sabato 3 dicembre 2011

il Fatto 3.12.11
Cattolici
Masochisti per vocazione
di Fulvio Abbate


I cattolici sono tornati… A proposito, fra le mie conoscenze, c’è una che fa la dominatrice, la “mistress”. L’appassionato va a trovarla, e lei lo tratta male, malissimo. È il sado-maso. È un po’ come nella barzelletta di Walter Chiari, la sua davvero più crudele. Il masochista incontra il sadico e subito lo supplica: “Fammi tanto male”. E l’altro, spietato, guardandolo dritto negli occhi: “No!” Chi non ha voglia di soffrire, e dunque detesta perfino il supplizio più “soft”, pensando proprio ai mondi assai “hard”, di questi tempi si sente un po’ smarrito. La già accennata nuova stagione dei cattolici al governo, sì, che influisce. Ora, mica è detto che uno, pensando ai giorni dell’empio Berlusconi, oscillante fra Sodoma, Olgettina e Mammona, debba proprio aver voglia di immaginare, se non proprio il cilicio, le opere di misericordia come il migliore dei mondi possibili, come unica forma ammessa di giustizia sociale. Non si vola via dal cosmodromo dell’illusorio comunismo per planare ai piedi nudi e pesti del calvario, là dove è perfino sconsigliato l’uso del preservativo, o no? Poche sere fa a Otto e Mezzo, su La7, la mia amica Lilli Gruber ospitava il ministro per la Cooperazione internazionale e integrazione, Andrea Riccardi, anima bella, animatore, com’è noto, della Comunità di Sant’Egidio.
Riccardi, faccia da prof di storia, ha provato a spiegare, anche misurando le pause, il lavoro di “ricucitura” (sic) che spetta al nuovo esecutivo. Infatti, mentre lo vedevi lì a descrivere le “linee guida” del bene che sarà, in simultanea ti sembrava di riudire, come in un’allucinazione acustica, le voci dei più pregiati alleati del Nano Ghiacciato quando spiegavano che gli immigrati vanno respinti, “anche con l’uso della forza”: già, l’imperativo-jingle “speroniamoli!” sembra di sentirlo risuonare ancora adesso. Ora, assodato che la presenza di Riccardi al governo in luogo degli Hulk leghisti non può che rassicurare il pio e il solidale, restava comunque un timore di fondo ad accompagnare i più libertari e scettici lungo il proseguo della trasmissione. “I cattolici sono vivi”, puntualizzava il ministro “in attesa delle deleghe per occuparsi anche di famiglia, giovani e consulta islamica”, e fin qui ce n’eravamo accorti. Per poi, un istante dopo, concedere: “Ma non credo che rinascerà la Dc perché la storia non si riproduce”. Sospiro di sollievo misto a benefico rossore? Sì, però presto spezzati dal “ma sento crescere un cattolicesimo responsabile, che ha una nuova voglia di parlare della cosa pubblica. Una componente importante, che aiuterà i partiti a ripensare il loro ruolo”.
E se fosse proprio il tono “soft” del ministro-prof-benefattore a instillare sentimenti di allarmante paura in coloro che, trapassato Berlusconi, auspicavano un mondo di laicità seppur modello base? La faccia dialogante di Riccardi è lì invece a suggerire il dubbio della privazione una tantum. Siamo al masochismo senza prenotazione obbligatoria, un articolo che la televisione affacciata sul refettorio del governo a illimitata sovranità cattolica ha scelto di non farti mancare. La barzelletta di Walter Chiari ci sta tutta.

il Fatto 3.12.11
Previdenza, una mazzata da 350 euro all’anno
La Camusso: non c’è traccia di equità, così la riforma è inaccettabile
Oggi mega assemblea Cgil
di Salvatore Cannavò


Nonostante indiscrezioni e novità dell’ultima ora, restano le pensioni il boccone più corposo della manovra di Monti. Le ultime novità parlano di un tetto per andare in pensione di anzianità, a prescindere dall’età, che dovrebbe salire a 42 anni con l’abolizione della “finestra mobile”. Il meccanismo che sposta di un ulteriore anno l’andata in pensione verrebbe “assorbito” dalle nuove norme che, come si vede, si discostano dal “numero magico”, 40 anni, indicato da Susanna Camusso come “intoccabile”. L’altra misura consistente (valutata in 5-6 miliardi di risparmi) e probabilmente quella più impopolare, è costituita dal blocco della perequazione automatica all’inflazione delle pensioni in corso. Si tratta di congelare aumenti che, mediamente, per il 2012 sono del 2,7 per cento. Poca roba, a prima vista, ma per una pensione di 600 euro significa perdere quasi 18 euro di aumento per una di 1.000 euro si tratta di 27 euro al mese, 351 euro in un anno. Considerando che la metà degli iscritti ai sindacati sono pensionati, si capiscono le resistenze e le difficoltà ad accettare una simile norma. Ma i margini di mediazione, finora emersi, riguardano solo l’esenzione dal blocco per le pensioni con adeguamento al minimo (461,40 euro) che sono circa 4 milioni per l’80 per cento erogate a donne. Un po’ poco.
PER QUESTO ieri sera, sul sito della Cgil si leggeva un inusuale corsivo titolato “Niente cassa sulle pensioni”. E su questa linea si svolgerà oggi a Roma una grande assemblea nazionale dei delegati (sono attese circa diecimila persone) alla presenza di tutti i partiti del centrosinistra. Un’assemblea in cui la tensione sarà tenuta alta in vista dell’incontro di domani con Mario Monti. “ Non c'è traccia delle questioni “paghi chi non ha mai pagato”, dice Susanna Camusso che si dice “ancora affascinata dall’uso della parola equità usata dal governo”. “Se fossero vere queste notizie ci troveremmo di fronte a provvedimenti inaccettabili”, scrive la Cigl. E l’allarme è giustificato dal fatto che man mano che si avvicina il varo della manovra, si comprende che le mediazioni sono esigue.
In Cgil è in fibrillazione perché ci sono limiti che non possono essere superati e scelte che difficilmente si possono spiegare. Quello che si può accettare è probabilmente un meccanismo di penalizzazione per chi va in pensione prima dei 65 anni. Cesare Damiamo, ad esempio, che nel Pd fa da tramite tra Cgil e partito, considera, al pari di Camus-so, la soglia dei 40-41 (per effetto della finestra), una base intoccabile. Dopo di che, dice, si può fissar un meccanismo di incentivi e penalizzazioni attorno all’età di 65 anni: “Chi va in pensione prima perde un 3 per cento per ogni anno in meno e chi va in pensione dopo beneficia di una percentuale analoga”. Difficile, però, a giudicare dalle indiscrezioni, evitare l’innalzamento delle quote con cui si calcola il requisito dell’anzianità: 96 oggi e 97 dal 2013. Il governo punta a “quota 100”. L’incontro con il presidente del Consiglio, fissato di domenica, non sembra fatto per cercare mediazioni, quanto per comunicare decisioni già prese. E un effetto negativo potrebbe darlo anche la comunicazione “ufficiale” al paese negli studi di Porta a Porta. La minoranza interna chiede di prepararsi allo sciopero generale. Dopo l’assemblea di oggi, il passaggio decisivo per la Cgil sarà il direttivo del 13 e 14 dicembre. Li si deciderà tutto.

l’Unità 3.12.11
Tre anni buttati. Bisogna rimettere al centro il lavoro
Aver spostato l’attenzione dall’economia reale a quella finanziaria ha prodotto danni molto pesanti al Paese. Ora dobbiamo batterci per un’Europa che sappia darsi unità politica e scelte di crescita: è tempo di un nuovo sviluppo
di Susanna Camusso


Il lavoro da difendere, il lavoro da cercare, il lavoro da stabilizzare, il lavoro per dare futuro e certezza a donne, uomini, giovani e non più giovani. Dovrebbe essere un concetto banale, invece solo proporre il tema come priorità è obiettivo tutt’altro che scontato.
In sostanza possiamo dire che la crisi, la grande crisi del mondo, quella ignorata per tre anni dal governo appena “uscito” e sottovalutata dal duo Francia Germania in Europa, è crisi figlia dell’aver spostato dal lavoro alla finanza, dall’eguaglianza alla diseguaglianza le finalità del “mercato”, se è questo: la scelta dovrebbe essere netta ed evidente, riportare al centro il lavoro; il lavoro produttore di ricchezza, non il denaro.
All’esplodere della crisi l’invocazione diffusa era riproporre il governo politico economico del mercato, le regole. Si disse basta alle agenzie di rating all’origine di tanti errori, che nulla avevano previsto.
Sembra passato un secolo, sono tre anni mal contati, e tutto ruota intorno al rating dei Paesi. Spread e borse decidono degli Stati e dei loro percorsi di governo e di democrazia, si rincorrono manovre ed un’idea di cancellazione del welfare e del lavoro come ricetta standard del liberismo tornato a dettare le scelte. Tre anni persi del nostro Paese e dell’Europa si traducono in più di un giovane su tre senza lavoro, nella crescita della disoccupazione, nell’allungamento dei tempi della disoccupazione, di un’occupazione femminile che già troppo bassa perde ulteriore terreno.
Tre anni persi tradotti giustamente dai giovani e dalle giovani nello slogan “ci state rubando il futuro”: dall’istruzione al lavoro.
L’assemblea straordinaria della Cgil proprio per questo propone il lavoro, la cura del lavoro. Senza il lavoro al centro della politica, senza il ritorno alla crescita ci avviteremo nella crisi e nelle manovre e gli effetti sono evidenti, crescita della diseguaglianza ed impoverimento dei “produttori”: lavoratori, pensionati, piccole e medie imprese, artigiani e cooperatori, che pagano il conto di un banchetto a cui non hanno partecipato.
Ripartiamo dal lavoro, e facciamo oggi quello che serve a delineare il futuro per chi ha tanto lavorato, per chi vorrebbe lavorare, ovvero fine del precariato, certezza delle pensioni. Si può, sì.
Manteniamo con nettezza la barra sulla necessità di un’Europa che sappia darsi unità politica e scelte di crescita, un nuovo sviluppo che guardi alla qualità delle scelte, che innovi e “salvi” la terra, unico patrimonio dell’umanità non rigenerabile ma da curare. Si può, non passando il tempo nell’esegesi di lettere bancarie e risposte del governo deceduto, ma proponendo la strada rigorosa del fare. Ridistribuire il reddito partire da chi non ha pagato, da chi ha pagato poco per ridare ai redditi da lavoro e da pensioni, per non comprimere quei consumi essenziali che si vanno riducendo.
Rendere strutturale il contributo di chi ha di più per generare lavoro, allentare il patto di stabilità dei Comuni per far partire investimenti, “piccoli” lavori per dare lavoro. Un nuovo patto costitutivo deve ripartire dal welfare, ovvero da equità e riduzione delle diseguaglianze. Nuovo patto costitutivo per la Cgil vuol dire dare senso oggi alla nostra idea fondante, fu nella ricostruzione dell’Italia il piano del lavoro, è oggi nel 2011, un piano del lavoro dei giovani finalizzato a rimettere in sesto questo nostro Paese martoriato dalle alluvioni, dalle tragedie, dal dissesto del territorio.
Aver cura del lavoro per aver cura del Paese, usare intelligenze, istruzione, per il riassetto idrogeologico, per la cura e la manutenzione.

l’Unità 3.12.11
Le nove proposte per risollevare l’Italia. La Cgil oggi a Roma
di Massimo Franchi


Doveva essere una grande manifestazione per riportare la democrazia e il lavoro a piazza San Giovanni. La caduta di Berlusconi l’ha derubricata ad Assemblea nazionale. Ma, alla vigilia della convocazione a Palazzo Chigi per la prima manovra del governo Monti, la Cgil non rinuncia a mobilitarsi, a far sentire la propria voce. Una voce che sarà quella dei 15mila delegati e di 13 di loro che dal palco racconteranno le facce della crisi. Tutti uniti dallo slogan “Lavoro, l’unica cura per il paese”. Un messaggio chiaro per il nuovo governo. Ad aprire la giornata al PalaLottomatica a Roma sarà la relazione di Fulvio Fammoni, a chiudere Susanna Camusso. Al centro dei loro interventi le nove proposte che la Cgil mette sul tavolo per uscire dalla crisi. Una ricetta “segnare un decisivo cambio di rotta”, per far ripartire il Paese partendo dal lavoro.
1. POLITICHE INDUSTRIALI
I numeri della crisi sono impressionanti: 3,3 miliardi di ore di cassa integrazione, 500 mila lavoratori stabilmente in cig, quasi 200 tavoli di crisi aperti che investono oltre 220 mila lavoratori. Il governo Berlusconi ha aggravato la situazione senza intervenire. Ora serve cambiare strada per riaffermare la specificità manifatturiera dell’Italia, partendo dall’istituzione di un fondo per crescita e innovazione che possa favorire un Piano energetico nazionale e politiche di green economy. Servono politiche di innovazione e sviluppo locale, più spesa in ricerca e sviluppo, favorire politiche industriali per il Mezzogiorno.
2. RIDURRE TIPOLOGIE CONTRATTUALI
Circa 8 assunzioni su 10 sono precarie pescando tra le 46 diverse forme contrattuali esistenti. Una situazione insostenibile che moltiplica la precarietà cavalcata dal passato governo. Non serve quindi un’ulteriore riforma, serve ridurre significativamente le forme di impiego e restituire centra-
lità al “tempo indeterminato” che torni ad essere il “normale” rapporto di lavoro incentivandolo fiscalmente e contributivamente, così come le stabilizzazioni, riconducendo a poche unità le forme contrattuali, con l’apprendistato che sia la via d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, con formazione vera e certificata.
3. RIFORMARE GLI AMMORTIZZATORI
In Italia oltre 1,6 milioni di persone non sono tutelate da ammortizzatori sociali: giovani e lavoratori senza i requisiti per l’indennità o che hanno terminato il periodo di tutela. Serve una riforma organica che garantisca a tutti due forme di tutela: la cig in caso di difficoltà temporanea dell’impresa (80% del salario, con copertura figurativa e formazione mirata) e l’indennità di disoccupazione in caso di perdita di lavoro. Tre anni di ricorso massimo alla cig ed almeno 24 mesi di tutela dopo il licenziamento, anche per i precari. Va previsto poi un “reddito di ultima istanza” quando gli ammortizzatori finiscono, finanziato dalla fiscalità generale.
4. QUALITÀ E DIRITTI NELLA PA
Nella Pubblica amministrazione continuano ad esserci 239 mila precari e non meno di 70 mila vincitori di concorso non hanno ancor accesso. Un quadro drammatico che va superato riprendendo ad investire in servizi qualificati alla persone e in innovazione di processo e di prodotto tornando ad allargare i confini dell’intervento pubblico.
5. GIOVANI NON PIÙ PRECARI
Occorre liberare le nuove generazioni dal ricatto di chi le costringe ad essere disposte a tutto pur di lavorare, creando un sistema di tutele e servizi per i giovani in cerca di prima occupazione con una durata prestabilita di massimo 3 anni e tempi certi di stabilizzazione. I diritti fondamentali devono essere estesi a tutti.
6. DONNE AL LAVORO
Le donne stanno pagando la crisi più e peggio degli uomini. Occorre un piano straordinario per l’occupazione femminile, con una particolare attenzione nei confronti delle giovani donne, dal ripristino della legge sulle dimissioni in bianco; da investimenti seri sui servizi sociali.
7. BATTERE IL LAVORO NERO
In Italia il 17% della ricchezza prodotta evade il fisco. Occorre rovesciare l’impostazione: potenziare i controlli e la sicurezza e reprimere in maniera mirata. È necessario fare della Pubblica amministrazione un garante di legalità e dare sostegno alle regolarizzazioni attraverso piani territoriali che sostengano le imprese che vogliono emergere.
8. IL LAVORO È IL SUD
Il Mezzogiorno paga un prezzo altissimo nella crisi. Tremonti hanno fatto cassa con le risorse previste per i Fondi per le aree sottoutilizzate. Occorre invece utilizzare rapidamente e con efficacia le risorse disponibili per lo sviluppo, riattivare gli investimenti promuovendo una politica industriale innovativa centrata sulla green economy.
9. MAFIE SPA: QUANTO CI COSTA
Il fatturato delle Mafie è stimabile in 150 miliardi di euro con 70 miliardi di utili al netto degli investimenti. La vera questione è che quei nodi rappresentano un intralcio, un vero e proprio cappio al collo e che la legalità è una risorsa culturale ed economica per lo sviluppo del Paese.

l’Unità 3.12.11
Meridione al palo, Donne e giovani fuori dall’occupazione
Al Sud lavora solo il 30% di chi ha tra i 15 e i 34 anni. Questo valore scende a poco più del 20% per le ragazze meridionali. Ciò vuol dire che sette ragazzi su dieci e quattro donne su cinque sono fuori dal mercato
di Luca Bianchi


Ci troviamo all’interno di una fase drammatica di crisi economica che nell’ultimo biennio ha bruciato in Italia oltre mezzo milione di posti di lavoro. Proprio sul lavoro si sono scaricate con drammatica evidenza le conseguenze della recessione internazionale. Con il terribile paradosso che proprio dalla “svalutazione del lavoro”, imposta da processi di globalizzazione non adeguatamente governati, provengono molti dei fondamentali della crisi di sistema che le economie avanzate stanno attraversando. Dunque la regressione del lavoro e la conseguente crescita delle disuguaglianze è alla base di un sentiero recessivo che finisce per scaricarsi sugli stessi lavoratori, comprimendo le garanzie degli occupati e riducendo fortemente le possibilità di accesso delle nuove generazioni.
Una lettura ancora più nitida di tale situazione ce la offre, con la fredda realtà dei numeri, la lettura di quanto sta avvenendo nelle regioni meridionali. Analizzare le condizioni del mercato del lavoro nel Sud vuol dire confrontarsi con il dramma quotidiano dell’assenza di opportunità di realizzare nel lavoro le proprie aspettative di vita, vuol dire vedere negata la possibilità per molte famiglie di programmare il proprio futuro. Una sofferenza sociale che diviene, attraverso il calo della partecipazione scolastica e la crescente emigrazione della componente laureata, anche riduzione strutturale del potenziale di crescita economica. Mai come in questi anni abbiamo assistito ad un peggioramento di tutti gli indicatori di sviluppo economico e sociale. Il tasso di occupazione è sceso nel Mezzogiorno al 43,9% e quello femminile al 30,5%; basti ricordare che l’obiettivo posto dalla strategia di Lisbona, ribadito nel documento strategico “Europa 2020”erail70%eil60%perle donne. Per raggiungere questi target dovremmo creare nei prossimi anni 3,5 milioni di posti di lavoro al Sud, di cui oltre 2 milioni di lavoratrici donne!
Se analizziamo in particolare la dinamica della componente giovanile appare evidente l’esclusione di una intera generazione dai processi di sviluppo. La quota di giovani tra 15 e 34 anni che ha una occupazione è al Sud appena il 30%; valore che scende a poco più del 20% per le ragazze meridionali. Ciò vuol dire che 7 ragazzi su dieci e 4 donne su 5 sono fuori dal mercato del lavoro e di conseguenza sono impossibilitati a raggiungere l’autonomia finanziaria dalla famiglia di origine.
Un inadeguato sistema di welfare e la debolezza delle politiche di sostegno per il diritto allo studio, soprattutto per le famiglie più povere, sta determinando anche un inversione nel processo di formazione. Un dato da non sottovalutare è quello del forte calo delle iscrizioni all’Università. Nel corso dell’ultimo quinquennio, in tutto il Paese, si è verificato un brusco calo dei ragazzi che, una volta conseguito il diploma, decidono di intraprendere gli studi universitari: il tasso di passaggio è sceso di circa 10 punti tra il 2005 e il 2010, dal 70 al 60%. L’interruzione del processo di accumulazione formativa e culturale è la sintesi di un declino, di una mancanza di speranza nel futuro, ma anche di una deriva culturale in cui l’investimento formativo non è più ritenuto la principale determinante della mobilità sociale. D’altronde la scelta per troppi giovani laureati meridionali, negli ultimi anni, è stata, dopo aver studiato, quella di dover emigrare al Nord. La ripresa dei flussi migratori, soprattutto di laureati, è la conseguenza dell’assenza di occasioni di impiego adeguato nella propria terra. Questo almeno finché il Nord è riuscito ad assorbire tali flussi. Ora per molti è di nuovo come un secolo fa anche l’emigrazione verso l’estero.
Un simile quadro non offre certo motivi di ottimismo. Eppure basta girare per il Sud, per vedere quante intelligenze e potenzialità ancora vi siano. Dalle possibilità di accesso al mercato del lavoro di questa generazione, di donne e uomini che hanno investito nel proprio sapere dipende la ricostituzione di un processo di crescita. Qualsiasi disegno strategico per la ripresa economica non può dunque che partire da esse. La rimodulazione della spesa pubblica e la concentrazione delle risorse dei fondi strutturali deve portare a definire una strategia che, attraverso il rafforzamento degli interventi per il diritto allo studio e un piano straordinario per l’occupazione, rimetta al centro della politica il lavoro, soprattutto per coloro che non l’hanno mai avuto.

l’Unità 3.12.11
Il male della precarietà. Così si toglie il futuro alle nuove generazioni
Devono essere cancellati i contratti truffa e ridotte le tipologie disponibili dei contratti a tempo determinato. Bisogna affermare il principio che a un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile
di Ilaria Lani


I giovani hanno pagato il conto più salato della crisi. Lo ha confermato ieri il rapporto annuale del Censis con i dati impietosi di 1 milione di giovani che hanno perso il lavoro negli ultimi quattro anni e quasi un giovane su quattro non studia e non lavora. Come prevedibile la precarietà si è presto trasformata in disoccupazione. Pensare che ci avevano raccontato che i contratti flessibili sarebbero stati un trampolino per accedere al mondo del lavoro e incentivare l’occupazione. Così non è stato e i decisori politici dovrebbero apprendere la lezione, piuttosto che perpetuare un modello insostenibile che penalizza i più deboli e consegna le giovani generazioni ad un futuro che appare loro predestinato, magari in virtù del contesto sociale e familiare di provenienza.
La discontinuità del lavoro diventa infatti una barriera enorme nel difficile percorso verso l’indipendenza economica e la famiglia rimane l’unico ammortizzatore sociale disponibile. Basti pensare che una buona parte dei precari che ha perso il lavoro non ha ricevuto alcun sostegno al reddito e il misero bonus precari, istituito dal precedente Governo, è stato usufruito a malapena da 1500 collaboratori, in virtù dei requisiti restrittivi che lo hanno reso inaccessibile. D’altronde tutti ci ricordano quanto è importante scommettere sui giovani, ma puntualmente nessuno vuole rischiare per dare loro un’opportunità: non rischia il datore di lavoro che preferisce assumerti a progetto, non rischia una banca nel concederti un mutuo, non rischia lo Stato con un welfare sempre più avaro ed escludente. Come se il rischio di un mercato impazzito debba essere assunto esattamente da chi ha meno potere e meno responsabilità. La parola equità che ultimamente viene tanto agitata dovrebbe partire da qui: da una giusta redistribuzione delle opportunità e delle responsabilità.
La precarietà è l’emblema di questo modello: infatti produce sfruttamento e subalternità e lede innanzitutto la libertà nell’esercizio del proprio lavoro. La nostra d’altronde è la generazione che deve essere “disposta a tutto” pur di lavorare: disposta a lavorare gratis o con compensi indecenti, a orari impossibili, in assenza di tutele in caso di malattia o maternità, senza diritti sindacali, con la massima responsabilità sull’esito di un incarico e il minimo della tutele e dell’autonomia nella gestione dello stesso. Per questo i diritti sul lavoro non sono un termine desueto, ma sono l’unica garanzia per esprimere al meglio la propria autonomia e professionalità. Non esiste alcun risarcimento economico che possa sostituire il diritto ad essere pieni cittadini sul posto di lavoro, senza i ricatti e le umiliazioni a cui spesso siamo sottoposti.
Questo proprio i giovani lo sanno bene e per questo non sono più disposti ad essere strumentalizzati ai fini di uno scambio che veda sottrarre, nuovamente a loro, i diritti conquistati dalle precedenti generazioni. Infatti risulta quantomeno surreale la raffigurazione di un “mercato del lavoro duale”, dove magari gli ipergarantiti sono i nostri genitori in cassa integrazione o i tanti che guadagnano poco più di 1000 euro al mese.
Piuttosto i giovani sono stati le cavie di un “mercato del lavoro liquido” dove si sono affermate condizioni sempre più frammentate: mentre le protezioni venivano negate a chi doveva entrare, progressivamente si assottigliavano per tutti, secondo una logica di rincorsa alla riduzione dei costi e di spostamento del rischio di impresa sul lavoratore. Per riformare il sistema non esiste una soluzione salvifica, ma alcuni interventi mirati che invertano la rotta. I giovani devono poter accedere al lavoro con un contratto vero, che abbia pieni diritti, formazione e tempi certi di conferma. Devono essere cancellati i contratti truffa e ridotte le tipologie disponibili, secondo il principio per cui ad un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile. Inoltre nessuna prestazione, a prescindere dalla tipologia di impiego, può esser pagata meno di quanto stabilito nei contratti nazionali di lavoro e vanno garantite a tutti le tutele fondamentali, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali. Queste sono soluzioni concrete e urgenti che possono dare un segno di discontinuità.
Questo è il punto: se questo Paese sceglie o meno di liberare le energie e le competenze compresse, di ridurre le disuguaglianze e le rendite di posizione, di perseguire uno sviluppo che consenta alle nuove generazioni di restituire il frutto di anni di studio e di lavoro.

il Riformista 3.12.11
Bersani attende il Prof
«Medicina amara, non cantiamo vittoria»
Pd in tensione. Il segretario avvisa: «L’equità rimane una condizione essenziale»
di Tommaso Labate


Sarà una medicina amara. In ogni caso il Partito democratico non canterà vittoria». Nelle parole che Pier Luigi Bersani affida ai fedelissimi, a poche ore dal faccia a faccia con Mario Monti, c’è tutto il carico di tensione di un leader che sa di trovarsi, come dicono i suoi, «in una strada stretta».quella sui beni di lusso alimentano un soffio di speranza.
Le ultime indiscrezioni sul contenuto del decreto che il governo presenterà lunedì dalla super-tassa sulle barche a quella sui beni di lusso alimentano un soffio di speranza.
Ma il segretario del Pd sa già che l’ostacolo delle pensioni sarà difficile da aggirare. Non solo dentro il partito. Ma anche nel rapporto con la base sociale e con la Cgil.
Inutile, ormai, riporre qualche speranza sul massimo dei «quarant’anni di contributi» per le pensioni d’anzianità, che rappresenta la linea Maginot di Susanna Camusso e di tutta l’ala sinistra del partito, da Stefano Fassina a Paolo Nerozzi. Perché, e in questo caso le anticipazioni sono persino superflue, quell’asticella sarà rivista al rialzo. Provocando, dentro il Pd, l’ennesimo scossone. Alimentato ovviamente da frasi come quella che il segretario della Cgil ha messo a verbale ieri, intervenendo alla presentazione del libro di Maurizio Landini. «Della famosa questione “paghi chi non ha mai pagato” non vedo le tracce», ha scandito la Camusso. Che ha aggiunto, non senza un tocco di ironia, «sono pronta a farmi stupire».
Da qui la linea difensiva di Bersani, che pure sa di vantare un grande credito nei confronti dell’esecutivo. Perché gliel’hanno detto in tanti, a «Pier Luigi», nelle ultime settimane: «Tu avevi il biglietto vincente della lotteria in tasca. E una vittoria annunciata alle elezioni. Hai preferito sostenere Monti e salvare l’Italia». Certo, fronteggiare il fronte pro-governissimo (da Veltroni a Letta), con lo spread alle stelle, non sarebbe stato facile. E alle urne, probabilmente, non si sarebbe arrivati in ogni caso.
Sta di fatto che di quel «credito», adesso, Bersani punta a incassare almeno una parte. A cominciare dalla mediazione che condurrà stasera, quando si troverà di fronte quel «Professore» con cui i contatti comunque sono sempre stati costanti. «Sarà una medicina amara», ripete il leader ai suoi. «E, in ogni caso, noi non canteremo vittoria», anticipa. E poi certo, «si tratta di provvedimenti necessari». Ma, aggiunge, «non ci muoveremo di un millimetro rispetto a quello che abbiamo detto fino a oggi: le priorità sono lotta all’evasione fiscale, una patrimoniale seria, misure per la crescita, provvedimenti che facciano salire il Pil».
La parola «pensioni» sembra quasi un tabù da esorcizzare. Infatti il segretario, al contrario degli altri leader della maggioranza, è l’unico che tenta disperatamente di non nominarla mai in pubblico. Al governo Monti, ha scritto ieri nel messaggio indirizzato all’assemblea congressuale dei socialisti del Psi, chiediamo «rigore, equità e consenso sociale». Ieri l’altro, parlando davanti alle telecamere della tv del partito Youdem, aveva sottolineato che il sostegno del Pd all’esecutivo ci sarà anche se la squadra di Monti «non farà il cento per cento di quel che faremmo noi». Ma oggi, quando si troverà a quattr’occhi con l’ex commissario europeo, la percentuale dovrà essere fissata con esattezza. Perché, spiegano i Bersani boys, «possiamo sostenere il governo se fa l’80 per cento delle cose che vorremmo noi, o il 70, magari il 60, forse anche il 50. Ma a dissanguarci no, non ci pensiamo proprio».
Più in discesa sembra la strada del Pdl. Angelino Alfano, che per adesso non teme la competition a destra con la Lega, si mostra sereno: «Mettere paletti preventivi non risponde al nostro modo di rapportarci con il governo», ha spiegato ieri il segretario. E poi, quasi a voler rimarcare il concetto: «Noi non poniamo condizioni positive o negative prima di vedere il presidente del Consiglio».
Per non parlare di un Terzo Polo che sembra muoversi sul velluto. «Appoggiamo Monti non per vigliaccheria ma per convinzione», ha messo a verbale Pier Ferdinando Casini. «Perché a partire da una riforma delle pensioni nel segno dell’equità anche generazionale, questo governo affronta questioni da anni rinviate e non risolte dalla politica di destra e di sinistra». Poco più tardi, il suo braccio destro, il deputato spin doctor Roberto Rao, s’è preso la soddisfazione di anticipare, su Twitter, la fine delle polemiche per la partecipazione di Mario Monti a Porta a porta. «Lunedì Monti sarà alla Camera alle 16 per illustrare provvedimenti anticrisi. Segue dibattito. Bravo Monti!». Per la conferma ufficiale, la war room del governo più taciturno della storia della Repubblica ci ha messo un po’. Il Professore, nel frattempo, era impegnato a limare la bozza del decretone che rivoluzionerà il dicembre italiano. E anche la politica.

La Stampa 3.12.11
Dossier/ Rapporto Censis
Un’Italia fragile e troppo severa con se stessa
Arriva l’annuale ricerca sulla situazione sociale De Rita: “Ma il nostro segreto è la lunga durata”
di Stefano Lepri


ROMA. Da così tanti anni il Censis ci racconta come siamo, che forse il suo stesso racconto diventa parte dell’immagine che dobbiamo interpretare, più che strumento per interpretarla. Ed è certo una notizia se Giuseppe De Rita teme oggi che un fallimento del governo dei tecnici di Mario Monti possa aprire la strada a un disgregante, retrogrado nazionalpopulismo (per fortuna non scorge ancora chi possa diventarne il leader).
Benché De Rita, che anima il Censis da 47 anni, da buon cattolico creda nella Provvidenza, da qualche anno non riesce più a farsi piacere come l’Italia si evolve. Cosicché, quando si sforza di trovare ragioni di ottimismo per il futuro, gli pare di essere diventato «reazionario», perché invita a ritornare a punti di forza del nostro passato; gli pare di aver scritto con il rapporto di quest’anno un «manifesto di orgoglioso conservatorismo».
Stiamo andando in una direzione sbagliata? Di certo nel rapporto Censis troviamo fatti e numeri che sembrano indicare un processo di declino, sia economico sia culturale. «Se non studi finirai a pulire i gabinetti» strillavano irati ai figli pigri i genitori di un tempo. Adesso, a quanto pare, si rischia di finire a pulire i gabinetti anche se un titolo di studio lo si ha (è uno dei settori professionali dove torna a salire la quota di italiani).
Non c’è da stupirsi dunque se il 38% degli italiani fra i 15 e i 30 anni ritengono poco attraente la scelta di studiare all’università: è la percentuale più alta d’Europa. Il nostro sistema produttivo invecchia, non riesce ad assorbire i laureati, chiede lavoratori manuali, autisti, meccanici, magazzinieri. Metà dei laureati e quasi metà dei diplomati al primo impiego svolgono mansioni per le quali il titolo di studio non era necessario. D’altra parte, le imprese innovano poco, risulta da una differente indagine; e che si può pretendere, se solo il 15% tra gli imprenditori sono laureati?
De Rita si inquieta che, coscienti di queste prospettive, gli italiani smettano perfino di desiderare: il 28% pensa che in futuro starà peggio, il 34% che i figli staranno peggio dei genitori. Per la maggioranza, l’obiettivo è tutelare il benessere di cui già godono. I soli ottimisti sembrano essere gli immigrati, che al 65% vedono l’Italia di domani più ricca e più giusta.
Se non altro, per campare di rendita ci sono ampie risorse. La ricchezza privata degli italiani è abbondante, allo stesso livello di quella dei tedeschi, superiore a quella dei francesi (si può dire che negli anni abbiamo spogliato la cosa pubblica portandocene ciascuno un pezzo a casa?).
Ma un segno minaccioso è la sfiducia verso le classi dirigenti, che dalla «casta» politica sembra diffondersi ad ogni tipo di élite, guidata dall’impressione che chi è in alto dia solo esempi cattivi. Il quadro è questo: deprime.
Alla «moltitudine senza responsabilità» che De Rita teme, si può solo contrapporre quel 15% di italiani che si sente prima di tutto cittadino del mondo. Si può solo sperare che il Censis, legato com’è alla committenza di enti, associazioni, categorie, imprese, istituzioni, abbia posto soprattutto le domande che questa Italia vuole porsi; e che le novità possano scappare fuori, inattese, da qualche altra parte.

il Fatto 3.12.11
Ognuno scelga, io non ucciderei
di Ignazio Marino


Quando ho letto della scomparsa di Lucio Magri e poi i primi commenti sulla indisponibilità e la sacralità della vita agitati come bandiere, confesso che il mio pensiero è andato alla notte in cui è morta Eluana Englaro, al clima di tensione che si respirava nell’ambiente della politica, diviso in schieramenti opposti in maniera del tutto inappropriata, al limite della violenza. I toni usati all’epoca erano davvero fuori luogo, sguaiati: per questo alcuni giorni fa ho fatto un appello per non tornare a un “tifo da stadio”. Riconosco che l’espressione possa essere stata infelice, ma descriveva la paura di leggere o ascoltare rinnovate dichiarazioni aggressive e aspre, invece di riflessioni attente a quei limiti che appartengono alla coscienza individuale e che nessuno può permettersi di valicare.
HO LETTO però le critiche di Paolo Flores d’Arcais alle mie espressioni e per questo voglio chiarire il mio pensiero. Chiedendo di non urlare frasi offensive e di non dividerci tra “pro vita” e “pro morte” non intendevo indicare che queste sono due categorie in cui mi riconosco. Intendevo riferirmi a ciò che abbiamo tutti vissuto in questi anni: da una parte del fossato chi non tollera la libertà di scelta e si autodefinisce pro-vita, dall’altra chi, come me, pensa che la libertà sia un diritto e in quanto tale nessuno ne possa essere privato, nemmeno nelle circostanze più estreme. E nessun ponte levatoio in mezzo per cercare una conciliazione. Vorrei anche ricordare che per le mie idee, moderate e semplicemente democratiche, sono stato spesso indicato come un medico “esperto in eutanasia”. Nulla di più falso. La verità è che da anni sono impegnato nel tentativo di introdurre nel nostro Paese una legge che consenta a ciascuno di noi di scegliere liberamente a quali terapie vuole essere sottoposto e a quali intende invece rinunciare in ogni fase della vita. Vorrei che questo diritto fosse garantito anche dalla legge, con un documento che si chiama testamento biologico, e che abbia valore vincolante anche quando non siamo più nella condizione di comunicare. Infine, vorrei che il compito di attuare tali direttive venisse affidato a una persona che si ama e dalla quale ci si sente amati. Insomma, che delle mie cure, del loro proseguimento o della loro sospensione, alla quale conseguirebbe la fine della mia vita, possa ad esempio decidere la mia amata figlia e non il partito che ha vinto le elezioni con divieti, scritti in una legge, sulle cure alle quali i parlamentari pensano che io non abbia il diritto di dire di no.
QUESTI MIEI pensieri evidentemente toccano temi che non sono assimilabili alla scelta compiuta da Lucio Magri. Una scelta che non mi sento di commentare prima di tutto perché non ho nessun diritto di farlo e non mi sento autorizzato a scrutare oltre quei confini della coscienza individuale che ritengo sacri. Da chirurgo ho conosciuto sofferenze insopportabili che non riescono a essere lenite neanche dalla terapia per il dolore e credo di capire cosa significhi desiderare di liberarsi della propria vita in particolari circostanze. Affrontando le questioni che riguardano la fine della vita, non si può evitare, dunque, di parlare anche dell’eutanasia. Esiste un diritto a chiedere aiuto per morire e chi è padrone della nostra vita: l’individuo, lo Stato, Dio? Non mi sento in grado di dare a questa domanda una risposta che valga per tutti, però sono certo, come uomo e come medico, che nessuno può giudicare le scelte estreme di altri e qualunque aggettivo o sostantivo appare inappropriato per commentare decisioni come quella di Lucio Magri. D’altra parte, personalmente non sarei in grado di iniettare nelle vene di un essere umano un veleno per porre fine alle sue sofferenze, nemmeno se fosse una persona molto amata a chiedermelo. Come medico cercherei di essere presente, attento con ogni possibile terapia che possa alleviare il dolore, ma non riuscirei a guardare negli occhi una persona che sto uccidendo, anche se mi venisse chiesto come un ultimo atto di amore.
 *Chirurgo e senatore Pd

il Fatto 3.12.11
L’impossibilità di essere vecchi
di Massimo Fini


Da parecchi decenni si registra, in Occidente, un fenomeno del tutto nuovo e sconosciuto alle società che ci hanno preceduto: i suicidi dei vecchi. Quelli, recenti, di personaggi illustri come Monicelli e Magri, che pur erano dei privilegiati rispetto ai loro coetanei, non fanno che evidenziare un trend ben noto agli studiosi. Le ragioni sono principalmente due: la perdita di ruolo e la solitudine. Nella società agricola, premoderna, preindustriale, prevalentemente a tradizione orale, statica, il vecchio è il detentore del sapere (ma sarebbe forse meglio dire di una sapienza) che tramanda ai suoi discendenti. Resta, sino alla fine, il capo indiscusso della famiglia e conserva quindi un ruolo e la sua vita un senso. Nella società attuale avviene esattamente l'opposto. Le rapidissime trasformazioni tecnologiche fanno del vecchio un analfabeta di ritorno, uno spaesato, uno spostato, la sua esperienza non serve più a nulla, non conta più nulla. Non è lui a insegnare ai giovani che, con una condiscendenza che lo ferisce, devono insegnare a lui. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: “Un vecchio nella società agricola è il saggio, in quella industriale un relitto”. Terribile, davvero terribile, è poi la solitudine del vecchio di oggi, soprattutto nella società urbana, rinchiuso in qualche bilocale negli hinterland delle grandi città, senza sapere più cosa fare di sé. In Europa solo il 2% dei vecchi vive con i propri figli o nipoti. La famiglia mononucleare, le ridotte dimensioni degli appartamenti, gli impegni sempre più stressanti dei figli, impediscono di tenere in casa i genitori, sempre più vecchi e malandati (viviamo troppo a lungo, dio stramaledica la medicina tecnologica). Nella società d'antan il vecchio viveva invece nella famiglia allargata, circondato dai numerosi figli, dai nipoti, dai molti bambini, dalle donne di casa e da esse accudito nel periodo, fortunatamente breve, in cui non era più in grado di badare a se stesso. Come terzo elemento mettiamoci che oggi è proibito essere vecchi. E così la vecchiaia ha perso anche uno dei suoi pochi lussi: quello di potersi abbandonare alla propria età e ai suoi inevitabili limiti. “Vecchio è bello”, figuriamoci. Ma a patto che rinneghi se stesso, che appaia giovane, che se la dia da giovane, che faccia il giovane, che consumi, possibilmente, come un giovane. È costretto quindi a sgambettare impudicamente nelle balere, a scopare, con viagra o altri accorgimenti pompettari, anche se non ne ha più voglia, a imbarcarsi in maratone assassine in cui regolarmente si infartua. Se invece è vecchio e lo dimostra è irrimediabilmente out e viene emarginato senza pietà. Foera de ball. Fra i vecchi si suicidano gli uomini, non le donne. Perché sono più vitali. Lo si vede anche fuori dall'ambito dei suicidi. Se in una vecchia coppia muore prima lui, lei, liberatasi dal rompicoglioni, rifiorisce, comincia a far viaggi, a visitare mostre, a curare antichi interessi. Se invece muore lei, il marito intristisce, rinsecchisce, perde ogni voglia, com'è capitato a Lucio Magri. Si obietta che anche in altre civiltà è esistito, o esiste, il suicidio dei vecchi. Fra gli esquimesi il vecchio capofamiglia una sera, nell'igloo, dopo la cena, fissa negli occhi, in silenzio, i propri familiari. Poi esce, da solo, nella notte polare. Ma il suo è un suicidio per consapevolezza, a suo modo sereno, naturale. La consapevolezza che il suo compito è terminato. Quello di Magri e degli altri è invece un suicidio per disperazione. Questa è la differenza.

Repubblica 3.12.11
Quando viene meno la voglia di vivere
risponde Corrado Augias


G entile Augias, alla morte di Lucio Magri monsignor Sgreccia ha commentato: «Non possiamo decidere la nostra morte». I Lemuri, una volta consapevoli dell'alterazione dell'equilibrio demografico in rapporto alle risorse disponibili, si lasciano cadere nel vuoto nel numero necessario a ripristinare le condizioni di una possibile sopravvivenza per la specie. Si dirà che i Lemuri non hanno l'anima, ma il concetto di anima, nel senso trascendente, è asserito e considerato insuperabile solo in virtù di un atto di fede che, in quanto tale, è atto assolutamente volontaristico e libero. E, a meno che la fede venga imposta come in un novello medioevo, da ciò discende che ogni uomo è libero di alloggiarla o di respingerla e, per suo tramite, respingere anche il legame con la divinità e i suoi sacerdoti. Da qui la distinzione tra credenti e non credenti in rapporto al diritto di disporre della propria vita (e morte), nel primo caso demandando a Dio tale diritto, nel secondo riaffermandone l'assoluta e personale titolarità.
Augusto Benvenuto Alzano Lombardo (Bg)

La morte di Lucio Magri come già per l'indimenticabile Mario Monicelli è stata accompagnata da una generale sobrietà violata purtroppo da alcune sbavature. Se posso giudicare dalle numerose lettere, direi che i sentimenti prevalenti (almeno tra i lettori di questo giornale) sono stati la comprensione e la pietas . Mi scrive Roberta Pelletta (rpelletta@gmail.com): «Non riesco a provare altro che grande rispetto per chi ha il coraggio di andare oltre una vita che non sopporta più. Non importa perché non la sopporta: se perché malato, depresso o semplicemente non più intenzionato a vivere. Se siamo esseri chiamati alla responsabilità di adulti, fra quelle responsabilità c'è anche quella di porre fine alla nostra vita quando lo consideriamo giusto». Maria Cristina Marcucci (mcmarc52@gmail.com): «Alla morte di Magri qualche sproloquio di troppo. Nessun dono divino, invece, soprattutto nessun "mistero" parola fuorviante e manipolatrice storicamente carica di indeterminate emozioni. Abbandoniamo i distinguo, le domande retoriche, le "riflessioni" pubbliche che sanno tanto di ideologia. Ciascuno, se vuole, rifletta in silenzio, per una volta tenga private le proprie personali convinzioni». Bruno La Piccirella (alburno@tiscali.it): «Quando la gioia di vivere si ripiega su se stessa e la propria vita è compromessa da una qualunque perdita (di persona cara, salute, lavoro, sicurezza economica, certezza delle proprie capacità), allora, prima di scivolare nel buio, non resta che l'esercizio della propria libertà di coscienza. È una libertà che non arreca danno ad altri, che vale sia per chi sceglie di sopportare il dolore confidando in un Dio, sia per chi sceglie di mettere fine a una vita considerata non più sopportabile».

l’Unità 3.12.11
Dal congresso di Rifondazione l’attacco al governo «delle banche, dei padroni e del Vaticano»
Il segretario critica nella relazione «l’operazione tecnocratica avallata da Pd e Pdl insieme»
Ferrero lancia la Costituente «Ripartire dai referendum»
All’VIII congresso di Rifondazione comunista Paolo Ferrero lancia la parola d’ordine di una nuova «costituente dell’opposizione» e attacca il Pd: «Potevamo sconfiggere le destre con il voto...».
di Massimiliano Amato


A sinistra tutta, con juicio. Paolo Ferrero traccia il nuovo identikit di Rifondazione nel ventesimo della nascita pronunciando una valanga di no, ma anche disegnando il perimetro di una nuova Costituente dell’opposizione che dovrà essere capace, con una propria «contromanovra», di ribaltare la dittatura neoliberista a guida tedesca «che ha prima minacciato di far fallire la Grecia, imponendole un governo tecnico e ora minaccia noi».
Di fronte alla «conclamata incapacità del capitalismo di sopravvivere a se stesso, l’alternativa è sempre la stessa: socialismo o barbarie».
La chiama proprio così, Ferrero: «Costituente», per contrapporla al «governo costituente di ristrutturazione della spesa pubblica che demolirà il welfare universalistico, cambierà il lavoro, le pensioni, la scuola, l’università, i rapporti sociali».
Il punto da cui bisogna ripartire per organizzare l’opposizione «all’esecutivo delle banche, dei padroni e del Vaticano» è la campagna referendaria del giugno scorso. Trasformare quella risorgente «soggettività di massa», che a Ferrero ricorda stagioni lontane, in movimento politico.
INTERVENTO «A BRACCIO»
Parla per quasi due ore, il segretario, aprendo i lavori dell’VIII congresso di Rifondazione alla Mostra d’Oltremare di Napoli. Va a braccio, perché la lettura dei quotidiani, con le indiscrezioni sulle misure che il governo si appresta a varare lunedì gli ha fatto stravolgere la scaletta. La critica all’«operazione tecnocratica avallata da Pd e Pdl insieme» è netta, radicale.
Il segretario di Rifondazione comunista è convinto che le «grandi aspettative» sollevate dal nuovo esecutivo si trasformeranno presto in una «grande rabbia». Di sicuro, comunque, il governo Monti «è stato un errore clamoroso», dice Ferrero. Peggio: un disastro.
«Potevamo sconfiggere le destre con il voto, ma il Partito democratico ha scelto di liquidare la Seconda Repubblica bipolare per spianare la strada alla Terza repubblica fondata sulla tecnocrazia ademocratica. Questo governo, degno erede della Marcia dei 40mila, ristrutturerà la politica, e minaccia di essere presente alle prossime elezioni, che rischiano di essere derubricate a sondaggio. E tra 14 o 15 mesi non sappiamo nemmeno se ci sarà ancora l’euro». Insomma, era possibile un’altra strada.
LA CONTROMANOVRA
Il segretario di Rifondazione, che domenica sarà riconfermato nella carica, non gira intorno alla domanda: «Non ci limiteremo a fare i commentatori politici. Ci candidiamo a mettere in piedi un processo di costruzione dell’opposizione politica e sociale. Con il massimo di chiarezza e il minimo di settarismo».
La «contromanovra» del Prc si articola su pochi, fondamentali, punti. No alla riforma delle pensioni, ma tetto di 5000 euro ai vitalizi d’oro: «con le risorse recuperate si possono ridurre le tasse per i lavoratori e istituire il reddito d’inserimento per i disoccupati».
E poi: modifica del ruolo della Bce, «che dev’essere costretta ad acquistare direttamente i titoli degli Stati per bloccare la speculazione», no netto alle privatizzazioni, «sì a un rinnovato intervento pubblico nell’economia, e alla creazione di un polo pubblico del credito». E, naturalmente, la patrimoniale «sui redditi superiori al milione di euro: da sola garantirebbe un gettito di venti milioni».
«Sul lato europeo – scandisce Ferrero – stiamo con Sarkozy e non con la Merkel: ci batteremo per la tassazione delle transazioni finanziarie per bloccare la grande speculazione, che ci viene rappresentata come ineluttabile, naturale, mentre ineluttabile e naturale non è, e redistribuire la ricchezza».
Il resto sono le vecchie parole d’ordine del Prc: dimezzamento delle spese militari, accantonamento del progetto del Ponte sullo Stretto e della Tav in Val di Susa, lotta radicale all’evasione fiscale, abolizione della Bossi-Fini, estensione della cassa integrazione a tutti i lavoratori, no all’abolizione dell’articolo 18.
Alla nuova Costituente Ferrero dà due appuntamenti: a metà gennaio, per un primo momento organizzativo, e in primavera «per una grande manifestazione nazionale contro il governo delle banche».

Repubblica 3.12.11
Israele
Il governo: "Non sposate ebrei americani"


TEL AVIV Una campagna del governo israeliano che invita a non sposare ebrei americani e non far crescere i figli negli Stati Uniti ha suscitato l´indignazione della Jewish Federations of North America. In uno spot il fidanzato di un´israeliana scambia le candele del ricordo delle vittime del terrorismo per segni di una serata romantica. In un altro una nipotina svela alla nonna che in Usa lei festeggia "Christmas", la nascita di Cristo. Gli slogan recitano: «Loro resteranno sempre israeliani, i loro figli no». Oppure: «I loro partner non sempre capiranno». Conclusione: «Aiutateli a tornare in Israele».

l’Unità 3.12.11
Un tabù infranto
di Moni Ovadia


Uno dei leit motiv che ho ascoltato fin da piccolo e che ha nutrito le mie inquietudini ebraiche è che l’antisemita, e in genere chi ha pregiudizi antiebraici, ragiona con questa logica: «Se Paolo uccide, ha ucciso Paolo, se Abramo uccide hanno ucciso gli ebrei».
Per l’antisemita dunque l’ebreo non è colpevole in quanto individuo, è colpevole in quanto tale e collettivamente. Noi ebrei e le nostre istituzioni abbiamo giustamente combattuto questo infame pregiudizio, sostenendo ovviamente che gli ebrei sono uomini come tutti gli altri e che fra di essi vi sono tutte le qualità e tutti i difetti che si incontrano presso le altre genti.
Oggi invece molti ebrei hanno paradossalmente mutuato quella logica degli antisemiti escludendo a priori e con furore che ebrei possano macchiarsi di azioni infami come per esempio un apartheid nei confronti di altra gente.
Purtroppo ciò che si sta producendo in Israele a causa di una serie di provvedimenti messi in campo dal governo Netanyahu è ormai un vero e proprio apartheid nei confronti della popolazione palestinese dei territori, ma anche contro i palestinesi cittadini dello stato d’Israele.
A sostenerlo è l’editore e proprietario dell’autorevole quotidiano Haaretz, Amos Schocken che ha suscitato grande scalpore con un suo articolo di fondo che demolisce uno dei più potenti tabù della società israeliana e di una parte della diaspora ebraica.
Condividono l’opinione di Schocken altri uomini di pensiero israeliani, come il grande storico Zeev Sternhell, che denunciano anche l’erosione quotidiana della democrazia liberale di cui gli israeliani tanto si gloriano.

il Fatto 3.12.11
La rivoluzione araba

Il sociologo Ziegler
Il bello della rivoluzione sulla pelle degli altri
di Massimo Zaurrini


Lo sa perché i governi europei e gli Stati Uniti non sventolano lo spauracchio islamico e i diritti umani per annullare di fatto, come accaduto in passato, l’esito di elezioni democratiche nel mondo Arabo? Perché se legge il programma dei partiti e dei movimenti islamici che si stanno presentando alle elezioni in questi mesi si renderà conto che, da un punto di vista economico, sono tutti dei neoliberali. Non sono dei rivoluzionari”. Va diretto al punto il sociologo svizzero e attuale vice presidente della Commissione dei Diritti Umani dell’Onu, Jean Ziegler, 77 anni e alle spalle una carriera di intellettuale e politico impegnato, schierato e poco diplomatico. In una conversazione telefonica con Il Fatto, Ziegler che nel suo ultimo libro “L’Odio per l’occidente” (Marco Tropea edizioni, 2010) ha affrontato il rapporto storico politico tra l’Occidente e il resto del mondo – spiega cosa è cambiato nello scenario internazionale rispetto al recente passato, quando i governi occidentali , pur di fermare l’avvento al potere di partiti islamici nel mondo arabo, hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte a colpi di Stato, dittatori o sovvertimenti dell’esito delle urne.
Perché agli occidentali in generale, e agli europei in particolare, piacciono tanto le rivoluzioni del mondo arabo, salvo poi spaventarsi per i risultati di tali rivoluzioni?
Indubbiamente per l’Occidente il termine Rivoluzione ha una valenza positiva per molti motivi. Prima di tutto perché le nostre società sono figlie di rivoluzioni (da quella francese a quella industriale), poi perché al termine rivoluzione viene associata una valenza di cambiamento, di mobilità, di modernità e di dinamismo che ci piace. E le rivoluzioni in corso nella sponda sud del Mediterraneo sono vere rivoluzioni. Hanno distrutto terribili dittature in Yemen, in Egitto, in Libia in Tunisia e domani lo faranno in Siria. Hanno liquidato dittatori pluriennali. Mubarak 32 anni in Egitto, Ben Ali 23 anni in Tunisia, Gheddafi in Libia 42 anni. Sono vere rivoluzioni popolari e spontanee, senza avanguardie organizzate, senza partiti o organizzazioni clandestine. Sono vere insurrezioni popolari, legate a un desiderio di libertà, ma sono anche rivoluzioni della miseria, perché in questi paesi la stragrande maggioranza della popolazione vive in condizioni di povertà. E queste sono le rivoluzioni che a un occidentale piacciono.
E allora la paura?
La paura subentra in un secondo momento. Quando queste rivoluzioni si consolidano e quando gli occidentali si rendono conto che gli elementi culturali in gioco sono diversi. In questa fase affiora tutto il nostro eurocentrismo culturale. Pratiche, tradizioni e costumi diversi dai nostri ci spaventano. Questo avviene in modo particolare con il mondo arabo e islamico, perché in passato si è soffiato sul fuoco di queste differenze alimentando, da un lato, negli occidentali forti paure del mondo islamico e, dall’altro, nutrendo negli arabi un crescente odio nei confronti dell’Occidente, visto come dominatore. In realtà mai come in questo caso il nostro eurocentrismo è fuori luogo. L’Europa politica ha perso ogni credibilità perché per decenni ha sostenuto molte delle dittature oggi cadute.
Cosa sta accadendo nelle elezioni di questi mesi?
Siamo nella fase della legittimazione elettorale. E non deve stupire che a vincere siano i partiti islamici. Era prevedibile e normale, perché tutti questi gruppi da Ennahda in Tunisia ai Fratelli Musulmani in Egitto, passando per i salafiti in Libia e il Marocco sono stati le principali vittime dei regimi degli ultimi 30 anni. Sono stati questi movimenti a soffrire in misura maggiore, a contare tra i loro sostenitori e simpatizzanti migliaia e migliaia di morti, di torturati e desaparecidos. Solo in Tunisia si stima che il regime di Ben Ali abbia assassinato oltre 30.000 persone. È normale che la popolazione oggi voti per questi movimenti perché hanno, in un certo senso, la ‘maestà del dolore’ e della sofferenza. Guardi che in Europa dopo la Seconda guerra mondiale è accaduta la stessa cosa. Quello che sta accadendo nei paesi del Nord Africa oggi è assolutamente identico a quanto accadde in Francia tra il 1944 e il 1949, quando il Partito comunista francese ottenne un successo incontenibile alle elezioni. Tutta la campagna elettorale del Partito francese fu incentrata su un unico messaggio: “Siamo il partito dei 16.000 fucilati”.
Cosa accadrà in futuro? L’Occidente si farà prendere dalle sue paure e tornerà a ripudiare i risultati delle rivoluzioni che tanto aveva sostenuto?
I poteri occidentali non credo lo faranno. Se lei legge il programma dei movimenti islamici presentatisi alle elezioni di questi mesi si renderà conto che sono tutti, da un punto di vista economico, dei neoliberali. Mantengono una forte presenza nella politica sociale dei loro paesi, ma non hanno alcuna intenzione di chiudere con il liberalismo, anzi. Proprio per questo gli americani, gli occidentali, amano questi movimenti. Perché stia tranquillo che i grandi capitali non si preoccupano della sharia o dei diritti delle donne, si preoccupano degli interessi dell’oligarchia del capitale globale. Questa è la preoccupazione di Washington, di Sarkozy e di Monti. Ecco perchè questi nuovi governi godranno dell’appoggio totale degli occidentali.

La Stampa 3.12.11
Così il Sole danzava tra i megaliti di Stonehenge
Nuove scoperte sugli allineamenti nel giorno del solstizio “E’ la prova che il sito è più antico di quanto si pensasse”
di David Keys


Culti primordiali Gli archeologi stanno individuando un’area sacra molto vasta che si estende oltre il primo cerchio Le processioni E’ probabile che avessero luogo a mezzogiorno, quando la nostra stella si trovava nel punto più alto
Il monumento Le pietre più grandi pesano tra 25 e 50 tonnellate e furono tagliate da una collina distante 30 km dal sito archeologico I turisti Il sito è sempre più popolare ed è diventato un luogo di pellegrinaggio per molti seguaci del Celtismo, della Wicca e di altre religioni neopagane
Il mito di Stonehenge non fa che crescere

LE RICERCHE Sono state condotte con speciali radar e tecniche geomagnetiche
4-5 mila anni. E l’età presunta del sito di Stonehenge secondo le ricerche che si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni
500 anni. I nuovi studi condotti da un team inglese e tedesco retrodatano Stonehenge di circa mezzo millennio"
LE SIMULAZIONI Effettuate con modelli computerizzati, sono partite da due fosse rituali

Una serie di nuove scoperte archeologiche vicino a Stonehenge lo spettacolare circolo preistorico di megaliti antico tra 4 mila e 5 mila anni che si trova nel Sud dell’Inghilterra suggeriscono che il sito dell’«età della pietra» più famoso al mondo potrebbe essere già stato un luogo sacro in un’epoca ancora più antica di quanto ipotizzato finora dagli archeologi.
La nuova prova una serie di tre allineamenti solari vicino al monumento suggerisce che l’«aura religiosa» di Stonehenge risalga ad almeno 500 anni prima della creazione del primo cerchio di mega-pietre del sito stesso.
Le nuove informazioni – risultato delle indagini archeologiche ancora in corso e condotte dalle università di Birmingham e di Bradford nel Regno Unito e dall'Università di Vienna in Austria – dimostrano anche come il culto del sole a Stonehenge fosse ancora più importante di quanto si fosse ipotizzato in precedenza in molti studi.
I tre nuovi allineamenti solari appena individuati nel celeberrimo sito si trovano tra l’importante megalito noto come «Heel Stone» e due grandi fosse rituali: si evidenziano rispettivamente all'alba e al tramonto nel giorno del solstizio d’estate e dovevano accompagnare la processione rituale condotta tra i due fossati e il centro di Stonehenge a mezzogiorno, quando il sole raggiungeva il punto più alto del suo ciclo annuale. Le due fosse rituali sono situate all'interno del monumento più vasto che fa parte del paesaggio sacro di Stonehenge e che è una specie di percorso sopraelevato, lungo tre chilometri, noto tra gli addetti ai lavori come «Cursus».
«Se si misura la distanza a piedi tra i due fossati, intorno al perimetro del “Cursus”, la processione a mezzogiorno si sarebbe trovata esattamente a metà strada, con il sole proprio a picco su Stonehenge. Questa è più di una semplice coincidenza e indica che la lunghezza del “Cursus” e il posizionamento delle fosse hanno un preciso significato», sostiene Henry Chapman, l'archeologo dell'Università di Birmingham che ha lavorato ai modelli degli allineamenti elaborati con le ricostruzioni computerizzate del paesaggio di Stonehenge.
Le scoperte suggeriscono anche che il «Cursus» sia stato appositamente realizzato proprio per celebrare il giorno del solstizio d’estate, una data-chiave che era associata con la specifica sacralità del sito di Stonehenge, molto prima che fosse eretto il primo cerchio di pietre. Le nuove prove, quindi, suggeriscono che l’importanza del luogo sia di molto antecedente alla costruzione del «Cursus» stesso. Fino ad ora, invece, gli archeologi tendevano a pensare il contrario.
Questo totale ribaltamento della cronologia è particolarmente significativo, perché fa intravedere la possibilità che il sito di Stonehenge possa, in realtà, essere non soltanto marginalmente più antico del «Cursus», ma sostanzialmente e decisamente più antico.
Negli Anni 60 gli archeologi trovarono un sito rituale mesolitico risalente all’8000 a. C. in quello che oggi è diventato il parcheggio di Stonehenge: il divario di ben 5 mila anni tra quella zona e il cerchio di Stonehenge spinse la maggior parte degli studiosi a ritenere improbabile una continuità «sacrale» tra i due luoghi. Ma, con le nuove scoperte, il divario temporale si è drasticamente ridotto.
E’ possibile, quindi, che le ultime scoperte spalanchino una nuova ipotesi, quella di un’ininterrotta sacralità del sito di Stonehenge proprio a partire dall’epoca del Mesolitico.
I nuovi allineamenti solari che rivelano una realtà del tutto inedita sono stati scoperti nell’ambito di uno studio quadriennale sulla geofisica dell’intero paesaggio di Stonehenge. Utilizzando alcuni radar in grado di penetrare il terreno e le tecniche della magnetometria, gli archeologi stanno cercando di «passare ai raggi X» tutto il terreno circostante, fino a una profondità di due metri su una superficie totale di 14 chilometri quadrati. Questa indagine approfondita la più grande di questo genere mai realizzata al mondo – sarà completata tra due anni, come spiega il direttore del progetto, l’archeologo dell'Università di Birmingham Vince Gaffney.
Parlando delle scoperte multiple delle fosse e delle loro potenziali implicazioni, il professor Gaffney ha sottolineato che «questa è la prima volta che facciamo un’osservazione simile a Stonehenge e questa ci fornisce una visione molto più sofisticata e precisa di come potrebbero essersi svolti i rituali tra il “Cursus” e tutta la zona circostante».
Ora si pensa che decine di siti finora sconosciuti possano tornare alla luce grazie all’indagine geofisica in corso, nota come «Stonehenge Hidden Landscape Project» (Progetto per il paesaggio nascosto di Stonehenge). Solo negli ultimi 18 mesi sono state trovate almeno 25 aree rituali precedentemente ignote.
E’ quindi molto probabile che le future scoperte nel paesaggio sacro di Stonehenge – grazie al lavoro degli archeologi di Birmingham e Bradford e dei loro colleghi del «Ludwig Boltzmann Institute» dell’Università di Vienna trasformeranno ulteriormente le conoscenze sulle origini, sulla storia e sul significato del famosissimo monumento.
TRADUZIONE DI Carla Reschia

La Stampa TuttoLibri 3.12.11
Pareyson, l’uomo è una tragedia di libertà
di Gianni Vattimo


La riscoperta Vent’anni fa moriva il filosofo che ha lasciato un profondo solco nell’esistenzialismo contemporaneo Si ristampano le sue opere, e lunedì un convegno lo celebra
Luigi Pareyson in un ritratto di Paolo Galetto per «Tuttolibri»

Il convegno che si tiene in questi giorni a Torino è dedicato, nel ventennale della sua morte (e mentre presso l'editore Mursia si pubblicano le sue opere complete), al pensiero estetico di Luigi Pareyson. La scelta del tema è certamente giustificata, giacché la teoria della formatività (così Pareyson aveva intitolato il suo rivoluzionario libro: Estetica. Teoria della formatività , uscìto nel 1954; oggi in edizione Bompiani, 1988) è stata senz'altro la prima ragione della sua notorietà nella filosofia italiana dell'epoca (anche se Pareyson appena ventenne aveva già prima pubblicato il fondamentale libro su L'esistenzialismo e Karl Jaspers , 1940, riedito da Marietti, 1983), e resta ancora la sua opera più conosciuta in Italia e all'estero. Ma forse una ragione di opportunità si aggiunge a questa, per giustificare la scelta del tema del convegno: da un lato l'estetica è anche la prima formulazione della sua filosofia, con il centrale concetto di interpretazione che era destinato a divenire un termine essenziale della filosofia continentale europea degli anni seguenti; d'altro lato, è nel nocciolo dell'estetica che i discepoli di Pareyson, che hanno poi preso strade teoriche diverse, si riconoscono come una scuola. Così, è difficile pensare che il più noto oggi (e anche ormai il più anziano) dei suoi scolari, Umberto Eco, potesse seguire il maestro negli sviluppi essenzialmente ermeneutico-religiosi del suo pensiero successivo. A Eco è affidata la relazione di apertura del convegno, dunque, non solo per una ragione «pubblicitaria», del resto legittima; ma come un modo di riprendere Pareyson, per così dire, dall'origine.
Un'origine che, a prima vista, può sembrare difficile da collegare con gli esiti «tragicisti» e esplicitamente religiosi del suo itinerario filosofico: penso soprattutto agli scritti raccolti in Ontologia della libertà , uscito postumo (Einaudi, 1995) che oggi più ancora dell'estetica, e presso filosofi della generazione più «giovane» (una delle relazioni del convegno sarà tenuta da Massimo Cacciari) mantiene vivo l'interesse intorno al maestro torinese. La diade Eco-Cacciari segna bene i confini estremi della presenza di Pareyson nella filosofia di oggi. E il convegno torinese, che nasce come iniziativa della cattedra di Estetica oggi tenuta a Torino da Federico Vercellone, anche per i non specialisti e gli studiosi più giovani è una buona occasione per capire come la teoria della formatività possa aver dato luogo agli sviluppi ultimi del pensiero tragico. Il quale, non dimentichiamolo, è concentrato intorno alla problematica, e scandalosa, nozione del «male in Dio», una nozione inseparabile dalla ontologia della libertà. Detto sommariamente, se al mondo c'è libertà, e cioè se la nostra esperienza di esser liberi ha un senso, anche Dio deve essere pensato come libero; ma dunque come qualcuno che «sceglie» e decide, tra un positivo e un negativo tra bene e male, qualunque cosa essi significhino; e non come l'atto puro della metafisica classica che è già sempre perfetto e compiuto: il problema della predestinazione, e della stessa creazione, su cui si sono spaccate le teste di tanti teologi sarebbe insolubile se Dio fosse caratterizzato da questa perfetta immutabilità.
E l'estetica che c'entra? Pareyson elabora la teoria della formatività analizzando l'esperienza del fare artistico: che sebbene non necessitato da niente, non è arbitrario: l'artista si corregge, rifà, cambia. Guidato da quello che Pareyson chiama «forma formante». Ma proprio perché non è arbitrio, la forma che nasce nella creazione artistica, e in qualunque evento legato all' iniziativa umana, è manifestazione di una presenza che trascende la pura relazione tra il soggetto e l'opera. E' questa trascendenza, la presenza di una «legalità» non riducibile alla iniziativa cosciente del soggetto, che avvia alla riflessione sull'esperienza religiosa. L'essere che accade così nel fare umano non si lascia spiegare in termini razionali, è affare di libertà: se si vuole, qui c'è una traccia degli studi pareysoniani sul romanticismo e l'estetica kantiana del genio. Ma soprattutto, questo è un modo di render conto della irriducibilità della cultura alla pura funzionalità vitale: come le opere d'arte, anche se in misure e maniere diverse tutte le forme culturali sono creazioni non «richieste» né «spiegate» da ciò che veniva prima, dunque opere della libertà. Ciò che è libero è imprevedibile e non deducibile dal già dato. Per questo l'esperienza religiosa ha senso come esperienza mitica: delle origini può esserci solo racconto (è il senso del termine greco mythos), mai discorso razionale, logico-deduttivo.
I miti non si scelgono, si ereditano: Pareyson è stato un cristiano credente, e tuttavia è molto probabile che anche la sua fede cristiana fosse storico-mitica più che metafisicamente certa. Ma anche nella sua esperienza della religione come mito non c'è arbitrarietà, come già nell'esperienza estetica. La presenza della trascendenza (come in tanti dei suoi autori: Jaspers, Barth, Heidegger, Schelling; fino a Dostoevskij) non si lascia includere nell'orizzonte tranquillizzante della logica; ha piuttosto i tratti aperti e problematici della libertà, o se si vuole della vita.
"Con i suoi studi estetici e ontologici è stato il maestro di una nuova generazione a partire da Eco Un cristiano credente che si è interrogato sulla nozione scandalosa e dolorosa del «male in Dio»"

La Stampa TuttoLibri 3.12.11
Il mondo è sporco chiamate Ludwig
di Ferdinando Camon


Serial killer nazisti Abel e Furlan, uomini primitivi, armi primitive: 10 o 16 o più omicidi
Abel e Furlan, ovvero la banda Ludwig: si ritenevano imprendibili, e volevano essere presi. Il loro motto era: Gott mit uns, e lo introducevano con l’esplicazione: «La nostra fede è nazismo / la nostra giustizia è morte / la nostra democrazia è sterminio». Hitleriani in ritardo

Devo al lettore una premessa: non sono imperturbabile di fronte al grande-orrido tema che questo libro tratta. Ludwig era il nome collettivo della banda composta di Abel e Furlan, e forse qualche altro, che commise una lunga serie di efferati omicidi, secondo i pareri 10 o 16 o più. Un serial killer doppio, o un serial killer in due. Scoperti mentre erano in piena azione, arrestati, condannati, evasi, ritrovati, han saldato il conto con la legge. I problemi che lasciano aperti sono tanti. Perché due? Come facevano ad agire in blocco come uno solo? Perché sceglievano quelle vittime, prostitute ma anche frati, adulti ma anche ragazzi, in particolare ragazzi delle discoteche? Perché uccidevano usando un martello o i coltelli o il fuoco? Perché si son chiamati Ludwig? Perché quelle rivendicazioni in nome della virtù e dell’onore? Perché scrivevano le rivendicazioni in caratteri runici? Come mai sono un tedesco bavarese e un italiano veronese? Sono stupidi o intelligenti? Come vanno con gli studi? Pluribocciati o ben promossi? E come vanno con le donne? Omosessuali, eterosessuali, repressi o inibiti? Si son redenti?
Ma quel che mi turba è un altro motivo, e lo dico subito: han mandato la rivendicazione di qualche delitto dalla mia città, ed esattamente dalla stanza dove adesso sto scrivendo questo articolo, perché qui abitava lo zio di Furlan. Quando lo zio è morto, ho acquistato un pezzettino del suo appartamento ed eccomi qui. Ho lasciato sul campanello il nome «Furlan», per la sua vasta-funebre gloria: è un nome collegato (secondo i miei calcoli) a 16 omicidi, non me la sento di sostituirlo col mio cognome, ancora bloccato, quanto ad omicidi, a quota zero. Quando sono stati presi, da veri dilettanti, stavano spargendo benzina in una discoteca, ognuno con la sua tanica: avevano forato le taniche e le portavano in giro per bagnare la moquette, e poi darci fuoco. Sono stati acchiappati subito. Dunque, sono loro. L’ultimo attentato fa pensare, per l’ingenuità, che volessero essere presi. È il solito sospetto per tutti i serial killer: lanciano messaggi per essere liberati da se stessi. La benzina aveva un forte odore, tutti lo sentirono. Entrando in questo studio, dove loro hanno dormito, appena varcata la soglia tiro su col naso, per sentire se c’è traccia di benzina. Entrando qui, entro nel cranio di un mostro.
Mandavano rivendicazioni anche per delitti vecchi di anni, ma insoluti. Sfidavano la polizia. Nelle rivendicazioni fornivano le prove: la marca del martello, la forma del coltello… Si ritenevano imprendibili, e volevano essere presi. Il loro motto era: Gott mit uns, e lo introducevano con l’esplicazione: «La nostra fede è nazismo / la nostra giustizia è morte / la nostra democrazia è sterminio». Hitleriani in ritardo. Torna la solita domanda che ci poniamo quando un serial killer opera per anni: possibile che il padre, la madre, la moglie, il marito non si accorgessero di nulla? Ebbene, qui abbiamo il padre di Abel che dice «sì, qualcosa sospettavo, mio figlio non era normale».
Per Abel si sottovaluta, a parer mio, il trauma da giovane, quando la sorellina di sei anni gli morì fra le braccia. Quel trauma entrò come una bomba nel suo cervello. Il libro (piano, lineare, senza astuzie) spiega il gruppo come composto di un induttore e un indotto, una personalità dominante e una succube, Abel su Furlan. È possibile che il gruppo si sia sempre più rafforzato nel delirio, che questo delirio fosse tenue all’inizio e disperato alla fine. Alla fine, hanno in due una sola psiche, quel che dice uno vale anche per l’altro. Il mondo è sporco, bisogna purificarlo. Non tutti gli uomini sono, niccianamente, degni di vivere, si tratta di estirpare gli indegni. Il fuoco è il più perfetto strumento di purificazione. Se l’elemento induttore infonde il suo delirio nell’elemento indotto, l’elemento indotto però, alla fine, a me pare il più lucido nell’analizzare se stesso e il compagno: il libro si chiude con una intervista a lui, ed è un dialogo di allucinante sincerità. C’è tutto lì. Tutto di sé, e dell’altro, e degli altri. Lui è Dio. Elimina quelli che non rispondono ai suoi criteri morali. Una selezione etica. Niente pistole, ma ferro e fuoco, preferiti per la loro primitività. Ad uomini primitivi, armi primitive.
"Un tedesco bavarese e un ragazzo veronese: uccidevano prostitute, frati, adulti, ragazzi delle discoteche"

il Fatto 3.12.11
Caccia e ossessione
Aribert Heim, l’ultimo nazista
di Marco Dolcetta


In tutta la letteratura internazionale, compreso “I medici nazisti” di Robert Lifton, sino al 2000, il suo nome non era mai apparso da nessuna parte, lo stesso Simon Wiesenthal non lo aveva mai individuato e indicato come criminale da perseguire.
Secondo il Wiesenthal center di Gerusalemme, come Mengele, Aribert Heim fu l'apoteosi del sadismo.
Durante la guerra era stato per un breve periodo nel campo di Mauthausen a praticare esperimenti su cavie umane, per lo più repubblicani spagnoli imprigionati. Con dei modi estremamente educati, chiedeva ai prigionieri di calarsi i pantaloni, rassicurandoli che non avrebbe fatto loro del male, per poi iniettagli del benzene nel corpo, lo stesso tipo che si usava come carburante per gli aerei. Durante l'agonia dei suoi pazienti, il dottor Heim, appuntava minuziosamente tutte le fasi dell’esperi-mento su un taccuino, dove tra le tante atroci descrizioni, risulta anche l’uccisione di due fratelli ebrei di 18 e 20 anni, di cui aveva poi usato il cranio come fermacarte.
COSÌ DAL 2005, il Centro Simon Wiesenthal ha lanciato una campagna mondiale chiamata “ultima chance” per cercare di trovarlo.
Heim scomparve subito dopo la guerra e da quel punto si conoscevano solo alcuni frammenti di quella che era stata la sua vita.
Nel 1945 era stato arrestato dagli americani ma poi rilasciato. Successivamente a Berlino, aveva acquistato un edificio di 42 appartamenti, dove aveva aperto una clinica ginecologica.
Nel 1962, i giudici tedeschi finalmente decidono di andarlo a cercare a Baden Baden, senza trovarlo, ma da quel momento si scoprono tracce che lo collegano ai nazisti in America. Quasi certamente la sua prima destinazione era stata l’Uruguay, dove negli anni Sessanta dovrebbe aver aperto una clinica psichiatrica della città di Paysandu, dopo di che sarebbe andato in Patagonia.
Nel 2005, anno dell’operazione “ultima Chance”, le prove che indicano il nazista in Sudamerica sono molte: sua figlia maggiore, Waltraudt, vive a Puerto Montt, nel sud del Cile, e almeno quattro persone giurano di averlo visto lì e a Bariloche, dall'altra parte del crinale andino in terra Argentina (dove risiedeva Priebke prima dell’estradizione in Italia, ndr). Quando la polizia cilena ha gestito il caso, ha scoperto che Waltraudt si era recata in Europa almeno cinquanta volte in venti anni, senza che questa sapesse spiegare in modo convincente la motivazione di questi frequenti viaggi. Anche sui conti bancari di Heim, fino ad allora, si erano registrati frequenti movimenti.
Un avvocato, che ancora oggi ha in affitto tutto il fabbricato degli appartamenti a Berlino, ha detto che alcuni testimoni lo avevano incontrato in Spagna, descrivendolo stupito perché avevano cominciato a indagare seriamente su di lui e curioso di sapere a che punto erano le indagini. La famiglia afferma che morì nel 1992. La morte, secondo Rudiger suo figlio, si era verificata a causa di un cancro nei pressi del Cairo, dove era scappato con il nome Tarek Farid-Iussein. Naturalmente il corpo non è mai stato trovato. Secondo le dichiarazioni di suo figlio, Heim era stato iniziato all’islam nella moschea Tar El del Cairo, ed era stato quindi sepolto in una fossa comune nel deserto, seguendo l’antica tradizione islamica della sua nuova religione. Ma la verità probabilmente è un'altra.
SEGUENDO la pista della sua fuga che va dal continente Europa al Sudamerica e non a quella più misteriosa verso il medio oriente, si possono individuare alcune azioni comuni all’operatività del programma “Odessa”, il sistema di fuga progettato dai nazisti per rifugiarsi verso terre sicure, sembra infatti che dopo il 1945, Heim abbia usufruito della protezione e dell’appoggio degli alleati occidentali. Arrestato subito dopo l’armistizio viene poi rilasciato dagli americani per vivere liberamente nella neonata Repubblica federale tedesca, questo significa che anche i giovani servizi segreti della Germania occidentale filo americana, l’“organizzazione Gehlen”, dal nome di Reinhardt Gehlen, capo dei servizi segreti della Wehrmacht sul fronte russo, lo aveva preso in simpatia. L’attività contro di lui riprende intorno agli anni Sessanta, quando Gehlen si ritira dall’organizzazione, costringendo Heim a una fuga verso il Cile, quando per lui l’aria tedesca era diventata ormai irrespirabile. La sua destinazione sarebbe stata a Colonia Dignidad, in terra cilena, a sud di Santiago. Bisogna aggiungere che quel territorio non era cileno, bensì ancora di pertinenza giuridica del defunto Terzo Reich, infatti era abitato esclusivamente da tedeschi.
 Io personalmente ho girato un filmato sulla vita quotidiana della colonia nel 1980. A suo tempo un ambiente lindo e ordinato con abitanti che parlavano la lingua e vestivano un abbigliamento tipico degli anni 40, quasi tutti ex orfani di guerra, furono invitati a risiedere là dall’organizzazione Gehelen, gestita allora da un certo Paul Schafer.
Nel piccolo ospedale ebbi occasione di imbattermi nel dottor Aribert Heim, circondato da avvenenti infermiere , dove svolgeva attività medica nel pronto soccorso, col nome di Aribert Heim appunto…
NON ESSENDOSI nuovamente scatenata la caccia globale e pubblica ad Heim, con tanto di taglia, lui viveva apparentemente tranquillo e soprattutto senza dover nascondere la sua vera identità. In quell’occasione abbiamo avuto la possibilità di parlare della sua gioventù in Germania. Mi colpì molto quando mi disse: “Lei ricerca verità che riguardano una generazione che l’ha preceduta, quello che è successo è un mistero, mi creda... pensi che Heydrich era discendente di ebrei, il nonno materno si chiamava Suss, ma lui falsificò le carte, Eichmann parlava correttamente l’yiddish, Rosemberg, Jodl, Frank, tutti di sangue ebreo”. Interdetto e sorpreso, seppi solo replicare che non tutti quelli che hanno avuto questi nomi fossero necessariamente ebrei.



La Stampa TuttoLibri 3.12.11
Maria Luisa Spaziani
“Caro Montale, ti raggiungo nell’Olimpo”
di Mirella Serri


La Volpe, legata a lungo al Nobel degli «Ossi di seppia», di cui offre un ritratto non paludato, sta per entrare nel Pantheon della letteratura

«”Studiare? Ma il meno possibile! ”, sosteneva mio padre convinto che la scuola e i libri mi avrebbero portato su una strada che non era la mia. “Papà, voglio fare qualcosa di diverso, con una mia personale impronta, riconoscibile! ”, gli dicevo. “Occupati dell’azienda, dei nostri macchinari dove è inciso in bronzo, a lettere cubitali, Spaziani”». Ma il vil metallo non appagava la torinese Maria Luisa, occhi verdi e boccoli neri, che il nome lo voleva stampigliato su carta: tutte le sere, nell’abitazione di via Pesaro, si discuteva del futuro della ragazzina che coltivava un’insana (a detta del padre) attrazione per la poesia. Alimentata, peraltro, dallo stesso genitore. Già, proprio così: «Signorina Felicita, a quest’ora / scende la sera nel giardino antico... »: finita la cena, in casa Spaziani, si levava la tovaglia e si metteva a tavola l’antologia. Ecco Guido Gozzano, ecco scrittori oggi completamente dimenticati come Giovanni Cena e Vittoria Aganoor Pompilj, e poi Salgari, Pinocchio eFiammiferino di Luigi Barzini. «Che nei lontani Anni Venti del secolo passato era considerato una tappa fondamentale per i bambini, quasi quanto il capolavoro di Collodi: ma su tutti sovrastava il vate Carducci», aggiunge la scrittrice oggi punto di riferimento della lirica italiana e famosa traduttrice, la cui opera omnia il prossimo anno sarà pubblicata nel Pantheon riservato una foto d’angolo, con uno sguardo pensoso ma anche divertito, sembra tenere sotto controllo i visitatori che si addentrano in questo sacrario dove, tra i tanti cimeli, c’è pure una busta del «Corriere della sera» (la «grotta azzurra» la chiamavano gli amanti) dove il poeta conservava uno dei riccioli della Volpe.
La natal Torino e la letteratura...
«A Torino si viveva nel religioso rispetto di autori come Piero Gobetti. Io ero affamata di libri. Di tutti i tipi. Cominciai anche a appassionarmi a letture in lingua originale: Il conte di Montecristo eMadame Bovary furono il mio primo sbarco sul pianeta dei francesi. Alla loro traduzione mi dedicherò in anni successivi insieme alle opere di Pierre de Ronsard, Jean Racine, André Gide, Marguerite Yourcenar. Poi è il momento degli ungheresi, Sándor Petöfi e Ferenc Molnár con i suoi Ragazzi della via Pál. Ad attrarmi c’erano i racconti di viaggio, come Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India di Gozzano o Orio Vergani, e i tedeschi, da Goethe a Hermann Hesse, che amavo moltissimo per la sua vicinanza ai romantici e alle filosofie orientali».
La scoperta degli «Ossi di seppia» montaliani quando arrivò?
«Fin da piccola ero convinta che sarei diventata un poeta (non poetessa, parola che detesto). I primi versi li buttai giù a 12 anni: “la primavera /stagione dei fiori/ con la dolcezza risveglia i colori”. Le liriche di Montale furono la sorpresa sconvolgente dell’anno dell’esame di maturità ma prima avevo letto Ungaretti. Nel 1942 l’autore del Porto sepolto ritornò a Roma dal Brasile e tenne la sua lectio magistralis alla Sapienza. Partii da Torino con la mia nonna ligure che, molto risparmiosa, aveva avuto dei biglietti omaggio delle ferrovie e voleva assolutamente consumarli. Ero seduta in seconda fila nell’Aula Magna quando Ungaretti mi chiamò alla lavagna per scrivere un paio di versi leopardiani. Alla fine della meravigliosa lezione gli consegnai un numero della rivista che avevo fondato e dirigevo, “Il dado” vi collaboravano, tra gli altri, Vasco Pratolini, Sandro Penna ma pure Virginia Woolf -, e lui mi chiese di accompagnarlo a casa. Abitava lontanissimo e facemmo chilometri, io spingendo la mia bici e lui chiacchierando di Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire. Montale invece lo conobbi personalmente alla fine degli Anni Quaranta agli incontri culturali che si tenevano il venerdì al teatro Carignano. Il giorno dopo venne a cena a casa dei miei genitori e dopo aver bevuto, forse, mezzo bicchiere in più, si mise a danzare agitando il tovagliolo e imitando una baiadera che aveva visto qualche tempo prima in Libano».
Intesa con il nemico, questo primo incontro con Ungaretti? Quando Montale fu designato senatore a vita, Ungaretti esternò la rivalità di anni e stizzito annotò «Montale senatore / Ungaretti fa l’amore». Non rari furono poi i diverbi del poeta di «Meriggiare pallido e assorto» con Quasimodo. Condividevate anche i malumori letterari?
«No, per nulla: sono stata amica sia di Quasimodo che di Ungaretti. Con Eugenio si parlava di tutto dalle Rime petrose di Dante ai testi di Émile Boutroux che andavamo a cercare insieme alla Biblioteca Nazionale di Parigi. O di Truman Capote che gli piacque tanto da volergli inviare una delle sue opere pittoriche. Poi non lo fece e, anzi, mi incaricò di scrivere la recensione che voleva dedicargli. A volte capitava che mi sostituissi a lui. Le gelosie sul piano letterario ci preoccupavano meno di altre».
Gli scrittori cui lei si sente vicina...
«Ho sempre avuto come amici gli scrittori che più ammiravo, Mario Luzi, Leonardo Sinisgalli, Ezra Pound che ho incontrato a Rapallo e poi ho frequentato a lungo in America Gadda, Moravia, Pasolini, Caproni. Il mio interlocutore più polemico è stata Fernanda Pivano. Ne ho letta tanta di letteratura americana, da Hemingway a Steinbeck da Faulkner a Dos Passos, ma non l’ho mai apprezzata con quel procedere sincopato: “ciao, disse lui”, “ciao, disse lei”».
La letteratura era insomma veramente il centro dei rapporti sociali.
«Anche di quelli amorosi.
Quando io ero una ragazza si verificava qualcosa che oggi non esiste più. Se volevi conquistare una fanciulla, a Torino, la portavi al Balôn, locale un po' fané con divanetti di velluto rosso, le offrivi un latte con la cioccolata, le prendevi la mano e recitavi D’Annunzio: “Voi non mi amate ed io non vi amo. Pure /qualche dolcezza è ne la nostra vita da ieri”. Sapesse quante volte mi è capitato».
Corteggiatissima a colpi di rime ed endecasillabi. Anche il suo futuro marito si comportò così?
«Abitavamo nella stessa strada ed Elémire (Zolla), destinato a diventare un gran conoscitore di dottrine esoteriche e uno studioso di mistica, mi avvicinò sapendo che mio padre disponeva di un piccolo marchio editoriale. Voleva pubblicare un suo lavoro in cui attaccava duramente Croce. Il tomo, stampato con una serie infinita di errori, fu poi inviato al pensatore di Pescasseroli che, scambiandolo per via del suo nome per una donna, gli scrisse: “Gentilissima signorina, ho letto il suo lavoro e l’ho apprezzato anche se penso che sia un po’ troppo acerbo per rimproverarmi tante cose”».
Tante le letture di ieri. E quelle di oggi?
«Le poesie di Yves Bonnefoy, così ricche e dotate di spessore filosofico, capaci di far emergere il lato più infantile della nostra vita troppo spesso cancellato. Tiziano Scarpa e il suo Stabat mater, un’opera decisamente controcorrente perché, contro la frenesia e la velocità, privilegia la lentezza e la pensosità». "«Mio padre voleva che mi occupassi dell’azienda famigliare, io mi immergevo in Guido Gozzano» «Il mio interlocutore più polemico? La Pivano, non apprezzavo la letteratura americana piena di “ciao disse lui”» «Oggi apprezzo Bonnefoy, capace di far emergere il lato più infantile della nostra vita»"

Repubblica 3.12.11
La controversia tra il nuovo realismo e chi sostiene il primato dell´interpretazione
Il postmoderno ucciso dalle sue caricature
È difficile accettare l´idea per cui tutto dipende esclusivamente dagli schemi concettuali. Se ne dovrebbe concludere che non esistono nemmeno le sedie o i computer
di Diego Marconi


Molti filosofi, e anche molti non filosofi, condividono la convinzione che la verità o falsità dell´enunciato "Sulla Luna ci sono montagne alte più di 4000 metri" non dipenda da noi né dal nostro linguaggio, ma dipenda soltanto da come è fatta la Luna, e in particolare da quanto sono alte le sue montagne. Che alcune di esse sono più alte di 4000 metri era già vero prima che esistessero esseri umani, e sarebbe stato vero anche se la nostra specie non fosse mai apparsa sulla Terra. Chiamiamo questa convinzione "l´intuizione realista". D´altra parte, molti filosofi – e molti non filosofi – condividono anche la convinzione che la realtà possa essere descritta in vari modi diversi, e che il modo in cui la descriviamo dipenda dal nostro linguaggio, o, se si preferisce, dai nostri concetti. Se non avessimo il concetto di montagna non potremmo né dire né pensare che sulla Luna ci sono montagne alte più di 4000 metri. Chiamiamo questa seconda convinzione, non meno largamente condivisa della prima, "intuizione ermeneutica".
Rinunciare all´una o all´altra delle due intuizioni è molto costoso. Se si rinuncia alla prima, rischia di venir fuori che l´altezza delle montagne lunari dipende dalla nostra mente o dal nostro linguaggio; ma sembra ovvio che né l´una né l´altro sono in grado di incidere sulla superficie lunare e sui suoi corrugamenti. Se si rinuncia alla seconda intuizione, si giunge alla conclusione che c´è un´unica descrizione corretta della realtà; ma quale? Pare strano dire che non è vero che nella stanza in cui sto scrivendo ci sono libri, computer e pennarelli, ma è vero soltanto che ci sono particelle elementari variamente assemblate; e poi, che cosa garantisce che i concetti che i fisici usano oggi siano davvero quelli che «ritagliano la realtà secondo le sue articolazioni», come diceva Platone? Sembrerebbe più sensato dire che è vero sia che ci sono (nella mia stanza) libri e computer, sia che ci sono particelle elementari. Dunque i filosofi si sforzano di tenere insieme le due intuizioni, quella realista e quella ermeneutica, e i diversi dosaggi dei due ingredienti generano le varie forme di realismo, e anche forme di non-realismo moderato.
Qualche decennio fa l´intuizione realistica non era molto popolare, almeno da noi in Europa, essendo considerata "ingenua", mentre l´intuizione ermeneutica andava forte. Ora il pendolo ha compiuto la sua oscillazione, e il clima si è fatto più ospitale per il realismo anche nel nostro continente (sotto altri cieli esso occupa saldamente il campo fin dal 1972, anno della pubblicazione di Nome e necessità di Saul Kripke). Ma ciò che è condiviso, o più condiviso di qualche anno fa non è tanto una versione ben definita del realismo, quanto il rifiuto delle posizioni caratteristicamente postmodernistiche di fine Novecento: pochi ormai pensano che non ci sono fatti (ma solo interpretazioni), o che la verità è un effetto del potere, o che la realtà è creata dal linguaggio o dai nostri concetti, o che scienziati che sostengono teorie incompatibili vivono, letteralmente, in mondi diversi, e via dicendo. In filosofia come altrove, si raggiunge più facilmente il consenso su quali posizioni sono sbagliate che non su qual è quella giusta.
È a questo consenso soprattutto negativo che ha avuto il merito di dar voce la proposta di un nuovo realismo. Una proposta che non si impegna a sostenere una forma precisa di realismo, ma intende soprattutto suonare la fine della ricreazione per la vulgata postmodernista. Ora vari intellettuali a suo tempo protagonisti della sbornia antirealista – di cui siamo stati tutti un po´ partecipi, chi più chi meno – sostengono di non aver mai pensato né detto che non esistono le sedie, i pianeti e gli atomi o che quando piove non è semplicemente vero che piove. Magari invece hanno detto cose di questo genere; non perché le credessero davvero ma per l´amore della boutade che contraddistingue il loro stile di pensiero. In ogni caso, questi filosofi fanno male a disconoscere le presunte boutades, perché sono effettivamente conseguenze della loro scelta di privilegiare unilateralmente l´intuizione che ho chiamato ermeneutica rispetto all´intuizione realistica. Se ogni cosa esiste solo per uno schema concettuale, allora niente esiste semplicemente, neanche le sedie; se ci sono soltanto interpretazioni, allora è un´interpretazione anche che piove, quando piove. Tutto questo è assai poco convincente. È giustissimo dirlo; ma, per il filosofo, il lavoro vero resta la faticosa mediazione tra convinzioni divergenti, ma tutte assai tenaci.

Repubblica 3.12.11
L´editoria è in crisi i dati presentati a "Più libri più liberi"
di Raffaella De Santis


ROMA Rallenta il mercato del libro. E scende l´ombra del segno negativo sul settore, fino ad oggi relativamente meno toccato dalla contrazione generalizzata dei consumi: a fine ottobre si registra infatti un 0,7% sul totale del mercato (pari a 7,1 milioni di euro di spesa in meno). Va meglio solo per librerie e Internet, che registrano un + 0,1%. È quanto emerge dai primi dati NielsenBookScan che saranno presentati a Roma il 7 dicembre a Più libri più liberi, la Fiera nazionale della piccola e media editoria, nell´ambito dell´appuntamento organizzato da Aie Dall´autore al lettore: modelli distributivi a confronto, alle 15 nella sala Smeraldo del Palazzo dei Congressi dell´Eur. I dati, che si riferiscono ai soli canali trade di varia adulti e ragazzi (librerie, indipendenti e di catena, librerie online e vendite nella Gdo), fanno intravedere come anche il settore del libro inizi a risentire della minore capacità di spesa delle famiglie italiane.

venerdì 2 dicembre 2011

l’Unità 2.12.11
Monti alla prova dell’equità
Pensioni, contributivo per tutti. Apertura sul reddito minimo
La via stretta del Pd tra impegno a sostenere il governo e preoccupazioni della base
Il leader insiste sulla necessità che le misure non siano recessive: «Necessaria la crescita»
Bersani a Monti: serve equità, ascolti le nostre proposte
di Maria Zegarelli


Forse l’incontro avverrà durante il fine settimana, prima della presentazione ufficiale lunedì mattina della cura di ferro che il presidente del Consiglio Mario Monti sta mettendo a punto per l’Italia. O forse saranno soltanto colloqui telefonici con i ministri, ma nel frattempo il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ribadisce la linea dei democratici. Non si discute l’appoggio al governo e «non si tratta di porre condizioni», come invece ha fatto «la destra»: si mandano segnali all’esecutivo perché è evidente «che non tutte le misure ci andranno bene al 100%», come è evidente che qualche boccone amaro bisognerà pur mandarlo giù, ma «il complesso degli interventi deve andare nella direzione di equità e crescita».
L’APPELLO ALL’EQUITÀ
Parlando dai microfoni di Youdem, ieri Bersani si è augurato che a Palazzo Chigi «non si rimanga sordi e disattenti» alle proposte del Nazareno, dalla lotta all’evasione, alle liberalizzazioni, alla patrimoniale. Insomma, pronti a discutere di pensioni, flessibilità in uscita da 63 a 68 di contributivo pro-rata (la proposta rilanciata ieri dal ministro Elsa Fornero), ma a un patto: «chi ha di più deve dare di più. Questo è il punto».
Nel giorno in cui Sergio Marchionne ri-annuncia che Fiat lascia l’Italia e la Banca di Inghilter-
ra si prepara al default dell’euro, Bersani dice che sì, «la questione è veramente seria, è necessario fare uno sforzo collettivo davanti al quale ognuno deve prendersi le sue responsabilità» e tuttavia le fasce sociali più deboli non possono essere chiamate ad ulteriori sacrifici che stavolta potrebbero non reggere. «Bisogna fare in modo che le misure, che non saranno indolori, siano il meno possibile recessive e quindi abbiano occhio a un’esigenza di consumi, redditi, situazioni più difficili, dei ceti popolari più ampi».
Nessun giudizio preventivo, per il resto, « perché fin qui si è discusso solo su supposizioni».
E se ieri il segretario di Rc Paolo Ferrero ha definito un «errore drammatico» del Pd l’aver appoggiato il governo Monti, chiamando Vendola a fare «opposizione costituente delle forze democratiche di sinistra», la risposta del leader di Sel sembra andare in tutt’altra direzione. «Non commento Bersani, lo condivido dice il governatore pugliese , il suo atteggiamento è condivisibile».
Condivide Bersani e la Cgil, perché è alle fasce più deboli che «dobbiamo dare gli ombrelli per ripararsi, altrimenti non ce la faranno ad affrontare i sacrifici». Nessun riferimento a Ferrero.
Ma è evidente che è questa la via stretta che dovrà percorrere il Pd: garantire l’appoggio al governo senza deludere elettori e militanti che chiedono tutele rispetto alle misure annunciate e trovare una sintesi per arrivare compatti in Aula. Sintesi a cui si è lavorato ieri sia al Nazareno, sia a Montecitorio, con incontri tra il responsabile Economia Stefano Fassina e i capigruppo nelle Commissioni lavoro e bilancio di Camera e Senato. Bocche cucite con i giornalisti dopo l’incontro al Nazareno, questa la linea montiana adottata dai democratici, ma indiscrezioni sono comunque arrivate. «Se le misure sono quelle annunciate in questi giorni sui quotidiani, sono socialmente insostenibili», è stato il commento della maggior parte dei partecipanti.
Bloccare l’adeguamento delle pensioni all’inflazione vorrebbe dire danneggiare pesantemente la fascia medio-bassa della popolazione, così come innalzare la soglia contributiva dei 40 anni per andare in pensione senza il vincolo dell’età non prevedendo degli incentivi vorrebbe dire «chiedere un ulteriore sacrificio senza dare alcun vantaggio ai fini pensionistici». A Montecitorio c’è anche chi avanzato l’ipotesi di presentare emendamenti, ma alla fine la linea è stata quella di aspettare di conoscere gli interventi e poi regolarsi di conseguenza. Su una cosa sono tutti d’accordo: no al blocco dell’adeguamento per le pensioni più basse. Più articolate le posizioni sulla soglia dei 40 anni.
Contrario Sergio D’Antoni che dice: «Siamo pronti a valutare le misure nel loro complesso, ma è evidente che devono mirare alla crescita, altrimenti non servirebbero a nulla», e comunque non è «pensabile mettere mano ad una riforma della previdenza saltando il confronto con le parti sociali». Sulla stessa linea Cesare Damiano: «Il sistema contributivo pro-rata può essere una strada da considerare, ma a patto, che le regole per la maturazione della pensione di anzianità restino invariate, soprattutto per la soglia dei 40 anni di contributi». Meno rigidi i lettiani, anche se Francesco Boccia ribadisce: non si possono toccare le pensioni se non arrivano «segnali sulla lotta all’evasione e una patrimoniale seria».

l’Unità 2.12.11
Su Bonino nel Lazio nessun complotto ma vero confronto
di Silvia Costa


Caro direttore, a proposito delle affermazioni di Concita De Gregorio riprese da più giornali sulla vicenda delle elezioni regionali del 2010 (come mai ora, a distanza di un anno dalle “rivelazioni” di un «dirigente democratico»?), si fa riferimento a una presunta «strategia» di qualcuno nel Pd regionale finalizzata a far perdere le elezioni alla Bonino (e al centrosinistra!), che mi sembra francamente infondata e paradossale. Soprattutto perché viene attribuita a chi era tra i fautori di questa scelta.
Nel contesto di questa “rivelazione” si citano alcune dichiarazioni di allora, tra cui una mia, che dovrebbero avvalorare questa tesi. Ma non è corretto mettere sullo stesso piano un presunto “sabotaggio” della candidata alla Presidenza durante la campagna elettorale con la posizione limpida presa prima delle elezioni, a viso aperto, da chi, come me e un gruppo di democratici (nonché la Binetti, anche se lei ha poi lasciato il Pd e noi no), espresse riserve sulla proposta di candidare Emma Bonino a presidente della Regione per il centrosinistra. Non ho difficoltà a confermare che esposi in direzione regionale e poi nazionale le mie perplessità su tale scelta, pur riconoscendone la statura politica, perché non ritenevo che la Bonino potesse esprimere compiutamente una sintesi culturale e politica del centrosinistra, e in particolare del Pd, così come avrebbero avuto difficoltà a riconoscersi nella sua candidatura sensibilità ed espressioni sociali, non solo cattoliche, a Roma e nel Lazio. Molti segnali ci dicevano che si rischiava di consegnare alla Polverini il consenso di mondi che si sarebbero sentiti non interpretati, con esiti che sarebbero andati oltre la campagna elettorale. Cosa che è puntualmente avvenuta anche da parte di realtà aperte e sensibili, soprattutto nel mondo cattolico.
Una volta ufficializzata la candidatura di Emma Bonino, insieme a un gruppo di democratici affini per storia e cultura politica di provenienza, abbiamo chiesto un incontro con la candidata sulla base di un articolato documento che le abbiamo sottoposto come contributo per il suo programma elettorale, con alcune priorità per noi rilevanti tra i quali la trasparenza, le politiche familiari, l’occupazione e lo sviluppo, le nuove generazioni, la riforma istituzionale della regione, il rilancio della sanità, i servizi sociali, l’immigrazione e le pari opportunità. Le chiedevamo inoltre di dare forti segnali di rispetto di tutte le culture del nostro partito e le abbiamo posto tre questioni per noi centrali: la concezione laica ma non laicista della nostra Costituzione, anche a proposito della famiglia, una concezione solidarista nel sociale e nell’economia, la disponibilità a promuovere, ciascuno nella propria autonomia, la collaborazione tra istituzioni civili e religiose per il bene comune. E infine la richiesta di restare, se perdente, a guidare la coalizione in Regione.
Come si vede, abbiamo voluto un confronto sereno ma esigente sui temi e le scelte programmatiche per il Lazio e su queste basi ci siamo impegnati nella campagna elettorale.
Purtroppo alcuni silenzi della Bonino su queste questioni significative non solo per noi, la decisione di essere candidata contemporaneamente in Lombardia (e non in alleanza con il Pd), la scelta di concentrare su Roma la campagna elettorale, nonostante una significativa affermazione, non hanno aiutato soprattutto chi, come noi, aveva un compito più arduo di mediazione e di accreditamento presso l’elettorato più scettico e preoccupato da derive laiciste o elitarie.
Dispiace che quella che poteva essere un’interessante anche se forse scomoda analisi e ricostruzione dei fatti e della dialettica politica in seno a un partito democratico anche di fatto, sia stata immiserita in una ulteriore occasione di “teatrino polico”.
*Parlamentare europeo del Pd

il Fatto 2.12.11
Contro
Quel viaggio di sola andata
Il medico salva, non uccide
di Marco Travaglio


Io non voglio parlare di Lucio Magri, che non ho conosciuto e non mi sognerei mai di giudicare: non so come mi comporterei se cadessi nella cupa depressione in cui l’avevano precipitato la vecchiaia, il fallimento politico e la morte della moglie. So soltanto che non organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari. Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”. Ne vorrei parlare perché è diventato un fatto pubblico e tutti ne discutono e ne scrivono. E molti tirano in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’“esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo. Sulla vita e sulla morte, da credente, ho le mie convinzioni, ma me le tengo per me perché, da laico, non reputo giusto imporle per legge a chi ha una fede diversa o non ce l’ha. Dunque vorrei parlarne dai soli punti di vista che ci accomunano tutti: quello logico, quello giuridico, quello deontologico e quello pratico.
Dal punto di vista  logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell'altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé.
Dal punto giuridico c'è una barriera insormontabile: l'articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all'ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l'ha pregato di farlo, o addirittura l'ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?
Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” che ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di... perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno...; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l'aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.
Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un'iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c'è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all'iniezione letale senza un'esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l'infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?
Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l'istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c'è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell'infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?

il Fatto 2.12.11
A favore
Liberi di vivere e morire
Io “tifo per la libertà
di Paolo Flores d’Arcais


Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra “autorità” che sia.
MA POICHÉ siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.
PERCIÒ, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum vocale”, dicevano giustamente gli antichi.
Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano. La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54 anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia. Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.
MA QUANDO si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.
Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato a morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.
ALTRETTANTO pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda. Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto - per il medico che questo aiuto vuole dare - di non rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito, che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che siamo cittadini eguali in dignità e libertà?

Corriere della Sera 2.12.11
Erika torna libera. Passerà il Natale a casa con il padre
Don Mazzi: «Farà volontariato»
di Andrea Pasqualetto


Quella sera del 21 febbraio 2001 aggredì la madre con la furia di una Nikita. Quaranta coltellate sferrate con l'aiuto del suo ragazzo nella cucina di casa dove Susy Cassini, contabile di 41 anni, riuscì solo a dire: «Erika, ti perdono». Finita la madre raggiunse il fratellino undicenne Gianluca che cercava di fuggire in preda al terrore e massacrò anche lui nel bagno della loro villetta, a Novi Ligure. Aveva sedici anni Erika De Nardo, diciassette il fidanzatino, Omar Favaro, complice di uno dei delitti più efferati della storia del crimine italiano. Oggi Erika di anni ne ha ventisette e lunedì prossimo tornerà in libertà, dopo che anche Omar era stato liberato il 3 marzo del 2010. Hanno scontato la loro condanna a 16 e 14 anni, che grazie ai benefici dell'indulto e della buona condotta è stata ridotta di circa un terzo. Un recupero pieno, sottoscrivono educatori e magistrati. Nel periodo della detenzione Erika è riuscita a diplomarsi e a laurearsi in filosofia con 110 e lode portando una tesi su Socrate e la vana ricerca della verità. Poi è approdata come volontaria alla comunità Exodus di don Antonio Mazzi, nel Bresciano, dove si trova da alcuni mesi collaborando a programmi di disagio sociale per giovani e adolescenti. «Rimarrà presso la nostra comunità anche dopo la libertà — ha preannunciato don Mazzi —. Non so ancora se nella sede in cui si trova ora o altrove. Erika continuerà a lavorare nel volontariato perché, come mi ha detto lei stessa, vuole continuare a capirsi». Sarà il suo primo Natale in famiglia. E la famiglia per lei è soprattutto suo padre, l'ingegner Francesco De Nardo, che scampò al massacro solo perché Omar, quella sera, decise di andarsene prima del suo rientro. «Se vuoi, uccidilo tu», disse il ragazzo a Erika. Il padre è riuscito a perdonarla rimanendole vicino. Gli assistenti sociali assicurano che ha saltato poche visite in questi anni. Prima al carcere minorile Beccaria di Milano, poi in quello di Verziano, alle porte di Brescia. Don Mazzi: «Penso che Erika voglia passare un periodo con lui prima di tornare da noi». È un'altra persona, dice. Con un peso enorme sulla coscienza.

il Fatto 2.12.11
Ferrero, rifondazione da zero
“Abbiamo venduto tutto per resistere e siamo ancora qui”
di Luca Telese


Andando a vedere, scopri sempre qualcosa. Per intervistare Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, vado a citofonare al piano nobile del palazzone di via del Policlinico che dal 1994 ospita il partito. Non rispondono. Chiamo il centralino: “Suona l’altro interno! ”. L’intero piano è stato appena venduto, e da pochi giorni Ferrero si è ritirato nelle stanze spartane del pianterreno. Così, per introdurre l’intervista sul prossimo congresso di Rifondazione e sulla critica drastica al governo Monti, partiamo dal taglio dei costi imposto dalla crisi: “Abbiamo dovuto venderlo per campare – dice Ferrero con un sorriso malinconico – e non è finita. Venderemo anche l’appartamento dove ci troviamo ora”.
Quanto ha fruttato questa cessione?
Tre milioni di euro. All’epoca era stato un grande investimento. Ci copriamo il bilancio di un anno.
Quanti dipendenti sono rimasti?
Quando sono arrivato erano 160. Oggi 40!
Fate i tagli come Monti?
Non lo dire nemmeno per scherzo. Ci sono stati imposti dalla mancata elezione. A Liberazione abbiamo dovuto fare lo stesso.
Cioè?
Quando sono entrato, il compagno Sansonetti ci aveva lasciato 3 milioni di euro. Oggi con il contributo pubblico – sempre che arrivi – siamo in paro.
Per essere sinceri fino in fondo bisogna dire che avete mandato via la metà dei redattori e dimezzato la foliazione!
Con la morte nel cuore.
Il segretario è finito in una stanzetta… Spirito di sobrietà?
Era meglio lasciare quelle più grandi ai compagni che la dividono in tre.
Con quanto viveva Rifondazione, prima del mancato quorum?
18 milioni di euro all’anno. Adesso sono un sesto.
Erano troppi prima?
Ma anche troppo pochi adesso. Avessi potuto scegliere avrei ripartito diversamente le risorse. Se scompare la politica scompare la democrazia. E se tagliano il contributo dobbiamo chiudere pure il giornale.
È giusto che lo Stato copra il 70% delle spese con il finanziamento pubblico?
Secondo me sì. Nessun imprenditore compra pubblicità in un giornale comunista, nessuno vuole finanziarlo.
Vi sentite isolati?
Per nulla. Pensa che alla riunione in cui abbiamo discusso le tesi del congresso è venuto a parlare con noi Fausto Bertinotti.
Me lo dice per dare un dolore a Vendola, a cui Bertinotti ha detto che la sinistra non può governare?
Non ci pensavo proprio. Solo per spiegare che non abbiamo nessun senso settario.
Quanto l’ha turbata la morte di Magri?
Moltissimo. Ma per spiegarlo dovrei parlare di una storia personale….
Facciamolo.
Questa estate ho scoperto di avere un tumore al colon.
Grave?
Dico al medico: quando devo tornare che stasera ho una riunione?
E lui?
‘Se vorrà fare altre riunioni, in vita sua, questa dovrà saltarla’. Operato d’urgenza. È stato un bene: mi hanno tolto una bistecca di carne, ma non era ancora diventato maligno.
Vuole dire che ha pensato anche lei al suicidio?
Al contrario. Mi sono scoperto relativamente spensierato. Angela, la mia compagna, quel giorno mi manda un sms: ‘Cosa dicono? ’.
E lei?
Le ho risposto secco: ‘Cancro’. Lei pensava a uno scherzo, e ha chiamato il compagno che era con me: ‘Paolo è impazzito’.
E quale è la riflessione di ora, a mente fredda?
La mia cultura valdese, al contrario di quella cattolica, mi impedisce di venire schiacciato dal dogma della sacralità della vita. La morte, per noi, è una fatalità possibile.
Quindi il suicidio non è peccato?
Non è una caso che Lucio si sia suicidato in un paese protestante come la Svizzera. Mia madre avrebbe detto: ‘Ha finito di soffrire’. Per molti cattolici la morte biologica annulla tutto il resto…
Quando hai visto l’ultima volta Magri?
Il 15 ottobre, alla manifestazione degli indignati. La sua disperazione è anche una nostra sconfitta.
Magri ha combattuto una vita per la sinistra di governo. Il suo alleato Diliberto dice che la vostra federazione deve imporre ai suoi eletti il vincolo di fiducia al governo.
(Sorride). Con il governo Monti questo problema non è più all’ordine del giorno, direi. Io avrei detto diversamente da Oliviero, ma è evidente che non potevamo andare al voto e poi far cadere un governo.
È una risposta elusiva.
Al contrario. Noi volevamo votare. Ma la crisi del Pd ha fatto sì che Bersani, che era con noi, sia stato messo in minoranza.
La crisi del Pd?
Mi pare evidente che in quel partito c’è un conflitto in atto fra un’ala socialdemocratica e una liberomercatista. Per ora hanno vinto i secondi.
Monti è un nemico?
Siamo contro questo governo. É inquietante l’analogia con quello che è accaduto in Grecia. Si è impedito che la gente potesse votare, e si è messo un banchiere, in entrambi i casi un ex membro di Goldman Sachs.
Era meglio Berlusconi?
Non mi passa per la testa. Berlusconi ha servito gli stessi interessi neoliberisti. I primi passi di Monti sono devastanti, un massacro sociale.
Facciamo una prova: pensioni?
Una mossa iniqua, regressiva, inutile…
Lei conosce la Fornero, è espressione dei poteri forti pure lei?
È parte di quella sinistra ideologicamente neoliberista.
Non serve per abbattere il debito?
Facciamo i conti: quanto riduce? 100 miliardi in dieci anni se va bene.
Le pare poco?
Cambia nulla. Però ammazza delle persone che hanno lavorato, e non meritano di essere tartassate.
Nemmeno i giovani che sono già al contributivo puro.
Ecco lo schema del vangelo neolibertista. C’è qualcuno che già sta peggio di un altro. Allora si dice: è una ingiustizia! Facciamo stare peggio tutti! Nel mercato del lavoro è il metodo Ichino.
Anche lui un nemico?
Un difensore delle tesi neoliberiste.
Ma voi non avete ricette alternative…
E chi lo dice? Abbassiamo tutte le pensioni a 5 mila euro, e recuperiamo dieci miliardi. Invece, se tolgono quattro anni di vita a operai, come mio fratello, che lavorano da quarant’anni, fanno pagare chi ha già pagato.
I tagli sono una cura?
É come se per curarmi il tumore al colon avessero amputato una gamba. E non rida. L’hanno fatto alla Grecia.
Perché?
Per comprarsela.

Repubblica 2.12.11
Nel nome dei figli
Se il diritto ha il dovere di pensare al futuro
di Gustavo Zagrebelsky


Il costituzionalismo ha davanti a sé una nuova sfida: garantire le generazioni che verranno sulle risorse e i benefici
Una delle ragioni del saccheggio sta nello sviluppo della tecnica senza altro fine che se stessa
Bisogna riuscire a incorporare nella democrazia la dimensione scientifica delle decisioni politiche

Il costituzionalismo si trova oggi di fronte alla sfida, che è una vitale necessità, di allargare lo sguardo in una nuova dimensione, finora ignorata: il tempo. Per introdurre questo argomento con una digressione, prendo a prestito dal volume dell´archeologo-antropologo Jared Diamond, intitolato Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi), la storia di Pasqua, l´isola polinesiana a 3700 chilometri a est delle coste del Cile, scoperta dagli europei nel 1722, celebre per i 397 megaliti. Pasqua, quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, era una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall´aria, che arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano a stento poche centinaia di persone.
L´enigma di Pasqua, per com´è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale su cui la vita nell´lsola si basava. Pasqua è un monito. Non parla soltanto di polinesiani d´un millennio fa. Parla di noi: di sfruttamento imprevidente delle risorse, con effetti funesti sulle generazioni a venire.
Come possiamo condensare in una sola frase la parabola di Pasqua? Per soddisfare appetiti di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s´è comportata come se fosse l´ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare.
Il costituzionalismo può ignorare questioni di questo genere? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion d´essere sono – secondo la sintesi di Ronald Dworkin – la protezione del diritto di tutti all´uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino al tempo nostro non c´era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era stato compromesso. Il costituzionalismo non ha avuto finora ragioni per occuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma molte ragioni ha oggi, e drammatiche. Per quale ragione la cerchia de "i tutti" che hanno il diritto all´uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere che non c´è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto all´uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità.
Ma oggi assistiamo alla separazione nel tempo dei benefici – anticipati – rispetto ai costi – posticipati –: la felicità, il benessere, la potenza delle generazioni attuali al prezzo dell´infelicità, del malessere, dell´impotenza, perfino dell´estinzione o dell´impossibilità di venire al mondo, di quelle future. La rottura della contestualità temporale segna una svolta che non può lasciare indifferenti la morale e il diritto.
In termini giuridici, la questione che si pone al costituzionalismo è la seguente: fin dall´inizio (ricordiamo l´art. 16 della Déclaration dei diritti del 1789), la sua nozione chiave è stata il diritto soggettivo, da contrapporre in vario modo al potere arbitrario. Ma il diritto soggettivo presuppone un titolare presente. "Diritti delle generazioni future" è una di quelle espressioni improprie che usiamo per nascondere la verità: le generazioni future, proprio perché future, non hanno alcun diritto da vantare nei confronti delle generazioni precedenti. Tutto il male che può essere loro inferto, perfino la privazione delle condizioni minime vitali, non è affatto violazione di un qualche loro "diritto" in senso giuridico. Quando incominceranno a esistere, i loro predecessori, a loro volta, saranno scomparsi dalla faccia della terra, e non potranno essere portati in giudizio. I successori potranno provare riconoscenza o risentimento, ma in ogni caso avranno da compiacersi o da dolersi di meri e irreparabili "fatti compiuti".
Bisogna prendere atto che la categoria del diritto soggettivo, in tutte le sue varianti di significato (diritti di, da, negativi, positivi, di prestazione, ecc.), è inutilizzabile tutte le volte in cui è rotta l´unità di tempo. È invece la categoria del dovere, quella che può aiutare. Le generazioni successive non hanno diritti da vantare nei confronti di quelle precedenti, ma queste hanno dei doveri nei confronti di quelle; esattamente la condizione della madre, nei confronti del bambino quando lo porta ancora in grembo. Il costituzionalismo dei diritti, senza rinunciare alla sua aspirazione centrale di essere al servizio della resistenza all´arbitrio, deve scoprire i doveri, non semplicemente in quanto riflessi, cioè in quanto controparte dei diritti, ma come posizioni giuridiche autonome che vivono di vita propria, senza presupporre l´esistenza (attuale) delle corrispondenti situazioni di vantaggio e dei relativi titolari.
Dobbiamo riconoscere che questo mutamento di paradigma vede il costituzionalismo completamente impreparato, anzi ostile. In nome dei diritti, non dei doveri, da due secoli conduce la sua battaglia. I doveri sono stati e sono tuttora la parola d´ordine dei regimi autoritari e di quelli totalitari. Si tratta però di costruire una mentalità, una cultura, e da ciò trarre spunto per comportamenti adeguati, anche senza che si debbano attendere proclamazioni giuridiche formali. Innanzitutto, le norme che riconoscono diritti e facoltà dovrebbero essere interpretate, tutte le volte in cui siano alle viste conseguenze potenzialmente pregiudizievoli sulla condizione di coloro che verranno, in una prospettiva oggettiva, in base alla massima: la terra appartiene tanto ai viventi quanto ai non ancora viventi; i diritti dei primi sono condizionati dall´uguale valenza anche per i secondi. Il che – non si può non riconoscere – comporta possibili restrizioni ai diritti in senso soggettivo. I diritti, nei casi anzidetti, devono essere intesi come beni o istituzioni di lungo periodo. Per estenderli nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente. Conosciamo già situazioni di questo genere, nelle quali entra in gioco il cosiddetto "principio di precauzione", vigente, in forza di norme di diritto nazionale, europeo e internazionale, per esempio in materia ambientale, energetica e sanitaria. Qui, parlando di costituzionalismo, si dice che quel principio dovrebbe essere assunto come elemento conformativo dell´intero modo di concepire il diritto costituzionale. Il diritto costituzionale di oggi deve essere un "diritto prognostico", che guarda avanti, fin dove, nel tempo, le previsioni scientifiche permettono di gettare lo sguardo.
Ma c´è dell´altro. Il giudizio prognostico non è un giudizio politico; è un giudizio tecnico-scientifico. Ora, a parte la difficoltà forse insuperabile di individuare scienziati e tecnici realmente indipendenti dagli interessi immediati da sottoporre a verifica, la prospettiva che si apre è la tutela tecnocratica sulla politica. Orbene, la politica, nella sua versione democratica come nelle sue degenerazioni populiste e demagogiche, s´incarna in istituzioni dei (non: dai) tempi brevi. Le decisioni devono essere in sintonia con l´interesse prevalente che la società, come più o meno autonomamente e veridicamente se lo rappresenta, ed è a dir poco improbabile che, nella considerazione di tale interesse, entrino con il peso che meriterebbero ansie e preoccupazioni per la sorte di società diverse, ipotetiche, lontane nel tempo. A questo interesse momentaneo, infatti, la politica deve rendere conto.
Fermiamoci qui. Siamo nel regno delle contraddizioni. Il costituzionalismo, nel quadro di allora, era il mondo dei diritti, ma ora il mondo ha bisogno di doveri. Il costituzionalismo ha prodotto democrazia, ma oggi la democrazia mostra di poter essere une regime di saccheggio delle risorse, per i viventi contro i posteri. Per questo, si ricorre a momenti ed elementi di natura scientifico-tecnocratica, ma la ragione del saccheggio sta precisamente nello sviluppo della tecnica senza altro fine che se stessa. Quindi, la tecnica, per essere benefica, dovrebbe poter essere a sua volta controllata. Ma da chi? Dalla democrazia, che è proprio colei che ha ne ha bisogno?
Doveri e tecnocrazia fanno paura, non c´è che dire. Ma sono necessari proprio alla luce delle premesse e delle promesse del costituzionalismo, una volta che non lo si intenda come mero egoismo dei viventi. Le contraddizioni sono intrinseche. Saranno distruttive? Non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che esse chiamano a un compito non facile, su un terreno incerto dove molto è da pensare e costruire, tutti coloro i quali, nello studio e nella pratica, richiamandosi ai valori permanenti del costituzionalismo, intendono agire "costituzionalisticamente". Il costituzionalismo ha avuto una storia. La questione è se avrà una storia. L´avrà in quanto riuscirà a incorporare nella democrazia, senza annullarla o umiliarla, la dimensione scientifica delle decisioni politiche. Questa, mi pare, è l´ultima sfida del costituzionalismo, l´ultima sua metamorfosi.

il Fatto 2.12.11
Il preservativo vietato da Radio Rai
Guai a citarlo nella giornata mondiale contro l’Aids
di Ferruccio Sansa e Carlo Tecce


Vietato citare il preservativo. Divieto piuttosto strampalato per la giornata mondiale contro l'Aids, celebrata ieri con una maratona di programmi su Radio Rai. Anche la maratona è originale: forza con la lotta per la prevenzione, guai a nominare il preservativo.
Prima che sia troppo tardi, ieri mattina ore 8:54, la direzione di Radio Rai1 comunica ai giornalisti: “Carissimi, segnalo che nelle ultime ore il ministero ha ribadito che in nessun intervento - si legge nella mail interna - deve essere nominato esplicitamente il profilattico; bisogna limitarsi al concetto generico di prevenzione nei comportamenti sessuali e alla necessità di sottoporsi al test Hiv in caso di potenziale rischio. Se puoi sottolinea questo concetto, ma comunque con gli esperti dovremmo andare tranquilli. Resto comunque a disposizione per qualsiasi chiarimento. Grazie e buon lavoro”. Firmato Laura De Pasquale, assistente del direttore di Radio Rai1 e dei Radiogiornali, Antonio Preziosi.
Dipendente di veloce carriera, la De Pasquale è la compagna di Roberto Gasparotti, da vent'anni uomo immagine di Silvio Berlusconi.
Qualche giornalista, obiettore di coscienza, rompe l'embargo e pronuncia sommessamente la parolina incriminata: profilattico. Chi avrà ispirato la coppia Preziosi-De Pasquale? Non certo il ministero della Salute che, per smentire, commette una gaffe mostruosa: “Nessuna interferenza. La giornata radiofonica è gestita da viale Mazzini. Anche il ministero, però, non usa il termine preservativo per le pubblicità e il manifesto studiati per la ricorrenza”. E difatti con le perifrasi sono maestosi.
La campagna di comunicazione del ministero è soltanto un'immagine surreale e di complicata interpretazione: un pugno chiuso contro una mano aperta su sfondo rosso, non certo un preservativo gigante come il cartonato esposto in piazza Montecitorio.
IL MOTTO punta la cura più che la prevenzione: “Non abbassare la guardia. Fai il test”. Il tradizionale e planetario condom è sostituito dal “concetto”, proprio come si augurava la De Pasquale. Obiettivi d’informazione del ministero, si legge sul sito ufficiale: “Aumentare la percezione del rischio. Contrastare l'abbassamento dell'attenzione della popolazione nei confronti del problema Aids. Promuovere un'assunzione di responsabilità nei comportamenti sessuali”. Perfettamente in linea con una campagna di comunicazione che, per rinnegare se stessa, deve farsi capire poco e male.
A Radio Rai protestano uno per volta, senza dare l'impressione di sconfessare il potentissimo Preziosi, già candidato per la successione di Augusto Minzolini al Tg1. Nessuno dei destinatari del divieto, firmato Preziosi-De Pasquale, segnala l'episodio al comitato di redazione. Quando il sindacato interno raccoglie le prime voci di corridoio e comincia a chiederne spiegazioni, interviene il direttore Preziosi che, giocando d'anticipo, scarica la responsabilità sull'assistente e di conseguenza sul direttore generale Rai, Lorenza Lei: “Non ne sapevo nulla. L'indicazione proveniva da viale Mazzini. La mia segreteria ha sbagliato a girare la lettera, e quindi mi sono incazzato con entrambi”. Non avesse spedito la lettera, avrebbe fatto bene. Anche per Preziosi vale la regola del “concetto”: mai dire le cose per intero, meglio fare il vago.

Corriere della Sera 2.12.11
E la Rai abolì la parola profilattico
La Rai nel giorno dell'Aids: non dite «profilattico»
Email interna: è la linea del ministero della Salute
di Maria Teresa Meli

qui segnalazione di Monica Angelini

Corriere della Sera 2.12.11
L'Italia e la corruzione: in classifica dopo il Ruanda
Giù al sessantanovesimo posto. Le promesse fallite
di Gian Antonio Stella


Giù giù giù: 36 posizioni perse in quindici anni: fossimo retrocessi così nel calcio, apriti cielo! Ma è peggio, molto peggio: l'ultima classifica di Transparency International, che misura la percezione della corruzione, ci vede scivolare al 69º posto. Alla pari con le isole Samoa, la Macedonia, il Ghana. Alle spalle di Paesi come Namibia, Ruanda, Portorico… Non è solo una umiliazione: è un problema economico. Perché dovrebbero investire da noi?
Capiamoci: Transparency non è la Bibbia. E non è detto affatto che l'Italia sia davvero più corrotta di Cuba, della Turchia o della Lettonia. Diciamo di più: è lecito dubitarne. Ma vale per questa come per le classifiche internazionali sulle nostre università, drammaticamente staccate dalle posizioni di testa. Ammesso che le graduatorie, fondate sulla percezione degli operatori economici o dei docenti universitari, siano con noi punitive, segnalano un guaio molto grave: godiamo di una pessima reputazione.
La stessa serie storica della hit parade dei Paesi meno corrotti elaborata da Transparency dice tutto. Le prime dieci nazioni virtuose di oggi (in ordine: Nuova Zelanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Singapore, Norvegia, Olanda, Australia, Svizzera e Canada) sono esattamente le stesse (chi un po' più avanti, chi un po' più indietro) del 1995. E un po' tutta la classifica è piuttosto stabile. Solo noi andiamo spaventosamente a ritroso: eravamo quindici anni fa, mentre si svolgevano molti processi per Tangentopoli, al 33° posto. Siamo scesi dieci anni dopo, nel 2005, al 40°, nel 2008 al 55°, nel 2009 al 63°, nel 2010 al 67°. E quando pareva che già fossimo caduti così in basso da non poter precipitare ancora siamo sprofondati quest'anno al 69° posto.
Una sorpresa? Per niente. Tanto che un anno e mezzo fa, nella scia di una serie di scandali, il governo Berlusconi che aveva sostanzialmente svuotato tra le polemiche l'Alto commissariato per la lotta alla corruzione voluto dall'Onu, si paracadutò a varare una legge anticorruzione salutata, tra squilli di tromba e rullare di tamburi, come la più severa mai varata a memoria d'uomo. «È una stretta decisiva e definitiva contro un malcostume che talvolta ha inquinato l'amministrazione della cosa pubblica, dello Stato, il Parlamento e la politica stessa», tuonò Maurizio Gasparri. «Abbiamo dimostrato che la nostra forza politica, a differenza del passato, nella lotta alla corruzione vuole essere inflessibile», confermò Ignazio La Russa. Sì, ciao. Sparati nel firmamento i fuochi artificiali, hanno riposto tutto in un cassetto.
Anche i clamorosi arresti ai vertici della Regione Lombardia non hanno fatto che confermare ieri la sensazione di una poltiglia appiccicosa e ammorbante. La stessa descritta l'anno scorso da Beppe Pisanu che, forte dell'esperienza accumulata al Viminale, spiegò in un'intervista al Corriere che no, la situazione non era per niente paragonabile a quella precedente allo scossone di Mani Pulite: «Per certi versi siamo oltre. Allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti. Oggi è la coesione sociale, è la stessa unità nazionale a essere in discussione, al punto da venire apertamente negata anche da forze di governo. Si chiude l'orizzonte dell'interesse generale e si aprono le cateratte dell'interesse privato, dell'arricchimento personale, della corruzione dilagante».
Ricordiamo com'era, prima di Tangentopoli? Nel solo 1991 che precedette il cataclisma, disse uno studio del centro Einaudi di Torino, il «presumibile ammontare dei maggiori costi sostenuti dallo Stato per effetto della discrezionalità della decisione politica», cioè delle bustarelle, era stato tra i 4.500 e 6.500 miliardi. In un solo anno. Per non dire del decennio precedente, quando i partiti e i tangentari più insaziabili si erano impossessati «da un minimo di 46 mila a un massimo (più probabile) di 110 mila miliardi». Una somma enorme. Che aveva inciso sul debito pubblico: «Sui circa 150 mila miliardi di deficit 1991 la quota imputabile alle tangenti dell'anno e agli interessi sul debito cumulato a causa delle tangenti dal 1980 in poi equivale a 15-25 mila miliardi, ossia dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo». Un settimo, forse un sesto.
Pareva che quell'ondata che spazzò via la Prima Repubblica dovesse essere di monito. Errore. Lo ha dimostrato con i suoi studi Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di quella stagione: «È tutto come prima, peggio di prima». Lo ha confermato ufficialmente il procuratore generale della Corte dei conti, Furio Pasqualucci, nella relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2008: «Il fenomeno della corruzione all'interno della Pubblica amministrazione è talmente rilevante e gravido di conseguenze in tempi di crisi come quelli attuali da far più che ragionevolmente temere che il suo impatto sociale possa incidere sullo sviluppo economico del Paese anche oltre le stime effettuate dal servizio Anticorruzione e trasparenza del ministero della Funzione pubblica, nella misura prossima a 50/60 miliardi di euro all'anno costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini». Sessanta miliardi: ci risparmieremmo una finanziaria di lacrime e sangue.
Non è solo una questione di moralità. C'è anche quella. E pesa. Ma non è solo una questione di moralità. Lo stesso Benedetto Croce, in «Etica e politica», scriveva nel 1930: «È strano che, laddove nessuno — quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica — chiede un onest'uomo, ma tutti chiedono e cercano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina, nelle cose della politica si chiedano invece non uomini politici, ma onest'uomini, forniti tutt'al più di attitudini d'altra natura. Ma che cos'è dunque l'onestà politica? L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico è la sua capacità di medico, che non rovina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Qual è il guaio? Che non abbiamo avuto in questi anni né l'una (la capacità politica) né l'altra (l'onestà) e paghiamo per questo un prezzo spropositato.
Nella paralisi dei cantieri delle infrastrutture, che da noi costano immensamente più che negli altri Paesi europei. Nei ritardi sul versante delle riforme indispensabili, che sottrarrebbero alla cattiva politica il potere di interdizione e di ricatto. Nel crescente allargamento della forbice tra Nord e Sud. Nella montante sfiducia verso di noi non solo dei bucanieri della speculazione internazionale ma anche degli investitori tradizionali.
Basti rileggere il rapporto Svimez del 2007: «Negli anni 2000-2005 l'Italia ha ricevuto il 4,2% degli investimenti esteri in entrata nell'Unione Europea, meno di un terzo di quelli di Germania, Gran Bretagna e Francia e poco più della metà di Olanda e Spagna». Quanto alle Regioni del Mezzogiorno, «hanno ricevuto nel 2006 appena lo 0,66% degli investimenti esteri entrati in Italia». E da allora, con la crisi, le cose sono addirittura peggiorate. A danno ulteriore del Sud, individuato a torto o a ragione come un'area in cui, all'arretratezza delle infrastrutture si somma il costo di una politica esageratamente ingorda. Lo conferma il dossier 2001 sul «grado di multinazionalità», cioè il rapporto tra addetti in imprese italiane di proprietà estera e addetti complessivi: «Centro-Nord 6,2%, Mezzogiorno 1,2%, Calabria 0,4%, Sicilia 0,3%». E si torna alla domanda iniziale: perché mai uno straniero dovrebbe venire a investire qui, per usare una vecchia battuta berlusconiana, con la bustarella in bocca?

Corriere della Sera 2.12.11
Stipendi, italiani penultimi in Europa
Il confronto con i cedolini dei grandi Paesi dell'Ue
di Enzo Riboni


Li vogliono ma non li pagano. Non almeno quanto richiederebbe il confronto con il resto d'Europa. È il paradosso che stanno vivendo i neolaureati italiani, sottopagati rispetto agli omologhi europei. Che le aziende ne abbiano bisogno, proprio ora per reagire alla crisi con immissioni di forze nuove più qualificate, lo certifica il Sistema Excelsior di Unioncamere: rispetto al 2010 la domanda di laureati è cresciuta dell'8%.
Che invece le retribuzioni d'ingresso dei giovani siano bloccate da troppo tempo l'ha sostenuto anche il governatore di Bankitalia Ignazio Visco solo una settimana fa. Tanto più che, tra i giovani, sono soprattutto i laureati a soffrire per stipendi inadeguati. Lo documenta l'indagine retributiva 2011 di Towers Watson, appena conclusa su un campione di 450 aziende medio-grandi con un totale di 150 mila dipendenti.
Mentre infatti lo stipendio iniziale di un italiano fresco di laurea si è collocato su una media di 23.500 euro lordi l'anno, quello del suo collega tedesco l'ha surclassato dell'83% piazzandosi a quota 43.000 euro. Meno clamoroso ma comunque sensibile il distacco di britannici e francesi, che sopravanzano i giovani italiani di quasi il 25%, rispettivamente con 29.200 e 29.000 euro. Tra i grandi paesi europei gli unici neolaureati che guadagnano un pò meno degli italiani (-4,3%) sono gli spagnoli con 22.500 euro.
L'aggravante è che il laureato italiano non recupera neppure quando cresce la sua esperienza, perché il gap retributivo resta invariato anche dopo 5 anni dall'assunzione, con i nostri giovani che in media guadagnano 33.000 euro contro i 60.000 dei tedeschi, i 40.900 degli inglesi, i 40.000 dei francesi e i 30.000 degli spagnoli. Tenendo poi conto che per livelli di reddito di questo tipo la tassazione è pressoché uguale in tutti i Paesi considerati (più bassa in Uk ma con minore copertura sociale) e che il costo della vita a Parigi e Londra supera di circa il 15% quello di Roma e Milano quasi solo sugli alloggi, si deve concludere che il potere d'acquisto reale dei nostri giovani resta decisamente al di sotto di quello degli altri europei.
«Il problema sta proprio nella bassissima retribuzione all'ingresso che rende poi costante il delta negativo con il resto d'Europa — commenta il responsabile delle indagini retributive di Towers Watson Rodolfo Monni —. Tanto più che proprio gli stipendi iniziali dei neolaureati sono stati quelli maggiormente penalizzati negli ultimi cinque anni. Mentre infatti per loro la crescita salariale tra il 2006 e il 2011 è stata di meno del 9%, per il personale con esperienza si è collocata attorno al 20%».
Sostenere che in Italia laurearsi non paghi sarebbe però un errore, perché è evidente il vantaggio sulle retribuzioni dei diplomati che, all'ingresso, guadagnano 20.500 euro lordi e, dopo 5 anni, 26.000 euro. Anche se si conferma che da noi lo studio rende meno che in Germania, Regno Unito, Francia e anche Spagna: appena assunto un laureato italiano guadagna il 14,6% in più di un diplomato, contro il +41,6% per un francese e il +25% per uno spagnolo, tedesco o britannico. E più è alto il titolo di studio, più i giovani italiani soffrono rispetto all'estero. Fatto 100 lo stipendio iniziale di un laureato «semplice», da noi il dottore di ricerca guadagna 109, contro il 131 di Spagna e Belgio, il 129 dell'Uk, il 124 di Francia e Germania e, addirittura, il 175 della Russia.

il Fatto 2.12.11
Rampolli cinesi
I principini comunisti nuova generazione di fenomeni
di Simone Pieranni


Pechino Il Partito comunista ha resistito all’avvento dei contemporanei strumenti di comunicazione, mantenendo uno stretto riserbo sulle proprie dinamiche, scelte e lotte, anche alla vigilia del delicato passaggio di leadership che verrà effettuato nel 2012. Cambieranno il segretario del partito, il presidente, il primo ministro e vari membri dell'attuale Politburo, dando vita alla nuova generazione dei leader cinesi. Andranno al potere i principi rossi ovvero i figli dei padri della Rivoluzione, ormai esperti abbastanza e in grado di tenere le briglie del business cinese. Xi Jinping, che salvo sorprese sarà prossimo segretario e presidente, è figlio di un eroe della rivoluzione poi caduto in disgrazia durante la Rivoluzione Culturale. Sarà il primo del taizidang, il partito dei principi all'interno del Partito comunista, ad arrivare al gradino più alto. Un altro principe rosso è Bo Xilai, figlio di un altro vecchio rivoluzionario, che probabilmente entrerà tra i nove del comitato centrale del Partito comunista: Bo Xilai si è distinto per il suo “ritorno al maoismo” attraverso la rieducazione dei giovani nelle campagne e concorsi canori con canti rivoluzionari.
E QUI SI FERMA il rigoroso segreto, perché i figli dei principi, nipoti dei padri della rivoluzione, chiamati i principini, sono invece personaggi spesso noti, presenti tra le cronache mondane, talvolta arroganti e viziati e cresciuti nel lusso e nell'adrenalina del potere. La loro vita pubblica ormai non è più avvolta nel mistero e le loro avventure creano spesso malumore tra i cittadini cinesi. Un nervosismo che si esprime su Internet e che denuncia una realtà evidente: la maggior parte dei cinesi che gestisce i business più lucrosi del paese, è figlia di vecchie o attuali glorie della politica cinese.
Le famiglie di Xi Jinping e di Bo Xilai, ad esempio, sono molto legate. C'è una nota amicizia dei figli e diramazioni economiche che coinvolgono altri principini. Non mancano i legami “rosa”: il figlio di Bo Xilai pare sia legato sentimentalmente a Chen Xiaodan, che si fa chiamare Sabrina, nipote di Chen Yun, “compagno” fedelissimo di Mao: durante una loro visita in Tibet i due giovani furono scortati dalla polizia, creando numerose polemiche tra il pubblico cinese. Non solo, perché il figlio del “comunistissimo” Bo Xilai, Bo Guagua, classe ‘87, è stato pizzicato in Ferrari di fronte all'ambasciata americana prima di un ricevimento ed è un noto frequentatore della movida pechinese. Discrepanze rispetto alle prediche maoiste del padre che hanno innervosito molti cinesi, anche se il giovane pare avere il carisma del genitore: alle critiche sulla sua presenza a una festa mondana ha risposto con una frase di Mao, “si dovrebbe sempre avere un lato serio e un lato divertente”.
Qualche mese fa, in alcuni cablogrammi rivelati da Wikileaks erano emersi due grandi gruppi all'interno del Partito comunista cinese: i principi, capitanati da Xi Jinping, un figlioccio politico di Jiang Zemin e considerato agganciato al carrozzone degli shanghaiesi e quelli che i principi chiamano con ironia bottegai, ovvero i politici di carriera e non di eredità, tra le cui file sono da inserire l'attuale presidente Hu Jintao e il prossimo primo ministro, nel 2012, Li Keqiang.
In vista del prossimo cambio politico sono stati i principini a uscire allo scoperto, battendo un colpo politico oltre che mondano: il 6 ottobre nell'anniversario della cattura della Banda dei Quattro (1976), molti dei principini si sono incontrati a Pechino, lanciando diversi messaggi politici. Secondo le frammentarie cronache, sarebbe emerso un quadro di solidarietà economica e morale, di affari gestiti insieme e una supposta unità politica. Ma Xiaoli, figlia di un ex capo della scuola del partito, pare sia stata la grande protagonista: “Il Partito comunista è come un medico con il cancro – avrebbe affermato – non può rimuoverlo da solo, ha bisogno di altri”. Ovvero di loro, il partito dei principini: ricchi, politicamente nobili e desiderosi di comandare.

La Stampa 2.12.11
La Cina tira il freno. Produttività ai minimi
Pechino rilancia il credito e mette sul piatto 63 miliardi di dollari
di Ilaria Maria Sala


L’ economia cinese sta rallentando a un ritmo molto più sostenuto del desiderabile, dietro pressioni tanto interne che esterne, e le autorità del Paese hanno reagito per il momento con una drastica e inaspettata inversione di rotta, rilanciando il credito – cioè, diminuendo le riserve di credito obbligatorie delle banche di mezzo punto percentuale, e rendendo disponibili circa 63 miliardi di dollari.
Ieri, l’atteso dato sulla produttività cinese è giunto come una doccia fredda, mostrando la maggior contrazione degli ultimi 33 mesi – ovvero, da quando la Cina era stata colpita dall’ondata negativa della crisi statunitense del 2008. All’epoca, Pechino aveva reagito allo scossone con un’iniezione di contante che aveva rilanciato l’economia favorendo grossi investimenti interni, grandi opere e infrastrutture. Lo stimolo, del valore di 4 trilioni di yuan (586 miliardi di dollari), era servito sia a finanziare la ricostruzione in Sichuan dopo il terremoto del maggio 2008, che per progetti locali di varia natura ed entità – che nel corso degli ultimi due anni avevano contribuito al crearsi di una bolla speculativa, in particolare nel settore dell’immobiliare, che le autorità cinesi volevano affrontare in modo graduale. Già dalla fine dell’anno scorso, le priorità ribadite dal governo cinese erano l’inflazione (che ha raggiunto nel corso di quest’anno punte del 6,5%) e l’evitare dell’accrescersi delle tensioni interne davanti alle forti disparità. Ma la situazione internazionale non sta assistendo in questa difficile transizione, e il crollo degli ordini da Europa e Usa stanno portando la Cina a diminuire la produzione e a cancellare a sua volta alcuni ordini dall’estero.
Resta ancora da affrontare il debito dei governi locali, venuto a galla nei mesi scorsi e stimato a 1,12 trilioni di euro – un prodotto diretto dell’iniezione di liquidità iniziata nel 2008, e che sta pesando in modo notevole sulla percezione dei mercati e degli investitori internazionali rispetto alla salute economica cinese a breve e medio termine. Il quadro che esce dalla Cina è di una certa complessità, caratterizzato da una serie di tensioni contraddittorie che vedono da un lato un’inflazione scottante (oggi al 5,5%) e una serie di aumenti degli stipendi degli operai nelle aziende manifatturiere (in seguito a una serie di scioperi lo scorso anno), dall’altro un esteso debito locale a cui si era cercato di ovviare scoraggiando nuovi prestiti, e una pericolosa bolla speculativa immobiliare che potrebbe continuare a dare problemi negli anni a venire.
Già da quest’estate le banche cinesi avevano ricevuto l’ordine di rallentare i prestiti ai privati (continuando però a finanziare l’enorme settore statale), portando a una crisi di liquidità in particolare nei centri economici più dinamici come il Zhejiang e il Jiangsu (le regioni costiere intorno alla città di Shanghai). Questo, a sua volta, ha dato il via ad alcuni clamorosi casi di chiusure improvvise di aziende troppo indebitate, e al fiorire di istituti di prestiti clandestini per far fronte all’imprevista mancanza di liquidità, e a misure regionali straordinarie. Continuano però anche gli scioperi di lavoratori, privati delle ore di straordinario in vista della diminuzione degli ordini, che si ritrovano così a contare solo su stipendi base di 130 euro mensili.
La scorsa settimana il vicepremier cinese Wang Qishan aveva dichiarato che una recessione globale è ormai “cosa certa”, mentre la Banca Mondiale ha previsto questo martedì una crescita cinese dell’8.4% per il 2012 - una percentuale considerata rischiosa vista la dipendenza cinese alla crescita, e la possibilità di uno scoppio rapido della bolla.
In una congiuntura così inusuale, Pechino si ritrova alle prese con un’economia interna drogata dal massiccio stimolo ma dove i consumi faticano a partire, e arrestata all’esterno dalla testarda crisi delle economie sviluppate, da cui la Cina è tuttora dipendente sia per l’esportazione (già in diminuzione anche per le spinte inflazionarie) che per gli investimenti.

Corriere della Sera 2.12.11
La crisi occidentale manda in affanno la locomotiva cinese
di Marco Del Corona


PECHINO — I primi a non essere sorpresi sono anche coloro che sono i più preoccupati. La leadership cinese sta monitorando i segni della crisi che cominciano a intaccare anche la seconda economia del mondo, uscita praticamente intatta dalla tempesta del 2008-2009. L'ultimo segnale è arrivato ieri, quando dati ufficiali hanno segnalato la prima contrazione della produzione manifatturiera in 33 mesi, con l'indice Pmi che è sceso sotto lo spartiacque dei 50 punti, che separa espansione (sopra) da riduzione (sotto). Il valore di novembre è 49 e arriva una settimana dopo una valutazione analoga della banca Hsbc, che stimava un Pmi a 47,7.
Il malessere cinese ha molti sintomi, alcuni dei quali risentono delle convulsioni dell'eurozona, che colpiscono l'export cinese. Mercoledì la banca centrale aveva ridotto per la prima volta in tre anni le riserve obbligatorie degli istituti di credito, uno 0,5% in meno che significa nuova liquidità e nuove risorse sul mercato. Una svolta dopo una fase in cui l'intervento centrale si era orientato a contenere l'inflazione, ora sotto la soglia del 6%. La mossa della banca centrale dovrebbe mettere in circolazione fra i 350 e i 400 miliardi di renminbi (tra i 40 e i 45 miliardi di euro).
Il rallentamento dell'economia cinese però è inesorabile. Il Pil è calato dal 10,4% dell'anno scorso al 9,7% del primo trimestre, al 9,5% del secondo e al 9,1% del terzo. Un raffreddamento dell'economia era stato auspicato a più livelli, in Cina, tuttavia tutto sembra accadere con troppa fretta. Giù anche il mercato immobiliare, che secondo l'indice Creis in novembre è sceso per il terzo mese consecutivo (meno 0,3%), una dinamica collegata ai flussi del credito. Sono segnali che hanno contribuito a modellare l'atteggiamento di preoccupata prudenza di Pechino rispetto alla crisi dell'euro. Invocato in Europa, l'intervento cinese sotto forma di acquisti massicci di bond non si è verificato e anzi sia la Repubblica Popolare sia l'Unione Europea sembrano più concentrate ciascuna sui propri problemi che sull'ansia di sedersi a un tavolo. Il vertice sino-europeo previsto a Tianjin a fine ottobre e rinviato non è stato ancora riprogrammato.
Il momento politico drammatizza i crudi dati numerici, perché mancano 10 mesi al congresso del Partito comunista che avvierà il ricambio della leadership. Occorre arrivarci con una situazione economica quantomeno sotto controllo, anche perché un incremento del Pil sotto la soglia-feticcio dell'8% potrebbe stravolgere i meccanismi occupazionali, già ora in fase di trasformazione. Cambia la geografia del lavoro, cambiano i costi. Esempio: Shenzhen, che per attrarre manodopera alzerà a gennaio il salario minimo del 15%, dopo averlo già incrementato del 20% in aprile.

Corriere della Sera 2.12.11
L’onda islamica e quel modello turco (quasi) Impossibile
di Antonio Ferrari


Il segnale di quel che poi sarebbe accaduto con le primavere arabe si poteva cogliere già cinque anni fa, quando Hamas trionfò alle elezioni palestinesi. Elezioni che erano state fortemente volute dall'Amministrazione americana di Bush, nella convinzione che i laici del Fatah le avrebbero vinte agevolmente. Invece accadde il contrario, con un corollario di sorprese aggiuntive, come quella dei molti arabi-cristiani di Palestina che preferirono le promesse dei fondamentalisti di Gaza alle dubbie certezze dell'Anp di Abu Mazen.
Quella lezione avrebbe dovuto rivelare uno scenario prossimo venturo sicuramente scomodo ma indubbiamente realistico. Quanto sta avvenendo in tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che si sono liberati di dittatori e tiranni, o che hanno evitato violenze e decapitazioni scegliendo il riformismo e la via di immediate e libere (o quasi libere) elezioni, è abbastanza semplice. Dove si è già votato, i partiti islamisti hanno vinto, e in qualche caso hanno stravinto come suggeriscono i primi risultati delle elezioni egiziane. Ora si può esser certi che un identico risultato si materializzerà dappertutto, quando altri popoli arabi andranno a votare.
La prima considerazione è ormai chiara. Tutti gli strumenti di analisi che sono stati utilizzati per decenni, e che erano appropriati al tempo della guerra fredda e forse nei primi anni che seguirono gli attentati alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001, devono essere aggiornati. In qualche caso resettati, perché ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, importante e complesso: l'affermazione generalizzata dell'Islam politico. Alcuni lungimiranti studiosi avevano previsto che il crepuscolo definitivo degli stati nazionali arabi, già fortemente indeboliti negli anni '70 con l'esaurimento della spinta nasseriana, era ormai imminente. Sia per la debolezza dei regimi che li rappresentavano, sia per l'impossibilità di arginare le pulsioni di popoli costretti ad essere quasi invisibili: popoli che hanno scoperto, nel mondo globalizzato, valori, opportunità e speranze dai quali erano stati esclusi. Il cambiamento è stato accelerato dalla società civile e dall'affermazione di tre soggetti: i giovani, le donne e il web. In realtà, i dividendi politici delle rivolte non sono poi andati a chi le aveva condotte, ma a forze ben più organizzate che, rientrate dal confino o uscite dalla clandestinità nella quale erano state spinte dai vari regimi, sembrano pronte a prendere il potere.
Non sarà un passaggio facile, e i rischi di derive estremiste non possono essere esclusi. Ma sono le coordinate dei partiti islamici emergenti, in Tunisia, in Marocco, in Egitto, e probabilmente domani in Libia, a suggerire una riflessione. Anche i nomi delle forze e dei movimenti vincitori richiamano un preciso modello: quello turco dell'Akp (Giustizia e sviluppo), cioè il partito islamico moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan. Il grintoso primo ministro, al timone di un Paese che gode di una crescita eccezionale, che è crocevia strategico di tutti i corridoi energetici della regione, e che si è dotato di una politica estera presuntuosa ma anche decisamente efficace, potrebbe diventare — lo prevedono in molti — il condottiero della potenza egemone del Mediterraneo.
Non è un mistero che Erdogan guardi al mondo arabo e più in generale musulmano con un interesse che la laicissima Turchia del passato non aveva mai avuto. Ricambiato con calore dalle forze politiche e dai popoli che stanno cominciando ad assaporare la libertà. Si potrebbe persino dire che si torna al punto da cui tutto ha avuto origine. L'impero ottomano, soprattutto nella seconda metà dell'800, aveva diffuso nei propri sterminati territori l'esempio e la cultura di una relativa autonomia, come accadde ad esempio in Libano, quando i cristiani maroniti offrivano alla Sublime Porta la preziosa esperienza diplomatica e commerciale che avevano maturato. È quanto ricostruisce puntigliosamente, nel suo bel libro su «I Cristiani e il Medio oriente dal 1798 al 1924», il professor Giorgio Del Zanna, dell'Università Cattolica di Milano. Oggi, dopo la fine dell'impero, la fondazione della repubblica turca voluta da Kemal Atatürk, e la vittoria (che sembrava inimmaginabile) di un partito islamico-moderato, Ankara torna a percorrere gli antichi sentieri dell'influenza ottomana. Diventando un modello, quantomeno una fonte di ispirazione.
Ma la Turchia è un paese democratico con istituzioni laiche, con la chiara separazione fra Stato e religione, e il partito islamico Akp, pur avendo una base confessionale, è diventato un moderno contenitore di idee e di interessi. Nel mondo arabo, invece, si è ancora decisamente indietro. Certo, l'Egitto ha strutture più solide di altri paesi, la Tunisia ha una classe dirigente che è eredità del passato coloniale francese, il Marocco ha conosciuto il valore e la necessità del riformismo. Ma nessuno può specchiarsi, per ora, nel sistema politico turco. Le vittorie dei partiti confessionali arabi indicano una direzione, ma non la strada che intendono percorrere o il programma che vogliono realizzare. È questo il dilemma che i risultati elettorali in alcuni paesi delle cosiddette «primavere arabe» ci propongono. Un dilemma vero, sperando che non diventi motivo di angoscia.

Corriere della Sera 2.12.11
«Il mondo arabo sarà democratico. Ma ci vuole tempo»
Il presidente dell'Assemblea Onu a Roma
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Per voi è la ‘primavera araba'. Io preferisco parlare di risveglio: il 2011 coi suoi cambiamenti di governo è stato un passaggio davvero storico per il mondo arabo. L'attenzione è stata spesso concentrata sull'Egitto, dove ora si vota. Ma ci sono anche le elezioni in Tunisia, quelle in Marocco, le consultazioni annunciate dallo Yemen per il prossimo febbraio».
Nassir Abdulaziz Al-Nasser, il presidente dell'Assemblea generale dell'Onu che oggi arriva in Italia per incontri ufficiali con le autorità italiane (a cominciare dal presidente Giorgio Napolitano) e per presiedere un vertice della Fao, pesa le parole. Una cautela imposta dal suo ruolo internazionale, ma è evidente tutto l'orgoglio di questo esponente del Qatar per i cambiamenti che stanno interessando il suo mondo.
Le rivolte non hanno suscitato attese eccessive? Abbiamo visto molte proteste represse nel sangue mentre analisti di grande spessore come Bernard Lewis sostengono che cercare di imporre istituzioni democratiche di tipo occidentale a Paesi che hanno storie e tradizioni totalmente diverse è sbagliato.
«Certo, la democrazia degli arabi va basata sulla cultura e le tradizioni di questo mondo: non possiamo importarla dall'Europa o dagli Stati Uniti. Ma attenzione, parliamo di valori che non ci sono affatto estranei: il mondo arabo in passato ha avuto anche governi democratici e per periodi abbastanza lunghi. Poi, purtroppo, rivoluzioni e dittature hanno prodotto una sorta di ‘sequestro della democrazia'. Ora, finalmente, si riaprono le porte. Certo, non sarà facile. Ci saranno ostacoli piccoli e grandi. È nella natura della democrazia: quando cambi regime, quando se ne va un presidente dopo 30 o 40 anni, i contraccolpi sono inevitabili. Ci vuole tempo. Ma la svolta è comunque salutare, di grande crescita per la regione».
A parte i nuovi sanguinosi scontri in Egitto, c'è il macigno della Siria: il regime di Assad continua la sua repressione feroce, sordo ai richiami della comunità internazionale. Col Consiglio di Sicurezza bloccato dalle minacce di veto di Russia e Cina, l'Onu ha fatto poco. Vede spazi per un ruolo più attivo?
«La Commissione dell'Assemblea generale che si occupa dei diritti umani ha adottato di recente una risoluzione di forte condanna per violazioni continue, gravi e sistematiche dei diritti essenziali dei cittadini siriani, perpetrate dalle autorità di Damasco. Dopo quel pronunciamento si è mossa la Lega Araba che ha chiesto con forza alla Siria di cambiare rotta. Sfortunatamente quel regime non ha compiuto i passi necessari. Ciò ha spinto la Lega Araba a varare un pacchetto di sanzioni. È una novità straordinaria: per la prima volta questo organismo affronta i problemi interni di uno Stato membro. Un serio tentativo di evitare che la Siria — un Paese molto importante nel mondo arabo — precipiti definitivamente nella violenza e nella guerra civile. Se Damasco non risponderà nemmeno adesso, sarà la stessa Lega Araba a chiedere all'Onu di intervenire».
Quali speranze per la Libia?
«Appena assunta la presidenza dell'Assemblea, a settembre, mi sono battuto perché a rappresentare il Paese al Palazzo di Vetro fosse il nuovo governo provvisorio e non il vecchio regime. Oggi mi sento di dire che la transizione procede a passo spedito, come ho constatato di persona quando, qualche settimana fa, ho visitato la Libia insieme al Segretario generale, Ban Ki-Moon. L'Onu è impegnato in una missione di supporto in Libia e ha ottenuto impegni dal governo provvisorio sul ritorno al rispetto dei diritti umani, e sul varo di una riforma della Costituzione, con libere elezioni da organizzare entro 8 mesi. Un processo nel quale l'Italia, che ha una relazione storica con la Libia, potrà giocare un ruolo molto importante».
Toccherà a lei affrontare, in Assemblea generale, la questione del riconoscimento della Palestina?
«Come sa, il presidente della Palestina ha consegnato al Segretario generale una richiesta da inoltrare al Consiglio di Sicurezza. Dove c'è una situazione non chiara: pare che non ci sia una maggioranza favorevole all'ammissione. Non so cosa farà Abbas: andare comunque in Consiglio, anche senza avere i voti? È una scelta molto politica. Io mi limito a fare presente che è più facile passare in Assemblea generale dove basta la maggioranza semplice del 50 per cento del consensi più uno. Per i palestinesi sarebbe comunque un grande passo avanti».
Lei ha posto la riforma dell'Onu tra gli obiettivi prioritari della sua presidenza. Ma quella del Consiglio di Sicurezza, la più essenziale, è bloccata da anni dai veti incrociati. Idee per uscirne?
«È uno degli argomenti delle mie conversazioni a Roma, anche perché l'Italia è sempre stata un protagonista attivissimo di questa complessa partita. Cercherò di sbloccare la situazione organizzando all'inizio del prossimo anno un ritiro in una località vicino New York. Coi principali protagonisti che potranno discutere, esplorare possibili compromessi, senza la rigidità delle sedi ufficiali».

La Stampa 2.12.11
Christa Wolf Cassandra comunista
La scrittrice tedesca è morta ieri a Berlino. Aveva 82 anni. Fu la voce del dissenso nella Ddr, ma ebbe rapporti (presto interrotti) con la Stasi
di Luigi Forte


La scrittrice Christa Wolf (qui in un ritratto di Paolo Galetto) si è spenta a Berlino, all’età di 82 anni. L’annuncio è stato dato dalla casa editrice Suhrkamp Verlag. Nata nell’attuale Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale si ritrova nella Germania Est. Laureata all’Università di Jena negli Anni 50 sposa lo scrittore Gerhard Wolf. E’ stata una delle maggiori voci del dissenso nella Germania Est
Alzandosi in volo con la fantasia fra Santa Monica e Malibu alla fine della sua tormentata autoanalisi, La città degli angeli, Christa Wolf si stava forse congedando dalla vita. Guardava lontano, oltre la bellezza e le profonde contraddizioni del mondo, che lei, scomparsa ieri a 82 anni, ha cercato in tutti i modi di rendere feconde e produttive nella sua narrativa. Si sentiva leggera, pronta a guardare in faccia la realtà dopo le pesanti polemiche scaturite dalla divulgazione all’inizio degli Anni 90 dei dossier dei servizi segreti della Ddr. L’accusa di aver collaborato, sia pur in modo informale e senza alcuna delazione per un brevissimo periodo con quella stessa polizia che la spierà per oltre trent’anni, non poteva del resto intaccare una figura che col tempo era diventata l’espressione della coscienza morale e critica di un Paese, l’icona di una Germania che voleva declinare libertà e democrazia con la più nobile tradizione del socialismo, lontana anni luce dal regime di Ulbricht e Honecker in cui pure aveva vissuto.
Col tempo la Wolf era diventata sempre più nemica dell’ideologia come concezione chiusa del mondo che amava piuttosto interrogare e incalzare. Già nelle prime opere come Il cielo diviso oRiflessioni su Christa T. i dubbi si spartivano la scena, anche se la realtà della Ddr, in cui si era trovata dopo il 1945 e dove aveva studiato, a contatto con un grande maestro come Hans Mayer, non veniva messa in discussione. Il suo sguardo si nutriva di utopia: «In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile», diceva Christa T. che non faceva mistero delle difficoltà del socialismo. In quel contesto la Wolf ha espresso in più occasioni la nuova soggettività capace di far emergere i bisogni interiori dell’individuo, dando fiato a un’arte che cercava di arginare brutalità dei tempi e rigurgiti stalinisti. Nel breve ed intenso romanzo Nessun luogo. Da nessuna parte del 1979, la scrittrice ha immaginato un incontro fra Kleist e la poetessa Karoline von Günderrode, una delle protofemministe della letteratura tedesca. Nel segreto dialogo di occhi e di anime soverchiate dalla violenza e volgarità del mondo, essa ha cercato una propria identità come narratrice: «Scrivere - annotò in un saggio - è anche un tentativo contro il gelo». Ma non scelse la torre d’avorio, l’isolamento o l’esilio, come, ad esempio, Günter Kunert o Reiner Kunze. Anzi, divenne membro del partito e per un certo periodo fu anche nel Comitato Centrale. Ad Ovest qualcuno gridò allo scandalo, bollò il suo atteggiamento come opportunista. Lei in realtà non si stancava di credere nel pessimismo della ragione riaffermando, nei romanzi come nei saggi, un’esistenza nel socialismo affrancata da limitazioni, confini o divieti. Forse questo sogno le ha impedito di cogliere fino in fondo l’abisso in cui lentamente stava scivolando un regime sempre più autoritario.
Seppe però guardare indietro con grande disincanto nel suo fluviale romanzo Trama d'infanzia (1976), dove ridisegnò se stessa nel personaggio della piccola Jenny Jordan. In quella saga della memoria articolata in una complessa scrittura polifonica la Wolf ripercorse i tempi bui del nazismo filtrando criticamente il passato per opporsi ad ogni forma di oblio. Non accettò l’ipotesi che la gente che abitava ad Est, nel socialismo reale, fosse stata indenne da ogni complicità: così il romanzo divenne un atto di coraggio politico in una nazione che aveva fatto dell’antifascismo il proprio vessillo. Forse, proprio per quel passato Christa Wolf ha alimentato fino al paradosso le sue speranze nel socialismo dal volto umano. «I momenti di felicità sono rari, la rabbia e la tristezza continuano a prevalere», diceva. La sua voce aveva già gli accenti dell’infelice Cassandra, inascoltata e solitaria, di cui farà uno splendido ritratto nell’omonimo romanzo del 1983.
Attraverso figure del mito la scrittrice proseguì la sua lotta contro il potere che, anni dopo, nel 1996, troverà in Medea, riplasmata in chiave autobiografica, l’icona della donna che rintraccia una propria inerte, dolorosa identità nell’isolamento. «Sono libera - afferma -. Senza desideri ascolto il vuoto che mi colma». È un destino lacerante che coglie anche la Wolf alle prese con una realtà che sembra sfuggirle dopo la dissoluzione del suo Paese. Non a caso nel romanzo Recita estiva pubblicato proprio nel 1990 echeggia una malinconia che rasenta torpore e stanchezza. È un intenso flash su un gruppo di amici intellettuali riuniti nella campagna del Meclemburgo che dissimula a malapena il senso costante della fine. Quello stesso che più tardi, nel breve romanzo In carne e ossa (2002), diventa il calvario di un corpo riottoso e ingovernabile, di una fisicità che dilaga per le pagine come in una terra desolata e misteriosa. Qui la malattia apre un varco fra scrittura e realtà: tutto è fluttuante e imprevedibile. E affida al corpo il compito di registrare i traumi del passato, di esemplificare attraverso la propria incerta avventura la patologia della storia. Il conflitto permanente nelle pagine della Wolf fra individuo e società fluisce in uno spazio quasi claustrofobico dove anche il grande sogno socialista è svanito. Forse è il caso di credere all’impossibile, come diceva lei, per non soccombere ai veleni della storia e praticare la libertà.

Corriere della Sera 2.12.11
Christa Wolf, scrittrice divisa
La rilettura dei miti di Cassandra e Medea, la discussa difesa della «sua» Germania Est
di Isabella Bossi Fedrigotti


Gli uomini e le donne sono la loro storia. E si sa che l'imprinting che si riceve nell'infanzia e nell'adolescenza è quello che poi segna tutta la vita. La scrittrice Christa Wolf, morta ieri a Berlino, era nata nel '29 nell'estrema Germania orientale — che oggi è Polonia — dove da ragazza sperimentò un doppio tragico evento: quello di ritrovarsi suddita del regime totalitario hitleriano e di dover, dunque, servirlo, inquadrata nella formazione giovanile nazista riservato alle femmine, il Jungmaedchenbund, e quello della disperata fuga in massa dai territori orientali del Terzo Reich di fonte all'avanzata dell'esercito sovietico.
Si può dire che l'autrice, scomparsa ieri a ottantadue anni, sia in un certo senso rimasta marcata da questi due eventi, laddove il primo si dimostrò il più potente, forse perché figlio di una ideologia, peraltro violentissima. Divenne, infatti, marxista e lo rimase a lungo, strenua sostenitrice della Ddr e del suo regime, sia pure liberticida, dissanguato dai famosi piani quinquennali nonché da una difficoltosa ma sistematica fuga dei cervelli verso l'Ovest. Proprio per questo più di una volta ella si appellò ai suoi concittadini pregandoli di non abbandonare la patria: famosa rimase l'ultima, quando l'8 novembre 1989, solennemente si rivolse loro per cercare di fermare il fuggi fuggi generale verso l'Ungheria, dove il regime aveva aperto un varco. Parole gettate al vento in tutti i sensi, perché già l'indomani, sia pure a sorpresa, caddero tutte le barriere con l'Occidente e la Germania Est letteralmente si svuotò. Pensare — lo avrà di certo pensato anche lei, stabilitasi da una vita a Berlino — che la nuova capitale tedesca, in particolare la sua zona orientale, attira oggi, come fosse una Mecca, frotte di giovani da tutto il mondo.
Critica e autocritica vennero anche per Christa, ma in modo quasi ufficiale, soltanto dopo. E, forse anche a causa della sua preponderante personalità politica, molti non glielo perdonarono, tanto da non essere quasi più in grado di apprezzare la sua letteratura, che in alcuni libri tocca livelli altissimi. Quando poi, verso la metà degli anni Novanta, all'apertura degli archivi della Ddr, nella lista dei personaggi che avevano spiato per il regime comparve anche il suo nome, il rancore «politico» nei suoi confronti aumentò, facendo quasi finire in secondo piano la sua opera. E non importa se dagli stessi archivi emersero commenti del tipo «l'informatrice manifesta crescente riserbo», tanto che la fonte fu presto abbandonata in quanto infruttuosa. Né importa che — Le vite degli altri insegna — un grandissimo numero di cittadini, soprattutto quelli in vista, fu in qualche modo ricattato e costretto a spiare pur di avere un po' di requie.
La vastissima opera letteraria di Christa Wolf — fatta di romanzi, saggi, racconti e pagine di diario — è di frequente segnata dall'autobiografia. Così per esempio, uno dei suoi primi scritti Il cielo diviso (dal quale fu tratto un film negli anni Sessanta), che narra della sua esperienza di lavoro in una fabbrica di vagoni ferroviari; oppure Trama d'infanzia, che ripercorre il suo passato nelle formazioni giovanili hitleriane; o, ancora, Che cosa resta, che ha per protagonista una scrittrice famosa spiata dalla Stasi.
Ma sono marcatamente autobiografiche anche alcune delle sue ultime opere, come Un giorno all'anno. 1960-2000, che raccoglie le sue famose pagine di diario scritte per moltissimi anni ogni 27 settembre, nelle quali riflette su politica, storia, letteratura nonché sulla società tedesca prima e dopo l'unificazione; e come Con uno sguardo diverso, otto racconti che in qualche caso si soffermano, in modo discretissimo e, perciò, commovente, su certi tempi della sua vita, per esempio sulla stagione non facile del suo matrimonio.
Forse, però, i toni più efficaci e più alti e, insieme, più umani e appassionati, li ha raggiunti nelle sue due rivisitazioni dei miti classici greci, per le quali resterà indimenticabile. Prima in Cassandra e, tredici anni dopo, in Medea. Voci, Christa Wolf approfondisce e ripensa con sguardo non tanto femminista quanto femminile due tragiche figure di donne, traendole dal mausoleo letterario nel quale dormivano e restituendo loro corpo e voce, vita e sangue, cuore e sentimenti come fossero personaggi contemporanei, ben veri e vegeti. E facendone plausibili protagoniste, con le loro atroci vicende, di cronache — purtroppo nere — di oggi.

Corriere della Sera 2.12.11
Esaltò le voci femminili oltraggiate dalla storia
di Claudio Magris


Ho incontrato Christa Wolf naturalmente a Berlino, in una Berlino che non era più quella drammaticamente e grottescamente divisa che lei ha colto a fondo come pochi altri scrittori. Quella donna affabile e gentile — una gentilezza vera, d'animo — ha scavato in quella scissione che il Muro aveva creato non solo materialmente, ma anche nelle coscienze, nella sensibilità, nella psiche e nella lingua stessa, specialmente in quella letteraria. Gli scrittori che hanno penetrato quel groviglio tragico e assurdo sono soprattutto quelli che lo hanno rappresentato non tanto nella sua realtà esterna, quanto nelle sue lacerazioni interiori, nei suoi lapsus psicologici, nel suo opaco disagio esistenziale, come ha fatto Uwe Johnson nel suo geniale romanzo Congetture su Jakob. Analogamente, Il cielo diviso di Christa Wolf sa narrare con forza poetica quella scissione calata nella dialettica di una storia d'amore, di un rapporto amoroso che è sempre, in qualche modo, unità e divisione.
Christa Wolf ha vissuto con coraggio e dignità le difficoltà di vivere a Berlino Est, anche l'inevitabile fangoso sospetto che avvolge chi vive in un regime basato sulla delazione e sul tradimento. Ha difeso la libertà dell'artista e ha soprattutto rivendicato la libertà femminile, così spesso vilipesa e adulterata nella storia. Ho avuto occasione di discutere con lei la sua Medea, romanzo in cui sostiene l'innocenza della tragica principessa della Colchide, smontando una a una le colpe che la tradizione le attribuisce, soprattutto l'uccisione dei figli in odio a Giasone. Non condividevo quella posizione, perché non si trattava di stabilire l'innocenza o la colpa di una precisa persona reale accusata di un orribile delitto, bensì dell'intuizione tragica del mito, che fa toccare con mano la violenza subìta da Medea da parte maschile proprio mostrando come quella violenza la distrugga sino a snaturarla, a portarla ad annientare se stessa — la propria femminilità, la propria maternità uccidendo i figli. Medea sarebbe meno vittima, meno sfigurata, se fosse innocente. Ciò non diminuisce l'orrore del suo delitto, ma lo imputa anche e soprattutto a chi ne è il primo vero responsabile. È questa l'intuizione della tragedia greca, secoli dopo ripresa, nel Faust, nella sofferenza e nella colpa di Margherita. Ma forse chi, come Christa Wolf, viveva in un mondo intessuto di false accuse infamanti, era naturalmente incline ad essere ossessionato dalla verità fattuale e dal dovere di ristabilirla.
Dissento dalla Medea di Christa Wolf, pur amando quel libro e la sua forza poetica, ma certo se Medea, anziché una figura del mito, fosse stata un personaggio reale ingiustamente accusato, avrebbe trovato in Christa Wolf un valido, strenuo avvocato.


Repubblica 2.12.11
La signora della Germania Est che diede voce a Cassandra
di Vanna Vannuccini


Paziente e ostinata per quarant´anni tutti i 27 settembre ha scritto un diario della sua giornata
Negli anni Ottanta i suoi romanzi ebbero grande popolarità: in Italia fu portata da e/o
È scomparsa a 82 anni: era considerata la più grande scrittrice della DDR. Fu accusata di aver collaborato con la Stasi
In realtà aveva espresso i suoi dubbi sul sistema totalitario comunista: fu sempre difesa dall´amico Grass

Die Stunde Null, l´ora zero, come i tedeschi chiamano la fine della Seconda guerra mondiale, non fu l´ora della verità. In quel momento i tedeschi avevano della verità ancora più paura che dei carri armati sovietici. Il rifiuto di sapere, la non volontà di indagare su se stessi fu l´esperienza determinante in quel momento cruciale della loro storia, quel punto zero in cui s´incrociarono guerra, prigionia, fame, perdita della propria terra, perdita di senso, disillusioni e paura della morte. Fu quell´esperienza che cominciò a scuotere in molti tutte le verità in cui avevano creduto fino ad allora. L´incapacità di portare il lutto, l´estraneità nei confronti delle vittime - in palese contraddizione, ad Est, con il mito fondante della DDR come lo Stato "antinazista" per eccellenza, e ad Ovest, con il pathos di rinnovamento della Germania federale - fu il vissuto traumatico su cui si formò una generazione di scrittori che era nata nel Terzo Reich e ne aveva subìto adolescente il fascino.
Nessuno come Christa Wolf ci ha fatto capire lo stato d´animo dei tedeschi in quel tempo. È una consapevolezza che si accentua ora che la più grande autrice della DDR - malata da tempo - si è spenta ieri a Berlino, all´età di 82 anni.
In uno dei suoi primi, bellissimi racconti, intitolato Blickwechsel, una colonna di profughi sta accaparrandosi dei viveri da un camion di approvvigionamento della Wehrmacht abbandonato su una strada del Mecklenburgo. Siamo nell´aprile del 45. Improvvisamente dal limitare della foresta compaiono delle figure scheletriche, mezzo vestite, scampate da un vicino campo di sterminio. Calpestano le zolle con i piedi nudi insanguinati. E´ evidente che si tratta di un déjà vu, che tutti sanno benissimo chi sono quelle figure miserande. Wir wussten Bescheid, dice la narratrice, una giovane ragazza che fa parte della carovana dei profughi, sapevamo. La ragazza ha paura che gli scampati al campo di sterminio vengano a derubarla dei vestiti che ha indosso, ha paura ma allo stesso tempo pensa che in fondo sarebbe giusto, che anche lei merita vendetta, si sente colpevole per il semplice fatto che sapeva.
Gli ex prigionieri non si vendicano sui profughi, non ne avrebbero la forza. Raccolgono delle armi abbandonate lungo la strada e salgono su una scarpata, da dove possono guardarsi alle spalle proseguendo il cammino nel caso che qualcuno li segua. In silenzio guardano i profughi che a loro volta li scrutano in silenzio. L´incrocio di quegli sguardi è insostenibile, tanto che la ragazza spera che qualcuno urli, spari in aria, perfino semplicemente spari. Il senso di colpa si tramuta in rabbia.
Nel 1945 Christa Wolf aveva sedici anni ed era una profuga. Era cresciuta in una modesta famiglia protestante di provincia nel Brandeburgo. I genitori avevano un piccolo negozio di alimentari, il padre era entrato nel partito nazista nel ´33 insieme all´intera squadra di canottaggio di cui faceva parte. Anche Christa era entrata nella Hitler Jugend non appena compiuti i quindici anni. Una vita tra banalità private e pubblico fanatismo: dipendenza dall´ordine, soggezione all´ordine, inquadramento, scriverà poi.
Oggi un´intera generazione non ha più in Christa Wolf il proprio punto di riferimento. Ma così non è stato nei venticinque anni precedenti. Quando uscì Cassandra (tutta la sua opera è stata pubblicata in Italia da e/o), quando nel 1982 Christa Wolf tenne le sue famose letture a Francoforte, i giovani tedeschi, all´Ovest come all´Est, pendevano dalle sue labbra. Riflessioni su Christa T. fu il contributo importante della DDR alla letteratura del ´68. Nel 1976 aveva firmato per Wolf Bierman, il cantautore a cui la DDR aveva tolto la cittadinanza mentre era in tournée all´ovest (la Stasi fece circolare la notizia falsa che lei aveva poi ritirato la firma). Dopo la caduta del Muro diventò però persona non grata. Anche prima molti in Occidente non le avevano perdonato che, pur potendo partire, lei fosse rimasta nella DDR - una dimostrazione in fondo che quella era per lei, nonostante tutto, la Germania migliore.
"Non è giusto fuggire, è giusto restare e lottare": era stata la scelta di Rita nel suo primo romanzo Il cielo diviso, sugli anni drammatici della costruzione del Muro che separa due amanti. Né le perdonarono, quando il cielo si richiuse e il muro cadde che lei, sull´Alexander Platz, avesse chiesto ai suoi concittadini di non rinunciare all´esperimento socialista ma di cercare di realizzare un vero socialismo. Soprattutto non era piaciuto in occidente la sua critica al capitalismo: dopo la riunificazione i tedeschi dell´ovest non volevano sentir parlare di estraneità al modo di vivere occidentale. Quando nel 1990 pubblicò Was bleibt (Che cosa resta), sul periodo in cui era guardata a vista dalla Stasi, il libriccino fu accolto da una valanga di critiche: "Che cosa ci vuol dire con dieci anni di ritardo Christa Wolf, di aver scoperto che nello Stato della Sed, il partito comunista al quale era iscritta, c´erano davvero la repressione e il terrore?" aveva scritto perfino Die Zeit. "Opportunismo della peggior specie" sentenziò lo Spiegel e lei si risentì.
L´opportunismo se l´era sempre rimproverato da sola: la sua generazione, aveva scritto, aveva portato nella nuova società il credo nell´autorità, e aveva scambiato troppo rapidamente una ideologia con un´altra. Fu attaccata soprattutto per la sua collaborazione con la Stasi, negli anni ´50, quand´era ancora redattrice di una rivista culturale, difesa solo dall´amico di una vita, il Nobel Günter Grass. In tutto aveva consegnato alla Stasi tre rapporti - così insignificanti che tre anni dopo la Stasi interrompe la collaborazione. Anche come giovane redattrice aveva fortissimi scrupoli a denunciare i colleghi, ma perché non si era rifiutata di collaborare? A questa domanda Christa non ha mai risposto.
Era stata l´unica, tra gli intellettuali della DDR che dopo l´unificazione formò un circolo in cui per diversi mesi ospiti illustri discussero della situazione mondiale. Christa voleva capire bene in quale mondo fosse approdata, che rapporto c´era tra giustizia e Stato di diritto, tra povertà e ricchezza, tra il singolo e il tutto. Era sempre stata ostinata, paziente e sistematica. Per quarant´anni, tutti i 27 settembre, scriveva un diario della sua giornata. Aveva cominciato nel 1960 quando un giornale moscovita le aveva chiesto di raccontare quel 27 settembre, giorno in cui Gorki nel 1935 aveva invitato gli scrittori di tutto il mondo a "raccontare una giornata su questo pianeta".

Repubblica 2.12.11
Un testo inedito in Italia che rievoca la caduta del Muro
La libertà fragile conquistata nell´89
In quei giorni volevamo risvegliare la ragione dal suo sonno, riprenderci ciò che ci era stato tolto
di Christa Wolf


Ascoltiamo una grande musica. Quando ho cominciato a scrivere queste righe, l´ho ascoltata più e più volte, fino a che vi ho riconosciuto le fasi di una Messa. Quando Joseph Haydn, maestro di cappella della casata degli Esterhazy, compone nel 1796 la sua messa annuale, Napoleone, imperatore dei francesi, è entrato in Austria con il suo esercito. Il sessantaquattrenne Joseph Haydn dà alla sua messa il nome di Missa in tempore belli. Messa in tempo di guerra.
In quello stesso anno uscirono tre opere che si richiamavano a vecchi legami e ne formulavano di nuovi, ancora oggi esistenti: Kant scrisse Per la pace perpetua, Thomas Paine pubblicò L´età della ragione e Friedrich Schiller compose le sue Lettere sull´educazione estetica dell´uomo. Una rete di pensiero illuminista tessuta sull´Europa… Da queste opere spira un alito di libertà che oggi non troverei da nessuna parte. Negli ultimi duecento anni questo spirito è stato strangolato, a volte ucciso. "Libertà" è la parola chiave della nostra società, ma quale senso ha questa parola per noi, oltre alla libertà di guadagnare il più possibile, alla libertà di viaggiare, alla libertà di consumare. Sono tutte libertà da non sottovalutare. Ma troppo spesso vogliono dire sfrenatezza, liberazione da tutti i vincoli. «Qui tollis peccata mundi», sentiamo nella messa. Io ne dubito.
Nel novembre del 1989, quando nella DDR migliaia di persone riempivano le strade, nella Samariterkirche a Berlino est, era appeso un grande striscione su cui era scritto in inchiostro nero: CONTRO IL SONNO DELLA RAGIONE. In quella chiesa cercavamo di risvegliare la ragione dal suo sonno. Di ora in ora si presentavano a parlare oratori e oratrici, quella sera erano perlopiù scrittori, artisti, e altri intellettuali e noi ci riprendevamo ciò che ci era stato tolto dalle mani: il diritto di esprimere liberamente la nostra opinione, le nostre critiche. Di queste vecchie storie non parlo spinta da sentimenti nostalgici, ma perché ho sperimentato personalmente il fatto che gli uomini d´un tratto possono gettar via la coperta della passività e del compromesso sotto la quale si sono rannicchiati, per recuperare quello che in loro sorprendentemente è rimasto vivo, ossia l´esigenza di giustizia, di libertà, e sì, anche di solidarietà. La ragione degli illuministi apparve sulle piazze e sulle strade e anche nelle chiese: non per dominare gli uomini ma per conquistarli.
Nel frattempo è tornato l´ordine, la gente ora è composta in gran parte di consumatori, molti dei quali disoccupati, le chiese sono di nuovo frequentate dalla loro vera clientela che si sta dissipando sempre più. E come sempre quando una crisi, come quella di oggi, minaccia la società, appare chiaramente quanto sottile sia la coperta della civiltà: in molti punti è strappata e da lì saltano fuori paura, avidità, brutalità. Le donne vengono di nuovo messe ai margini, diventano vittime di perversi atti di violenza, nei mass-media appaiono spesso come donnette di casa o come donne in carriera rivali fra loro o come creature demoniache pericolosamente seduttive.
Ma ecco il sublime Agnus Dei accompagnato da timpani e trombe. Dona nobis pacem. "Dai pace" dovremmo dire a noi stessi e così finalmente ci sarebbe pace. E potremmo cercare di scoprire se quei desideri che apparentemente sostengono il nostro sistema economico, in realtà non ci portino alla scontentezza e alla distruzione dei pilastri della nostra vita. Se davvero siano irrinunciabili. Ma dare una spallata a quei desideri e a quelle esigenze che vediamo come naturali, è senz´altro la cosa più difficile da fare. Non vogliamo credere che in essi c´è qualcosa da cambiare. Questa la consideriamo una utopia. Ma la storia non è alla fine. E tutti quegli uomini che non vogliono o non sanno vivere senza la perdita della ragione, non sono forse diventati i creatori di grandi cambiamenti?
Io non termino con una certezza, io termino con una domanda.
(Traduzione di Paola Sorge)
Da Hierzulande Andernorts © Luchterhand Verlag.1999

il Fatto Saturno 2.12.11
Barbarie di ritorno
Medievale sarà lei
Tornare al “tempo di mezzo” è lo spauracchio preferito del dibattito pubblico. Un libro ci spiega il perché
di Alessandro Barbero


IN UNA VIGNETTA di Altan risalente all’epoca di Mani Pulite, il cittadino intima al politico: “Adesso dovete restituire il rubato”. Il politico, levando le mani al cielo: “Ma questa è una tortura medievale! ”. Altan si beffava di un episodio che nel 1993 fece molto chiasso mediatico, l’arresto del democristiano Enzo Carra, accusato di falsa testimonianza e portato in tribunale in manette davanti a fotografi e telecamere. Allora si sprecò l’accusa a Di Pietro di voler far ripiombare l’Italia nel Medioevo; e poco importa che Carra fosse poi puntualmente condannato in primo grado, in appello e in cassazione. Ma nel dibattito pubblico italiano lo spauracchio del Medioevo è sempre pronto a fare capolino, dalle direzioni più inaspettate: nel giugno 2010 l’allora ministro Giulio Tre-monti spiegava che vincoli e regole ammazzano l’economia del Bel Paese inchiodandola a un “nuovo medioevo”. Il Sole 24 Ore, pubblicando l’intervista, intitolava fiducioso: “Tremonti spiega come uscire dal medioevo”. Altri sodali si accodarono, ansiosi di proclamare la modernità del sistema di potere politico-finanziario vigente in Italia: ancora pochi mesi fa il presidente di Mediolanum, anche nota come la banca di Berlusconi, annunciava una campagna pubblicitaria al grido “O Mediolanum o Medioevo”.
Ma aggrapparsi al Medioevo per fini polemici non è un vizio solo italiano, come spiega Tommaso di Carpegna Falconieri, che da specialista di storia medievale ha finito per incuriosirsi di questo bizzarro fenomeno e gli ha dedicato il libro Medioevo militante. Se nel mondo musulmano risuonano i richiami al jihad contro i “nuovi crociati” che occupano l’Afghanistan e l’Iraq, per i neocon americani “new medievalists” sono i terroristi, in quanto “tribali, sottosviluppati e fanatici”: tutte caratteristiche, evidentemente, della gente che ha costruito Notre-Dame a Parigi e scritto la Divina Commedia.
Come categoria analitica, questa dei “new medievalists” serve a poco, e c’è da augurarsi che la CIA ne adoperi di più sofisticate: tanto tribale e sottosviluppato non doveva poi essere l’ingegner Mohamed Atta, leader del gruppo dell’11 settembre, laureato in architettura al Cairo e in pianificazione edilizia ad Amburgo. È vero che nella sua tesi di laurea amburghese, dedicata allo sviluppo urbano della grande metropoli siriana di Aleppo, ne criticava i grattacieli, accusandoli di aver rovinato l’antico tessuto edilizio: con i grattacieli, evidentemente, Atta aveva già allora un problema. Ma l’accusa ai terroristi di appartenere al Medioevo serve in realtà a ben altro, come sottolinea Tommaso di Carpegna. Il punto è che se gli avversari sono medievali, possono essere trattati in modo medievale: non godono cioè dei diritti internazionalmente riconosciuti ai prigionieri di guerra e in genere ai cittadini degli stati sovrani. Con loro si è liberi di go medieval, per riprendere una celebre battuta di Pulp Fiction (per chi non ricordasse: è quando il gangster Marsellus, appena liberato da Butch, si prepara a vendicarsi del suo sadico stupratore “con un paio di pinze e una fiamma ossidrica”). Il Medioevo, insomma, giustifica Guantanamo. E pazienza se un pugno di professori universitari americani, abituati a chiamare se stessi “medievalists” in quanto studiosi del Medioevo, protestano per il dilagare di questa terminologia che li equipara a Osama e al-Zarkawi.
Ma prospera, beninteso, anche il vizio opposto, e cioè la rivendicazione di un’appartenenza medievale come orgogliosa bandiera per sé, piuttosto che come accusa per gli avversari. C’è stato un tempo in cui proprio gli equivalenti dei neocon si vantavano d’essere, loro sì, “medievalisti”: come padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica a Milano, nonché celebratore del fascismo operoso e civilizzatore, e denunciatore degli “ebrei che infestano e ammorbano l’Italia”. Almeno lui era coerente, quando nell’articolo inaugurale della nuova rivista Vita e Pensiero dichiarava senza remore, in contrasto all’odiato Modernismo: “Ecco il nostro programma! Noi siamo medioevalisti”. Ai tempi nostri, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Perfino lo stragista norvegese Anders Breivik aveva un suo sito in cui si autonominava
“commendatore dei Cavalieri Templari d’Europa”, e uno pseudonimo che suonava “Sigurd il Crociato”, mettendo insieme, ché tanto è tutt’uno, il mondo delle saghe nordiche e quello dei cavalieri. La Lega, com’è noto, è incerta se richiamarsi ai Celti che abitavano la pianura padana in età preromana o ai milanesi del XII secolo che sfidarono il Barbarossa; tutt’uno, anche qui, come se il Medioevo del senso comune avesse la capacità di mangiarsi le altre epoche. Volendo, poi, il richiamo al gran padre Medioevo serve benissimo per coprire le scorciatoie della modernità; e questa è forse la mistificazione più insidiosa. Chiudendo il libro di Tommaso di Carpegna, m’è tornata in mente la curiosa sensazione provata l’ultima volta che ho varcato la frontiera della Repubblica di San Marino, che rivendica orgogliosamente una tradizione di libertà risalente al Medioevo. Al posto di confine con l’oppressa Italia un immenso cartello accoglie i visitatori: “Benvenuti nell’antica terra della libertà”. Ma il panorama che si scorge al di là del cartello è quello di un’ininterrotta colata di modernissimo cemento, prodotto di un’impunita speculazione edilizia: e allora diventa fin troppo trasparente a quale libertà si riferiscano le autorità del Titano.
Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Einaudi, pagg. 343, • 19,00

il Fatto Saturno 2.12.11
Polemiche
Roma e Caravaggio, scopriamo gli altarini
La kermesse di Palazzo Venezia documenta la frenesia della soprintendente Vodret: quaranta opere strappate alle chiese
di Tomaso Montanari


ALTO TRADIMENTO. Roma al tempo di Caravaggio non è solo l’ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale.

La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c’è un cartello che informa che l’opera arriverà solo il 1° dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret. Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata.
Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c’era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l’unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l’espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto. E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell’appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all’ambizione della soprintendente. D’altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo: un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra.
E sta proprio qua l’alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti.
Tutto questo per una mostra che non ha nulla – ma davvero nulla – a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell’arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele F. M. Emanuele, scrive in catalogo che l’«assunto scientifico dell’esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa. Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il “tempo di Caravaggio” (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l’avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali.
Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d’occhio al mercato dell’arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L’esame diretto conferma che il Sant’Agostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent’anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all’attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un’opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa). Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c’è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro .
Non molti sanno che in Senato giace da mesi un’interrogazione in cui il senatore Elio Lanutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.
Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630, Roma, Palazzo Venezia, fino al 5 febbraio 2012;
www.romaaltempodicaravaggio.it

Repubblica 2.12.11
Il sesso spiegato ai bambini
L’eros rimane un tabù in casa. A fare l’amore si impara dalla rete
Ma il 44% dei ragazzi vorrebbe parlarne con i genitori. Ecco le parole giuste
di Maria Novella De Luca


Il 44% degli adolescenti vorrebbe parlare di sesso con mamma e papà Ma si deve cominciare fin da piccoli Già a cinque anni si possono evitare nomignoli sulle parti intime, e a otto si deve puntare sui cambiamenti della pubertà. L´Accademia dei pediatri americani stila consigli per i genitori Per crescere ragazzi più felici che siano anche educati ai sentimenti Il punto di partenza è l´esempio in casa: dalla tenerezza alla naturalezza verso la nudità

Sembra sempre troppo presto. O troppo tardi. In realtà sono i genitori a pensare di non avere l´età. Di essere troppo giovani o troppo vecchi per affrontare "quelle questioni". Ancora tabù, nonostante tutto. E così accade che i ragazzi imparino da soli, oggi come ieri, soltanto che oggi c´è Internet, e questo cambia molto le cose se parliamo di sesso, di sessualità, e perché no, anche d´amore. Materia difficile nell´era dell´eros virtuale, dove dodicenni che forse non hanno mai dato né ricevuto un bacio fanno "sexting" in giro per la Rete "postando" immagini di sé in atteggiamenti sexy, con una grande confusione tra il vero e il falso… E allora, qual è l´età giusta? Quali i sono i termini, le parole, gli esempi per affrontare il discorso "sesso" con questa generazione di bambini e adolescenti che fin dall´infanzia rischia di imbattersi in ogni tipo di rappresentazione "hot", in ogni tipo di immaginario erotico? Il tema è talmente "urgente", nonostante le montagne di volumi scritti in ogni parte del mondo, che l´American Academy of Pediatrics ha messo insieme un breviario di pochi e sintetici consigli rivolti ai genitori.
Un gruppo di scienziati ed esperti dell´età evolutiva ha ripercorso le tappe di una educazione sessuale familiare tenendo però conto di quanto sono cambiati questi nuovi "bambini sapiens".
E uno consigli più chiari è che di sesso con i bambini bisogna parlare, fin da quando sono piccolissimi, perché questo li aiuterà da grandi ad avere un rapporto sereno verso l´amore, e soprattutto, "a non anticipare l´età della prima volta". Così se a 4 anni la domanda sarà "mamma, come sono nato?", ad otto "sarà necessario avvertirli dei cambiamenti del loro corpo in vista della pubertà", inserendo però già dei filtri nei loro pc, mentre a 12 anni bisognerà "spingerli a fare domande, anche le più intime", e a partire dai 13 è "sull´amore e sul sesso sicuro" che è necessario insistere.
Del resto finché sono piccoli in fondo è tutto più semplice: ci sono i libri, le storie, titoli e titoli che spiegano l´avventura dell´uovo e del semino, c´è chi usa i disegni e chi i fumetti, chi punta al messaggio scientifico, chi si affida alla tenerezza degli animali antropizzati, "ecco tu sei arrivato così", e il gioco è fatto. Certo poi ci sono i bambini adottati, o magari quelli che hanno due madri o due papà: niente paura, anche per loro ci sono meravigliosi albi illustrati, che è indubbio, facilitano un bel po´ la comunicazione. Il grande silenzio nelle famiglie invece scatta subito dopo, quel "grande silenzio" che preoccupa e non poco pediatri e psicologi, quando gli ex bambini non ancora ragazzi sono alle soglie della pubertà, e di ciò che gli accade capiscono poco o nulla. Ma gli adulti che intercettano quel disagio sono davvero pochi, spiega Maria Rita Parsi, psicoterapeuta dell´infanzia «direi il 30% dei genitori contro il 70% di quelli che fingono di ignorare il problema, pensando che i figli se la caveranno da soli, magari come era avvenuto a loro quando erano ragazzi». Se infatti il 44% degli adolescenti afferma "mi piacerebbe poter parlare di questi temi con i miei genitori", e il 34% dei teenager ammette senza imbarazzo di aver scoperto il sesso su Internet, è evidente che un vuoto c´è…
«Resto sempre colpita da quanto la rivoluzione sessuale degli anni Settanta abbia cambiato la vita delle donne e della coppie - riflette Maria Rita Parsi - mentre tra i genitori e i figli continuino a prevalere gli imbarazzi e i silenzi di sempre. Invece questi ragazzi avrebbero bisogno più che mai di una educazione sentimentale, perché sono vittime di una informazione precoce, dove il sesso diventa soltanto quello dei video porno che trovano su Youtube. Mentre invece non sanno nulla dell´amore, e scindono il sentimento dal corpo. Nei questionari che facciamo con gli adolescenti nelle scuole, molti confessano che nei gruppi di coetanei esiste l´amico o l´amica con cui si sc…, cioè di fa sesso per fare esperienza, ma che queste esperienze non hanno nulla a che vedere con l´amore. E un film come i "Soliti idioti", campione di incassi, è proprio il paradigma di questo tipo di sessualità povera».
Se dunque l´informazione è così precoce (e fuorviante) come contrastarla con parole giuste? È ancora valido per i bambini sostituire i termini degli organi genitali con un lessico più "gentile", atteggiamento che ad esempio i pediatri americani sconsigliano? Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell´età evolutiva, al tema del della sessualità tra genitori e figli ha dedicato più di un libro, da "Mamma che cos´è l´amore" a "Col cavolo la cicogna". "Utilizzare i nomi esatti, quelli della fisiologia, non è mai sbagliato, purché si spieghi ai bambini che tutto questo ha a che fare con un cuore che batte o una mente che si innamora. Credo che l´educazione sessuale non sia una cosa che si insegni, ma piuttosto una disposizione che i genitori devono trovare dentro di sé per affrontare questi argomenti insieme ai figli. Una educazione che comunque parte sempre dall´esempio quotidiano, da come si parla dell´amore, dalla naturalezza verso la nudità, dal non vergognarsi della tenerezza. Per i bambini i libri sono un grande aiuto - suggerisce Pellai - non solo perché si leggono insieme, ma anche perché i più piccoli possono guardarli da soli, e trovare risposte alle loro domande".
È verso l´adolescenza invece che le cose cambiano, in quell´età ombrosa, vulnerabile e bellissima in cui però la vita è fatta di segreti, di mistero, e le porte, vere o simboliche delle camerette dei teenager, si chiudono. «Oggi per parlare di sesso ad un ragazzino dai 12 anni in poi - avverte ancora Alberto Pellai - bisogna conoscere la tecnologia. Non c´è scampo. Perché buona parte delle loro relazioni ha ormai un legame strettissimo con le loro capacità informatiche. E il fenomeno del sexting, neologismo formato dalle parole sex e texting, che consiste nell´inviare proprie foto sexy su Internet, e può aprire le porte a pericolosi incontri con sconosciuti, ci dà la misura di quanto gli adolescenti siano sospesi in un ambiente dissociato, da una parte ipersessualizzato, dall´altro del tutto ignaro dell´amore».
Ma c´è un altro aspetto importante e che infatti i pediatri americani sottolineano, quando insistono nel parlare di pubertà e che Alberto Pellai rilancia: «Oggi sono i maschi ad essere più in difficoltà nella relazione con il loro corpo. È raro che ci siano infatti ragazzine non avvisate dalle madri dell´arrivo del ciclo mestruale, mentre quasi nessuno informa i maschi di quanto i cambiamenti ormonali possano influire sul loro aspetto, sul loro umore, sulle loro relazioni».
Alessandra Graziottin, direttore del "Centro di ginecologia" San Raffaele Resnati di Milano, sposta il discorso, e dice che il miglior modo per parlare di sesso con i bambini e i ragazzi, è proprio quello di non "usare parole". «C´è una educazione sentimentale che nasce in famiglia e si sviluppa attraverso la relazione che i genitori hanno tra di loro e che i bambini osservano. La loro affettività, il rispetto reciproco, la loro sensualità, con delle aree riservate naturalmente, tutto questo è già una educazione. E poi il rapporto con il corpo dei figli, abbracciarli, accarezzarli, senza naturalmente che ci siano confusioni sessuali. Ecco - spiega Alessandra Graziottin - questo è già essere all´interno di un sano alfabeto di sentimenti. E questa scorta di affettività farà sì che i ragazzi, crescendo, non sentano di dover correre fuori dalla famiglia per trovare qualcuno che in modo o nell´altro li ami, ma aspetteranno il momento giusto per sperimentare il sesso. Proteggendosi così da delusioni che a volte segnano per tutta la vita».

Repubblica 2.12.11
"Più informazioni aiuterebbero i teenager nelle esperienze"
Tutto quel silenzio che ostacola la civiltà
di Chiara Saraceno


Stare al mondo con un corpo sessuato, quindi non solo diverso per maschi e femmine, ma attrezzato per l´attività sessuale, è una caratteristica così irrilevante dell´essere umano da essere oggetto esplicitamente o implicitamente di azioni educative. Il silenzio, come e più della semplice repressione, è un atto educativo potente, che consegna alla clandestinità emozioni, interrogativi, desideri, impedendo che vengano elaborati in modo riflessivo. Far diventare l´educazione sessuale una azione educativa esplicita da parte dei genitori e della scuola, e continuativa lungo tutto l´arco della crescita, aiuterebbe a maturare concezioni meno stereotipiche dell´appartenenza sessuale e dei rapporti tra i sessi. Aiuterebbe anche a integrare in modo armonico l´appartenenza sessuale e la sessualità nel proprio sviluppo complessivo. In questa prospettiva, l´educazione sessuale è molto più che le pur necessarie informazioni di tipo tecnico-andro-ginecologico cui è spesso ridotta. Nel rispetto del tipo di competenza e domande, insieme cognitive ed emotive, proprie di ogni età, è un´opera soprattutto di costruzione di senso, rispetto al proprio posto nel mondo e nelle relazioni, alla propria e altrui diversità, alle proprie emozioni.
Lasciare nel non detto e non dicibile queste domande e le emozioni in cui sono intricate, peggio ancora censurarle come inappropriate, non aiuta a crescere. Non aiuta neppure a sviluppare un atteggiamento insieme equilibrato e rispettoso nei rapporti - non solo sessuali - tra i sessi e nei confronti di chi ha un orientamento sessuale non standard rispetto alla propria appartenenza di sesso. Tantomeno aiuta a difendersi da rapporti incestuosi e da richieste pedofile. Perché se la sessualità non è detta e non viene riflessivamente integrata nella costruzione di sé, si è abbandonati solo alle pulsioni proprie ed altrui. E la distinzione tra offerta di amore e sfruttamento di una posizione di potere sparisce per mancanza di strumenti di elaborazione.
Chi teme, od ostacola, l´educazione sessuale, intesa come accompagnamento riflessivo alla comprensione del proprio essere al mondo come soggetti sessuati, ha lo stesso atteggiamento che i conservatori avevano un tempo nei confronti dell´istruzione delle classi subalterne, o delle donne: meglio non fornire mezzi di conoscenza, perché potrebbero indurre a cambiare il proprio stato, a criticare lo status quo. Si teme che l´educazione sessuale incentivi all´attività sessuale e, persino, suggerisca l´omosessualità a chi, nell´ignoranza, rimarrebbe tranquillamente eterosessuale. Il fatto è che i ragazzi hanno una attività sessuale a prescindere dalle informazioni che ricevono. Avere strumenti di informazione e di auto-riflessione li aiuterebbe a collocare meglio le esperienze che fanno nel loro percorso complessivo di costruzione dell´identità. Li aiuterebbe ad essere più liberi non solo o tanto da prescrizioni che comunque disobbediscono, ma dalle pressioni dei pari e dal giudizio altrui su ciò che è normale e ciò che è deviante.
Da questo punto di vista, appare comprensibile, ma anche molto preoccupante, la denuncia pronunciata dal papa il gennaio scorso in occasione del discorso di inizio anno al corpo diplomatico. Secondo Benedetto XVI, "l´educazione sessuale e civile impartita nelle scuole di alcuni paesi europei costituisce una minaccia alla libertà religiosa", perché "riflettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono una antropologia contraria alla fede e alla retta ragione." Se una visione dell´essere umano come intero, ove l´appartenenza di sesso e la sessualità non sono concepite come disgiunte dalla conoscenza e riflessività - e queste da quelle - è contraria alla fede cattolica, è un problema di quest´ultima. Per altro, si sono visti i guasti di questa separazione, dell´ignoranza e mancanza di rispetto che ha generato, dentro e fuori la Chiesa cattolica. Ma l´accostamento, per certi versi sorprendente, dell´educazione sessuale all´educazione civile, senza volerlo, segnala come la posta in gioco sia davvero la formazione di persone, cittadini, consapevoli e competenti, capaci di valutare e decidere autonomamente, sul piano privato della sessualità, come su quello pubblico della vita associata.

Repubblica 2.12.11
Cercasi druido disperatamente per i militari Usa
I soldati pagani hanno diritto a un luogo di culto Per loro è nata una "piccola Stonehenge"
Caccia anche ai "cappellani" di queste confessioni minoritarie
Alcuni cadetti sono di origine "nativ american", altri hanno abbracciato i riti celtici
di Federico Rampini


Druidi, streghe e maghi, esperti in "religioni della Terra": mentre il mercato del lavoro è avaro di opportunità, ecco delle figure professionali che offrono uno sbocco sicuro. Posti di prestigio, con la divisa più rispettata degli Stati Uniti: quella della US Air Force. Vuole essere "politically correct" fino in fondo, l´accademia militare di Colorado Springs, quella che forma i Top Gun destinati a perlustrare i cieli dell´Afghanistan o (fino a ieri) della Libia. E così tutte le religioni hanno pari cittadinanza. Non importa che la stragrande maggioranza dei 4.300 cadetti sia protestante o cattolica, l´Air Force Academy ha già costruito cappelle e luoghi di culto appositi per gli 11 musulmani dichiarati, i 16 buddisti e i 10 induisti che annovera tra i suoi ranghi. L´ultima novità è la più singolare: tra i futuri superpiloti dell´aviazione militare più potente del mondo ci sono anche dei pagani, fieri di esserlo e ben decisi a non occultare la propria appartenenza.
Alcuni sono di origine "Native American", gli autoctoni che un tempo chiamavamo indiani d´America, fedeli ai culti dei loro antenati. Altri si sono convertiti più di recente a varie forme di paganesimo, come i riti celtici celebrati dai druidi o la moderna versione wiccan, una forma di paganesimo che si è sviluppata nel XX secolo in Inghilterra. Altri ancora si rifanno a credenze antichissime legate a Stonehenge, le monumentali pietre che si visitano nella contea inglese del Wiltshire, risalenti a 5.000 anni fa. Tutti hanno diritto ad avere dei "leader spirituali", e dei cappellani adeguatamente addestrati. Per loro, l´Air Force Academy ha già speso 80.000 dollari: tanto è costato allestire un "tempio all´aperto", adatto e ospitale per tutte quelle che vengono definite "religioni della Terra".
Questo Natale, a fianco ai tanti cadetti che andranno alla messa di mezzanotte, i loro commilitoni pagani accenderanno i ceppi "yule", legni la cui fiamma è un simbolo rituale della fede nel risorgere eterno del sole. «E´ molto bello avere uno spazio tutto per noi», ha dichiarato Nicole Johnson, aspirante donna pilota, 21 anni, cadetta di prima classe a Colorado Springs. La Johnson, originaria della Florida, è una convertita recente che ha abbracciato il paganesimo dopo essersi arruolata all´Accademia. La notte di Natale lei sarà tra quelli che useranno la "piccola Stonehenge", un insieme di pietre assemblate in un cerchio sulla collina che domina la base militare. I pagani sono un piccolo numero, però hanno due leader spirituali, tra cui la cadetta Johnson che viene considerata una "strega". Senza offesa. Lei stessa ha ammesso che i compagni di addestramento la trattano con rispetto, non ricorda manifestazioni di ostilità. La domanda più indiscreta che le è stata posta, è se danza nuda davanti ai falò (no). Qualcuno le ha chiesto sommessamente se sia possibile lanciare il malocchio contro un ufficiale (no). Quel che accade a Colorado Springs non si chiama "tolleranza", un termine pericoloso perché implica che la religione "superiore" (il cristianesimo praticato dalla maggioranza) concede benevolmente un po´ di spazio anche agli altri. Invece la dottrina ufficiale, spiega il capo cappellano maggiore Darren Duncan, è che nella U. S. Air Force Academy si applica rigorosamente il Primo emendamento. È l´articolo della Costituzione americana che garantisce la libertà di religione. E perfino la libertà di non-religione: a Colorado Springs sono censiti ben 43 atei, forse più coraggiosi dei pagani, in un paese dove i presidenti giurano fedeltà alla Costituzione sulla Bibbia.
In confronto i pagani sono meno "diversi", loro a Dio credono così tanto che ne adorano diversi, o s´inchinano a una sorta di divinità immanente che pervade tutte le cose della natura. Il cappellano Duncan ha dovuto seguire dei corsi speciali per essere in grado di comprendere le esigenze di tutte le minoranze religiose presenti tra i cadetti. Perciò druidi e streghe sono ricercati anche in veste di docenti, per illuminare i profani sul paganesimo. L´esemplare correttezza della U.S. Air Force sembra confermare una tradizione americana: spesso in questo paese le forze armate sono state il primo laboratorio di esperimenti avanzati, per esempio per l´integrazione razziale. In realtà qualcuno ricorda che l´aviazione militare ha molto da farsi perdonare. Michael Weinstein, che dirige una fondazione per la libertà religiosa tra i militari, denunciò nel 2005 proprio i vertici dell´aeronautica per aver consentito nei loro ranghi un "proselitismo aggressivo" da parte di alcuni gruppi di fondamentalisti cristiani. Fino alla presidenza di George Bush, e in particolare dopo l´11 settembre, si segnalarono casi di alti ufficiali che motivavano le guerre in Afghanistan e in Iraq come delle "crociate contro gli infedeli". Tuttora vicino alla base di Colorado Springs c´è una potente organizzazione, Focus on the Family, che fa capo alle chiese evangeliche. Ma la sera di Natale dovranno rassegnarsi a vedere, a poca distanza dalla cappella per i cristiani, un gruppetto di cadetti impegnati a celebrare il dio-Sole, davanti alla loro Stonehenge.

Repubblica 2.12.11
Emerge dagli archivi della Marina russa la storia della nave "Josif Stalin" S´inabissò settant’anni fa nel Golfo di Finlandia. Quasi quattromila i morti
Così una mina affondò il "Titanic" sovietico
di Nicola Lombardozzi


Il piroscafo fu colpito la sera del 2 dicembre 1941 da uno degli ordigni disseminati in acqua per fermare i tedeschi
Il dittatore avrebbe preferito far sprofondare il relitto piuttosto che consegnarlo ai nemici, ma a bordo c´erano gli sfollati

Non c´erano gioielli né abiti da sera quella notte. E nemmeno struggenti storie d´amore da raccontare negli anni a venire. Ma l´incubo del mare ghiacciato, delle urla disperate dei naufraghi, della nave squarciata che si allontanava all´orizzonte, era identico a quello, più celebre e romanzato, del Titanic. Un Titanic sovietico, colato a picco esattamente settant´anni fa. Più cupo, crudele e anche più letale: 3849 vittime, molto più del doppio di quelle del piroscafo britannico. Erano quasi tutte giovanissime reclute dell´Armata Rossa e un numero imprecisato di famiglie di sfollati da una pacifica isola finlandese capitata di un tratto al centro dell´inferno.
Riesumata da polverosi archivi della Marina dove era stata gelosamente sepolta con la dicitura "top secret", la storia della nave "Josif Stalin" è una storia di cinismo, inettitudine militare, e spietate strategie di propaganda. Tutto comincia la sera del 2 dicembre 1941. L´avanzata nazista sul territorio sovietico sembra inarrestabile. Le truppe tedesche marciano senza sosta fino alle porte di Mosca e intanto si allargano verso Nord conquistando uno dopo l´altro i porti del Baltico e del Golfo di Finlandia. Stalin appare paralizzato, sotto choc per le notizie di continui disastri militari e per l´incapacità dei generali. Qualcuno gli spiega che anche Tallinn, la capitale estone sta cadendo in mano al nemico e che l´isoletta finlandese di Hanko (in russo Khanko) deve essere abbandonata. Una sola nave è abbastanza grande da portare in salvo la popolazione e i soldati della guarnigione ormai indifendibile. È proprio la "Josif Stalin", nave a due ponti, voluta e fatta costruire in Olanda da Stalin in persona nel 1939. Doveva servire per concedere spartane crociere ai lavoratori sovietici. E lo stesso Stalin si era fatto dipingere nei manifesti pubblicitari mentre impugnava un timone e invitava i suoi concittadini a rilanciare i viaggi per mare.
Usare una nave così simbolica per un´operazione talmente rischiosa non è una scelta facile. Stalin chiede di togliere le scritte di poppa e sostituirle con la più anonima sigla VT-521. Ma il piroscafo ha una sagoma riconoscibilissima. Quando arriva al largo di Hanko, tutti sanno che è arrivato Josif Stalin per portarli in salvo. La nave si riempie oltre a ogni limite. Le cabine da tre posti ospitano fino a quaranta persone. Militari, ma anche donne e bambini su ogni angolo dei ponti che un tempo servivano per la passeggiata. La temperatura è di dieci gradi sotto zero, nevica, lastre di ghiaccio compaiono inquietanti sul pelo dell´acqua. Quando lascia il piccolo porto abbandonato, il piroscafo imbarca 5.589 persone. Il Cremlino ha preteso una maxi scorta di caccia e dragamine. Agli sfollati danno un senso di sicurezza. Non sanno però che il comandante Nikolaj Stepanov ha ricevuto dalla Marina tutta l´assistenza possibile tranne una cosa fondamentale: la mappa delle mine sovietiche disseminate in acqua per fermare gli u-boots tedeschi. Roba troppo delicata per consegnarla a un civile. Succede così che le navi di scorta evitano le trappole amiche e la "Josif Stalin" no. La prima esplosione è a mezzanotte. Migliaia di disperati cercano di salire in coperta. Stepanovic fa chiudere le porte di acciaio. Le urla degli imprigionati saranno coperte da altre due esplosioni. Fino alla quarta che spazza via la prua. La nave è perduta, tra i ghiacci del Golfo di Finlandia si disperano migliaia di persone in cerca di salvezza ma il freddo le uccide una dopo l´altra. Si tenta un soccorso che ha scarsi risultati, poi quello che resta della Stalin se ne va verso il mare aperto. A bordo ci sono il comandante e altri 2.500 passeggeri. La nave non è governabile, ma regge ancora.
Stalin è furioso, ordina di recuperarla a tutti i costi, la sua omonima non può finire in mano ai tedeschi. Per due giorni nella tempesta del Baltico i naufraghi resistono. Qualcuno muore di freddo, qualcun altro si uccide. Ma non ci sono testimonianze dirette. Di certo all´alba del 4 dicembre il capitano di vascello Ivan Sviatov firma un ordine a tutte le unità russe: «Rintracciate il relitto della Stalin e affondatelo». Meglio uccidere 2.500 sovietici piuttosto che cedere la nave simbolo. Ma l´inefficienza della Marina questa volta aiuta i naufraghi. Le ricerche tra nebbia, gelo e informazioni errate non riescono. Il relitto e suoi disperati passeggeri viene catturato dai tedeschi. I quali, anche loro distratti dalla guerra, non capiscono o non sfruttano l´effetto propagandistico. Il Titanic sovietico resterà un segreto fino a ieri. Senza testimoni. Catturato insieme agli altri, il comandante Stepanov, viene inviato in un campo di concentramento nazista a Tallin. Tre anni dopo, quando l´Estonia sarà liberata dall´Armata Rossa, verrà fucilato senza processo, per "alto tradimento". Le feste per la Vittoria non potevano essere disturbate da scomode rievocazioni.