lunedì 17 giugno 2019

Il Fatto 17.6.19
I vedovi renziani nel bunker: viva Lotti, abbasso Zingaretti
Pd più che mai spaccato. Critiche al segretario: “Non chiede la testa di Oliverio ed Emiliano”
di Marco Franchi


La bufera del Csm agita ancora il Partito democratico. E soprattutto lo stato maggiore dell’ala renziana, ieri riunita ad Assisi: l’occasione è stato il primo raduno nazionale della mozione “Sempre Avanti” del deputato dem Roberto Giachetti.
Qui una parte del partito ha difeso Luca Lotti, l’ex sottosegretario autosospesosi dal Pd dopo che sono state pubblicate le intercettazioni delle riunioni alle quali partecipava con alcuni magistrati per discutere di chi avrebbe dovuto prendere il posto di procuratore capo di Roma (cioè il titolare dell’accusa nel processo Consip, a carico anche del deputato-imputato Lotti). I renziani difendono il parlamentare amico e attaccano il segretario Nicola Zingaretti.
Tra i primi a intervenire Maria Elena Boschi: “Sono arrivati più attacchi a Lotti dall’interno del Pd che dagli avversari politici. Autosospendendosi ha fatto una scelta che non era scontata e dovuta, di grande generosità verso la comunità del Pd e va quindi rispettato”, dice l’ex ministra, augurandosi che “in una comunità come il Pd, vista anche la disponibilità di Lotti, ci si possa parlare guardandosi negli occhi. E non con interviste che sparano addosso ai compagni del proprio partito”.
Il riferimento sembra essere a Luigi Zanda, tesoriere del Pd, che in un’intervista del 14 giugno al Corriere della Sera invitava Lotti a valutare “di lasciare il Pd finchè non sarà chiarita la sua posizione”. E proprio sul tesoriere del partito interviene anche Roberto Giachetti: “Lotti è un parlamentare, non un ministro. È una richiesta di una gravità enorme dirgli: devi uscire provvisoriamente dal partito”. Non solo: “C’è stato un problema serio per Catiuscia Marini in Umbria (la governatrice Pd, dimessasi perchè indagata nell’inchiesta sui concorsi truccati delle Asl, ndr) e immediatamente le vengono chieste le dimissioni. Dopo un po’ di tempo Oliverio in Calabria riceve un avviso garanzia, avete sentito voi una richiesta di dimissioni? No. E poi arriva un avviso di garanzia al governatore della Puglia, non ho sentito richieste a Michele Emiliano di fare un passo indietro”. “Sembra che nel campo della politica – continua Giachetti – quel che ha fatto Lotti non abbia paragoni: ma quando D’Alema ha fatto i comitati per il No al referendum nessuno gli ha chiesto di sospendersi dal Pd”.
Da Lotti poi la discussione si allarga. E arriva ai vertici. L’attacco è quindi per Zingaretti e la sua nuova segreteria (senza renziani). Dice ancora Giachetti: “Noi non siamo entrati in segreteria perché non abbiamo condiviso la linea politica del segretario dopo le primarie”. Gli fa eco Anna Ascani, vicepresidente del Pd: “Questa segreteria è a immagine e somiglianza del segretario, che ha diritto di farla come vuole, ma più che una segreteria del Pd mi sembra del Pds”. Ieri, ma dalla sua pagina Twitter, è intervenuto anche Carlo Calenda: “Facciamola finita con questo cazzeggio. E quando vince Renzi lo sabotano da sinistra e quando vince Zingaretti si incazzano gli altri. Che palle ’sto partito”. Alla domanda a quale componente appartiene, Calenda poi replica: “Una componente semiclandestina: quella che fa opposizione al Governo che sta distruggendo l’Italia! Mi vergogno di essere andato a chiedere voti per un partito che è incapace di stare insieme mentre il paese va a ramengo”.

Il Fatto 16.6.19
I turborenziani ancora strillano alla gogna. Ma alla base l’autosospensione non basta
Scollamento - Da Morani a Nobili, tutti contro la “furia giustizialista” del nuovo Pd
di Lorenzo Giarelli


Il Pd ha davvero perso la sua anima garantista, lasciando Luca Lotti alla mercé di forcaioli e manettari? Così sostiene buona parte degli esponenti dem, incuranti di quello che nel frattempo anima la base del partito. Da due giorni il leitmotiv dei pasdaran lottiani, molti dei quali si sono ritrovati ieri per un evento a Assisi, è lo stesso: la segreteria doveva difendere di più l’ex ministro. Alessia Morani, per esempio, ha tuonato: “Luca si è autosospeso dopo giorni di gogna mediatica spinta anche dal nostro stesso partito. Non ha commesso alcun reato eppure la furia giustizialista del nuovo Pd non perdona”. Così anche la deputata Alessia Rotta: “Il mio partito in questi anni si era contraddistinto per la capacità di essere garantista e non ha mai cavalcato inchieste e intercettazioni per fare rese dei conti politiche”. Solito copione di Luciano Nobili, altro renziano: “Si parla di nuovo Pd, Zingaretti ci spieghi come funziona: vedo tanta nostalgia del passato, non vedo novità, solo un vecchio, insopportabile giustizialismo”. D’altra parte la linea l’aveva dettata il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, secondo cui “il garantismo non può essere usato a fasi alterne” e “saranno in molti, anche tra i dirigenti del Pd, che dovranno scusarsi con Lotti”.
Eppure sul caso lo scollamento con la base (e non solo) è evidente. Nicholas Ferrante, giovane militante di Avellino, è critico con i tentennamenti dei vertici: “Lotti si è autosospeso. Ma non basta, va allontanato dal partito. C’è una questione etica della politica rispetto alla quale l’autosospensione è una presa per i fondelli”.
Anche Peppe Provenzano, membro della direzione nazionale del Pd, ribadisce la differenza tra processi e etica: “C’è una questione politica, e il giustizialismo e il garantismo non c’entrano nulla con il comportamento di Lotti e Ferri”. Idee chiare, come quelle di Cinzia Dicorato, attivista di Barletta: “I territori sono ormai terremotati. In Puglia perdiamo pezzi e circoli. Il permanere in questo stato di cose, il mantenere certe figure che pensano solo alla loro sopravvivenza politica sta facendo scomparire la base, i militanti, che ormai sono demotivati e scoraggiati. Bisogna avere il coraggio di dare uno scossone”. Lo stesso appello arriva da Roma, per bocca di Federico Tempestini (Circolo Libertà è partecipazione): “Lotti non doveva discutere del futuro della Procura di Roma, la stessa dove è indagato”. Dalla Capitale a Genova, dove Alessandro Terrile, consigliere comunale Pd, striglia il partito: “Fare finta di niente non ci porterà da nessuna parte, se non verso l’abisso. Non c’entra nulla il codice penale. È tutta morale e politica la situazione: ora chi ha sbagliato la smetta di invocare complotti”. Ma anche dalla Toscana, terra di Lotti, arrivano critiche dure, come quella del membro della direzione regionale Valerio Fabiani: “È impensabile che la dirigenza regionale del partito – la responsabile toscana è Simona Bonafé, ndr – non esprima su questa vicenda una posizione netta e capace di salvaguardare la nostra comunità”.
E non basta l’autosospensione a risolvere la questione: “Se avessero un po’ di dignità politica – scrive Francesco Miragliuolo, Giovani Democratici di Fuorigrotta – si sarebbero dimessi”. Senza neanche invocare il garantismo.
di Lorenzo Giarelli | 16 Giugno 2019

La Stampa 17.9.19
il sorteggio, un’idea strampalata
di Vladimiro Zagrebelsky


Quasi ogni ministro della giustizia negli anni scorsi è stato autore di una riforma «epocale». In realtà si è sempre trattato di bricolage in questo o quel settore della complessa macchina, mai capace di mutare significativamente lo stato dei problemi. Ora è annunciata una nuova iniziativa legislativa. Benvenuta se affrontasse seriamente il problema dei problemi della giustizia italiana: quello gravissimo dei tempi della giustizia civile e penale. Si è chiesto mille volte, da tutti. Il problema però rimane enorme e strutturale. Sono necessari strumenti moderni, qualificato personale delle cancellerie, semplificazione dei pesanti e spesso inutili adempimenti procedurali. E forse occorrerebbe pensare che anche gli oltre 230.000 avvocati italiani sono parte del problema.
Ma, inevitabilmente, dei tanti e diversi problemi che affliggono il sistema giudiziario italiano, ora tiene banco quello rivelato dalla vergogna dei traffici notturni tra parlamentari e magistrati per coprire alcuni posti rilevanti in uffici giudiziari. In proposito vorrei non si sottovalutasse il linguaggio sguaiato di quei signori, adatto certo alla natura delle loro trame, ma brutto segno, pensando che si tratta di membri del Parlamento e della Magistratura, una élite –senza offesa- della Repubblica.
All’ordine del giorno c’è la riforma della legge elettorale per la parte del Csm composta da magistrati. Di quella eletta dal Parlamento non si parla. Quasi ogni quadriennale elezione si è svolta sotto nuove leggi. Tutte all’insegna della lotta al correntismo nella magistratura. Spesso si trattava di leggi che volevano favorire questa o quella componente della Associazione dei magistrati. Il più delle volte le intenzioni politiche non si sono realizzate. Ciò perché le associazioni di magistrati esistono e non si cancellano per legge. Una volta esse si distinguevano per significative diversità riguardanti il ruolo del giudice giurista, chiamato ad interpretare le leggi prima di applicarle, oppure relative alla visione dell’organizzazione degli uffici giudiziari e delle loro priorità. Visioni diverse, radicate nella storia, fondate sulla Costituzione: legittime, ma diverse. Chi ancor oggi proclama che i giudici non interpretano, ma applicano le leggi, dice una sciocchezza. Nel corso della storia, sembravano crederci personaggi illustri e meno illustri, da Giustiniano a Robespierre. Ma non è mai stato vero. Il sistema delle leggi, con la Costituzione al vertice, è più complesso di quanto costoro mostrino di credere. E le opzioni interpretative, degnamente argomentabili, sono molteplici. In questo contesto la magistratura – in particolare a partire dagli anni ’60 del secolo scorso - prese a dividersi, dando inizio a forti, talora violente, spesso nobili discussioni. E il Csm, in un modo o nell’altro eletto dai magistrati, ne è stato lo specchio. Con pagine buie o almeno inadeguate, certo. Ma anche con pagine di altro segno. La magistratura, con la Sezione disciplinare del Csm, ha espulso e sanzionato i magistrati iscritti alla P2. Quale altra istituzione della Repubblica lo ha fatto?
Associazioni di magistrati, un tempo chiaramente identificabili per la loro impostazione culturale e professionale, progressivamente sono state viste come strumenti di gestione di clientele elettorali. Però le storie che ora emergono sono storie trasversali alle correnti, che vedono capi e capetti gestire interessi loro, forti dei voti ottenuti e che manovrano. Purtroppo la caduta del senso istituzionale che si manifesta anche nella magistratura (eletti e elettori sono tutt’uno), non si cura con espedienti legislativi. Siamo di fronte ad un problema di etica e dignità professionale.
Ora circola l’idea strampalata, oltre che incostituzionale, di far eleggere i magistrati del Csm mediante sorteggio. Nel clima creatosi attorno al Csm per l’imperdonabile colpa di quei signori, si parla seriamente di elezione mediante sorteggio! Si dice che si vogliono eliminare le deviazioni clientelari che si nascondono sotto le diversità, che nascono dal dibattito sui caratteri della funzione del magistrato. Pur attenuate esse però esistono ancora, meritano rispetto e valorizzazione. La soluzione del sorteggio tende invece a eliminarle dal luogo in cui, secondo Costituzione, l’autonomia e indipendenza della magistratura dovrebbe essere garantita.

Il Fatto 17.6.19
La Cgil passa dal rosso al verde: quasi la metà simpatizza Lega
di Lorenzo Giarelli


Piazze rosse, urne verdi. Pietro Nenni forse spiegherebbe così il paradosso della Cgil: mentre il segretario Maurizio Landini lancia l’idea di uno sciopero generale contro il governo, una ricerca Ipsos mostra come alle elezioni europee quasi il 40% dei tesserati abbia votato per i gialloverdi, con un gradimento personale per Matteo Salvini pari al 44%. Numeri da un think tank di destra, più che da sindacato di sinistra.
Beninteso: di voto operaio alla Lega si parla ormai da decenni, ma la voragine tra la voce della segreteria e i dati delle urne è oggi amplificata da un contesto politico senza precedenti. A spiegarlo è Sergio Cofferati, che della Cgil è stato il leader dal 1994 al 2002: “Molti tesserati votavano già la Lega di Bossi, ma il fenomeno era circoscritto a Lombardia, Veneto e parte del Piemonte”. Poi è arrivata la svolta nazionalista di Salvini, anche tra gli iscritti. E così alle ultime europee il Pd è stato ancora il primo partito tra i tesserati Cgil, con il 44,8%, ma la Lega è salita al 18,5 dal 10% di un anno fa, tallonando il M5S al 19,9. Risultati che fanno il paio con gli indici di gradimento di Giuseppe Conte (58%), Luigi Di Maio (39) e del già citato Salvini (44). Giovedì scorso, ospite a Otto e mezzo, Landini ha glissato sull’argomento, rivendicando come la maggioranza degli iscritti sia ancora contro il governo. Chi gli è stato vicino in questi giorni giura che il segretario non ne fa una questione personale: “Più che chiedersi perché gli iscritti votino Lega – riferisce chi gli ha parlato– vorrebbe che ci si domandasse perché chi vota Lega è iscritto alla Cgil”. Una fuga in avanti per leggere i dati alla luce del pragmatismo: i lavoratori si iscrivono alla Cgil perché ritengono li rappresenti meglio sul lavoro e allo stesso modo votano gialloverde perché credono siano la miglior soluzione per il Paese. Ogni ideologia rimane fuori, contano rapporti di fiducia e il criterio dell’utile. Una spiegazione del genere se la dà anche Gianfranco Pasquino, politologo con un passato nella Sinistra Indipendente: “Salvini si è impadronito di due temi chiave per i tesserati: l’immigrazione, che viene descritta anche come una sfida occupazionale”. Tradotto: se la Lega assicura di proteggere i posti di lavoro dall’avanzata straniera, anche chi ha la tessera Cgil si sente più rassicurato. “L’altra questione è la sicurezza: probabilmente molti operai o pensionati iscritti ai sindacati sentono questa esigenza. Io non condivido le risposte che dà Salvini, ma almeno, a differenza della sinistra, alcune risposte le dà”.
Legittimo, a questo punto, obiettare che non ci sia alcun problema se gli iscritti a un sindacato – che comunque rivendica la propria autonomia dai partiti – simpatizzano per un leader lontano dall’area di riferimento della propria rappresentanza. Sergio Cofferati, per esempio, ricorda una certa ragion di Stato: “Nel ’94 contestammo in piazza la riforma delle pensioni di Berlusconi. Fu una protesta molto ampia, ma che ebbe la sua sostanza in Parlamento nella Lega, che ritirò la fiducia a Berlusconi e fece cadere il governo”.
Sullo stesso solco Mattia Forni, ricercatore Ipsos: “Il sindacato viene sempre più percepito come un fornitore di servizi, più che come un trasmettitore di valori o un contenitore politico. Per cui non c’è incoerenza, secondo i tesserati, a far parte della Cgil, aprezzandone l’aiuto sul lavoro, per quel che vediamo, e poi votare a destra”. Ma secondo Ivan Pedretti, segretario del Sindacato Pensionati Italiani Cgil, nella deriva verde dei lavoratori c’è invece un’anomalia: “Il tema per noi non è per chi votano gli iscritti, ma se i valori espressi da quella forza politica sono in contraddizione con quelli del sindacato. E la Lega spesso si contrappone alle idee di solidarietà, inclusione sociale, tolleranza, diritti delle donne che per noi sono fondamentali”. Che fare, allora, per invertire la tendenza? “Bisogna confrontarci con i lavoratori per riaffermare i nostri valori. Il sindacato deve tornare a essere un punto di riferimento nel territorio, costruendo relazioni sociali e aiutando la gente nel concreto”. E quindi una mano “per gli asili nido, il risanamento urbano, piattaforme logistiche per i più anziani (ascensori, scale mobili in città)” e tutta la fetta di welfare di cui può farsi carico un sindacato.
Qui è mancata la Cgil, secondo Pedretti, ma forse qui stanno anche le colpe dei partiti di sinistra, che “dovrebbero sentirsi addosso questa responsabilità – Cofferati dixit – perché se un lavoratore Cgil oggi vota Lega vuol dire che non vede nel Pd ipotesi di soluzioni ai suoi problemi”. E questa, oltre che un tema di identità, può essere una questione elettorale: “I dem devono preoccuparsi – sostiene Pasquino – perché se perde quel bacino di voti diventa difficile uscire da quel 20-22%. Ma deve smetterla di dire soltanto che non va bene quel che fa Salvini, limitandosi a demonizzare la destra”.

Corriere 17.6.19
L’ultimo biglietto del prof suicida
Napoli, il docente accusato di abusi da due 15enni e il messaggio alla famiglia. Il dolore di colleghi e allievi
di Fulvio Bufi

NAPOLI Ora che il professore del «Gian Battista Vico», accusato di aver avuto rapporti sessuali con due ex allieve non ancora quindicenni, si è ucciso non ci sarà mai più una verità giudiziaria su questa vicenda che ha sconvolto la vita di almeno tre famiglie e di una intera comunità scolastica fatta di docenti, alunni e genitori.
Non ci sarà mai più una verità giudiziaria perché l’inchiesta della Procura della Repubblica di Napoli è destinata inevitabilmente a spegnersi. Secondo il dispositivo dell’articolo 69 del codice di procedura penale, qualora il decesso dell’accusato avvenga durante la fase delle indagini preliminari (come in questo caso), «il pubblico ministero chiederà al gip l’archiviazione del procedimento».
Alla Procura tocca quindi un’ultima incombenza, poi uscirà di scena. E sul campo rimarranno soltanto le macerie umane di tutti i protagonisti: la moglie e i figli del docente suicida, le due quindicenni che hanno raccontato al magistrato e ai carabinieri di aver avuto rapporti intimi con lui, gli amici e i parenti degli uni e delle altre.
L’ultima coda giudiziaria (separata dall’inchiesta originaria) rimane il fascicolo aperto sul suicidio, ma non c’è molto da indagare. Il biglietto scritto dal professore prima di esplodersi un colpo di pistola al petto non contiene espressioni contro chi lo ha accusato, né recriminazioni relativamente all’indagine o al rilievo mediatico che essa ha avuto nei giorni scorsi.
È un drammatico e privatissimo messaggio rivolto alla moglie e ai figli, e a loro sarà riconsegnato quando il magistrato riterrà di poterlo sbloccare dopo averne disposto il sequestro, sabato pomeriggio. Pressoché chiarita anche la questione della pistola, che pare fosse un ricordo di famiglia che il docente (sprovvisto di porto d’armi) conservava nella cantina dove si è chiuso per uccidersi.
Ciò che veramente rimane in piedi in tutta questa tragedia, è l’assoluta convinzione, da parte di chi lo ha conosciuto, che il professore fosse innocente, che mai uno come lui avrebbe potuto fare le cose di cui è stato accusato.
Quella piattaforma di messaggistica sulla quale, secondo la tesi accusatoria, avrebbero viaggiato le conversazioni tra il docente e le allieve, è adesso la piazza dove in tanti lasciano un biglietto, un ricordo, una foto.
Nella scuola
Al «Vico» dubbi e sospetti. Un’insegnante «Non riposerai in pace, cercheremo giustizia»
C’è lo studente che dice: «Oggi se ne va un pezzo di me, una persona che mi ha sempre spinto a dare il meglio e ad amare la vita»; e poi ci sono i colleghi, del «Vico» e di altre scuole. Addolorati ma anche arrabbiati.
Come la professoressa che per il suo messaggio sceglie lo sfondo nero: «Non riposerai in pace. Cercheremo la verità e la giustizia che meritavi in vita».
Parole che nascono dall’emozione, dall’amicizia, dall’affetto. E indubbiamente anche dalla certezza che il professore di matematica sia la vera vittima di questa vicenda. E parole che, seppure non citando mai le due ragazze, le pongono in una posizione ribaltata rispetto a quella ufficiale delineata dagli atti dell’inchiesta.
Lì sono le figure deboli, per la minore età innanzitutto, e perché al docente erano affidate (come recita l’articolo del codice penale contestato) «per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza».
Ma nell’ambiente del «Gian Battista Vico» e della scuola napoletana — che si è ritrovato unito anche se le lezioni ormai sono ampiamente concluse — loro sono quelle che hanno raccontato cose inverosimili e perciò ritenute false. E il rischio di isolamento che corrono, qualunque sia la verità dei fatti che nessuno conoscerà mai, è l’ennesimo aspetto di questa tragedia. Che, proprio in quanto tragedia, ha fatto soltanto vittime.

Il Fatto 17.6.19
A Firenze contano solo i soldi: il centro storico ai privati
di Tomaso Montanari


“Firenze città martire”, frigna sul Foglio il solito cialtrone iracondo. E non ce l’ha con il Giglio magico dei figli di trojan le cui trame notturne stanno svelando anche ai ciechi la vera natura del loro comitato d’affari. “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande! /Tra li ladron trovai cinque cotali / tuoi cittadini onde mi ven vergogna, / e tu in grande orranza non ne sali”. No, il martirio consisterebbe nella ventilata soppressione del- l’autonomia della Galleria dell’Accademia, dove legioni di turisti sudano sotto il Pisello di Marmo. Gli argomenti? Uno solo: i quattrini. L’Accademia autonoma ha fatto il 22 % in più di sbigliettamento: e dunque Franceschini santo subito.
Il sindaco Nardella, appena trionfalmente rieletto (“Fiorenza mia … Or ti fa lieta, ché tu n’hai ben onde: tu ricca, tu con pace e tu con senno!”), ha tuonato: “Abolire l’autonomia dei musei? Sarebbe un colpo mortale”. E il Corriere Fiorentino, dorso locale pressoché clandestino del Corriere, non smette di eruttare editoriali vibranti di indignazione, con un solo argomento: “Prima di imboccare una strada precisa e stilare un documento così radicalmente orientato, non sarebbe stato ragionevole approfondire gli effetti della riforma in vigore, in tutti i suoi risvolti? … I ricavi delle Gallerie degli Uffizi sono passati in quattro anni da 8 milioni e 226.064 euro a 18 milioni e 784.164; quelli dell’Accademia da 5 milioni 946.402 a 9 milioni 192.753”.
Dunque i musei devono essere misurati come aziende: sul fatturato. Curioso che, nella stessa Firenze, il mondo dell’impresa che, sul suo giornaletto, si straccia le vesti contro la riforma Bonisoli sia radicalmente incapace di fare il proprio, di mestiere. Falliscono i fratelli Alinari: e non si trova uno straccio di imprenditore capace di comprare e rilanciare un formidabile strumento di impresa culturale. No, per salvare quel patrimonio si dovrà svenare la Regione: come è lo Stato che ha dovuto comprare quel Museo Ginori che la Kering, colosso della moda che abusa ogni giorno del nome di Firenze, aveva lasciato andare in rovina.
Firenze non ha un’impresa degna di questo nome. Ha solo la rendita di un turismo selvaggio: 28.000 al giorno contro 18.000 residenti del centro storico. Una marcia forzata verso la morte di cui muore Venezia. Una corsa a rotta di collo verso la totale gentrificazione, cioè verso la creazione della città dei ricchi costruita attraverso l’espulsione dei residenti. In un palazzo della piazza in cui abito un appartamento è stato appena frazionato in sei (!) unità: sei loculi per Airbnb. E sulla facciata del mio, di palazzo, la settimana scorsa è apparsa una scritta: “Turist go home”. Una protesta (così l’ha intesa il Comune, che purtroppo l’ha cancellata con insolita efficienza), o forse un’indicazione turistica, visto che su 5 appartamenti del mio palazzo uno è un bed and breakfast e un altro un Airbnb.
La pressione mostruosa del turismo e la totale assenza di ogni visione e progetto di città hanno stravolto la vita culturale dei fiorentini. Nel centro storico non ci sono più cinema: di questi giorni la notizia che l’ultimo possibile, l’Eolo, si trasformerà – come ogni buco libero – in hotel e ristorante. Il Teatro Nazionale sta diventando una spa di lusso. Un rosario devastante di colpi mortali a ogni idea di residenza culturale: come dimenticare in questi giorni l’idea demenziale di regalare l’ex Tribunale, il complesso monumentale di San Firenze, alla fondazione di Zeffirelli, pace all’anima sua. “Quando nei volti vili della città nemica / leggo la morte seconda / e tutto, anche ricordare, è invano” (Franco Fortini, su Firenze).
Se l’Arno fosse abbastanza largo, le Grandi Navi che umiliano Venezia sarebbero invitate a costeggiare gli Uffizi: e già oggi i fuochi d’artificio festeggiano a tutte le ore le sfilate di Pitti che sciamano nelle strade di un centro senza più un abitante, ma decorate con drappi di stoffe preziose il cui cattivo gusto è pari solo alla funebre fanfaronaggine della retorica sulla ‘culla del Rinascimento’ che vezzeggia quella che ne sembrai ormai piuttosto la desolata tomba. “Sono così pazzo – diceva Tiziano Terzani – che per protestare contro il degrado di Firenze e della mia amata via Tornabuoni, dove una delle più belle librerie di Firenze, la Seeber, è stata sostituita da un negozio che vende mutande firmate, ogni volta che ci passo davanti apro la porta e urlo dentro: Vergogna!”
E in tutto questo, i musei autonomi? Hanno drenato fiumi di denaro ed energia a tutti gli altri musei fiorentini. E perché, qualcuno mi deve spiegare, togliere ora l’autonomia alla Casa del Pisello di Marmo sarebbe un colpo mortale, e invece averla negata, per dire, al Museo di San Marco andava bene?
Ma, soprattutto, qualcuno si è chiesto cosa abbiano fatto, per esempio, gli Uffizi autonomi per la città? Dico oltre al fatturato, ai selfie del direttore con Russel Crowe e ai festini privati a Palazzo Pitti?
Qualcuno si chiede perché nessuna famiglia fiorentina ci vada più, agli Uffizi, che hanno aumentato il costo del biglietto in modo irresponsabile (ah, il fatturato!)? E perché le scuole ne sfuggano come la peste?
Qualcuno si chiede perché i musei autonomi fiorentini siano usciti fuori dai radar della ricerca internazionale? Qualcuno discute gli allestimenti nuovi degli Uffizi: inutili, costosissimi, museograficamente sbagliati, esteticamente orrendi?
No, perché nessuno a Firenze ricorda più che cosa ci sia, in un museo. A parte la biglietteria, ovviamente.

Il Fatto 16.6.19
I disperati dell’Ucraina divisa
di Michela A.G. Iaccarino


Prima che scoppiasse la guerra, era una passeggiata. Qualche minuto in autobus o una manciata di chilometri a piedi. Adesso è l’attraversamento di un campo minato, slalom tra i crateri lasciati lungo la strada dalle bombe, tra file di uomini che sparano in direzione contraria. Bus, file di ore, controlli ai checkpoint: sono almeno dieci ore di viaggio da una sponda all’altra. Da un lato il tricolore di Donetzk, dall’altro il bicolore di Kiev. Per i pensionati delle regioni del Donbass questo è il confine tra la pensione o la morte per fame.
Chi con le stampelle, chi in sedia a rotelle. Qualcuno da solo e zoppicando. I pensionati delle regioni in conflitto devono attraversare una volta ogni due mesi il checkpoint armato dei territori sotto controllo dei filorussi del Donbass per raggiungere la città di Stanytsia Luhanska, dove sventola il primo bicolore dello Stato ucraino, e ritirare la pensione.
Da gennaio ad aprile scorso, sono 19 i nomi nel report dell’Osce di chi non ce l’ha fatta lungo quella strada, a 530 miglia a est di Kiev e a 15mila dal confine russo. Per raggiungere il confine del loro stato, i pensionati ucraini muoiono marciando. Il destino d’Ucraina si è coagulato su un punto preciso e gravido di simboli della sua mappa di guerra: sul fracassato e traballante ponte di legno sospeso sul fiume di Siverskiy Donets, lungo il percorso per Stanytsia. Secondo Human Right Watch, ogni giorno 10 mila persone, che hanno più di 60 anni, malattie o disabilità croniche, attraversano il confine per ritirare la pensione. È la marcia delle babuske, le nonne slave dalla testa velata dagli scialli di pizzo a fiori. Un milione di persone ogni mese varcano il confine di quello che una volta era un solo Stato e ora è diviso in due sponde confuse, dove si muore di infarto cercando di raggiungere la prima banca statale disponibile a pagare, perché la burocrazia del conflitto è silenziosa ma uccide con la fame più delle bombe. Cinque anni dopo Maidan, non c’è vittoria e non c’è verità. Solo lunghe file di anziani dai capelli bianchi in attesa di 9.000 grivne di pensione, meno di cento dollari al mese. Sono minatori, operai, guidatori dei bus che per almeno 50 anni hanno portato da una shakta, miniera, all’altra i colleghi. Per la Croce rossa, ci sono almeno sei collassi al giorno e 5 persone sono morte aspettando la pensione. Sotto la neve siderale d’inverno, sotto i raggi bollenti d’estate: “Non mangiano perché non saprebbero dove andare in bagno”.
Alcuni non ricevono la pensione da 17 mesi perché non riescono ad attraversare il confine, altri si perdono in un labirinto burocratico che ad alcuni anziani è costato la fame e la perdita di circa dieci chili in un anno. Le misure restrittive introdotte da Kiev nel 2017, secondo cui gli abitanti delle zone di guerra devono identificarsi e registrarsi in territorio ucraino come profughi interni per dimostrare la loro non affiliazione alle repubbliche filorusse, hanno bloccato l’accesso a oltre 400 mila pensionati al loro unico supporto finanziario, dicono le cifre pubblicate dalle Nazioni Unite.
È una triste verità locale nella guerra globale che non interessa più a nessuno. Secondo Oleksiy Matsuka, Istituto informazioni Donetzk, “le persone in Donbass hanno bisogno di chiarezza da parte delle istituzioni ucraine, è il terzo anno di fila che non percepiscono le pensioni da Kiev”, ma la retorica ufficiale ha rintracciato un comodo alibi per il meccanismo imperfetto del mancato pagamento “nella responsabilità del Paese aggressore”, ovvero la Russia.
I vecchi lavoratori sovietici stanno in bilico tra sovranità ucraina, casse russe e bilanci slavi, entrambi comunque amari. L’attore, oggi presidente, Zelinsky in campagna elettorale aveva promesso di occuparsi anche di loro, ora esercita prudenza che assomiglia al timore, per non mantenere una promessa che potrebbe rivelarsi solo una battuta. Tre giorni dopo la sua vittoria alle urne, il presidente russo Putin ha optato per uno strategico lasciapassare geopolitico, facilitando l’accesso alla cittadinanza e passaporto della sua Federazione per i cittadini delle regioni in guerra. Secondo le ultime stime risalenti al 2018, potrebbero richiederlo anche 438 mila pensionati nella Repubblica Popolare di Lugansk e 681 mila nella Repubblica di Donetzk, un milione di persone che potrebbero ricevere 8.000 rubli di pensione, una cifra complessiva che costerebbe a Mosca 110 miliardi di rubli, un milione e mezzo di euro.

Alias Domenica 16,6.19
Arte sovietica, il tradimento dell’utopia concreta
A Parigi, Grand Palais, "Rouge. Art et utopie au pays des Soviets", a cura di Nicolas Liucci-Goutnikov. La mostra documenta, con oltre quattrocento opere, l’involuzione delle forme dall’Ottobre alla morte di Stalin, dalla presa diretta sulla vita sociale postulata dalle avanguardie al modello idealizzante del kitsch di stato
di  Davide Racca


PARIGI «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo». Con l’avvento della Rivoluzione d’ottobre l’undicesima tesi su Feuerbach di Marx sembra finalmente avverarsi. Majakovskij è protagonista e interprete di questo primissimo vagito sovietico, e ricordando in versi quella stagione nel 1930, anno del suo suicidio e del suicidio stalinista del socialismo, scrive: «Noi aprivamo/ ogni tomo/ di Marx,// come in casa/ propria/ si aprono le imposte,// ma anche senza leggervi/ noi comprendevamo// da quale parte andare,/ in quale campo combattere» (da A piena voce, traduzione di Angelo Maria Ripellino). Già dalle prime battute rivoluzionarie gli avanguardisti russi sono pronti ad agire e vedono davanti a sé la possibilità di creare un mondo nuovo, ma solo a patto di rompere lo statuto autonomo dell’opera d’arte. Sentono che è necessario riportare l’arte nella vita e trasformare le strade in «una festa dell’arte destinata a tutti». E così Majakovskij, insieme con i futuristi Burljuk e Kamenskij, nel marzo del 1918 ricopre Mosca di manifesti come il Decreto N° 1 sulla democratizzazione delle arti.
In quello stesso anno il critico Nikolaj Punin riflette l’esigenza di fare dell’arte uno strumento di trasformazione del modo di vivere, annullando la sua separazione dall’industria. Sembra insomma venuto il tempo in cui gli artisti escano dai loro studi e collaborino con ingegneri, scienziati e amministratori per lavorare insieme alla riorganizzazione della vita. In questa prima fase si gettano le basi ideologiche per un tipo di espressione legata ai processi di produzione. Agli inizi degli anni venti il gruppo dei costruttivisti sembra dominare ideologicamente la scena pubblica. Il suprematismo di Malévitch, in fondo, non rinuncerà mai all’autonomia sacrale dell’arte, ma i costruttivisti sono programmaticamente pronti ad alienare l’arte nella materia per farla riemergere in una percezione nuova del mondo. Già nel 1914 Tatlin si prefigge di «far scendere l’arte dal proprio piedistallo», utilizzando dei materiali industriali e aprendo l’opera allo spazio. Spazio che diventerà insieme estetico e politico con il suo famoso prototipo di Monumento alla III Internazionale (1919-’20).
Seguendo le orme di Tatlin la maggior parte dei costruttivisti dice addio alla pittura da cavalletto. Come nel caso di Rodcenko, la cui ultima opera pittorica (1921), dall’evidenza suprematista, è un quasi-quadrato tutto dipinto di rosso. Ed è da questo ultimo quadro e dal suo colore altamente simbolico che prende l’abbrivio la mostra al Grand Palais di Parigi Rouge Art et utopie au pays des Soviets, in corso fino all’1 luglio. Si tratta di un complesso e ampio excursus documentale che, con più di quattrocento opere tra pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, design, testimonia del rapporto tra arte e potere nella Russia sovietica dalla Rivoluzione d’ottobre alla morte di Stalin.
Un’esposizione vasta ed enciclopedica che nei suoi tratti essenziali mostra come per tutta la durata degli anni venti in Russia diversi gruppi di artisti si oppongano tra loro per definire cosa deve essere considerato l’arte del socialismo. Semplificando, l’agone artistico è così polarizzato: da una parte il «produttivismo», cioè arte intesa come presa diretta sulla materia fisica, sociale e umana; dall’altra parte il «realismo socialista» come figurazione che manipola questa stessa materia attraverso il filtro della rappresentazione idealizzante. Come sappiamo, il potere stalinista sceglie quest’ultima per mistificare il proprio orrore totalitario. Nel 1939 è il pluripremiato pittore Alexandre Guerassimov, in seguito presidente dell’Accademia di Belle Arti dell’URSS, ad affermare che l’arte deve essere «realista nella forma e socialista nel contenuto». E in ultima istanza, a quanto si vede in mostra, non possiamo non dare ragione al curatore Nicolas Liucci-Goutnikov quando sostiene che lo stato socialista diviene un formidabile produttore di immagini in cui, alla stregua della Kulturindustrie occidentale teorizzato da Adorno e Horkeimer, la formula soppianta l’opera d’arte.
Come dicevamo a proposito di Rodcenko, divenuto poi insieme alla moglie Stepanova campione del fotomontaggio e non solo, nei circoli di sinistra la pittura viene considerata un residuato borghese e sembra essere scomparsa. La predilezione di forme aperte è funzionale a una ricezione collettiva ed è capace di stabilire un legame col reale più diretto e meno mediato dalla semplice rappresentazione. La locuzione «utopia concreta» coniata da Ernst Bloch è allora calzante se applicata a questa via produttivista dell’arte, che aveva lo scopo ultimo di trasformare la vita. Ma non essendoci il reale sostegno dello stato questa utopia è rimasta allo stadio di prototipo, come nel caso più eclatante del Monumento di Tatlin.
Se l’obiettivo degli avanguardisti è quello di portare l’arte nella vita, sull’altro versante si rivendica la peculiare istanza conoscitiva dell’arte più tradizionale. Viene creata nel 1922 l’AKhRR (Associazione degli artisti della Russia rivoluzionaria), il cui obiettivo è di tipo documentario per ritrarre le fasi salienti della rivoluzione. Grazie alla loro facile leggibilità per le masse – come nei casi de Il corrispondente operaio di Perelman e L’insegnante di campagna di Katsman, dove si ritraggono nei loro contesti due figure chiave dell’apparato dottrinario sovietico – l’attività dell’AKhRR riesce più facilmente ad avere il sostegno dello Stato. Ma allo stesso tempo un ritorno al cavalletto si impone anche per alcuni artisti provenienti dai circuiti avanguardistici. In opposizione all’AKhRR nasce nel 1924 l’OST (Società dei pittori da cavalletto), che getterà le basi per l’arte del realismo socialista. Una ricerca pittorica che nasce dal fotomontaggio, in cui l’ideal-operaio e l’ideal-contadina vengono riprodotti in contesti simbolici e astraenti, come le donne sulle linee di acciaio nel Cantiere di costruzione di nuove fabbriche di Deineka o gli operai agglutinati agli ingranaggi nel Carter del turboreattore di Pakulin.
Con Stalin, a partire dal 1929, le istanze artistiche vengono assorbite e irrigidite nelle funzioni dogmatiche dallo Stato. Stato che a partire dal 1932 decide di regolare l’organizzazione artistica secondo il proprio utile. Ovviamente questa pervicace intromissione del potere allontana irrimediabilmente l’arte dalla vita concreta. La trasformazione sociale, che i produttivisti pensavano di avere nelle proprie mani, resta appannaggio esclusivo dello Stato. I pittori, i fotografi e i documentaristi inviati nelle fabbriche e nelle campagne sono invitati a mostrare l’entusiasmo e l’ottimismo del lavoro per la causa comunista. Anche gli architetti ritornano all’ornamento, al colonnato e alle grandi opere in stile impero. E una certa maniera di rassicurante rappresentazione piccolo-borghese torna in auge. Ogni artista che vuole rendere pubblico il proprio lavoro deve rispettare il modello accademico. E il vigoroso pensiero utopico degli albori rivoluzionari va via via a sdilinquirsi dietro un patetico e mistificatorio kitsch di stato. Kitsch come il caramellato dipinto monumentale del 1939 in cui Svarog ritrae Stalin al parco Gor’kij tra bambini festanti e i membri del Comitato centrale del Partito, tra i quali uno, fatto eliminare in seguito dal dittatore, viene accuratamente cancellato anche dal pittore.


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