l’Unità 24.11.07
Violenza, donne in corteo: «Il nemico è dentro casa»
«La violenza degli uomini contro le donne comincia in famiglia e non ha confini»: questo striscione apre oggi la manifestazione nazionale a Roma (ore 14 da Piazza della Repubblica). Donne in corteo con il fiocco antiviolenza, simbolo della battaglia contro gli stupri, i maltrattamenti e gli atteggiamenti persecutori degli uomini. Un fenomeno da cifre drammatiche: circa 3 milioni di donne nell’arco della vita hanno subito violenze fisiche o sessuali; 57 le donne uccise dall’inizio dell’anno ad oggi per mano di partner o ex. Prodi: «Problema grave, reagire con forza». Pollastrini: «Corsia preferenziale per il Ddl sulla violenza di genere».
Roma con le donne. Contro la violenza
Manifestazione-denuncia alle 14. Prodi: problema grave, va contrastato con il massimo sforzo
di Maristella Iervasi
IN PIAZZA contro la violenza «maschile» alle donne. In piazza per alzare la voce, alla vigilia della giornata internazionale promossa dall’Onu. E in piazza per sollecitare un piano integrato di azione uomo-donna, «senza strumentalizzazioni di governo e dei par-
rtiti sull’onda del l’emergenza» è l’invito del comitato promotore controviolenzadonna.org; ma che metta in corsia preferenziale più servizi a rete diffusa e il Ddl contro le molestie di genere.
Roma oggi si sveglia così: con tantissime donne con indosso il fiocco bianco antiviolenza e lo slogan: «La violenza degli uomini contro le donne comincia in famiglia. E non ha confini». Oltre 400 le adesioni alla manifestazione nazionale - ore 14 da piazza della Repubblica a piazza Navona - e tre i ministri in corteo: Barbara Pollastrini (Pari opportunità), Alfonso Pecoraro Scanio (Ambiente) e Paolo Ferrero (Solidarietà sociale), adesione anche del ministro della Salute Livia Turco. Perché sono 2 milioni 938 mila le donne che nell’arco della vita hanno subito violenza fisica o sessuale dal partner o dall’ex partner. E ogni tre giorni una donna viene uccisa per mano di un uomo. Un’emergenza sociale che da gennaio ad oggi già conta 57 vittime, tutte ammazzate da uomini che conoscevano bene: mariti, conviventi, fratelli, padri... Un fenomeno dirompente, dalle cifre drammatiche, contro il quale occorre reagire. Così il premier Romano Prodi ha scritto al ministro Pollastrini: «Cara Barbara, la giornata internazionale contro la violenza alle donne ci obbliga a prendere coscienza di un problema grave, che il nostro paese deve contrastare con il massimo sforzo perché anche da qui passa il grado di civiltà di uno Stato». Da qui l’impegno a concludere al più presto l’iter della legge contro la violenza di genere presentato lo scorso anno al Parlamento e accelerare l’approvazione dello stralcio già votato alla Camera sullo stalking (atteggiamenti persecutori) e l’omofobia.
I dati e le cifre delle statistiche ufficiali descrivono un fenomeno concentrato soprattutto tra le mura domestiche. Maltrattamenti che non sono solo di tipo fisico: aumentano le violenze psicologiche (+22%), le offese critiche e i ricatti economici, soprattutto per le donne separate o le divorziate. Ogni giorno da Bolzano a Catania 7 donne subiscono abusi, 141 donne sono state oggetto di tentato omicidio; 1805 sono state abusate; 10.383 sono state vittime di pugni, botte, bruciature e ossa rotte. Le vittime hanno per lo più tra i 25 e i 40 anni e sono laureate o diplomate, dirigenti e imprenditrici. «Donne - sottolinea l’associazione Telefono Rosa - che hanno pagato con un sopruso la loro emancipazione culturale, economica, la loro autonomia e libertà». Ma un dato in particolare ha impressionato Prodi: l’altissima percentuale, oltre il 93%, delle violenze non denunciate. «Non possiamo non interrogarci sul motivo di questo silenzio - ha sottolineato il premier - Non possiamo non chiederci se le nostre istituzioni stanno facendo tutto il possibile per accogliere e sostenere le donne più in difficoltà».
Che fare dunque? «Contro la violenza sulle donne e in famiglia serve tolleranza zero», dice Rosy Bindi, ministro per la famiglia. E Pollastrini: «Serve un movimento di coscienze che reagisca e non si rassegni». Mentre Turco annuncia l’apertura di uno sportello antiviolenza in ogni ospedale.
l’Unità 24.11.07
Il governo costretto alla fiducia sul protocollo
di Marco Tedeschi
FIDUCIA Il Consiglio dei ministri ha autorizzato il governo, se ce ne fosse bisogno, a porre la fiducia sul disegno di legge sul welfare del 23 luglio scorso. L’annuncio è stato dato dal ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero (Prc), che non ha mancato di
esprimere «la sua riserva» e di sottolineare che non è nemmeno stato deciso su quale testo chiedere eventualmente il voto. Questa volta, però, il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi (Pdci), e quello dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio(Verdi), che si erano astenuti al momento del varo del ddl in consiglio, non hanno seguito Ferrero sulla sua posizione. Il ministro dell’Università, Fabio Mussi (Sd), non era invece presente alla riunione.
«Anche se il ministro Ferrero ha espresso delle riserve, la decisione sulla fiducia è stata presa: è un atto politicamente corretto», ha spiegato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti, al termine del Consiglio. «Quando un governo fa un’intesa con le parti sociali, quel governo si assume una responsabilità su cui poi si esprime il Parlamento». Quanto alla possibilità che la fiducia sia posta sul provvedimento originario, «questa - dice Chiti - è una valutazione che deve essere compiuta, perchè bisogna valutare con precisione cosa comporteranno i cambiamenti della commissione».
Per discutere la questione Welfare a Palazzo Chigi si sono recati in tarda mattinata anche il presidente e il direttore generale di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo e Maurizio Beretta. Oltre un’ora la durata del colloquio con il premier Romano Prodi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta. «Il governo è consapevole della portata del problema: aspettiamo risposte puntuali nei prossimi giorni», ha riferito Beretta.
Dal Senato intanto non arrivano segnali tranquillizzanti: Lamberto Dini ha preannunciato che non voterà il disegno di legge se resteranno le modifiche volute dalla sinistra radicale. Letta è però ottimista: «Quello sul welfare», dice, «è un buon protocollo, l’importante è stare più vicino allo spirito originario. Ci sono cento buone notizie per il nostro sistema imprenditoriale e per i lavoratori italiani, più si sta vicini a quel testo meglio è. Sono convinto che troveremo la soluzione migliore per cercare di essere più aderenti possibili allo spirito del protocollo». Si lavora, dunque, a un testo che sia di «sintesi» tra le posizioni di governo, sindacati, parti sociali e Parlamento. Forse dunque a un terzo testo. «Il riferimento - spiegano fonti di Palazzo Chigi - resta l’accordo con le parti sociali che ha avuto il voto favorevole di 5 milioni di lavoratori». Ma il governo sta lavorando a un terzo testo? «Il governo - è la risposta - lavora a una sintesi tra le posizioni delle parti sociali e quelle emerse dal dibattito parlamentare». «È una cosa normale. C’è stata una lunga discussione sul protocollo; c’è stata una discussione successiva quindi la fiducia conclude questo iter» ha detto il ministro del Welfare Cesare Damiano. Sull’ipotesi fiducia, critico il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi: «Ho visto che hanno messo la fiducia a prescindere. Non sanno qual è il testo, ma comunque c’è la fiducia».
l’Unità 24.11.07
«Cosa Rossa», la disputa adesso è sul nome
Si avvicinano gli stati generali, i Verdi non vogliono «un’aggregazione nostalgica»
FA DISCUTERE il simbolo, ma anche l’aggettivo da affiancare o meno alla parola “Sinistra”. Si avvicinano gli stati generali dell’8 e 9 dicembre e Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica ancora cercano di sciogliere alcuni nodi: in primis, il nome e il simbolo con cui presentarsi uniti alle prossime elezioni e la legge elettorale da difendere quando ci si siederà al tavolo dell’Unione. Le posizioni di partenza sono distanti, ma i quattro partiti hanno messo a punto un calendario di incontri per trovare una soluzione alle due questioni. La prima, quella del simbolo, sembra al momento la più impellente visto che l’8 dovrà essere presentato alla nuova Fiera di Roma. Gli incontri dei tecnici si alternano quindi a riunioni più politiche. Oggi gli sherpa dei quattro partiti si sono visti per esaminare una trentina di bozzetti, ma per il momento una scelta non si è riusciti a farla. «Il simbolo - spiegano i responsabili del tavolo sul simbolo della Sinistra e degli Ecologisti - sta prendendo forma e stiamo lavorando a una proposta che rappresenti tutti». Per questo, l’unico dato certo è che non ci saranno simboli preesistenti, mentre potrebbe comparire l’unico elemento comune a tutti e quattro, l’arcobaleno simbolo della pace e della battaglia per i diritti civili.
Ma non mancano le incomprensioni e le polemiche, come dimostra lo scontro scoppiato ieri tra Verdi e Pdci sull’ipotesi che il simbolo contenga la falce e il martello. «Non vogliamo un’aggregazione nostalgica», avverte il capogruppo del Sole che ride alla Camera Angelo Bonelli. «Se vogliono la falce e il martello - attacca - noi non ci stiamo». E la replica dei Comunisti Italiani non si fa attendere. «Gradiremmo che si sgombrasse il campo - è il monito del capogruppo alla Camera Pino Sgobio - da pretestuosi, e questi sì nostalgici, “fattori K”, per concentrare piuttosto le nostre energie sul profilo politico di questa unità. A meno che qualcuno non punti a far saltare tutto...». Il partito di Pecoraro Scanio insiste poi sull’aggettivo «ecologista» da affiancare alla parola Sinistra, su cui sembrano convergere gli altri partiti. «Serve una sinistra senza aggettivi», dice Sgobio. Un’idea lanciata inizialmente da Fabio Mussi e Franco Giordano. Un invito alla sintesi e all’unità arriva dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti. «Fuori dalla prospettiva unitaria - puntualizza - non c’è vita possibile per la sinistra». Da Bertinotti arriva anche un’accelerazione su riforme e legge elettorale («non c’è tempo da perdere», sollecita la terza carica dello Stato), altro terreno su cui la sinistra è tutt’altro che compatta.
l’Unità 24.11.07
Quando i laici parlano di bioetica
di Carlo Augusto Viano
Maurizio Mori, Giovanni Boniolo, Patrizia Borsellino, Gilberto Corbellini, Emilio D’Orazio, Aldo Fasolo, Carlo Flamigni, Eugenio Lecaldano, Claudia Mancina, Tullio Monti, Demetrio Neri, Alberto Piazza, Mario Riccio, Sergio Rostagno, Gianni Vattimo,
Riportiamo ampi stralci del nuovo «Manifesto di bioetica laica» che verrà presentato domenica a Torino durante un convegno organizzato dalla Consulta torinese per la Laicità delle Istituzioni (per informazioni: www.torinolaica.it)
Nella nostra società singoli cittadini e gruppi manifestano sempre più intensamente l’intento di sperimentare forme di vita nuove e si organizzano per ottenerne il riconoscimento, mentre la ricerca scientifica e le tecnologie mediche offrono nuove opzioni nei confronti di aspetti fondamentali dell’esistenza.
Profondamente coinvolta in questi processi, la bioetica suscita grande interesse nell’opinione pubblica e assume un rilevante peso politico. Talvolta essa è intesa come uno strumento di difesa dalle innovazioni scientifiche e tecniche, capace di riportare la medicina sotto il controllo di credenze consolidate da tradizioni.
Chi si muove in una prospettiva laica, intende invece promuovere le nuove libertà, proponendo, ovunque sia possibile, regole tali da permettere la coesistenza di persone che seguono orientamenti diversi senza danni o sopraffazioni reciproche.
Oggi sono in atto, da più versanti, pesanti tentativi di soffocare o di limitare gravemente gli sforzi innovativi in tal senso, in modo particolare da parte di quelle organizzazioni religiose che, oltre ad esprimersi ed operare liberamente e pubblicamente, lasciando ad altri la libertà di comportarsi secondo le proprie convinzioni profonde non dannose a terzi, per ottenere il consenso dei propri fedeli e dei singoli cittadini (come è perfettamente legittimo nel pieno rispetto del principio della libertà religiosa), pretendono di imporre i propri orientamenti a tutti i cittadini, credenti e non credenti, in forza di leggi dello Stato.
Il rispetto per la libertà altrui ci porta ad affermare che l’etica laica, pur assumendo forme assai variegate, costituisce un orientamento diffuso, cui informa i propri comportamenti un numero ampio e crescente di cittadini. Essa non rappresenta un corpus monolitico basato su un sistema di dogmi, bensì una linea di tendenza che riesce ad individuare un ampio fascio di sensibilità morali (comprese quelle di ispirazione religiosa che rispettino l'autonomia individuale), che pongono al centro dell'esistenza alcuni valori chiave, quali il rispetto della libertà individuale e dell'autodeterminazione, l'attenzione alla qualità della vita ed alla diminuzione delle sofferenze.
In questa prospettiva rifiutiamo l’imposizione alla ricerca biomedica di limiti e barriere che non siano motivati da possibili danni, realmente e chiaramente provati, arrecati direttamente o indirettamente ad altri. (...)
Convinti che ogni nuova scoperta conoscitiva o tecnica possa generare conseguenze tanto positive quanto negative, riteniamo che si debba vigilare per rilevare tempestivamente i danni che ne possono derivare, ma che sia ingiustificato porre alla ricerca scientifica limiti pregiudiziali in nome di un generico e difficilmente quantificabile principio di precauzione, o trattarla come un’attività puramente strumentale . Alla ricerca scientifica riconosciamo il valore intrinseco che deriva dal suo contributo al miglioramento delle condizioni della vita umana. (...)
Riteniamo che la procreazione debba essere intesa come un atto responsabile, nel quale i genitori debbano tenere conto del proprio patrimonio genetico per tutelare la salute del nascituro, che la gravidanza possa essere interrotta per tutelare la libertà riproduttiva della donna e la salute del nascituro, che sessualità e procreazione possano essere distinte e che alla procreazione possano provvedere singoli e coppie nei diversi modi messi a disposizione dalla pratica medica.
Riteniamo che ci debba essere il più largo accesso alle diverse forme di controllo delle nascite, a partire dalla contraccezione e sterilizzazione volontaria per arrivare alle nuove forme con le quali si riesce a bloccare il processo riproduttivo, dalla contraccezione d’emergenza alle nuove modalità di aborto. Indichiamo negli ostacoli frapposti alla contraccezione d’emergenza (“pillola del giorno dopo”), dei veri e propri attentati al diritto all’autodeterminazione delle donne e un danno per il Paese. Denunciamo una situazione analoga circa il ritardo applicativo delle nuove modalità di aborto terapeutico (pillola RU486).
Respingiamo il tentativo di imporre pubblicamente la protezione di materiali biologici, come sangue o cellule, con riferimento a regole etiche non condivise. Il divieto imposto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali rischia di isolare il nostro paese dalla ricerca scientifica internazionale e di rendere più difficile o oneroso accedere alle risorse terapeutiche che ne possono derivare (ad esempio attraverso la cosiddetta “clonazione terapeutica” o quella finalizzata alla produzione di organi per i trapianti). Riteniamo che gli embrioni umani debbano essere trattati con grande attenzione, anche perché nella loro produzione sono sempre coinvolte le donne. Ma proprio per questo respingiamo le posizioni ideologiche o dogmatiche che vorrebbero considerarli intoccabili fin dalla concezione ed indipendentemente dal motivo, così come respingiamo la pretesa di imporre per legge l’equiparazione degli embrioni ai cittadini. Il tabù dell’embrione, protetto fin dalla concezione, incorporato nella legge 40/2004 sulla procreazione assistita, impedisce il libero accesso a questa pratica procreativa, costringendo chi ha possibilità economiche ad andare all'estero e vietando di salvaguardare la salute del nascituro con la diagnosi preimpianto.
Anche modi e tempi della morte sono diventati oggetti possibili di scelta. Rivendichiamo la possibilità di scegliere, per mezzo di strumenti come il testamento biologico, i modi nei quali morire, esercitando il diritto di accettare, di rifiutare o di interrompere le terapie anche se iniziate, il diritto di respingere tutti gli interventi medici non voluti, fossero anche il prolungamento di respirazione, idratazione e alimentazione artificiali, anche qualora non fossero futili. Respingiamo inoltre le sofferenze inflitte senza bisogno, la sublimazione del dolore come esperienza di per sé significativa, il prolungamento della mera vita biologica, quando sia venuta meno ogni prospettiva di guarigione o di ritorno alla vita cosciente. Ma rivendichiamo anche il diritto all’eutanasia volontaria, cioè alla richiesta che si ponga termine alla propria vita, per evitare forme di esistenza dolorose o ritenute per sé non dignitose.
Rifiutando un’idea sacrale della natura, ribadiamo l'impegno a riconoscere nuovi modi di intendere la sessualità e la famiglia. Le differenze di genere e l’evoluzione della loro percezione non sono più così rigide come in passato, e si deve prendere atto che l’orientamento sessuale può assumere varie direzioni. Riteniamo che l’orientamento sessuale, qualsivoglia esso sia, rappresenti un modo per realizzare la propria personalità e che esso possa essere liberamente vissuto, finché non reca danno a nessuno, anche perché una società libera e laica favorisce la sviluppo delle differenze tra i suoi membri.
La famiglia è per noi soprattutto il luogo degli affetti, che possono essere manifestati anche in forme diverse da quelle tradizionali, quali le unioni civili delle coppie di fatto etero ed omosessuali ed ulteriori possibili forme giuridiche di unione fra persone dello stesso sesso, che vanno a collocarsi accanto alla famiglia tradizionale basata sul matrimonio fra uomo e donna. La filiazione e l’adozione stanno assumendo una fisionomia nuova, perché la relazione parentale è connessa alla assunzione di responsabilità nei confronti del nuovo nato. Le responsabilità parentali, che impongono ai genitori l’obbligo di provvedere alla salute e al benessere dei figli, non devono dar loro il diritto di condizionarne rigidamente l’educazione: per questo auspichiamo una società che sappia offrire forme plurali di educazione, capaci di superare le chiusure rappresentate da certe tradizioni familiari e comunitarie.
La bioetica laica è parte di un impegno per una società in cui cresca lo spettro dei modi di vita possibili e diminuiscano le sofferenze dovute all’imposizione di un certo atteggiamento di pensiero, piuttosto che di un altro, soprattutto per una società in cui nessuno possa imporre divieti ed obblighi in nome di un’autorità priva del consenso delle persone sulle quali pretende di esercitarsi.
l’Unità 24.11.07
Le staminali e la trasparenza
di Livia Turco
Caro direttore,
su l’Unità di ieri il professor Maurizio Mori mi rivolgeva un appello per promuovere metodi oggettivi e rigorosi nelle procedure di assegnazione dei fondi pubblici per la ricerca sanitaria, con particolare riferimento alle staminali.
È un appello che accolgo volentieri anche perché la trasparenza nelle procedure e il merito quale unico elemento di valutazione, sono per me da sempre gli unici due criteri che devono regolare l’assegnazione di risorse pubbliche.
Non è un caso che tra i primi atti del Governo figuri proprio l’annullamento del decreto ministeriale del 23 febbraio 2006 con il quale il precedente ministro della Salute aveva stabilito di erogare i finanziamenti per la ricerca finalizzata del Ssn senza alcuna procedura di avviso pubblico ma con assegnazione diretta ad alcuni centri di ricerca.
Quel decreto è stato sostituito da un nuovo decreto del Ministro della Salute del 21 luglio 2006 che ha introdotto per la prima volta il criterio del bando pubblico, con commissione esterna di valutazione dei progetti.
Con questi criteri abbiamo assegnato i 100 milioni di euro per la ricerca finalizzata dello scorso anno.
Con lo stesso criterio l’8 novembre scorso abbiamo pubblicato sul sito del ministero della Salute il bando per la ricerca finalizzata 2007, per un totale di 76 milioni di euro.
Con la legge finanziaria dello scorso anno, inoltre, abbiamo deciso di riservare il 5% dei fondi per la ricerca sanitaria, pari a 15 milioni di euro, ai ricercatori italiani con età inferiore ai 40 anni che potranno concorrere ai finanziamenti sempre con bando pubblico e con selezione da parte di referee esterni.
Questo nuovo bando è stato pubblicato proprio ieri sul sito del ministero della Salute.
Lo stesso sarà fatto per i nuovi fondi a disposizione per la ricerca finalizzata sulle cellule staminali, che saranno oggetto di un apposito bando per un totale di 8 milioni di euro e per l’assegnazione dei quali sarà fatta ovviamente una valutazione indipendente da parte di referee esterni.
Le modalità di quest’ultimo bando saranno definite nella prossima riunione della Commissione nazionale ricerca il prossimo 5 dicembre. Una Commissione significativamente rinnovata e per la quale ho voluto come vice presidente il professor Alessandro Liberati, da anni alla guida del “Cochrane” italiano che è l’ente di valutazione delle ricerche cliniche e della medicina basata sull’evidenza tra i più quotati nel mondo anche per la sua assoluta indipendenza dall’industria farmaceutica
Da sottolineare infine che questi fondi rientrano tra quelli per la ricerca finalizzata che, in base all’art.12 bis del decreto legislativo 502 del 30 dicembre 1992 e successive modificazioni, sono riservati alle Regioni, all’Iss, all’Ispesl, all’Agenzia per i servizi sanitari regionali, agli Irccs e agli istituti zooprofilattici. Gli altri enti di ricerca, compresa l’Università e gli istituti privati, possono concorrere alla realizzazione di tali progetti ma solo sulla base di specifici accordi con i titolari primari di questi finanziamenti.
In conclusione, bando pubblico e commissione di referee esterni per la valutazione di tutti i progetti di ricerca concorrenti ai finanziamenti pubblici, secondo modalità e tempi stabiliti dalla Commissione nazionale della ricerca sanitaria. È questa la procedura che abbiamo seguito e che intendiamo seguire per tutti i finanziamenti per la ricerca sanitaria.
Repubblica 24.11.07
Il segretario del Prc, Giordano: deficit di autonomia del governo
"E Veltroni dov'è? Parla sempre di giovani ma sui precari tace"
Montezemolo è incontentabile e trova sponde nella maggioranza
di Umberto Rosso
PRAGA - «Un errore. Prodi non ponga la fiducia sul welfare, perché non è più possibile che vi sia qualcuno che si tiene sempre le mani libere e altri che devono invece portare sempre la croce dell´essere responsabili». Nel mirino di Franco Giordano c´è Dini, «vedrete che non si fermeranno qui, l´intenzione è di tornare indietro anche rispetto ai miglioramenti varati in commissione, che peraltro sono a costo zero», ma la battaglia del Prc sul protocollo diventa politica, e coinvolge governo e Partito democratico. «Veltroni, dov´è Veltroni? Parla tanto di giovani quando polemizza con noi che ci battiamo contro lo scalone ma ora che si tratta di difendere i precari e stabilizzarne il lavoro, il segretario del Pd stranamente tace». Come a dire che, a giudizio del leader del Prc, c´è proprio la mano del Pd dietro lo strappo di Palazzo Chigi sul protocollo. «Questo governo è malato ma il vero problema di cui soffre non è la mancanza dei numeri al Senato ma un deficit di autonomia: ci sono troppe orecchie sensibili al pressing della Confindustria». Anche se Montezemolo contesta il provvedimento? «Montezemolo è incontentabile. E trova sponde nella maggioranza». A Praga, dove ieri ha incontrato i segretari degli altri partiti della Sinistra europea, il segretario di Rifondazione si è attaccato al telefono con il ministro Ferrero, concordando l´astensione sulla richiesta di fiducia. Il pacchetto welfare, sul quale il Prc ha giocato la partita delle modifiche "di sinistra" dopo il sì al referendum, viene blindato. Prendere? Lasciare? «Io spero ancora che Prodi ci ripensi. E del resto non sappiamo ancora su quale testo il presidente del Consiglio intenda porre la fiducia, ante o post i miglioramenti che, sia pure parzialmente, abbiamo conquistato in commissione». Ma se la fiducia arriva, come tutto lascia pensare, Rifondazione che fa? Giordano non pensa alla crisi, «non vogliamo mettere in discussione il nostro rapporto con l´esecutivo», ma punta ad aprire una pagina nuova: «Insieme a tutte le altre forze di sinistra è arrivato il momento di riscrivere l´agenda delle priorità, senza subire quella del Pd. Precarietà. Aumenti salariali. Ricerca. Mezzogiorno. Ambiente». E gli altri ministri della Cosa rossa che però non hanno seguito l´esempio di Ferrero? Giordano mette le mani avanti, «Mussi non era presente in Consiglio dei ministri, degli altri due non so».
Segnali però di una difficoltà nell´operazione della casa comune di sinistra. Come nella vicenda dello scontro sul simbolo, sul quale i quattro segretari discuteranno in un vertice, probabilmente martedì prossimo. Perciò Giordano lancia una proposta: primarie sul programma del nuovo soggetto, «una consultazione di massa e aperta sulla carta degli intenti che uscirà dagli stati generali del 9-10 dicembre».
Repubblica 24.11.07
Gli appunti di Hanna Arendt
Sono 29 quaderni manoscritti di vario formato, per la maggior parte con la copertina rigida e rilegati a spirale, di cui 28 numerati forse dall'autrice stessa con numeri romani sulla prima pagina, ora raccolti nei Quaderni e diari 1950-1973 , di Hannah Arendt, edizione italiana a cura di Chantal Marazia, per Neri Pozza. Prevalentemente in lingua tedesca (anche se l'inglese, lingua di lavoro, si insinua insieme ad altre lingue da cui cita: il greco, il francese), qui la scrittrice annota, appunta, progetta, discute tra sé e sé i libri che legge, torna su certi temi che come un pensiero dominante l'assillano: la questione del male, e il bene, e la vita e l'amore e il perdono, la solitudine.
Riferendosi in inglese a questi suoi appunti, Arendt usa il termine notebooks , che è diverso da diary; del diario non hanno il ritmo quotidiano, né l'aspetto intimo, segreto. Ma in tedesco, secondo quanto riferisce Lotte Köhler, usò il termine Denktagebuch : a conferma che la traduzione è impossibile. La scelta di mantenere le due parole nel titolo accetta l'impossibilità.
Come che sia, sono quaderni in cui Hannah Arendt appunta i pensieri nel momento della loro insorgenza, pensieri che nella camera oscura di questo primo incontro con la carta e la penna la mente fissa, poi saranno le parole a sviluppare. Anche per chi conosca i libri in cui tali pensieri sono sfociati, la lettura dei frammenti è emozionante.
Sapevamo quanto contasse nello sviluppo del suo pensiero la lettura di Platone, di Kant, di Marx... Qui tornano e ritornano e ogni volta sono veri incontri. Incontri personali, profondi: Nietzsche la sollecita a certi pensieri. Montaigne ad altri. Lei risponde; non a caso, la responsabilità è il suo grande tema. E il suo grande dono. Ha quella abilità, o capacità: ne risponde - del dramma storico che nel cuore del secolo scorso paralizzò fior fiori di intellettuali e pensatori e scrittori, come della filosofia, della politica, delle teorie sociali che interpretano il mondo.
È una donna dotta, Hannah. Ha fatto buone scuole e ha avuto maestri importanti: Jaspers, Heidegger. Ma soprattutto ha l'indipendenza. In ogni citazione che trascrive si sente che non è una ripresa, è un rilancio. Il tono è di austera solitudine. Sì, ha degli amici con i quali dialoga: Mary McCarthy, il marito Heinrich Blücher. Sono presenze che affiorano, ma mai un accenno sentimentale, mai una caduta nel personale.
Non parla di sé. Solo due volte, se non ho contato male, affiorano con incantevole pudicizia i fantasmi della sua vita privata, il padre, ad esempio. Nel luglio 1970 annota: «mi ricordo ciò a cui pensavo a sette anni, il giorno in cui morì mio padre - cioè primo, non dobbiamo importunare Dio con le preghiere, secondo, non voglio dimenticare?» E conclude: «mi sento assolutamente identica a me stessa: sono sempre io». Così ribadisce come la sua propria esistenza sia per lei un esperimento, oltre che un'esperienza; il banco di prova del suo pensiero.
L'altro dato personale, intimo, che penetra queste pagine è un sogno del novembre 1968. Sogna Kurt Blumenfeld, dirigente dell'Organizzazione sionista, ormai morto, al quale la legavano l'amicizia e posizioni avverse, contrarie, rispetto al sionismo. Kurt si leva il sigaro di bocca e fa per baciarla. E lei ride. E si sveglia ridendo per la gioia di un incontro inatteso.
Quanto alla morte del marito, scomparso il 31 ottobre 1970, la trascrive rapidamente il 25 novembre. La prossima intestazione nel quaderno è all'inizio del 1971: «Senza Heinrich. Libera come una foglia al vento».
Repubblica 24.11.07
"Noi", il romanzo scritto da Evgenij Zamjatin nel 1922, per anni proibito nell'Unione Sovietica
La fantascienza odiata dall´Urss
di Franco Volpi
Zamjatin, ingegnere navale di professione e maestro di fantascienza a tempo perduto, immagina che in un remoto ma inevitabile futuro l'intera umanità cadrà sotto il governo totalitario dello Stato Mondiale Unico. Guidato da un Grande Benefattore e controllato da Guardiani che soffocano ogni dissidenza, esso trasforma gli individui in numeri e li priva dell'immaginazione per garantire l'«armonia quadrata», matematica, dell'insieme. La vita è scandita dal «Libro delle Ore» che impone a tutti lo stesso identico ritmo e dunque la perfetta coincidenza di tutti i movimenti e tutte le azioni. Formato da individui che vivono come cifre, secondo le armoniose leggi della tavola pitagorica, lo Stato Unico è un ingranaggio perfetto in cui regna la felicità.
Il protagonista, un matematico che si chiama D-503, progetta un gigantesco razzo di vetro e acciaio, l'Integrale, per diffondere nell'universo il modello politico dello Stato Unico. D-503 si lascia però infettare da un numero irrazionale, ovvero si invaghisce di I-330, giovane rivoluzionaria adepta di un gruppo segreto che cospira per impadronirsi dell'Integrale e sovvertire lo Stato. Grazie ai Guardiani, che neutralizzano il complotto, il Benefattore riafferma la sua sovranità ed escogita un modo per garantire definitivamente la stabilità dell'ordine: una Grande Operazione di lobotomia che recida in tutti gli individui la parte del cervello dove ha sede l'immaginazione. È infatti l'imprevedibilità di questa facoltà a produrre instabilità, disordine, disgregazione. Subita l'operazione, gli Uomini Nuovi sono finalmente adatti per inserirsi nell'ordine dello Stato Unico.
Questo fulminante e pionieristico romanzo anti-utopico, scritto tra il 1920 e il 1922, e proibito nell'Unione Sovietica fino al 1989, fu noto dapprima nella traduzione inglese (1924), poi in quella ceca (1927) e francese (1929), e solo nel 1952 fu pubblicato a New York il testo russo integrale. Su quest'ultimo è basata la versione italiana di Ettore Lo Gatto del 1955, ora rivista da Barbara Delfino e curata da Stefano Moriggi. Ispirato ai racconti fantastici di Herbert G. Wells, esso è stato a sua volta preso a modello da Aldous Huxley in Brave New World , da George Orwell in 1984, e soprattutto da Ferdinand Bordewijk nel racconto Blocchi , che sviluppa il motivo del «cubismo di Stato» in uno stile secco, ficcante, incisivo molto simile a quello di Noi.
Il romanzo fu subito letto come una corrosiva critica del sistema sovietico, allora appena sorto, e Zamjatin si salvò solo grazie alla protezione di Gorkij emigrando a Parigi. Fu anche accusato di trotzkismo perché accennava a «infinite rivoluzioni». In realtà, esse non hanno nulla a che fare con la «rivoluzione permanente» di Trotzkij, ma sono il risultato della dialettica di due principi, come Zamjatin spiega in un saggio coevo Su letteratura, rivoluzione, entropia e altre cose : «Due forze governano il cosmo: l'entropia e l'energia. La prima produce la quiete pacifica e l'equilibrio beato, l'altra conduce alla rottura dell'equilibrio, all'inesausto e doloroso movimento». E aggiunge: «L'unica (amara) medicina contro l'entropia dell'esistenza umana è l'eresia». Ma la vera speranza è il fatto che il Dio creatore di questo mondo è «il più grande degli scettici», e che perciò è ragionevole supporre che anche sullo Stato Unico - che in verità descrive una condizione che non è mai stata, e che mai sarà - incomba un destino di transitorietà in ragione del quale prima o poi esso imploderà. Alla fine si radica in noi un convincimento: l'immaginazione è l'unico luogo di questo mondo in cui vale la pena abitare.
Corriere della Sera 24.11.07
Le origini della specie secondo il premio Nobel
L'uomo di Edelman. In principio fu il cervello
La coscienza, la memoria e il linguaggio sono alla base di tutto ciò che siamo
di Sandro Mondeo
Secondo una diffusa convinzione, ogni tentativo di far interagire le scienze dure e le scienze umane (l'oggettività dei dati fisico-biologici e la soggettività dell'esperienza) non può che risolversi in un black-out di reciproche preclusioni.
Ma da sempre, l'immunologo e neuroscienziato Gerald Edelman (Nobel 1972 per la medicina) ha contrastato questa convinzione, tanto che nel nuovo libro arriva a trattare frontalmente la «seconda natura» della nostra specie, cioè proprio quelle funzioni psicologiche e mentali irriducibili ai livelli opachi della biochimica.
In una prima parte in cui condensa l'avvicinamento concentrico dei libri precedenti, Edelman ribadisce come alla base di tutto si situi la sua teoria del cervello e della coscienza come prodotti della «selezione naturale», teoria in grado di sequenziare due svolte evolutive capitali: quella che ha portato (circa 250 milioni di anni fa, con la transizione dai rettili agli uccelli e ai mammiferi, in linee separate) alla «coscienza primaria» di certi animali, simile a un «presente ricordato»; e quella che ha portato — in tempi più recenti e rapidi — alla «coscienza di essere coscienti » (la nostra), emersa dall'integrazione tra coscienza primaria, memoria simbolica e linguaggio. Centrale, in questa emersione, è il meccanismo del «rientro», l'incessante brusìo neuronale con cui il sistema talamo-corticale tesse la «diffusa sincronizzazione» tra mappe cerebrali differenti: esemplare il caso della visione, con 33 aree specializzate (V1 per l'orientamento degli oggetti, V4 per il colore, V5 per il movimento…) che vengono così armonizzate in un quadro unitario.
Poi — con la cautela e il rigore consueti— Edelman prova ad avvicinare altre «funzioni superiori» complesse, arrivando a risultati spesso controintuitivi. Sottraendo il linguaggio a ogni prospettiva platonica o «mentalista », lo inquadra come approdo di un processo passato per la stazione eretta dello scheletro, l'evoluzione del tratto sopralaringeo, l'espansione della corteccia e culminato nel formarsi di schemi cerebrali pre-sintattici a partire da quelli sulla regolazione delle azioni senso-motorie. Pur riconoscendo la potente capacità di astrazione delle facoltà logico- matematiche, ne scorge l'origine in dinamiche evolutive inseparabili per lungo tratto da quelle emotive, e ne coglie l'antefatto generale nel «riconoscimento delle configurazioni » utile al cervello per orientarsi nello spazio circostante. E restituendo alla creatività un'accezione trasversale, scientifica e umanistica, ne dimostra la dipendenza da una «ridondanza funzionale» del cervello — da un ventaglio infinito di variazioni scremate per la loro efficacia adattativa solo a posteriori — che ritroviamo già ai livelli più «bassi» della selezione, come nel caso dei cento miliardi di anticorpi attivi per neutralizzare e poi riconoscere virus e batteri.
Particolarmente notevoli le pagine su psico e neuropatologia. L'analisi originale di molti disagi mentali anche gravi riconduce per esempio la schizofrenia non solo a precise componenti genetiche, ma anche (per quanto riguarda le allucinazioni visivo-uditive e il quadro dissociativo) a una possibile alterazione della sincronizzazione del «rientro » tra certe aree. Mentre la rilettura critica di Freud (una delle più pacatamente provocatorie del libro) ne rivaluta da un lato — a differenza di altri neuroscienziati — molte intuizioni descrittive (dall'inconscio alla struttura tripartita in Io, Es, Super-io) e ne evidenzia, dall'altro, tutti i limiti (la vaghezza di molte metafore, l'applicazione troppo invasiva e indifferenziata delle alterazioni psicosessuali come cause di disagio e, fatalmente, l'approssimazione neurobiologica, di cui del resto Freud stesso era consapevole).
Ricordando quasi a ogni pagina la dinamica sottostante alla sua teoria (il costante scambio di segnali tra cervello, corpo e ambiente, e del cervello con se stesso), Edelman approda a una posizione tesa a scontentare tutti. Si distanzia da ogni forma di dualismo più o meno cartesiano tra spirito e materia o di «funzionalismo» (alla base dell'impropria analogia cervello-computer) e più in generale stigmatizza l'«umanesimo altezzoso» che vede ancora la scienza come il regno inerte della quantità; ma disapprova anche la ruvidezza di certa biologia all'ingrosso (l'ultimo Dawkins) e di certa psicologia evoluzionistica ingenua, e più in generale ogni forma di vetero e neopositivismo.
In questa prospettiva, un libro come Seconda natura potrebbe servire a «sanare le fratture». Chi volesse uscire dal black-out dei pregiudizi incrociati, infatti, vi troverebbe, se non la piena luce, almeno il chiarore di una nuova, promettente teoria della conoscenza.
Il libro: Gerald M. Edelman, «Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana», traduzione di Simonetta Frediani, Cortina editore, pagine 172, euro 18. In libreria in questi giorni
Corriere della Sera 24.11.07
La metafora viene prima della logica
di Gerald Edelman
Il cervello, essendo un sistema selettivo, funziona prima facie in base non alla logica, ma piuttosto al riconoscimento di configurazioni. Non è un processo preciso, come nella logica e nella matematica. È invece un processo che può rinunciare alla specificità e all'esattezza, se necessario, in cambio di un ampliamento della varietà.
È probabile, per fare un esempio, che il pensiero dei primi esseri umani procedesse per metafora, la quale, anche dopo l'acquisizione di strumenti precisi quali la logica e il pensiero matematico, continua a essere una fonte importante per l'immaginazione e la creatività nella vita adulta. La capacità metaforica di collegare entità disparate deriva dalle proprietà associative di un sistema rientrante. Le metafore hanno una forza allusiva di notevole ricchezza; tuttavia, a differenza di altri tropi quali la similitudine, non si possono dimostrare né confutare. Ciò nonostante, sono un potente punto di partenza per pensieri da perfezionare con altri mezzi, come la logica. Le loro proprietà sono senz'altro coerenti con il funzionamento di un cervello selettivo che forma configurazioni. È vero non solo che un tale cervello è unico, ma anche che lo stimolo sensoriale offerto dall'ambiente e la risposta motoria dell'animale non sono mai identici da una volta all'altra. Questo esclude i modelli del cervello e della mente considerati come macchine, rendendo invece necessario che la memoria sia una proprietà dinamica di sistema basata sulla ricategorizzazione, non un archivio fisso di tutte le varianti di una scena, per esempio di una stanza familiare in cui ci si è trovati in molte occasioni.
Corriere della Sera 24.11.07
Antica Grecia, un mito da antropologi
di Eva Cantarella
La «nostra» storia è cominciata in Grecia, o in tempo molto più lontani, in quell'Oriente nei confronti del quale l'Occidente ha debiti per troppo tempo negati? Perché, superata finalmente la fase della loro mitizzazione, continuiamo a tornare ai greci ogni volta che riprendiamo a ragionare su temi, ad esempio e in primo luogo, come la democrazia? Il più recente intervento su Noi e i Greci (titolo del suo ultimo libro), è di Marcel Detienne, ed è una proposta di metodo: scrivere «un'antropologia con i greci». Studiare i greci da storici, ma anche da antropologi.
La scienza storica, quando si istallò nelle Università, in concomitanza con la comparsa delle prime grandi nazioni, si diede come oggetto privilegiato una storia «nazionale », superiore e dunque incomparabile con ogni altra. L'antropologia, che è comparazione, cominciò allora a essere guardata con sufficienza: non era «scientifica », e ancora oggi sono pochi gli storici che praticano i vastissimi territori della comparazione. Ma cosa significa, esattamente, «antropologia con i greci»? Un esempio: «È opinione largamente condivisa negli Stati Uniti d'Europa e d'America che la democrazia sia caduta dal cielo, una volta per tutte, in Grecia, anzi in una sola città greca, l'Atene di Pericle».
Ma la democrazia ha esordi «multipli»: per esempio, gli storici dell'Ucraina e del mondo russo hanno riscoperto i modi così stranamente «democratici» dei cosacchi dal XV al XVII secolo, e gli antropologi, nell'Etiopia meridionale, hanno rilevato la presenza di riunioni assembleari pari a veri e propri «luoghi del politico». Uno fra i tanti esempi con i quali Detienne mostra che «no, la nostra storia non comincia con i greci»: è infinitamente più ampia. Senza diminuire la quantità e la grandezza dei nostri debiti verso la Grecia, è bene che qualcuno ce lo ricordi.
MARCEL DETIENNE, Noi e i Greci RAFFAELLO CORTINA EDITORE PAGINE 166 e 18,50
Liberazione 24.11.07
Giordano: questo governo non ha autonomia da Confindustria
intervista di Stefano Bocconetti
Il segretario del Prc (da Praga, dove si apre il congresso della sinistra europea) parla del decreto sul welfare e della prova di forza dei partiti moderati
Dice che il governo si fa condizionare da Montezemolo e le conseguenze rischiano di essere «bruttissime»
Praga. C'è poco da fare, ci si può allontanare quanto si vuole ma tante cose ti riportano lì. A quel che accade nella politica italiana. Franco Giordano è a Praga, per partecipare al secondo congresso della Sinistra europea. E' qui per discutere come entrare in sintonia coi movimenti sociali che attraversano il vecchio continente, quali obiettivi disegnare per la sinistra. Un'agenzia arrivata sul telefonino segnala però quel che sta avvenendo a Roma, il consiglio dei ministri che dà via libera alla fiducia. E si ritorna a parlare di cose italiane. Anche se la distanza, stavolta, consente di parlarne senza stare attenti alle virgole. Senza diplomatismi. E le parole di Giordano, qui a Praga, sono dure, nette. Per lui i problemi di questo governo non dipendono dall'«esiguità dei numeri». Non è vero insomma che l'esecutivo di Prodi sia nei "guai" solo perché al Senato può contare su due, tre voti di maggioranza, che poi - tante volte - si riducono ad uno. Non c'è solo questo, c'è un problema più "politico". Questo: «La precarietà del governo non deriva dalla risicatezza dei numeri. Viene invece dal deficit di autonomia che rivela nei confronti della Confindustria». Di più. In una chiacchierata coi giornalisti italiani che sono qui a Praga, Giordano si spinge più in là. Fino a definire questo governo «non completamente libero».
Non può decidere da solo, in libertà, insomma. Montezemolo lo fa per lui.
Ed è probabilmente ancora alla Confindustria che bisogna risalire se si vuole trovare un "ispiratore" del voto di fiducia. «Fiducia alla quale siamo assoltamente contrari - continua Giordano, mentre ci si prova a scaldare in una Praga davvero gelida - C'è il rischio di vanificare tutto il lavoro svolto per migliorare il testo sul welfare». E l'ipotesi che sia messa la fiducia sul primo testo, su quel primo, brutto testo uscito dal confronto coi sindacati? «E' un'ipotesi che non voglio neanche prendere in considerazione. Perché in quel caso le conseguenze sarebbero davvero brutte». Anzi, il segretario di Rifondazione usa proprio il superlativo: «Bruttissime».
Rifondazione è contraria. Vuole un dibattito parlamentare. E lo vorrebbe libero. «Com'è giusto che sia quando si toccano argomenti così rilevanti». E la precarietà lo è. Già, la precarietà. «Io mi ricordo, ed è questione di poche settimane fa, quando Veltroni attaccando chi voleva eliminare lo scalone, ripetava ossessivamente che la sinistra e i sindacati erano conservatori. Che bisognava occuparsi dei giovani, della loro condizione lavorativa. Noi, con mille difficoltà, lo abbiamo fatto, portando a casa anche qualche risultato. Mi piacerebbe, però, sapere dov'era finito Veltroni durante questa difficile trattativa . Semplicemente non c'era». Scomparso. A discutere, a trattare, a negoziare c'è rimasta però la sinistra. Tutta la sinistra. Che unitariamente rivendica ora il diritto a discuterne in aula. «Non fosse altro che per fare emergere i condizionamenti della Confindustria su tanta parte delle forze politiche».
Sinistra che parla con un solo linguaggio su questi temi. Sinistra che già immagina un "percorso" - lo chiamano così - per il dopo welfare. Che insomma ha già chiaro su cosa darà battaglia all'indomani dell'approvazione della finanziaria e delle misure sulle pensioni e stato sociale. Anche in questo caso, la lontananza dai Palazzi della politica permette a Giordano di parlare più direttamente ai suoi interlocutori. E dice così: «Francamente non se ne può più del fatto che sia il partito democratico a dettare l'agenda del dibattito politico". La sinistra, insomma, ha in mente altre priorità. Ben diverse da quelle di Veltroni e Montezemolo. Riguardano il lavoro, i suoi diritti, la sua tutela. La sua retribuzione. "E su questo apriamo una vera e propria campagna. Le possibilità sono due. O si reintroducono elementi di fiscal drag o si detassano i prossimi aumenti contrattuali. In ogni caso, sul tema occorre intervenire. E subito».
Questi sono gli obiettivi. Sono gli obiettivi della sinistra. Che, contemporaneamente, però ha un altro "lavoro" da fare: deve avviare una profonda riorganizzazione, di più: deve ripensarsi da cima a fondo. Ed eccoci a parlare della "cosa rossa". Quel che Giordano pensa l'ha spiegato pochi giorni fa: anche lui, come la Rossanda, chiede un'accelerazione nella costruzione del nuovo soggetto unitario e plurale. Tempo non ce n'è molto. «Qui davvero si richia. Si rischia di venire stritolati, stretti fra la sortita di Berlusconi - che gioca anche con "l'antipolitica e che può arrivare a toccare pezzi della nostra gente" - e la passività dei democratici. Si rischia il declino». Bisogna fare in fretta, insomma. Anche se - come dicono le cronache - sembra che ogni giorno la "cosa rossa" abbia la sua polemica. L'ultima riguarda l'"indisponibilità" di qualcuno ad accettare una riforma alla tedesca del sistema elettorale. Anche in questo caso Giordano è diretto: «Diciamoci la verità: ragionevolmente ci sono solo due possibilità. O il referendum o il sistema tedesco. Non si scappa. E allora pensare ancora in termini di nicchia, di consenso di nicchia, rischia di farci impantanare tutti». La sinistra non se lo può permettere.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 23 novembre 2007
l’Unità 23.11.07
Polemiche. L’embrione dell’Avvenire
di Carlo Flamigni
Colpisce l’entusiamo con il quale l’Avvenire ha accolto i recenti risultati sulle staminali adulte
Ma quei risultati non sono forse stati ottenuti proprio grazie a ricerche sugli embrioni?
Non dico di essere commosso, ma certamente sono molto colpito dall’entusiasmo che alcuni commentatori cattolici dimostrano nel presentare, su Avvenire e su altri giornali, le ultime novità della ricerca sulle cellule staminali. Si è letteralmente messa in moto una gioiosa macchina da guerra (che importanza ha che si tratti solo di soldatini di latta? Importanti sono l’entusiasmo e la buona fede), e la fresca ingenuità degli articoli fa passare in secondo piano il fatto che questa stampa cerchi di ammannirci un numero incredibile di inesattezze, che ignori alcuni dei punti più importanti della questione, che citi solo quello che conviene, insomma, che rappresenti un esempio luminoso del giornalismo più indecoroso e insincero.
Un signore che non conosco, tale Luc Volonté, ha persino scritto che a questo punto dovrei chiedere scusa agli italiani (a tutti? anche agli embrioni?). Il signor Volontè, che immaginavo di origini francesi, è invece un italiano che sa poco di biologia e del quale si cita una iniziativa contro un fantomatico «Monte dei Maschi di Siena», la maggiore banca del seme italiana (ma secondo me è una calunnia). A mio avviso dovrebbe chiedere scusa lui all’italiano per aver usato la parola «occisivo» alludendo alla fecondazione assistita.
Riassumo per i meno attenti. Tutti ricorderanno la diatriba che riguarda le cellule staminali, i cattolici appassionatamente dedicati a sostenere la ricerca sulle staminali “adulte” e a ricordarci con tediosa insistenza che l’embrione è uno di noi, che la ricerca sulle staminali embrionali sacrifica migliaia di esseri umani, magari un po’ piccoli, ma sempre uguali a noi esseri umani adulti, gli altri a sostenere che le cellule staminali embrionali sono, tra tutte, le più dotate della potenza indispensabile per trasformarsi in cellule dei più diversi tessuti. Tra le molte critiche che i bioeticisti cattolici hanno avanzato nei confronti dell’impiego delle staminali embrionali, ne cito al momento solo una: si tratta di esperimenti pericolosi perché nella loro attività proliferativa le staminali embrionali comprendono anche un possibile sviluppo di tumori.
Ora, scienziati di due differenti équipes, una giapponese e una americana, hanno ottenuto cellule staminali molto simili a quelle embrionali partendo da linee cellulari adulte prelevate dalla pelle (quindi non da cellule staminali) sia umana che di animali da esperimento. Per ottenere questo risultato hanno inserito nelle cellule le copie di quattro geni (presenti nel corso dello sviluppo embrionale, ma inattivi nelle cellule differenziate adulte) affidati a un retrovirus che si è comportato da vettore. Una volta riattivati, i geni hanno ricostituito nelle cellule una condizione di pluripotenza indistinguibile da quella delle cellule staminali embrionali, consentendo loro di trasformarsi nelle cellule di qualsiasi tessuto umano. Nella sperimentazione fatta sul topo, queste cellule sono state trasferite all’interno di una blastocisti (un embrione giunto al quinto giorno di sviluppo) e hanno contribuito alla formazione di topi chimerici, essendo presenti persino nelle cellule germinali.
Leggere i titoli dei giornali cattolici è una vera esperienza di vita: «Scienza, uccidere non serve»; «Spazzato via l’alibi di chi distrugge embrioni»; «È ideologico perseverare sugli embrioni». La lettura degli articoli è ancora più appassionante: si va da un benevolo «Chi insiste su questa strada lo fa per interessi diversi da quelli scientifici» a un ingenuo «Bye Bye Dolly», apprezzabile perché supplisce alla scarsa cultura con un simpatico entusiasmo.
Poi uno va a leggere un po’ meglio i resoconti e le interviste, e scopre che sia il giapponese (Yamanaka) che l’americano (Thomson) hanno dichiarato che questi progressi della ricerca scientifica non tolgono nulla all’importanza delle ricerche sulle cellule staminali prelevate dagli embrioni, che continueranno; scopre che entrambi affermano che questi sono risultati preliminari e che bisogna avere molta pazienza prima di poter dare per dimostrato che esiste una applicazione pratica di queste scoperte; che queste cellule hanno la capacità di indurre la comparsa di tumori (ma non era il più straordinario degli ostacoli all’uso delle cellule staminali embrionali fino a ieri?); che bisogna ancora apprendere come poter distinguere con certezza le cellule staminali embrionali da quelle create grazie al nuovo metodo scientifico; che non è ancora sufficientemente chiaro se queste cellule siano analoghe a quelle prelevate dalla massa cellulare interna della blastocisti (in questo caso sarebbero pluripotenti) o piuttosto simili ai blastomeri delle morule (e in questo caso si tratterebbe di cellule totipotenti, cioè di embrioni, e allora che cavolo mi state a raccontare? siamo punto e a capo).
A me sembra che la cosa più interessante che risulta da queste ricerche è il riconoscimento della fondamentale importanza delle cellule staminali embrionali, comunque ottenute: la ricerca sulle cellule staminali embrionali è più importante di quella sulle staminali adulte. Quale sarà poi il miglior metodo per ottenerle, lasciamo che ce lo dica il tempo, i ricercatori si adegueranno alla sperimentazione più semplice e meno costosa, nessuno di loro è matto e anche i Frankestein, all’interno del loro sparuto gruppo, sembrano distratti da altre preoccupazioni (capire per esempio dove sono andati a nascondersi tutti quegli uomini politici e quegli scienziati che hanno sempre cercato di sostenere le loro - legittime - riserve etiche raccontando in giro che la ricerca sulle staminali embrionali non serviva a niente e che era più che sufficiente quella sulle staminali adulte).
Vorrei comunque alcuni chiarimenti, da questi simpatici festaioli (è generico, tra loro ci sono anche distinte signore). Anzitutto vorrei conoscere le ragioni di tanta sorpresa e di tanti elettrizzati peana di vittoria: se non ricordo male il professor Vescovi, aveva già superato tutti i motivi di questi contrasti etici quando (Science, 1999) aveva dichiarato di poter trasformare le cellule staminali adulte del cervello in sangue, avendo scoperto che le adulte erano altrettanto pluripotenti quanto le embrionali al punto da rendere queste ultime inutili. In ogni caso, se questa è la via da seguire, quella da chiudere con urgenza è la strada lastricata d’oro del trapianto di cellule staminali adulte prelevate da aborti spontanei, mai caratterizzate, mai validate, sulle quali i ricercatori cattolici e gli atei compunti sembrano insistere tanto. In terzo luogo, vorrei tanto sapere come mai non ha più nessuna importanza, per tanti bravi cattolici, la famosa cooperatio ad malum in nome della quale, fino a non molto tempo fa, venivo brutalmente zittito nei pubblici dibattiti. Capisco che la cosa può sembrare misteriosa, ma non è così, ve la spiego rapidamente. Questo concetto si basa sul principio della cosiddetta complicità indiretta: se qualcosa deriva da una catena di eventi che inizia con un atto moralmente eccepibile, tutti i suoi anelli sono macchiati dalla immoralità originaria, non importa quanto grandi siano i benefici e indipendentemente dal fatto che l'atto immorale iniziale sia stato o no condannato da chi ha potuto fruire di questi vantaggi, perché l’immoralità, il disvalore, si trasferisce dal primo atto eticamente condannabile a tutti gli atti successivi. È possibile che questo trasferimento di colpa implicita si arresti in un qualsiasi stadio della catena di indagini, così che da quel momento in avanti chi trae vantaggio dai risultati possa essere considerato esente da colpe morali? Non ne sono sicuro, ma immagino che la risposta dipenda da molte cose, come la gravità dell’atto, il carattere determinante della cooperazione, la natura dei benefici e il fatto che essi siano così importanti da incoraggiare la ripetizione dell’atto immorale iniziale. In ogni caso, ritengo che sarebbe immorale utilizzare una conquista scientifica che si fosse basata su ricerche eseguite dai criminali tedeschi nei campi di concentramento. In ogni caso, la Pontificia Accademia per la vita ha condannato non solo la possibilità di utilizzare le cellule staminali embrionali, ma anche la loro progenie cellulare e ciò perché esiste «cooperazione materiale prossima nella produzione e nella manipolazione degli embrioni umani da parte del produttore o fornitore»: è complicità indiretta, cooperatio ad malum.
Che nessuno per favore mi venga a raccontare che gran parte delle conoscenze che hanno consentito a Thomson e a Yamanaka di ottenere i risultati dei quali discutiamo non derivano da studi eseguiti sugli embrioni, studi dei quali Thomson è particolarmente esperto, studi che Yamanaka continuerà a condurre per accumulare ulteriori conoscenze. Quindi, come la mettiamo? Uccidere non serve (forse) più, abbiamo già dato? O la religione cattolica ha deciso di adeguarsi, di non prendere troppo di petto questo mondo inquieto e incerto e di inserire, tra i propri comandamenti, anche un bel “scurdammoce o’ passato”?
Leggo, tra le richieste dei bioeticisti cattolici, anche quella di sospendere i finanziamenti delle ricerche sulle staminali embrionali (ma non è un suicidio? Anche quelle di Yamanaka sono, adesso, staminali embrionali!), ma su questo punto ritornerò, ho bisogno di spazio. Per il momento mi limito a riproporre ai bravi cattolici la questione che ho già presentato loro in un precedente intervento su questo giornale: come mai i vescovi irlandesi si sono dichiarati tutti favorevoli a modificare la norma costituzionale che prevede la protezione dell’embrione a partire dal concepimento spostando l’inizio di questa tutela al momento in cui l’embrione si impianta? In altri termini, come mai i buoni vescovi irlandesi hanno scelto di privare di protezione l’embrione fuori dal grembo materno, autorizzando implicitamente la produzione di cellule staminali dalla blastocisti e altre consimili porcherie? Non ci saranno, in seno al Vaticano, eretici e miscredenti che si sono lasciati contagiare da queste o da altre teorie diaboliche? Non sarebbe poi così strano, tutte le dittature creano qualche forma di resistenza, perché la dittatura dell’embrione dovrebbe fare eccezione?
l’Unità 23.11.07
Anche i finanziamenti hanno un’etica: stabiliamo un metodo, oggettivo e rigoroso, per decidere chi ne può beneficiare
Staminali, quando una commissione sui fondi?
di Maurizio Mori *
Gentile ministro Turco,
la recente scoperta giapponese e americana suggerisce che le staminali embrionali sono meglio delle adulte. Altrimenti non si vede perché Yamanaka abbia trovato il modo di riportare le cellule adulte... alla fase embrionale. Quello scoperto non è altro che un metodo alternativo per ottenere cellule staminali embrionali o simili alle embrionali. Non equivale a dire che queste ultime sono incredibilmente interessanti? Eppure sono in molti, anche scienziati, ad avere giurato il contrario ancora prima che gli esperimenti venissero fatti.
Che il nuovo metodo funzioni è comunque da verificare. Siamo contenti che sembri essere eticamente più accettabile, ma la divergenza su questo piano non è decisiva: non si vede perché gli scrupoli di alcuni cattolici dovrebbero bloccare la ricerca. Il punto fondamentale è che, per far avanzare la scienza, si devono studiare le staminali embrionali.
Questo dato deve avere conseguenze circa l’enorme quantità di fondi che sono stati stanziati per le staminali adulte. Per ora, al di là di lanci di agenzia, di risultati non se ne sono visti. Lo scorso anno l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha sostenuto il laboratorio di Angelo Vescovi a Terni, il quale annunciava che a settembre di quest’anno avrebbe iniziato la sperimentazione sull’uomo. Non sembra che la promessa sia stata mantenuta. Anzi, il 19 settembre su Avvenire diceva che gli mancavano 200.000 euro ed apriva una sottoscrizione, affermando che senza il mecenatismo del vescovo Paglia non poteva avere neanche il rimborso delle spese di viaggio. Nello stesso intervento ha anche dichiarato di aspettare ben 300.000 euro dall’Iss per la sua ricerca sulle staminali. Da dove arrivano questi soldi? Ebbene, è giunto il tempo di fare chiarezza e che su questo aspetto si esca dall’ambiguità. Anche la ricerca e l’assegnazione dei finanziamenti deve avere un’etica.
Signora ministro, istituisca una Commissione apposita composta da persone di specchiata moralità che controlli la distribuzione dei fondi di ricerca avvenuta in passato dalla gestione Garaci, che Lei ha riconfermato alla guida dell’Iss. E per il futuro, che si instauri il sistema della “peer review”, che non è un mettersi della cipria per dare un po’ di tono e continuare a fare come prima, ma un sistema rigoroso, strutturato e organizzato di valutazione della scienza che, non dimentichiamolo, è un bene di tutti.
*Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino
l’Unità 23.11.07
L’accordo sul protocollo è un campo di battaglia
La commissione vara il decreto, ma Rc chiede altre modifiche
Il governo potrebbe porre la fiducia: deciderà Prodi
di Bianca Di Giovanni
COMPROMESSO La lunga marcia del welfare finisce con un accordo raggiunto in nottata, che a metà pomeriggio sembra già un campo di battaglia. Rifondazione alza nuovamente il tiro e rinvia la battaglia in Aula, i socialisti (che si sono astenuti in commissione) annunciano un no al Senato, i diniani esprimono perplessità. Senza contare che su molte modifiche introdotte il governo ha dato parere negativo. Preoccupazioni anche in casa sindacale (soprattutto per la reintroduzione del job on call, contro il parere del governo), mentre Confindustria alza ancora la voce per le «concessioni» sui contratti a termine. Insomma, tutto sembra, meno che un accordo, anche se escono soddisfatti dalla commissione i democratici, i comunisti italiani e i centristi. «È il massimo che si poteva ottenere - dichiara il relatore Emilio Del Bono (Pd) - La maggioranza tiene salvando l’accordo con il sindacato. Garantiremo l’approvazione entro il 31 dicembre. Dini? Non ha alcuna ragione di lamentarsi perché il vincolo economico è stato rispettato». Sulla stessa linea Pagliarini. «Non ci sono alternative a questo testo - dichiara - visto che l’accordo è stato raggiunto dopo forti tensioni».
A questo punto molti pensano a una blindatura in Aula, presumibilmente sul testo varato. Lo stesso Vannino Chidi dice che «ora non si tocca una virgola». Il sottosegretario Antonio Montagnino non scioglie la riserva (bisognerà aspettare che Romano Prodi torni da Mosca), ma si impegna a recepire in Aula le richieste dei socialisti sull’indennità per i co.co.pro. Tutta la partita, già complicata di per sé, è stata appesantita da una forte concorrenzialità tra i diversi partiti della sinistra e all’interno degli stessi partiti. Dalla segretria di Rifondazione è subito arrivato il diktat di alzare il tiro: ma tutte le modifiche approvate hanno la firma di Pagliarini (pdci): la cosa ha aumentato la rincorsa, e oggi il partito di Giordano rilancia chiedendo quello che non è riuscito a far passare: il diritto di precedenza sulle assunzioni per chi ha già un contratto a termine. Ma su quel punto il no di Confindustria è netto. Stesse tensioni con i centristi sul job on call (votato da Ulivo e centrodestra): lo scambio con lo staff leasing è stato necessario per accontentare le pressioni del comparto del turismo e dello spettacolo, e per poter introdurre le modifiche sui contratti a termine. Ma quello scambio non piace affatto al sindacato, che considera il lavoro a chiamata più pericoloso dello staff leasing, un tipo di contratto poco utilizzato, che riguarda comunque il lavoro a tempo indeterminato e non i precari. Tanto più che Confcommercio già chiede di ampliare il caso anche al suo settore, proprio nel momento in cui è in atto un difficile rinnovo del contratto. Anche l’eliminazione del tetto ai lavori usuranti, apparentemente una vittoria per le sinistre, in realtà complica la situazione: il sindacato infatti chiedeva una norma, ma togliere semplicemente il tetto senza indicare un criterio selettivo inchioda il parlamento alla delega. Ecco le novità introdotte dalla commissione. per i contratti a termine è confermato il periodo di 36 mesi, ma si precisa che non devono essere cumulativi. Il periodo si calcola indipendentemente dalle interruzioni che intercorrono tra un contratto e l’altro. Dopo i 36 mesi è possibile una sola proroga (davanti agli uffici del lavoro con i rappresentanti sindacali) che non può durare più di otto mesi. È abrogato lo staff leasing. Per il lavoro a chiamata si conferma l’abrogazione, ma sono state inserite deroghe da definire con un decreto e dopo un confronto con le parti sociali. Per i lavori ususranti salta il tetto delle 80 notti all’anno. Resta la delega al governo a definire la platea, anche se in Aula potrebbe arrivare una norma. Insomma, al partita potrebbe riaprirsi: sicuramente poi in senato il duello si farà duro.
l’Unità 23.11.07
Bertinotti pensa all’egemonia, Diliberto ai sabotaggi
La Cosa rossa va avanti a tentoni. Tutti vogliono accelerare, ma non sanno bene come. Anche sulla legge elettorale
UNA LUNGA riunione sulla legge elettorale: dopo settimane di tensioni e di prese di posizione divergenti dei singoli partiti che dovrebbero dare vita alla fed di sinistra, Prc, Verdi, Pdci e Sinistra democratica si sono visti per la prima volta per discutere del tema più caldo. Tra i presenti, Giovanni Russo Spena e Franco Russo del Prc, Cesare Salvi e Carlo Leoni di Sd, Manuela Palermi e Orazio Licandro del Pdci, Loredana De Petris dei Verdi. Il risultato è che una posizione comune ancora non c’è, e nemmeno una prevalenza del sistema tedesco caro a Fausto Bertinotti. Le prossime tappe del confronto interno alla sinistra dell’Unione sono la stesura di una nota riassuntiva della riunione di oggi, e l’appuntamento per un prossimo approfondimento, forse addirittura seminariale, di una giornata, con esperti di tecnica della legge elettorale.
Se all’ordine del giorno c’è la questione dell’egemonia, posta con forza dall’irrompere sulla scena politica dai partiti a tendenza maggioritaria di Veltroni e Berlusconi, anche a sinistra «non può essere scartata la questione del soggetto politico», ha detto intanto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti alla vigilia del secondo congresso della Sinistra europea di questo fine settimana a Praga. Sinistra europea, nata nel 2004 a Roma, e guidata sino ad oggi proprio da Bertinotti, che lascerà adesso il timone al presidente della Linke tedesca, Lothar Bisky, può essere il parametro di riferimento, anche per l’Italia, per la costruzione della sinistra del XXI secolo, «erede - afferma Bertinotti - della storia del movimento operaio. Non gendarme della tradizione, ma in grado di proporre una nuova idea della sinistra che raccolga questa eredità, cioè la ragione della nascita della sinistra, dell’ascesa del movimento operaio: il tema della liberazione».
Diliberto non la vede bene. «Vedo che vi è chi lavora a creare intoppi al processo unitario -dice-. Vedo che si vogliono aggiungere aggettivi: sia chiaro a tutti, ogni aggettivo tende a dividere, invece che ad unire e rischia di far saltare il banco». «Leggo con preoccupazione - sottolinea - e qualche sconcerto pubbliche dichiarazioni e ricostruzioni giornalistiche, non innocenti, relativamente al processo di formazione della confederazione della sinistra. Si parla di simboli, di veti, di impuntature. I Comunisti Italiani intendono procedere alla riunificazione federale della sinistra con la massima determinazione. Proprio per questo ritengono oggetto di biasimo qualunque fuga di notizie, peraltro destituite di ogni fondamento».
l’Unità 23.11.07
Patrick McGrath, il successo della follia
di Oreste Pivetta
INTERVISTA allo scrittore di origine inglese che vive a New York, molto amato in Italia, dove Bompiani pubblica in anteprima il suo nuovo romanzo, Trauma
Si chiama Patrick McGrath, inglese di nascita, irlandese di famiglia, per lavoro prima canadese e poi americano. A cinquantasette anni è uno scrittore di successo che deve ringraziare il padre psichiatra e la follia degli uomini. Follia è il titolo del libro che lo ha reso celebre in Italia e anche moderatamente ricco: cinquecentomila copie nel nostro paese per la casa editrice Adelphi. Ora Bompiani gli pubblica, proprio in Italia prima che altrove, un altro romanzo, Trauma, titolo che anticipa il «genere», come la copertina, decisamente bella, sensualissima: una donna in canotta che fissa il vuoto in una casa dominata dai verdi cupi o spenti (leggo sul risvolto: Sharon Lockhart, Untitled, 1986, chromogenic print). Per apprezzare questo romanzo bisogna amare le storie d’amore combattute e quelle aggrovigliate di sesso, tra i misteri della psiche, i padri bugiardi, malmessi e patetici, le madri ossessive dominatrici, i fratelli rivali. E naturalmente i ricordi, che sono incubi. Si dovrebbe aggiungere «a New York», perché della città se non c’è la materialità (malgrado qualche «tocco» di strade, case e ristoranti) è presente lo spirito, per lo meno quello di una media classe colta e benestante: il protagonista è psichiatra, il fratello pittore, la madre scrittrice, l’ultima fidanzata è pure scrittrice e critica d’arte... Il padre è il più malandato. Parlano e contano poco un pompiere e un venditore di commercio. Non parlano alcuni reduci dal Vietnam. Ma si sentono.
Perché, McGrath, si è scelto come protagonisti solo signori di buona cultura?
«La follia sta ovunque, ma solo persone colte possono dialogare per interrogarsi sulla propria psiche. E il dialogo è appunto la strada che mi consente di rappresentare i loro tormenti psicologici».
Suo padre era psichiatra. Nel manicomio criminale di Broadmoor. Ma lei non ne ha seguito la carriera...
«Mi ero laureato in storia della letteratura. Non trovavo lavoro e, quando avevo ventuno anni, giustamente mio padre mi spedì all’estero, in Canada, dove cominciai a lavorare in un ospedale psichiatrico. Dove peraltro sviluppavano terapie assai avanzate. Ma capii che non era quella la mia strada. Mi ritrovai senza lavoro, avevo ventisei anni. A quell’età non si può tornare indietro a caccia di un’altra laurea. Cominciai a scrivere e mi sentii a casa».
A parti inverse, le sta bene quanto lei stesso ha scritto in Trauma: «Tutti gli psichiatri sono scrittori mancati».
«Sta scritto così. Un azzardo. Non so se sia vero del tutto. Sono convinto che gli psichiatri siano come gli storici: cercano di comprendere la storia e la natura umana».
Il manicomio le ha offerto però materiale. Basterebbe «Follia», il titolo originale è «Asylum», luogo protetto e prigione...
«Sì, Asylum. Certo. Certo quell’esperienza difficile mi ha dato molto: esperienza di un dramma e di tanti drammi assieme. In Spider soprattutto c’è la traccia del mio primo “lavoro”».
In «Trauma», come in altri suoi romanzi, ai dolori di persone sfiorate, lambite o prese dalla follia si aggiungono le tragedie presenti o postume della guerra. Nel «Morbo di Haggard» era la seconda guerra mondiale. In questo caso si parla del Vietnam e uno dei personaggi, che inquieta assai lo psichiatra protagonista, è proprio un reduce, che con i vietcong s’era messo pure a fare il cannibale. Nel ricordo del Vietnam, pesa la sua storia personale? Pesa l’anagrafe?
«Certo, appartengo alla generazione del Sessantotto, ma la guerra del Vietnam l’ho vista dal Canada, lontano insomma dalle tensioni e dalle emozioni che poteva vivere un mio coetaneo statunitense. Comunque mi sarebbe stato difficile non comprendere anche allora la tragedia storica del Vietnam. Una guerra come oggi la guerra in Irak, che rappresenta sommandoli altissimi gradi di stupidità, inutilità, distruttività. Siamo allo stesso punto. L’America non ha imparato...».
Non ha provato la tentazione di misurarsi con un’altra guerra e con un’altra follia? Lei abita a due passi dalle Torri gemelle.
«E in qualche modo sono stato testimone di quell’orrore. Ho un ricordo indelebile: l’odore, dopo le esplosioni. Ho pensato di rappresentare il trauma subito da quella città. Ground Zero doveva concludere la storia del dottor Charlie Weir nel 2001. Intanto avevo scritto tre racconti dedicati a New York e in particolare a Manhattan. In uno di questi una donna perdeva l’amante nell’attacco terroristico dell’11 settembre. Ho pensato di poter chiudere così e la vicenda di Trauma si è realizzata in altro modo».
Dentro la famiglia...
«Che è la culla della follia. Bisognerebbe ragionare su follia e patrimonio genetico».
Lei è inglese. Shakespeare di follia ne ha descritto molta. Che cosa s’è tenuto della sua formazione anglosassone?
«Certi anglismi, che in un romanzo tutto americano come questo ho dovuto scovare e cancellare attentamente. Forse il ritmo celtico, cioè della vecchia Irlanda, della mia prosa. La definizione di scrittore gotico me l’hanno attribuita altri. Magari l’umorismo».
Mi consenta la domanda sciocca: scrive a penna o al computer?
«Scrivo a penna. A sera trascrivo al computer e stampo. Scrivo e butto via moltissimo. Le pagine finite nel cestino sono la strada che devo percorrere. Una strada di matti verso il romanzo...».
Pensando al cinema? Suoi libri («Spider» con Cronenberg) sono diventati film.
«La scrittura è esigente. Non consente di pensare ad altro».
Perché la follia diventa best seller? Siamo tutti matti?
«No, non tutti».
l’Unità Firenze 23.11.07
Ogni giorno undici donne subiscono violenza
La denuncia di Artemisia relativa a Firenze: la maggior parte degli abusi consumato al chiuso delle mura domestiche. Ma l’associazione riceve in media soltanto 250 richieste di aiuto all’anno
di Sonia Renzini
PREOCCUPANTI i dati toscani: il 26,4% delle donne tra i 16 e i 70 anni dichiara di aver subito una molestia sessuale. Domenica la giornata internazionale contro la violenza
Un fiocco bianco preparato da 50 studenti dell’Istituto d’arte sarà issato domenica alle 11 sul balcone di Palazzo Vecchio a Firenze per dire no ad ogni tipo di violenza sulle donne. Poco più sotto, in piazza Signoria, alcune volontarie distribuiranno migliaia di fiocchi bianchi. Sono solo alcune delle iniziative lanciate dalla campagna del fiocco bianco, in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle donne del 25 novembre, dal centro antiviolenza Artemisia di Firenze in collaborazione con gli enti locali (informazioni e adesioni sul sito www.ilfioccobianco.it). Slogan di quest’anno «la forza è nel rispetto». Poche parole racchiuse in un piccolo fiocco di raso bianco da appuntare sul petto. Quello degli uomini innanzitutto, decisi a non tollerare né a rimanere in silenzio di fronte a un fenomeno che assume dimensioni sempre più inquetanti.
Perché, la violenza domestica è per le donne una delle principali cause di morte. Prima degli incidenti stradali, del cancro e della guerra. Anche in Toscana, dove la media delle donne che hanno subito violenza dal partner è secondo dati Istat del 2007 del 17%, contro la media nazionale del 14,3%. Non solo. La percentuale di coloro che hanno subito abusi nella nostra Regione negli ultimi 12 mesi è del 3.2%. Tradotto in numeri, in proiezione, significa che nella sola Firenze arrivano a 4.166. «Se si tiene conto che la nostra associazione riceve 250 richieste di aiuto da parte delle vittime della violenza in un anno - dice Alessandra Pauncz di Artemisia - si può avere un’idea di quanto sia grande il fenomeno». Per saperne di più basta scorrere i dati Istat: il sommerso raggiunge in Toscana il 95.3% delle violenze da un non partner e il 92.5% di quelle da partner. Non basta: solo il 20% delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale in famiglia la considera un reato, il 45% pensa sia qualcosa di sbagliato e il 33.5% solo qualcosa che è accaduto. Inoltre, più di un terzo delle intervistate sostiene di non averne mai parlato con nessuno.
Eppure, i dati non lasciano dubbi:il 26.4% delle donne toscane tra i 16 e i 70 anni dichiarano di avere subito una molestia sessual una volta nella vita, il 5.8% uno stupro. Per avere un’idea più concreta basta tradurre le percentuali in numeri e proiettarli sulla sola città di Firenze: 7.551 donne stuprate nel corso della vita, 22.133 hanno subito una violenza da un partner o da un ex e 34.371 sono state vittime di almeno una molestia sessuale. Una ragione di più per plaudere alla legge contro la violenza di genere approvata nelle scorse settimane trasversalmente dal Parlamento toscano e ricordata ieri in occasione della presentazione della campagna del fiocco bianco dalle consigliere regionali Anna Maria Celesti e Alessia Petraglia. Insieme, tra gli altri, all’assessore del Comune Daniela Lastri. C’erano anche il presidente della squadra di rugby Firenze 1931 e l’allenatore della squadra di nuoto Rari Nantes. Perché quest’anno,a essere coinvolti in prima persona saranno i protagonisti dello sport. Indosseranno la maglietta con il simbolo della campagna durante le partite e non solo. Il 26 novembre, i giocatori della Fiorentina e di altre squadre sportive consegneranno fiocchi bianchi ai partecipanti della serata organizzata al Viper Theater delle Piagge (ore 19), animata dalla comica Anna Meacci. Prevista anche un’asta di magliette autografate dalle varie squadre, mentre nello stesso giorno il Consiglio comunale cittadino sarà completamente dedicato al tema della violenza sulle donne.
Repubblica 23.11.07
Romolo e Remo. Perché una civiltà si fonda sul mito
Dopo il ritrovamento del lupercale
di Andrea Carandini
Spesso si ricorre alla leggenda per conservare nella memoria qualcosa di grande
Il repertorio delle nascite miracolose e dei gesti eroici si ritrovano in molte epoche
Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l´infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento.
Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l´uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia – principessa di Alba Longa – tanto che nel passaggio all´impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti "augusto" significa l´inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall´esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma.
È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di "irrazionalismo".
La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell´VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l´archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l´epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l´allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium (secondo gli antiquari) o il "centro proto-urbano" (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775-750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all´età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un´autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della "fondazione" di uno stato e non di una lenta "formazione".
Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d´oggi - come quello dell´eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall´assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all´iniziazione di una comunità che vive ancora nell´oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003).
Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella "demitizzazione" -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti.
Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell´intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all´usura del tempo, che si radicano nell´arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all´età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla "mitistoria", che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all´Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?
Repubblica 23.11.07
Un sistema giuridico avanzatissimo che ha ispirato e fondato l´Occidente
DalLa Roma dei pastori alla patria del diritto
di Aldo Schiavone
Alle origini
La Città eterna è quella che più di tutte ha conservato il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria
Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell´intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un´ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari.
Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l´aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell´Ottocento, investiva in pieno l´arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti – di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco – irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un´autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell´idea stessa di cosi significhi scrivere storia.
Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l´analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo.
Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell´età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza.
Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell´Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l´invenzione teologica e l´immaginazione animistica erano totalmente dominate dall´ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un´oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un´osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici – Latini, Sabini, Etruschi – insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile.
Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un´analiticità quasi febbrile – secoli dopo ancora ben chiara a Varrone – nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l´invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l´umano, in cui consiste il primo "ius" – misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con "diritto": la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, "la formula da formulare"), o crea l´obbligo verso il proprio eguale.
Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall´inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l´avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell´antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall´invasività della teologia monoteista (il "non avrai altro Dio" di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente "giuridico") – l´autentico logos della romanità – fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale – un carattere indelebile della nostra civiltà – porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.
Repubblica 23.11.07
Molti miti d'origine fanno nascere il mondo da una lotta fratricida
Gemelli e coltelli un rituale violento
di Marino Niola
La figura chiave. Gli omozigoti hanno da sempre un ruolo da protagonisti nell'immaginario degli uomini. Si può dire che essi siano la personificazione stessa dell'enigma
Mettere al mondo dei gemelli è ovunque un fatto prodigioso. Tranne che in Egitto dove è normale che una donna partorisca sette figli alla volta a causa della fecondità del Nilo. Lo dice Plinio nella sua Storia Naturale. Nella favolosa terra dei Faraoni, dove si favoleggiava che ogni cosa avvenisse all´incontrario, le opere della natura, come quelle degli uomini non hanno nulla di ordinario. Tutto è portentoso, grande, smisurato. E quel che altrove farebbe gridare al prodigio diventa normale in quel paese delle meraviglie. Compresa quella doppia meraviglia che è la gemellarità.
Gli omozigoti hanno da sempre un ruolo da protagonisti nell´immaginario degli uomini. Quasi tutte le mitologie e le credenze tradizionali registrano il disagio e al tempo stesso la forte attrazione suscitati da queste immagini viventi dell´ambiguità, della doppiezza, della ambivalenza. I gemelli danno corpo a una contraddizione, evidentemente irrisolta, fra l´essere uno e l´essere due, tra singolarità e molteplicità. La loro differenza ne fa dei simboli in carne e ossa, delle allegorie viventi. Temuti come segno della collera della natura o adorati come presagio di fortuna. Incarnazioni di una eccezionalità che si manifesta per eccesso. Di una fecondità straordinaria, di un´eccedenza vitale.
Si può dire che essi siano la personificazione stessa dell´enigma. Di quella domanda senza risposta che è la figura chiave di ogni mitologia.
Romolo e Remo, Castore e Polluce, Anfione e Zeto, Apollo e Artemide, gli Orazi e i Curiazi, Giacobbe e Esaù, i santi Cosma e Damiano, hanno dato nel tempo volti diversi a una medesima perplessità interrogativa su tutto quel che rappresenta la negazione dell´individuo, che è per definizione singolo. Non è un caso che tanti miti d´origine facciano nascere il mondo, la società, le città da una lotta fratricida tra due gemelli. In questo senso Romolo e Remo sono la variante latina di un tema universale.
In molte culture africane si dava ai gemelli lo stesso nome degli uccelli che hanno un volo e un´andatura goffi, come la faraona, quasi a sottolinearne simbolicamente una irregolarità fisica, un´anomalia ontologica. E in alcune società indiane d´America in caso di parti gemellari i due nati venivano immediatamente separati perché l´uno non si confondesse con l´altro. Secondo Claude Lévi-Strauss questa necessità di distinguere i gemelli, diffusa in tutto il mondo, nascerebbe dalla difficoltà di ammettere che il doppio, il perfettamente uguale, esista in natura. È per questo che, a detta del grande antropologo francese, si cerca sempre di cogliere delle differenze nel fisico, nel carattere, nei gusti, nelle abilità degli omozigoti. Per riaffermare in qualche modo il primato e il valore dell´unicità.
Non per nulla i più grandi cervelli dell´Occidente antico e moderno si sono arrovellati intorno al mistero di una unità moltiplicata. Da Aristotele a Plinio, dai giuristi della Roma antica a Pico della Mirandola, fino a medici cinquecenteschi come Ambroise Paré e Fortunio Liceti, autore del celebre Libro intorno alla natura dei mostri.
Nel mondo di oggi, caratterizzato da un´ampia diffusione delle conoscenze scientifiche, il problema sembrerebbe aver perso d´importanza per il fatto che siamo perfettamente in grado di spiegare gli arcani della nascita gemellare. Apparentemente non abbiamo più bisogno di nessuna mitologia. Ma è solo un effetto di superficie. Nelle profondità del nostro immaginario i gemelli continuano a far parlare di sé. Basti pensare allo spazio occupato da creature come il doppio, il sosia, l´ombra nella letteratura, nel cinema, nei media. Dalle Kessler, radiose mascotte dell´Italia del miracolo economico, ai due Kaczynski, fino a pochi giorni fa autentici dioscuri della Polonia postcomunista.
Il mito è dunque alle nostre spalle ma anche al nostro orizzonte. È quel che ci mostra Peter Greenaway in un film come Lo zoo di Venere che ha per protagonisti due gemelli, entrambi scienziati, che partendo da una ricerca avanzatissima sulle metamorfosi del corpo, finiscono per rientrare nel mito identificandosi con i divini Castore e Polluce.
Ed è quel che si vede in quell´autentica Storia Naturale dell´immaginario globale che è You Tube. Dove si moltiplicano i video che permettono di osservare la vita quotidiana di numerosi gemelli siamesi. Persone riprese mentre vanno a scuola, fanno i compiti, mangiano alla mensa del college, vanno al supermercato, fanno sport. Nulla di più normale se non fosse per il fatto che hanno un sol corpo con due teste. O il contrario. Individui che sperimentano, e ci raccontano, come si possa essere al tempo stesso due e uno.
La rete ricostituisce così, con l´aiuto della scienza e della tecnologia, i termini di un enigma che il nostro immaginario non ha mai congedato una volta per tutte. Coniugando voyeristicamente meraviglia, curiosità, interesse. E spettacolo. Non diversamente da quanto facevano nella Roma antica dove la legge metteva i gemelli sullo stesso piano di professionisti della meraviglia come attori e musicisti. Perché la loro differenza rappresentava di per se stessa uno spettacolo, ma anche un motivo di profonda interrogazione sull´essere e sulla sua natura. Su un rapporto tra somiglianza e differenza che ora come allora talvolta fa cortocircuito.
Repubblica Firenze 23.11.07
Ninfe. Il simbolo neopagano del Rinascimento
Con Susanna Mati sulle tracce delle ninfe
Il fascino delle ninfe, bellezze in fuga: corteggiate da uomini e dei per la loro bellezza irresistibile, avevano il potere di fare impazzire e quello di ammaliare, la loro acqua era fonte di sublime ispirazione ma anche di morte. Al tema, già caro a studiosi di diversa formazione disciplinare, è dedicato il saggio Ninfa in un labirinto. Epifanie di una divinità in fuga (Moretti & Vitali) che l´autrice, Susanna Mati, docente di estetica filosofica a Venezia, presenta oggi alla Biblioteca delle Oblate (v. dell´Oriuolo 26, ore 17.30) nell´ambito di «Leggere per non dimenticare». Introduce Franco Rella.
Dal saggio ho scelto le righe che vedono la ricomparsa della ninfa, tornata alla ribalta dopo secoli di oblio, e diventata fiorentina. (pp. 97-98).
«Di ritorno dall´esilio medievale, le ninfe classiche irrompono nella cultura visiva fiorentina, in misura tale che nel Quattrocento s´indicano genericamente come nimphae alcuni tipi ricorrenti, analogamente a quanto accade in letteratura e nella parlata comune. Avvolte in drappi, le nimphae lasciano ondeggiare le chiome al vento; sono aurae in costume caratteristico, "soluta ac perlucida veste", con abito e capigliatura agitate, magari cacciatrici, sovente inseguite, legate come prede renitenti; oppure sono portatrici di frutta come Pomona, o spargono fiori come Flora, fanno corteo a Venere e le porgono il manto; corrono o danzano, incedono nei dipinti, nelle composizioni poetiche, sui carri delle feste; spuntano incongrue in scene bibliche, in ambienti domestici familiari, in contenute cerimonie cattoliche si insinuano fanciulle dal passo rapido, sotto forma di Ore vestite di sottilissimi veli. Icona privilegiata dell´influsso dell´antichità sulle immagini del moderno, la ninfa asseconda l´inclinazione "a rifarsi alle opere d´arte dell´antichità non appena si trattasse di cogliere in ciò che vive l´istante di un moto esterno". La ninfa dalle vesti in movimento, spesso portata da una brise imaginaire, è messa a sua volta in figura dalle accortezze di Botticelli, pittore ed erudito filologo neoplatonico, nonché "sofistica persona" (così il Vasari nelle Vite). La ninfa è figura di un´elementare volontà di vita, dice Warburg, fiore elegante strappato al cupo rigore dei fanatici domenicani; essa infatti, movimento fattosi donna, personifica anche il risorto paganesimo rinascimentale; enigmatico simbolo di gioia e sensualità pagana, di risorgente passione, è insieme la liberazione della bellezza in volo neoplatonico, ascendente a libere altezze. La farfalla classica è sgusciata fuori dal bozzolo borghese-borgognone, la farfalla fiorentina, la Nynfa, e la veste le ondeggia vittoriosa, sul capo porta un´acconciatura alata, le ali si spiegano al vento Zefiro».
Polemiche. L’embrione dell’Avvenire
di Carlo Flamigni
Colpisce l’entusiamo con il quale l’Avvenire ha accolto i recenti risultati sulle staminali adulte
Ma quei risultati non sono forse stati ottenuti proprio grazie a ricerche sugli embrioni?
Non dico di essere commosso, ma certamente sono molto colpito dall’entusiasmo che alcuni commentatori cattolici dimostrano nel presentare, su Avvenire e su altri giornali, le ultime novità della ricerca sulle cellule staminali. Si è letteralmente messa in moto una gioiosa macchina da guerra (che importanza ha che si tratti solo di soldatini di latta? Importanti sono l’entusiasmo e la buona fede), e la fresca ingenuità degli articoli fa passare in secondo piano il fatto che questa stampa cerchi di ammannirci un numero incredibile di inesattezze, che ignori alcuni dei punti più importanti della questione, che citi solo quello che conviene, insomma, che rappresenti un esempio luminoso del giornalismo più indecoroso e insincero.
Un signore che non conosco, tale Luc Volonté, ha persino scritto che a questo punto dovrei chiedere scusa agli italiani (a tutti? anche agli embrioni?). Il signor Volontè, che immaginavo di origini francesi, è invece un italiano che sa poco di biologia e del quale si cita una iniziativa contro un fantomatico «Monte dei Maschi di Siena», la maggiore banca del seme italiana (ma secondo me è una calunnia). A mio avviso dovrebbe chiedere scusa lui all’italiano per aver usato la parola «occisivo» alludendo alla fecondazione assistita.
Riassumo per i meno attenti. Tutti ricorderanno la diatriba che riguarda le cellule staminali, i cattolici appassionatamente dedicati a sostenere la ricerca sulle staminali “adulte” e a ricordarci con tediosa insistenza che l’embrione è uno di noi, che la ricerca sulle staminali embrionali sacrifica migliaia di esseri umani, magari un po’ piccoli, ma sempre uguali a noi esseri umani adulti, gli altri a sostenere che le cellule staminali embrionali sono, tra tutte, le più dotate della potenza indispensabile per trasformarsi in cellule dei più diversi tessuti. Tra le molte critiche che i bioeticisti cattolici hanno avanzato nei confronti dell’impiego delle staminali embrionali, ne cito al momento solo una: si tratta di esperimenti pericolosi perché nella loro attività proliferativa le staminali embrionali comprendono anche un possibile sviluppo di tumori.
Ora, scienziati di due differenti équipes, una giapponese e una americana, hanno ottenuto cellule staminali molto simili a quelle embrionali partendo da linee cellulari adulte prelevate dalla pelle (quindi non da cellule staminali) sia umana che di animali da esperimento. Per ottenere questo risultato hanno inserito nelle cellule le copie di quattro geni (presenti nel corso dello sviluppo embrionale, ma inattivi nelle cellule differenziate adulte) affidati a un retrovirus che si è comportato da vettore. Una volta riattivati, i geni hanno ricostituito nelle cellule una condizione di pluripotenza indistinguibile da quella delle cellule staminali embrionali, consentendo loro di trasformarsi nelle cellule di qualsiasi tessuto umano. Nella sperimentazione fatta sul topo, queste cellule sono state trasferite all’interno di una blastocisti (un embrione giunto al quinto giorno di sviluppo) e hanno contribuito alla formazione di topi chimerici, essendo presenti persino nelle cellule germinali.
Leggere i titoli dei giornali cattolici è una vera esperienza di vita: «Scienza, uccidere non serve»; «Spazzato via l’alibi di chi distrugge embrioni»; «È ideologico perseverare sugli embrioni». La lettura degli articoli è ancora più appassionante: si va da un benevolo «Chi insiste su questa strada lo fa per interessi diversi da quelli scientifici» a un ingenuo «Bye Bye Dolly», apprezzabile perché supplisce alla scarsa cultura con un simpatico entusiasmo.
Poi uno va a leggere un po’ meglio i resoconti e le interviste, e scopre che sia il giapponese (Yamanaka) che l’americano (Thomson) hanno dichiarato che questi progressi della ricerca scientifica non tolgono nulla all’importanza delle ricerche sulle cellule staminali prelevate dagli embrioni, che continueranno; scopre che entrambi affermano che questi sono risultati preliminari e che bisogna avere molta pazienza prima di poter dare per dimostrato che esiste una applicazione pratica di queste scoperte; che queste cellule hanno la capacità di indurre la comparsa di tumori (ma non era il più straordinario degli ostacoli all’uso delle cellule staminali embrionali fino a ieri?); che bisogna ancora apprendere come poter distinguere con certezza le cellule staminali embrionali da quelle create grazie al nuovo metodo scientifico; che non è ancora sufficientemente chiaro se queste cellule siano analoghe a quelle prelevate dalla massa cellulare interna della blastocisti (in questo caso sarebbero pluripotenti) o piuttosto simili ai blastomeri delle morule (e in questo caso si tratterebbe di cellule totipotenti, cioè di embrioni, e allora che cavolo mi state a raccontare? siamo punto e a capo).
A me sembra che la cosa più interessante che risulta da queste ricerche è il riconoscimento della fondamentale importanza delle cellule staminali embrionali, comunque ottenute: la ricerca sulle cellule staminali embrionali è più importante di quella sulle staminali adulte. Quale sarà poi il miglior metodo per ottenerle, lasciamo che ce lo dica il tempo, i ricercatori si adegueranno alla sperimentazione più semplice e meno costosa, nessuno di loro è matto e anche i Frankestein, all’interno del loro sparuto gruppo, sembrano distratti da altre preoccupazioni (capire per esempio dove sono andati a nascondersi tutti quegli uomini politici e quegli scienziati che hanno sempre cercato di sostenere le loro - legittime - riserve etiche raccontando in giro che la ricerca sulle staminali embrionali non serviva a niente e che era più che sufficiente quella sulle staminali adulte).
Vorrei comunque alcuni chiarimenti, da questi simpatici festaioli (è generico, tra loro ci sono anche distinte signore). Anzitutto vorrei conoscere le ragioni di tanta sorpresa e di tanti elettrizzati peana di vittoria: se non ricordo male il professor Vescovi, aveva già superato tutti i motivi di questi contrasti etici quando (Science, 1999) aveva dichiarato di poter trasformare le cellule staminali adulte del cervello in sangue, avendo scoperto che le adulte erano altrettanto pluripotenti quanto le embrionali al punto da rendere queste ultime inutili. In ogni caso, se questa è la via da seguire, quella da chiudere con urgenza è la strada lastricata d’oro del trapianto di cellule staminali adulte prelevate da aborti spontanei, mai caratterizzate, mai validate, sulle quali i ricercatori cattolici e gli atei compunti sembrano insistere tanto. In terzo luogo, vorrei tanto sapere come mai non ha più nessuna importanza, per tanti bravi cattolici, la famosa cooperatio ad malum in nome della quale, fino a non molto tempo fa, venivo brutalmente zittito nei pubblici dibattiti. Capisco che la cosa può sembrare misteriosa, ma non è così, ve la spiego rapidamente. Questo concetto si basa sul principio della cosiddetta complicità indiretta: se qualcosa deriva da una catena di eventi che inizia con un atto moralmente eccepibile, tutti i suoi anelli sono macchiati dalla immoralità originaria, non importa quanto grandi siano i benefici e indipendentemente dal fatto che l'atto immorale iniziale sia stato o no condannato da chi ha potuto fruire di questi vantaggi, perché l’immoralità, il disvalore, si trasferisce dal primo atto eticamente condannabile a tutti gli atti successivi. È possibile che questo trasferimento di colpa implicita si arresti in un qualsiasi stadio della catena di indagini, così che da quel momento in avanti chi trae vantaggio dai risultati possa essere considerato esente da colpe morali? Non ne sono sicuro, ma immagino che la risposta dipenda da molte cose, come la gravità dell’atto, il carattere determinante della cooperazione, la natura dei benefici e il fatto che essi siano così importanti da incoraggiare la ripetizione dell’atto immorale iniziale. In ogni caso, ritengo che sarebbe immorale utilizzare una conquista scientifica che si fosse basata su ricerche eseguite dai criminali tedeschi nei campi di concentramento. In ogni caso, la Pontificia Accademia per la vita ha condannato non solo la possibilità di utilizzare le cellule staminali embrionali, ma anche la loro progenie cellulare e ciò perché esiste «cooperazione materiale prossima nella produzione e nella manipolazione degli embrioni umani da parte del produttore o fornitore»: è complicità indiretta, cooperatio ad malum.
Che nessuno per favore mi venga a raccontare che gran parte delle conoscenze che hanno consentito a Thomson e a Yamanaka di ottenere i risultati dei quali discutiamo non derivano da studi eseguiti sugli embrioni, studi dei quali Thomson è particolarmente esperto, studi che Yamanaka continuerà a condurre per accumulare ulteriori conoscenze. Quindi, come la mettiamo? Uccidere non serve (forse) più, abbiamo già dato? O la religione cattolica ha deciso di adeguarsi, di non prendere troppo di petto questo mondo inquieto e incerto e di inserire, tra i propri comandamenti, anche un bel “scurdammoce o’ passato”?
Leggo, tra le richieste dei bioeticisti cattolici, anche quella di sospendere i finanziamenti delle ricerche sulle staminali embrionali (ma non è un suicidio? Anche quelle di Yamanaka sono, adesso, staminali embrionali!), ma su questo punto ritornerò, ho bisogno di spazio. Per il momento mi limito a riproporre ai bravi cattolici la questione che ho già presentato loro in un precedente intervento su questo giornale: come mai i vescovi irlandesi si sono dichiarati tutti favorevoli a modificare la norma costituzionale che prevede la protezione dell’embrione a partire dal concepimento spostando l’inizio di questa tutela al momento in cui l’embrione si impianta? In altri termini, come mai i buoni vescovi irlandesi hanno scelto di privare di protezione l’embrione fuori dal grembo materno, autorizzando implicitamente la produzione di cellule staminali dalla blastocisti e altre consimili porcherie? Non ci saranno, in seno al Vaticano, eretici e miscredenti che si sono lasciati contagiare da queste o da altre teorie diaboliche? Non sarebbe poi così strano, tutte le dittature creano qualche forma di resistenza, perché la dittatura dell’embrione dovrebbe fare eccezione?
l’Unità 23.11.07
Anche i finanziamenti hanno un’etica: stabiliamo un metodo, oggettivo e rigoroso, per decidere chi ne può beneficiare
Staminali, quando una commissione sui fondi?
di Maurizio Mori *
Gentile ministro Turco,
la recente scoperta giapponese e americana suggerisce che le staminali embrionali sono meglio delle adulte. Altrimenti non si vede perché Yamanaka abbia trovato il modo di riportare le cellule adulte... alla fase embrionale. Quello scoperto non è altro che un metodo alternativo per ottenere cellule staminali embrionali o simili alle embrionali. Non equivale a dire che queste ultime sono incredibilmente interessanti? Eppure sono in molti, anche scienziati, ad avere giurato il contrario ancora prima che gli esperimenti venissero fatti.
Che il nuovo metodo funzioni è comunque da verificare. Siamo contenti che sembri essere eticamente più accettabile, ma la divergenza su questo piano non è decisiva: non si vede perché gli scrupoli di alcuni cattolici dovrebbero bloccare la ricerca. Il punto fondamentale è che, per far avanzare la scienza, si devono studiare le staminali embrionali.
Questo dato deve avere conseguenze circa l’enorme quantità di fondi che sono stati stanziati per le staminali adulte. Per ora, al di là di lanci di agenzia, di risultati non se ne sono visti. Lo scorso anno l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha sostenuto il laboratorio di Angelo Vescovi a Terni, il quale annunciava che a settembre di quest’anno avrebbe iniziato la sperimentazione sull’uomo. Non sembra che la promessa sia stata mantenuta. Anzi, il 19 settembre su Avvenire diceva che gli mancavano 200.000 euro ed apriva una sottoscrizione, affermando che senza il mecenatismo del vescovo Paglia non poteva avere neanche il rimborso delle spese di viaggio. Nello stesso intervento ha anche dichiarato di aspettare ben 300.000 euro dall’Iss per la sua ricerca sulle staminali. Da dove arrivano questi soldi? Ebbene, è giunto il tempo di fare chiarezza e che su questo aspetto si esca dall’ambiguità. Anche la ricerca e l’assegnazione dei finanziamenti deve avere un’etica.
Signora ministro, istituisca una Commissione apposita composta da persone di specchiata moralità che controlli la distribuzione dei fondi di ricerca avvenuta in passato dalla gestione Garaci, che Lei ha riconfermato alla guida dell’Iss. E per il futuro, che si instauri il sistema della “peer review”, che non è un mettersi della cipria per dare un po’ di tono e continuare a fare come prima, ma un sistema rigoroso, strutturato e organizzato di valutazione della scienza che, non dimentichiamolo, è un bene di tutti.
*Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino
l’Unità 23.11.07
L’accordo sul protocollo è un campo di battaglia
La commissione vara il decreto, ma Rc chiede altre modifiche
Il governo potrebbe porre la fiducia: deciderà Prodi
di Bianca Di Giovanni
COMPROMESSO La lunga marcia del welfare finisce con un accordo raggiunto in nottata, che a metà pomeriggio sembra già un campo di battaglia. Rifondazione alza nuovamente il tiro e rinvia la battaglia in Aula, i socialisti (che si sono astenuti in commissione) annunciano un no al Senato, i diniani esprimono perplessità. Senza contare che su molte modifiche introdotte il governo ha dato parere negativo. Preoccupazioni anche in casa sindacale (soprattutto per la reintroduzione del job on call, contro il parere del governo), mentre Confindustria alza ancora la voce per le «concessioni» sui contratti a termine. Insomma, tutto sembra, meno che un accordo, anche se escono soddisfatti dalla commissione i democratici, i comunisti italiani e i centristi. «È il massimo che si poteva ottenere - dichiara il relatore Emilio Del Bono (Pd) - La maggioranza tiene salvando l’accordo con il sindacato. Garantiremo l’approvazione entro il 31 dicembre. Dini? Non ha alcuna ragione di lamentarsi perché il vincolo economico è stato rispettato». Sulla stessa linea Pagliarini. «Non ci sono alternative a questo testo - dichiara - visto che l’accordo è stato raggiunto dopo forti tensioni».
A questo punto molti pensano a una blindatura in Aula, presumibilmente sul testo varato. Lo stesso Vannino Chidi dice che «ora non si tocca una virgola». Il sottosegretario Antonio Montagnino non scioglie la riserva (bisognerà aspettare che Romano Prodi torni da Mosca), ma si impegna a recepire in Aula le richieste dei socialisti sull’indennità per i co.co.pro. Tutta la partita, già complicata di per sé, è stata appesantita da una forte concorrenzialità tra i diversi partiti della sinistra e all’interno degli stessi partiti. Dalla segretria di Rifondazione è subito arrivato il diktat di alzare il tiro: ma tutte le modifiche approvate hanno la firma di Pagliarini (pdci): la cosa ha aumentato la rincorsa, e oggi il partito di Giordano rilancia chiedendo quello che non è riuscito a far passare: il diritto di precedenza sulle assunzioni per chi ha già un contratto a termine. Ma su quel punto il no di Confindustria è netto. Stesse tensioni con i centristi sul job on call (votato da Ulivo e centrodestra): lo scambio con lo staff leasing è stato necessario per accontentare le pressioni del comparto del turismo e dello spettacolo, e per poter introdurre le modifiche sui contratti a termine. Ma quello scambio non piace affatto al sindacato, che considera il lavoro a chiamata più pericoloso dello staff leasing, un tipo di contratto poco utilizzato, che riguarda comunque il lavoro a tempo indeterminato e non i precari. Tanto più che Confcommercio già chiede di ampliare il caso anche al suo settore, proprio nel momento in cui è in atto un difficile rinnovo del contratto. Anche l’eliminazione del tetto ai lavori usuranti, apparentemente una vittoria per le sinistre, in realtà complica la situazione: il sindacato infatti chiedeva una norma, ma togliere semplicemente il tetto senza indicare un criterio selettivo inchioda il parlamento alla delega. Ecco le novità introdotte dalla commissione. per i contratti a termine è confermato il periodo di 36 mesi, ma si precisa che non devono essere cumulativi. Il periodo si calcola indipendentemente dalle interruzioni che intercorrono tra un contratto e l’altro. Dopo i 36 mesi è possibile una sola proroga (davanti agli uffici del lavoro con i rappresentanti sindacali) che non può durare più di otto mesi. È abrogato lo staff leasing. Per il lavoro a chiamata si conferma l’abrogazione, ma sono state inserite deroghe da definire con un decreto e dopo un confronto con le parti sociali. Per i lavori ususranti salta il tetto delle 80 notti all’anno. Resta la delega al governo a definire la platea, anche se in Aula potrebbe arrivare una norma. Insomma, al partita potrebbe riaprirsi: sicuramente poi in senato il duello si farà duro.
l’Unità 23.11.07
Bertinotti pensa all’egemonia, Diliberto ai sabotaggi
La Cosa rossa va avanti a tentoni. Tutti vogliono accelerare, ma non sanno bene come. Anche sulla legge elettorale
UNA LUNGA riunione sulla legge elettorale: dopo settimane di tensioni e di prese di posizione divergenti dei singoli partiti che dovrebbero dare vita alla fed di sinistra, Prc, Verdi, Pdci e Sinistra democratica si sono visti per la prima volta per discutere del tema più caldo. Tra i presenti, Giovanni Russo Spena e Franco Russo del Prc, Cesare Salvi e Carlo Leoni di Sd, Manuela Palermi e Orazio Licandro del Pdci, Loredana De Petris dei Verdi. Il risultato è che una posizione comune ancora non c’è, e nemmeno una prevalenza del sistema tedesco caro a Fausto Bertinotti. Le prossime tappe del confronto interno alla sinistra dell’Unione sono la stesura di una nota riassuntiva della riunione di oggi, e l’appuntamento per un prossimo approfondimento, forse addirittura seminariale, di una giornata, con esperti di tecnica della legge elettorale.
Se all’ordine del giorno c’è la questione dell’egemonia, posta con forza dall’irrompere sulla scena politica dai partiti a tendenza maggioritaria di Veltroni e Berlusconi, anche a sinistra «non può essere scartata la questione del soggetto politico», ha detto intanto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti alla vigilia del secondo congresso della Sinistra europea di questo fine settimana a Praga. Sinistra europea, nata nel 2004 a Roma, e guidata sino ad oggi proprio da Bertinotti, che lascerà adesso il timone al presidente della Linke tedesca, Lothar Bisky, può essere il parametro di riferimento, anche per l’Italia, per la costruzione della sinistra del XXI secolo, «erede - afferma Bertinotti - della storia del movimento operaio. Non gendarme della tradizione, ma in grado di proporre una nuova idea della sinistra che raccolga questa eredità, cioè la ragione della nascita della sinistra, dell’ascesa del movimento operaio: il tema della liberazione».
Diliberto non la vede bene. «Vedo che vi è chi lavora a creare intoppi al processo unitario -dice-. Vedo che si vogliono aggiungere aggettivi: sia chiaro a tutti, ogni aggettivo tende a dividere, invece che ad unire e rischia di far saltare il banco». «Leggo con preoccupazione - sottolinea - e qualche sconcerto pubbliche dichiarazioni e ricostruzioni giornalistiche, non innocenti, relativamente al processo di formazione della confederazione della sinistra. Si parla di simboli, di veti, di impuntature. I Comunisti Italiani intendono procedere alla riunificazione federale della sinistra con la massima determinazione. Proprio per questo ritengono oggetto di biasimo qualunque fuga di notizie, peraltro destituite di ogni fondamento».
l’Unità 23.11.07
Patrick McGrath, il successo della follia
di Oreste Pivetta
INTERVISTA allo scrittore di origine inglese che vive a New York, molto amato in Italia, dove Bompiani pubblica in anteprima il suo nuovo romanzo, Trauma
Si chiama Patrick McGrath, inglese di nascita, irlandese di famiglia, per lavoro prima canadese e poi americano. A cinquantasette anni è uno scrittore di successo che deve ringraziare il padre psichiatra e la follia degli uomini. Follia è il titolo del libro che lo ha reso celebre in Italia e anche moderatamente ricco: cinquecentomila copie nel nostro paese per la casa editrice Adelphi. Ora Bompiani gli pubblica, proprio in Italia prima che altrove, un altro romanzo, Trauma, titolo che anticipa il «genere», come la copertina, decisamente bella, sensualissima: una donna in canotta che fissa il vuoto in una casa dominata dai verdi cupi o spenti (leggo sul risvolto: Sharon Lockhart, Untitled, 1986, chromogenic print). Per apprezzare questo romanzo bisogna amare le storie d’amore combattute e quelle aggrovigliate di sesso, tra i misteri della psiche, i padri bugiardi, malmessi e patetici, le madri ossessive dominatrici, i fratelli rivali. E naturalmente i ricordi, che sono incubi. Si dovrebbe aggiungere «a New York», perché della città se non c’è la materialità (malgrado qualche «tocco» di strade, case e ristoranti) è presente lo spirito, per lo meno quello di una media classe colta e benestante: il protagonista è psichiatra, il fratello pittore, la madre scrittrice, l’ultima fidanzata è pure scrittrice e critica d’arte... Il padre è il più malandato. Parlano e contano poco un pompiere e un venditore di commercio. Non parlano alcuni reduci dal Vietnam. Ma si sentono.
Perché, McGrath, si è scelto come protagonisti solo signori di buona cultura?
«La follia sta ovunque, ma solo persone colte possono dialogare per interrogarsi sulla propria psiche. E il dialogo è appunto la strada che mi consente di rappresentare i loro tormenti psicologici».
Suo padre era psichiatra. Nel manicomio criminale di Broadmoor. Ma lei non ne ha seguito la carriera...
«Mi ero laureato in storia della letteratura. Non trovavo lavoro e, quando avevo ventuno anni, giustamente mio padre mi spedì all’estero, in Canada, dove cominciai a lavorare in un ospedale psichiatrico. Dove peraltro sviluppavano terapie assai avanzate. Ma capii che non era quella la mia strada. Mi ritrovai senza lavoro, avevo ventisei anni. A quell’età non si può tornare indietro a caccia di un’altra laurea. Cominciai a scrivere e mi sentii a casa».
A parti inverse, le sta bene quanto lei stesso ha scritto in Trauma: «Tutti gli psichiatri sono scrittori mancati».
«Sta scritto così. Un azzardo. Non so se sia vero del tutto. Sono convinto che gli psichiatri siano come gli storici: cercano di comprendere la storia e la natura umana».
Il manicomio le ha offerto però materiale. Basterebbe «Follia», il titolo originale è «Asylum», luogo protetto e prigione...
«Sì, Asylum. Certo. Certo quell’esperienza difficile mi ha dato molto: esperienza di un dramma e di tanti drammi assieme. In Spider soprattutto c’è la traccia del mio primo “lavoro”».
In «Trauma», come in altri suoi romanzi, ai dolori di persone sfiorate, lambite o prese dalla follia si aggiungono le tragedie presenti o postume della guerra. Nel «Morbo di Haggard» era la seconda guerra mondiale. In questo caso si parla del Vietnam e uno dei personaggi, che inquieta assai lo psichiatra protagonista, è proprio un reduce, che con i vietcong s’era messo pure a fare il cannibale. Nel ricordo del Vietnam, pesa la sua storia personale? Pesa l’anagrafe?
«Certo, appartengo alla generazione del Sessantotto, ma la guerra del Vietnam l’ho vista dal Canada, lontano insomma dalle tensioni e dalle emozioni che poteva vivere un mio coetaneo statunitense. Comunque mi sarebbe stato difficile non comprendere anche allora la tragedia storica del Vietnam. Una guerra come oggi la guerra in Irak, che rappresenta sommandoli altissimi gradi di stupidità, inutilità, distruttività. Siamo allo stesso punto. L’America non ha imparato...».
Non ha provato la tentazione di misurarsi con un’altra guerra e con un’altra follia? Lei abita a due passi dalle Torri gemelle.
«E in qualche modo sono stato testimone di quell’orrore. Ho un ricordo indelebile: l’odore, dopo le esplosioni. Ho pensato di rappresentare il trauma subito da quella città. Ground Zero doveva concludere la storia del dottor Charlie Weir nel 2001. Intanto avevo scritto tre racconti dedicati a New York e in particolare a Manhattan. In uno di questi una donna perdeva l’amante nell’attacco terroristico dell’11 settembre. Ho pensato di poter chiudere così e la vicenda di Trauma si è realizzata in altro modo».
Dentro la famiglia...
«Che è la culla della follia. Bisognerebbe ragionare su follia e patrimonio genetico».
Lei è inglese. Shakespeare di follia ne ha descritto molta. Che cosa s’è tenuto della sua formazione anglosassone?
«Certi anglismi, che in un romanzo tutto americano come questo ho dovuto scovare e cancellare attentamente. Forse il ritmo celtico, cioè della vecchia Irlanda, della mia prosa. La definizione di scrittore gotico me l’hanno attribuita altri. Magari l’umorismo».
Mi consenta la domanda sciocca: scrive a penna o al computer?
«Scrivo a penna. A sera trascrivo al computer e stampo. Scrivo e butto via moltissimo. Le pagine finite nel cestino sono la strada che devo percorrere. Una strada di matti verso il romanzo...».
Pensando al cinema? Suoi libri («Spider» con Cronenberg) sono diventati film.
«La scrittura è esigente. Non consente di pensare ad altro».
Perché la follia diventa best seller? Siamo tutti matti?
«No, non tutti».
l’Unità Firenze 23.11.07
Ogni giorno undici donne subiscono violenza
La denuncia di Artemisia relativa a Firenze: la maggior parte degli abusi consumato al chiuso delle mura domestiche. Ma l’associazione riceve in media soltanto 250 richieste di aiuto all’anno
di Sonia Renzini
PREOCCUPANTI i dati toscani: il 26,4% delle donne tra i 16 e i 70 anni dichiara di aver subito una molestia sessuale. Domenica la giornata internazionale contro la violenza
Un fiocco bianco preparato da 50 studenti dell’Istituto d’arte sarà issato domenica alle 11 sul balcone di Palazzo Vecchio a Firenze per dire no ad ogni tipo di violenza sulle donne. Poco più sotto, in piazza Signoria, alcune volontarie distribuiranno migliaia di fiocchi bianchi. Sono solo alcune delle iniziative lanciate dalla campagna del fiocco bianco, in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle donne del 25 novembre, dal centro antiviolenza Artemisia di Firenze in collaborazione con gli enti locali (informazioni e adesioni sul sito www.ilfioccobianco.it). Slogan di quest’anno «la forza è nel rispetto». Poche parole racchiuse in un piccolo fiocco di raso bianco da appuntare sul petto. Quello degli uomini innanzitutto, decisi a non tollerare né a rimanere in silenzio di fronte a un fenomeno che assume dimensioni sempre più inquetanti.
Perché, la violenza domestica è per le donne una delle principali cause di morte. Prima degli incidenti stradali, del cancro e della guerra. Anche in Toscana, dove la media delle donne che hanno subito violenza dal partner è secondo dati Istat del 2007 del 17%, contro la media nazionale del 14,3%. Non solo. La percentuale di coloro che hanno subito abusi nella nostra Regione negli ultimi 12 mesi è del 3.2%. Tradotto in numeri, in proiezione, significa che nella sola Firenze arrivano a 4.166. «Se si tiene conto che la nostra associazione riceve 250 richieste di aiuto da parte delle vittime della violenza in un anno - dice Alessandra Pauncz di Artemisia - si può avere un’idea di quanto sia grande il fenomeno». Per saperne di più basta scorrere i dati Istat: il sommerso raggiunge in Toscana il 95.3% delle violenze da un non partner e il 92.5% di quelle da partner. Non basta: solo il 20% delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale in famiglia la considera un reato, il 45% pensa sia qualcosa di sbagliato e il 33.5% solo qualcosa che è accaduto. Inoltre, più di un terzo delle intervistate sostiene di non averne mai parlato con nessuno.
Eppure, i dati non lasciano dubbi:il 26.4% delle donne toscane tra i 16 e i 70 anni dichiarano di avere subito una molestia sessual una volta nella vita, il 5.8% uno stupro. Per avere un’idea più concreta basta tradurre le percentuali in numeri e proiettarli sulla sola città di Firenze: 7.551 donne stuprate nel corso della vita, 22.133 hanno subito una violenza da un partner o da un ex e 34.371 sono state vittime di almeno una molestia sessuale. Una ragione di più per plaudere alla legge contro la violenza di genere approvata nelle scorse settimane trasversalmente dal Parlamento toscano e ricordata ieri in occasione della presentazione della campagna del fiocco bianco dalle consigliere regionali Anna Maria Celesti e Alessia Petraglia. Insieme, tra gli altri, all’assessore del Comune Daniela Lastri. C’erano anche il presidente della squadra di rugby Firenze 1931 e l’allenatore della squadra di nuoto Rari Nantes. Perché quest’anno,a essere coinvolti in prima persona saranno i protagonisti dello sport. Indosseranno la maglietta con il simbolo della campagna durante le partite e non solo. Il 26 novembre, i giocatori della Fiorentina e di altre squadre sportive consegneranno fiocchi bianchi ai partecipanti della serata organizzata al Viper Theater delle Piagge (ore 19), animata dalla comica Anna Meacci. Prevista anche un’asta di magliette autografate dalle varie squadre, mentre nello stesso giorno il Consiglio comunale cittadino sarà completamente dedicato al tema della violenza sulle donne.
Repubblica 23.11.07
Romolo e Remo. Perché una civiltà si fonda sul mito
Dopo il ritrovamento del lupercale
di Andrea Carandini
Spesso si ricorre alla leggenda per conservare nella memoria qualcosa di grande
Il repertorio delle nascite miracolose e dei gesti eroici si ritrovano in molte epoche
Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l´infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento.
Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l´uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia – principessa di Alba Longa – tanto che nel passaggio all´impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti "augusto" significa l´inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall´esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma.
È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di "irrazionalismo".
La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell´VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l´archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l´epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l´allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium (secondo gli antiquari) o il "centro proto-urbano" (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775-750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all´età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un´autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della "fondazione" di uno stato e non di una lenta "formazione".
Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d´oggi - come quello dell´eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall´assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all´iniziazione di una comunità che vive ancora nell´oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003).
Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella "demitizzazione" -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti.
Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell´intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all´usura del tempo, che si radicano nell´arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all´età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla "mitistoria", che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all´Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?
Repubblica 23.11.07
Un sistema giuridico avanzatissimo che ha ispirato e fondato l´Occidente
DalLa Roma dei pastori alla patria del diritto
di Aldo Schiavone
Alle origini
La Città eterna è quella che più di tutte ha conservato il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria
Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell´intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un´ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari.
Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l´aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell´Ottocento, investiva in pieno l´arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti – di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco – irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un´autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell´idea stessa di cosi significhi scrivere storia.
Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l´analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo.
Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell´età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza.
Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell´Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l´invenzione teologica e l´immaginazione animistica erano totalmente dominate dall´ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un´oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un´osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici – Latini, Sabini, Etruschi – insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile.
Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un´analiticità quasi febbrile – secoli dopo ancora ben chiara a Varrone – nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l´invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l´umano, in cui consiste il primo "ius" – misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con "diritto": la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, "la formula da formulare"), o crea l´obbligo verso il proprio eguale.
Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall´inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l´avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell´antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall´invasività della teologia monoteista (il "non avrai altro Dio" di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente "giuridico") – l´autentico logos della romanità – fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale – un carattere indelebile della nostra civiltà – porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.
Repubblica 23.11.07
Molti miti d'origine fanno nascere il mondo da una lotta fratricida
Gemelli e coltelli un rituale violento
di Marino Niola
La figura chiave. Gli omozigoti hanno da sempre un ruolo da protagonisti nell'immaginario degli uomini. Si può dire che essi siano la personificazione stessa dell'enigma
Mettere al mondo dei gemelli è ovunque un fatto prodigioso. Tranne che in Egitto dove è normale che una donna partorisca sette figli alla volta a causa della fecondità del Nilo. Lo dice Plinio nella sua Storia Naturale. Nella favolosa terra dei Faraoni, dove si favoleggiava che ogni cosa avvenisse all´incontrario, le opere della natura, come quelle degli uomini non hanno nulla di ordinario. Tutto è portentoso, grande, smisurato. E quel che altrove farebbe gridare al prodigio diventa normale in quel paese delle meraviglie. Compresa quella doppia meraviglia che è la gemellarità.
Gli omozigoti hanno da sempre un ruolo da protagonisti nell´immaginario degli uomini. Quasi tutte le mitologie e le credenze tradizionali registrano il disagio e al tempo stesso la forte attrazione suscitati da queste immagini viventi dell´ambiguità, della doppiezza, della ambivalenza. I gemelli danno corpo a una contraddizione, evidentemente irrisolta, fra l´essere uno e l´essere due, tra singolarità e molteplicità. La loro differenza ne fa dei simboli in carne e ossa, delle allegorie viventi. Temuti come segno della collera della natura o adorati come presagio di fortuna. Incarnazioni di una eccezionalità che si manifesta per eccesso. Di una fecondità straordinaria, di un´eccedenza vitale.
Si può dire che essi siano la personificazione stessa dell´enigma. Di quella domanda senza risposta che è la figura chiave di ogni mitologia.
Romolo e Remo, Castore e Polluce, Anfione e Zeto, Apollo e Artemide, gli Orazi e i Curiazi, Giacobbe e Esaù, i santi Cosma e Damiano, hanno dato nel tempo volti diversi a una medesima perplessità interrogativa su tutto quel che rappresenta la negazione dell´individuo, che è per definizione singolo. Non è un caso che tanti miti d´origine facciano nascere il mondo, la società, le città da una lotta fratricida tra due gemelli. In questo senso Romolo e Remo sono la variante latina di un tema universale.
In molte culture africane si dava ai gemelli lo stesso nome degli uccelli che hanno un volo e un´andatura goffi, come la faraona, quasi a sottolinearne simbolicamente una irregolarità fisica, un´anomalia ontologica. E in alcune società indiane d´America in caso di parti gemellari i due nati venivano immediatamente separati perché l´uno non si confondesse con l´altro. Secondo Claude Lévi-Strauss questa necessità di distinguere i gemelli, diffusa in tutto il mondo, nascerebbe dalla difficoltà di ammettere che il doppio, il perfettamente uguale, esista in natura. È per questo che, a detta del grande antropologo francese, si cerca sempre di cogliere delle differenze nel fisico, nel carattere, nei gusti, nelle abilità degli omozigoti. Per riaffermare in qualche modo il primato e il valore dell´unicità.
Non per nulla i più grandi cervelli dell´Occidente antico e moderno si sono arrovellati intorno al mistero di una unità moltiplicata. Da Aristotele a Plinio, dai giuristi della Roma antica a Pico della Mirandola, fino a medici cinquecenteschi come Ambroise Paré e Fortunio Liceti, autore del celebre Libro intorno alla natura dei mostri.
Nel mondo di oggi, caratterizzato da un´ampia diffusione delle conoscenze scientifiche, il problema sembrerebbe aver perso d´importanza per il fatto che siamo perfettamente in grado di spiegare gli arcani della nascita gemellare. Apparentemente non abbiamo più bisogno di nessuna mitologia. Ma è solo un effetto di superficie. Nelle profondità del nostro immaginario i gemelli continuano a far parlare di sé. Basti pensare allo spazio occupato da creature come il doppio, il sosia, l´ombra nella letteratura, nel cinema, nei media. Dalle Kessler, radiose mascotte dell´Italia del miracolo economico, ai due Kaczynski, fino a pochi giorni fa autentici dioscuri della Polonia postcomunista.
Il mito è dunque alle nostre spalle ma anche al nostro orizzonte. È quel che ci mostra Peter Greenaway in un film come Lo zoo di Venere che ha per protagonisti due gemelli, entrambi scienziati, che partendo da una ricerca avanzatissima sulle metamorfosi del corpo, finiscono per rientrare nel mito identificandosi con i divini Castore e Polluce.
Ed è quel che si vede in quell´autentica Storia Naturale dell´immaginario globale che è You Tube. Dove si moltiplicano i video che permettono di osservare la vita quotidiana di numerosi gemelli siamesi. Persone riprese mentre vanno a scuola, fanno i compiti, mangiano alla mensa del college, vanno al supermercato, fanno sport. Nulla di più normale se non fosse per il fatto che hanno un sol corpo con due teste. O il contrario. Individui che sperimentano, e ci raccontano, come si possa essere al tempo stesso due e uno.
La rete ricostituisce così, con l´aiuto della scienza e della tecnologia, i termini di un enigma che il nostro immaginario non ha mai congedato una volta per tutte. Coniugando voyeristicamente meraviglia, curiosità, interesse. E spettacolo. Non diversamente da quanto facevano nella Roma antica dove la legge metteva i gemelli sullo stesso piano di professionisti della meraviglia come attori e musicisti. Perché la loro differenza rappresentava di per se stessa uno spettacolo, ma anche un motivo di profonda interrogazione sull´essere e sulla sua natura. Su un rapporto tra somiglianza e differenza che ora come allora talvolta fa cortocircuito.
Repubblica Firenze 23.11.07
Ninfe. Il simbolo neopagano del Rinascimento
Con Susanna Mati sulle tracce delle ninfe
Il fascino delle ninfe, bellezze in fuga: corteggiate da uomini e dei per la loro bellezza irresistibile, avevano il potere di fare impazzire e quello di ammaliare, la loro acqua era fonte di sublime ispirazione ma anche di morte. Al tema, già caro a studiosi di diversa formazione disciplinare, è dedicato il saggio Ninfa in un labirinto. Epifanie di una divinità in fuga (Moretti & Vitali) che l´autrice, Susanna Mati, docente di estetica filosofica a Venezia, presenta oggi alla Biblioteca delle Oblate (v. dell´Oriuolo 26, ore 17.30) nell´ambito di «Leggere per non dimenticare». Introduce Franco Rella.
Dal saggio ho scelto le righe che vedono la ricomparsa della ninfa, tornata alla ribalta dopo secoli di oblio, e diventata fiorentina. (pp. 97-98).
«Di ritorno dall´esilio medievale, le ninfe classiche irrompono nella cultura visiva fiorentina, in misura tale che nel Quattrocento s´indicano genericamente come nimphae alcuni tipi ricorrenti, analogamente a quanto accade in letteratura e nella parlata comune. Avvolte in drappi, le nimphae lasciano ondeggiare le chiome al vento; sono aurae in costume caratteristico, "soluta ac perlucida veste", con abito e capigliatura agitate, magari cacciatrici, sovente inseguite, legate come prede renitenti; oppure sono portatrici di frutta come Pomona, o spargono fiori come Flora, fanno corteo a Venere e le porgono il manto; corrono o danzano, incedono nei dipinti, nelle composizioni poetiche, sui carri delle feste; spuntano incongrue in scene bibliche, in ambienti domestici familiari, in contenute cerimonie cattoliche si insinuano fanciulle dal passo rapido, sotto forma di Ore vestite di sottilissimi veli. Icona privilegiata dell´influsso dell´antichità sulle immagini del moderno, la ninfa asseconda l´inclinazione "a rifarsi alle opere d´arte dell´antichità non appena si trattasse di cogliere in ciò che vive l´istante di un moto esterno". La ninfa dalle vesti in movimento, spesso portata da una brise imaginaire, è messa a sua volta in figura dalle accortezze di Botticelli, pittore ed erudito filologo neoplatonico, nonché "sofistica persona" (così il Vasari nelle Vite). La ninfa è figura di un´elementare volontà di vita, dice Warburg, fiore elegante strappato al cupo rigore dei fanatici domenicani; essa infatti, movimento fattosi donna, personifica anche il risorto paganesimo rinascimentale; enigmatico simbolo di gioia e sensualità pagana, di risorgente passione, è insieme la liberazione della bellezza in volo neoplatonico, ascendente a libere altezze. La farfalla classica è sgusciata fuori dal bozzolo borghese-borgognone, la farfalla fiorentina, la Nynfa, e la veste le ondeggia vittoriosa, sul capo porta un´acconciatura alata, le ali si spiegano al vento Zefiro».