sabato 27 dicembre 2008

Corriere della Sera 27.12.08
Il giornale del Prc «Più spazio al partito e stop ai dibattiti sul microfallo: dilapidano copie»
«Via Sansonetti, basta sesso e Luxuria»
L'editore Bonaccorsi: salverò Liberazione, Piero porta la nave sugli scogli
L'imprenditore in trattativa col segretario Ferrero: bilancio in pareggio in tre anni, copie raddoppiabili in sei mesi
Nemici? Il manifesto prima di tutti. Lo psichiatra Fagioli come collaboratore? Assolutamente no
di Andrea Garibaldi


ROMA — Eccolo qua, l'uomo che vuole cacciare Piero Sansonetti da «Liberazione». Luca Bonaccorsi, 39 anni, alto, moro, scapolo, con la barba. Anzi, vuole prima comprare «Liberazione», il quotidiano di Rifondazione comunista e poi sostituire il direttore Sansonetti. E' così, Bonaccorsi? «Il mio obiettivo è salvare "Liberazione" e rilanciarlo, perché è un patrimonio per la sinistra. Separare l'azionista dal partito, che così non sarà più costretto a enormi esborsi di denaro. Oggi lì ci sono ottimi professionisti gestiti molto male. Sansonetti ha preso "Liberazione" a 10 mila copie, dopo tre anni è sotto le 7.000. E la situazione economica è gravissima, mette a rischio posti di lavoro».
Bonaccorsi si descrive così: ha lavorato per dieci anni fra Londra e Amsterdam, presso Bnr Amro e Paribas, investendo il denaro delle banche. Poi è tornato nella sua città, Roma, e ha rilevato "Avvenimenti", da cui ha creato la rivista "Left". Dicono che sia specializzato in giornali quasi falliti ma con contributi pubblici. Lui ribatte: «L'anno prossimo "Left" chiude in pareggio». Bonaccorsi si definisce di sinistra, mai avute tessere di partito.
Insomma Bonaccorsi, Sansonetti deve andarsene? «Piero è simpatico e perbene. Ma porta la nave dritta sugli scogli. L'esaltazione di Luxuria all'" Isola dei famosi", il dibattito sul "microfallo", la discussione sulla rivoluzione che passa per il buco del sedere, credo che abbiano dilapidato copie. Poi ha fatto cose egregie, come gli approfondimenti sui morti sul lavoro...».
Nella proposta inviata a Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, Bonaccorsi ipotizza due direttori, uno responsabile che fa il giornale, l'altro politico che fa fondi e mette sul giornale iniziative e vita di partito. Un commissario politico per "Liberazione"? «Si tratta di garantire al partito che sul suo giornale finiscano le sue battaglie». Oggi, invece... «Un giorno sì e uno no il giornale sembra organizzato per far imbestialire l'attuale maggioranza». Quindi, Sansonetti... «O permette a qualcun altro di provarci, o accetta il cambiamento». Potrebbe restare? «Il suo tempo mi sembra esaurito. Il partito è cambiato, il giornale va cambiato». Come dovrà essere il nuovo direttore responsabile? «Un professionista in grado di far crescere la squadra, di aumentare le vendite, di dare le notizie. Ce ne sono bravi anche dentro "Liberazione"». Che giornale dovrà diventare "Liberazione"? «Il primo giornale italiano di inchiesta sociale e sul lavoro. Notizie, fatti, denunce che non trovi sugli altri giornali, sul lavoro, il welfare, la pace, la politica economica del governo. Dovrà stare nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali...». Bonaccorsi è editore di Bertinotti, della sua rivista "Alternative per il socialismo". E ora sta facendo questa operazione per l'«avversario» Ferrero... «Bertinotti è legato a Piero, ma dovete chiedere a lui cosa pensa di tutto questo. Io sto facendo un'operazione imprenditoriale. Il partito prese un milione di voti e ha 70-80 mila iscritti... Le copie si possono raddoppiare in sei mesi. E in due-tre anni può andare in pareggio». Senza tagli ai posti di lavoro. «Nessun licenziamento e nessuna cassa integrazione, questo è chiaro per me. Se si scoprirà che Bonaccorsi è un bandito, il partito potrà far valere una clausola di riacquisto del giornale». Tutto ciò se sarà garantito il finanziamento pubblico ai giornali di partito? «Questo anche è chiaro». Lei quanti soldi investe? «Le trattative con Ferrero sono in corso. Saranno fatte perizie, vedremo... Il problema vero sono i nemici». Per esempio? «"Il manifesto", prima di tutti. Alcuni lì avvelenano i pozzi, mandano messaggi mafiosi a Ferrero. E poi nemici interni, quelli del tanto peggio tanto meglio, anche nella maggioranza del partito».
Lo psichiatra Massimo Fagioli, che è considerato a lei vicino, che collabora a "Left" avrà una parte anche a "Liberazione"? «Assolutamente no».

Il direttore e il comitato dei garanti
Comitato di garanti. Il direttore di Liberazione Piero Sansonetti ha lanciato la proposta di un comitato di garanti formato da «personalità indiscusse della sinistra» che assuma il ruolo vero e proprio di editore. Sansonetti ha anche citato alcuni nomi che potrebbero far parte del comitato: Paolo Ferrero e Fausto Bertinotti, Lea Melandri, Mario Tronti, Luisa Boccia, Moni Ovadia, Susanna Camusso e Stefano Rodotà. «Liberazione— ha detto il direttore — è un bene comune della sinistra».

La nascita
Liberazione esce per la prima volta il 12 ottobre 1991.
All'epoca è un mensile, diventerà quotidiano quasi quattro anni più tardi, l'8 aprile 2005. Primo direttore del settimanale fu Sergio Garavini, fondatore di Rifondazione comunista.
Terzo direttore fu Oliviero Diliberto, che nel 1998 sarà tra i fondatori dei Comunisti italiani. Primo direttore del quotidiano fu l'ex corrispondente Rai Lucio Manisco. La testata Liberazione era di proprietà di Marco Pannella: negli anni Settanta era il nome dell'organo dei Radicali.

Lo strappo

Le difficoltà tra il direttore Piero Sansonetti e Rifondazione comunista nascono dopo l'ultimo congresso che elegge segretario Paolo Ferrero, e si innestano sulle difficoltà economiche del quotidiano, a cui lavorano 35 giornalisti.
Nelle scorse settimane, ulteriore escalation, con Ferrero che dichiara: «Il giornale nel quale il partito sta investendo altri 3 milioni di euro per coprire le perdite sostiene un progetto politico alternativo al nostro. È inaccettabile». Appena prima di Natale, arriva la notizia del possibile acquisto di Liberazione da parte di Luca Bonaccorsi, già editore del setimanale Left.

Repubblica 27.12.08
Il personaggio. L’editore Luca Bonaccorsi: “Il quotidiano di Rifondazione ha troppi nemici, sono in molti a volere la sua fine”
“Insulti e bugie, non mi daranno Liberazione”
“Io speculatore? Bisognerebbe investire due-tre milioni”
di g.d.m.


ROMA - È un acquirente rassegnato, che sta per gettare la spugna. «Questa trattativa non andrà in porto, temo. Liberazione ha troppi nemici. Molti vogliono la sua fine». Chi? «Il Manifesto, per affossare un concorrente. Alcuni giornalisti, che rifiutano il cambiamento. Il gruppo di Vendola». Altri dicono che sarà lui a trascinare verso il baratro il giornale di Rifondazione comunista, a togliergli autonomia editoriale e di pensiero per conto del segretario Paolo Ferrero. Addirittura si è scritto che sia un "salvatore" interessato solo a speculare sui soldi del finanziamento pubblico. Una specie di killer. «Pazzesco. Semmai posso essere accusato di tentato suicidio. Dentro il quotidiano bisogna metterceli i soldi, non prenderli. Almeno due-tre milioni di euro per i prossimi due anni. Altro che speculatore». L´editore Luca Bonaccorsi, da sempre vicino alla galassia rifondarola, prima creatore di Left oggi accanto a Fausto Bertinotti nell´avventura di nicchia di "Alternative per il socialismo", esce dall´ombra e sente il bisogno di difendersi dagli «insulti, dalle offese personali, dalle palesi bugie» di una vicenda che ha al centro Liberazione ma racconta un´altra storia: la lenta scissione di Prc.
Bonaccorsi è giovane, è il cognato di Ivan Gardini, figlio di Raul, adesso rilancerà in edicola il quotidiano dei Verdi («un bellissimo progetto») ma vorrebbe anche comprare il giornale di Rifondazione. Però è finito in un gioco al massacro. «Siamo al furto di carteggi riservati. La mia manifestazione d´interesse era un documento privato ed è finito sui giornali. Roba da codice penale». Il quotidiano gli sta a cuore, giura. «Oggi è ai minimi termini. Vendite fiacche, raddoppio delle perdite, un prodotto di qualità medio bassa, male organizzato». Certo non è Piero Sansonetti il suo direttore ideale. «Il problema gestionale è evidente. Liberazione ha molti giornalisti bravi, perché fanno un brutto giornale?». Colpa di Sansonetti che pure «stima. Ma ci vorrebbe un direttore con meno ansia di apparire e più voglia di lavorare». Eppoi anche lui vuole un giornale autonomo, non toccherà mi i livelli occupazionali come «è scritto nella manifestazione d´interesse».
È finito in mezzo a un divorzio annunciato «e i piatti colpiscono anche me». Lo hanno calunniato, dice. «Seguace di Fagioli? Sono un suo ammiratore e basta, checché ne dica qualche giornalista diciamo fantasiosa del Manifesto». Sa che Bertinotti non condivide l´operazione. Ci prova lo stesso. Perché? «Perché è il mio lavoro». Ma è comunista? «A questa domanda preferisco non rispondere».

Il Giornale 27.12.08
«Liberazione» sdoppia i direttori


Compromesso a Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista in procinto di passare nell’orbita della galassia Left dell’editore Luca Bonaccorsi, vicino allo psichiatra-guru Massimo Fagioli e, tramite lui, a Bertinotti e alla minoranza vendoliana. L’ipotesi in discussione vede due direttori affiancati: uno si occuperebbe delle pagine sulla vita del partito e l’altro gestirebbe il resto del giornale. La redazione intanto si stringe a Piero Sansonetti che ha firmato un quotidiano vivace soprattutto dopo la vittoria di Paolo Ferrero (nella foto) al congresso di luglio. E proprio Sansonetti, dalle colonne del giornale, lancia la proposta di un comitato di garanti con il ruolo di editore. Tra questi, Moni Ovadia, la Camusso e Rodotà.

Corriere della Sera 27.12.08
Il libro della Scarparo presentato dal leader Prc, ironia del quotidiano
Il manifesto e la compagna di Ferrero «Si fa aiutare». «Siete maschilisti»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il titolo del suo romanzo: «L'arte di comandare gli uomini». Il titolo del manifesto:
«Angela Scarparo si fa presentare il libro dal fidanzato». E non si tratta di un «fidanzato » qualunque: è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione. La Scarparo non l'ha presa bene: «Un messaggio trasversale, omertoso, mafioso: si attacca me per colpire il partito».
Il manifesto non fa commenti. Impagina la foto di Ferrero e poche righe che annunciano la presentazione del 14 gennaio alla Biblioteca Rispoli del libro. Presenti, Adele Cambria, Fulvio Abate e «il segretario di Rifondazione: il suo compagno». La Scarparo ci vede un chiaro intento polemico: «L'articolo è inserito in una pagina nella quale si attacca un progetto politico che non mi riguarda». Riguarda, in effetti, il suo «fidanzato »: si parla di Liberazione e dello scontro in atto tra il direttore Piero Sansonetti e Ferrero. «Quella del manifesto — dice la Scarparo — è un'operazione molto brutta. Strumentale, becera. È basso giornalismo. Libero mi avrebbe attaccato con più intelligenza». Mariuccia Ciotta, condirettore del manifesto, cade dalle nuvole: «Non c'era nessun intento polemico con Ferrero, con il quale abbiamo un ottimo rapporto. Era solo un divertissement leggero e satirico, che faceva notare una bizzarria: ma se la Scarparo si è offesa, ce ne scusiamo».
Il titolo del libro, «L'arte di comandare gli uomini», sembra fatto apposto per suscitare curiosità sul suo rapporto con Ferrero: «Ma è un romanzo, non c'è niente di autobiografico — dice la Scarparo — È la storia di una donna che non riesce a trovare un rapporto equilibrato con gli uomini. Avevo letto che Zola per La gioia di vivere aveva immaginato il titolo al contrario. Mi pareva una bella idea».
Si potrebbe pensare che non sia molto femminista farsi aiutare dal «fidanzato»: «Paolo mi aveva persino scritto l'introduzione e abbiamo deciso di toglierla. Nel 2007 è uscito un mio libro-intervista a lui e nessuno ha detto nulla». Ferrero comunque, non ha cambiato idea: «Il 14 sarà al mio fianco».

Corriere della Sera 27.12.08
Bastian e il drago in difesa dei sogni
«La storia infinita», capolavoro che aprì un genere Il tema dell'immaginazione contro l'aridità della realtà
di Ranieri Polese


In groppa al buon drago volante Falkor, che somiglia tanto a un dolce cagnone dal soffice pelo bianco, il giovane Bastian combatte contro i nemici del regno di Fantàsia. Strani mostri, un lupo spaventoso, ma soprattutto il nemico numero uno, il Nulla, che sta inghiottendo il felice mondo delle favole. Lui, Bastian, appartiene al mondo reale, ha un padre severo, dei perfidi compagni di scuola che lo perseguitano, soffre ancora per la perdita della madre e trova conforto solo nella lettura. Così, quando s'imbatte in un libro intitolato La storia infinita, vi si immerge fino a ritrovarsi trasportato nell'altra dimensione. Il regno di Fantàsia, appunto, dove pochi buoni come il giovane guerriero Atreyu lottano contro la minaccia di distruzione.
Tratto dalla prima parte del romanzo del tedesco Michael Ende pubblicato nel 1979 (in Italia, Longanesi 1981), il film La storia infinita esce nel 1984, coprodotto da Germania e Usa. Lo firma Wolfgang Petersen, già autore del fortunato U-Boot 96 (guerra sottomarina raccontata dalla parte dei marinai tedeschi), che poi, trasferitosi a Hollywood, dirigerà kolossal come Air Force One, Troy, Poseidon.
Americani sono gli effetti speciali — il drago volante, la vecchia tartaruga saggia, i mostri mangiapietre — che servono a rendere visibili i molti dettagli meravigliosi del libro. Le musiche sono di Giorgio Moroder, e la canzone Neverending Story sarà un hit delle classifiche metà anni 80. Ende, lo scrittore, non amò per niente questa riduzione, al punto da chiedere che il suo nome fosse tolto dai credit del film. A suo giudizio la spettacolarizzazione toglieva forza al messaggio. Produttori e regista, a ragione, replicarono che il film era diretto anche a bambini che non sapevano ancora leggere (o che non avevano ancora letto il libro), e che le immagini sensazionali contribuivano alla comprensione del romanzo. Del resto, il successo mondiale del film non solo giovò immensamente alla vendita del libro, ma servì a imprimere nell'immaginario degli spettatori, piccoli e grandi, l'idea guida di Ende, la difesa dell'immaginazione come unico riparo contro lo strapotere di una realtà sempre più arida e totalizzante.
Bastian e Atreyu, infatti, combattono contro il Nulla che distrugge la capacità di sognare e che vuole eliminare la più importante risorsa del genere umano, il diritto a immaginarsi un mondo sganciato dalle grigie logiche dell'interesse, del profitto, del calcolo. Ende era arrivato a queste convinzioni grazie a una lungo esercizio di meditazione, puntualmente testimoniato dai suoi libri, dal giovanile Le avventure di Jim Bottone a Momo su su fino agli ultimi racconti — Ende muore nel 1995, a 65 anni — de Lo specchio nello specchio e La prigione della libertà.
Mescolava, lo scrittore, gli insegnamenti della dottrina steineriana con una buona conoscenza della letteratura per adolescenti. Tolkien (Il signore degli Anelli), Narnia di C. S. Lewis, ma anche Alice di Lewis Carroll, e il sogno dell'Isola che non c'è incarnato dal Peter Pan di J. M. Barrie.
Arrivato prima della saga di Harry Potter, La storia infinita — libro e film — lascia segni profondi nell'immaginario dei cineasti.
Il tema di un nemico che distrugge le figure della fantasia si ritroverà in molte pellicole. In Shrek (2001), per esempio, in cui l'orco verde e bonaccione accoglie nella sua palude i personaggi delle fiabe scacciati da Lord Farquaad. O nella versione cinematografica del Grinch, il cattivo che ruba i regali di Natale, un mostro molto popolare tra i bambini americani che torna al successo nel film del 2000. Così accadeva anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), dove un detective privato sconfigge il malvagio che vuol distruggere Cartoonia ed eliminare i disegni animati. Ma forse il lascito più importante del film La storia infinita è l'elogio della lettura, l'invito ai piccoli spettatori a cercare le meraviglie della fantasia in quell'oggetto magico che si chiama libro.

Corriere della Sera 27.12.08
Studi svedesi e americani mettono in evidenza il ruolo delle facoltà mentali in relazione alla longevità
L'intelligenza allunga la vita
Capacità e comportamenti sono indipendenti dalla classe sociale
di Giuseppe Remuzzi


Gli scienziati lavorano da sempre per trovare qualcosa che ci dica quanto vivremo. Si sa che chi ha livelli alti di colesterolo nel sangue, chi è decisamente in sovrappeso e fuma vivrà molto meno. E c'è un altro indicatore forte almeno quanto il fumo, l'intelligenza. Lo si sospettava da tempo senza esserne certi. Una ricerca condotta in Svezia (presto pubblicata su Epidemiology) su un numero impressionante di volontari toglie tutti i dubbi.
I ricercatori hanno studiato più di un milione di ragazzi all'epoca del servizio militare con i soliti test per l'intelligenza e li hanno seguiti nel tempo. I più intelligenti si ammalavano di meno e vivevano più a lungo. E non è questione di classe sociale. La correlazione fra intelligenza e durata della vita rimane anche all'interno di classi sociali diverse. Un altro lavoro recentissimo («Vietnam Experience Study» concepito per studiare le conseguenze sulla salute dell' aver partecipato alla guerra) ha visto che i soldati più brillanti nei test di intelligenza, poi a cinquant'anni, erano meno ipertesi e avevano meno facilmente il diabete rispetto ai coetanei meno intelligenti.
«Sarà l'educazione» s'è pensato. Sì, perché ragazzi più intelligenti quasi sempre fanno scuole migliori, si laureano a pieni voti, trovano facilmente un lavoro in genere ben retribuito e in genere fanno una buona carriera. Se uno ha più conoscenze e abbastanza soldi più facilmente accede alle cure migliori. Nello studio del Vietnam però quelli più intelligenti si ammalavano di meno indipendentemente dalla scuola che avevano fatto.
Ma se non c'entrano né la posizione sociale, né la scuola, allora perché chi è più intelligente dovrebbe vivere di più? Potrebbe essere il livello di salute pre-esistente a determinare il livello di intelligenza dei ragazzi. Se uno è già un po' malato prima di partecipare agli studi, è logico che andrà peggio nei test di intelligenza e avrà più guai fisici nel tempo. E vivrà di meno. Per capirne di più sarebbe importante conoscere il peso alla nascita. Se un neonato pesa meno del normale è perché ha sofferto in utero. Lo sviluppo degli organi, compreso il cervello, è compromesso, e questo predispone a tante malattie e influisce negativamente sui livelli di intelligenza. Ma nemmeno il peso alla nascita spiega l'effetto dell'intelligenza sulla durata della vita. Questo lo si sapeva già da studi precedenti. Fra tutte le spiegazioni possibili ce n'è una apparentemente ovvia. Chi è più intelligente tende ad avere comportamenti più sani, a mangiare meglio, a fare un po' di esercizio fisico, a non guidare in modo pericoloso, a smettere di fumare a fare attenzione al peso, a non prendersi delle sbronze tutti i sabato sera. Ma se si vanno a vedere i risultati di tutti gli studi nemmeno questo basta a spiegare l'associazione tra intelligenza e durata della vita. Insomma chi è più intelligente vivrà di più, è sicuro ma perché debba essere così non lo sappiamo (e gli scienziati dovranno far di tutto per stabilirlo perché ne possano trarre vantaggio anche i meno dotati).
Quindi, chi sa di essere intelligente può dormire tra due guanciali? Dipende. George Best era un vero genio (giocava nel Manchester negli anni '60) ma beveva smodatamente, andava a donne e correva con la macchina, è morto a 59 anni per una cirrosi alcolica. Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, grandi innovatori del rock sono morti tutti giovanissimi per eccessi di droga e alcool. Edmund Kean, il più grande attore della storia del teatro inglese, è morto a 46 anni dopo una vita sregolata. Il grande matematico Renato Caccioppoli si è suicidato a 55 anni per via dell'alcol (a Napoli era famoso per le sue stranezze, quando durante il fascismo fu vietato agli uomini passeggiare con cani di piccola taglia Caccioppoli andava in giro con un gallo, al guinzaglio).

Corriere della Sera 27.12.08
La pellicola fu girata sfidando la censura. Mai trasmessa in Italia, sarà proiettata a Roma
Jan Palach, l'ultimo filmato
La veglia, l'agonia, i funerali: una straordinaria testimonianza di 8 minuti
di Paolo Conti


Il bianco e nero restituisce l'atmosfera cupa, gelida e disperata della Praga del gennaio 1969. Appena 7 minuti e 49 secondi: ma «Jan 69», il breve filmato dedicato prima alla veglia durante l'agonia e poi ai funerali di Jan Palach, è un autentico e straordinario pezzo di storia audiovisiva contemporanea. Verrà proiettato in anteprima per l'Italia (dove non è mai stato proposto in pubblico né usato dalla Tv, il materiale è assolutamente inedito per il nostro Paese) il 16 gennaio a Roma, alle 21 al palazzo delle Esposizioni, durante la rassegna dedicata alla produzione cinematografica cecoslovacca censurata e «scomparsa» nel 1969. Il ciclo fa parte della densa mostra «Praga. Da una primavera all'altra 1968-1969», curata da Annalisa Cosentino, dedicata quindi al periodo compreso tra il tentativo di democratizzare il sistema comunista cecoslovacco (primavera 1968) e poi la morte dell'esperimento (primavera 1969) in seguito all'invasione delle truppe del Patto di Varsavia, che entrarono il 20 agosto 1968 per «normalizzare » Praga su ordine di Mosca. In mostra, tra gli altri, anche un reportage fotografico di Dagmar Hochova inedito in Italia.
Lo studente Jan Palach si dette fuoco in piazza San Venceslao il 16 gennaio 1969 proprio per protestare contro l'invasione. Accanto a lui trovarono una lettera: «Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo».
Un gruppo clandestino di studenti aveva deciso per il gesto estremo, durante un'estrazione a sorte il numero 1 era capitato a Jan, iscritto a Filosofia, nemmeno 21 anni di età. La sua agonia durò 73 ore: rimase a lungo lucido, seppe del risalto internazionale del suo gesto, registrò alcune dichiarazioni. Morì il 19 gennaio. I funerali furono celebrati il 25 gennaio.
Il filmato diretto da Stanislav Milota con i produttori Yaromìr Kallista e Vlastimil Harnach, tutti dipendenti degli studi nazionali del cinema cecoslovacco, è la secca cronaca di quelle ore: centinaia di migliaia di persone che vegliano in piazza San Venceslao sotto la pioggia, poi l'omaggio alla bara, la disperazione della madre dietro la veletta nera, il pianto a dirotto di migliaia di cecoslovacchi: vecchie coppie di contadini, austeri borghesi chiaramente mal adattati al sistema comunista, giovani studenti, la guardia d'onore dell'università con gli ermellini delle cerimonie ufficiali, splendide ragazze che singhiozzano, le migliaia di corone di fiori candidi, la messa funebre cattolica. La maschera mortuaria di Jan guarda tutti dall'alto. Tante lacrime — non c'è ombra di retorica nel comprenderlo — non sono solo per Jan, ma per il fallimento di un sogno di libertà distrutto dai carri armati spediti da Mosca. Il taglio scelto dalla regìa è inquietante, svela le circostanze fortunose in cui venne realizzato il lavoro, la repressione della censura era in agguato anche per le strade in quelle ore: riprese panoramiche di piazza San Venceslao si alternano a primissimi piani, a scorci di volti, a particolari rivelatori. La musica di Leos Janácek accentua l'emozione, riconducendo tutto alle radici culturali nazionali.
Come racconta il curatore della rassegna, Francesco Pitassio, docente di Storia del cinema all'università di Udine, il materiale rimase disperso fino al 2002. I tre realizzatori furono licenziati dagli studi cinematografici nel 1969 proprio per la colpa di aver girato il documentario. Il film fu nascosto dal vecchio direttore degli studi, Myrtil Frìda, che lo salvò dalla distruzione. Fu ritrovato per un puro caso negli archivi degli studi solo nel 2002: nemmeno Stanislav Milota era riuscito a rintracciarlo nonostante mesi di accurate ricerche.
Ora la sequenza torna a noi quarant'anni dopo e ci restituisce intatta l'angoscia di un Paese oppresso, di un popolo schiacciato da una vergognosa invasione.
Fotogrammi dal filmato «Jan 69». Da sinistra: la disperazione della piazza, la maschera funebre di Jan Palach e la madre il giorno dei funerali

Corriere della Sera 27.12.08
Paolo Mereghetti racconta i lati meno noti di un maestro
Quando Welles bocciò Hitchcock
di Matteo Persivale


Spiegare in breve chi sia stato Orson Welles — regista teatrale, attore teatrale, attore radiofonico, autore radiofonico, impresario, scrittore, giornalista, regista cinematografico, attore cinematografico, pupillo di Franklin Delano Roosevelt, aspirante politico, attivista per i diritti civili, seduttore di professione, massmediologo raffinato molto prima di McLuhan, autore di balletto, documentarista, filosofo, voce fuori campo di tanti spot e anche dell'invisibile datore di lavoro di Magnum PI nel telefilm omonimo — è un'impresa quasi impossibile. Come ha scoperto di recente uno dei suoi più illustri biografi, l'attore inglese di teatro e cinema Simon Callow (era il barbuto cardiopatico di Quattro matrimoni e un funerale), che era partito per realizzare una trilogia di libri sui 70 anni di vita di Welles (1915-1985). Ma alla fine del secondo volume, 507 pagine, Hello Americans, è arrivato a malapena al 1947.
Perché quando si parla di Orson Welles, anche soltanto del Welles regista di cinema — ed è impossibile considerare il suo cinema senza ragionare almeno, come minimo, anche sul suo teatro — ci si accosta davvero a una mente tanto rivoluzionaria e vulcanica che è difficile non provare un senso di vertigine. Un wellesiano «a vita» come Paolo Mereghetti, che a Welles ha dedicato libri, articoli e — prima ancora — la tesi di laurea, riesce però in Orson Welles. Introduzione a un maestro (Rizzoli, pp. 190, e 17) a accompagnare il lettore in un viaggio attraverso quella carriera straordinaria che soddisfa tante curiosità e ne accende altre ancora. Illuminando — al di là di quel Quarto Potere che tutti conosciamo — molto di ciò che è conosciuto a memoria dai wellesologi come Mereghetti ma che non può non sorprendere e affascinare il lettore «non professionista».
Un po' come Robert Arden in Mr. Arkadin. Rapporto Confidenziale, Mereghetti scava con pazienza da detective nell'impressionante curriculum del suo soggetto (quando c'è di mezzo Welles vale il motto dell'hotel inquietante di Barton Fink, uno dei mille capolavori che senza Welles non sarebbero mai esistiti: «Un giorno o tutta la vita»).
E così Mereghetti il wellesologo costruisce la sua introduzione al maestro accostando alle opere più note tante piccole gemme del Welles che non tutti conoscono, come lo straordinario pastiche shakespeariano Five Kings, maratona teatrale del 1938. Mereghetti cita il meglio dei suoi colleghi wellesologi — Rosenbaum, McBride, Bogdanovich, Cobos Sainz, (con riferimenti doverosi alla Kael e Bazin) — e si concede, da critico, anche il piacere di lasciare la parola per un paio di pagine a un critico «ospite », Welles stesso. Che massacra — in un'intervista del 1967 — Antonioni («La noia come tema artistico»), Fellini («Fondamentalmente molto provinciale», «Ha poco da dire»), Bergman («Mi è più estraneo di un giapponese»), Hitchcock («I suoi artifici restano artifici»). Insomma un massacro che l'ex giovane rivoluzionario del cinema perpetra nel segno della nostalgia di John Ford, salvando solo l'allora giovane Stanley Kubrick e, sorpresa, Richard Lester.

l’Unità 27.12.08
Il flop genoma. Siamo tutti diversi
di Cristiana Pulcinelli


Dopo otto anni il primo screening della mappa genomica umana è una sorpresa. Il nostro Dna non è più grande di quello di un verme di un millimetro. Inutile anche la prevenzione per alcune malattie: più facile e meno costoso predire una «tendenza» analizzando la storia familiare. Come un tempo

Si è visto che il genoma si modifica da persona a persona e questo risponde alla domanda perché siamo diversi

In molti erano convinti che sarebbe bastato imparare a decifrare tutti i geni per sapere come siamo fatti. Poi si è scoperto che i geni non coprono che l’1,2% del genoma. Cosa c’è nel restante 98%?

Non c'è dubbio: dal 2001, anno in cui gli scienziati diedero notizia di aver decifrato una buona parte del genoma umano, di passi avanti ne sono stati fatti molti. Alcuni hanno confermato le aspettative degli scienziati, ma altri hanno stravolto le conoscenze in loro possesso. Quello che più ha lasciato sconcertati i biologi è il numero dei geni che il nostro Dna contiene: circa 20mila. Più o meno come il Caenorhabditis elegans, un simpatico vermetto lungo circa 1 millimetro che vive nella terra e si nutre di batteri. Imbarazzante. Niente di personale contro Caenorhabditis che sarà pure elegante, ma è pur sempre un organismo decisamente più semplice dell'homo sapiens sapiens. In effetti, quando il progetto genoma umano partì ci si aspettava di trovare un numero molto più alto di geni, nell'ordine di diverse centinaia di migliaia o addirittura di alcuni milioni. Ma le cose non stanno così.
Fino a poco tempo fa gli studenti di biologia apprendevano dai libri che il gene è quel pezzetto di Dna che codifica per una singola proteina, ovvero che contiene le istruzioni per costruire quella proteina e solo quella, ed è anche l'unità ereditaria fondamentale: quella per intenderci che ci trasmette gli occhi azzurri del nonno e i capelli ricci della mamma. Data la complessità del nostro organismo, si pensava che ci volessero molti geni per costruire tutte le proteine di cui ha bisogno. In molti erano convinti che sarebbe bastato imparare a decifrare tutti i geni e avremmo saputo come siamo fatti. Quando però, grazie al progetto genoma umano, si è andati a identificare i geni si è visto che non coprono che l'1,2% del genoma. Come possono da soli garantire il meccanismo dell'ereditarietà? E, soprattutto, cosa c'è nel restante 98,8% del nostro patrimonio genetico?
Il colpo è stato forte, tanto che si comincia a parlare di crisi d'identità per il gene. Proprio alla vigilia del suo centesimo compleanno. Il termine «gene» infatti fu usato per la prima volta dal danese Wilhelm Johanssen nel 1909 per descrivere ciò che i genitori trasmettevano ai figli (e all'epoca nessuno ne aveva la minima idea). Con l'intuizione di Watson e Crick sulla struttura del Dna, negli anni Cinquanta, il gene non era più solo una parola astratta, ma qualcosa di concreto. Il più era fatto, tanto che nel 1968 il biologo molecolare Gunther Stent dichiarò che i genetisti del futuro avrebbero dovuto accontentarsi di «mettere a punto i dettagli». Oggi, si è arrivati a decodificare circa il 92% del genoma. Possiamo dire di saperne abbastanza, ma siamo ancora lontani dal capire tutto. Si è visto ad esempio che il gene dell'essere umano svolge più di un singolo compito: può produrre più di una proteina oppure può produrre altre molecole che non sono proteine. Si è visto che solo il 6% dei geni sono fatti da un singolo lineare pezzo di Dna: la maggior parte è costituita da pezzi di Dna che si trovano molto distanti tra loro. Si è visto che altre strutture hanno un'importanza fondamentale perché le cellule prendano la loro giusta forma nel nostro corpo: ad esempio l'epigenoma, ovvero quelle parti del genoma che non sono geni ma alterano la funzione dei geni, o le molecole di Rna che vengono prodotte probabilmente dal 92% del genoma. Si è visto anche che il genoma si modifica da persona a persona. E questo è il lato forse più interessante della faccenda non solo perché risponde ad una domanda antica (come è possibile che noi esseri umani siamo tutti uguali e tutti diversi?), ma anche perché ha dei risvolti pratici. Alcuni hanno ipotizzato che analizzando il genoma di una persona e mettendolo a confronto con un genoma "standard" si possa capire qual è la predisposizione di quella persona ad ammalarsi. Si è visto infatti che molte variazioni nel genoma sono collegate all'emergere di patologie. Si è così pensato di poter utilizzare questa informazione a fini medici. Ad esempio, sapere se siamo a rischio di sviluppare il diabete o una malattia cardiaca o un certo tipo di cancro potrebbe farci modificare il nostro stile di vita. O ancora, si può pensare di creare farmaci che interferiscano proprio con quella variante genetica: i cosiddetti farmaci personalizzati. In alcuni casi sembra che la cosa funzioni, ma le cose si sono rivelate più difficili del previsto. Innanzitutto, spesso la variante genetica influisce solo per una piccola percentuale sull'ereditarietà di un certo carattere. In sostanza, è più facile predire se un bambino diventerà alto o svilupperà una certa malattia raccogliendo la sua storia familiare che analizzando il suo genoma. E senz'altro costa meno. Anche le industrie farmaceutiche sono perplesse. Dopo aver speso moltissimo denaro per mettere in piedi strutture di ricerca sulla genomica, si accorgono che ci sono degli imprevisti. Un esempio per tutti: la multinazionale Merck ha trovato un gene legato al diabete. Quando il gene viene reso silente, il diabete migliora. Purtroppo però questo gene è legato anche all'obesità e alla pressione. Metterlo fuori gioco vuol dire anche far aumentare il peso della persona e la sua pressione. Il gioco non vale la candela. Insomma, sembra che per ora quello sappiamo soprattutto è di non sapere.

Repubblica 27.12.08
L’eredità di Fidel
L’uscita di scena di Castro non è la fine del castrismo. Ecco come il regime prova a sopravvivere. Grazie a un alleato: l´embargo Usa
di Bernardo Valli


Cuba. Così l’embargo puntella il regime
C´è chi spera e chi teme Obama che si è detto pronto al dialogo con Raul
La rinuncia al recupero dei beni è inaccettabile per gli esuli che vivono a Miami
Il "bloqueo" fu decretato da Washington nel febbraio del ‘62 ed è ancora operante. L’effetto è però paradossale: rafforza l´orgoglio nazionale degli abitanti dell´isola. E rende più difficile l’uscita dal castrismo
Offre l´occasione di attribuire ai gringos tutti i patimenti di cui soffre l’isola
Non può essere annullato con la fretta con cui è stato demolito il Muro di Berlino

L´AVANA. Sono andato all´hotel Capri. Volevo salire all´ultimo piano da dove anni fa scrutavo la città intatta, senza una traccia di fumo, mentre i giornali europei dicevano fosse in preda alle fiamme. E agitata da tumulti popolari. «Hai saputo qualcosa di Fidel? Pare sia morto», mi gridavano al telefono dall´Italia. Ed io che avevo appena partecipato a una grande cena, sulla piazza della Cattedrale, dove c´era Fidel in persona, mi spolmonavo a dire che non era vero niente. L´Avana non bruciava, né c´erano rivolte popolari. Castro godeva di ottima salute. Il "Che", che era ministro dell´Industria, mi aveva promesso un´intervista (poi ridotta a cinque minuti). Cuba accende spesso le fantasie nel resto del mondo. Fantasie alimentate dal troppo odio o dal troppo amore. Il fidel-comunismo ispira di rado l´obiettività. Suscita passioni. Provoca delusioni.
Per quanto riguarda l´Hotel Capri l´ho trovato chiuso. Una compagnia franco-cubano lo starebbe restaurando. Un po´ di capitali stranieri sono approdati a Cuba. E´ da tempo che arrivano con voluta parsimonia, in particolare nell´industria alberghiera. Soprattutto a Varadero.
Il mio primo viaggio a Cuba risale alla primavera del �61. All´epoca in cui dall´ultimo piano dell´Hotel Capri smentivo appunto le voci di un´Avana in fiamme. Il 15 aprile un´incursione sugli aeroporti dell´Avana e di Santiago aveva fatto sette morti e una cinquantina di feriti. E il 17, quarantotto ore dopo, 1.500 controrivoluzionari cubani, addestrati dalla Cia (soprattutto in una base del Guatemala) avevano tentato di sbarcare nella Baia dei Porci. I combattimenti erano ancora in corso quando arrivai all´Avana dal Messico, ma ormai l´impresa era fallita e Castro processava i prigionieri davanti alla folla che gridava al paredon, cioè al muro, e che io, tenero di cuore, pensavo gridasse perdon. Più tardi Castro disse di essere pronto a scambiare quei prigionieri con trattori agricoli e medicinali. Ad attirare l´attenzione fu tuttavia la dichiarazione che fece al funerale delle vittime dell´incursione del 15 aprile, quando annunciò «il carattere socialista della rivoluzione cubana».
Il 1 maggio la proclamazione diventò ufficiale durante una sfilata che celebrava tante cose: l´avvento del socialismo, la festa dei lavoratori e la vittoria sui contro rivoluzionari uccisi o fatti prigionieri nella Baia dei Porci. Durante la grande sfilata ero accanto a Vittorio Vidali, il romanzesco comunista triestino, comandante Carlos nella guerra civile spagnola, poi legato a tante vicende dell´America Latina: da quella tragica dell´esule Leone Trotzki assassinato in Messico a quella politico-sentimentate con la fotografa Tina Modotti. Ma in quell´occasione Vidali mi parlò soltanto delle miliziane che marciavano al passo, impettite, con la camicetta leggermente aperta, non abbottonata fino al collo.
Abitavo all´Hotel Capri dove, due anni e mezzo dopo l´ingresso dei barbudos all´Avana, era ancora aperto il casinò. Come erano aperte le sale da gioco nel vicino Hotel National e all´Hotel Riviera. Ma i tenutari delle bische non erano più i mafiosi venuti dagli Stati Uniti (il casino del Capri era stato diretto dall´attore Georges Raft). I croupier avevano al collo il fazzoletto rosso e i giocatori erano i pochi gringos rimasti sull´isola. Erano le ultime tracce del regime di Batista destinate a sparire molto presto. Le prostitute del Vedado non avevano più clienti e aspettavano davanti ai televisori dei bar che apparisse "Che" Guevara, il quale aveva l´abitudine di pronunciare i suoi discorsi a tarda sera o addirittura di notte. Il "Che" aveva allora trentatré anni e Fidel appena due di più. Non si era mai vista una rivoluzione tanto giovane. Alcuni night club erano ancora aperti ma vuoti, e sempre gelati come frigoriferi. Un tempo il gelo giustificava le pellicce di visone che le turiste nordamericane indossavano anche ai tropici.
Gli avvenimenti di quei giorni erano in apparenza gioiosi. Non lo erano per tutti. Le emozioni erano tante. I neri erano ammessi nei club e sulle spiagge riservate fino allora ai soli bianchi. I villaggi ai margini delle piantagioni di zucchero erano invasi dai giovani incaricati di alfabetizzare i campesinos. Al tempo stesso le prigioni rigurgitavano di prigionieri e nei tribunali risuonavano ancora le condanne a morte pronunciate con disinvoltura contro i seviziatori o presunti tali del regime di Batista ed eseguite senza indugio. La prima riforma agraria, più che mai giustificata, era stata attuata con rapida brutalità. I tremila proprietari del settanta per cento delle terre, soltanto un terzo delle quali coltivate, erano già stati in larga parte cacciati dalle fattorie, e, se fuggiti, spossessati a favore di cooperative e di piccoli agricoltori.
Centinaia di leggi, riguardanti la vita quotidiana, erano state promulgate: i salari aumentati e gli affitti abbassati dal 30 al 50 per cento. E in egual misura erano state ridotte le tariffe dell´elettricità, del gas, del telefono, e i prezzi dei testi scolastici e dei medicinali. Molti borghesi erano scappati a Miami, spesso senza avere il tempo di salpare con gli yacht riempiti di oggetti preziosi e rimasti nei porti dell´isola.
Tra i ricchi in fuga non mancavano i nordamericani, molti dei quali colpiti dalla riforma agraria o spaventati dalla forte mobilitazione popolare, subito inquadrata o addirittura militarizzata. Era stata creata una milizia di centomila uomini. E i nuovi Comitati di Difesa della Rivoluzione (Cdr), incaricati di sorvegliare in ogni quartiere gli elementi contro rivoluzionari ma anche di vegliare all´applicazione delle misure rivoluzionarie, impegnavano ottocentomila persone. Sul piano internazionale era stato firmato il primo accordo con l´Urss che si impegnava a comperare cinque milioni di tonnellate di zucchero in cinque anni, in cambio di petrolio, acciaio, carta, cereali, concimi.
E al tempo stesso, in seguito alla nazionalizzazione delle società petrolifere straniere, in gran parte nordamericane, il presidente Eisenhower aveva rifiutato, per ritorsione, 700 mila tonnellate di zucchero destinate agli Stati Uniti. E Castro aveva sentenziato: «E´ una pugnalata alla schiena».
Si è creduto (e affermato) a lungo che Fidel Castro fosse diventato comunista durante il confronto con gli Stati Uniti, per reazione all´ostilità del vicino impero capitalista, storicamente poco rispettoso dell´indipendenza dell´isola. Lui stesso, nei primi mesi di potere, aveva definito più volte, in pubblico, "umanista" e non comunista il carattere della rivoluzione. In un´intervista del 2006 a Ignacio Ramonet (presentata in un volume come «una biografia a due voci») Castro è più preciso.
Già nel 1953, ossia sei anni prima della presa del potere, e quando aveva ventisei anni, alle sue prime idee politiche ispirate da José Marti, l´eroe nazionale dell´Ottocento, si erano aggiunte le idee socialiste radicali, assimilate con le letture. E aggiunge perentorio: «Io sono socialista, marxista e leninista, e non ho mai cessato né cesserò mai di esserlo».
Da tutto questo si può dedurre che era già idealmente comunista ma che esitava sulla natura del regime? Ritornare su questi particolari cinquant´anni dopo non è superfluo, come può apparire, poiché essi riconducono a un momento decisivo della rivoluzione: quando i compagni di Fidel il cui obiettivo era di sostituire la dittatura di Batista con una democrazia avvertono i sintomi di un autoritarismo che si sta installando con un´azione sempre più evidente dei comunisti. E quindi si staccano dalla rivoluzione già nel �59. Tanti sono coloro che pagheranno il "tradimento" col carcere e il lavoro forzato.
Penso in particolare a Huber Matos, il maestro idealista, comandante della "colonna 9", una delle più valide durante la guerriglia contro Batista, condannato a vent´anni, scontati fin quasi all´ultimo giorno per non avere seguito la linea di Fidel. Tra i tanti va ricordato anche il giornalista Carlos Franqui, denigrato dai controrivoluzionari per essere stato con Fidel sulla Sierra e poi dal regime dell´Avana per avere condannato la svolta autoritaria e filosovietica.
Ho avuto l´impressione di ricevere uno schiaffo quando una intellettuale aggiornata su tante cose mi ha risposto, poche ore fa, con disinvoltura: « Lei mi chiede se so chi era Huber Matos. Certo che lo so: era un traditore che ha trafficato anche con la cocaina». In mezzo secolo la propaganda può cancellare ogni verità e inventare le più insultanti menzogne.
L´intellettuale aggiornata non era ancora nata quando Matos, coraggioso comandante a Camaguey, e amico di Camilo Cienfuegos, fu processato. Camilo spari in un incidente aereo prima che le accuse a Matos si appesantissero.
Ma quanti sono oggi i prigionieri politici a Cuba? Stando al sito (desdecuba.com/generaciony) dell´impavida giornalista digitale Yoany Sànchez, sarebbero circa duecentoquaranta. Ma non è facile affidarsi alla definizione di prigioniero politico in un regime come quello cubano, dove i reati politici, d´opinione, vengono confusi con quelli comuni. E´ singolare il caso di Yoany Sànchez che diffonde da Cuba i suoi blog contestatori rivelando verità taciute dagli organi di informazione ufficiali. Le autorità sono imbarazzate: pochi cubani, essendo difficile accedere a internet, raccolgono gli intelligenti messaggi di Yoani Sànchez, mentre essi hanno una larga eco nel resto del mondo. Ridurre al silenzio Yoany diventerebbe dunque uno scandalo internazionale. Per questo il regime ha finora evitato di farlo. Non è sempre facile interpretare quel che accade a Cuba.
Secondo l´Organizzazione mondiale della sanità la speranza di vita a Cuba è di 76 anni per gli uomini e di 80 per le donne. E´ cioè uguale a quella degli Stati Uniti e si stacca nettamente da quella dei paesi vicini. Nella Repubblica domenicana è rispettivamente di 66 e 74; e a Haiti di 59 e 63. In quanto agli analfabeti, che mezzo secolo fa erano la maggioranza, adesso non esistono più. Quasi il 93 % dei giovani, stando alle statistiche dell´Onu, finiscono la scuola media superiore. E´ una percentuale che sorpassa quella degli Stati Uniti e naturalmente degli altri paesi dei Caraibi. Non c´è osservatore obiettivo che, di fronte a questi dati esemplari, non sottolinei l´assurdità della situazione. Il valore di questa educazione tanto estesa viene drasticamente ridotto, se non proprio vanificato, dalla censura che fissa i confini della cultura, dalla difficoltà di comunicare con l´esterno e di recarsi all´estero. Quali sbocchi, quali prospettive hanno i giovani cubani che hanno conquistato conoscenze ignorate dai loro padri e nonni? A giudicare da Granma, organo del Pc cubano, la stampa quotidiana più diffusa a loro disposizione è meno che decente.
Cuba è una grande potenza medica: forma ed esporta dottori non soltanto nel subcontinente. I medici cubani sono apprezzati e costituiscono un comprensibile vanto per il regime. Ce ne sono circa ottantamila: una delle percentuali più alte del mondo in rapporto alla popolazione. Si ritiene che l´azione preventiva abbia evitato un disastro sanitario negli anni Novanta, durante il "periodo speciale", quando in seguito al crollo dell´Urss e degli altri regimi comunisti, principali partner di Cuba, il prodotto interno lordo calò del 40 %, la produzione industriale dell´80% e quella dello zucchero passò da sette milioni di tonnellate a poco più di tre. La situazione alimentare diventò disastrosa, ma sarebbe stata peggiore se non ci fosse stata una assidua prevenzione sanitaria. Oggi Cuba manda migliaia di medici nei paesi emergenti. Trentamila si trovano nel Venezuela e in cambio della loro opera il presidente Chavez fornisce all´amico Fidel 90 mila barili di petrolio al giorno. Senza i quali l´isola resterebbe quasi senza energia.
Come ha fatto a durare cinquant´anni la rivoluzione? A questa domanda molti cubani sorridono, alzano gli occhi al cielo, e citano alla rinfusa tanti, disparati motivi: il carisma di Fidel; il sostegno dei campesinos o degli ex campesinos emancipati dalla rivoluzione; le rimesse degli esuli cubani di Miami che aiutano le famiglie rimaste nell´isola; i Comitati di difesa della Rivoluzione (Cdr), che continuano a costituire uno strumento importante del regime.
Tutto passa attraverso di loro: l´igiene, la sicurezza, la disciplina rivoluzionaria, la lista degli individui segnalati come "asociali", le dispute di famiglia, la prevenzione degli uragani, la sorveglianza della frequenza scolastica dei minori. Ogni Cdr possiede in ogni edificio un suo chivato, un suo informatore, che segnala qualsiasi tipo di irregolarità.
Al controllo ideologico dovrebbero contribuire gli iscritti al partito o al sindacato unico. Queste organizzazioni sarebbero tuttavia l´ombra di quelle che erano un tempo. Esse riflettono l´immagine della rivoluzione invecchiata, che di giovane avrebbe conservato soltanto gli slogan.
Il bloqueo, l´embargo americano, è considerato paradossalmente uno dei più solidi puntelli del regime, anche da una giovane e furba cubana di origine africana, che incontro nel sobborgo di San Miguel del Pardon. Per lei i due fratelli, Fidel e Raul, tremano all´idea che finisca. Senz´altro esagera, ma c´è qualcosa di vero in quel che dice. Il primo embargo, totale, fu decretato nel febbraio 1962, neppure due anni dopo la costruzione del Muro di Berlino.
E ha avuto un effetto simile, con la differenza che a promuoverlo sono stati quelli dall´altra parte. Il bloqueo contro Cuba è una delle iniziative americane più (giustamente) deplorate e condannate nel resto del mondo. E´ stato ed è fonte di sofferenze e di privazioni che, contro ogni principio umanitario, colpiscono indiscriminatamente un´intera collettività.
Da alcuni anni il Congresso, spinto dalla farm lobby americana, autorizza la vendita di prodotti agricoli e simili (quest´anno per seicento milioni di dollari) a Cuba.
Prodotti che devono essere pagati in contanti alla consegna, per cui, al fine di poter saldare il conto, ad ogni arrivo i funzionari fanno una precipitosa colletta di moneta convertibile nelle banche e negli uffici di cambio frequentati dai turisti. Altri prodotti made in Usa arrivano attraverso l´Europa. Ma nel suo insieme l´embargo resta operante.
Penso che esso rafforzi l´orgoglio cubano di fronte al gigante americano, e offra al regime comunista l´occasione di attribuire ai gringos tutti i patimenti di cui soffre all´isola. Per questo l´afrocubana di San Miguel del Pardon sostiene che Fidel e Raul ne sono avvantaggiati. L´embargo non può comunque essere annullato con la fretta con cui è stato demolito il Muro di Berlino. E´ un mosaico di decreti da smontare uno ad uno. Quello che esige la restituzione dei beni confiscati ai cubani in esilio a Miami è, ad esempio, inaccettabile dal regime dell´Avana che non può neppure immaginare il ritorno in massa degli esuli, così come non potrebbe sopportare un´invasione di turisti americani. Essi seppellirebbero la rivoluzione. Ma la rinuncia al recupero dei beni è altrettanto inaccettabile degli esuli cubani, che aspettano la rivincita, e costituiscono un gruppo di pressione potente negli Stati Uniti. Molti sperano e altrettanti temono l´annunciata saggezza di Barack Obama che si è dichiarato disposto a parlare con Raul.
(2 - fine)


Repubblica 27.12.08
Storia di un'infezione nazionale. La corruzione e le sue radici
Le origini di un fenomeno che affligge l´italia dagli anni settanta
di Guido Crainz


La "normale" violazione della legalità rimanda a vicende antiche del nostro Paese
La "diversità" comunista oggi appare come un reperto archeologico

Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della "normale" violazione della legalità (la "corruzione inconsapevole" di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica.
La "diversità" comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull´onda di quello scandalo.
L´iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall´Urss, dall´altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l´insistenza dell´ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l´orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l´appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l´aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C´era un paese che si reggeva sull´illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell´intera classe dirigente». Ed è dell´anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell´intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima.
A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c´è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l´opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la "cultura della corruzione": nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell´Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L´assenza di regole domina ovunque, anche nella "capitale morale". E siamo qui nell´angoscia, nell´umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».
Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L´Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal "reddito da tangenti" (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall´altro l´immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull´identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull´Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d´epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all´Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».
In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della "prima Repubblica"] è l´espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l´Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla "solitudine interna" di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall´alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».
Alla lunga distanza c´è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell´opinione pubblica siano state poi sepolte dall´illusione in una salvifica "seconda Repubblica". Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di "un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire". Così ci appare oggi anche l´Italia dei primi anni Novanta e c´è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l´intero paese.


il Riformista 27.12.08
Del Turco: «Nel Pd confondono il garantismo con la complicità»
di Tommaso Labate


INCHIESTE. «Bisogna solidarizzare con i nemici. Troppo facile farlo con gli amici». «Mi fido di più della Procura che del commissario Brutti inviato in Abruzzo da Veltroni».
di Tommaso Labate
«Quelli del Partito democratico sono garantisti a corrente alternata

«Quelli del Partito democratico sono garantisti a corrente alternata. D'altronde, un garantista vero è tale quando difende i nemici... Difendere gli amici è un altra cosa: si chiama complicità». Così Ottaviano Del Turco commenta con il Riformista l'ultimo capitolo della telenovela giudiziaria abruzzese: la scarcerazione di Luciano D'Alfonso, sindaco dimissionario di Pescara, che ha avuto la solidarietà del Pd.
Del Turco, ha visto? D'Alfonso è tornato in libertà.
Rimango sconcertato per tutta la vicenda ma sono contento per Luciano, che al contrario di me potrà passare il Capodanno da uomo libero. Sin dal suo arresto, gli avevo manifestato la mia solidarietà. Vengo da una tradizione garantista, io...
Crollato il castello di prove contro D'Alfonso, anche il Pd ha polemizzato coi giudici. Dal commissario in Abruzzo Massimo Brutti al ministro ombra Tenaglia, passando per Veltroni.
Sa che le dico? Che Brutti è venuto in Abruzzo non per seguire le vicende politiche del Pd, ma per stare appresso alle inchieste. Aggiungo, poi, che mi sento più garantito dal magistrato Trifuoggi (il capo della procura di Pescara che ha fatto arrestare il governatore, ndr) che non da un personaggio come Brutti. A mio avviso, quest'ultimo difende le sue posizioni ideologiche, da sempre in linea con gli atti più feroci della magistratura.
Che vuol dire, Del Turco? Che il Pd non è un partito garantista?
Quelli del Pd sono garantisti a corrente alternata. Un garantista vero solidarizza innanzitutto con i nemici. Difendere gli amici è un'altra cosa: si chiama «complicità».
Sta accusando il Pd di «complicità»? E con chi?
Senta, io mi lamento perché non uno degli schemi utilizzati dal partito in difesa di D'Alfonso è stato adoperato quando il sottoscritto è finito in carcere, tra l'altro senza uno straccio di prova a carico. Dentro il Pd si dicono e si fanno cose abiette. Lei non ha idea degli esponenti di quel partito che, quando mi incrociano, si girano immediatamente dall'altra parte per non salutarmi.
Addirittura...
Questa scenetta triste si è ripetuta spesso, negli ultimi tempi. Soprattutto nei corridoi di Montecitorio. Io invece posso andare in giro a testa alta. Vengo da una tradizione che è stata garantista nei confronti di tutti ma che di solidarietà, in cambio, ne ha avuta ben poca.
Da garantista, che ne pensa della vicenda (mediatica, visto che non ci sono indagati) che vede coinvolto il figlio di Di Pietro?
Dico che, come le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, allo stesso modo le colpe dei figli non devono ricadere sui padri. Tutto qua. Quanto all'Abruzzo, penso che l'uno-due giudiziario sulla regione e sul comune di Pescara sia stato un bel cappotto...
Pensa a un complotto, alla teoria della «manina»?
Come Dahrendorf, io non credo ai complotti. Penso però a una serie indefinita di errori giudiziari.
Intanto lei continua ad attaccare il Pd. Dica la verità: è in marcia di avvicinamento verso il Pdl?
L'ho detto e lo ripeto: non sono in cerca di candidature ma so che il mio impegno in politica, che voglio portare avanti, non ha più senso dentro il Pd. Faccio un solo rilievo: all'indomani del mio arresto, l'unica personalità politica che non ha fatto finta di non conoscermi è stata Silvio Berlusconi. E sono felice che l'Italia abbia un premier che, con i suoi esempi, ricorda ai cittadini le garanzie contenute nella nostra Costituzione. Quanto a Veltroni, il segretario del Pd sembra sempre di più un ballerino che sbaglia tutte le mosse. Anche il partito è messo male. Leggendo il libro di Ugo Finetti su Togliatti e Amendola, e pensando alle dispute tra veltroniani e anti-veltroniani, mi viene da pensare che aveva ragione Marx. È vero che le tragedie della storia si ripresentano come una farsa.


il Riformista 27.12.08
Il centenario del terremoto calabro-siculo/3 La città aveva 30mila abitanti: ne morì la metà
Il sisma dimenticato
A Reggio Calabria i soccorsi 24 ore dopo
di Fabrizio d'Esposito


L'altra sponda dello Stretto. La scossa del 28 dicembre 1908 devastò anche il capoluogo calabrese. A differenza di Messina, però, l'allarme scattò solo il giorno dopo. Con le peggiori strade del regno, la città fu esclusa dal mondo dei viventi. L'atroce testimonianza dell'avvocato Valentino, poi divenuto sindaco.

Reggio Calabria, 28 dicembre 1908. È durata poche ore la luce nuova del corso Garibaldi. Il terremoto terrificante di stamattina ha divelto i lampioni alimentati non più dal gas ma dalla corrente elettrica. La strada è attraversata da fenditure profonde. Domenica sera il popolo reggino era in festa per l'avvento della luce nuova sul corso Garibaldi. Uno struscio speciale tra Natale e Capodanno in onore del progresso. Molti notabili della città, però, si trovavano a Messina per l'Aida al teatro Vittorio Emanuele. Il boato del sisma ha squarciato l'alba. Ore cinque e ventuno. Dopo una decina di minuti, una montagna nera d'acqua si è rovesciata sull'intero lembo costiero che guarda la Sicilia. L'imponente Palazzina del lungomare, cinque blocchi squadrati, è stata spezzata dalla prima scossa. Del duomo è rimasta solo una facciata. Al porto il maremoto ha trascinato via alcuni vagoni ferroviari, che adesso escono per metà dall'acqua. La caserma Mezzacapo è completamente distrutta. Le prime voci raccontano che ci siano quasi mille soldati sepolti sotto le macerie. Un'ecatombe. Su trentamila abitanti in città, ne sarebbero morti almeno la metà, quindicimila. Il doppio, invece, nei paesini del circondario.
L'Aspromonte è la montagna dei terremoti. Prima dell'alba di questo funesto lunedì 28 dicembre 1908, la natura aveva colpito già nel 1894, nel 1905 e pure un anno fa, nel 1907. Una sequenza che avrebbe finito per spostare l'epicentro dall'appennino calabrese al fondo dello Stretto. Un altro grandioso sisma avvenne nel 1783. Allora, Reggio era un piccolo centro medievale di cinquemila abitanti. I Borboni la ricostruirono daccapo. Nonostante il porto, Reggio è rimasta una città che vive d'agricoltura. Il bergamotto è l'orgoglio di questa terra, oggi devastata ancora una volta. Tra i superstiti c'è l'avvocato Giuseppe Valentino, una delle personalità più in vista di Reggio. Ha perso la moglie e il fratello e insieme col figlioletto è rimasto intrappolato per lunghissime ore tra i detriti, respirando la polvere dei calcinacci. La sua testimonianza è atroce: «Appena quella scossa diabolica mi ruppe il sonno, balzai dal letto fulmineamente, trascinando meco mia moglie presso l'unico figlio undicenne, Felice, stringendoci tutt'e tre in gruppo: tutto ciò durò forse un secondo: ma subito dopo perdetti i sensi, piegandomi, svenuto sulla sponda del letto di mio figlio; e così rimasi per tutta la durata, trenta secondi, della tremenda scossa; seguì un attimo di quiete, nel quale, riaprendo gli occhi, intravidi avanti a me per l'ultima volta mia moglie; dopo un altro attimo, la scossa vorticosa, violentissima, rabbiosa: il colpo di grazia della catastrofe. Quindi un silenzio di morte, peggiore della morte». Il racconto dell'avvocato Valentino prosegue disperato: «Finalmente potei dare un urlo: mi rispose mio figlio, mi rispose invocando violentemente la madre: la madre, che era a un passo da noi, ma che non poteva più rispondere, e neanche mio fratello poteva rispondere. Mio figlio si accaniva nel grido filiale. Io volli ingannarlo ma si impazientì: "Papà, non c'è più speranza di niente... prendi un revolver e sparami". E io, affettando di celiare: "Bravo! E ora, dove te lo prendo un revolver?"».
Reggio Calabria 29 dicembre. Per ventiquattr'ore, Reggio è stata esclusa dal mondo dei viventi. Le strade della Calabria sono le peggiori del regno. Reggio è isolata. I superstiti si sono arrangiati da soli, senza alcun aiuto esterno. Hanno allestito due punti di soccorso. Alcuni seminaristi hanno estratto 14 cadaveri dall'edificio crollato dell'educandato di san Vincenzo de' Paoli. Sono suore ed educande. Uno strazio. Solo oggi pomeriggio il comandante Umberto Cagni è riuscito a far sbarcare dalla Napoli 400 marinai. La priorità per i soldati, secondo gli ordini ricevuti da Roma, è di sorvegliare i tesori sepolti sotto le rovine delle banche. Nemmeno i militari hanno viveri. Sono costretti a scavare tra le macerie della caserma Mezzacapo per recuperare gallette e scatolette di carne. Alla Mezzacapo c'è un corpo senza vita che penzola da una trave al secondo piano. Si sta putrefacendo senza che nessuno intervenga. Il povero soldato è rimasto impigliato coi piedi nella trave e la camicia rovesciata gli copre la testa.
Il prefetto Raffaele Orso è scampato al disastro. I telegrafi sono saltati e così ha affidato a un brigadiere della guardia di finanza il telegramma da spedire al premier e ministro dell'Interno Giovanni Giolitti. Il brigadiere si chiama Landuzzi e ha percorso cento chilometri a piedi e a cavallo per raggiungere Gerace Marina, da dove ha spedito il testo del prefetto: «In seguito ad una violentissima scossa di terremoto la città di Reggio è stata quasi completamente distrutta. Vi sono parecchie migliaia di morti. La prefettura ed altri edifici pubblici sono crollati. Anche altri comuni della provincia sono distrutti. Occorrono ingenti soccorsi, viveri, sodati e medicinali poiché la città nulla offre. Il telegrafo e la ferrovia non funzionano. Anche più centinaia di soldati sono morti e degli agenti della forza pubblica molti sono feriti e alcuni morti. I soccorsi dovrebbero arrivare via mare».
Reggio Calabria, San Silvestro del 1908. L'altro giorno, martedì 29 dicembre, l'onorevole Demetrio Tripepi, già sindaco della città, è stato trasportato ferito all'episcopio. Le sue condizioni erano gravissime. Il palazzo familiare di via Fata Morgana è venuto giù col terremoto e precipitando dal secondo piano il letto gli ha fatto da scudo. Tripepi è morto da solo stamattina alle quattro e venti. A quell'ora una scossa ha fatto fuggire tutti coloro che erano al suo capezzale. Le sue ultime parole sono state: «Che vale più la mia esistenza, mi vedo abbandonato da tutti, preferisco morire. Dio delle misericordie abbiate pietà di me». A Reggio piove da due giorni e molti soldati si lamentano dei superstiti. Li descrivono fiacchi e indolenti. Fatalismo calabrese? Indifferenza verso la morte? Si vocifera di favoritismi sugli aiuti, di gente che avrebbe ricevuto legname per costruire non una ma tre baracche. Un vecchio si aggira tra le rovine gridando come in un comizio solitario, senza pubblico: «Io morirò, ma io resto qui per vedere se anche questa volta come in passato, il denaro della solidarietà nazionale sarà spartito tra quattro avidi ricchi».
Si scavano fosse comuni sulla riva sinistra del Calopinace. Il cimitero non basta più. L'unico becchino comunale non fa avvicinare i soldati che portano i cadaveri a centinaia. A tutti dice: «Mettete giù, ragazzi, questo è affar mio». Quando scende nelle buche, lo si sente parlare coi morti: «Siete troppi. Non ci reggo». Dopo due giorni di lavoro, il becchino si è presentato al comando militare e ha dichiarato di aver sepolto millecinquecento persone. Poi ha aggiunto: «Pagatemi!».
(3- continua)


il Riformista 27.12.08
De Olivera. Un secolo sul set
di Rossana Miranda


Il regista più vecchio del mondo, Manoel de Oliveira, festeggia i suoi 100 anni lavorando. Il cineasta portoghese è sul set del suo nuovo film "Eccentricità di una bionda" nella città di Lisbona. I suoi primi film risalgono al cinema muto e, anche se è sconosciuto ai più, Oliveira è considerato al livello dei grandi Godard, Buñuel e Fellini. Il suo film "Viaggio alla fine del mondo" è stato l'ultimo lavoro dell'attore Marcello Mastroiani. Oliveira ha più di 8 decadi d'attività nel mondo del cinema e non pensa, neanche remotamente, al ritiro: «La coscienza mi sussurra costantemente: Hai poco tempo. Cammina!».


il Riformista 27.12.08
L'architettura secondo Derrida
di Francesco Longo


Azzardi. Raccolti in volume gli interventi del filosofo decostruzionista sull'arte del costruire. Che va liberata da ogni fine pratico e abitativo.

«Costruire case, uffici, mercati o teatri è importante, ma la specificità dell'architettura non consiste in questo». E in cosa consiste? Scheiwiller ha appena pubblicato Adesso l'architettura (374 pp., 24 euro), che raccoglie gli scritti di Jacques Derrida sull'argomento: uno spassoso e labirintico tour che segue il pensiero del filosofo decostruzionista. I contatti di Derrida con questa disciplina si devono a Bernard Tschumi (che introdusse il filosofo al lavoro dell'architetto Peter Eisenman) e che un giorno lo chiamò al telefono per chiedergli di partecipare al progetto per La Villette di Parigi.
In questi scritti, conferenze e interviste Derrida interviene in modo fulminante pur presentandosi come persona «completamente incompetente». Eppure dalla lettura di questo libro si traggono molti insegnamenti. Uno dei desideri che percorre tutto il libro è la volontà di Derrida di liberare l'architettura dai fini che le sono solitamente imposti. L'architettura, osserva il professore, è sempre subordinata a valori «urbanistici, politici estetici, funzionali». Ma cosa avremmo se si riuscisse a sottrarre l'architettura a queste colonizzazione? Cosa avremmo se sgombrassimo l'architettura da «qualsiasi fine estetico, funzionalistico, teologico, antropologico, politico, eccetera»? Avremmo semplicemente l'architettura.
Gli architetti con cui viene in contatto Derrida stavano seguendo un percorso simile a quello che egli proponeva per la filosofia: «Questi architetti stavano criticando tutto ciò che subordinava l'architettura a qualcos'altro - il valore, diciamo, dell'utilità o della bellezza o dell'abitare - non allo scopo di costruire qualcos'altro che sarebbe inutile o brutto o inabitabile, ma per liberare l'architettura da tutte quelle finalità esterne, da tutti quegli scopi che le sono estranei».
Leggere Derrida vuol dire confrontarsi con un pensiero radicale, che mette in discussione tutto ciò che si dà per scontato. Scrive il filosofo: «Può esserci più architettura in un libro che in un edificio firmato da un architetto, o più letteratura nelle mani di un architetto che nelle mani di uno scrittore». Immaginate la confusione nelle facoltà accademiche o nei reparti di una qualsiasi libreria divisa in settori.


Corriere della Sera Roma 27.12.08
Ada Montellanico presenta il cd «Sole di un attimo»


All'Alexanderplatz (tel. 06.39742171) stasera alle ore 22 la celebre vocalist romana Ada Montellanico propone la nuova realizzazione discografica «Il sole di un attimo» accompagnata da Francesco Diodati chitarra, Francesco Ponticelli contrabbasso, Walter Paoli batteria, Stefano Cocco Cantini sax.
Un lavoro che rappresenta una svolta nella carriera della cantante, in questo cd infatti raggiunge uno stile e un sound originali dove l'esposizione della melodia, dizione, timing, fraseggio e improvvisazione si fondono in un colore di voce unico, caldo ed ambrato. Nel nuovo album le storie raccontate sono quasi tutte di sua composizione: liriche struggenti, sinuose e penetranti, avvolte in ambiti musicali puramente afroamericani. A questo repertorio si aggiungeranno piccoli nuovi e interessanti tasselli musicali che confermano la cifra stilistica di Ada Montellanico, coraggiosa artista in continuo movimento, alla ricerca sempre di nuove importanti avventure.
Ada Montellanico
presenta stasera il nuovo album «Il sole di un attimo» accompagnata da un Quartetto jazz

Repubblica Roma 27.12.08
Ada Montellanico la melodia è swing
di Felice Liperi


Protagonista del canto jazz grazie ad uno stile che fonde melodia, swing e improvvisazione, Ada Montellanico torna questa sera all´Alexanderplatz per presentare Il sole di un attimo il suo ultimo album. Un lavoro dove la Montellanico si cimenta con sensibilità anche nel lavoro di composizione, dei nove brani del cd ben sette sono suoi (in qualche caso in compagnia di Enrico Pieranunzi e Gianpaolo Conti da tempo collaboratori della vocalist) e confermano la sua capacità di fondere il linguaggio jazzistico con la ricchezza melodica del nostro repertorio, in particolare Ti sognerò comunque, L´alba di un incontro e Suono di mare intensi passaggi di un percorso che fa immaginare nuove fortunate prospettive per la cantante romana. A questo repertorio si aggiungeranno probabilmente anche gli altri tasselli musicali che negli anni hanno costruito la cifra stilistica di Ada Montellanico: quelli più tipicamente jazzistici come The encounter e Suoni modulanti e gli altri dedicati alle canzoni di Billie Holiday e Luigi Tenco.
Al suo fianco dal vivo i musicisti del New Group: Francesco Diodati (chitarra), Francesco Ponticelli (contrabbasso), Walter Paoli (batteria) e Stefano Cocco Cantini (sax). Alle 24 per la rassegna «Lo Spirito di Mister Godot» Unplugged di Eleonora Giudizi, un progetto nato dall´incontro tra la cantautrice e il produttore Max Minoia. Si tratta di un viaggio immaginario tra musica e poesia che utilizza brani inediti e cover e vedrà la partecipazione di Frank Head (premio della critica Sanremo 2008) e Francesco Arpino.
Alexanderplatz Jazz Club, via Ostia 9, ore 22. Ingresso 10 euro con tessera mensile. Info tel. 06 39742171

mercoledì 24 dicembre 2008

Repubblica 24.12.08
Il piano di acquisto del giornale
Doppio direttore nel futuro di Liberazione


ROMA - La resa dei conti tra i rifondaroli passa attraverso il quotidiano Liberazione. Che oggi, dopo lo sciopero, sarà in edicola e pubblica il piano di acquisto presentato al segretario del Prc Paolo Ferrero e al tesoriere Sergio Boccadutri da Luca Bonaccorsi - l´editore di Left, molto vicino fino a qualche tempo fa a Fausto Bertinotti. Quindi, in futuro il quotidiano comunista dovrebbe avere due direttori: uno responsabile, com´è usuale, e l´altro politico-editoriale (che spetterà al partito e al suo segretario scegliere), il quale «ha diritto a un fondo politico in prima pagina in tutte le uscite del quotidiano. Inoltre sono di sua competenza la gestione delle pagine dedicate alla vita del partito, gli appuntamenti, il dibattito interno». Persino le lettere, sarebbero "politicamente" blindate, affidate cioè direttore-fiduciario, come la pubblicazione di allegati legati a festival, congressi, campagne elettorali. Una sorta di commissario politico? Né ci sarebbe una clausola di salvaguardia dell´occupazione. I 37 giornalisti di Liberazione con il direttore Piero Sansonetti sono sul piede di guerra, preoccupati per un´operazione che ritengono fatta per incassare i finanziamenti pubblici ai giornali di partito. Se ci saranno. Sospetto che sarebbe confermato dalla clausola in cui si parla di un obbligo di riservatezza fino al 31 gennaio prossimo, quando appunto si saprà se quegli stanziamenti ci sono o meno. La minoranza che fa capo a Nichi Vendola si dice «indignata» e contropropone, se vendita ci dev´essere, una gara vera e propria: si prendano cioè in considerazione altri editori interessati. La Fnsi in una nota esprime «preoccupazione e allarme per le voci di vendita di Liberazione», e ricorda che Left è «sotto sequestro giudiziazio e al centro di un vasto contenzioso giuslavoristico».

Corriere della Sera 24.12.08
Il nodo del quotidiano di Rifondazione
Ricetta Ferrero-Left: a «Liberazione» due direttori, uno per la politica
di Andrea Garibaldi


ROMA — Due direttori per Liberazione, organo di Rifondazione comunista. Uno politico/editoriale che se vuole può scrivere tutti i giorni un fondo in prima pagina, che gestisce le pagine sulla vita di partito, su campagne elettorali e congressi. Il secondo, direttore responsabile che si occupa del resto. Questa è l'ipotesi su cui Rifondazione lavora per il futuro del suo quotidiano, assieme a Luca Bonaccorsi, editore della rivista Left, molto vicina allo psichiatra-guru Massimo Fagioli e tramite questo a Bertinotti e alla minoranza di Vendola. Bonaccorsi si è fatto avanti per acquisire la maggioranza della proprietà del giornale.
Il comitato di redazione di Liberazione ora minaccia «scioperi uno dopo l'altro». In gran parte i giornalisti si stringono attorno al direttore Sansonetti che ha firmato in questi anni un giornale vivace e svincolato dal partito, soprattutto dopo la vittoria di Paolo Ferrero al congresso di luglio. Dice Anubi Lussurgiu D'Avossa, del Cdr: «Tutto il progetto ci pare di corto respiro. Giusto per arrivare alle elezioni europee».
«Dobbiamo ancora cominciare a trattare con l'editore, e ogni decisione sarà sottoposta alla direzione del partito — dice Ferrero —. Questo polverone mi sembra alzato da chi ha deciso di fare una scissione e vuole screditare ogni nostro passo».
Ieri Giordano e Migliore, due degli avversari di Ferrero, hanno incontrato l'editore in pectore Bonaccorsi, per manifestare il loro dissenso sull'operazione. «Bonaccorsi ha risposto che questo per lui sarà un buon affare», racconta Giordano. I «vendoliani» chiederanno al segretario che le trattative per trovare un editore a Liberazione vengano estese ad altri possibili acquirenti. La Federazione nazionale della stampa ha espresso «sconcerto» per l'eventuale passaggio di Liberazione all'editore di Left, «giornale carico di vertenze, anche legali, a cui sono stati costretti i giornalisti».

il Riformista 24.12.08
Liberazione in vendita, la Fnsi chiede chiarimenti


«Destano preoccupazione e allarme le ricorrenti voci di cessione di Liberazione (il quotidiano di partito di Rifondazione Comunista, ndr), in quota rilevante, se non maggioritaria, a Luca Bonaccorsi, già editore di Left, giornale sotto sequestro giudiziale e al centro di un vasto contenzioso anche giuslavoristico». È quanto comunica in una nota la Federazione Nazionale della Stampa. «I partiti - si legge - sono liberi di non pubblicare più i loro giornali o, in caso contrario, di fissarne la loro missione. Ma operazioni nebulose come quelle di cui si parla con insistenza sono qualcosa di più di un passaggio a un editore privato, pur mantenendo il marchio e il controllo politico del partito sul giornale. Esse suscitano sconcerto e debbono essere perciò chiarite al più presto, nelle sedi proprie, comprese quelle sindacali». In serata è intervenuto il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, dicendosi «d'accordo con le preoccupazioni della Fnsi, volte - come sostiene l'autorevole rappresentanza nazionale dei giornalisti italiani - a far sì che le lotte interne e intestine al Prc non distruggano il patrimonio che il quotidiano del partito Liberazione rappresenta per Rifondazione e per la sinistra italiana».

il manifesto on line 23.12.08
Giornali di partito, ne vogliamo o no?
di Matteo Bartocci


L'ex Pci poi Ds ha venduto l'Unità «fondata da Antonio Gramsci nel 1924» all'inventore di Tiscali e astro nascente del partito democratico Renato Soru. E nell'anno che verrà anche Rifondazione comunista potrebbe decidere di «liberarsi» della sua Liberazione, lasciandola "quotidiano del Prc" (più di nome che di fatto) ed essenzialmente allo scopo di conservare i finanziamenti pubblici per i giornali di partito. In fondo - e la storia del manifesto lo dimostra - si può essere comunisti senza la tessera e fare un quotidiano radicalmente di sinistra senza avere un editore alle spalle che non siano le donne e gli uomini che quel giornale vogliono far vivere e crescere come avete dimostrato con passione in queste difficilissime settimane di sottoscrizione. Aldilà del conflitto interno a Rifondazione, la vicenda di Liberazione pone quesiti più complessivi. Nel 2009 i giornali di partito hanno ancora un senso? Cancellarli è un bene o un male per la qualità della politica, soprattutto per quella di sinistra? E' alle porte solo la soppressione di centri culturali o la prosecuzione della battaglia con altri e nuovi strumenti - come Internet o canali Tv modello "You Dem" o "Red" - in grado di garantire livelli altissimi di partecipazione diretta? E' la rinuncia alla famosa egemonia culturale oppure il proseguimento della lotta con altri mezzi? La discussione è aperta e attuale come non mai.

il manifesto 24.12.08
Il cacciatore di giornali quasi falliti ma finanziati
La 'formula Bonaccorsi', il futuro editore di Rifondazione
di Andrea Fabozzi


Prima Avvenimenti, poi Notizie Verdi, poi EcoTv. E ora potrebbe toccare al quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione la sorte di essere inghiottito nella galassia quasi-imprenditoriale dì Luca Bonaccorsi, esuberante quarantenne romano, già bancario e nipote di banchiere, poi broker a Londra. La carriera nei giornali di sinistra, per Bonaccorsi, inizia nel dicembre del 2005 quando entra nel consiglio di amministrazione di Avvenimenti, un finanziamento pubbìico in quanto cooperativa di giornalisti, testa d'inchiesta sull'orlo del secondo fallimento consecutivo. Direttore Adalberto Minucci, elegante senatore della sinistra ex Pci, già al capo della redazione di Rinascita ai tempi di Enrico Berlinguer. Condirettore, Giulietta Chiesa, all'epoca già un ex della Stampa libero battitore della sinistra.
Il rapporto con i direttori salta sin dal primo numero del settimanale rimaneggiato dai nuovi soci. Fra le pagine che partono in tipografia 'spunta' una rubrica a firma di Massimo Fagioli, lo psichiatra collettivista (cioè fondatore dell'Analisi collettiva) di cui è seguace e discepolo Bonaccorsi, ma anche Fausto Beltinotti, e anche un pezzo dei dirigenti bertinottiani. Il direttore si ribella, finisce licenziato, con nessuna cortesia all'uscita: un secco fax alla redazione annuncia la sua rimozione. Il tribunale gli dà ragione e gli concede cospicui risarcimenti.
Il settimanale si chiama Left (per finta, perché all'anagrafe di Palazzo Chigi, da dove arrivano i contributi per l'editoria, continua a chiamarsi Avvenimenti, pena la fine delle erogazioni). È l'acronimo di 'Libertà, Eguaglianza, Fraternità', si dice nel primo numero; Ma la 'T'? La 'T' significa 'trasformazione', mantra dell'analisi collettiva, è lo stesso Fagioli a rivelarlo nella sua rubrica. Di più, ricorda Chiesa che la lettura della rubrica di Fagioli, proprio in quei primissimi numeri, si rivela profetica oggi più che mai: «In mezzo a una valanga di frasi. di difficilissima decifrazione, faceva capire che la linea editoriale di Left Avvenimenti l'aveva prefigurata lui alcuni mesi prima, ma proponeva ai lettori il suo 'sogno', cioè di mettere in collegamento Left con Liberazione. Con tutto il rispetto per il mio amico Piero Sansonetti (direttore di Liberazione, ndr) questo non era nei patti, cioè nella linea editoriale concordata». Espulso il primo paio di direttori, un anno dopo la stessa sorte tocca a Andrea Purgatori, cronista di razza e autore dello scoop su Ustica, e Alberto Ferrigolo, ex manifesto. Anche lì, un braccio di ferro sulla direzione del giornale finisce, in pochi mesi, in tribunale. Per qualche migliaio di euro non corrisposti la testata finisce «sotto sequestro giudiziale e al centro di un vasto contenzioso anche giuslavoristico», come ieri la federazione nazionale della stampa ricordava, preoccupatissima per le mire di cui ora è oggetto Liberazione. Il vizietto dell'editore Bonaccorsi, in questo periodo, è quello di avere trappe casacche in redazione: amministratore delegato, redattore dell'economico, direttore occulto. Un direttore vero non resiste più del tempo che ci vuole per capirlo. Per due volte, nel corso del 2007, l'ordine dei giornalisti diffida il direttore che prende il posto di Purgatori e Ferrigolo - Pino Di Maula, fagiolino - di far assumere le scelte giornalistiche all'editore. Oggi di Di Maula è dato in uscita. la nuova direttrice dovrebbe essere Donatella Coccoli, in curriculum il fatto di essere curatrice del sito Siena & Maremma, fagiolina pure lei.
In realtà quella di Left non è la prima esperienza editoriale di Bonaccorsi: c'è una partecipazione in Amore&Psiche, l'elegante libreria della capitale che all'Analisi collettiva fa riferimento e che dallo psichiatra è stata persino disegnata (il professore si diletta di architettura, di teatro e di altro). La vicenda con la libreria si chiude male, ma è lì, probabilmente, che Bonaccorsi comincia a formare l'idea di sé come editore, forgiatore di idee, mecenate. E il 'sogno' di fare un giornale che rifondi la sinistra sulla base della «ricerca», della «trasformazione», della «realtà umana», del «rapporto uomo-donna». Un sogno già sognato, come abbiamo visto, dal professor Fagioli. Un sogno che piace anche a Bertinotti, visto che sceglie proprio Bonaccorsi come editore della sua rivista teorica Alternative per il socialismo.
Ma è in Left che Bonaccorsi mette a punto la sua formula di imprenditore senza capitale, che rileva testate sull'orlo del fallimento, anche fortemente indebitate, ma dotate di finanziamento pubblico. E le inserisce più o meno silenziosamente nella galassia fagiolina. Dopo Left tocca a Notizie Verdi, organo ufficiale del partito ambientalista attualmente in stand-by ma che presto tornerà a uscire quotidianamente. Poi a EcoTv. Ora forse a Liberazione. In Left l'ex broker investe poco. Ma all'inizio in società entra l'imprenditore Ivan Gardini, che è marito della sorella di Luca, Ilaria. anche lei 'pupilla' di Fagioli. Dopo qualche anno però Gardini si disimpegna. Al suo posto arriva un imprenditore di internet, Matteo Fago, fagiolino di stretta osservanza. Infine le testate: sono salvate a metà. Mezze vive, ovvero mezze morte: la 'formula della trasformazione' prevede una convivenza fra il soggetto istituzionale che rastrella il finanziamento pubblico (la cooperativa, l'organo di partito) e la cultura fagiolina che dilaga ovunque, occhieggia persino nella cronaca.

il manifesto 24.12.08
LA FNSI. «Operazione nebulosa e sconcertante»


La Federazione nazionale della stampa si dice allarmata dalla voci di cessione di Liberazione, «in quota rilevante, se non maggioritaria, a Luca Bonaccorsi, già editore di Left, giornale sotto sequestro giudiziale e al centro di un contenzioso anche giuslavoristico», Per il sindacato quelle di cui si parla sono «operazioni nebulose» che «suscitano sconcerto e debbono essere chiarite al più presto», Fnsi e Associazione stampa romana chiedono dunque alla proprietà e al partito di tornare al tavolo delle relazioni sindacali dopo che il piano di risanamento e rilancio «è stato, di fatto, bocciato dall'azionista di controllo della stessa proprietà», Mentre «c'è bisogno di un clima di fiducia e di chiarezza, non solo per la tutela dei posti di lavoro» rna anche «per il futuro di un quotidiano di idee che è e può continuare ad essere voce importante del pluralisrno dell'informazione finché poggia le sue radici su un territorio solido e senza ambiguità».

il manifesto 24.12.08
PRC. Si tratta tra scomuniche e sospetti
Liberazione in vendita manda il partito in tilt
di Matteo Bartocci


In un momento così difficile, con il partito fuori dal parlamento, «chi si compra Liberazione si compra Rifondazione». La voce dal sen fuggita a via del Policlinico forse esagera. Ma rende bene i toni da ultimi giorni di Pompei che si respirano nel Prc attorno all'ipotesi di vendita del giornale all'editore del settimanale Left.
Fagiolino e bertinottiano doc, improvvisamente su Luca Bonaccorsi si sprecano gli improperi dei compagni di strada. «La sua è una pura speculazione finanziaria - tuona Franco Giordano, che arriva a un millimetro dal fatidico «traditore» - la mia cultura mi fa essere distante sia dagli imprenditori di questo tipo che da un gruppo dirigente del partito ormai compiutamente sta1inista». Eppure il possibile acquirente di Liberazione era in prima fila il 13 dicembre scorso al battesimo del «partito della sinistra» all'Ambra Jovinelli. Ed è addirittura tra i primi firmatari del manifesto fondativo. Senza contare che finora è l'editore di Alternative, bimestrale di Bertinotti.
L'ex presidente della camera non commenta ma dai dirigenti a lui più vicini si arriva quasi agli insulti. Alfonso Giannii: «Operazione pessima politicamente e spregiudicata finanziariamente». Di più, «la doppiezza manifestata da questa persona è sconcertante - accusa Rina Gagliardi - a sinistra ormai la questione morale non riguarda solo il Pd». Autocritica poca. «Certo, è spiacevole che Bonaccorsi abbia iniziato un rapporto con Bertinotti - riconosce Gianni - ma sono certo che nessuno nella minoranza, a parte il tesoriere Boccadutri, sapeva della trattativa fino a lunedì».
Trattativa che né il segretario Paolo Ferrero né il numero due Claudio Grassi danno per conclusa. «Servono garanzie precise», dice uno scettico Grassi. «Non c'è nulla di definito, va tutto verificato accuratamente», assicura un Ferrero stufo degli attacchi di una minoranza che, accusa, «usa il giornale per distruggere Rifondazione pensando di crearsi così uno spazio politico per la scissione». Tuttavia la bozza di preaccordo presentata da Bonaccorsi al segretario contiene clausole molto precise. Come il doppio direttore e la «spartizione» delle pagine.
E' previsto un direttore politico nominato dal partito che avrà diritto al fondo di prima pagina e al resoconto del dibattito interno (in questo caso si sussurra di una scelta interna alla redazione). Mentre il direttore editoriale (presumibilmente lo stesso Bonaccorsi) gestirà praticamente tutto il giornale.
Una cosa è certa: neanche Bonaccorsi vede di buon occhio Piero Sansonetti. In un incontro di ieri, a tu per tu con Franco Giordano e Gennaro Migliore proprio nella sede di Left, ha fatto capire ai suoi interlocutori ed (ex?) amici, che la linea editoriale attuale va rovesciata, che il calo di copie è tutta colpa di Sansonetti, che insistere con lo scontro verso lo zoccolo duro del partito è una follia e che sì, anche se l'operazione è molto «ghiotta» dal punto di vista finanziario «politicamente» il tempo gli darà ragione. In privato Bonaccorsi dà la trattativa quasi per fatta. E anche gli attacchi durissimi dei «vendoliani» alla fine potrebbero giovargli per fiaccare le resistenze nella variegata maggioranza del Prc. Con il risultato paradossale di un editore «bertinottiano» per un giornale «ferreriano». Sia come sia, «ormai non mi fido più neanche di me stesso», si sfoga Alfonso Gianni. Mentre Claudio Grassi ha il telefono rovente per i tanti che gli chiedono se è vero che «vuole vendere il giornale a Bertinotti».
In uno scenario quasi operistico, i fatti veri rischiano di restare sullo sfondo. Per il «tornado Bonaccorsi» è passata quasi inosservata la revoca del cda di Liberazione operativa dal 30 dicembre. Un passaggio dall'attuale maggioranza «vendoliana» a un controllo «ferreriano» (in pole come ad c'è Mauro Belisario) che prelude, entro gennaio, con o senza vendita, alla sfiducia formale a Sansonetti.
Del resto, come svela un retroscena significativo, sulla privatizzazione del giornale ora le parti si sono curiosamente invertite. Non più tardi di due mesi fa il presidente uscente del cda Sergio Bellucci in un incontro riservato con Ferrero aveva chiesto di poter verificare la possibile vendita allargata ad editori esterni. Un'idea allora bocciata dal segretario, che l'ha sposata solo dopo la lettera di Bonaccorsi, e che i «vendoliani» ora ripresenteranno entro pochi giorni.
Al di là delle dichiarazioni al vetriolo, è probabile che il giornale si avvii a uno stato di crisi light, limitato a pochi prepensionamenti, per galleggiare fino alle europee di giugno. Nella bozza di accordo con l'editore di Left è perfino prevista una clausola di riacquisto da parte del partito con prezzo a tempo (200mila euro l'anno). Se il progetto non dovesse funzionare, alla fine Bonaccorsi non ci rimetterà un euro (grazie al finanziamento pubblico) e il partito potrà disfarsi della testata senza dissanguarsi e senza perdere una tribuna preziosa per un'elezione che è questione di vita o di morte. Raramente giornale e partito hanno avuto destini così intrecciati

il manifesto 24.12.08
Sinistra. La psiche e il partito. L'equivoco di una relazione pericolosa
di Ida Dominijanni


Dicono i buoni informati che Luca Bonaccorsi non muova paglia che Massimo Fagioli non voglia. Del resto, Left docet: di Fagioli, la testata di Bonaccorsi non solo ospita la rubrica settimanale (due pagine di libere associazioni secondo il gergo psicoanalitico, di pensieri in libertà secondo il senso comune che qualche volta è più pregnante degli specialismi), causa non ultima di tensioni con tutti i precedenti direttori, ma riprende, sparsa per il giornale e soprattutto nelle pagine culturali, l'intera filosofia (comprese le bordate contro Freud e Foucault, i pentimenti sul Sessantotto finito in anaffettività, disperazione e lotta armata, le diagnosi di «malattia» per l'omosessualità eccetera). Però si sa che il transfert è transfert, e che spesso le sue dinamiche non sono fra le più lineari. I buoni informati aggiungono infatti che fra il maestro e l'allievo i rapporti sono tutt'altro che semplici, hanno conosciuto momenti di rottura drastica e non sono improntati alla più tersa reciprocità: tradotto, Bonaccorsi è ostaggio di Fagioli, ma non vale il viceversa e a Fagioli è già capitato e potrebbe capitare ancora di mollarlo. Dunque niente - se non alcuni spiacevoli precedenti, ad esempio il fatto che il licenziamento di Giulietto Chiesa dalla direzione di Left fu deciso in una seduta dell'analisi collettiva - autorizza a pensare che il gran sacerdote dell'analisi collettiva stia dietro l'iniziativa spericolata presa da Bonaccorsi nei confronti di Liberazione. Ma si può dire per questo che ne sia del tutto fuori?
Dal punto di vista di Luca Bonaccorsi prendersi l'organo del Prc è un'operazione che non fa una grinza, e che il bizzarro contratto proposto per il rilancio della testata che prevede un direttore politico e un direttore culturale, rende perfetta. L'uomo è convinto di avere sulle proprie spalle l'eredità della sinistra italiana ed europea, e che sia solo per ignavia e incompetenza di chi la dirige se essa non vola nel vento del magnifiche sorti e progressive ben più in alto, per dire, di quel modesto uomo di immagine che è secondo lui Barack Obama.
Ma è altresì convinto, da buon fagioliano, che si tratti di farla passare per una sorta di lavaggio del cervello, di ridarle la psiche perduta, di depurarla di maestri perversi e di teorie scadute eccetera eccetera. Niente di meglio, all'uopo, che una sana divisione del lavoro: un pugno di ferro sulla politica, che garantisca fedeltà alla linea del partito, e uno d'acciaio sul sociale e la cultura, che garantiscano l'ortodossia dell'interpretazione. Pare Stalin, ma è Fagioli. La quintessenza dell'analisi collettiva, macchina oliata - ma oggi non poco grippata, a giudicare dalle testimonianze di transfughi che girano sul Web - per ripulire i cervelli e riempirli con l'ideologia del guru.
Vista da qui, si capisce forse meglio di quante trappole fosse lastricata la seduzione di Massimo Fagioli nei confronti di Rifondazione, e segnatamente di Fausto Bertinotti, che oggi accusa il colpo di una pugnalata imprevista. Non è questione di contenuti, idee, opinioni: di questi, nessuno si sognerebbe di mettere in questione l'assoluta libertà. È questione di un metodo, più propriamente di una pratica, che invece di libertà non ne lascia neanche un po', stringendo chiunque ci capiti nelle maglie di relazioni coartate e come tali reversibili, pronte a capovolgersi nel loro contrario. Non è con la «rifondazione» della sinistra che si sposa l'«eresia» psichiatrica del predicatore romano, ma precisamente con la sua anima più autoritaria e settaria.

Liberazione 24.12.08
Un commissario politico a Liberazione?
Cancelliamo quell'accordo e iniziamo daccapo
di Piero Sansonetti


Cari amici e compagni lettori, siamo nei guai. Liberazione è a rischio, è a rischio la sua autonomia, la sua libertà, cioè gli elementi essenziali che garantiscono che un giornale sia un giornale.
Vi riassumo gli avvenimenti delle ultime 24 ore (che hanno provocato lo sciopero dei giornalisti di Liberazione, e oggi hanno prodotto una nota ufficiale, molto molto severa, del sindacato). E' successo questo: lunedì pomeriggio si è riunita la Direzione del Prc e ha bocciato (a stretta maggioranza) il piano di ristrutturazione e di rilancio del giornale, che era stato varato dal consiglio di amministrazione (e alla cui stesura avevo partecipato). Non è stata presentata nessuna motivazione ragionevole per questa decisione. Bocciato e basta. Il piano, che prevedeva l'annullamento del deficit e dunque un bilancio in pareggio, era stato accolto come base di trattativa dal sindacato dei giornalisti e dal comitato di redazione. Oggi la trattativa si sarebbe dovuta aprire. Ma è saltata. La bocciatura da parte del partito - di per sé - non ha peso giuridico, ma è un siluro politico formidabile, che mette a rischio la sopravvivenza del giornale. Alla bocciatura del piano, la direzione del Prc (sempre a stretta maggioranza) ha fatto seguire altre due decisioni. La prima - gravissima - è quella di chiedere la revoca del consiglio di amministrazione del giornale, con un vero e proprio colpo di mano, forse inedito nella storia dell'editoria italiana del dopoguerra. La seconda è quella di annunciare la probabile vendita del giornale ad un editore privato. Il nome dell'editore doveva restare segreto, ma noi lo abbiamo scoperto: si tratta di Luca Bonaccorsi, una persona che noi conosciamo bene e con il quale abbiamo anche rapporti di simpatia, ma che finora - lo sottolinea la nota dell'Fnsi - come editore non ha dato molte garanzie (e deve affrontare diverse cause di lavoro avviate dai suoi dipendenti o ex dipendenti). Tutto questo è successo lunedì sera. Ieri abbiamo saputo delle cose che hanno ancora accresciuto il nostro allarme, e anche - lo confessiamo - il nostro incredulo stupore. E cioè siamo venuti a sapere che esiste una proposta di accordo, messa nero su bianco dall'editore Bonaccorsi, che la presenta come il riassunto «delle intese intercorse fino ad oggi» con i rappresentanti della proprietà (e dunque del partito).
In queste intese ci sono tre cose, tra le altre, che colpiscono e lasciano interdetti. La prima riguarda l'impegno a difendere «gli attuali livelli occupazionali», e cioè a «non licenziare». E' vero che questo impegno viene assunto solennemente, come effettivamente era stato assicurato lunedì durante la riunione della Direzione, ma con un piccolo codicillo che recita così: «compatibilmente con lo sviluppo della società editrice conseguente al suo rilancio». Che vuol dire? Che se per caso questo rilancio non ci sarà, come è un po' più che probabile, l'editore potrà ristrutturare l'azienda come meglio credere e mandare a casa chi pare a lui.
La seconda cosa che colpisce riguarda l'autonomia generale del giornale, dichiarata apertamente un pericolo da abbattere. Dice testualmente l'accordo: «gli obiettivi dell'operazione: ...tutela del controllo della linea politica del giornale da parte della segreteria del partito». Ora, a me hanno detto che esageravo quando paragonavo certe idee sulla libertà dell'informazione alle idee brezneviane. Però dovete ammettere che questo concetto, secondo il quale la segreteria del partito è titolare della linea del giornale, in Occidente non era mai stato dichiarato. Altro che bollettino di partito!
La terza cosa che lascia davvero interdetti è la proposta di doppia direzione. E' scritto testualmente nell'accordo che ci sarà un direttore responsabile che però non avrà voce sulla linea politica del giornale e addirittura non potrà decidere chi sono gli editorialisti e quali editoriali pubblicare. Ora voi capite che un direttore che non può decidere chi scrive l'editoriale, né può scriverlo lui, più che un direttore è un cretino. Questo mezzo direttore dovrà occuparsi solo della cronaca e della cultura, sempre che i temi culturali non investano scelte di linea politica. Tutto il resto spetterà ad una figura definita «direttore politico editoriale», designato dal partito e che avrà poteri assoluti. Un vero e proprio commissario politico. Tutto questo, naturalmente, in violazione del contratto nazionale di lavoro. Ma la violazione del contratto di lavoro non è neppure l'aspetto più grave: l'aspetto più grave è la violazione di qualunque idea di libera informazione e di qualunque rispetto per l'autonomia e per i diritti dei giornalisti. E' la concezione totalitaria, che sembra persino un po' una farsa, una esagerazione caricaturale di vecchie idee autoritarie degli anni 50.
Diciamo che di positivo, in questo preaccordo, c'è solo una cosa: che è un "preliminare" d'accordo, una specie di compromesso di vendita, ma non è ancora definitivo. Ritengo abbastanza probabile che sia frutto di un equivoco o di qualche problema di "impreparazione" in chi ha trattato l'affare. Francamente sono convinto che Paolo Ferrero non possa far passare una cosa del genere, e per di più farlo furtivamente nei giorni delle vacanze natalizie, e oltretutto attraverso il «putsch» dell'esautoramento del consiglio di amministrazione.
Noi siamo qui per sollecitare un ripensamento, e per ribadire che questa redazione è disponibile ad ogni trattativa per salvare il giornale. Diciamo la verità: non è rimasto più molto a sinistra, non ci sono grandi segnali di vita. Liberazione è uno dei pochi «organismi viventi». Che senso ha tentare di raderla al suolo? Qual è il motivo vero? Perché è un giornale contrario alle dittature? Perché non ama il muro di Berlino? Perché è troppo amica degli omosessuali e delle femministe? Perché fu troppo libera e critica col governo Prodi? Perché aspira a un nuovo soggetto unitario della sinistra? Perché non ama i riti e le burocrazie di partito? Perché troppe volte antepone il culto della libertà a tutto il resto? O addirittura perché è troppo radicale nelle sue battaglie a difesa degli immigrati, o a difesa dei lavoratori, dei loro diritti, delle lotte della classe operaia?
Non è possibile dare una risposta positiva a nessuna di queste domande. A nessuna. Allora forse c'è ancora il tempo per ricominciare a dialogare. Per cercare una via di salvezza di questo patrimonio, che non appartiene a nessuno, che è di tutta la sinistra e che è una ricchezza, che non può essere dispersa, per il sistema dell'informazione. Cancelliamo quella proposta di accordo e ricominciamo daccapo.

La Stampa 24.12.08
Il quotidiano del Prc
Il patron di Left più vicino all'acquisto di Liberazione


ROMA. Ormai è ufficiale: l'editore che vuole comprare Liberazione è Luca Bonaccorsi, attuale patron del settimanale Left nonché discepolo dello psicoanalista Massimo Fagioli, a sua volta amico ed estimatore di Fausto Bertinotti. Il paradosso è che anche Bonaccorsi è un bertinottiano, tanto che fa parte della minoranza di Rifondazione attualmente guidata da Vendola e che si oppone strenuamente alla linea del segretario Ferrero in vista di una futura, probabile scissione. Non a caso ieri due esponenti di spicco di quest'area, Giordano e Migliore, sono andati a chiedere spiegazioni direttamente a Bonaccorsi. Il quale ha confermato il suo progetto, cercando di convincerli a lasciar perdere l'attuale direttore Sansonetti «che ormai ha fatto il suo tempo». Il giornale che ha in mente Bonaccorsi è diviso in due parti, quella più piccola affidata al direttore politico (un uomo di fiducia di Ferrero) e quella più ampia a lui, per fare un'informazione tagliata con le lenti del fagiolismo. Che non è solo una particolare terapia psicoanalitica ma anche una visione del mondo. Nel frattempo la Fnsi si dice molto preoccupata di questa prospettiva, visto che Bonaccorsi ha già diverse vertenze in corso che riguardano il suo settimanale.

Apcom 23.12.08 18:32
Editoria, Fnsi: preoccupati per voci su cessione quotidiano Liberazione


“Destano preoccupazione e allarme le ricorrenti voci di cessione di Liberazione, in quota rilevante, se non maggioritaria, a Luca Bonaccorsi, già editore di Left, giornale sotto sequestro giudiziale e al centro di un vasto contenzioso anche giuslavoristico". Lo dice una nota della Fnsi, come riporta l'AdnKronos. "I partiti sono liberi di non pubblicare più i loro giornali o, in caso contrario, di fissarne la loro missione. Ma operazioni nebulose come quelle di cui si parla con insistenza sono qualcosa di più di un passaggio ad un editore privato, pur mantenendo il marchio e il controllo politico del partito sul giornale. Esse suscitano sconcerto e debbono essere perciò chiarite al più presto, nelle sedi proprie, comprese quelle sindacali", prosegue la nota della Fnsi.
La Fnsi, insieme all'Associazione della Stampa Romana, chiede alla proprietà e al partito di Rifondazione comunista che "faccia chiarezza su voci e programmi e che torni rapidamente al tavolo delle relazioni sindacali, per il quale il sindacato si era già attrezzato ad affrontare il piano di risanamento e rilancio presentato a norma di legge e di contratto e che è stato, di fatto, bocciato dall'azionista di controllo della stessa proprietà".

Adnkronos 23.12.08 ore 22.30 ca
Editoria: Ferroro, nessuna vendita di “Liberazione” in corso


Roma, 23 dic. (Adnkronos) - "Sono molto d'accordo con le preoccupazioni della Fnsi, volte - come sostiene l'autorevole rappresentanza nazionale dei giornalisti italiani - a far si' che le lotte interne e intestine al Prc non distruggano il patrimonio che il quotidiano del partito 'Liberazione' rappresenta per Rifondazione e per la sinistra italiana. Proprio per questo, io in prima persona e tutta la segreteria del Prc lavora da mesi, tra mille difficolta' e mille campagne di stampa contrarie e ostili, al rilancio - oltre che alla salvezza dei posti di lavoro - di 'Liberazione', e proprio per questo qualsiasi offerta di acquisto del quotidiano del partito dovesse mai concretizzarsi, essa sara' attentamente valutata dalla proprieta', cioe' dal partito-editore, in ogni suo elemento e caratteristica, e immediatamente portata a conoscenza e discussa con le organizzazioni sindacali, interne e di categoria". Lo afferma il segretario del Prc Paolo Ferrero.
"Proprio per questo motivo, abbiamo valutato - come segretario, segreteria e Direzione nazionale del Prc - che prima che vi fosse qualsiasi offerta concreta e valutabile seriamente di acquisto della testata 'Liberazione', sarebbe stato del tutto assurdo e controproducente - prosegue il leader di Rifondazione - montare il polverone di pretestuose polemiche e finti scandali che si sta montando in questi giorni sulla stampa da parte di una area ben specifica del partito. E' questo polverone, sono queste polemiche e accuse che hanno un unico, concreto e relae obiettivo: distruggere il patrimonio di 'Liberazione', la sua storia e il suo futuro, quello che tutti - a parole - dicono di voler preservare e difendere".
"Una sola cosa e' sicura, come ho gia' detto ieri sera: non c'e' nessuna vendita di 'Liberazione' in corso, oggi. C'e' solo l'impegno, assiduo e costante, della proprieta' e del partito-editore, come abbondantemente e con dispendio di molte energie e risorse del partito e' stato sempre fatto, in questi anni e in questi mesi e giorni, a continuare a garantire, tutti i giorni, l'uscita del quotidiano del Prc, a coprirne il cospicuo deficit, a garantire i posti di lavoro e tutto il necessario affinche' 'Liberazione' - conclude Ferrero - possa uscire ogni giorno, scrivere, diffondere, esserci. Alla Fnsi e a Stampa romana, infine, assicuro che il tavolo con le organizzazioni sindacali, interne e nazionali, con cui il dialogo non si e' mai interrotto, sara' ripreso al piu' presto, nel pieno rispetto delle prerogative di tutti".

Aprile on line 23 dicembre 2008, 23:09
Liberazione, è ancora polemica
di Marzia Bonacci


Lunedì la Direzione ha dato mandato a Ferrero di verificare le condizioni per la vendita del quotidiano, senza che il segretario svelasse l'identità del presunto acquirente. Un atteggiamento che ha fatto saltare i nervi dei vendoliani e accresciuto lo scontro interno. Oggi le voci su Bonaccorsi, editore di Left, come possibile nuovo proprietario, mentre la Fnsi lancia l'allarme
A ventiquattro ore dalla Direzione del partito che ha dato mandato alla segreteria di verificare le condizioni per la vendita di Liberazione, la polemica non si placa all'interno del Prc e tracima i confini politici, coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali. Nel giorno in cui il giornale ha scelto di non uscire in edicola, è la Federazione nazionale della stampa a lanciare l'allarme.
L'atteggiamento del segretario Ferrero, che ieri ha chiesto e incassato l'autorizzazione ad iniziare un dialogo con un possibile acquirente della testata, di cui non ha voluto rivelare il nome facendo infuriare l'area dei vendoliani, la Fnsi non nasconde la sua preoccupazione per la scelta compiuta dalla dirigenza del Prc di bocciare il piano di risanamento fin qui confezionato, aprendo la strada della vendita.
Un passaggio di proprietà che all'inizio appariva avvolto da mistero, per la reticenza del segretario a svelare nome e cognome dell'interessato a comprare il quotidiano comunista, ma che già nella tarda serata di lunedì cominciava a diradarsi, con i rumors ad indicare in Luca Bonaccorsi, editore di Left, il soggetto pronto a scendere in campo per salvare dal deficit il giornale diretto da Sansonetti.
Una ipotesi, una voce, quella che chiama in causa Bonaccorsi, che per la Fnsi desta "preoccupazione e allarme", perché si tratta dell'editore di un giornale "sottosequestro giudiziale" e soprattutto "al centro di un vasto contenzioso giuslavoristico", con in corso "diverse vertenze, anche legali, cui sono stati costretti i giornalisti". Oltre a questo, il sindacato dell'informazione, preoccupato anche per le ricadute occupazionali della vicenda, punta l'indice verso il comportamento della segreteria del partito e verso il tentativo di vendita da essa portato avanti: "operazioni nebulose" che rappresentano "qualcosa di piu' di un passaggio ad un editore privato, pur mantenendo il marchio e il controllo politico del partito sul giornale".
Rispetto a queste voci, la Federazione ammonisce il Prc e la sua leadership: "debbono essere chiarite al piu' presto" e "si torni rapidamente al tavolo delle relazioni sindacali". Per la Fnsi, infatti, "il sindacato si era gia' attrezzato ad affrontare il piano di risanamento e rilancio presentato a norma di legge e di contratto", una proposta che mirava a portare il bilancio in pareggio nel 2009 ma che è stata bocciata da Rifondazione.
"Sono molto d'accordo con le preoccupazioni della Fnsi", ha replicato Ferrero, ricordando come qualsiasi offerta di acquisto "sarà attentamente valutata dalla proprietà", cioè dal partito-editore, oltre ad essere "discussa con le organizzazioni sindacali". Tanto che lo stesso Ferrero ha annunciato la ripresa del tavolo concertativo "al più presto e nel rispetto delle prerogative di tutti". Il segretario ha anche voluto sgombrare il campo dalle ambiguità sostenendo che attualmente "non c'è nessuna vendita in corso" e che l'obiettivo resta quello di "continuare a garantire l'uscita del quotidiano, a coprirne il cospicuo deficit, a garantire i posti di lavoro". Ma il numero uno del Prc non ha lesinato i colpi politici verso l'altra parte del partito: "una area ben specifica", la chiama accusandola di "montare il polverone di pretestuose polemiche e finti scandali sulla stampa".
I vendoliani da parte loro non risparmiano il fuoco di risposta. "Siamo sbigottiti e indignati - afferma una nota di Rifondazione per la Sinistra - per aver dovuto apprendere dai giornali l'identità del misterioso editore interessato all'acquisto di Liberazione". Un atteggiamento che non risponde agli obiettivi di "difendere il partito, e tanto meno la democrazia e il dibattito al suo interno". Riguardo alla possibile acquisizione di Bonaccorsi, la minoranza, che accusa Ferrero e i suoi di voler epurare la direzione del giornale per ragioni politiche sfruttando la situazione di dissesto finanziario, non nascondo la sua contrarietà. "Non garantisce né la salvaguardia dell'occupazione, né la piena autonomia degli indirizzi politici e culturali del giornale né, infine, la conferma, per noi imprescindibile, di Sansonetti alla direzione di Liberazione", denunciano.
Stigmatizzato infine il comportamento tenuto durante la Direzione di lunedì dal segretario: la reticenza a svelare l'identità del soggetto interessato a comprare il quotidiano, che li ha spinti a lasciare i lavori, secondo loro "è lesivo dei più ovvi criteri di trasparenza e persino legalità".
Accuse che Ferrero liquida però come demagogiche: "noi vogliamo il rilancio di 'Liberazione'" e il nome dell'editore non è stato fatto "per questione di riservatezza", ha assicurato.
Del futuro del giornale ora si discuterà ancora in Direzione dopo che la segreteria avrà approfondito i termini di una eventuale offerta per la sua vendita. Ma il casus Sansonetti rischia di accelerare anche i processi di uscita dal Prc da parte del "partito nel partito", ovvero gli ex bertinottiani in minoranza.

Repubblica 24.12.08
Il futuro della ricerca
di Ignazio Marino


Caro direttore, in questi giorni le ricette per far fronte alla crisi economica fioriscono quasi quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani. Leggo, attento, le riflessioni di tanti politici ed analisti, ma raramente mi imbatto in soluzioni che considerino la ricerca scientifica ed insieme la trasparenza, il merito e la competenza, chiavi di volta del futuro del nostro Paese. « è il solito visionario - penseranno alcuni - per uscire da questa crisi bisogna far riprendere i consumi, mettendo i soldi in tasca al ceto medio». Sarà, ma la visione appare corta, lo sguardo miope.
Basta guardarsi intorno: nel pieno della crisi economica globale, la Francia ha deciso di investire in ricerca circa il 2% del Pil, la Svezia è oltre il 4% e noi, dove siamo? La nostra Finanziaria, dal precedente, già vergognoso 1,1%, ci trascina allo 0,9%: nell´Europa a 15, peggio di noi fanno solo Portogallo e Grecia.
Il futuro dell´Italia è nelle mani di giovani donne e giovani uomini competenti, creativi e pronti a mettersi alla prova, ma troppo spesso oppressi dai tagli alla ricerca e da opachi criteri nell´assegnazione delle cattedre universitarie, largamente in mano ai baroni e agli amici degli amici.
è vero che ripensare l´intero sistema è cosa lunga e complessa, è anche vero però che l´attesa di tempi migliori va colmata con piccoli, decisi segnali nella giusta direzione.
La rivoluzione - diceva Bruno Munari - va fatta senza che nessuno se ne accorga. Un primo passo lo abbiamo mosso assegnando, con gli emendamenti alla Finanziaria 2007, 15 milioni di euro ai progetti di 26 giovani ricercatori, scelti tra oltre 1700, da un gruppo di scienziati under 40, per metà stranieri, secondo il criterio della peer review (la valutazione tra pari).
Il secondo passo stavamo per compierlo e questa volta, con l´articolo che riuscii ad inserire nella Finanziaria 2008, i finanziamenti disponibili ammontavano a ben 81 milioni di euro.
Un altro gradino, sul quale però l´attuale Governo si è voluto fermare: quegli 81 milioni di euro sono già stanziati, pronti per essere assegnati, ma andranno perduti se il Ministero della Salute e quello dell´Università e della Ricerca non pubblicheranno, entro il 31 dicembre 2008, il bando di concorso.
Il Ministro Sacconi il 7 novembre scorso, alla presenza del Capo dello Stato, al Quirinale, aveva solennemente garantito che avrebbe fatto quanto di sua competenza, per consentire ai nostri giovani migliori di avere, anche quest´anno, un bando dedicato a loro.
Dopo tutto gli stanziamenti ci sono, messi a disposizione dalla Finanziaria del Governo Prodi.
Questo mero passaggio formale, in cui - voglio ribadirlo - non c´è da investire nuovi denari, permetterebbe, tra l´altro, al Governo Berlusconi una straordinaria operazione di marketing politico. Ma allora perché ci vuole tanto a mettere una firma?
Ormai, al 31 dicembre, mancano pochi giorni. Un assurdo conto alla rovescia che forse vedrà i corrotti, padri e figli delle clientele accademiche, festeggiare il Capodanno due volte e i nostri migliori cervelli, caparbiamente al lavoro negli scantinati delle Facoltà per due lire, due volte sentirsi sconfitti, magari ripensando alla generosa offerta di un ateneo americano, rifiutata con la speranza di un futuro in Italia.
La speranza, ecco un´altra parola necessaria per pensare al domani.
Con chi vorranno brindare i Ministri Sacconi e Gelmini?
(L´autore è presidente della Commissione Parlamentare d´inchiesta sul SSN del Senato della Repubblica)

Repubblica 24.12.08
Cinquant´anni fa, Castro e Che Guevara entravano all´Avana. Viaggio nell´isola che cerca una via per il futuro. Dopo Fidel
di Bernardo Valli


Il primo gennaio 1959 i "barbudos" di Castro e Che Guevara entravano all´Avana. Oggi l´isola è avvolta in un´atmosfera di decadente sopravvivenza. E per sfuggire al naufragio cerca ancora una sua strada. Siamo andati a vedere quale

L´AVANA. Riassumo le prime impressioni che mi investono sbarcando a Cuba, dove cinquant´anni fa è nata una rivoluzione sopravvissuta all´ecatombe del comunismo. Un angolo del mondo non paragonabile ad altri. Ma è ancora comunista quest´isola subtropicale, che ha ispirato, penso in egual misura, romanticismo e ripulsa? E che continua a sollecitare l´immaginazione, appunto romantica, nell´America latina? Mentre su una microscopica automobile sudcoreana risalivo la Rampa, il viale sul quale si affacciano ambiziosi edifici, ho posto la domanda alla donna seduta al mio fianco: una quasi cinquantenne con vecchie radici familiari alto borghesi, alle quali si sente legata, pur non essendo indifferente al carisma di Fidel, la cui ombra protettrice e ossessionante l´accompagna dalla nascita. La risposta è stata netta: «Noi non siamo comunisti, siamo fidelisti».
Eppure sei anni fa, quando il comunismo era già morto e sepolto in Russia e aveva cambiato faccia in Cina e in Vietnam, più di otto milioni di cubani (su undici che ne conta l´isola) hanno approvato un testo in cui si afferma che "il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario stabilito nella Costituzione sono irrevocabili" e che "Cuba non ritornerà mai al capitalismo".
Un plebiscito al 98% solleva inevitabili dubbi, resta tuttavia che qui fidelismo e socialismo reale possono essere al tempo stesso distinti e un´unica cosa. E´ un mistero simile a quello della Trinità. «E adesso?» ho chiesto ancora alla fidelista non comunista, mentre eravamo sempre nel quartiere moderno del Vedado. L´ultraottantenne Fidel, malato, si è ritirato tra le quinte, e il fratello Raul, il successore con qualche anno in meno, non ha alcun carisma. Come riuscirà a sopravvivere il fidelismo? Questa volta la risposta è stata una smorfia. Seguita dal nome (affibbiato a Raul) di un roditore, che soltanto i cinesi considerano il simbolo dell´abbondanza.
E´ evidente, Raul non entusiasma. E´ un militare. C´è stata persino, nel quartiere di Miramar, un sobborgo privilegiato, una piccola, penso timida e quindi tollerata, manifestazione in favore di Fidel e contro Raul. Quasi fosse una polemica in famiglia, i manifestanti rimpiangevano la flessibilità di Fidel e condannavano il rigore di Raul. Dietro Raul c´è comunque sempre Fidel. Il linguaggio dei cubani è spesso schietto: soprattutto a quattrocchi con gli stranieri, ai quali vogliono dimostrare che se ne infischiano della censura, che non hanno paura della repressione, pur non detestando obbligatoriamente il regime, sia esso fidelista o comunista.
I cubani amano il "bel gesto". Sono spavaldi. Il loro eroe nazionale nella lotta per l´indipendenza, José Marti, era un poeta, non un rozzo soldato come erano spesso gli altri Libertadores dell´America spagnola. Vale la pena ricordare un altro personaggio sia pure minore: l´avvocato Eduardo Chibas, morto negli anni Trenta, e deciso nemico della corruzione. Un giorno denunciò gli abusi del potere parlando a Radio Habana e alla fine si sparò un colpo di pistola alla tempia davanti al microfono, affinché tutti i cubani udissero l´esplosione. Decine di migliaia di uomini e donne seguirono la sua bara. «Non dimentichi questo aspetto del carattere cubano», mi ripete uno scrittore che ha subìto le angherie del regime ma è rimasto, non è fuggito a Miami, perché ama «la sua isola». L´orgoglio, la caparbietà, la passione, pesano nella vicenda cubana.
Ma non andiamo tanto in fretta. In un uomo non cerchi le tracce dell´adolescente conosciuto cinquant´anni prima. Sarebbe una pretesa assurda. Almeno in parte, questo vale anche per una rivoluzione, come quella cubana, invecchiata nel volto e nella mente. La ritrovo con le rughe e tuttavia con gli stessi slogan, che hanno resistito, immutabili, come lo sono i dati anagrafici per un individuo.
Il contrasto tra linguaggio ufficiale, ancora giovanile, e la realtà, sottoposta all´ingiuria del tempo, è un po´ patetico. Desta tristezza un anziano acciaccato che parla il linguaggio dell´adolescenza. Quella che era rivoluzione è slittata con gli anni in una atmosfera di conservazione, di stentata e incantata sopravvivenza. Vale a dire una decadenza, che sfugge, sia pure tra drammi e angosce, al naufragio.
E´ un fenomeno.
Un fenomeno è senz´altro il sistema monetario. E´ un ritratto rivelatore della società cubana. Si tratta di un esercizio di alto equilibrismo, al tempo stesso rigoroso e permissivo. Il primo aspetto, quello rigoroso, basato su una carta annonaria ("libreta"), impone un razionamento di generi commestibili che di fatto garantisce a tutti una base alimentare. Ogni mese un cubano ha diritto a dieci uova, la prima metà a 0,15 pesos cadauno, i restanti a 0,90 pesos sempre cadauno; a una libbra (cioè 0,454 kg) di pollo a 0,70 pesos; a una libbra di pesce con testa per 0,35 pesos o a circa trecento grammi senza testa; e a mezza libbra di carne tritata di vario tipo a circa 0,17 pesos. Se si calcola che ci vogliono 25 pesos per un dollaro, questa razione mensile (ha calcolato Roger Cohen del New York Times) costa 25 centesimi di dollaro, o (calcolo io) circa 20 centesimi di euro. Poca cosa dunque, poiché un salario mensile medio si aggira sui 20 dollari. Me in questo conto della spesa disciplinato dalla libreta non sono inclusi lo zucchero, sei libbre al mese; il latte, un litro quotidiano per chi ha meno di sette anni; il riso, sette libbre al mese; l´olio, 0,25 di libbra sempre al mese; e altri commestibili minori. Il problema è che i prodotti inclusi nella libreta non si trovano sempre. Spesso mancano. E quindi un cubano è alla continua ricerca o è in continua attesa.
Esistono tuttavia due monete: la prima (in pesos) è destinata a circolare nell´"area comunista": è quella con cui sono pagati i salari e che dà accesso ai prodotti razionati o ad altri non molto apprezzati, in vendita nei negozi normali. La seconda moneta (in pesos convertibili, ancorati al dollaro, chiamati Cuc) spalancano le porte all´esigua, circoscritta, controllata "area capitalista", dove si trovano i beni di consumo non accessibili a chi dispone dei pesos comuni. Nei negozi in cui si acquista in Cuc c´è quasi di tutto: dalla buona carne al buon whisky, ai vari prodotti di lusso. I Cuc circolano soprattutto nei luoghi frequentati dai turisti, nei quali sono occupati migliaia di cubani privilegiati, che ne approfittano. L´aspetto permissivo del sistema economico si rivela quando tollera in una certa misura, sia la caccia ai Cuc sia l´arte di arrangiarsi, sviluppatasi ai margini della legalità, e di cui i cubani sono diventati dei virtuosi. Il regime sa socchiudere gli occhi, ma li apre e colpisce quando lo ritiene opportuno. La permissività diventa cosi un metodo efficace perché rende vulnerabili gran parte dei cubani.
Dopo un volo di dieci ore (compiuto ogni anno da legioni di turisti assetati di esotismo, di sole e di sesso) passo dall´Europa natalizia, accecata dalle luminarie di Harrods´, delle Galeries Lafayette e della Rinascente, al semibuio dell´Avana. Le ultime luci del tramonto rendono ancor più magiche le ombre di quella che resta, nel declino, la più affascinante città dei Caraibi. Anzi, dell´intera America Latina. Quel che seduce è il crepuscolo non inquinato dalle pubblicità luminose di Londra, di Parigi, di Milano: un crepuscolo incontaminato che fa compiere un salto di decenni a ritroso, fino ad incontrare un´epoca preconsumistica. Dove non esistono le chiassose scritte incandescenti esaltanti una mutanda o un reggiseno. E´ come immergersi in un mondo rilassante, in un emisfero sfuggito ai giganteschi falò al neon che incendiano le nostre città.
Sembra di essere capitati in un angolo del pianeta scampato all´appiattimento che ha cancellato le diversità alla cui ricerca partiva il vero viaggiatore, ormai sopraffatto da turisti e rappresentanti di commercio. Eppure l´ancora esotica Cuba, esotica anche politicamente, sopravvive grazie ai turisti. E non al meglio di quella specie. E´ uno dei paradossi.
Il semibuio, non turbato dalle vampate al neon, preserva le sagome eleganti dei palazzi, nasconde le crepe delle facciate art déco, rococo, barocche, neoclassiche dell´Habana Vieja, in parte restaurate (dal geniale storico dell´arte Eusebio Leal Spengler, col denaro benefico e ben speso dell´Unesco). Le strade in decomposizione di un altro quartiere, il Centro Habana, sembrano, invece, nella penombra, un sobborgo medievale. Lo scrittore, che ha superato le asperità del regime grazie alla irrinunciabile fedeltà alla sua isola, mi ha detto sorridendo: « Da noi la macchina del tempo sbanda, avanza e arretra zigzagando».
Quando arrivi sul Malecon, il lungomare, ti trovi davanti un´ampia baia deserta. Non c´è una barca. Uno yacth. Un traghetto illuminato. Un galleggiante con orchestra o ristorante. Niente. E´ il vuoto. Niente di quello che si troverebbe in qualsiasi altro mare caldo, frequentato dai turisti. Lì, sul Malecon, battuto dalle onde quando il mare è agitato, sino a spruzzare l´ingresso dell´hotel Riviera, senti quanto sia isolata Cuba. Il mare è una frontiera sorvegliata. Un immenso no man´s land. Miami è a sole novanta miglia. E là, nell´America nemica, vivono almeno settecentomila cubani esuli e ostili alla Cuba fidelista o comunista, in attesa di una rivincita.
L´Hotel Riviera, in bilico sul Malecon, è un grande albergo un po´ sdrucito che, senza badare a spese, il capo mafioso Meyer Lansky costruì negli anni Cinquanta, poco prima dell´avvento della rivoluzione. Lansky era convinto che il casinò annidato nell´albergo e affacciato sulla baia avrebbe attirato yachts e piroscafi, sino a umiliare le dieci o più bische concorrenti disperse nell´isola. Lucky Luciano fu uno degli ultimi ospiti. Il vuoto, il silenzio, davanti al Malecon, e l´assenza dei più vistosi e fastidiosi segni del consumismo, hanno un loro preciso fascino. Ma il prezzo di questa quiete, di questa calma, non è soltanto il declino, come ha argomentato un garbato reporter nordamericano che mi ha preceduto. E´ molto di più.
Nessuno ha scoperto la formula della "rivoluzione permanente", capace di rinnovarsi puntualmente, grazie a un elisir simile a quello di lunga vita, introvabile, per gli uomini. Nate generose, spavalde, spietate, le rivoluzioni muoiono raggrinzite, ripiegate su se stesse, se non spalancano le porte agli incentivi materiali che definivano superflui, pensando di possedere quelli morali, terribilmente effimeri. L´isola può apparire un laboratorio antico, animato da alchimisti sopravvissuti alla storia della scienza e della politica. Alchimisti che per ora hanno rifiutato gli aggiornamenti del "comunismo di mercato" cinese o di quello simile del Vietnam.
Nella curiosità per il fenomeno cubano c´è una variabile e contrastata dose di ammirazione per la caparbia resistenza dell´isola minuscola rispetto alla superpotenza ostile alle sue porte. E´ un sentimento spontaneo, estraneo ad ogni ideologia e ancor più ad ogni calcolo razionale, che impedisce di considerare Cuba una scheggia di paleocomunismo come la remota Corea del Nord, con la sua arida, a volte sinistra immagine. Il paragone, azzardato da tanti, è ingiusto e inesatto. Cuba è un´altra cosa.
Anche questo è uno dei primi pensieri che mi investono ritornando a Cuba a pochi giorni dall´anniversario dell´ingresso dei barbudos all´Avana, avvenuto nelle prime ore del 1959, quando il dittatore Fulgencio Batista, abbandonato precipitosamente il veglione di Capodanno, animato da ambasciatori, turisti miliardari e alti esponenti della Mafia di Chicago e di New York, s´era appena involato su un aereo carico di dollari per la vicina Repubblica domenicana dove l´attendeva un altro caudillo, amico degli Stati Uniti, Rafael Trujillo.
(1 - continua)

Repubblica 24.12.08
Un cieco ha completato un percorso a ostacoli senza aiuti Così alcuni scienziati hanno provato che l´intuito è innato
Il sesto senso esiste e non è paranormale
di Marina Cavallieri


L´esperimento internazionale dimostra che nel cervello dell´uomo restano capacità primitive che non sono andate perse e si riattivano in caso di necessità

ROMA. Un cieco attraversa un corridoio riuscendo a schivare tutti gli ostacoli, evitando ogni cosa che si frappone all´uscita. Si muove senza bastone, con prudente sicurezza, guidato da un radar invisibile, da una misteriosa convinzione interiore, da un sesto senso.
Questo è l´ultimo esperimento fatto dagli scienziati per indagare su quella sfera delle nostre percezioni che orienta le azioni ma al di fuori di ogni consapevolezza. Percezioni che si possono chiamare di volta in volta intuito, ispirazione, premonizione. Sensazioni che trascendono la logica e sono spiegabili semplicemente con una frase: «Me lo sentivo». E tutti, anche i più razionali e scettici, devono ammettere che lo hanno detto almeno una volta.
«Abbiamo studiato un paziente molto raro, completamente cieco per due lesioni successive che hanno distrutto la corteccia visiva primaria di entrambi gli emisferi, gli abbiamo chiesto di attraversare un corridoio con degli ostacoli, lo abbiamo messo davanti a una traiettoria complessa che ha superato, senza che neanche lui dopo sapesse spiegare il perché», racconta Marco Tamietto, neuropsicologo, ricercatore dell´Università di Torino. Tamietto ha collaborato a una ricerca internazionale guidata dalla scienziata olandese Beatrice de Galder, pubblicata su Current Biology.
La scienza da sempre s´ingegna per scoprire l´origine del sesto senso, per dargli una base biologica e sottrarlo definitivamente all´ambito dell´irrazionale, del mistico, del soprannaturale, per riportare una capacità misteriosa e sfuggente dentro uno schema comprensibile, dentro dei confini fisici. Il sesto senso è quell´istinto che aggiusta la rotta dei nostri comportamenti, che ci fa evitare gli ostacoli, bloccarci quando vorremo partire, voltarci all´improvviso mentre attraversiamo la strada, ma è anche ciò che ci fa sentire conosciute persone mai viste, prendere decisioni contro ogni logica. È l´intuizione rapida che collega in una frazione di secondo elementi distanti e fa dire ad Archimede "Eureka" e a Sherlock Holmes "Elementare, Watson".
«Già negli anni 70 - dice Tamietto - era stato fatto un esperimento simile con delle scimmie, anche loro prive di vista, anche loro erano riuscite a fare un percorso evitando gli ostacoli. Si pensava che potessero fare questo perché avevano mantenuto delle capacità che l´uomo con l´evoluzione aveva perso. Invece con questo esperimento si dimostra che l´uomo ha ancora queste competenze, capacità primitive ereditate dai suoi antenati che non sono andate perdute. Queste competenze sono mediate da strutture sottocorticali, dal collicolo superiore, e si riattivano in alcune situazioni».
Forse le scoperte scientifiche tolgono fascino a capacità misteriose ma almeno ammettono che non sono solo frutto di una fervida fantasia. «Esistono delle capacità che sono al di fuori della consapevolezza cosciente che influenzano la quotidianità - aggiunge il ricercatore - il nostro cervello è in grado di elaborare informazioni al di fuori della coscienza mandandoci messaggi che determinano scelte apparentemente incomprensibili». In quei momenti si ha la sensazione di mettersi in contatto con un potere profondo e per un istante di ritrovare la metà perduta.

Repubblica 24.12.08
Il mistero del bambino
Miti e storia dietro i simboli del natale. Fin dall´età pagana
Quando Virgilio ne cantò la nascita
di Maurizio Bettini


Per molti fu una profezia dell´avvento di Cristo. Ma nel mondo classico bimbi e culle ricorrono spesso
Nella quarta ecloga il poeta dell´Eneide annunciò l´avvento di un "puer" e di una nuova era
Sarebbe stato l´imperatore Costantino a "cristianizzare" quei versi
Molte leggende riguardano fanciulli che avrebbero cambiato gli eventi

All´inizio della quarta ecloga Virgilio aveva avvertito le Muse: sto per cantare qualcosa di più grande, arbusti e tamerici non bastano più! La poesia bucolica, con le sue selve abitate da pastori innamorati, cede il passo a ben altro annunzio. Di che si trattava? Nientemeno che di una nuova era, profetizzata dalla Sibilla di Cuma. L´ordine dei tempi ricomincia da capo, aveva detto la veggente, e una nuova progenie sta per scendere dal cielo. Torna l´età dell´oro, mentre la Vergine, cioè la giustizia, scende nuovamente fra gli uomini. E se ancora restano tracce della colpa, quella provocata dagli orrori della guerra civile, con il "suo" avvento anch´esse saranno cancellate. Ma l´avvento di chi? Di un bambino.
La grande invenzione che dà vita alla quarta ecloga è per l´appunto questa: la fine dell´orrore e l´inizio di un tempo nuovo vengono fatti coincidere con la nascita di un puer. Un bambino vero, al quale si chiede di sorridere ai propri genitori - la madre lo ha portato in grembo per nove mesi, lo merita - affinché essi ricambino a loro volta quel sorriso; ma nello stesso tempo un bambino divino.
Il puer infatti è destinato a vivere con gli dei, mentre attorno alla sua culla le meraviglie si moltiplicano. Cade il velenoso serpente assieme ad ogni erba mortifera, le pecore non debbono più temere i leoni e le caprette offrono fiduciose le mammelle gonfie di latte. Nel frattempo, la culla in cui giace il puer si riempie spontaneamente di fiori profumati. La rinascita del mondo, nella quarta ecloga di Virgilio, si annunzia dunque in questo modo. Vi era di che colpire la fantasia di chiunque. Anche di un imperatore.
Quasi quattro secoli dopo, infatti, Costantino tenne un´omelia per il venerdì santo indirizzandola «all´assemblea dei devoti di Dio». In questo discorso l´imperatore - lo stesso che dichiarò cristiano l´impero - compì un atto che avrebbe mutato il destino della quarta ecloga: la cristianizzò. L´intenzione era chiara. Dimostrare che la nuova religione aveva dalla sua perfino il maggior poeta di Roma. Secondo Costantino, infatti, Virgilio aveva parlato in modo coperto, per timore di rappresaglie, ma la sua volontà di annunziare il Salvatore era chiara. Chi altro poteva essere la «Vergine» dell´ecloga se non Maria? E quale segno più esplicito del velenoso serpente che «cade» contestualmente alla nascita del bambino? Anche sulla culla del puer, in verità, Costantino compì un´operazione di sottile ermeneutica cristiana - anzi, di abile falsificazione. Nella versione greca del testo di Virgilio, offerta ai fedeli dall´imperatore, la «culla» in cui giace il bambino viene sostituita dalle «fasce» che lo avvolgono.
Perché? La spiegazione è teologica. Nel Vangelo di Luca, quando l´angelo annuncia ai pastori la nascita del Salvatore, lo fa con queste parole: «ed ecco il segno: troverete il bambino avvolto nelle fasce e deposto in una mangiatoia». Le fasce formano una parte imprescindibile dello scenario cristiano, costituiscono addirittura un «segno» della divinità. Sostituendole alla «culla» di Virgilio, Costantino identificava definitivamente il puer dell´ecloga con il bambino Gesù.
Gli studiosi continuano a chiedersi se questa orazione sia davvero opera dell´imperatore - o meglio, di qualche letterato di corte - oppure l´abile montatura di un falsario. Ma questo importa poco. Negli stessi anni, infatti, un analogo tentativo di cristianizzare l´ecloga era stato compiuto anche da Lattanzio; e qualora l´autore dell´orazione fosse non Costantino, ma un falsario, ciò non farebbe che confermare il desiderio, da parte della nuova religione, di avere dalla propria parte il maggior poeta romano. In ogni caso, al contenuto messianico dell´ecloga credettero fermamente, nel corso del tempo, personaggi come Pietro Abelardo o Dante Alighieri; e innumerevoli generazioni di cristiani hanno continuato a credervi. Ma allora, chi fu veramente il puer della quarta ecloga?
Torniamo all´inizio della vicenda. Siamo nel 43 avanti Cristo, nel pieno della sanguinosa guerra civile fra Ottaviano e Antonio. Inutile dire che, a questa data, Virgilio non poteva avere alcuna nozione del cristianesimo, per il semplice fatto che esso non era ancora nato. L´ecloga è dedicata a Pollione, console di quell´anno, per cui si potrebbe semplicemente pensare che il puer fosse figlio di costui. Ma davvero Virgilio avrebbe potuto celebrare il rampollo del console come se si fosse trattato di un fanciullo divino, il cui avvento doveva segnare un rinnovamento cosmico?
Sarebbe stato troppo. Non sono mancate perciò interpretazioni più mistiche, o esoteriche, dell´ecloga, secondo le quali il poeta si sarebbe ispirato a culti egiziani o a testi giudaici. Ma quale senso avrebbe avuto, per il pubblico di Virgilio, la ripresa di temi o motivi biblici di cui in quel tempo a Roma si conosceva ben poco? Non facciamoci ingannare dall´importanza che il giudaismo, specie attraverso la mediazione cristiana, ha assunto nel seguito della storia occidentale: la cultura dei Romani, nel primo secolo a. C., era ben diversa dalla nostra. In realtà, non sapremo mai chi fu il puer della quarta ecloga. Ma forse possiamo saperne di più sulla sua culla.
Nella tradizione antica, infatti, altri bambini giacquero in una culla dai caratteri divini. Dioniso prima di tutto, deposto dopo la nascita in un lìknon, un ventilabro: ossia una sorta di cesto, aperto su uno dei lati, che veniva utilizzato per separare il grano dalla pula. Gli antichi definivano «mistico» il lìknon di Dioniso, e liknìtes, «quello del ventilabro», era uno dei nomi con cui il dio veniva invocato nei misteri. Ma anche Zeus, nella grotta di Creta che lo ospitò neonato, fu deposto in una «culla dorata», mentre la capra Amaltea gli porgeva la mammella e l´ape Panacride gli dispensava il proprio miele; e ancora in una «sacra culla» giacque Hermes, il futuro uccisore di Argo.
Sono gli innumerevoli miti che ci raccontano la storia di bambini, destinati a cambiare il corso degli eventi, che proprio per questo ebbero anche una nascita straordinaria. Non solo Dioniso o Zeus, ma anche Ciro il grande o Romolo e Remo, eroi che, quando vennero al mondo, trovarono ad accoglierli una natura inaspettatamente benevola. Acque che placano il loro corso vorticoso, piante che nutrono, animali del bosco o della campagna - un lupa per i gemelli romani, una cagna per Ciro - che esibiscono mansuetudine, e in questo modo forniscono un «segno» indiscutibile del superiore destino che attende l´eroe. Proprio quel che avviene attorno al puer di Virgilio.
Di questa medesima schiera fa parte anche il piccolo Gesù del Vangelo di Luca. Anche lui deposto in una culla insolita, la mangiatoia, proprio come Dioniso nel ventilabro; anche lui circondato da una natura splendente e miracolosa. Guardata con gli occhi dell´antropologo del mondo antico, l´interpretazione della quarta ecloga fornita da Costantino finisce in realtà per rovesciarsi. Se l´imperatore credeva che il puer virgiliano fosse una metafora del Salvatore, a noi sembra piuttosto il contrario. La tradizione cristiana della nascita di Gesù - con il suo scenario di meraviglie, le sue greggi, la sua coppia di animali soccorrevoli - ricorda molto il modo in cui Virgilio, oltre un secolo prima che i vangeli fossero redatti, aveva descritto l´avvento del misterioso puer destinato a rinnovare il mondo.
Il fatto è che entrambe queste nascite sono episodi del ciclo millenario del bambino meraviglioso. All´interno di questo ciclo miti e racconti hanno continuato ad inseguirsi, ad alludersi, a cercarsi, in un gioco che non si è mai interrotto. Come dire che, quando oggi si sparge il muschio attorno alla mangiatoia, nel presepio, o si dispongono le caprette fuori dalla grotta, si ricompone uno scenario al quale ha verosimilmente contribuito anche Virgilio.

l’Unità 24.12.08
Darfur, 6000 bambini soldato
Nel mondo oltre 250mila
di Umberto De Giovannangeli


6000 sono i bambini-soldato presenti nella regione sudanese del Darfur, 8mila nell’intero Sudan.
700mila sono i bambini nati e cresciuti in situazione di guerra nel Darfur. Secondo l’Unicef sono circa 2,3 milioni i bambini colpiti dal conflitto in Darfur.
250mila; una cifra in crescita. Sono i bambini-soldato che combattono nel mondo; il 40% sono bambine.
9 sono gli eserciti che utilizzano i piccoli per azioni di guerra o per spionaggio. A questi si aggiungono decine di movimenti di guerriglia in particolare in Asia e Africa.

Usati come strumenti di morte. Plasmati come macchine per uccidere. Senza memoria. Senza futuro. Sono i bambini soldato. Almeno 6mila combattono nel Darfur. Oltre 250mila nel mondo, denuncia l’Unicef.
Una denuncia sconvolgente. Che riporta l’attenzione su una tragedia senza fine: quella del Darfur. E dei suoi bambini. Ci sono 6 mila bambini soldato in Darfur, la regione nell’Ovest del Sudan in guerra civile, mentre circa due milioni di bambini sono stati colpiti da questo conflitto. A documentarlo è Ted Chaiban, rappresentante in Sudan del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). «Tutti i gruppi e le fazioni in Darfur fanno ricorso ai bambini.
BAMBINI VIOLATI
Pensiamo che approssimativamente in tutto il Sudan i bambini soldato siano 8mila, di cui 6mila solo in Darfur», rileva Chaiban, aggiungendo che «ciò non significa che tutti portino le armi e combattano; è possibile che fiancheggino i gruppi armati». «Due milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto e tra di loro, io penso che 700 mila siano nati dopo il 2004. Questi bambini hanno vissuto unicamente in zone di guerra» ha spiegato poi Chaiban. Secondo le autorità sudanesi i bambini sarebbero circa il 50% dei 4 milioni di persone che hanno subito le conseguenze della guerra civile che insanguina l’Ovest del Sudan da sei anni. L’Unicef ha moltiplicato gli sforzi per liberare i bambini soldato. Quest’anno 99 bambini, associati al movimento ribelle Giustizia e Uguaglianza, sono stati smobilitati dopo un attentato a Khartoum; 116 altri piccoli soldati guidati da Minni Minawi, che ha firmato un accordo con il governo, dovrebbero essere ugualmente smobilitati in coordinamento con l’Unicef. «Ogni bambino che si è trovato in una situazione di conflitto, che è stato testimone, o anche peggio, ha partecipato ad azioni violente viene disumanizzato - sottolinea Chaiban - sanno che c’è qualcosa di sbagliato ma non sanno dire cosa. Si tratta di una situazione che li rende insensibili e impedisce una loro crescita normale, con effetti più gravi che vive la stessa esperienza». I bambini soldato.
TRAGEDIA GLOBALE
Un dramma che non riguarda solo il Darfur. Oggi - rileva il Global Report 2008 sui «Child soldiers» - sono 9 gli eserciti che utilizzano i piccoli in guerra, con una leggera diminuzione rispetto ai 10 del 2004, per un totale di almeno 250mila minori, di cui il 40% sono bambine. Bambini combattono nell’esercito regolare in Birmania, nella lotta armata contro le minoranze etniche, ma anche in Ciad, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan, Uganda e Yemen. I guerriglieri stessi utilizzano bambini soldato: in Afghanistan, Iraq e Pakistan sono stati impiegati come attentatori suicidi. In Africa le guerriglie hanno utilizzato recentemente i minori in guerra in Burundi, Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan ed Uganda. Ragazzi palestinesi - rileva ancora il rapporto - sono stati utilizzati come scudi umani dall’esercito israeliano e soldati inglesi minorenni di 18 anni sono stati inviati in Iraq fino a metà del 2005. Gli eserciti governativi utilizzano i bambini in gruppi di supporto o come spie ed informatori. Tale utilizzo li espone al rischio, qualora catturati dagli eserciti, che vengano trattati da criminali e non da vittime. Il rapporto documenta la detenzione di bambini di appena 9 anni incarcerati in Burundi, di minori maltrattati o torturati in Israele, di minori catturati in Afghanistan e detenuti dagli Stati Uniti a Guantanamo, in spregio del diritto internazionale. Un ruolo chiave nel prevenire e porre fine all'arruolamento è svolto dai programmi di disarmo riabilitazione e recupero, che però hanno avuto un impatto limitato, soprattutto a causa della scarsità di fondi; 14mila ex baby soldato non hanno potuto farvi ricorso: sono le bambine ad essere particolarmente penalizzate, di cui solo l’8-15% accede a tali programmi.

l’Unità 24.12.08
Tecnici, il diploma con il visto di Confindustria
Regalo della Gelmini
di Maristella Iervasi


Confindustria ce l’ha fatta a mettere le mani su un pezzo della scuola pubblica. La Gelmini ha trascritto tutte i «suggerimenti» dell’action plain nello schema di regolamento per gli istituti tecnici.
Nelle slide che ha consegnato ai giornalisti dopo il consiglio dei ministri prima di Natale, la Gelmini maestra unica si è guardata bene di scoprire le carte. Ma il regolamento sul riordino degli istituti tecnici, ora all’esame del governo, «parla» chiaro: Confindustria avanti tutta nella governance di un pezzo della scuola pubblica. Come anticipato da l’Unità il 13 novembre scorso, saranno proprio gli industriali a «comandare» sui percorsi d’istruzione. Addirittura con l’istituzione di un Cda negli istituti - che la Gelmini ha preferito chiamare comitato tecnico-scientifico per non destare sospetti -. E non finisce qui: le imprese faranno parte delle commissioni finali per gli esami di stato. I docenti tecno-pratici verranno sostituiti da personale «scelto» direttamente dalle imprese. Sul piano didattico, la nuova materia di Scienze integrate: un mix di fisica, chimica e scienze. Tutti «consigli» degli imprenditori, elaborati nel 2007 nell’«action plain» del settore Education (contenuti, governance e risorse umane), rilanciati nell’ottobre scorso da Confindustria ai presidi del Nord, che la Gelmini ora ha trascritto punto per punto nello schema di regolamento attuativo. Un anno di attesa per far «digerire» la linea, spacciata come novità. Poi dal 2010 l’attuazione del piano. Ma ecco come gli industriali metteranno le mani (ma non i soldi, il finanziamento resterà a carico dello Stato) su un pezzo di scuola.
TECNICI SUPERIORI
La giungla dei 39 indirizzi e delle 204 tipologie di corsi verrà sfoltita ad 11 indirizzi - come Confidustria ha suggerito - e distinti in 2 settori: tecnologico (meccanica, trasporti, elettronica ed elettrotecnica, informatica, comunicazione, chimica, tessile, agricoltura, costruzioni) ed economico (amministrazione, finanza e marketing, turismo). Gli istituti tecnici - si legge nel regolamento Gelmini - «costituiscono il riferimento degli istituti tecnici superiori con l’obiettivo prioritario di sostenere lo sviluppo delle professioni tecniche a livello terziario, con le specializzazioni richieste dal mondo del lavoro, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese». Avranno avranno un orario annuale di 1.065 ore corrispondenti a 32 ore settimanali di lezione di 60 minuti contro le attuali 36 di 50 minuti. I percorsi saranno strutturati in 2+2+1 (primo biennio con contenuto formativo di base, secondo bienno specialistico a seconda degli indirizzi e quinto anno di perfezionamento).
INGLESE
Confindustria si è detta contraria alle due lingue straniere: «non è realistico» si legge nell’action plain e ha «suggerito» anzi che un’altra disciplina venga studiata in lingua inglese. La Gelmini ha subito raccolto: ha inserito la possibilità di insegnare 1 disciplina tecnica in british.
INTERROGANO LE AZIENDE
Articolo 6 del regolamento, valutazione e titoli finali: «Le commissioni di esame si possono avvalere di esperti del mondo economico e produttivo con documentata esperienza nel settore di riferimento».
COMITATO TECNICO-SCIENTIFICO
Come se le scuole pubbliche fossero aziende. «Se il termine Cda disturba - precisa Confindustria - se ne può trovare un altro. Ma non si può prescindere da uno specifico modello di governo degli istituti tecnici, data la loro precisa missione: formare i quadri intermedi che devono contribuire allo sviluppo delle aziende di produzioni e servizi». Da qui la soluzione Gelmini: i futuri tecnici saranno organizzati per dipartimenti, «avranno un comitato tecnico-scientifico a cui parteciperanno esperti provenienti dal mondo del lavoro e della ricerca».

l’Unità 24.12.08
Secondo biennio, la Cgil scuola si mobilita


Il Comitato direttivo della Cgil nazionale ha approvato un ordine del giorno che «condividendo il giudizio negativo della Federazione lavoratori della conoscenza sull’accordo relativo al 2° biennio del contratto del personale della scuola statale e la conseguente decisione di non sottoscrivere l’intesa» - firmata solo da Cisl e Uil -, impegna «tutte le strutture a sostenere l’ampia campagna di assemblee di informazione, di discussione e mobilitazione nei luoghi di lavoro e la richiesta del referendum tra i lavoratori». La Flc-Cgil ribadisce il giudizio contrario all'accordo: «destruttura» il contratto nazionale e «codifica la progressiva riduzione degli stipendi». Per il sindacato, «la firma separata del contratto indebolisce la possibilità di incidere sulle scelte di Governo.

l’Unità 24.12.08
Accordo senza la Cgil per il contratto Parastato


La trattativa all'Aran per il rinnovo del contratto per il personale degli enti pubblici non economici si è conclusa con la sottoscrizione di un accordo separato. Lo riferisce la Fp-Cgil, che annuncia ricorsi in tribunale.
«Questo accordo non interviene sul potere d'acquisto dei lavoratori e non restituisce i soldi sottratti dalle loro tasche con la legge Tremonti - dice il segretario generale Carlo Podda - il contratto è stato sottoscritto da Cisl e Uil, senza l'adesione del 51% delle organizzazioni sindacali, fatto di una gravità politica inaudita, peraltro illegittimo dal punto di vista normativo».
«Altro fattore insolito è la dinamica con cui la seduta si è conclusa - aggiunge il leader della Fp - si stava procedendo alla firma senza che le organizzazioni sindacali avessero dichiarato le loro posizioni, fatto che certifica i nostri sospetti su una preparazione preventiva dell'incontro in tavoli non istituzionali».
L'intesa siglata da Cisl e Uil prevede un aumento di 78 euro destinati ad incremento tabellare, 10 euro all'indennità di ente e altri 10 al fondo di produttività (98 euro in tutto).

l’Unità 24.12.08
Darwin non piace ai texani
di Bruno Gravagnuolo


Sciocchezzaio di Natale. C’è solo l’imbarazzo della scelta, a spigolare tra articoli culturali e commenti. Ecco alcune perle, tratte dai pensierini di due «maestri» e comparse su Corsera e Repubblica di domenica. Rodney Stark, ad esempio, che non è un cantante rock. Ma «il maggiore sociologo delle religioni», come lo presenta sul quotidiano milanese Maria Antonietta Calabrò. E che dice lo scienziato della Baylor University del Texas? Si oppone al fatto che «la teoria dell’evoluzione venga insegnata come verità eterna». Strano, questi texani vedono le cose sottosopra. Non già che sono i creazionisti, a voler imporre la loro verità come assoluta, ma il contrario. Non già che l’evoluzione è una teoria falsificabile, e l’altra no. Ma il contrario. Andiamo avanti con Stark. Che dice: «Fin dall’inizio il Cristianesimo ha fatto appello alla ragione, regole e verità date da Dio devono essere razionali...». Strano. Ma Agostino non teorizzava il «credo quia absurdum»? E Gesù non propugnava l’amore assoluto e senza limiti? E a Nicea e Calcedonia non si impose il dogma del’Uno che si fa Tre e viceversa? E non si dovrà attendere Tommaso per riequilibrare un po’ la la fede con la ragione? Ancora Stark: «Bravo il Papa che invita l’Islam alla ragione!». Per poi aggiungere che sì, nel Corano c’è la tolleranza, ma.. insomma questi islamici «non hanno abbastanza volontà»...Altro che Texas, questa è roba da chierichetti nostrani (per solito più acuti). Infine, battuta «fulminante»: «Il dialogo? Senza fermo impegno sulla fede non c’è nulla da discutere, visto che non ci può accordare su alcunché...». Dialettica texana, e chi ci capisce è bravo! Passiamo infine a Marc Lazar, storico francese. Che su Repubblica proclama: la sinistra non sa capire e criticare la destra. Non capisce Sarkozy e Berlusconi. E invece di darsi leader forti come loro, li distrugge e li fa a pezzi, vedi Royal e Veltroni. Conclusione: bisogna «personalizzare» le nostre democrazie. Complimenti a Lazar. ha capito tutto. Per battere la destra vuol (continuare) a fare come la destra. Buona notte, e buon Natale.

Corriere della Sera 24.12.08
L'onda delle inchieste mette sulla difensiva l'intero centrosinistra
di Massimo Franco


Di Pietro difende i suoi anni da ministro e i veltroniani le scelte per Roma

Colpisce vedere un Antonio Di Pietro sulla difensiva: costretto a spiegare quello che fece quando era ministro delle Infrastrutture; a rivendicare la rimozione del provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise, Mario Mautone, in rapporti ambigui col figlio, Cristiano Di Pietro; e a pronunciare un «buon lavoro ai magistrati! » a denti stretti. Il leader dell'Idv assicura di non avere nulla da temere. Ma poi adombra una manovra pilotata contro di lui. Fa presente che alcune intercettazioni telefoniche sono filtrate «proprio dopo il voto in Abruzzo» in cui il suo partito, pur sconfitto, è cresciuto molto; e dopo il suo annuncio che l'Idv lascerà le giunte in Campania. È il segno di un'inchiesta che suscita molte domande e per ora dà poche risposte.
Ma da Napoli si allarga fino a lambire le persone e gli ambienti più impensati. Evoca comportamenti discutibili che danzano in una nuvola di ambiguità: vicende così opache da candidarsi a diventare ipotesi di reato. La schiuma delle indagini ieri ha raggiunto indirettamente il Campidoglio. La conferenza stampa di Marco Causi, ex assessore al Bilancio di Veltroni sindaco, ha cercato di dissolvere le ombre. Ma la conferenza in sé ha finito per sottolineare l'imbarazzo per i rapporti con l'azienda di servizi di Alfredo Romeo.
È difficile, per ora, dire dove finisca l'aspetto dell'interesse personale o politico legittimo, e cominci qualcosa di diverso. La coincidenza con le polemiche sulla limitazione delle intercettazioni telefoniche, suggerisce cautela. Da settimane il governo Berlusconi preme per una riforma della giustizia, contrastata da magistrati e opposizione, ma anche da alleati come An e Lega. Il rischio che sulle indagini si inseriscano manovre strumentali da ogni parte, non si può escludere. Alcune rivelazioni appaiono funzionali alle richieste di chi chiede un giro di vite. Tuttavia, prevedere l'epilogo appare impossibile. Si può solo osservare una classe politica sotto scacco, col centrosinistra particolarmente esposto, dall'Abruzzo alla Campania, alla Toscana; e presto, a sentire i maligni, al Lazio.
Non solo. Il rapporto fra il Pd veltroniano e l'Idv di Di Pietro viene messo alla prova proprio da queste inchieste. La tentazione di additare un complotto è tenuta a freno, ma rimane in agguato. Assecondarla significherebbe offrire il fianco alle ironie degli avversari. L'alternativa è accettare le proposte berlusconiane di riforma, che costringerebbero il centrosinistra a rimettere in discussione, prima che una politica, una cultura. Sono veleni destinati a fluire a lungo. Non rappresentano un buon viatico, alla vigilia di un anno già allarmante per l'economia. Eppure, fino a che non si troverà una soluzione, o almeno un compromesso, nessuno sarà in grado di fermare una deriva che tende a delegittimare tutti.

il Riformista 24.12.08
Il cupio dissolvi del Pd
di Marco Vitale


Prendo le mosse dall'eccellente e oggettivo articolo di Pansa sulla incurabilità del Pd, così come è. L'argomentare di Pansa è molto convincente. La situazione è chiara: andando avanti così il Pd va verso una lenta estinzione e, personalmente, la lettura di Pansa, pur amara, mi sembra seria e realistica.
Forse possiamo fare a meno del Pd. Ma possiamo fare a meno di un partito che bilanci il crescente potere del centro-destra? A me sembra di no, a meno che accettiamo consapevolmente lo scivolamento verso il partito-coalizione praticamente unico. Eppure come stanno le cose, questa appare come una deriva inevitabile, nella prospettiva illustrata da Pansa. L'unica speranza è che il centro-destra, accecato da troppo successo, faccia qualche grosso errore sul piano istituzionale, suscitando timori ed indignazione e ricompattando il fronte alternativo. Ma è una speranza modesta, perché mi sembra che i "berluscones" si siano fatti anche furbi. E allora?
Quello che sta avvenendo è conseguenza logica e inevitabile di un errore di impostazione iniziale. Quando nacque il progetto Pd, si suscitarono entusiasmi parlando di un partito di massa, culturalmente aperto, aggregato intorno ad una visione e non a un semplice patto di potere. Ma nei fatti andò molto diversamente. Nacque solo un patto di potere tra le nomenclature dei Ds e della Margherita.
Questo fu evidente da subito e da subito suscitò un sofferto e critico riflusso. Da questa impostazione iniziale deriva tutto il resto, compreso l'affarismo e la corruzione. Ma soprattutto la mancanza di una visione, la natura di un partito «che non sa cosa fare, non sa come farlo e non sa con chi farlo» (Pansa).
Bisogna correggere quell'errore iniziale. Quello che occorre non è il cambiare questo o quel personaggio, ma fare una rifondazione che rimuova quell'errore iniziale. La proposta è che si dia vita ad una costituente del Pd che realizzi una rifondazione del partito facendone veramente un soggetto aperto, che sappia andare oltre alle nomenclature. Ed insieme ad un soggetto che si ridia una struttura territoriale e organizzativa seria ed una disciplina per evitare la situazione in cui «il primo che si alza comanda». Questa potrebbe anche rappresentare la via e l'occasione appropriata per un riesame delle alleanze. Non sono così ingenuo da pensare che questa iniziativa possa essere presa dagli attuali capi delle nomenclature senza una adeguata pressione. Ma nutro la speranza che possa essere promossa da uomini di valore, che hanno fatto bene nei rispettivi incarichi (penso ad esempio a Chiamparino a Torino, a Pericu a Genova e a parecchi altri) o che hanno una storia positiva nella loro professione o attività culturale, e che, quindi, abbiano la capacità di mobilitare le energie valide del Paese. La parola d'ordine dovrebbe essere: una rifondazione per un partito di pensiero e di interessi popolari, un partito con un progetto positivo, un partito aperto alle energie che esprime il Paese, un partito organizzato in modo serio. La speranza è che un'azione di questo tipo forte ed autorevole, se sostenuta da una seria campagna stampa e se troverà una risposta generosa dal popolo delle primarie, finisca per trascinare anche i riluttanti capi della nomenclatura. Mi rendo conto che è difficile. Ma, perso per perso, varrebbe la pena di tentare. O c'è qualche alternativa più facile ed efficace? Forse è possibile, anche se non comune, correggere degli errori d'impostazione. Bisogna sforzarsi di reagire alla deriva di cui parlò Leopold von Ranke con queste parole: «Non è cecità, non è ignoranza quella che manda alla rovina uomini e Stati. Non a lungo resta loro celato dove li condurrà la strada imboccata. Ma in essi è un impulso, favorito dalla loro natura, rafforzato dall'abitudine, cui non si oppongono e che li trascina in avanti, finché possiedono ancora un residuo di vita… I più vedono la propria rovina di fronte a sé, eppure vi si gettano a capofitto».

il Riformista 24.12.08
Rivoluzione o reducismo? Contro-agiografia del '68
di Marco Gervasoni


Finalmente un libro sul Sessantotto il cui autore non è né un reduce né vive del mito. Spesso gli "anni formidabili" sono stati studiati a metà tra l'autobiografia e l'agiografia. Qui invece si respira un'aria di politicamente scorretto. Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del '68 (Mauro Pagliai editore, 15 euro) di Danilo Breschi tratta in realtà degli anni che hanno preparato il '68.
Il linguaggio di quella stagione nacque da un gruppo di intellettuali, di politici e di riviste di quegli anni, dai titoli ora evocativi e minacciosi (Quaderni rossi, Classe operaia, Il Potere operaio) ora più blandi (Il progresso veneto) ma non meno ricchi di contenuti esplosivi. A far uscire queste riviste un variegato mondo di già maturi politici socialisti delusi dal nascente centro-sinistra (Raniero Panzieri, Vittorio Foa), di trentenni letterati e filosofi come Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, di ventenni "normalisti" come Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga. La loro dottrina era "l'operaismo", fissato in un testo chiave dell'epoca come Operai e capitale di Tronti, uscito nel 1966. Chi erano i loro principali nemici? La Dc più conservatrice? Le legislazione ancora per certi aspetti arretrata e liberticida? L'assenza di garanzie e di diritti minimi per quei lavoratori di cui si facevano interpreti? No, il nemico principale era il riformismo che, nel caso italiano, significava il centro-sinistra di Moro e Nenni.
Fa impressione il volume di fuoco, per il momento solo verbale (ma Valerio Morucci fu un accanito lettore di Tronti), che Asor Rosa, Tronti, Negri, Sofri e gli altri riversarono contro un esperimento, quasi ancor prima che partisse. Il governo "repressivo" era quello di Moro, uno degli statisti più progressisti del nostro paese e il Partito socialista al governo uno dei più a sinistra dell'Europa occidentale. Questo livore nei confronti del centro-sinistra caratterizzò poi tutto il '68 quando il movimento si augurò la presenza di un governo reazionario che facesse esplodere "le contraddizioni". Il Pci criticava l'operaismo riconoscendovi però un figlio forse un po' sbandato ma tutt'altro che degenere. Altrimenti come avrebbe visto la luce presso una casa editrice come Einaudi Operai e capitale di un filosofo alle prime armi? Ma l'abbraccio tra il Pci e i giovani occupanti avvenne tra il '67 e il '68. Un abbraccio che non è solo tattico. Le occupazioni universitarie costituirono una bombola di ossigeno per un Pci in crisi, che finì per coprire le azioni del movimento per ritrovare un ruolo.
Ma la favola di un partito già pronto a governare, già "riformista" e perciò estraneo alla violenza è appunto una favola. L'autore si ferma al '68 ma chi studiasse il rapporto tra il Pci e violenza rossa scoprirebbe un Pci assai più connivente con il mito della violenza rivoluzionaria. È questo sogno a spingere gli operaisti a odiare il riformismo e la democrazia, a sovrapporre alle figure concrete degli operai negli anni del boom una mistica classe. Idee e parole che alimentarono più di una generazione, con esiti spesso tragici ma a volte anche comici e grotteschi.

il Riformista 24.12.08
Il centenario del terremoto di Messina/2 Distruzione e morte come in una guerra che continua
«Fermate gli sciacalli pure a suon di fucilate» incitava Bissolati
di Fabrizio d'Esposito


LEGGE MARZIALE. La si invoca per fermare l'assalto alle macerie e ai cadaveri anche durante la visita di Vittorio Emanuele, arrivato con la regina Elena. I soccorsi portati da don Orione. L'angoscia di Salvemini.
Diario di morte. Una delle più drammatiche foto scattate 100 anni fa a Messina dopo il terremoto. ...

Messina, 30 dicembre 1908. Il fetore dei cadaveri forma una cappa asfissiante su tutta la città. È una puzza che sa di zolfo e sale. Da palude mefitica. Irrespirabile. Chi non resiste alla nausea, sviene. L'arcivescovo ha benedetto le macerie che ancora intrappolano corpi flaccidi e gonfi, senza vita. Ha intonato il Requiem Aeternam. Stamattina alle nove è arrivato il re. È arrivato da mare con la regina. Ma Elena di Montenegro non è sbarcata. Troppo pericolose le rovine del terremoto di lunedì scorso. Ha visitato le altre navi dei profughi. Quello che resta di Messina vive sull'acqua. Una città galleggiante. Vittorio Emanuele ha fatto un sopralluogo col ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando. Ha girato per i rioni della Marina. È salito su alcuni cumuli di detriti. Ripeteva, ogni volta: «È terribile, è terribile». Al premier Giolitti ha telegrafato un messaggio secco: «Il disastro è immenso e molto più grande di quanto si può immaginare». Sul Corso Primo Settembre il re ha visto un bambino piangere. Gli si è avvicinato. Il bimbo voleva baciargli la mano. Vittorio Emanuele l'ha preso in braccio e gli ha accarezzato la fronte. Un orfano.
La visita del re non ha impedito le scosse di assestamento. Né i saccheggi degli sciacalli. I carabinieri ne hanno ucciso un altro, che tentava di scappare. Persino i socialisti sono a favore dell'esecuzione istantanea. Scrive stamattina il direttore dell'Avanti Leonida Bissolati: «Profittando del disastro, tutti gli elementi sociali perversi o pervertiti, si danno a correre le rovine, invadono le case deserte per sfogare i loro istinti di selvaggia rapina. Si dice che il Governo abbia telegrafato concedendo pieni poteri alle autorità militari per salvare le sventurate popolazioni dall'assalto di quei feroci. Noi non esitiamo ad approvare il provvedimento. Noi diciamo che in casi come questi la difesa sociale può farsi legittimamente anche a suono di fucilate. Uomini che si lanciano al saccheggio in quest'ora, non sono uomini ma lupi. E van trattati come lupi». Si invoca la legge marziale, dunque. E si parla anche di proclamare lo stato d'assedio. Sembra una guerra. Ma è un terremoto. I militari vorrebbero evacuare la città. E distruggerla per sempre. I sopravvissuti vengono ricattati: cibo a bordo dei piroscafi e solo se si accetta di essere deportati altrove. Da superstiti a profughi. I soldati italiani vengono descritti come oziosi dai loro colleghi russi e inglesi. Sono arrivati dopo, con un giorno di ritardo. Eppure la Marina italiana divora milioni di lire dal bilancio del governo. Da Roma si provano a difendere: «Il disastro ci ha colpiti in pieno periodo di ferie, quando gli equipaggi sono ridotti alla metà, e in pieno inverno, nell'epoca in cui s'iniziano i lavori di riparazione delle unità e di riordinamento delle squadre. La nostra flotta era nelle peggiori condizioni e non si possono far confronti con navi e squadre ancorate in prossimità delle regioni colpite».
Quando un popolo piange cerca anche eroi e capri espiatori. I messinesi inveiscono contro gli speculatori, gli sciacalli e lo Stato. Ma invocano la regina Elena e il deputato Peppino Micheli. A bordo delle navi che ospitano i superstiti la sovrana d'Italia ha assistito i malati come una vera infermiera. E il Quirinale, dicono, sarebbe pronto a trasformarsi in una sartoria per cucire abiti da mandare quaggiù. Il cuore italiano. Dalle altre città arrivano notizie sulle passeggiate di beneficenza: sono carri che sfilano per le strade raccogliendo viveri e vestiti. Giuseppe Micheli è un deputato di Parma. Ha trentaquattro anni ed è un omone coi mustacchi all'insù. Le sue baracche vengono già chiamate Michelopoli. Per lui, il generale Mazza, una sorta di pro-dittatore del sisma, ha derogato all'ordine che vieta il soccorso a chi non si imbarca. La baracca numero uno di Micheli è il quartier generale della rinascita. Quelli che sono rimasti si rivolgono a lui per ogni evenienza. Micheli smista e stampa pure un bollettino quotidiano. Nella baracca numero due si presentano le domande per continuare a scavare e per entrare liberamente nella città. Nella tre, infine, si fanno gli accertamenti informativi prima di rilasciare i permessi. Micheli è un politico cattolico e Messina ha una grande tradizione massonica e anticlericale. Fino a cinque anni fa, sindaco della città è stato il repubblicano Antonio Martino.
Messina, primi di gennaio del nuovo anno. Sull'Apocalisse del 28 dicembre si sta consumando una feroce battaglia tra cattolici e laici. In città è arrivato anche don Luigi Orione, il fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza. Don Orione ha molti nemici. Il clero locale lo ostacola. E coi massoni lotta sulla sorte degli orfani. I militari vorrebbero farli adottare dall'esercito come mascotte. Uno per ogni reggimento. Ma resterebbe comunque il problema delle orfane. Don Orione è instancabile nel raccogliere i bimbi rimasti senza il papà e la mamma. Ed è implacabile contro massoni, democratici, socialisti e repubblicani. Ha fatto stampare un volantino in migliaia di copie per far conoscere alla popolazione superstite una poesia anticlericale pubblicata da un giornalino umoristico sette giorni prima del terremoto: «O bambinello mio/ vero uomo e vero Dio/ per amore della tua croce/ fa sentire la nostra voce/ Tu che sai, che non sei ignoto/ manda a tutti un terremoto». Ma non è l'unica profezia di sventura. Si racconta che il 26 dicembre, due giorni prima della catastrofe avvenuta all'alba di lunedì, un ebanista di nome Girolamo Bruno è stato condannato a due anni di carcere per furto. In tribunale c'era anche la madre dell'uomo, Carmela, che quando ha ascoltato la sentenza è andata via con gli occhi dilatati e urlando contro i giudici: «Mala nova! Avi a véniri u tirrimotu cu ll'occhi e v'avi a 'mmazzari a vui birbanti e a tutta Missina». «Maledizione! Ha da venire un terremoto con gli occhi e ha da ammazzare voi birbanti e tutta Messina».
L'educazione futura degli orfani sta dividendo in maniera cruenta laici e cattolici. Questi ultimi vedono come il fumo negli occhi, fumo di Satana, per la precisione, il Patronato intitolato alla regina Elena e istituito dal Comitato centrale di soccorso del governo. Eclatante il caso dei sessanta orfani cattolici aiutati dai valdesi di Firenze. Denuncia Giuseppe Toniolo, presidente dell'Unione popolare fra i cattolici d'Italia: «Bisogna opporsi con tutte le forze e tutti i mezzi a chi nelle sue losche vedute avesse scorto nella catastrofe calabrese e siciliana un'occasione propizia per reclutare a buone condizioni la merce umana per la tratta delle bianche o per le vetrerie di Francia, ma allora perché non è da considerare con lo stesso orrore il tentativo di prostituzione morale che insidia gli innocenti bambini che oggi sono avviati a Firenze per apprendere l'eresia valdese, e che domani, forse, ingrosseranno il numero ancora troppo ristretto degli alunni di qualche convitto neutro che prepara i futuri apostati dell'Italia laica e anticlericale?».
Chi si batte affinché gli orfani restino a Messina è Gaetano Salvemini. Il Corriere della Sera nei giorni scorsi gli aveva già dedicato un commosso ricordo. Ma il giovane professore socialista si è salvato. Dice che i bambini «non devono essere scardinati dalla terra che li vide nascere; non devono diventare settentrionali». Il terremoto ha sterminato la moglie e quattro figli di Salvemini. Lui va alla ricerca del quinto, non si rassegna e a Giovanni Gentile scrive: «Voglio tornare a Messina per ricercare sotto le macerie quello dei miei bambini, Ugo, tre anni, che non trovai nei giorni passati. Può darsi il caso che sia stato salvato, mentre io non ero presente, e che vada orfano per il mondo. Appena troverò il cadavere mi metterò l'anima in pace. Se non troverò il cadavere lo cercherò vivo per il mondo»
(2. continua)