, senza indizi. Ai «neri» e agli «zingari» bisognava da una lezione, a prescindere.
Prato non è l’Osmannoro, la zona artigianale e commerciale di Sesto Fiorentino, a nord del capoluogo, vicino all’aeroporto. Non è il teatro della rivolta dei 300 cinesi che mercoledì hanno sfidato, lanciando pietre e bottiglie, le forze dell’ordine fino a tarda notte dopo il blitz contro il lavoro nero in un capannone.
Ma da Prato, dicono gli inquirenti, è partito anche un contingente armato di bastoni per dar man forte. C’era, ripreso dalle telecamere, l’altro capo dei violenti. Si chiama Ye Jiandong, è in semilibertà: sta scontando 18 anni per omicidio. Era sulla strada, nel momento più acuto degli scontri, poi alle proteste davanti al tribunale e al consolato cinese. Confermando il sospetto del presidente della Regione Enrico Rossi: «Non tutta la protesta è stata spontanea, è stata anche manovrata da criminali». Annuncia: «Meno controlli sui cinesi? Ne faremo di più. Le multe sono previste dalle leggi e non può esistere una zona dove non vigono le leggi dello Stato».
Prato ha 190mila abitanti. Nelle fabbriche lavorano 20 mila cinesi, ma le stime ufficiali parlano di almeno altri 15 mila connazionali che sfuggono ogni controllo. All’Osmannoro i cinesi vivono negli appartamenti. A Prato nelle fabbriche dormitorio. Non ci sono alternative: pochi i collegamenti con Firenze, affitti da incubo. La necessità, per i clandestini, di non farsi vedere in giro per eludere i controlli.
La proposta di una new town per dare alloggio a tutti è stata rimbalzata al mittente, anche dai cinesi stessi: «Si torna indietro di decenni, si crea un ghetto». Come non lo fosse già abbastanza, la comunità dei fantasmi costretti a vivere un’esistenza intera nei loculi delimitati da fogli di compensato e cartoni.
La procura di Prato ha intercettato le conversazioni tra i cinesi che hanno scatenato le spedizioni punitive. Frammenti di più che esplicite: «Oggi c’erano tante persone che mi guardavano mentre picchiavo quei due mendicanti, questi ladri!». Ancora: «In questi due mesi ho picchiato cinque di questi ladri, non è abbastanza?». Parlando con l’amico Saimin dopo la rapina a un connazionale Hsiang diceva: «Ci sono diversi miei amici che vogliono uscire, loro tutti sanno che io sono il più forte di Prato, quindi se ci sono io anche tutti gli altri verranno, tutti dicono che non serve una grande quantità di persone, bastano alcuni di quelli che sanno picchiare bene».
C’è anche l’identikit dei vendicatori: «Penso che saremo in tre persone, io e altri due miei amici, loro sono grandi picchiatori, loro due hanno fatto il corso di lotta libera». Ieri sono scattate 7 perquisizioni. Trovate mazze da baseball e bastoni di ferro realizzati con i tondini da edilizia. L’armamentario dei picchiatori.
Bastoni e mazze
Così le ronde cinesi si fanno giustizia
Prato, picchiatori contro “neri”, “zingari” e per proteggere le proprie attività criminali
di Marco Menduni
Prato. Capannoni e fabbriche tessili svuotate dai camion delle bande criminali. Continui furti, scippi, rapine e aggressioni per la strada. Il 16 gennaio 200 cinesi di Prato erano in piazza: «Vogliamo più sicurezza». Tante bandierine: “Amo Prato”, “Viva la pace”, “No delinquenza”.
La richiesta di punizioni più severe: «In Italia ci vogliono leggi più severe, i delinquenti sanno di rischiare poco o niente». L’iniziativa era firmata da un’associazione culturale, il “Cervo bianco”. Parole d’ordine: integrazione e convivenza civile. Tra le fila dei cinesi, quelli del “Cervo bianco”, c’era anche chi aveva già deciso di non fidarsi più dello Stato, della magistratura, delle forze dell’ordine. Non tutti. Sette persone ora nel mirino dei pm. Avevano deciso di farsi giustizia da sé. Per difendere la comunità dei connazionali dalle prevaricazioni e per proteggere le proprie attività criminali.
Prendiamo, ad esempio, quello ritenuto uno dei leader, Jacopo Hsiang, in carcere per sfruttamento della prostituzione e spaccio. Con un manipolo di amici, aveva formato una squadra punitiva. Obiettivo: i sospettati di aver compiuto reati contro i cinesi. I «mendicanti neri», poi gli «zingari». Africani e rom che vivono a Prato, colpevoli perché tali, sulla base del pregiudizio e della diffidenza, senza nessun riscontro, senza indizi. Ai «neri» e agli «zingari» bisognava da una lezione, a prescindere.
Prato non è l’Osmannoro, la zona artigianale e commerciale di Sesto Fiorentino, a nord del capoluogo, vicino all’aeroporto. Non è il teatro della rivolta dei 300 cinesi che mercoledì hanno sfidato, lanciando pietre e bottiglie, le forze dell’ordine fino a tarda notte dopo il blitz contro il lavoro nero in un capannone.
Ma da Prato, dicono gli inquirenti, è partito anche un contingente armato di bastoni per dar man forte. C’era, ripreso dalle telecamere, l’altro capo dei violenti. Si chiama Ye Jiandong, è in semilibertà: sta scontando 18 anni per omicidio. Era sulla strada, nel momento più acuto degli scontri, poi alle proteste davanti al tribunale e al consolato cinese. Confermando il sospetto del presidente della Regione Enrico Rossi: «Non tutta la protesta è stata spontanea, è stata anche manovrata da criminali». Annuncia: «Meno controlli sui cinesi? Ne faremo di più. Le multe sono previste dalle leggi e non può esistere una zona dove non vigono le leggi dello Stato».
Prato ha 190mila abitanti. Nelle fabbriche lavorano 20 mila cinesi, ma le stime ufficiali parlano di almeno altri 15 mila connazionali che sfuggono ogni controllo. All’Osmannoro i cinesi vivono negli appartamenti. A Prato nelle fabbriche dormitorio. Non ci sono alternative: pochi i collegamenti con Firenze, affitti da incubo. La necessità, per i clandestini, di non farsi vedere in giro per eludere i controlli.
La proposta di una new town per dare alloggio a tutti è stata rimbalzata al mittente, anche dai cinesi stessi: «Si torna indietro di decenni, si crea un ghetto». Come non lo fosse già abbastanza, la comunità dei fantasmi costretti a vivere un’esistenza intera nei loculi delimitati da fogli di compensato e cartoni.
La procura di Prato ha intercettato le conversazioni tra i cinesi che hanno scatenato le spedizioni punitive. Frammenti di più che esplicite: «Oggi c’erano tante persone che mi guardavano mentre picchiavo quei due mendicanti, questi ladri!». Ancora: «In questi due mesi ho picchiato cinque di questi ladri, non è abbastanza?». Parlando con l’amico Saimin dopo la rapina a un connazionale Hsiang diceva: «Ci sono diversi miei amici che vogliono uscire, loro tutti sanno che io sono il più forte di Prato, quindi se ci sono io anche tutti gli altri verranno, tutti dicono che non serve una grande quantità di persone, bastano alcuni di quelli che sanno picchiare bene».
C’è anche l’identikit dei vendicatori: «Penso che saremo in tre persone, io e altri due miei amici, loro sono grandi picchiatori, loro due hanno fatto il corso di lotta libera». Ieri sono scattate 7 perquisizioni. Trovate mazze da baseball e bastoni di ferro realizzati con i tondini da edilizia. L’armamentario dei picchiatori.
Repubblica 2.7.16
Rcs, ora il rilancio è di Cairo
Aumentato il rapporto di concambio con i titoli del suo gruppo da 0,16 a 0,17 per un valore ad azione di 0,765 euro
Ma il cda della Rizzoli promuove l’Opa di Bonomi: “Prezzo congruo”
di Giovanni
MILANO. Urbano Cairo non si arrende e rilancia ancora per cercare di assicurarsi il controllo di Rcs attraverso l’Ops (Offerta pubblica di scambio) lanciata dalla sua casa editrice. Il cda riunitosi ieri sera ha deciso infatti di ritoccare il rapporto di concambio da 0,16 a 0,17 azioni Cairo per ogni azione Rcs consegnata. Ai prezzi di chiusura di ieri le azioni Cairo segnavano 4,5 euro e dunque il valore implicito assegnato ai titoli Rcs è di 0,765 euro, che si confronta con 0,8 euro dell’Opa lanciata da Andrea Bonomi e i suoi soci. Inoltre l’editore di Alessandria ha tolto la Mac, cioè quella condizione per cui in caso di eventi eccezionali (come per esempio potrebbe essere la Brexit) l’offerente può sfilarsi e non ritirare le azioni consegnate. Questa condizione rimane, invece, nell’Opa Bonomi ma potrebbe essere tolta nella settimana entrante.
L’ultima condizione rivista da Cairo per l’Ops riguarda il finanziamento con le banche di Rcs. Va bene l’ultimo contratto che è stato rinegoziato dall’attuale management, rimane però che le banche creditrici non devono chiedere il rimborso dei finanziamenti in caso di cambio del controllo. A questo punto Cairo spera che nei prossimi giorni i mercati volgano al rialzo in modo che le azioni della sua società si possano rivalutare trascinando con sè il valore offerto per le Rcs. Anche perchè se l’Ops non andasse in porto Cairo ha promesso di distribuire ai suoi soci un dividendo straordinario di 20 milioni che equivale a 0,25 euro per azione. Insomma, una battaglia all’ultimo centesimo che porta sempre più in alto la valutazione della casa editrice che pubblica il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Il valore complessivo assegnato alla società, infatti, è salito a 836 milioni inclusi i debiti che lo scorso marzo erano pari a 411 milioni.
La differenza tra le due offerte è però sostanziale. La proposta di Bonomi & C. è di pagare 0,8 euro in contanti agli azionisti che a quel punto decidono di uscire dall’investimento e il loro guadagno o perdita dipenderà dal valore di acquisto delle azioni Rcs che hanno in portafoglio.
Diverso il discorso di Cairo che invita gli azionisti Rcs a restare nel mondo dell’editoria prendendosi azioni della sua casa editrice, la Cairo Communication, invece delle Rcs. Partecipando così al processo di ristrutturazione del gruppo che Urbano Cairo in prima persona ha annunciato di voler portare avanti tagliando costi e rilanciando i giornali italiani e spagnoli. La prima è una proposta puramente finanziaria, la seconda implica una valutazione industriale dell’operazione.
L’esito finale si saprà solo il 15 luglio e l’ultimo rilancio al buio per entrambi i contendenti potrà arrivare venerdì 8. Chi riuscirà a prendere la quota maggiore di azioni sarà decretato vincitore e gli azionisti che hanno consegnato le azioni all’offerta perdente potranno spostarle a favore di quella del vincitore. Se Cairo riceverà almeno il 50% più una azione allora dovrà ritirarle per forza e la sua quota di controllo nella Cairo si diluirà dal 72 al 50%. Ma potrà decidere di ritirarle anche se arrivasse solo al 35% e risultasse vincitore rispetto all’Opa concorrente. Lo stesso vale per Bonomi il cui prezzo di 0,80 euro ieri è stato considerato congruo dal cda Rcs anche se si attesta nella parte inferiore del range di valutazione dell’esperto indipendente.
Rcs, ora il rilancio è di Cairo
Aumentato il rapporto di concambio con i titoli del suo gruppo da 0,16 a 0,17 per un valore ad azione di 0,765 euro
Ma il cda della Rizzoli promuove l’Opa di Bonomi: “Prezzo congruo”
di Giovanni
MILANO. Urbano Cairo non si arrende e rilancia ancora per cercare di assicurarsi il controllo di Rcs attraverso l’Ops (Offerta pubblica di scambio) lanciata dalla sua casa editrice. Il cda riunitosi ieri sera ha deciso infatti di ritoccare il rapporto di concambio da 0,16 a 0,17 azioni Cairo per ogni azione Rcs consegnata. Ai prezzi di chiusura di ieri le azioni Cairo segnavano 4,5 euro e dunque il valore implicito assegnato ai titoli Rcs è di 0,765 euro, che si confronta con 0,8 euro dell’Opa lanciata da Andrea Bonomi e i suoi soci. Inoltre l’editore di Alessandria ha tolto la Mac, cioè quella condizione per cui in caso di eventi eccezionali (come per esempio potrebbe essere la Brexit) l’offerente può sfilarsi e non ritirare le azioni consegnate. Questa condizione rimane, invece, nell’Opa Bonomi ma potrebbe essere tolta nella settimana entrante.
L’ultima condizione rivista da Cairo per l’Ops riguarda il finanziamento con le banche di Rcs. Va bene l’ultimo contratto che è stato rinegoziato dall’attuale management, rimane però che le banche creditrici non devono chiedere il rimborso dei finanziamenti in caso di cambio del controllo. A questo punto Cairo spera che nei prossimi giorni i mercati volgano al rialzo in modo che le azioni della sua società si possano rivalutare trascinando con sè il valore offerto per le Rcs. Anche perchè se l’Ops non andasse in porto Cairo ha promesso di distribuire ai suoi soci un dividendo straordinario di 20 milioni che equivale a 0,25 euro per azione. Insomma, una battaglia all’ultimo centesimo che porta sempre più in alto la valutazione della casa editrice che pubblica il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Il valore complessivo assegnato alla società, infatti, è salito a 836 milioni inclusi i debiti che lo scorso marzo erano pari a 411 milioni.
La differenza tra le due offerte è però sostanziale. La proposta di Bonomi & C. è di pagare 0,8 euro in contanti agli azionisti che a quel punto decidono di uscire dall’investimento e il loro guadagno o perdita dipenderà dal valore di acquisto delle azioni Rcs che hanno in portafoglio.
Diverso il discorso di Cairo che invita gli azionisti Rcs a restare nel mondo dell’editoria prendendosi azioni della sua casa editrice, la Cairo Communication, invece delle Rcs. Partecipando così al processo di ristrutturazione del gruppo che Urbano Cairo in prima persona ha annunciato di voler portare avanti tagliando costi e rilanciando i giornali italiani e spagnoli. La prima è una proposta puramente finanziaria, la seconda implica una valutazione industriale dell’operazione.
L’esito finale si saprà solo il 15 luglio e l’ultimo rilancio al buio per entrambi i contendenti potrà arrivare venerdì 8. Chi riuscirà a prendere la quota maggiore di azioni sarà decretato vincitore e gli azionisti che hanno consegnato le azioni all’offerta perdente potranno spostarle a favore di quella del vincitore. Se Cairo riceverà almeno il 50% più una azione allora dovrà ritirarle per forza e la sua quota di controllo nella Cairo si diluirà dal 72 al 50%. Ma potrà decidere di ritirarle anche se arrivasse solo al 35% e risultasse vincitore rispetto all’Opa concorrente. Lo stesso vale per Bonomi il cui prezzo di 0,80 euro ieri è stato considerato congruo dal cda Rcs anche se si attesta nella parte inferiore del range di valutazione dell’esperto indipendente.
Repubblica 2.7.16
Francesco Boccia (Pd)
“Referendum? Da rinviare. E congresso subito”
I”l partito si è appiattito troppo sul governo e ha finito per prendersi i demeriti, dalle banche al sociale”
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA. Francesco Boccia, il sondaggio di Ilvo Diamanti riporta del sorpasso del M5S ai danni del Pd. Preoccupato?
«Il sintomo non va sottovalutato. E va indagata la causa».
Indaghiamola.
«Pd e governo sono stati un corpo unico. Renzi ha shakerato un Paese lento e vecchio, facendo bene alcune cose: riduzione delle imposte, un gran lavoro sui beni culturali, la lotta alla disoccupazione. Ma il partito, che dovrebbe alimentare l’azione del governo, si è appiattito troppo. E così si è preso anche i demeriti dell’esecutivo».
Può fare qualche esempio?
«Penso alle banche, al contrasto alla povertà e all’indebolimento della classe media: sono questi ultimi che votano Grillo e ti mandano a casa».
Ma può bastare il timore di un sorpasso del M5S per modificare l’Italicum? È serio?
«Io votai la legge per spirito di partito, ma ho sempre pensato che il meccanismo ideale preveda l’opzione dell’apparentamento, come accade per i sindaci. In più sono per abolire i capilista bloccati. Ecco, se in Parlamento si trova un’ampia convergenza non penso al 51% delle Camere, ma al 70 o l’80% - si può procedere con un intervento di puro buon senso».
I grillini non gradiranno.
«I cinquestelle parlavano di una legge incostituzionale ed eversiva, ora dicono che gli va bene. Essendo chiaro che non si tratta di una legge eversiva, basterebbe che dicessero più semplicemente che adesso la vogliono perché gli conviene».
Sempre dal sondaggio emerge che Di Maio ha un gradimento più alto di Renzi. Un dato che chiama in causa il premier, ma anche la minoranza dem che lo combatte?
«Chi governa ha sempre un alto numero di detrattori. È fisiologico, soprattutto quando non è periodo di vacche grasse. E d’altra parte Di Maio e Salvini passano le giornate a proporre cose irrealizzabili. Penso alla flat tax della Lega, oppure all’idea grillina di dare mille euro al mese per tutti gli italiani: impossibile. Mi ricordano Farage e gli altri populisti a buon mercato».
A proposito di Farage: per Diamanti, due terzi degli italiani sono per restare nell’Ue.
«A me i cinquestelle preoccupano. Penso a Cameron, al disastro provocato da un suo errore. Noi vogliamo cambiare l’Europa, ma non distruggerla: grillini e Lega cosa vogliono?».
Come si rialza intanto il Pd?
Quali mosse sono necessarie per non essere destinati alla sconfitta?
«Per me il congresso va anticipato all’autunno del 2016. Abbiamo sfide incredibili davanti».
Ma a ottobre c’è il referendum.
«Buon senso vorrebbe che si tenesse prima il congresso, poi la legge di stabilità e infine il referendum. Anche perché se non passa cosa facciamo? Io voterò sì, ma se non dovessimo farcela lasciamo a ottobre l’Italia senza un governo e una legge di bilancio? ».
Francesco Boccia (Pd)
“Referendum? Da rinviare. E congresso subito”
I”l partito si è appiattito troppo sul governo e ha finito per prendersi i demeriti, dalle banche al sociale”
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA. Francesco Boccia, il sondaggio di Ilvo Diamanti riporta del sorpasso del M5S ai danni del Pd. Preoccupato?
«Il sintomo non va sottovalutato. E va indagata la causa».
Indaghiamola.
«Pd e governo sono stati un corpo unico. Renzi ha shakerato un Paese lento e vecchio, facendo bene alcune cose: riduzione delle imposte, un gran lavoro sui beni culturali, la lotta alla disoccupazione. Ma il partito, che dovrebbe alimentare l’azione del governo, si è appiattito troppo. E così si è preso anche i demeriti dell’esecutivo».
Può fare qualche esempio?
«Penso alle banche, al contrasto alla povertà e all’indebolimento della classe media: sono questi ultimi che votano Grillo e ti mandano a casa».
Ma può bastare il timore di un sorpasso del M5S per modificare l’Italicum? È serio?
«Io votai la legge per spirito di partito, ma ho sempre pensato che il meccanismo ideale preveda l’opzione dell’apparentamento, come accade per i sindaci. In più sono per abolire i capilista bloccati. Ecco, se in Parlamento si trova un’ampia convergenza non penso al 51% delle Camere, ma al 70 o l’80% - si può procedere con un intervento di puro buon senso».
I grillini non gradiranno.
«I cinquestelle parlavano di una legge incostituzionale ed eversiva, ora dicono che gli va bene. Essendo chiaro che non si tratta di una legge eversiva, basterebbe che dicessero più semplicemente che adesso la vogliono perché gli conviene».
Sempre dal sondaggio emerge che Di Maio ha un gradimento più alto di Renzi. Un dato che chiama in causa il premier, ma anche la minoranza dem che lo combatte?
«Chi governa ha sempre un alto numero di detrattori. È fisiologico, soprattutto quando non è periodo di vacche grasse. E d’altra parte Di Maio e Salvini passano le giornate a proporre cose irrealizzabili. Penso alla flat tax della Lega, oppure all’idea grillina di dare mille euro al mese per tutti gli italiani: impossibile. Mi ricordano Farage e gli altri populisti a buon mercato».
A proposito di Farage: per Diamanti, due terzi degli italiani sono per restare nell’Ue.
«A me i cinquestelle preoccupano. Penso a Cameron, al disastro provocato da un suo errore. Noi vogliamo cambiare l’Europa, ma non distruggerla: grillini e Lega cosa vogliono?».
Come si rialza intanto il Pd?
Quali mosse sono necessarie per non essere destinati alla sconfitta?
«Per me il congresso va anticipato all’autunno del 2016. Abbiamo sfide incredibili davanti».
Ma a ottobre c’è il referendum.
«Buon senso vorrebbe che si tenesse prima il congresso, poi la legge di stabilità e infine il referendum. Anche perché se non passa cosa facciamo? Io voterò sì, ma se non dovessimo farcela lasciamo a ottobre l’Italia senza un governo e una legge di bilancio? ».
Corriere 2.7.16
Mafia Capitale, le nuove complicità politiche
C’è il pd Vincenzi
di Giovanni Bianconi
ROMA Una nuova lista di 28 indagati destinati a diventare presto imputati chiude il terzo filone d’indagine su «Mafia Capitale», nella quale spiccano un paio di esponenti politici del Partito democratico e un ex carabiniere già in servizio al Quirinale. Tutti accusati di essersi fatti corrompere da Salvatore Buzzi, chi per pilotare l’assegnazione delle appalti a vantaggio delle sue cooperative, chi per ottenere informazioni sulle inchieste in corso. E resta, per Buzzi e la sua ex segretaria Nadia Cerrito, «l’aggravante di aver agito al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso diretta da Massimo Carminati», a conferma che tutto rientra nel quadro generale della inedita e più grave contestazione che sta animando le udienze del maxiprocesso in corso nell’aula-bunker di Rebibbia.
Il nome più altisonante di questa nuova tornata è quello dell’ex capogruppo del Pd alla Regione Lazio, e fino a ieri presidente della Commissione bilancio dell’ente (s’è dimesso e sospeso dal partito dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione indagini), Marco Vincenzi. I pubblici ministeri lo accusano di aver «posto in essere specifici atti contrari ai doveri d’ufficio» con due emendamenti che avrebbero consentito alle cooperative di Buzzi «di superare le difficoltà per accaparrarsi le risolve economiche», grazie a un milione e 200 mila euro di finanziamenti regionali messi a disposizione dei Municipi e dei Comuni; in cambio di 10 mila euro di finanziamenti alla candidata sindaco nel Comune di Tivoli. Che, ribatte Vincenzi, giunsero attraverso un bonifico tracciabile, dunque niente di illecito; ma i pm la vedono diversamente.
L’ex capogruppo del Pd al Consiglio comunale nell’era Marino, Vincenzo D’Ausilio, avrebbe ricevuto «almeno 50 mila euro (su una promessa di 130 mila) per ottenere il pagamento di debiti fuori bilancio e «facilitare sul piano politico-istituzionale» l’aggiudicazione di alcune «procedure negoziate» da parte del Comune. L’ex consigliere regionale democratico Eugenio Patanè, invece, avrebbe intascato 55 mila euro di finanziamento illecito da parte di cooperative riconducibili sempre a Salvatore Buzzi.
L’elenco degli inquisiti per i quali è prossima la richiesta di rinvio a giudizio comprende altri nomi già inclusi nel filone principale, dallo stesso Buzzi a Luca Odevaine (ancora in attesa di definire il patteggiamento sul quale è stato chiuso l’accordo tra pm e avvocati). Infine c’è il carabiniere in congedo Giampaolo De Pascali, già in servizio alla Sovrintendenza servizi di sicurezza del Quirinale, pedinato e intercettato mentre s’incontrava con Carminati e Buzzi, dal quale «riceveva somme di denaro» in cambio di informazioni su una gara d’appalto e sui «procedimenti penali pendenti».
Un altro tassello delle complicità in ambienti istituzionali di cui si sarebbe avvantaggiata la presunta associazione mafiosa.
Mafia Capitale, le nuove complicità politiche
C’è il pd Vincenzi
di Giovanni Bianconi
ROMA Una nuova lista di 28 indagati destinati a diventare presto imputati chiude il terzo filone d’indagine su «Mafia Capitale», nella quale spiccano un paio di esponenti politici del Partito democratico e un ex carabiniere già in servizio al Quirinale. Tutti accusati di essersi fatti corrompere da Salvatore Buzzi, chi per pilotare l’assegnazione delle appalti a vantaggio delle sue cooperative, chi per ottenere informazioni sulle inchieste in corso. E resta, per Buzzi e la sua ex segretaria Nadia Cerrito, «l’aggravante di aver agito al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso diretta da Massimo Carminati», a conferma che tutto rientra nel quadro generale della inedita e più grave contestazione che sta animando le udienze del maxiprocesso in corso nell’aula-bunker di Rebibbia.
Il nome più altisonante di questa nuova tornata è quello dell’ex capogruppo del Pd alla Regione Lazio, e fino a ieri presidente della Commissione bilancio dell’ente (s’è dimesso e sospeso dal partito dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione indagini), Marco Vincenzi. I pubblici ministeri lo accusano di aver «posto in essere specifici atti contrari ai doveri d’ufficio» con due emendamenti che avrebbero consentito alle cooperative di Buzzi «di superare le difficoltà per accaparrarsi le risolve economiche», grazie a un milione e 200 mila euro di finanziamenti regionali messi a disposizione dei Municipi e dei Comuni; in cambio di 10 mila euro di finanziamenti alla candidata sindaco nel Comune di Tivoli. Che, ribatte Vincenzi, giunsero attraverso un bonifico tracciabile, dunque niente di illecito; ma i pm la vedono diversamente.
L’ex capogruppo del Pd al Consiglio comunale nell’era Marino, Vincenzo D’Ausilio, avrebbe ricevuto «almeno 50 mila euro (su una promessa di 130 mila) per ottenere il pagamento di debiti fuori bilancio e «facilitare sul piano politico-istituzionale» l’aggiudicazione di alcune «procedure negoziate» da parte del Comune. L’ex consigliere regionale democratico Eugenio Patanè, invece, avrebbe intascato 55 mila euro di finanziamento illecito da parte di cooperative riconducibili sempre a Salvatore Buzzi.
L’elenco degli inquisiti per i quali è prossima la richiesta di rinvio a giudizio comprende altri nomi già inclusi nel filone principale, dallo stesso Buzzi a Luca Odevaine (ancora in attesa di definire il patteggiamento sul quale è stato chiuso l’accordo tra pm e avvocati). Infine c’è il carabiniere in congedo Giampaolo De Pascali, già in servizio alla Sovrintendenza servizi di sicurezza del Quirinale, pedinato e intercettato mentre s’incontrava con Carminati e Buzzi, dal quale «riceveva somme di denaro» in cambio di informazioni su una gara d’appalto e sui «procedimenti penali pendenti».
Un altro tassello delle complicità in ambienti istituzionali di cui si sarebbe avvantaggiata la presunta associazione mafiosa.
Repubblica 2.7.16
Le insidie per la Raggi vengono anche dallo stesso M5S
Il buco nero di Roma e i tempi stretti della neo-sindaca
L’attenzione sulla Capitale si trasformerà presto in un assedio Se a Roma la prima cittadina avrà successo, diventerà una leader nazionale
di Stefano Folli
NON è strano che a Torino Chiara Appendino abbia già costituito la giunta, mentre a Roma Virginia Raggi, la sua omologa, sia ancora in alto mare e coltivi la speranza di comporre il mosaico degli assessori non prima di giovedì prossimo. E nemmeno stupisce che la nuova sindaca di Torino passeggi per la città con aria rilassata, nelle stesse ore in cui il sindaco di Roma va in Vaticano a incontrare il Papa e sembra chiedergli una speciale benedizione.
La differenza fra le due città è troppo grande. La vittoria dell’Appendino a Torino rientra nel novero delle notizie inaspettate, senza dubbio sorprendenti, ma che vengono riassorbite con una certa facilità: il giudizio sulla giunta a Cinque Stelle sarà dato nel medio termine, nessuno la tiene sotto tiro. A Roma è diverso. Il peso sulle spalle del primo sindaco donna è immane e nessuno le farà sconti. Nemmeno dall’interno del M5S, come rivela un reportage del “Fatto Quotidiano”. Lungo il sentiero del sindaco, ogni passo cela un’insidia e ogni angolo buio può essere un’imboscata. Nessuno le concede tempo né lo farà in futuro.
Il Partito Democratico ha bisogno di dimostrare il più presto possibile che i romani si sono sbagliati e soprattutto che quel 67 per cento non anticipa lo smottamento nazionale dell’opinione pubblica a favore dei grillini. Sotto tale aspetto, il sondaggio di Diamanti pubblicato ieri da questo giornale è un segnale d’allarme per la Raggi. Vuol dire che l’assedio intorno a lei sarà ancora più asfissiante e che in tanti aspettano i suoi primi passi falsi. C’è da capire intanto se la prima cittadina gode di una certa solidarietà dentro i confini del movimento, ovvero se sia già emarginata.
Se così fosse, nessuno si sorprenderebbe. Agli occhi dei grillini la giunta romana presenta una duplice insidia.
Può cogliere qualche successo, magari molto parziale, e questo basterebbe a proiettare la Raggi su scala nazionale come il personaggio emergente del movimento.
Lo è già, in un certo senso, ma con il limite che per ora deve dimostrare tutto. Se ottenesse un risultato spendibile sul piano mediatico, scompaginerebbe le gerarchie interne. Ne deriva che la neo-sindaca è un personaggio da tenere d’occhio.
Gestire Roma costituisce un’impresa di tale portata che la gabbia delle regole fissate a tavolino per garantire la disciplina interna al mondo grillino tenderebbe a frantumarsi alla prima occasione.
L’ALTRA insidia che i Cinque Stelle temono è l’esatto rovescio della medaglia. Un fallimento verticale e quasi immediato: quello che spera il centrosinistra e un certo “establishment” economico romano. Per i grillini sarebbe ovviamente un disastro. Così come le loro percentuali nazionali salgono in virtù dei successi nelle città, allo stesso modo un tonfo nella Capitale diventerebbe un monumento all’inesperienza velleitaria e inconcludente.
Sotto questo profilo, la neo eletta non sta facendo molto per tacitare i suoi critici. Pur con tutte le giustificazioni, sembra che la Raggi indulga un po’ troppo agli impegni protocollari, dando quasi l’impressione di voler sfuggire al letto di spine che l’attende nel suo ufficio con vista sui Fori. Le trattative sono lente e farraginose, assomigliano a quei conciliabili della vecchia “casta” tanto invisi al movimento. I conflitti fra i gruppi di pressione che circondano la sindaca vengono ufficialmente smentiti, va da sé, ma se ne sente l’odore nell’aria. E non aiutano le dichiarazioni pubbliche della Raggi - ultima quella rilasciata dopo il colloquio con il Papa: parole sempre corrette, fin troppo, ma altrettanto vaghe e spesso generiche. Certo, bisogna aspettare la giunta, ma fin qui non si è sentita l’impronta della leadership. Ossia ciò di cui la città ha urgente bisogno.
Se la sindaca si farà inghiottire nel buco nero di Roma Capitale, il suo destino è segnato. Persino in anticipo sulle previsioni. Forse Virginia Raggi ha in sé qualche colpo a sorpresa per non essere imprigionata virtualmente nelle segrete di Castel Sant’Angelo. Se è così, sarà bene che lo esibisca in tempi rapidi e con assoluta determinazione.
Le insidie per la Raggi vengono anche dallo stesso M5S
Il buco nero di Roma e i tempi stretti della neo-sindaca
L’attenzione sulla Capitale si trasformerà presto in un assedio Se a Roma la prima cittadina avrà successo, diventerà una leader nazionale
di Stefano Folli
NON è strano che a Torino Chiara Appendino abbia già costituito la giunta, mentre a Roma Virginia Raggi, la sua omologa, sia ancora in alto mare e coltivi la speranza di comporre il mosaico degli assessori non prima di giovedì prossimo. E nemmeno stupisce che la nuova sindaca di Torino passeggi per la città con aria rilassata, nelle stesse ore in cui il sindaco di Roma va in Vaticano a incontrare il Papa e sembra chiedergli una speciale benedizione.
La differenza fra le due città è troppo grande. La vittoria dell’Appendino a Torino rientra nel novero delle notizie inaspettate, senza dubbio sorprendenti, ma che vengono riassorbite con una certa facilità: il giudizio sulla giunta a Cinque Stelle sarà dato nel medio termine, nessuno la tiene sotto tiro. A Roma è diverso. Il peso sulle spalle del primo sindaco donna è immane e nessuno le farà sconti. Nemmeno dall’interno del M5S, come rivela un reportage del “Fatto Quotidiano”. Lungo il sentiero del sindaco, ogni passo cela un’insidia e ogni angolo buio può essere un’imboscata. Nessuno le concede tempo né lo farà in futuro.
Il Partito Democratico ha bisogno di dimostrare il più presto possibile che i romani si sono sbagliati e soprattutto che quel 67 per cento non anticipa lo smottamento nazionale dell’opinione pubblica a favore dei grillini. Sotto tale aspetto, il sondaggio di Diamanti pubblicato ieri da questo giornale è un segnale d’allarme per la Raggi. Vuol dire che l’assedio intorno a lei sarà ancora più asfissiante e che in tanti aspettano i suoi primi passi falsi. C’è da capire intanto se la prima cittadina gode di una certa solidarietà dentro i confini del movimento, ovvero se sia già emarginata.
Se così fosse, nessuno si sorprenderebbe. Agli occhi dei grillini la giunta romana presenta una duplice insidia.
Può cogliere qualche successo, magari molto parziale, e questo basterebbe a proiettare la Raggi su scala nazionale come il personaggio emergente del movimento.
Lo è già, in un certo senso, ma con il limite che per ora deve dimostrare tutto. Se ottenesse un risultato spendibile sul piano mediatico, scompaginerebbe le gerarchie interne. Ne deriva che la neo-sindaca è un personaggio da tenere d’occhio.
Gestire Roma costituisce un’impresa di tale portata che la gabbia delle regole fissate a tavolino per garantire la disciplina interna al mondo grillino tenderebbe a frantumarsi alla prima occasione.
L’ALTRA insidia che i Cinque Stelle temono è l’esatto rovescio della medaglia. Un fallimento verticale e quasi immediato: quello che spera il centrosinistra e un certo “establishment” economico romano. Per i grillini sarebbe ovviamente un disastro. Così come le loro percentuali nazionali salgono in virtù dei successi nelle città, allo stesso modo un tonfo nella Capitale diventerebbe un monumento all’inesperienza velleitaria e inconcludente.
Sotto questo profilo, la neo eletta non sta facendo molto per tacitare i suoi critici. Pur con tutte le giustificazioni, sembra che la Raggi indulga un po’ troppo agli impegni protocollari, dando quasi l’impressione di voler sfuggire al letto di spine che l’attende nel suo ufficio con vista sui Fori. Le trattative sono lente e farraginose, assomigliano a quei conciliabili della vecchia “casta” tanto invisi al movimento. I conflitti fra i gruppi di pressione che circondano la sindaca vengono ufficialmente smentiti, va da sé, ma se ne sente l’odore nell’aria. E non aiutano le dichiarazioni pubbliche della Raggi - ultima quella rilasciata dopo il colloquio con il Papa: parole sempre corrette, fin troppo, ma altrettanto vaghe e spesso generiche. Certo, bisogna aspettare la giunta, ma fin qui non si è sentita l’impronta della leadership. Ossia ciò di cui la città ha urgente bisogno.
Se la sindaca si farà inghiottire nel buco nero di Roma Capitale, il suo destino è segnato. Persino in anticipo sulle previsioni. Forse Virginia Raggi ha in sé qualche colpo a sorpresa per non essere imprigionata virtualmente nelle segrete di Castel Sant’Angelo. Se è così, sarà bene che lo esibisca in tempi rapidi e con assoluta determinazione.
Repubblica 2.7.16
Il retroscena.
Il vice capo di gabinetto è il primo a fare le spese delle tensioni interne. Scontro tra la sindaca e la Lombardi sponsor di De Vito: non ha retto la tregua siglata al cospetto di Casaleggio
Salta Marra, l’ex di Alemanno traballa il braccio destro della Raggi nel Movimento è guerra di dossier
STEFANO CAPPELLINI
ROMA.
Dossier, contro-dossier, cordate, veti e tranelli. Le armi con cui a Roma le opposte fazioni del M5S stanno battagliando, mentre la giunta di Virginia Raggi tarda a comporsi, non avrebbero sfigurato nell’arsenale di un vecchio congresso democristiano. Un
Todo modo grillino che ruota intorno a una rivalità, quella tra la sindaca e il consigliere più votato Marcello De Vito, che a sua volta ne contiene e proietta altre, fino a salire al direttorio nazionale e alla Casaleggio associati.
È sullo sfondo di questa trama che Raggi rischia di andare incontro al primo vero stop della sua avventura in Campidoglio: traballano infatti le uniche nomine già annunciate, quella del capo di gabinetto Daniele Frongia, consigliere comunale uscente, sodale politico di Raggi e ascoltato suggeritore, e quella di Raffaele Marra, ex Guardia di Finanza già collaboratore di Gianni Alemanno, designato vice di Frongia. Il ticket nasceva su basi complementari: a Frongia l’indirizzo politico, a Marra il vaglio tecnico, con un incarico temporaneo prima di essere destinato ad altro ruolo. Una soluzione studiata anche, nonostante le smentite, per non incappare nei vincoli della legge Severino che vieta agli eletti di assumere cariche pubbliche prima di un anno. A spingere verso un cambio dei piani c’è il rischio di un contenzioso con l’Anti- corruzione - ieri il presidente Raffaele Cantone ha spiegato che non c’è un via libera dell’Anac né per ora è allo studio il caso - ma soprattutto le polemiche per Marra, legato a un’esperienza politica che il M5S, non a torto, ha sempre additato come nefasta per la città. Frongia spiega a Repubblica che la sua nomina non è legata a quella di Marra. «Ho potere di firma», assicura. Sulla sostituzione di Marra, invece, non commenta. Fonti del movimento spiegano che è già partita la caccia dentro l’amministrazione capitolina a una figura con i requisiti giusti per subentrare all’ex Alemanno. Ma nemmeno Frongia è considerato blindato.
Era stata buona profeta Roberta Lombardi: «Se su Marra abbiamo sbagliato, rimedieremo», aveva detto due giorni fa la parlamentare. Lombardi si è fatta interprete del forte malumore dei militanti, che ha spinto anche lo staff nazionale a chiedere conto alla sindaca sull’opportunità di insistere in questa scelta. Lombardi, soprattutto, è stata la principale avversaria della candidatura di Raggi, sostenuta invece da Alessandro Di Battista e Paola Taverna, e grande sponsor di De Vito, cui inizialmente andavano le simpatie di Luigi Di Maio. Prima e dopo che le comunarie stabilissero la vittoria di Raggi, il confronto tra i rivali è stato durissimo. A dicembre De Vito è stato sottoposto a una sorta di processo interno, come ricostruito ieri dal Fatto quotidiano: gli è stato contestato un presunto abuso d’ufficio per un accesso ad atti nella sua veste di consigliere comunale. L’addebito avrebbe dovuto spingerlo a desistere dal correre per il Campidoglio, ma l’avvocato si è presentato comunque alle comunarie, arrivando secondo. Nel frattempo rimbalzavano tra siti e redazioni dossier anonimi, uno dei quali ricostruiva minuziosamente i rapporti di Lombardi con l’ultrasinistra e il sindacalismo di base romani. Nulla di illecito, se non il tentativo degli autori di imputare alla parlamentare - forte in città di un solido consenso nella vecchia base dei meet-up - la contaminazione con la “vecchia“ politica e l’incoerenza con la sua «estrazione di destra». Spifferi uguali e contrari spingevano in circolo la notizia del praticantato di Raggi presso lo studio Previti, omessa dal curriculum.
Il tentativo di mediazione avanzato a febbraio da Di Battista - Raggi sindaco, De Vito vice - veniva scartato con forza dalla futura sindaca. Lo scontro infuriava a a tal punto da spingere Gianroberto Casaleggio in persona a cercare di appianarlo con due incontri segreti. Il 3 marzo Raggi viene ricevuta nella sede milanese della Casaleggio: le viene garantito che De Vito non avrebbe fatto il suo vice in caso di vittoria, ma le viene anche chiesto di accettare la convivenza politica. Pochi giorni dopo tocca al rivale andare a Milano e ricevere la medesima raccomandazione, oltre alla richiesta di accontentarsi della presidenza d’Aula. Casaleggio muore il mese successivo. Raggi ha modo di avanzare le sue riserve verso l’antagonista anche nel corso dell’incontro con Davide Casaleggio - pubblicamente annunciato a differenza degli altri due - che si tiene il 18 aprile. Alla cautela con cui Casaleggio junior si districa tra i contendenti probabilmente non è estranea la sua amicizia con Massimo Bugani, esponente bolognese molto vicino a Lombardi. Bugani e Lombardi sono gli alfieri di quella interpretazione purista e “movimentista” del 5S che ha in Fico il rappresentante in direttorio.
La tregua, siglata al cospetto dello staff nazionale, regge qualche settimana a cavallo del voto. Poi le tensioni riesplodono dopo il trionfo. Raggi chiede tempo e autonomia per la giunta. Su alcuni nomi proposti da Lombardi arriva il veto di Taverna, e viceversa. A Raggi arriva l’aiuto diretto di Di Maio, convinto dai numeri del successo. C’è l’ex Garante per l’Infanzia Vincenzo Spadafora ad accompagnare Raggi all’ingresso dell’Hotel Forum, sulla cui terrazza lo stato maggiore M5S festeggia la sera della vittoria. E Spadafora porta in dote alla giunta Laura Baldassarre, assessore alle politiche sociali. “Sarà gli occhi e le orecchie di Di Maio in Comune”, si dice alla Camera. Ma il prestito di occhi e orecchie è ambito anche da altri, per questo Augusto Rubei, giovane portavoce della candidata in campagna elettorale, rischia di non essere confermato. Peserebbe su di lui l’ostilità di Rocco Casalino, che preferisce una figura più schiacciata sulla comunicazione ufficiale.
Raggi ha provato a sfuggire alle pressioni incrociate formando con Frongia e Marra un cerchio stretto, subito ribattezzato raggio magico. Ma, forse, deve già ricominciare da capo.
Il retroscena.
Il vice capo di gabinetto è il primo a fare le spese delle tensioni interne. Scontro tra la sindaca e la Lombardi sponsor di De Vito: non ha retto la tregua siglata al cospetto di Casaleggio
Salta Marra, l’ex di Alemanno traballa il braccio destro della Raggi nel Movimento è guerra di dossier
STEFANO CAPPELLINI
ROMA.
Dossier, contro-dossier, cordate, veti e tranelli. Le armi con cui a Roma le opposte fazioni del M5S stanno battagliando, mentre la giunta di Virginia Raggi tarda a comporsi, non avrebbero sfigurato nell’arsenale di un vecchio congresso democristiano. Un
Todo modo grillino che ruota intorno a una rivalità, quella tra la sindaca e il consigliere più votato Marcello De Vito, che a sua volta ne contiene e proietta altre, fino a salire al direttorio nazionale e alla Casaleggio associati.
È sullo sfondo di questa trama che Raggi rischia di andare incontro al primo vero stop della sua avventura in Campidoglio: traballano infatti le uniche nomine già annunciate, quella del capo di gabinetto Daniele Frongia, consigliere comunale uscente, sodale politico di Raggi e ascoltato suggeritore, e quella di Raffaele Marra, ex Guardia di Finanza già collaboratore di Gianni Alemanno, designato vice di Frongia. Il ticket nasceva su basi complementari: a Frongia l’indirizzo politico, a Marra il vaglio tecnico, con un incarico temporaneo prima di essere destinato ad altro ruolo. Una soluzione studiata anche, nonostante le smentite, per non incappare nei vincoli della legge Severino che vieta agli eletti di assumere cariche pubbliche prima di un anno. A spingere verso un cambio dei piani c’è il rischio di un contenzioso con l’Anti- corruzione - ieri il presidente Raffaele Cantone ha spiegato che non c’è un via libera dell’Anac né per ora è allo studio il caso - ma soprattutto le polemiche per Marra, legato a un’esperienza politica che il M5S, non a torto, ha sempre additato come nefasta per la città. Frongia spiega a Repubblica che la sua nomina non è legata a quella di Marra. «Ho potere di firma», assicura. Sulla sostituzione di Marra, invece, non commenta. Fonti del movimento spiegano che è già partita la caccia dentro l’amministrazione capitolina a una figura con i requisiti giusti per subentrare all’ex Alemanno. Ma nemmeno Frongia è considerato blindato.
Era stata buona profeta Roberta Lombardi: «Se su Marra abbiamo sbagliato, rimedieremo», aveva detto due giorni fa la parlamentare. Lombardi si è fatta interprete del forte malumore dei militanti, che ha spinto anche lo staff nazionale a chiedere conto alla sindaca sull’opportunità di insistere in questa scelta. Lombardi, soprattutto, è stata la principale avversaria della candidatura di Raggi, sostenuta invece da Alessandro Di Battista e Paola Taverna, e grande sponsor di De Vito, cui inizialmente andavano le simpatie di Luigi Di Maio. Prima e dopo che le comunarie stabilissero la vittoria di Raggi, il confronto tra i rivali è stato durissimo. A dicembre De Vito è stato sottoposto a una sorta di processo interno, come ricostruito ieri dal Fatto quotidiano: gli è stato contestato un presunto abuso d’ufficio per un accesso ad atti nella sua veste di consigliere comunale. L’addebito avrebbe dovuto spingerlo a desistere dal correre per il Campidoglio, ma l’avvocato si è presentato comunque alle comunarie, arrivando secondo. Nel frattempo rimbalzavano tra siti e redazioni dossier anonimi, uno dei quali ricostruiva minuziosamente i rapporti di Lombardi con l’ultrasinistra e il sindacalismo di base romani. Nulla di illecito, se non il tentativo degli autori di imputare alla parlamentare - forte in città di un solido consenso nella vecchia base dei meet-up - la contaminazione con la “vecchia“ politica e l’incoerenza con la sua «estrazione di destra». Spifferi uguali e contrari spingevano in circolo la notizia del praticantato di Raggi presso lo studio Previti, omessa dal curriculum.
Il tentativo di mediazione avanzato a febbraio da Di Battista - Raggi sindaco, De Vito vice - veniva scartato con forza dalla futura sindaca. Lo scontro infuriava a a tal punto da spingere Gianroberto Casaleggio in persona a cercare di appianarlo con due incontri segreti. Il 3 marzo Raggi viene ricevuta nella sede milanese della Casaleggio: le viene garantito che De Vito non avrebbe fatto il suo vice in caso di vittoria, ma le viene anche chiesto di accettare la convivenza politica. Pochi giorni dopo tocca al rivale andare a Milano e ricevere la medesima raccomandazione, oltre alla richiesta di accontentarsi della presidenza d’Aula. Casaleggio muore il mese successivo. Raggi ha modo di avanzare le sue riserve verso l’antagonista anche nel corso dell’incontro con Davide Casaleggio - pubblicamente annunciato a differenza degli altri due - che si tiene il 18 aprile. Alla cautela con cui Casaleggio junior si districa tra i contendenti probabilmente non è estranea la sua amicizia con Massimo Bugani, esponente bolognese molto vicino a Lombardi. Bugani e Lombardi sono gli alfieri di quella interpretazione purista e “movimentista” del 5S che ha in Fico il rappresentante in direttorio.
La tregua, siglata al cospetto dello staff nazionale, regge qualche settimana a cavallo del voto. Poi le tensioni riesplodono dopo il trionfo. Raggi chiede tempo e autonomia per la giunta. Su alcuni nomi proposti da Lombardi arriva il veto di Taverna, e viceversa. A Raggi arriva l’aiuto diretto di Di Maio, convinto dai numeri del successo. C’è l’ex Garante per l’Infanzia Vincenzo Spadafora ad accompagnare Raggi all’ingresso dell’Hotel Forum, sulla cui terrazza lo stato maggiore M5S festeggia la sera della vittoria. E Spadafora porta in dote alla giunta Laura Baldassarre, assessore alle politiche sociali. “Sarà gli occhi e le orecchie di Di Maio in Comune”, si dice alla Camera. Ma il prestito di occhi e orecchie è ambito anche da altri, per questo Augusto Rubei, giovane portavoce della candidata in campagna elettorale, rischia di non essere confermato. Peserebbe su di lui l’ostilità di Rocco Casalino, che preferisce una figura più schiacciata sulla comunicazione ufficiale.
Raggi ha provato a sfuggire alle pressioni incrociate formando con Frongia e Marra un cerchio stretto, subito ribattezzato raggio magico. Ma, forse, deve già ricominciare da capo.
Corriere 2.7.16
Mogli assessori e figliastri portaborse
Dilaga la Parentopoli a Cinque Stelle
De Vito “ricompensato”: la consorte verso il Terzo Municipio Così deputati e senatori sono riusciti a sistemare i famigliari
di Ilario Lombardo
«Quando scegliamo il nostro esercito, i soldati devono essere fedeli». La massima degna di Sun Tzu è di Paola Nugnes, senatrice con le 5 Stelle cucite sul petto. E quale fedeltà migliore di chi è sempre al tuo fianco, amico, parente, compagno? Il M5S è un po’ famiglia, un po’ clan, un po’ due cuori e una capanna.
C’è chi sotto il vessillo di Beppe Grillo si è dato il primo bacio, chi ha trasformato la passione di coppia in passione politica. Intere famiglie che invece di fare un picnic riempiono la macchina per raggiungere un V-Day, una festa, un ritrovo. E così quando in comune c’è l’attivismo, in comune può nascere anche una carriera politica. Guardiamo Roma, e il M5S sul trono capitolino con già mille beghe tra nomine chiacchierate e velenose faide. Non è sfuggito a tanti che Marcello De Vito, ex candidato sindaco, sacrificato sull’altare telegenico da Gianroberto Casaleggio per far posto a Virginia Raggi, avrebbe già la garanzia che sua moglie Giovanna Tadonio, avvocato come lo è lui, andrà a fare da miniassessore (retribuita) al municipio III. Non ce l’ha fatta invece Francesco Silvestri, noto per essere l’ex fidanzato di Ilaria Loquenzi, capo comunicazione della Camera. Nel 2013 si candidò in Campidoglio, bocciato alle urne trovò riparo in Senato dove è stato collaboratore di Giovanni Endrizzi. Giusto il tempo di ricandidarsi ed essere trombato nuovamente. A nulla è servito l’annuncio della separazione dalla Loquenzi, ufficializzata prima del voto. Forse finirà nello staff romano. Ma questo triangolo, lui, lei e il M5S, è ménage che si ritrova spesso nel partito dai forti sentimenti. Che dire di Virginia Raggi e del suo quasi ex marito Andrea Severini? Il quale un secondo dopo la vittoria della moglie ci ha fatto sapere che l’amava ma anche che era stato lui a trascinarla tra i banchetti del M5S. Il destino però li ha divisi. Lei l’ha spuntata, lui no. Il successo elettorale ha creato indotto e opportunità di lavoro nella politica tanto che due anni fa dal Pd urlarono alla parentopoli grillina. Lo schema è un classico tra i pentastellati: si comincia insieme da attivisti, poi uno si candida e vince, l’altro, che magari non ce l’ha fatta, in attesa delle successive elezioni va al seguito di qualche parlamentare o consigliere, fino alla prossima candidatura. Giuseppe Rondelli aveva ragiona a smentire di avere gradi di parentela con la senatrice Vilma Moronese, di cui è collaboratore. In effetti, è il suo compagno. E Barbara Lezzi? Senatrice costretta a licenziare la figlia del compagno che aveva assunto come portaborse. Il collega Andrea Cioffi come collaboratrice ha invece optato per Alessandra Manzin, fidanzata di Dario Adamo, uomo della Casaleggio e assistente di Rocco Casalino in Senato.
Poi ci sono i casi più innocui e noti. I fratelli Cancellieri: Giancarlo, consigliere in Sicilia, Azzurra, deputata. Gli ormai ex grillini, madre - Ivana Simeoni, senatrice - e figlio, Cristian Iannuzzi, deputato. Gli amori nati sotto la costellazione pentastellata: i deputati Riccardo Nuti e Dalila Nesci, Matteo Mantero e Silvia Giordano, la senatrice Paola Taverna e Stefano Vignaroli, e la liason più famosa: Luigi Di Maio e Silvia Virgulti, la donna che, insegnandogli a stare in tv, gli ha rapito il cuore.
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C’è chi sotto il vessillo di Beppe Grillo si è dato il primo bacio, chi ha trasformato la passione di coppia in passione politica. Intere famiglie che invece di fare un picnic riempiono la macchina per raggiungere un V-Day, una festa, un ritrovo. E così quando in comune c’è l’attivismo, in comune può nascere anche una carriera politica. Guardiamo Roma, e il M5S sul trono capitolino con già mille beghe tra nomine chiacchierate e velenose faide. Non è sfuggito a tanti che Marcello De Vito, ex candidato sindaco, sacrificato sull’altare telegenico da Gianroberto Casaleggio per far posto a Virginia Raggi, avrebbe già la garanzia che sua moglie Giovanna Tadonio, avvocato come lo è lui, andrà a fare da miniassessore (retribuita) al municipio III. Non ce l’ha fatta invece Francesco Silvestri, noto per essere l’ex fidanzato di Ilaria Loquenzi, capo comunicazione della Camera. Nel 2013 si candidò in Campidoglio, bocciato alle urne trovò riparo in Senato dove è stato collaboratore di Giovanni Endrizzi. Giusto il tempo di ricandidarsi ed essere trombato nuovamente. A nulla è servito l’annuncio della separazione dalla Loquenzi, ufficializzata prima del voto. Forse finirà nello staff romano. Ma questo triangolo, lui, lei e il M5S, è ménage che si ritrova spesso nel partito dai forti sentimenti. Che dire di Virginia Raggi e del suo quasi ex marito Andrea Severini? Il quale un secondo dopo la vittoria della moglie ci ha fatto sapere che l’amava ma anche che era stato lui a trascinarla tra i banchetti del M5S. Il destino però li ha divisi. Lei l’ha spuntata, lui no. Il successo elettorale ha creato indotto e opportunità di lavoro nella politica tanto che due anni fa dal Pd urlarono alla parentopoli grillina. Lo schema è un classico tra i pentastellati: si comincia insieme da attivisti, poi uno si candida e vince, l’altro, che magari non ce l’ha fatta, in attesa delle successive elezioni va al seguito di qualche parlamentare o consigliere, fino alla prossima candidatura. Giuseppe Rondelli aveva ragiona a smentire di avere gradi di parentela con la senatrice Vilma Moronese, di cui è collaboratore. In effetti, è il suo compagno. E Barbara Lezzi? Senatrice costretta a licenziare la figlia del compagno che aveva assunto come portaborse. Il collega Andrea Cioffi come collaboratrice ha invece optato per Alessandra Manzin, fidanzata di Dario Adamo, uomo della Casaleggio e assistente di Rocco Casalino in Senato.
Poi ci sono i casi più innocui e noti. I fratelli Cancellieri: Giancarlo, consigliere in Sicilia, Azzurra, deputata. Gli ormai ex grillini, madre - Ivana Simeoni, senatrice - e figlio, Cristian Iannuzzi, deputato. Gli amori nati sotto la costellazione pentastellata: i deputati Riccardo Nuti e Dalila Nesci, Matteo Mantero e Silvia Giordano, la senatrice Paola Taverna e Stefano Vignaroli, e la liason più famosa: Luigi Di Maio e Silvia Virgulti, la donna che, insegnandogli a stare in tv, gli ha rapito il cuore.
Repubblica 2.7.16
Virginia porta al Papa le voci delle periferie e un richiamo sull’Imu “La paghi pure la Chiesa”
di Lorenzo D’albergo
ROMA. l tempo di un sorriso, un saluto veloce cercando di nascondere un’emozione a tratti incontrollabile. Quindi gli scatti di rito nella cornice della biblioteca del palazzo apostolico: prima Papa Francesco e Virginia Raggi che si stringono la mano, poi in piedi uno di fianco all’altra e infine seduti a colloquio. Esaurite tutte le formalità del caso e chiuse le porte del pensionato per l’udienza privata, il Pontefice e la prima cittadina della capitale sono rimasti soli per venticinque minuti. Tanto è durato l’esordio in Vaticano della sindaca pentastellata, ieri mattina ospite a San Pietro assieme al figlio Matteo, ai genitori, alla cognata e alla suocera.
Alla prima presso la Santa Sede, l’avvocata grillina si è presentata in completo blu, senza il marito e con un dono quantomeno singolare: «Le abbiamo portato le parole della Roma dimenticata ». A quel punto sul tablet, sfoderato a sorpresa dalla Raggi, è partito un video di otto minuti. Voci e volti dalle periferie: giovani e anziani di Tor Bella Monaca, Ostia e Corviale. Fino ad arrivare al messaggio di un 30enne di San Basilio, che ha anticipato uno dei punti programmatici su cui il Movimento 5 stelle capitolino tornerà presto a battere: «Continui così Santo Padre, le siamo vicini. Ma non si dimentichi dell’Imu. Se le strutture ecclesiastiche che svolgono attività commerciale la pagassero, i romani ne sarebbero contenti».
Finito il filmato - al Papa è stata consegnata una doppia copia su dvd e su pennetta usb - è stato Francesco a fare gli auguri alla sindaca.
Il Pontefice, riprendendo involontariamente lo slogan che ha accompagnato la campagna elettorale della pentastellata, ha invitato la prima cittadina ad «andare avanti con coraggio ». Parole di sincero apprezzamento: il Santo Padre ha spiegato ai suoi collaboratori di essere rimasto favorevolmente colpito da Virginia Raggi. E a Roma, come insegna l’esperienza dell’ex sindaco Ignazio Marino, i rapporti di buon vicinato con il Vaticano possono rivelarsi fondamentali per arrivare in fondo alla consiliatura.
Conclusa l’udienza, organizzata soltanto due giorni fa dalla segreteria dello Stato pontificio su richiesta del cerimoniale del Campidoglio, Francesco ha salutato i parenti della prima cittadina. Si è fermato a parlare per qualche secondo con i genitori. A loro, come ai portavoce della grillina, ha regalato due rosari. Poi, dopo aver accarezzato affettuosamente sulla testa il piccolo Matteo, Francesco ha donato dei libri al piccolo e alla sua mamma.
A quel punto, ripresa l’intera famiglia sotto braccio, la sindaca è uscita sorridendo dal pensionato. Scortata dai gendarmi, si è lasciata alle spalle i marmi splendenti della Santa Sede, le aiuole curate e il brusio dei turisti in cima al cupolone. Di nuovo a bordo della Peugeot 208 bianca parcheggiata nel cortile di San Damaso, la Raggi ha ritrovato il suo staff e, appena fuori l’ingresso del Perugino, la voglia di commentare il faccia a faccia con il Pontefice: «L’incontro è andato bene. Papa Francesco è una persona di un’umanità profonda. Se sono emozionata? Direi di sì». Poco prima aveva commentato l’udienza ai microfoni di Radio Vaticana: «La Chiesa ha un ruolo importantissimo, a Roma in particolare perché è di casa. Siamo vicini, ci guardiamo da un lato all’altro del Tevere. Ho apprezzato molto le parole dell’enciclica Laudato si, mi sembrano attuali e moderne.
Parlano di cambiamenti climatici, dello spirito di comunità, delle persone più fragili, di urbanistica. Devo dire che in quella enciclica c’è molto della Roma di oggi». E di quelle periferie che ieri hanno inviato il loro messaggio al Papa.
Virginia porta al Papa le voci delle periferie e un richiamo sull’Imu “La paghi pure la Chiesa”
di Lorenzo D’albergo
ROMA. l tempo di un sorriso, un saluto veloce cercando di nascondere un’emozione a tratti incontrollabile. Quindi gli scatti di rito nella cornice della biblioteca del palazzo apostolico: prima Papa Francesco e Virginia Raggi che si stringono la mano, poi in piedi uno di fianco all’altra e infine seduti a colloquio. Esaurite tutte le formalità del caso e chiuse le porte del pensionato per l’udienza privata, il Pontefice e la prima cittadina della capitale sono rimasti soli per venticinque minuti. Tanto è durato l’esordio in Vaticano della sindaca pentastellata, ieri mattina ospite a San Pietro assieme al figlio Matteo, ai genitori, alla cognata e alla suocera.
Alla prima presso la Santa Sede, l’avvocata grillina si è presentata in completo blu, senza il marito e con un dono quantomeno singolare: «Le abbiamo portato le parole della Roma dimenticata ». A quel punto sul tablet, sfoderato a sorpresa dalla Raggi, è partito un video di otto minuti. Voci e volti dalle periferie: giovani e anziani di Tor Bella Monaca, Ostia e Corviale. Fino ad arrivare al messaggio di un 30enne di San Basilio, che ha anticipato uno dei punti programmatici su cui il Movimento 5 stelle capitolino tornerà presto a battere: «Continui così Santo Padre, le siamo vicini. Ma non si dimentichi dell’Imu. Se le strutture ecclesiastiche che svolgono attività commerciale la pagassero, i romani ne sarebbero contenti».
Finito il filmato - al Papa è stata consegnata una doppia copia su dvd e su pennetta usb - è stato Francesco a fare gli auguri alla sindaca.
Il Pontefice, riprendendo involontariamente lo slogan che ha accompagnato la campagna elettorale della pentastellata, ha invitato la prima cittadina ad «andare avanti con coraggio ». Parole di sincero apprezzamento: il Santo Padre ha spiegato ai suoi collaboratori di essere rimasto favorevolmente colpito da Virginia Raggi. E a Roma, come insegna l’esperienza dell’ex sindaco Ignazio Marino, i rapporti di buon vicinato con il Vaticano possono rivelarsi fondamentali per arrivare in fondo alla consiliatura.
Conclusa l’udienza, organizzata soltanto due giorni fa dalla segreteria dello Stato pontificio su richiesta del cerimoniale del Campidoglio, Francesco ha salutato i parenti della prima cittadina. Si è fermato a parlare per qualche secondo con i genitori. A loro, come ai portavoce della grillina, ha regalato due rosari. Poi, dopo aver accarezzato affettuosamente sulla testa il piccolo Matteo, Francesco ha donato dei libri al piccolo e alla sua mamma.
A quel punto, ripresa l’intera famiglia sotto braccio, la sindaca è uscita sorridendo dal pensionato. Scortata dai gendarmi, si è lasciata alle spalle i marmi splendenti della Santa Sede, le aiuole curate e il brusio dei turisti in cima al cupolone. Di nuovo a bordo della Peugeot 208 bianca parcheggiata nel cortile di San Damaso, la Raggi ha ritrovato il suo staff e, appena fuori l’ingresso del Perugino, la voglia di commentare il faccia a faccia con il Pontefice: «L’incontro è andato bene. Papa Francesco è una persona di un’umanità profonda. Se sono emozionata? Direi di sì». Poco prima aveva commentato l’udienza ai microfoni di Radio Vaticana: «La Chiesa ha un ruolo importantissimo, a Roma in particolare perché è di casa. Siamo vicini, ci guardiamo da un lato all’altro del Tevere. Ho apprezzato molto le parole dell’enciclica Laudato si, mi sembrano attuali e moderne.
Parlano di cambiamenti climatici, dello spirito di comunità, delle persone più fragili, di urbanistica. Devo dire che in quella enciclica c’è molto della Roma di oggi». E di quelle periferie che ieri hanno inviato il loro messaggio al Papa.
La Stampa 2.7.16
La sindaca Raggi dal Papa: «Gli ho portato la voce degli ultimi»
Papa Francesco ha ricevuto il primo sindaco donna di Roma. Un’udienza privata in Vaticano in cui Virginia Raggi ha portato al Papa «la voce degli ultimi e delle periferie» della Capitale. Tra queste anche il video-messaggio di un giovane romano che ha chiesto a Bergoglio di far pagare l’Imu agli esercizi della Chiesa che svolgono attività commerciale.
La sindaca Raggi dal Papa: «Gli ho portato la voce degli ultimi»
Papa Francesco ha ricevuto il primo sindaco donna di Roma. Un’udienza privata in Vaticano in cui Virginia Raggi ha portato al Papa «la voce degli ultimi e delle periferie» della Capitale. Tra queste anche il video-messaggio di un giovane romano che ha chiesto a Bergoglio di far pagare l’Imu agli esercizi della Chiesa che svolgono attività commerciale.
Radio Vaticana 1.7.16
Papa Francesco ha ricevuto oggi in Vaticano il nuovo sindaco di Roma Virginia Raggi. Sull’incontro ascoltiamo il primo cittadino della capitale al microfono di Luca Collodi:
R. - È andato molto bene, è stato molto emozionante. Era chiaramente la prima volta che incontravo il Santo Padre. Ho scoperto una persona veramente molto umana; sono rimasta profondamente colpita.
D. – Per lei, in quanto politico, quanto è importante il riscatto morale e spirituale di Roma?
R. - È importante ancora di più dopo tutti i tragici e spregevoli eventi che vanno sotto il nome di “Mafia Capitale” ma che in realtà poi coinvolgono tanti anni di cattiva politica. È necessario che i romani, le persone, i cittadini, capiscano che c’è qualcosa che va al di là del proprio bene: il bene comune, l’interesse generale; è qualcosa che supera il particolarismo e l’egoismo. Credo che noi abbiamo il dovere di riportare questi valori di comunità all’interno di un’amministrazione e di tutte le istituzioni.
D. – Come vede il ruolo della Chiesa nella società romana?
R. – La Chiesa ha sicuramente un ruolo importantissimo in tutta Italia, ma a Roma in particolare, anche perché è “di casa”; siamo vicini, ci guardiamo da un lato all’altro del Tevere! Devo dire che ho apprezzato molto le parole dell’Enciclica Laudato si’, mi sembrano estremamente attuali e moderne; parlano di cambiamenti climatici, di urbanistica come, talvolta, di uno scempio al paesaggio quando viene fatta senza rispettare le regole, dello spirito di comunità, delle persone più fragili. Devo dire che in quell’Enciclica c’è molto della società romana di oggi.
D. - Un’Enciclica che guarda all’ambiente, in particolare, e qui entriamo subito nella vita pratica di una grande metropoli come Roma. C’è ad esempio tutto il tema, ad esempio, dei rifiuti …
R. - Sì, è un tema tra l’altro che stiamo attenzionando in maniera particolare. In questi giorni sono in linea diretta con il presidente Fortini, perché ritengo fondamentale uscire da questa fase di pre-emergenza o quasi emergenza che a mio avviso è stata originata come conseguenza di una cattiva politica e di una cattiva programmazione. Quindi adesso è fondamentale uscire da questo stato di emergenza o di pre-emergenza e ricominciare a programmare in maniera ordinata con una visione del ciclo dei rifiuti che si inserisca all’interno di un disegno di economia circolare che, tra l’altro, anche la stesa Enciclica riprende; parla proprio di economia circolare, quindi di un’economia che non si fonda più sul consumo e sullo scarto, ma sulla possibilità dei beni, degli oggetti, delle cose di essere comunque riassorbiti all’interno di un ciclo produttivo e quindi di rientrare in circolo, magari con una forma diversa.
D. - C’è secondo lei una Roma dimenticata oggi? Parlo del contrasto alla povertà, dell’accoglienza degli immigrati. Si può parlare di Roma dimenticata?
R. - Purtroppo sì, perché effettivamente le persone più fragili hanno bisogno di più attenzioni e queste maggiori attenzioni, di fatto, da parte delle istituzioni comportano una maggiore attenzione anche da un punto di vista economico. E allora quando gli immigrati vengono sfruttati, come è stato il caso di “Mafia Capitale”, e se questo - è evidente - diventa un business per fare soldi e non per aiutare le persone c’è un problema. Noi dobbiamo utilizzare i soldi per fare qualcosa, non dobbiamo utilizzare le persone per fare soldi. Dobbiamo cambiare il paradigma.
D. - Il tema della famiglia. In passato si è discusso molto ad esempio sugli asili nido. Ci sarà un fattore famiglia nella sua gestione di Roma?
R. - Ci sarà un’attenzione ai servizi che da sempre - purtroppo - scontano le politiche dei tagli, perché fino ad oggi invece di tagliare gli sprechi si andava a tagliare i servizi. Lo sappiamo che poi gli sprechi servono a mantenere i privilegi, no? E allora dobbiamo cercare di dirottare tutti i soldi, che fino ad oggi sono andati in sprechi, sui servizi, quindi aumentare l’offerta.
D. - Un’ultima riflessione sulle Olimpiadi. La giunta farà un’ulteriore riflessione per una decisione condivisa?
R. – Se i romani, che fino ad oggi in campagna elettorale non mi hanno mai parlato di Olimpiadi, mi dovessero chiedere un referendum lo valuteremo, ovviamente però esponendo tutti i pro e i contro, esponendo bene i costi e ricordando che proprio l’anno scorso nel 2015 noi abbiamo finito di pagare la rata annuale da 92 milioni di euro dei Mondiali di Italia ’90. Fatevi i conti e capite quanto questi eventi pesano sulle spalle dei cittadini. Questo è fondamentale. Nessuno vuole portare Roma a livelli non competitivi con le altre città europee, ci mancherebbe altro, ma in questo momento nel quale abbiamo un debito di 13 miliardi di euro solo sulla gestione straordinaria, credo che chiedere ai cittadini di indebitarsi per almeno altri 20, 30, 40 anni, non sia etico, non sia giusto.
Papa Francesco ha ricevuto oggi in Vaticano il nuovo sindaco di Roma Virginia Raggi. Sull’incontro ascoltiamo il primo cittadino della capitale al microfono di Luca Collodi:
R. - È andato molto bene, è stato molto emozionante. Era chiaramente la prima volta che incontravo il Santo Padre. Ho scoperto una persona veramente molto umana; sono rimasta profondamente colpita.
D. – Per lei, in quanto politico, quanto è importante il riscatto morale e spirituale di Roma?
R. - È importante ancora di più dopo tutti i tragici e spregevoli eventi che vanno sotto il nome di “Mafia Capitale” ma che in realtà poi coinvolgono tanti anni di cattiva politica. È necessario che i romani, le persone, i cittadini, capiscano che c’è qualcosa che va al di là del proprio bene: il bene comune, l’interesse generale; è qualcosa che supera il particolarismo e l’egoismo. Credo che noi abbiamo il dovere di riportare questi valori di comunità all’interno di un’amministrazione e di tutte le istituzioni.
D. – Come vede il ruolo della Chiesa nella società romana?
R. – La Chiesa ha sicuramente un ruolo importantissimo in tutta Italia, ma a Roma in particolare, anche perché è “di casa”; siamo vicini, ci guardiamo da un lato all’altro del Tevere! Devo dire che ho apprezzato molto le parole dell’Enciclica Laudato si’, mi sembrano estremamente attuali e moderne; parlano di cambiamenti climatici, di urbanistica come, talvolta, di uno scempio al paesaggio quando viene fatta senza rispettare le regole, dello spirito di comunità, delle persone più fragili. Devo dire che in quell’Enciclica c’è molto della società romana di oggi.
D. - Un’Enciclica che guarda all’ambiente, in particolare, e qui entriamo subito nella vita pratica di una grande metropoli come Roma. C’è ad esempio tutto il tema, ad esempio, dei rifiuti …
R. - Sì, è un tema tra l’altro che stiamo attenzionando in maniera particolare. In questi giorni sono in linea diretta con il presidente Fortini, perché ritengo fondamentale uscire da questa fase di pre-emergenza o quasi emergenza che a mio avviso è stata originata come conseguenza di una cattiva politica e di una cattiva programmazione. Quindi adesso è fondamentale uscire da questo stato di emergenza o di pre-emergenza e ricominciare a programmare in maniera ordinata con una visione del ciclo dei rifiuti che si inserisca all’interno di un disegno di economia circolare che, tra l’altro, anche la stesa Enciclica riprende; parla proprio di economia circolare, quindi di un’economia che non si fonda più sul consumo e sullo scarto, ma sulla possibilità dei beni, degli oggetti, delle cose di essere comunque riassorbiti all’interno di un ciclo produttivo e quindi di rientrare in circolo, magari con una forma diversa.
D. - C’è secondo lei una Roma dimenticata oggi? Parlo del contrasto alla povertà, dell’accoglienza degli immigrati. Si può parlare di Roma dimenticata?
R. - Purtroppo sì, perché effettivamente le persone più fragili hanno bisogno di più attenzioni e queste maggiori attenzioni, di fatto, da parte delle istituzioni comportano una maggiore attenzione anche da un punto di vista economico. E allora quando gli immigrati vengono sfruttati, come è stato il caso di “Mafia Capitale”, e se questo - è evidente - diventa un business per fare soldi e non per aiutare le persone c’è un problema. Noi dobbiamo utilizzare i soldi per fare qualcosa, non dobbiamo utilizzare le persone per fare soldi. Dobbiamo cambiare il paradigma.
D. - Il tema della famiglia. In passato si è discusso molto ad esempio sugli asili nido. Ci sarà un fattore famiglia nella sua gestione di Roma?
R. - Ci sarà un’attenzione ai servizi che da sempre - purtroppo - scontano le politiche dei tagli, perché fino ad oggi invece di tagliare gli sprechi si andava a tagliare i servizi. Lo sappiamo che poi gli sprechi servono a mantenere i privilegi, no? E allora dobbiamo cercare di dirottare tutti i soldi, che fino ad oggi sono andati in sprechi, sui servizi, quindi aumentare l’offerta.
D. - Un’ultima riflessione sulle Olimpiadi. La giunta farà un’ulteriore riflessione per una decisione condivisa?
R. – Se i romani, che fino ad oggi in campagna elettorale non mi hanno mai parlato di Olimpiadi, mi dovessero chiedere un referendum lo valuteremo, ovviamente però esponendo tutti i pro e i contro, esponendo bene i costi e ricordando che proprio l’anno scorso nel 2015 noi abbiamo finito di pagare la rata annuale da 92 milioni di euro dei Mondiali di Italia ’90. Fatevi i conti e capite quanto questi eventi pesano sulle spalle dei cittadini. Questo è fondamentale. Nessuno vuole portare Roma a livelli non competitivi con le altre città europee, ci mancherebbe altro, ma in questo momento nel quale abbiamo un debito di 13 miliardi di euro solo sulla gestione straordinaria, credo che chiedere ai cittadini di indebitarsi per almeno altri 20, 30, 40 anni, non sia etico, non sia giusto.
Corriere 1.7.16
Eloquio colorito e gaffe Ma la deputata trama per far pesare le sue truppe
Alla ex capogruppo M5S fanno capo De Vito e molti grillini romani
di Alessandro Capponi
Roma Per comprenderne l’eloquio basta, forse, citare l’hashtag che a volte usa su Twitter: #l’arrestatoPddelgiorno. Declinato, quando lo impone il provvedimento, in #l’indagatoPddelgiorno. Ieri per commentare la conclusione delle indagini a carico di due esponenti dem romani, ha sintetizzato il concetto ritwittando solo due parole: «Oggi doppietta».
È fatta così Roberta Lombardi, classe ‘73, deputata, prima capogruppo alla Camera del Movimento Cinque Stelle e, soprattutto, in ottica Capitale, potentissima tessitrice di trame, punto di riferimento di Marcello De Vito — il più votato a Roma tra i consiglieri che però, sicuramente per pura coincidenza, Virginia Raggi non ha voluto come vicesindaco — e di un corposo gruppo di grillini, comunali e municipali. Per questi suoi modi si è attirata, fin dall’inizio della sua carriera politica, critiche e sfottò. Come quando, nel 2013, a proposito dell’età necessaria per essere eletti alla presidenza della Repubblica, disse, testualmente: «Una certa età anagrafica? Non mi pare che sia scritta in Costituzione». Allora la giornalista cercò di correggerla senza infierire — effettivamente Roberta Lombardi, secondo Wikipedia, è laureata in Giurisprudenza — e di ricordarle il limite minimo dei 50 anni citato nel-l’articolo 84: «Vabbè, non è che c’è scritto dagli 80 anni o dai 70 anni in su, che poi è l’età media dei candidati...».
Ha fatto discutere in molte occasioni, Lombardi. Nel 2013 i cronisti parlamentari raccontavano che andava a bere alla fontanella di Montecitorio, ma non usava i bicchieri di plastica impilati là accanto «perché inquinano». Da parlamentare scrisse sul suo blog che «il fascismo prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia». Fu costretta a tornare sull’argomento per le polemiche che si scatenarono, e se la prese con i giornalisti: «Rimango allibita dalle strumentalizzazioni in atto su una frase estrapolata da un post sul mio blog». Sempre nel 2013 l’ipotesi di un altro mandato per Giorgio Napolitano evidentemente non le piaceva, tanto che lo invitò a fare il nonno e godersi la vecchiaia. Recentemente, in piena campagna elettorale di Virginia Raggi, ha scritto alla scuola frequentata dal figlio: ha usato la carta intestata della Camera dei deputati, proprio come avrebbe potuto fare una qualsiasi «cittadina».
Certo adesso non è più capogruppo, ma lei non è cambiata: sulla candidatura di Roma 2024 le sono bastate poche parole, «tifo per Parigi». Casomai, nelle questioni interne, ha affinato un po’ la tecnica. Da tempo in tanti raccontano di correnti e fronti contrapposti, lei e De Vito di qua, Virginia Raggi di là. E ha destato qualche sorpresa il fatto che Lombardi non si sia fatta vedere all’apertura della campagna elettorale romana. Con il passare dei giorni, però, ha recuperato. Per esempio è stata vicina a Raggi quando è deflagrata la polemica per l’incarico dato a Raffaele Marra, ex alemanniano: «Capiremo se è stata una nomina ponderata, ci sarà un approfondimento...».
Invece nella notte del trionfo di Raggi la deputata è stata perfetta nel tranquillizzare quanti temevano complicazioni: «La squadra? È una questione di giorni». La data del 7 luglio, annunciata per la presentazione degli assessori, si avvicina e il puzzle appare lontano dall’essere completato. Un guaio, per la sindaca: anzi meglio usare «sindaco — dice Lombardi —, le cariche non hanno sesso. Ma adesso c’è questa moda portata avanti dalle femministe di propaganda...» .
Eloquio colorito e gaffe Ma la deputata trama per far pesare le sue truppe
Alla ex capogruppo M5S fanno capo De Vito e molti grillini romani
di Alessandro Capponi
Roma Per comprenderne l’eloquio basta, forse, citare l’hashtag che a volte usa su Twitter: #l’arrestatoPddelgiorno. Declinato, quando lo impone il provvedimento, in #l’indagatoPddelgiorno. Ieri per commentare la conclusione delle indagini a carico di due esponenti dem romani, ha sintetizzato il concetto ritwittando solo due parole: «Oggi doppietta».
È fatta così Roberta Lombardi, classe ‘73, deputata, prima capogruppo alla Camera del Movimento Cinque Stelle e, soprattutto, in ottica Capitale, potentissima tessitrice di trame, punto di riferimento di Marcello De Vito — il più votato a Roma tra i consiglieri che però, sicuramente per pura coincidenza, Virginia Raggi non ha voluto come vicesindaco — e di un corposo gruppo di grillini, comunali e municipali. Per questi suoi modi si è attirata, fin dall’inizio della sua carriera politica, critiche e sfottò. Come quando, nel 2013, a proposito dell’età necessaria per essere eletti alla presidenza della Repubblica, disse, testualmente: «Una certa età anagrafica? Non mi pare che sia scritta in Costituzione». Allora la giornalista cercò di correggerla senza infierire — effettivamente Roberta Lombardi, secondo Wikipedia, è laureata in Giurisprudenza — e di ricordarle il limite minimo dei 50 anni citato nel-l’articolo 84: «Vabbè, non è che c’è scritto dagli 80 anni o dai 70 anni in su, che poi è l’età media dei candidati...».
Ha fatto discutere in molte occasioni, Lombardi. Nel 2013 i cronisti parlamentari raccontavano che andava a bere alla fontanella di Montecitorio, ma non usava i bicchieri di plastica impilati là accanto «perché inquinano». Da parlamentare scrisse sul suo blog che «il fascismo prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia». Fu costretta a tornare sull’argomento per le polemiche che si scatenarono, e se la prese con i giornalisti: «Rimango allibita dalle strumentalizzazioni in atto su una frase estrapolata da un post sul mio blog». Sempre nel 2013 l’ipotesi di un altro mandato per Giorgio Napolitano evidentemente non le piaceva, tanto che lo invitò a fare il nonno e godersi la vecchiaia. Recentemente, in piena campagna elettorale di Virginia Raggi, ha scritto alla scuola frequentata dal figlio: ha usato la carta intestata della Camera dei deputati, proprio come avrebbe potuto fare una qualsiasi «cittadina».
Certo adesso non è più capogruppo, ma lei non è cambiata: sulla candidatura di Roma 2024 le sono bastate poche parole, «tifo per Parigi». Casomai, nelle questioni interne, ha affinato un po’ la tecnica. Da tempo in tanti raccontano di correnti e fronti contrapposti, lei e De Vito di qua, Virginia Raggi di là. E ha destato qualche sorpresa il fatto che Lombardi non si sia fatta vedere all’apertura della campagna elettorale romana. Con il passare dei giorni, però, ha recuperato. Per esempio è stata vicina a Raggi quando è deflagrata la polemica per l’incarico dato a Raffaele Marra, ex alemanniano: «Capiremo se è stata una nomina ponderata, ci sarà un approfondimento...».
Invece nella notte del trionfo di Raggi la deputata è stata perfetta nel tranquillizzare quanti temevano complicazioni: «La squadra? È una questione di giorni». La data del 7 luglio, annunciata per la presentazione degli assessori, si avvicina e il puzzle appare lontano dall’essere completato. Un guaio, per la sindaca: anzi meglio usare «sindaco — dice Lombardi —, le cariche non hanno sesso. Ma adesso c’è questa moda portata avanti dalle femministe di propaganda...» .
La Stampa 2.7.16
Se Matteo rincorre i populisti
di Fabio Martini
La «nuova» Tav, più corta e dall’impatto ambientale più sostenibile, è il primo messaggio del Renzi che verrà. Un Renzi sempre più attento a recuperare l’elettorato malmostoso, l’elettorato che per il momento sta premiando il Movimento Cinque Stelle. Naturalmente ci sono tanti escamotage per contendere elettori ad un movimento di protesta che - da qualche settimana e per la prima volta - si sta candidando a forza di governo. Essenzialmente ci sono due strade ragionevolmente percorribili.
Il presidente del Consiglio può decidere di incrementare il profilo riformista, sfidando il populismo montante con provvedimenti controcorrente, modernizzatori, non necessariamente in sintonia con l’onda che sale. Oppure può produrre atti di governo in qualche modo capaci di «parlare» ad un elettorato mobile. Inseguendolo. Anticipandolo. Interpretandolo. Con la decisione di tagliare circa 25 chilometri di gallerie della Tav e proprio in zone densamente abitate, il governo non abbandona l’opera, ma la reinterpreta.
Lo fa ridisegnando un tracciato che era datato e aggiornandolo secondo due imperativi ritenuti categorici: riduzione dei costi e dell’impatto ambientale. In questo modo Renzi prova a non perdere il connotato modernizzatore, ma riconducendolo dentro binari più «ragionevoli» e comprensibili da un elettorato sempre più intollerante verso tutto quello che viene deciso dall’alto.
La Tav più corta e dal minore impatto ambientale è soltanto un primo segnale e nei prossimi mesi altri ne verranno. Perché oramai, è chiaro, il pericolo per Renzi viene dai Cinque Stelle e la sfida per il governo del Paese si gioca in questo duello. Il dilaniato centrodestra è fuori gioco e rischia di restarci a lungo. Certo, i sondaggi sono istantanee che fissano il presente e nulla dicono del futuro e spesso sono anche istantanee sfuocate. Eppure gli ultimi sondaggi, oramai convergenti, indicano Pd e Movimento Cinque Stelle come appaiati. In alcuni la fiducia nei confronti di Luigi Di Maio è persino superiore a quella nei confronti del presidente del Consiglio. Ma soprattutto, ecco il punto dolente nell’ottica di palazzo Chigi, un ipotetico ballottaggio vedrebbe oggi il movimento di Grillo distaccare nettamente il Pd. Sia chiaro: si tratta di sondaggi che fotografano, più o meno correttamente, gli umori degli elettori italiani all’inizio dell’estate del 2016 e nessuno può giurare che nella primavera del 2018 le intenzioni di voto saranno le stesse. Ma per un leader attentissimo ai sondaggi come Renzi, questi numeri producono inquietudine.
Fino ad oggi il presidente del Consiglio ha sempre reagito con scatti di adrenalina e di decisionismo ai passaggi a vuoto che si sono susseguiti in questi due anni e mezzo. Stavolta appare più riflessivo, meno reattivo e il ridisegno del tracciato della Tav appare un primo segnale. Verso un «grillismo» o un populismo di governo? Presto per dirlo, anche se sembrano andare in quella direzione la ricomparsa (in vista del referendum) degli slogan sulle poltrone cancellate e sui politici in meno garantiti dalla riforma costituzionale. Una cosa è certa: per un leader come Renzi sarebbe più produttivo riprendere la strada di un riformismo - «populista» o modernizzatore, dipende da lui - piuttosto che mettere mano di nuovo alla legge elettorale.
Non soltanto perché una modifica in corsa per danneggiare i Cinque Stelle finirebbe per rendere motivata l’accusa degli avversari al presidente del Consiglio di ridisegnarsi la legge a suo uso personale. Ma c’è una ragione in più che dovrebbe sconsigliare Renzi. Una ragione assente dalla discussione pubblica, ma molto forte: la legge elettorale, in applicazione delle «clausole» contenute nell’Italicum, è entrata in vigore ieri e sarebbe davvero bizzarro modificarla senza averla mai sperimentata. La legge elettorale proporzionale che ha accompagnato la trasformazione dell’Italia da Paese agricolo a potenza del G7 è durata 48 anni. Il cosiddetto Mattarellum è restato in vita 10 anni, così come il malfamato Porcellum. Strozzare nella culla l’Italicum senza averlo mai sperimentato sarebbe un unicum davvero ineguagliabile. Ecco perché la sfida di Renzi al Cinque Stelle sul terreno delle riforme che «parlano» ad un elettorato di frontiera e ancora di più ai tanti elettori del Pd trasmigrati, appare la strada più probabile. E anche quella che potrebbe riservare diverse sorprese.
Se Matteo rincorre i populisti
di Fabio Martini
La «nuova» Tav, più corta e dall’impatto ambientale più sostenibile, è il primo messaggio del Renzi che verrà. Un Renzi sempre più attento a recuperare l’elettorato malmostoso, l’elettorato che per il momento sta premiando il Movimento Cinque Stelle. Naturalmente ci sono tanti escamotage per contendere elettori ad un movimento di protesta che - da qualche settimana e per la prima volta - si sta candidando a forza di governo. Essenzialmente ci sono due strade ragionevolmente percorribili.
Il presidente del Consiglio può decidere di incrementare il profilo riformista, sfidando il populismo montante con provvedimenti controcorrente, modernizzatori, non necessariamente in sintonia con l’onda che sale. Oppure può produrre atti di governo in qualche modo capaci di «parlare» ad un elettorato mobile. Inseguendolo. Anticipandolo. Interpretandolo. Con la decisione di tagliare circa 25 chilometri di gallerie della Tav e proprio in zone densamente abitate, il governo non abbandona l’opera, ma la reinterpreta.
Lo fa ridisegnando un tracciato che era datato e aggiornandolo secondo due imperativi ritenuti categorici: riduzione dei costi e dell’impatto ambientale. In questo modo Renzi prova a non perdere il connotato modernizzatore, ma riconducendolo dentro binari più «ragionevoli» e comprensibili da un elettorato sempre più intollerante verso tutto quello che viene deciso dall’alto.
La Tav più corta e dal minore impatto ambientale è soltanto un primo segnale e nei prossimi mesi altri ne verranno. Perché oramai, è chiaro, il pericolo per Renzi viene dai Cinque Stelle e la sfida per il governo del Paese si gioca in questo duello. Il dilaniato centrodestra è fuori gioco e rischia di restarci a lungo. Certo, i sondaggi sono istantanee che fissano il presente e nulla dicono del futuro e spesso sono anche istantanee sfuocate. Eppure gli ultimi sondaggi, oramai convergenti, indicano Pd e Movimento Cinque Stelle come appaiati. In alcuni la fiducia nei confronti di Luigi Di Maio è persino superiore a quella nei confronti del presidente del Consiglio. Ma soprattutto, ecco il punto dolente nell’ottica di palazzo Chigi, un ipotetico ballottaggio vedrebbe oggi il movimento di Grillo distaccare nettamente il Pd. Sia chiaro: si tratta di sondaggi che fotografano, più o meno correttamente, gli umori degli elettori italiani all’inizio dell’estate del 2016 e nessuno può giurare che nella primavera del 2018 le intenzioni di voto saranno le stesse. Ma per un leader attentissimo ai sondaggi come Renzi, questi numeri producono inquietudine.
Fino ad oggi il presidente del Consiglio ha sempre reagito con scatti di adrenalina e di decisionismo ai passaggi a vuoto che si sono susseguiti in questi due anni e mezzo. Stavolta appare più riflessivo, meno reattivo e il ridisegno del tracciato della Tav appare un primo segnale. Verso un «grillismo» o un populismo di governo? Presto per dirlo, anche se sembrano andare in quella direzione la ricomparsa (in vista del referendum) degli slogan sulle poltrone cancellate e sui politici in meno garantiti dalla riforma costituzionale. Una cosa è certa: per un leader come Renzi sarebbe più produttivo riprendere la strada di un riformismo - «populista» o modernizzatore, dipende da lui - piuttosto che mettere mano di nuovo alla legge elettorale.
Non soltanto perché una modifica in corsa per danneggiare i Cinque Stelle finirebbe per rendere motivata l’accusa degli avversari al presidente del Consiglio di ridisegnarsi la legge a suo uso personale. Ma c’è una ragione in più che dovrebbe sconsigliare Renzi. Una ragione assente dalla discussione pubblica, ma molto forte: la legge elettorale, in applicazione delle «clausole» contenute nell’Italicum, è entrata in vigore ieri e sarebbe davvero bizzarro modificarla senza averla mai sperimentata. La legge elettorale proporzionale che ha accompagnato la trasformazione dell’Italia da Paese agricolo a potenza del G7 è durata 48 anni. Il cosiddetto Mattarellum è restato in vita 10 anni, così come il malfamato Porcellum. Strozzare nella culla l’Italicum senza averlo mai sperimentato sarebbe un unicum davvero ineguagliabile. Ecco perché la sfida di Renzi al Cinque Stelle sul terreno delle riforme che «parlano» ad un elettorato di frontiera e ancora di più ai tanti elettori del Pd trasmigrati, appare la strada più probabile. E anche quella che potrebbe riservare diverse sorprese.
Corriere 2.7.16
I centri per le donne lasciati senza fondi
di Luisa Pronzato Elena Tebano
Il 23 giugno ha chiuso Casa Fiorinda, l’unico rifugio per donne maltrattate di Napoli. Tre giorni prima aveva serrato le porte il Centro antiviolenza Le Onde di Palermo, che adesso riesce a garantire solo l’ascolto telefonico. Il 26 giugno è toccato a Sos Donna H24 lo sportello del Comune di Roma che prendeva in carico 24 ore su 24 le vittime di abusi. Lo stesso potrebbe succedere il 30 luglio, sempre a Roma, al centro Colasanti-Lopez. A Pisa quello gestito dalla Casa della Donna ha dovuto limitare drasticamente i servizi, dopo un taglio del 30% ai fondi. Come Arezzo: ridotto il servizio di ascolto e di reperibilità, chiusa una casa rifugio. Nel 2013 quando fu approvata la legge sul femminicidio, non c’era partito politico che non avesse speso parole pesanti sulla necessità di combattere la violenza sulle donne. Tre anni dopo tanti dei 75 centri della rete nazionale Dire sono in difficoltà per mancanza di soldi.
Colpa di un sistema di assegnazione che ha portato molti dei finanziamenti di quella norma a perdersi nelle maglie della burocrazia. «I fondi per il 2015 e il 2016, circa 9 milioni all’anno stanziati con la legge di Stabilità, non sono ancora stati erogati: stiamo aspettando la conferenza Stato-Regioni che decida cone ripartirli. Non si sa quando» dice Rossana Scaricabarozzi, di ActionAid Italia. Ci sono quelli per il biennio 2013-2014: 16,5 milioni di euro per tutte le Regioni.
La legge del 2013 stabiliva che solo il 20% (circa cinquemila euro l’anno per ogni centro antiviolenza e seimila per le case rifugio) andasse ai centri, gli altri venivano girati alle Regioni che potevano destinarli a progetti diversi: dalle strutture, ai progetti educativi, ai consultori generici. «In Lombardia la Regione li ha messi a bilancio, eppure ai centri antiviolenza quei soldi non sono mai arrivati», denuncia Manuela Ulivi della Casa delle donne maltrattate di Milano. Non è l’unico caso.
Come è possibile? Al momento nessuno lo sa. «Come governo, stiamo verificando con le Regioni l’utilizzo dei fondi loro assegnati — dice la sottosegretaria alla Presidenza del consiglio Sesa Amici —. E l’8 marzo abbiamo emanato un bando diretto a finanziare le azioni di rete dei centri antiviolenza, impegnando 12 milioni di euro». A seguire i soldi ci ha provato la Rete Dire. «Abbiamo visto che spesso non c’è trasparenza e i fondi non arrivano a destinazione — spiega la Presidente Titti Carrano —. La scelta di regionalizzare ha prodotto problemi di burocrazia e ha limitato il confronto con chi lavora nei centri».
Non tutti le difficolta sono legate alla legge sul femminicidio. A Roma i servizi chiusi dovevano essere finanziati con bandi comunali, ma l’amministrazione commissariata ha deciso di non emanarne finché non ci saranno le direttive per il nuovo decreto legislativo sugli appalti pubblici. A Palermo ci sono stati errori, rinvii e ricorsi sul bando del Comune. A Napoli un rimbalzo di responsabilità tra Comune e Regione che attende dal governo i fondi delle politiche sociali. Il problema però è simile: «I centri vanno avanti di progetto in progetto — dice Giovanna Zitiello della Casa della Donna di Pisa —. Passiamo quasi più tempo a fare bandi e cercare soldi che ad aiutare le donne». Si vince la gara, dopo sei mesi o un anno si ricomincia da capo. Non c’è un sistema unico in cui le strutture a che funzionano e hanno i giusti requisiti possano ricevere fondi con continuità. «Manca una seria programmazione nazionale sui servizi — riassume Tania Castellaccio di Casa Fiorinda—. Governo, Regioni ed enti locali danno giustificazioni diverse ma per me che opera contro la violenza il risultato non cambia. Poi è inutile indignarsi quando una donna viene uccisa a colpi d’ascia o una ragazza bruciata».
I centri per le donne lasciati senza fondi
di Luisa Pronzato Elena Tebano
Il 23 giugno ha chiuso Casa Fiorinda, l’unico rifugio per donne maltrattate di Napoli. Tre giorni prima aveva serrato le porte il Centro antiviolenza Le Onde di Palermo, che adesso riesce a garantire solo l’ascolto telefonico. Il 26 giugno è toccato a Sos Donna H24 lo sportello del Comune di Roma che prendeva in carico 24 ore su 24 le vittime di abusi. Lo stesso potrebbe succedere il 30 luglio, sempre a Roma, al centro Colasanti-Lopez. A Pisa quello gestito dalla Casa della Donna ha dovuto limitare drasticamente i servizi, dopo un taglio del 30% ai fondi. Come Arezzo: ridotto il servizio di ascolto e di reperibilità, chiusa una casa rifugio. Nel 2013 quando fu approvata la legge sul femminicidio, non c’era partito politico che non avesse speso parole pesanti sulla necessità di combattere la violenza sulle donne. Tre anni dopo tanti dei 75 centri della rete nazionale Dire sono in difficoltà per mancanza di soldi.
Colpa di un sistema di assegnazione che ha portato molti dei finanziamenti di quella norma a perdersi nelle maglie della burocrazia. «I fondi per il 2015 e il 2016, circa 9 milioni all’anno stanziati con la legge di Stabilità, non sono ancora stati erogati: stiamo aspettando la conferenza Stato-Regioni che decida cone ripartirli. Non si sa quando» dice Rossana Scaricabarozzi, di ActionAid Italia. Ci sono quelli per il biennio 2013-2014: 16,5 milioni di euro per tutte le Regioni.
La legge del 2013 stabiliva che solo il 20% (circa cinquemila euro l’anno per ogni centro antiviolenza e seimila per le case rifugio) andasse ai centri, gli altri venivano girati alle Regioni che potevano destinarli a progetti diversi: dalle strutture, ai progetti educativi, ai consultori generici. «In Lombardia la Regione li ha messi a bilancio, eppure ai centri antiviolenza quei soldi non sono mai arrivati», denuncia Manuela Ulivi della Casa delle donne maltrattate di Milano. Non è l’unico caso.
Come è possibile? Al momento nessuno lo sa. «Come governo, stiamo verificando con le Regioni l’utilizzo dei fondi loro assegnati — dice la sottosegretaria alla Presidenza del consiglio Sesa Amici —. E l’8 marzo abbiamo emanato un bando diretto a finanziare le azioni di rete dei centri antiviolenza, impegnando 12 milioni di euro». A seguire i soldi ci ha provato la Rete Dire. «Abbiamo visto che spesso non c’è trasparenza e i fondi non arrivano a destinazione — spiega la Presidente Titti Carrano —. La scelta di regionalizzare ha prodotto problemi di burocrazia e ha limitato il confronto con chi lavora nei centri».
Non tutti le difficolta sono legate alla legge sul femminicidio. A Roma i servizi chiusi dovevano essere finanziati con bandi comunali, ma l’amministrazione commissariata ha deciso di non emanarne finché non ci saranno le direttive per il nuovo decreto legislativo sugli appalti pubblici. A Palermo ci sono stati errori, rinvii e ricorsi sul bando del Comune. A Napoli un rimbalzo di responsabilità tra Comune e Regione che attende dal governo i fondi delle politiche sociali. Il problema però è simile: «I centri vanno avanti di progetto in progetto — dice Giovanna Zitiello della Casa della Donna di Pisa —. Passiamo quasi più tempo a fare bandi e cercare soldi che ad aiutare le donne». Si vince la gara, dopo sei mesi o un anno si ricomincia da capo. Non c’è un sistema unico in cui le strutture a che funzionano e hanno i giusti requisiti possano ricevere fondi con continuità. «Manca una seria programmazione nazionale sui servizi — riassume Tania Castellaccio di Casa Fiorinda—. Governo, Regioni ed enti locali danno giustificazioni diverse ma per me che opera contro la violenza il risultato non cambia. Poi è inutile indignarsi quando una donna viene uccisa a colpi d’ascia o una ragazza bruciata».
venerdì 1 luglio 2016
Avvenire.it 01.07.16
Orfani di femminicidio senza diritti
di Viviana Daloiso
«Io esisto, la mamma no». La frase risuona nella stanza vuota, poi di nuovo il silenzio. Per alcuni orfani di femminicidio – la letteratura scientifica internazionale li chiama "special orphans", orfani speciali – la prima volta in cui hanno parlato del giorno che ha distrutto la loro vita è stato nel colloquio con la psicologa della Seconda Università degli studi di Napoli Anna Costanza Baldry. Che dal 2011, con un équipe di ricercatori, ha messo proprio loro al centro del suo studio: le vittime collaterali, i sopravvissuti. I bambini segnati per sempre. Che fine fanno? La cronaca li investe di luce soltanto per pochi giorni: è il caso della dodicenne di Pavia che appena due giorni fa è scampata all'efferato delitto della madre fingendosi morta. Il pensiero corre al trauma indelebile di quel che le accaduto, si sprecano commenti e indignazione. Poi, il buio. Questa coltre, negli ultimi dieci anni, è calata su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni su 417, 180 dei quali minori: 52 sono stati testimoni dell'omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura di casa è entrata una pistola, o un fucile, e la quotidianità è esplosa all'improvviso. Nello studio Switch-off, che è stato finanziato dall'Unione Europea, Anna Costanza Baldry ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni di loro oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immane difficoltà; altri sono ancora minorenni, sono stati accompagnati dai loro affidatari. I dati raccolti saranno presentati alla Camera nelle prossime settimane ed entreranno in un documento di Linee guida di intervento che sarà a disposizione dei servizi sociali, dei magi-strati, degli insegnanti, delle forze dell'ordine. Obiettivo: «Seguire un protocollo di azione omogeneo e tempestivo – spiega Baldry –. Capire che queste vittime meritano attenzione e cura». Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Il primo dato allarmante emerso dalla ricerca della Baldry in effetti è proprio questo: la totale mancanza di un sostegno psicologico adeguato ai figli sopravvissuti ai femminicidi. «Significa – chiarisce l'esperta – che nemmeno nel 15% dei casi monitorati è stata seguito un percorso di psicoterapia». Quanto al supporto dei servizi sociali, che obbligatoriamente si attivano all'indomani di fatti simili, soltanto nella metà dei casi il sostegno è andato oltre l'affidamento: «Davvero troppo pochi». Così nel-l'Italia delle battaglie sul "bene superiore" dei minori, dove protocolli e percorsi pensati per chi sopravvive all'epidemia dei femminicidi (uno ogni tre giorni) non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e a gestire l'anno successivo al trauma – quello decisivo secondo i manuali di psicologia per evitare che scelgano di suicidarsi o che diventino a loro volta violenti – pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Cioè quelli che nella tragedia hanno perso una figlia. Trauma su trauma, lutto su lutto. Le montagne da scalare? «I funerali, i processi, l'affidamento». La quotidianità del lutto, il dire o no quel che è successo. E poi quel che resta, cioè moltissimo, del killer: «Tutti chiedono o hanno chiesto del padre», sottolinea Baldry. Perché il papà non si può cancellare, anche quando – e succede spesso – si chiede di veder cambiato il proprio cognome: «In 6 casi su 10, anche se non si è suicidato, è morto comunque. Troppo difficile gestire la sua presenza, le sue lettere, i contatti – continua Baldry –. Soprattutto nel caso di bimbi molto piccoli, poi, gli affidatari preferiscono aspettare la maggiore età per far prendere questa decisione direttamente da loro». Per gli altri il desiderio di un incontro scatta, «qualcuno chiede persino di andare in carcere». E se chi era molto piccolo al momento dell'omicidio della madre non trova spiegazioni per quella inaudita violenza, «chi invece era adolescente costruisce delle ragioni: le liti, lo stress». Le ferite più grandi? «Più che psicopatologie particolari, che nello studio sono state riscontrate in meno casi di quelli attesi, a testimonianza della resilienza tipica dei minori, ci siamo scontrati con la vergogna». Il sentirsi diversi dagli altri e il non potersi sfogare con nessuno, perché i nuovi punti di riferimento spesso sono persone che hanno vissuto il lutto in prima persona, appunto i nonni o gli zii. Nel caso dei maschi, poi, c'è la piaga del senso di colpa: «Mi sono chiuso in camera, non l'ho salvata», è il racconto con cui Giorgio ha paralizzato gli esperti dell'Università di Napoli qualche mese fa. Nessuno, ancora, nemmeno adesso che ha vent'anni, riesce a fargli capire che un bimbo di 6 non può fermare la mano di suo padre. L'incubo che perseguita, il dolore infinito a cui sopravvivere: «Io esisto, mamma no».
Orfani di femminicidio senza diritti
di Viviana Daloiso
«Io esisto, la mamma no». La frase risuona nella stanza vuota, poi di nuovo il silenzio. Per alcuni orfani di femminicidio – la letteratura scientifica internazionale li chiama "special orphans", orfani speciali – la prima volta in cui hanno parlato del giorno che ha distrutto la loro vita è stato nel colloquio con la psicologa della Seconda Università degli studi di Napoli Anna Costanza Baldry. Che dal 2011, con un équipe di ricercatori, ha messo proprio loro al centro del suo studio: le vittime collaterali, i sopravvissuti. I bambini segnati per sempre. Che fine fanno? La cronaca li investe di luce soltanto per pochi giorni: è il caso della dodicenne di Pavia che appena due giorni fa è scampata all'efferato delitto della madre fingendosi morta. Il pensiero corre al trauma indelebile di quel che le accaduto, si sprecano commenti e indignazione. Poi, il buio. Questa coltre, negli ultimi dieci anni, è calata su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni su 417, 180 dei quali minori: 52 sono stati testimoni dell'omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura di casa è entrata una pistola, o un fucile, e la quotidianità è esplosa all'improvviso. Nello studio Switch-off, che è stato finanziato dall'Unione Europea, Anna Costanza Baldry ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni di loro oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immane difficoltà; altri sono ancora minorenni, sono stati accompagnati dai loro affidatari. I dati raccolti saranno presentati alla Camera nelle prossime settimane ed entreranno in un documento di Linee guida di intervento che sarà a disposizione dei servizi sociali, dei magi-strati, degli insegnanti, delle forze dell'ordine. Obiettivo: «Seguire un protocollo di azione omogeneo e tempestivo – spiega Baldry –. Capire che queste vittime meritano attenzione e cura». Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Il primo dato allarmante emerso dalla ricerca della Baldry in effetti è proprio questo: la totale mancanza di un sostegno psicologico adeguato ai figli sopravvissuti ai femminicidi. «Significa – chiarisce l'esperta – che nemmeno nel 15% dei casi monitorati è stata seguito un percorso di psicoterapia». Quanto al supporto dei servizi sociali, che obbligatoriamente si attivano all'indomani di fatti simili, soltanto nella metà dei casi il sostegno è andato oltre l'affidamento: «Davvero troppo pochi». Così nel-l'Italia delle battaglie sul "bene superiore" dei minori, dove protocolli e percorsi pensati per chi sopravvive all'epidemia dei femminicidi (uno ogni tre giorni) non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e a gestire l'anno successivo al trauma – quello decisivo secondo i manuali di psicologia per evitare che scelgano di suicidarsi o che diventino a loro volta violenti – pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Cioè quelli che nella tragedia hanno perso una figlia. Trauma su trauma, lutto su lutto. Le montagne da scalare? «I funerali, i processi, l'affidamento». La quotidianità del lutto, il dire o no quel che è successo. E poi quel che resta, cioè moltissimo, del killer: «Tutti chiedono o hanno chiesto del padre», sottolinea Baldry. Perché il papà non si può cancellare, anche quando – e succede spesso – si chiede di veder cambiato il proprio cognome: «In 6 casi su 10, anche se non si è suicidato, è morto comunque. Troppo difficile gestire la sua presenza, le sue lettere, i contatti – continua Baldry –. Soprattutto nel caso di bimbi molto piccoli, poi, gli affidatari preferiscono aspettare la maggiore età per far prendere questa decisione direttamente da loro». Per gli altri il desiderio di un incontro scatta, «qualcuno chiede persino di andare in carcere». E se chi era molto piccolo al momento dell'omicidio della madre non trova spiegazioni per quella inaudita violenza, «chi invece era adolescente costruisce delle ragioni: le liti, lo stress». Le ferite più grandi? «Più che psicopatologie particolari, che nello studio sono state riscontrate in meno casi di quelli attesi, a testimonianza della resilienza tipica dei minori, ci siamo scontrati con la vergogna». Il sentirsi diversi dagli altri e il non potersi sfogare con nessuno, perché i nuovi punti di riferimento spesso sono persone che hanno vissuto il lutto in prima persona, appunto i nonni o gli zii. Nel caso dei maschi, poi, c'è la piaga del senso di colpa: «Mi sono chiuso in camera, non l'ho salvata», è il racconto con cui Giorgio ha paralizzato gli esperti dell'Università di Napoli qualche mese fa. Nessuno, ancora, nemmeno adesso che ha vent'anni, riesce a fargli capire che un bimbo di 6 non può fermare la mano di suo padre. L'incubo che perseguita, il dolore infinito a cui sopravvivere: «Io esisto, mamma no».