Corriere La Lettura 23.11.14
Il maschio è diventato inutile? Poco male
Il maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di Telmo Pievani e Federico Taddia
Un
pamphlet scritto per denunciare la definitiva sparizione del cacciatore
del Pleistocene e cercare in natura occasioni di riscatto
Ma la storia è più complessa
di Francesco Piccolo
Il
maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di
Telmo Pievani e Federico Taddia. Il saggio è scanzonato, e muove da una
premessa ardita ma folgorante. Poi, andando avanti, l’accumulo di
esempi del mondo animale e di storie di uomini confonde, più che
chiarire; anche se rivela un bel po’ di interessanti curiosità
scientifiche, e delinea un’umanità bizzarra. In pratica, si parte
dall’idea che il maschio, dopo essere stato ingabbiato in una funzione
precisa e utile — fin dal Pleistocene, quando aveva il compito di
cacciare e procurarsi cibo — si stia sfaldando verso una inutilità
irreversibile. Cioè, per semplificare, prima i maschi facevano i maschi,
e le femmine facevano le femmine. Adesso i ruoli si confondono, così
come si confondono le antiche regole sessuali, e questo è senz’altro
positivo, ma deve per forza avere delle controindicazioni.
L’inutilità
è una di quelle: l’uomo subisce questo cambiamento, diventa il sesso
debole, mentre la donna ha un futuro evolutivo sempre più luminoso. Nel
regno della natura, «in alcune specie di pesci i maschi sono diventati
nani parassiti. In altri casi, il maschio si è trasformato in una vera e
propria appendice, minuscola, penzolante dal corpaccione della femmina:
in pratica, uno scroto ambulante. Neanche in un fantahorror femminista
ci sarebbero arrivati. In altri casi ancora le femmine decidono,
all’occorrenza, se diventare momentaneamente maschi oppure no. Fanno
tutto da sole. Il maschio per loro è inutile. Altre volte ancora le
femmine restano femmine, ma imitano i maschi e conducono in perfetta
autonomia tutti i giochi sociali. Si autofecondano, generano la prole
successiva e come amazzoni tramandano le loro società di sole femmine
clonate». Tra i mammiferi, il maschio si starebbe biologicamente
estinguendo e le femmine di primati dovranno trovare soluzioni
alternative per far proseguire l’evoluzione. E lo faranno.
Allora,
queste controindicazioni sono davvero terribili? Alla domanda i due
autori rispondono con un colpo di reni: l’inutilità è un’occasione di
riscatto. «Sappiamo che nella storia l’inutilità si è rivelata spesso
come un serbatoio di cambiamento, come una riserva di diversità alla
quale attingere nei momenti di crisi, quando le logiche dominanti si
sgretolano. Scopri in quel momento che qualcosa era inutile solo perché
non avevi capito a che cosa serviva, oppure che era davvero inutile ma
da un punto di vista ristretto e temporaneo. Quando il contesto cambia,
l’inutile passa al contrattacco». Quindi l’inutilità è un luogo di
libertà, di riscatto, di creatività e soprattutto di innovazione:
soltanto dalla mancanza di necessità possono arrivare sperimentazioni
sorprendenti.
La prima riflessione che viene da fare, quindi, è la
seguente: quando è stata la femmina a essere individuata come debole,
tendente verso l’inutile (o presunta inutile), questa ipotesi poteva
bastare a se stessa. Il sesso debole era debole e basta, non c’era
nient’altro da aggiungere. Invece noi maschi, appena ci troviamo di
fronte a un processo negativo, cominciamo a muovere armate di pensieri,
di esseri pensanti e di cose pensate, e alla fine capovolgiamo il senso
negativo in positivo. Anzi, in molto positivo. L’inutilità è una specie
di luogo della felicità liberata. E lo scopriamo adesso che riguarda i
maschi, non lo abbiamo scoperto quando riguardava le femmine. Già questo
è molto interessante. E divertente.
In realtà, a conti fatti,
questa storia dell’utilità dell’inutile è sensata. Tutto quello che
desidera un essere umano adulto responsabile (uomo o donna che sia) è
essere libero da responsabilità. Partire dall’irresponsabilità della
fanciullezza, entrare nel periodo della responsabilità, e fare di tutto
per uscirne al più presto, e con danni minimi. Questo è il ciclo della
vita di un essere umano nell’età contemporanea. Giungere a vagare per il
mondo senza una meta o una funzione, o starsene sdraiati su un divano
senza lottare con i sensi di colpa. Tutto ciò che vuole un essere umano è
il dì di festa, o meglio la sera prima, quando domani non abbiamo
niente da fare. È una continua tensione verso le giornate inutili.
Noi
maschi, poi, siamo stati molto entusiasti quando abbiamo letto un
articolo ormai famoso di Lori Gottlieb sul «New York Times Magazine», in
cui viene dimostrato da alcuni studi (in cui noi comunque crediamo, che
abbiano carattere scientifico o no) che la conduzione di vita di coppia
assolutamente alla pari, come è consuetudine dell’età contemporanea,
crea scompensi notevoli alla vita sessuale. Il desiderio della donna
cala in proporzione alla capacità collaborativa dell’uomo:
«L’aspirapolvere avrebbe ucciso il desiderio suscitato dai muscoli»
(l’applicabilità di questa frase a ogni maschio non dipende tanto dal
genere di aspirapolvere ma dal genere di muscoli).
A sorpresa questa
teoria pone in conflitto il desiderio che si ha del maschio con la sua
collaborazione domestica — e cioè dice che la positività della parità è
bilanciata con una perdita del desiderio da parte della donna, perché il
maschio quotidiano perde molto della sua forza attrattiva. Tutti i
maschi che hanno letto questo articolo lo conservano nel portafogli per
tirarlo fuori e sventolarlo minacciosamente ogni volta che c’è da
sparecchiare la tavola o lavare i piatti. E la delusione più cocente è
che le donne, tra la conservazione del desiderio e i piatti puliti,
scelgono quasi sempre i piatti puliti. Cioè, a quell’uomo del
Pleistocene, al quale volentieri torneremmo, non si può tornare più.
Il
mito del sesso è diventato inutile. E anche questa deve essere opera
del pensiero dominante maschile: se il sesso debole siamo noi, allora il
sesso perde centralità, si svilisce, la varietà sessuale si moltiplica e
la complessità serve anche ad allontanare l’attenzione dall’inutilità e
dalla debolezza. Ma, come dicono Pievani e Taddia, è anche il
contrario: l’inutilità produce diversità. E quindi la varietà è anche
figlia della debolezza del maschio. L’uovo e la gallina, come al solito.
In fondo, siamo tutti contenti che il maschio alla Lando Buzzanca o
alla Alberto Sordi non esista più; o se esiste, venga indicato subito
come patetico. E noi maschi siamo tutti contenti di non avere l’obbligo
della seduzione davanti a qualsiasi donna piacevole, che spesso si
trasforma in molestie e non ce ne accorgiamo. Se la violenza è
aumentata, dicono gli autori, è proprio in relazione a questo processo
di debolezza — è la reazione del maschio alla sua perdita di centralità.
E non c’è nemmeno da fare un distinguo tra maschi che vestono bene i
nuovi ruoli, e maschi che non riescono ad accettarli. Tutt’e due queste
cose convivono benissimo in ogni singolo maschio: ognuno è allo stesso
tempo fragile e violento, evoluto e involuto, progressista e
reazionario, moderno e primitivo. Ma il processo rimane comunque
ineluttabile: e anche i maschi che si ribellano e perseguono lo
stereotipo sociale, si rivelano inutili. Non c’è possibilità di mettere
un freno al processo evolutivo che accelera il suo moto e ingigantisce
mentre raccoglie consenso.
Evidentemente l’evoluzione comporta
debolezza, fragilità, inutilità — e in più, abbassamento del desiderio.
Ma a scavare ancora sotto la verità, si può dire che tutti questi
elementi esistevano già, e il tempo è servito semplicemente a un lavoro
di eliminazione dell’involucro — come quei regali che sono dentro pacchi
complicati e bisogna ingegnarsi molto per riuscire ad aprirli. Tutta la
problematicità del maschio pre-esisteva e ribolliva sotto l’armatura di
comodo, di potere, (sotto)culturale. Ed è per questo che alcuni maschi
un po’ consapevoli si sentono finalmente liberati. L’evoluzione del
maschio quindi non è soltanto un processo dall’utile all’inutile, ma
anche un cammino verso l’autenticità.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 3 dicembre 2016
Corriere 3.12.16
Il culto di Petrarca (per se stesso)
Annotava tutto, registrava, chiosava. Senza distinguere tra vita e letteratura
di Marco Santagata
Centinaia e centinaia di lettere, un’autobiografia Ad posteritatem , un dialogo introspettivo, il Secretum , dominato per intero dal proprio io, una miriade di note e di postille depositate sugli autografi, sui margini dei libri, una cura maniacale, diciamo pure nevrotica, a segnare le date — giorno, mese, spesso l’ora — di eventi della sua attività di scrittore, di studioso, di uomo pubblico e perfino privato, fino al punto da giungere ad annotare anche i giorni nei quali aveva ceduto ai piaceri della carne: insomma, una costante esibizione di sé sorretta e avvalorata da un imponente apparato documentario. Una tale mole di informazioni ci consente di dire che di nessun personaggio prima di Petrarca conosciamo la biografia in modo più dettagliato.
Il problema è che tanti dettagli faticano a comporsi in un ritratto coerente e, soprattutto, fondato. Essi, infatti, ci vengono tutti da lui, e perciò, in quanto autobiografiche, sono già di per sé testimonianze da prendersi con le molle. Nel suo caso, poi, la prudenza è quanto mai necessaria, e per molte buone ragioni. Per esempio, una non da poco è che la sua necessità di fissare il tempo con puntuali indicazioni cronologiche si accompagna a una vera e propria coazione a riscriversi e a cancellare il già scritto, il che rende spesso aleatori anche paletti che sembrerebbero certi. Insomma, anche quando ci illudiamo di camminare su un terreno solido, ben presto scopriamo di essere incappati nelle sabbie mobili.
La ragione principale, però, è che Petrarca mente, o meglio, mescola in modo inestricabile realtà e finzione, verità e mistificazione, dati certi e affermazioni arbitrarie. Non per il gusto di mentire, ma si potrebbe perfino dire per necessità culturale: convinto che non ci sia alcun diaframma tra vita e letteratura e intenzionato a trasmettere di sé un ritratto ideale, un modello, ecco che costruire un’opera complessiva che abbracciasse insieme esperienze di vita ed esperienze letterarie e che fornisse una lettura unitaria del suo essere uomo, intellettuale e poeta diventava per lui una strada obbligata. Il problema è tutto nostro, di noi che, irretiti nel suo gioco, cerchiamo a fatica di decifrarne i meccanismi, di distinguere ciò che lui non voleva distinguere. Ecco perché le pur pregevoli biografie in circolazione non possono non disperdersi in ridde di ricostruzioni minute e ipotetiche, un labirinto nel quale spesso si perdono il senso dei dati biografici e culturali e, in ultima analisi, viene a svanire la vera identità di Petrarca, sommersa da quella che lui intendeva imporci.
Forse ci voleva proprio uno studioso come Francisco Rico per fornirci un’agile biografia che con mano sicura sceverasse il certo dall’incerto, ciò che è della vita e ciò che è del progetto petrarchesco di rilettura della propria vita. Rico lo fa, in collaborazione con Luca Marcozzi, nella seconda parte del dittico in cui è suddiviso I venerdì del Petrarca (Adelphi). Il loro ritratto essenziale restituisce l’immagine più vicina all’originale, come se uscisse da un restauro. Molti tratti ci erano noti, ma altri emergono con inusuale nitidezza: penso, ad esempio, a quanta attenzione Petrarca abbia dedicato per tutta la vita ai rapporti con i protettori e i mecenati e alla sua abilità nel procurarsi sostanziose fonti di sostentamento. Rico era la persona più adatta a operare il restauro, perché, più di ogni altro, mettendosi nella scia di Giuseppe Billanovich, ha innovato il modo di leggere Petrarca. Si deve proprio a lui, a cominciare da un libro che ha segnato una svolta negli studi petrarcheschi, quel Vida u obra de Petrarca , uscito in Italia, da Antenore, nel 1974, in castigliano, e di cui si desidererebbe come di pochi altri una traduzione in italiano, si deve a lui la ricostruzione più affascinante delle strade tortuose lungo le quali Petrarca si è costruito come personaggio mescolando vita e letteratura, lasciandoci sempre nel dubbio se ciò che leggiamo sia vita o letteratura.
Rico ha il dono, oggi sempre più raro, di coniugare rigore filologico e inventività, solidità erudita e ardire interpretativo. Sotto la sua penna la filologia diventa militanza. E la sua filologia militante ha il pregio ulteriore di cercare nuove frontiere, di misurarsi con ipotesi che la stanca filologia dei nostri tempi nemmeno saprebbe formulare. Assodato che nei suoi scritti Petrarca «non mira tanto a narrarsi quanto a costruirsi, a esibire l’immagine ideale che vorrebbe darsi di se medesimo, o al limite l’immagine che lui ha di se medesimo», ecco che Rico, quasi mettendosi in gara, lui filologo con gli amici romanzieri e il loro culto dell’immaginazione, si chiede se per Petrarca, in non pochi momenti e comportamenti, «i fatti abbiano lo stesso valore di un testo letterario, anzi funzionino come tale, lo sostituiscano».
È una domanda complementare e opposta a quella che ha guidato l’indagine sul Petrarca che impone ai fatti l’interpretazione letteraria. Ne esce l’ipotesi di un’autobiografia segreta della quale farebbero parte «non poche pagine che il poeta non scrisse affatto, ma che piuttosto visse come se ne stesse scrivendo, oppure come se stesse ricalcando ciò che effettivamente aveva o avrebbe scritto». L’ipotesi è felicemente sperimentata nel primo dei due dittici, quello che dà il titolo al libro. Appurato che il riferimento a questo giorno della settimana si presenta con insistenza negli scritti petrarcheschi, Rico si chiede cosa rappresentasse il venerdì per Petrarca.
A partire da questa domanda si snoda un percorso tra archetipi culturali e privati investimenti emotivi, un viaggio critico che costeggia alcuni dei miti più tenaci dell’immaginario petrarchesco. Il viaggio, zigzagante e imprevedibile, tiene avvinto il lettore. Alla fine (ma Rico la anticipa all’inizio) emerge la risposta: «Il venerdì del Petrarca non è il venerdì nefasto della superstizione popolare, né solamente il venerdì devoto del cristiano: è il giorno che non passa inosservato, senza far sentire la propria singolarità... È uno degli archetipi e termini di paragone che servono a Francesco per situarsi nel mondo». Non una bizzarria, sia chiaro, né un vezzo, ma una necessità psicologica. Come negli scritti Petrarca cerca di proteggere la propria identità di depresso «dissimulandola sotto quella di un modello prestigioso», cioè costruendosi in personaggio, così, parallelamente, nella vita ricorre «a fissazioni, riti, schemi e paradigmi temporali». Il venerdì è uno di questi.
Il culto di Petrarca (per se stesso)
Annotava tutto, registrava, chiosava. Senza distinguere tra vita e letteratura
di Marco Santagata
Centinaia e centinaia di lettere, un’autobiografia Ad posteritatem , un dialogo introspettivo, il Secretum , dominato per intero dal proprio io, una miriade di note e di postille depositate sugli autografi, sui margini dei libri, una cura maniacale, diciamo pure nevrotica, a segnare le date — giorno, mese, spesso l’ora — di eventi della sua attività di scrittore, di studioso, di uomo pubblico e perfino privato, fino al punto da giungere ad annotare anche i giorni nei quali aveva ceduto ai piaceri della carne: insomma, una costante esibizione di sé sorretta e avvalorata da un imponente apparato documentario. Una tale mole di informazioni ci consente di dire che di nessun personaggio prima di Petrarca conosciamo la biografia in modo più dettagliato.
Il problema è che tanti dettagli faticano a comporsi in un ritratto coerente e, soprattutto, fondato. Essi, infatti, ci vengono tutti da lui, e perciò, in quanto autobiografiche, sono già di per sé testimonianze da prendersi con le molle. Nel suo caso, poi, la prudenza è quanto mai necessaria, e per molte buone ragioni. Per esempio, una non da poco è che la sua necessità di fissare il tempo con puntuali indicazioni cronologiche si accompagna a una vera e propria coazione a riscriversi e a cancellare il già scritto, il che rende spesso aleatori anche paletti che sembrerebbero certi. Insomma, anche quando ci illudiamo di camminare su un terreno solido, ben presto scopriamo di essere incappati nelle sabbie mobili.
La ragione principale, però, è che Petrarca mente, o meglio, mescola in modo inestricabile realtà e finzione, verità e mistificazione, dati certi e affermazioni arbitrarie. Non per il gusto di mentire, ma si potrebbe perfino dire per necessità culturale: convinto che non ci sia alcun diaframma tra vita e letteratura e intenzionato a trasmettere di sé un ritratto ideale, un modello, ecco che costruire un’opera complessiva che abbracciasse insieme esperienze di vita ed esperienze letterarie e che fornisse una lettura unitaria del suo essere uomo, intellettuale e poeta diventava per lui una strada obbligata. Il problema è tutto nostro, di noi che, irretiti nel suo gioco, cerchiamo a fatica di decifrarne i meccanismi, di distinguere ciò che lui non voleva distinguere. Ecco perché le pur pregevoli biografie in circolazione non possono non disperdersi in ridde di ricostruzioni minute e ipotetiche, un labirinto nel quale spesso si perdono il senso dei dati biografici e culturali e, in ultima analisi, viene a svanire la vera identità di Petrarca, sommersa da quella che lui intendeva imporci.
Forse ci voleva proprio uno studioso come Francisco Rico per fornirci un’agile biografia che con mano sicura sceverasse il certo dall’incerto, ciò che è della vita e ciò che è del progetto petrarchesco di rilettura della propria vita. Rico lo fa, in collaborazione con Luca Marcozzi, nella seconda parte del dittico in cui è suddiviso I venerdì del Petrarca (Adelphi). Il loro ritratto essenziale restituisce l’immagine più vicina all’originale, come se uscisse da un restauro. Molti tratti ci erano noti, ma altri emergono con inusuale nitidezza: penso, ad esempio, a quanta attenzione Petrarca abbia dedicato per tutta la vita ai rapporti con i protettori e i mecenati e alla sua abilità nel procurarsi sostanziose fonti di sostentamento. Rico era la persona più adatta a operare il restauro, perché, più di ogni altro, mettendosi nella scia di Giuseppe Billanovich, ha innovato il modo di leggere Petrarca. Si deve proprio a lui, a cominciare da un libro che ha segnato una svolta negli studi petrarcheschi, quel Vida u obra de Petrarca , uscito in Italia, da Antenore, nel 1974, in castigliano, e di cui si desidererebbe come di pochi altri una traduzione in italiano, si deve a lui la ricostruzione più affascinante delle strade tortuose lungo le quali Petrarca si è costruito come personaggio mescolando vita e letteratura, lasciandoci sempre nel dubbio se ciò che leggiamo sia vita o letteratura.
Rico ha il dono, oggi sempre più raro, di coniugare rigore filologico e inventività, solidità erudita e ardire interpretativo. Sotto la sua penna la filologia diventa militanza. E la sua filologia militante ha il pregio ulteriore di cercare nuove frontiere, di misurarsi con ipotesi che la stanca filologia dei nostri tempi nemmeno saprebbe formulare. Assodato che nei suoi scritti Petrarca «non mira tanto a narrarsi quanto a costruirsi, a esibire l’immagine ideale che vorrebbe darsi di se medesimo, o al limite l’immagine che lui ha di se medesimo», ecco che Rico, quasi mettendosi in gara, lui filologo con gli amici romanzieri e il loro culto dell’immaginazione, si chiede se per Petrarca, in non pochi momenti e comportamenti, «i fatti abbiano lo stesso valore di un testo letterario, anzi funzionino come tale, lo sostituiscano».
È una domanda complementare e opposta a quella che ha guidato l’indagine sul Petrarca che impone ai fatti l’interpretazione letteraria. Ne esce l’ipotesi di un’autobiografia segreta della quale farebbero parte «non poche pagine che il poeta non scrisse affatto, ma che piuttosto visse come se ne stesse scrivendo, oppure come se stesse ricalcando ciò che effettivamente aveva o avrebbe scritto». L’ipotesi è felicemente sperimentata nel primo dei due dittici, quello che dà il titolo al libro. Appurato che il riferimento a questo giorno della settimana si presenta con insistenza negli scritti petrarcheschi, Rico si chiede cosa rappresentasse il venerdì per Petrarca.
A partire da questa domanda si snoda un percorso tra archetipi culturali e privati investimenti emotivi, un viaggio critico che costeggia alcuni dei miti più tenaci dell’immaginario petrarchesco. Il viaggio, zigzagante e imprevedibile, tiene avvinto il lettore. Alla fine (ma Rico la anticipa all’inizio) emerge la risposta: «Il venerdì del Petrarca non è il venerdì nefasto della superstizione popolare, né solamente il venerdì devoto del cristiano: è il giorno che non passa inosservato, senza far sentire la propria singolarità... È uno degli archetipi e termini di paragone che servono a Francesco per situarsi nel mondo». Non una bizzarria, sia chiaro, né un vezzo, ma una necessità psicologica. Come negli scritti Petrarca cerca di proteggere la propria identità di depresso «dissimulandola sotto quella di un modello prestigioso», cioè costruendosi in personaggio, così, parallelamente, nella vita ricorre «a fissazioni, riti, schemi e paradigmi temporali». Il venerdì è uno di questi.
il manifesto 3.12.16
Strappare il velo della Maya
Ultraoltre. Posato sulla invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà ha il potere di ricoprire la vera natura delle cose
di Raffaele K. Salinari
«Watch out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the sidewalks, as each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of Maya». «Fai attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano sui marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta, guardati dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of Darkness, canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must pass. Il disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del «Beatle tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli altri component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista diretta da Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la Meditazione Trascendentale.
Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista americano, Chris Burden, si esibiva in una performance chiamata Deadman: il suo corpo, coperto da un semplice velo di plastica, era steso nel parcheggio di una superstrada californiana, come un semplice rifiuto; se un’automobile lo avesse investito avrebbe potuto morire.
Nell’agosto del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un peschereccio di Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi soccorritori: «Molte barche sono passate davanti a me ma voi avete guardato oltre la Maya del mare».
IN ORIENTE
Cos’è dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non «soffrire incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi vede solo il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato di materia plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta parcheggiando il corpo di Chris Burden?
Ebbene tutti i suoi molteplici significati sono simboleggiati, sia in Oriente sia in Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo della Maya appunto, come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire ed al tempo stesso di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si rende accessibile dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è finalmente caduto, o è divento abbastanza sottile da permetterci di gettare oltre uno sguardo perspicuo.
Per il potere della Maya – al femminile in sanscrito, come tutto ciò che afferisce alla sfera creazionale – agli occhi dell’umanità inconsapevole il Mondo appare come una successione di eventi, di oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza «penosamente frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro Rosso, perché percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo divenire, velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed oltre di essa. Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per cogliere l’essenza che la genera. Sollevare il velo della Maya significa percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita, essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.
LA FONTE INIZIATICA
La natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).
Quando Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il dio lo istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce avventura. Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto della mia Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse trasformato in Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco dopo, quando fu nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al figlio del re del Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo, fra lo sposo ed il padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una sola tremenda battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.
Fece dunque costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei suoi figli. Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le fiamme ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente fresca e trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua Susila trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù, tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto, chiedendogli con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la morte?».
Narada pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello svelamento che la Maya è l’Esistenza stessa sia nella sua forma visibile, peritura e transeunte, sia nella sua essenza invisibile, perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per l’induismo, è, infatti, mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è questa la conoscenza che il mito si propone di svelare attraverso la capacità magica, trasformatrice, delle acque. Giustamente, fa notare Zimmer, che qui l’acqua rappresenta la sostanza del principium individuations, poiché la nostra personalità individuale, consapevole, la psiche della quale siamo consci, il personaggio il cui ruolo impersoniamo socialmente o in solitario isolamento, è comunque nutrito, come in un microcosmo mentale ed emotivo, dall’elemento fluido dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto rappresenta una potenzialità per larga parte sconosciuta, distinta dal nostro essere cosciente: molto più vasta, molto più complessa, potremmo anche dire segreta se non addirittura incomprensibile e paurosa, e che tuttavia ne rappresenta il fondamento profondo, la sostiene ed è in comunione con essa, le circola attraverso come un fluido vivificante, ispiratore e spesso perturbante, eppure in qualche modo da esso separata: come può essere simboleggiato da un velo che ci ondeggia dinanzi allo sguardo separando conscio ed inconscio.
Wendy Doniger, in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il potere della Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono la Maya, bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa – per paura, insicurezza, avidità, ignoranza – tanto più il velo si inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso della nostra stessa esistenza.
Sollevare il velo della Maya, o renderlo traslucido, è allora un’esperienza iniziatica, come quella che ha vissuto il saggio Narada: egli, finalmente, apre gli occhi sulla Realtà sui generis che giace «dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo sguardo con il quale l’uomo risvegliato guarda al Mondo.
IL DRAPPO DI ISIDE
Quid fuit, quid est, quid erit
Ma la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo».
Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, ed al contempo la varietà delle sue varie forme: l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos, secondo la distinzione greca tra la Vita senza caratterizzazioni, incondizionata, la Zoè appunto, e le sue espressioni caratterizzate, le Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco, descrivendo la versione più comune del mito che lega Iside ed Osiride, così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma senza ombra né varietà e la veste di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai… La visione dell’Essere… non si può ottenere o percepire che in un solo istante».
Questa visione mistica della realtà al di là del velo che la ricopre è esattamente quella che propone Eraclito con il suo frammento sul nascondimento della Natura. Egli intende darci una traccia di come superare il dualismo che separa l’uomo dalla realtà intima delle cose.
KANT E SCHOPENHAUER
Dopo più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una interpretazione politico-etica del velo della Maya nell’opera di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il filosofo cerca di innestare sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo, duale e scisso, quella orientale, ricongiungente e non duale. Schopenhauer parte infatti dalle categorie di Kant, con la nota distinzione tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé), per rovesciarle completamente o meglio, ricongiungerle.
Per Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana; per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza: esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo della Maya.
Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si nasconde dietro il fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per Schopenhauer esso può essere percepito e di conseguenza è possibile squarciare il velo della Maya, ma come?
Attraverso la «volontà di vivere»: la forza creativa e impersonale alla base di tutte le cose che ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è allora l’esperienza fondante attraverso cui possiamo percepirci sia dall’esterno, come rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto diretto», come corpo vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso della Zoè. Non è questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris Burden? In Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua stessa essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo diretto solo da un sottile velo che può essere squarciato in ogni momento. Per questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica dell’arte, in particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo in considerazione queste forme di performance le classifica come «arti della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.
Riferendosi a Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché quel gesto è in grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la «perturbazione» consiste nell’infrangere la distanza tra le due per includere la realtà come componente artistica effettuale. In tal modo si elimina la distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.
ARENDT ED ERACLITO
La linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito, traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine, come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al congiungimento con ciò che origina».
ESTETICA FRAGILE
Ma oggi chi è in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci ritrovare nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E ancora, chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di Arthur C. Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e propria performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi corpi che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi, squarciano il velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la sensibilità narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che consideriamo sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole del nostro sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro fragilità, di generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può agire da controveleno della nostra mortificazione morale. La fragilità si ribalta così nella forza di chi non ha nulla da perdere. La consapevolezza di questo contare nulla per l’Occidente liberista permette ai migranti di spingersi al di là del già visto, al di là del conosciuto: se la mia vita è senza valore per voi che non mi vedete- accecati dalla Maya del mare – allora io me le riprendo sotto i vostri stessi occhi rischiando la morte. Massima fragilità uguale massima resilienza: massima negazione potenziale, la morte, massima affermazione in atto, la mia volontà di vivere. Il malessere perturbante che ci assale alla loro vista e che nessuna misura di «sorvegliare e punire» può cancellare dall’anima, è in realtà generato dall’oscura consapevolezza che il nostro insensato stile di non-vita dipende in definitiva dal loro non-essere. La performance permanente della loro «apparizione» sui nostri territori afferma così l’emergere di una soggettività che invece vorremmo affondare insieme ai loro corpi. Ogni espressione performativa migrante sdrucisce allora la compattezza della Maya biopolitica che impedisce di accedere alla nostra stessa «volontà di vivere». Questa semplice evidenza diviene dunque l’inizio di una sfida che ha come posta emozionale la nostra stessa percezione del Mondo. Il velo diviene a poco a poco traslucido: balugina la luce delle ombre splendenti di chi affronta il rischio supremo pur di affermare la dignità della propria esistenza.
Strappare il velo della Maya
Ultraoltre. Posato sulla invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà ha il potere di ricoprire la vera natura delle cose
di Raffaele K. Salinari
«Watch out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the sidewalks, as each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of Maya». «Fai attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano sui marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta, guardati dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of Darkness, canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must pass. Il disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del «Beatle tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli altri component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista diretta da Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la Meditazione Trascendentale.
Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista americano, Chris Burden, si esibiva in una performance chiamata Deadman: il suo corpo, coperto da un semplice velo di plastica, era steso nel parcheggio di una superstrada californiana, come un semplice rifiuto; se un’automobile lo avesse investito avrebbe potuto morire.
Nell’agosto del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un peschereccio di Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi soccorritori: «Molte barche sono passate davanti a me ma voi avete guardato oltre la Maya del mare».
IN ORIENTE
Cos’è dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non «soffrire incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi vede solo il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato di materia plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta parcheggiando il corpo di Chris Burden?
Ebbene tutti i suoi molteplici significati sono simboleggiati, sia in Oriente sia in Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo della Maya appunto, come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire ed al tempo stesso di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si rende accessibile dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è finalmente caduto, o è divento abbastanza sottile da permetterci di gettare oltre uno sguardo perspicuo.
Per il potere della Maya – al femminile in sanscrito, come tutto ciò che afferisce alla sfera creazionale – agli occhi dell’umanità inconsapevole il Mondo appare come una successione di eventi, di oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza «penosamente frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro Rosso, perché percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo divenire, velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed oltre di essa. Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per cogliere l’essenza che la genera. Sollevare il velo della Maya significa percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita, essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.
LA FONTE INIZIATICA
La natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).
Quando Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il dio lo istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce avventura. Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto della mia Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse trasformato in Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco dopo, quando fu nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al figlio del re del Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo, fra lo sposo ed il padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una sola tremenda battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.
Fece dunque costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei suoi figli. Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le fiamme ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente fresca e trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua Susila trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù, tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto, chiedendogli con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la morte?».
Narada pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello svelamento che la Maya è l’Esistenza stessa sia nella sua forma visibile, peritura e transeunte, sia nella sua essenza invisibile, perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per l’induismo, è, infatti, mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è questa la conoscenza che il mito si propone di svelare attraverso la capacità magica, trasformatrice, delle acque. Giustamente, fa notare Zimmer, che qui l’acqua rappresenta la sostanza del principium individuations, poiché la nostra personalità individuale, consapevole, la psiche della quale siamo consci, il personaggio il cui ruolo impersoniamo socialmente o in solitario isolamento, è comunque nutrito, come in un microcosmo mentale ed emotivo, dall’elemento fluido dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto rappresenta una potenzialità per larga parte sconosciuta, distinta dal nostro essere cosciente: molto più vasta, molto più complessa, potremmo anche dire segreta se non addirittura incomprensibile e paurosa, e che tuttavia ne rappresenta il fondamento profondo, la sostiene ed è in comunione con essa, le circola attraverso come un fluido vivificante, ispiratore e spesso perturbante, eppure in qualche modo da esso separata: come può essere simboleggiato da un velo che ci ondeggia dinanzi allo sguardo separando conscio ed inconscio.
Wendy Doniger, in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il potere della Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono la Maya, bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa – per paura, insicurezza, avidità, ignoranza – tanto più il velo si inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso della nostra stessa esistenza.
Sollevare il velo della Maya, o renderlo traslucido, è allora un’esperienza iniziatica, come quella che ha vissuto il saggio Narada: egli, finalmente, apre gli occhi sulla Realtà sui generis che giace «dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo sguardo con il quale l’uomo risvegliato guarda al Mondo.
IL DRAPPO DI ISIDE
Quid fuit, quid est, quid erit
Ma la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo».
Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, ed al contempo la varietà delle sue varie forme: l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos, secondo la distinzione greca tra la Vita senza caratterizzazioni, incondizionata, la Zoè appunto, e le sue espressioni caratterizzate, le Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco, descrivendo la versione più comune del mito che lega Iside ed Osiride, così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma senza ombra né varietà e la veste di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai… La visione dell’Essere… non si può ottenere o percepire che in un solo istante».
Questa visione mistica della realtà al di là del velo che la ricopre è esattamente quella che propone Eraclito con il suo frammento sul nascondimento della Natura. Egli intende darci una traccia di come superare il dualismo che separa l’uomo dalla realtà intima delle cose.
KANT E SCHOPENHAUER
Dopo più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una interpretazione politico-etica del velo della Maya nell’opera di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il filosofo cerca di innestare sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo, duale e scisso, quella orientale, ricongiungente e non duale. Schopenhauer parte infatti dalle categorie di Kant, con la nota distinzione tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé), per rovesciarle completamente o meglio, ricongiungerle.
Per Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana; per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza: esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo della Maya.
Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si nasconde dietro il fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per Schopenhauer esso può essere percepito e di conseguenza è possibile squarciare il velo della Maya, ma come?
Attraverso la «volontà di vivere»: la forza creativa e impersonale alla base di tutte le cose che ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è allora l’esperienza fondante attraverso cui possiamo percepirci sia dall’esterno, come rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto diretto», come corpo vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso della Zoè. Non è questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris Burden? In Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua stessa essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo diretto solo da un sottile velo che può essere squarciato in ogni momento. Per questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica dell’arte, in particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo in considerazione queste forme di performance le classifica come «arti della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.
Riferendosi a Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché quel gesto è in grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la «perturbazione» consiste nell’infrangere la distanza tra le due per includere la realtà come componente artistica effettuale. In tal modo si elimina la distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.
ARENDT ED ERACLITO
La linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito, traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine, come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al congiungimento con ciò che origina».
ESTETICA FRAGILE
Ma oggi chi è in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci ritrovare nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E ancora, chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di Arthur C. Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e propria performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi corpi che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi, squarciano il velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la sensibilità narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che consideriamo sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole del nostro sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro fragilità, di generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può agire da controveleno della nostra mortificazione morale. La fragilità si ribalta così nella forza di chi non ha nulla da perdere. La consapevolezza di questo contare nulla per l’Occidente liberista permette ai migranti di spingersi al di là del già visto, al di là del conosciuto: se la mia vita è senza valore per voi che non mi vedete- accecati dalla Maya del mare – allora io me le riprendo sotto i vostri stessi occhi rischiando la morte. Massima fragilità uguale massima resilienza: massima negazione potenziale, la morte, massima affermazione in atto, la mia volontà di vivere. Il malessere perturbante che ci assale alla loro vista e che nessuna misura di «sorvegliare e punire» può cancellare dall’anima, è in realtà generato dall’oscura consapevolezza che il nostro insensato stile di non-vita dipende in definitiva dal loro non-essere. La performance permanente della loro «apparizione» sui nostri territori afferma così l’emergere di una soggettività che invece vorremmo affondare insieme ai loro corpi. Ogni espressione performativa migrante sdrucisce allora la compattezza della Maya biopolitica che impedisce di accedere alla nostra stessa «volontà di vivere». Questa semplice evidenza diviene dunque l’inizio di una sfida che ha come posta emozionale la nostra stessa percezione del Mondo. Il velo diviene a poco a poco traslucido: balugina la luce delle ombre splendenti di chi affronta il rischio supremo pur di affermare la dignità della propria esistenza.
il manifesto 3.12.16
La rimembranza delle occasioni perdute
Saggi. «Malinconia di sinistra» del filosofo e storico Enzo Traverso per Feltrinelli. l 1848, la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa del 1905. Tre eventi visti non come fine di una prospettiva di liberazione, ma tappe di un processo in divenire. È con il crollo del Muro che cala il sipario su un secolo iniziato con l’auspicio della rivoluzione sociale. Con la fine del socialismo reale il centro della scena è occupato da opzioni politiche di sinistra nostalgiche del passato
di Marco Bascetta
La «fine di un’epoca», così buona parte della stampa mondiale ha commentato la morte di Fidel Castro, l’«ultimo comunista». Che cosa significa la fine di un’epoca? Intanto che ogni linea di continuità è recisa, ogni nesso tra passato e presente negato. Le categorie, le motivazioni e perfino il senso delle parole hanno cambiato di segno. Forse si tornerà a parlare di socialismo, di comunismo, ma questi non somiglieranno ai loro avi novecenteschi più di quanto la democrazia antica non assomigli alla moderna democrazia parlamentare: remota invenzione di una idea a cui si rende l’omaggio dovuto a una ragione originaria, ai primi avventati esploratori di una forma politica ancora irrisolta. E come della democrazia greca si ricorderà esser stata fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva del partito e dello stato.
Ma se da Atene e Sparta ci separa una enorme distanza temporale, così non è per la Russia dei soviet o per la rivoluzione cubana. E se è vero che l’implosione delle società socialiste ha mandato in frantumi la gabbia che imprigionava ogni soggettività desiderosa di trasformare radicalmente lo stato di cose esistente, è anche vero che la «nuova ragione del mondo», la dottrina neoliberista, si è rapidamente appropriata delle energie scaturite da quella implosione. La fine del socialismo realizzato si è data così nella forma di un’occasione mancata, di un senso di impotenza posto sotto il segno della malinconia.
IL COLORE DELLA MALINCONIA è, come insegnavano gli antichi, il nero: l’«atra bile», l’umore cupo della tristezza e del disfacimento. Può sorprendere, allora, una storia di questa affezione, di questa condizione dello spirito, dipinta con tutt’altro colore: il rosso della rivoluzione sociale, sia pure sbiadito nel tempo mesto della sconfitta. Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, così si intitola un nuovo libro di Enzo Traverso (Feltrinelli, pp.240, euro 25) pronto ad incrociare, però traendone qualche insegnamento e qualche speranza proiettata nel futuro, le tonalità depressive che pervadono il nostro tempo. Più che nella «sinistra», parola i cui contorni sono sempre più indistinti ed equivoci, è tra i «rivoluzionari» che hanno marciato sotto la bandiera dell’eguaglianza che l’autore insegue le orme di questa tradizione. Solo le rivoluzioni, infatti, o le insorgenze che ne costituiscono, o immaginano di costituirne le tappe, possono sperimentare nel profondo la sconfitta, la perdita, il dolore della caduta. La prudenza del riformismo, con i suoi compromessi e le sue mediazioni, può andare incontro a battute di arresto, sospensioni, ma non a una disfatta catastrofica.
SULLA NATURA della malinconia, sulle sue allegorie e rappresentazioni esiste un imponente corpus interpretativo, di natura estetica, morale, filosofica, antropologica, psicoanalitica. Traverso, pur dandone conto, si sofferma essenzialmente su due aspetti: la perdita e il lutto: la prima destinata a una permanenza sconsolata, il secondo suscettibile di una elaborazione che ne consente il superamento, nonché la generazione di nuova energia e motivazione alla lotta. Dunque, in tutto il corso della sua storia, quella che fu chiamata «rivoluzione socialista» ha vissuto catastrofiche sconfitte, massacri spaventosi, lunghi periodi di ibernazione. I punti alti dello scontro si sono quasi sempre conclusi con tragiche capitolazioni: il 1848, la Comune parigina del 1870, forse la più celebre e vivida rappresentazione della disfatta, la rivoluzione russa del 1905, la rivolta spartachista. Eppure quel sangue versato, quelle cadute rovinose non revocavano il senso e il fine del processo rivoluzionario, la sua prospettiva storica e le speranze che aveva suscitato. Anzi, ne costituivano l’alimento.
UN PATRIMONIO EMOZIONALE e conoscitivo al tempo stesso, un’istanza imprescindibile di riscatto. In fondo, la battaglia, impari, era stata ingaggiata contro un formidabile potere di oppressione, il cui sanguinoso trionfo non poteva che confermarne i tratti inumani e dunque inaccettabili. E riaccendere, così, le speranze e le passioni rivolte al suo rovesciamento. Insomma quella tradizione che dall’omaggio reso da Marx ai caduti della Comune, fino ai massacri rappresentati nelle pellicole di Eisenstein, risuona ancora nelle strofe di canzoni come Morti di Reggio Emilia. Ma che, pur confinata nella penombra, vive, appunto, di una tonalità malinconica, di una commozione luttuosa, di un dolore per la sconfitta di quella umanità insorgente tanto immersa nella materialità della vita quanto lontana dalla retorica dell’eroe, che pervade, invece, le onoranze funebri celebrate dalla destra.
Ma vi è, però, un altro grado della melanconia, che cresce nel corso della storia del Novecento per raggiungere il suo culmine nel fatidico 1989. Questa tonalità emotiva, sempre meno capace di trarre dalla negatività dell’esperienza nuova energia non è generata da una vittoria sul campo dell’avversario di classe. A generarla è il suicidio delle rivoluzioni vittoriose o la loro «corruzione», una patologia endogena che, passo dopo passo, ne ha corroso le ragioni e le promesse. Che pure sono esistite ed hanno messo in movimento grandi masse.
LA MORTE DI FIDEL CASTRO, per tornare a questo evento fortemente simbolico, avviene, a dispetto di qualsiasi enfasi celebrativa, in una atmosfera di mestizia in cui si mescolano quelle ragioni e quel morbo degenerativo. Comunque sarà ricordata o ripensata nel futuro, è ben difficile che l’esperienza della rivoluzione cubana, possa più rappresentare un «faro» o uno «sprone», una indicazione per il tempo a venire. La morte del Che e quella di Fidel rappresentano, in qualche modo, gli estremi opposti della malinconia rivoluzionaria. Se la prima rappresenta ancora una bandiera, la seconda completa tardivamente quella cesura, quella soluzione di continuità, quella fine, che nel 1989 ha avuto la sua data simbolica e «definitiva». Ma molte sono le «fini» che la avevano preceduta. Prima tra tutte quella consumatasi a Praga vent’anni prima. E poi la deriva corrotta e autoritaria che ha segnato la deriva delle lotte anticoloniali e di «liberazione nazionale». Delle tre rivoluzioni che alimentarono l’immaginario degli anni Sessanta e Settanta: quella anticapitalistica in Occidente, quella antiburocratica all’Est e quella antimperialista al Sud, di nessuna si può dire che sia andata a buon fine. Eppure hanno cambiato il volto del pianeta e ridisegnato le mappe del conflitto. Sotto l’oppressione del rapporto di capitale, certamente, ma anche nell’acuirsi della sua crisi e delle sue contraddizioni.
CHE FARE, dunque, in questo frangente, tra la pretesa di dannazione eterna per ogni ragione e passione della rivoluzione sconfitta avanzata dai vincitori, e quella inclinazione nostalgica, restia a prender commiato dalla teleologia «progressista» e a cimentarsi con uno scenario radicalmente trasformato? Contro ogni musealizzazione della memoria, che la separa per sempre dalla capacità di esercitare una influenza reale sul presente, Traverso ripropone, sulle orme del filosofo francese Daniel Bensaid, quella concezione benjaminiana del tempo come processo aperto e incompiuto e per questo sempre disponibile ad affacciarsi sul futuro dell’utopia, quella memoria dei vinti che, come riteneva Reinhart Koselleck, possiede un contenuto di conoscenza superiore a quella dei vincitori. Ma che, come la rivoluzione stessa, è inseparabile dalla malinconia. Senza la triste rimembranza delle occasioni perdute, non si tornerebbe a riannodarne i fili interrotti. Questa malinconia senza rassegnazione è, alla fine, la consapevolezza di una storia che, pur avendo pagato enormi prezzi, non è riuscita a trasformare il mondo come aveva voluto. E dunque l’affermazione di una impresa che resta ancora da compiere.
La rimembranza delle occasioni perdute
Saggi. «Malinconia di sinistra» del filosofo e storico Enzo Traverso per Feltrinelli. l 1848, la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa del 1905. Tre eventi visti non come fine di una prospettiva di liberazione, ma tappe di un processo in divenire. È con il crollo del Muro che cala il sipario su un secolo iniziato con l’auspicio della rivoluzione sociale. Con la fine del socialismo reale il centro della scena è occupato da opzioni politiche di sinistra nostalgiche del passato
di Marco Bascetta
La «fine di un’epoca», così buona parte della stampa mondiale ha commentato la morte di Fidel Castro, l’«ultimo comunista». Che cosa significa la fine di un’epoca? Intanto che ogni linea di continuità è recisa, ogni nesso tra passato e presente negato. Le categorie, le motivazioni e perfino il senso delle parole hanno cambiato di segno. Forse si tornerà a parlare di socialismo, di comunismo, ma questi non somiglieranno ai loro avi novecenteschi più di quanto la democrazia antica non assomigli alla moderna democrazia parlamentare: remota invenzione di una idea a cui si rende l’omaggio dovuto a una ragione originaria, ai primi avventati esploratori di una forma politica ancora irrisolta. E come della democrazia greca si ricorderà esser stata fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva del partito e dello stato.
Ma se da Atene e Sparta ci separa una enorme distanza temporale, così non è per la Russia dei soviet o per la rivoluzione cubana. E se è vero che l’implosione delle società socialiste ha mandato in frantumi la gabbia che imprigionava ogni soggettività desiderosa di trasformare radicalmente lo stato di cose esistente, è anche vero che la «nuova ragione del mondo», la dottrina neoliberista, si è rapidamente appropriata delle energie scaturite da quella implosione. La fine del socialismo realizzato si è data così nella forma di un’occasione mancata, di un senso di impotenza posto sotto il segno della malinconia.
IL COLORE DELLA MALINCONIA è, come insegnavano gli antichi, il nero: l’«atra bile», l’umore cupo della tristezza e del disfacimento. Può sorprendere, allora, una storia di questa affezione, di questa condizione dello spirito, dipinta con tutt’altro colore: il rosso della rivoluzione sociale, sia pure sbiadito nel tempo mesto della sconfitta. Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, così si intitola un nuovo libro di Enzo Traverso (Feltrinelli, pp.240, euro 25) pronto ad incrociare, però traendone qualche insegnamento e qualche speranza proiettata nel futuro, le tonalità depressive che pervadono il nostro tempo. Più che nella «sinistra», parola i cui contorni sono sempre più indistinti ed equivoci, è tra i «rivoluzionari» che hanno marciato sotto la bandiera dell’eguaglianza che l’autore insegue le orme di questa tradizione. Solo le rivoluzioni, infatti, o le insorgenze che ne costituiscono, o immaginano di costituirne le tappe, possono sperimentare nel profondo la sconfitta, la perdita, il dolore della caduta. La prudenza del riformismo, con i suoi compromessi e le sue mediazioni, può andare incontro a battute di arresto, sospensioni, ma non a una disfatta catastrofica.
SULLA NATURA della malinconia, sulle sue allegorie e rappresentazioni esiste un imponente corpus interpretativo, di natura estetica, morale, filosofica, antropologica, psicoanalitica. Traverso, pur dandone conto, si sofferma essenzialmente su due aspetti: la perdita e il lutto: la prima destinata a una permanenza sconsolata, il secondo suscettibile di una elaborazione che ne consente il superamento, nonché la generazione di nuova energia e motivazione alla lotta. Dunque, in tutto il corso della sua storia, quella che fu chiamata «rivoluzione socialista» ha vissuto catastrofiche sconfitte, massacri spaventosi, lunghi periodi di ibernazione. I punti alti dello scontro si sono quasi sempre conclusi con tragiche capitolazioni: il 1848, la Comune parigina del 1870, forse la più celebre e vivida rappresentazione della disfatta, la rivoluzione russa del 1905, la rivolta spartachista. Eppure quel sangue versato, quelle cadute rovinose non revocavano il senso e il fine del processo rivoluzionario, la sua prospettiva storica e le speranze che aveva suscitato. Anzi, ne costituivano l’alimento.
UN PATRIMONIO EMOZIONALE e conoscitivo al tempo stesso, un’istanza imprescindibile di riscatto. In fondo, la battaglia, impari, era stata ingaggiata contro un formidabile potere di oppressione, il cui sanguinoso trionfo non poteva che confermarne i tratti inumani e dunque inaccettabili. E riaccendere, così, le speranze e le passioni rivolte al suo rovesciamento. Insomma quella tradizione che dall’omaggio reso da Marx ai caduti della Comune, fino ai massacri rappresentati nelle pellicole di Eisenstein, risuona ancora nelle strofe di canzoni come Morti di Reggio Emilia. Ma che, pur confinata nella penombra, vive, appunto, di una tonalità malinconica, di una commozione luttuosa, di un dolore per la sconfitta di quella umanità insorgente tanto immersa nella materialità della vita quanto lontana dalla retorica dell’eroe, che pervade, invece, le onoranze funebri celebrate dalla destra.
Ma vi è, però, un altro grado della melanconia, che cresce nel corso della storia del Novecento per raggiungere il suo culmine nel fatidico 1989. Questa tonalità emotiva, sempre meno capace di trarre dalla negatività dell’esperienza nuova energia non è generata da una vittoria sul campo dell’avversario di classe. A generarla è il suicidio delle rivoluzioni vittoriose o la loro «corruzione», una patologia endogena che, passo dopo passo, ne ha corroso le ragioni e le promesse. Che pure sono esistite ed hanno messo in movimento grandi masse.
LA MORTE DI FIDEL CASTRO, per tornare a questo evento fortemente simbolico, avviene, a dispetto di qualsiasi enfasi celebrativa, in una atmosfera di mestizia in cui si mescolano quelle ragioni e quel morbo degenerativo. Comunque sarà ricordata o ripensata nel futuro, è ben difficile che l’esperienza della rivoluzione cubana, possa più rappresentare un «faro» o uno «sprone», una indicazione per il tempo a venire. La morte del Che e quella di Fidel rappresentano, in qualche modo, gli estremi opposti della malinconia rivoluzionaria. Se la prima rappresenta ancora una bandiera, la seconda completa tardivamente quella cesura, quella soluzione di continuità, quella fine, che nel 1989 ha avuto la sua data simbolica e «definitiva». Ma molte sono le «fini» che la avevano preceduta. Prima tra tutte quella consumatasi a Praga vent’anni prima. E poi la deriva corrotta e autoritaria che ha segnato la deriva delle lotte anticoloniali e di «liberazione nazionale». Delle tre rivoluzioni che alimentarono l’immaginario degli anni Sessanta e Settanta: quella anticapitalistica in Occidente, quella antiburocratica all’Est e quella antimperialista al Sud, di nessuna si può dire che sia andata a buon fine. Eppure hanno cambiato il volto del pianeta e ridisegnato le mappe del conflitto. Sotto l’oppressione del rapporto di capitale, certamente, ma anche nell’acuirsi della sua crisi e delle sue contraddizioni.
CHE FARE, dunque, in questo frangente, tra la pretesa di dannazione eterna per ogni ragione e passione della rivoluzione sconfitta avanzata dai vincitori, e quella inclinazione nostalgica, restia a prender commiato dalla teleologia «progressista» e a cimentarsi con uno scenario radicalmente trasformato? Contro ogni musealizzazione della memoria, che la separa per sempre dalla capacità di esercitare una influenza reale sul presente, Traverso ripropone, sulle orme del filosofo francese Daniel Bensaid, quella concezione benjaminiana del tempo come processo aperto e incompiuto e per questo sempre disponibile ad affacciarsi sul futuro dell’utopia, quella memoria dei vinti che, come riteneva Reinhart Koselleck, possiede un contenuto di conoscenza superiore a quella dei vincitori. Ma che, come la rivoluzione stessa, è inseparabile dalla malinconia. Senza la triste rimembranza delle occasioni perdute, non si tornerebbe a riannodarne i fili interrotti. Questa malinconia senza rassegnazione è, alla fine, la consapevolezza di una storia che, pur avendo pagato enormi prezzi, non è riuscita a trasformare il mondo come aveva voluto. E dunque l’affermazione di una impresa che resta ancora da compiere.
il manifesto 3.12.16
Uno storico smaliziato
Novecento. Il libro di Claudio Pavone «Aria di Russia. Diario di un viaggio in Urss», per Laterza. Uno sguardo critico sull’Unione Sovietica nei primi anni Sessanta e una lucida
di Alessandro Santagata
Claudio Pavone ha saputo far vivere la sua storiografia di quella passione civile che appartiene ai grandi intellettuali. A vent’anni attivista antifascista, aveva intessuto contatti con alcuni dei più importanti esponenti della cultura socialista e azionista. Nel dopoguerra era stato per molti anni archivista progettando e avviando con Piero D’Angiolini La Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani.
IN QUESTA FASE si colloca anche il viaggio in Unione Sovietica compiuto tra l’agosto e l’ottobre 1963 nell’ambito del programma di scambio italo-sovietico che prevedeva un lungo soggiorno per raccogliere informazioni sui documenti italiani presenti nei diversi archivi russi. Aria di Russia. Diario di un viaggio in Urss (Laterza, pp.224, euro 20) è la testimonianza precisa e tutt’altro che «di maniera» di quell’esperienza; un testo denso e vivace in cui impressioni, emozioni e riflessioni si intrecciano in una narrazione decisamente accattivante. Siamo in un periodo d’intensificazione delle relazioni tra i due paesi e, soprattutto, nel pieno del disgelo post-destalinizzazione.
LE TAPPE CHE SCANDISCONO il racconto sono numerose: dalla partecipazione insieme a Giampiero Carocci, Gastone Manacorda, Vittorio Emanuele Giuntella e altri membri della delegazione italiana al III Convegno internazionale di storia della Resistenza a Karlovy Vary in Cecoslovacchia, ai soggiorni a Mosca, Leningrado e Kiev. Dal diario emerge chiaramente la curiosità di un «indipendente di sinistra» che scruta affascinato il paesaggio dai finestrini del treno «come se il socialismo dovesse apparire in modo inequivocabile sugli alberi e suoi prati».
Si tratta però di uno sguardo critico che prende atto rapidamente dei problemi e delle stridenti contraddizioni del sistema. Le numerose osservazioni di costume – lo squallore e il grigiore delle periferie, il cattivo gusto nel vestire, i privilegi della «gioventù dorata», ma anche la gioia dei canti e dei balli, la passione civile degli intellettuali, l’emancipazione femminile – sono accompagnate dal resoconto degli scambi interpersonali.
A PAPAVIAN, GIOVANE collega e una delle figure più ricorrenti nel diario, Pavone tenta senza successo di spiegare che in Italia esistono tante sinistre e che il socialismo non è una categoria politica univoca. Si discute spesso di Gramsci e di quell’originalità del comunismo italiano che affascina gli interlocutori, ma anche delle condizioni in cui si fa cultura in Urss e quindi del problema della libertà di espressione. Argomenti ricorrenti sono poi le condizioni effettive prodotte dalla destalinizzazione tanto nell’organizzazione interna, quanto nelle difficili relazioni internazionali con la Cina e gli Stati Uniti.
Diverse sono le testimonianze degli intellettuali che avevano vissuto l’esperienza dei campi, ma le pagine più belle sono forse quelle delle lunghe chiacchierate con l’economista Galina Oborina, compagna energica e orgogliosa, che racconta della persecuzione subita dal padre, vecchio rivoluzionario accusato di trotzkismo, e polemizza con gli italiani che tendono a mitigare il giudizio su Stalin. Secondo Galina – annota Pavone sul suo diario – «i capi comunisti italiani vengono qui a villeggiare o a farsi curare a spese dello Stato sovietico, ne parlano male in privato ma poi tornano in Italia a dire che va tutto bene».
IN ALTRE TESTIMONIANZE, per esempio quella di Carolina Misiano, docente presso l’Accademia delle Scienze di Mosca, è comunque ricorrente il senso di appartenenza a una causa di cui gli intellettuali sovietici rivendicano il valore e le possibilità di correzione e di crescita. Pavone tende a non nascondere il proprio imbarazzo e i dubbi di uno studioso che non si è iscritto al Pci proprio per le «ambiguità» di Togliatti. In ogni caso, la prospettiva rimane lunga e l’attesa elevata nei confronti di un sistema in evidente e rapida trasformazione.
L’autore piange ascoltando la Marsigliese sul taxi che lo scorrazza tra le rovine di Varsavia, si imbarazza nel mezzo di un’accesa disputa sui prigionieri di guerra tra Misiano e Fridman, si appassiona nel discutere con i vari interlocutori su cosa abbia rappresentato per loro l’utopia marxista e sul percorso intrapreso da Chrušcëv.
Non solo dunque uno spaccato di grande interesse storico sull’Unione Sovietica nei primi anni Sessanta, ma anche una testimonianza preziosa di un intellettuale impegnato che non ha mai rinunciato alla sua funzione critica
Uno storico smaliziato
Novecento. Il libro di Claudio Pavone «Aria di Russia. Diario di un viaggio in Urss», per Laterza. Uno sguardo critico sull’Unione Sovietica nei primi anni Sessanta e una lucida
di Alessandro Santagata
Claudio Pavone ha saputo far vivere la sua storiografia di quella passione civile che appartiene ai grandi intellettuali. A vent’anni attivista antifascista, aveva intessuto contatti con alcuni dei più importanti esponenti della cultura socialista e azionista. Nel dopoguerra era stato per molti anni archivista progettando e avviando con Piero D’Angiolini La Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani.
IN QUESTA FASE si colloca anche il viaggio in Unione Sovietica compiuto tra l’agosto e l’ottobre 1963 nell’ambito del programma di scambio italo-sovietico che prevedeva un lungo soggiorno per raccogliere informazioni sui documenti italiani presenti nei diversi archivi russi. Aria di Russia. Diario di un viaggio in Urss (Laterza, pp.224, euro 20) è la testimonianza precisa e tutt’altro che «di maniera» di quell’esperienza; un testo denso e vivace in cui impressioni, emozioni e riflessioni si intrecciano in una narrazione decisamente accattivante. Siamo in un periodo d’intensificazione delle relazioni tra i due paesi e, soprattutto, nel pieno del disgelo post-destalinizzazione.
LE TAPPE CHE SCANDISCONO il racconto sono numerose: dalla partecipazione insieme a Giampiero Carocci, Gastone Manacorda, Vittorio Emanuele Giuntella e altri membri della delegazione italiana al III Convegno internazionale di storia della Resistenza a Karlovy Vary in Cecoslovacchia, ai soggiorni a Mosca, Leningrado e Kiev. Dal diario emerge chiaramente la curiosità di un «indipendente di sinistra» che scruta affascinato il paesaggio dai finestrini del treno «come se il socialismo dovesse apparire in modo inequivocabile sugli alberi e suoi prati».
Si tratta però di uno sguardo critico che prende atto rapidamente dei problemi e delle stridenti contraddizioni del sistema. Le numerose osservazioni di costume – lo squallore e il grigiore delle periferie, il cattivo gusto nel vestire, i privilegi della «gioventù dorata», ma anche la gioia dei canti e dei balli, la passione civile degli intellettuali, l’emancipazione femminile – sono accompagnate dal resoconto degli scambi interpersonali.
A PAPAVIAN, GIOVANE collega e una delle figure più ricorrenti nel diario, Pavone tenta senza successo di spiegare che in Italia esistono tante sinistre e che il socialismo non è una categoria politica univoca. Si discute spesso di Gramsci e di quell’originalità del comunismo italiano che affascina gli interlocutori, ma anche delle condizioni in cui si fa cultura in Urss e quindi del problema della libertà di espressione. Argomenti ricorrenti sono poi le condizioni effettive prodotte dalla destalinizzazione tanto nell’organizzazione interna, quanto nelle difficili relazioni internazionali con la Cina e gli Stati Uniti.
Diverse sono le testimonianze degli intellettuali che avevano vissuto l’esperienza dei campi, ma le pagine più belle sono forse quelle delle lunghe chiacchierate con l’economista Galina Oborina, compagna energica e orgogliosa, che racconta della persecuzione subita dal padre, vecchio rivoluzionario accusato di trotzkismo, e polemizza con gli italiani che tendono a mitigare il giudizio su Stalin. Secondo Galina – annota Pavone sul suo diario – «i capi comunisti italiani vengono qui a villeggiare o a farsi curare a spese dello Stato sovietico, ne parlano male in privato ma poi tornano in Italia a dire che va tutto bene».
IN ALTRE TESTIMONIANZE, per esempio quella di Carolina Misiano, docente presso l’Accademia delle Scienze di Mosca, è comunque ricorrente il senso di appartenenza a una causa di cui gli intellettuali sovietici rivendicano il valore e le possibilità di correzione e di crescita. Pavone tende a non nascondere il proprio imbarazzo e i dubbi di uno studioso che non si è iscritto al Pci proprio per le «ambiguità» di Togliatti. In ogni caso, la prospettiva rimane lunga e l’attesa elevata nei confronti di un sistema in evidente e rapida trasformazione.
L’autore piange ascoltando la Marsigliese sul taxi che lo scorrazza tra le rovine di Varsavia, si imbarazza nel mezzo di un’accesa disputa sui prigionieri di guerra tra Misiano e Fridman, si appassiona nel discutere con i vari interlocutori su cosa abbia rappresentato per loro l’utopia marxista e sul percorso intrapreso da Chrušcëv.
Non solo dunque uno spaccato di grande interesse storico sull’Unione Sovietica nei primi anni Sessanta, ma anche una testimonianza preziosa di un intellettuale impegnato che non ha mai rinunciato alla sua funzione critica
La Stampa 3.12.16
Nicola Lagioia
“Al Salone di Torino verranno anche gli autori degli editori assenti”
Il direttore svela i suoi piani per l’edizione del 2017
intervista di Emanuela Minucci
Sulla scrivania bianca, all’ombra di un ficus, qualche foglio di appunti, un’agenda e un computer. Al cospetto di pareti disadorne solo tre libri: Lettere e sogni di James Joyce, Io vedo me stesso di David Lynch e la Trilogia di Holt di Kent Haruf. In questa dozzina di metri quadri al secondo piano di una palazzina del centro di Torino si rifugia quindici ore al giorno Nicola Lagioia. Maglione mélange e jeans neri, si muove fra i corridoi della Fondazione con l’aria sbarazzina dello stagista. Ma quando chiude la porta e comincia a raccontare il Salone del Libro che verrà, il discorso del direttore diventa lucido e affilato, quasi una lectio.
Com’è andato il battesimo del fuoco con gli editori?
«Sto cercando di incontrarli tutti. Ho visto gli Amici del Salone a Francoforte (da Sellerio, a e/o, a Instar, a Iperborea), sono andato a Milano da Adelphi, Feltrinelli, Baldini&Castoldi, a Firenze da Giunti, ho incontrato Stefano Mauri e i vertici di Einaudi. Il risultato è che tutti gli editori manderanno a Torino i propri autori. L’affetto per il Salone è tale che non solo qui, ma anche a Napoli o a Roma, mi fermano per strada per sapere come va e poi mi danno appuntamento al Lingotto. È un sentimento frastornante: cercheremo di restituirlo alle persone, perché il Salone ha scandito non solo la loro vita culturale, ma in certi casi anche quella affettivo».
A proposito di legami forti, con Einaudi come è finita?
«Mi è difficile immaginare che l’Einaudi volti le spalle a Torino, e a tutti torinesi che vedono nella casa editrice di Cesare Pavese, Primo Levi, Beppe Fenoglio anche una parte della propria storia. Queste cose contano ancora, nel sistema di valori di tanti lettori. Mi fa invece un enorme piacere che si sia aperto un dialogo molto bello con la Scuola Holden».
Ci parli del programma. È vero che per la prima volta i librai di «Portici di Carta» e i bibliotecari avranno un ruolo cardine nel Salone?
«Certo, la loro partecipazione sarà significativa e darà un’impronta molto nuova e ambiziosa. Provo a spiegargliela. Consideri la pianta del Lingotto. Lungo i lati costruiremo una libreria divisa in quattro parti che risulterà uno specchio aumentato del programma, gestito da librai, biblioteche civiche e consulenti. La libreria sarà ispirata a tre protagonisti del Novecento che possono farci da guida anche per l’inizio del 21° secolo. Il primo è lo storico dell’arte Aby Warburg , rampollo di una facoltosa famiglia di ebrei tedeschi che a 13 anni cedette al fratello il diritto di primogenitura in cambio della realizzazione di un desiderio: comprare tutti i libri che voleva. Alla sua morte lasciò ad Amburgo una meravigliosa biblioteca (poi trasferita a Londra) divisa in quattro aree tematiche. I libri sono disposti al suo interno secondo la logica del “buon vicinato”, cioè per affinità...».
Diceva che questa libreria proverà a ispirarsi anche ad altri due grandi personaggi.
«Sì, il secondo è Umberto Eco. Chi non ricorda la biblioteca de Il nome della rosa? In quel caso si trattava di uno spazio chiuso, che a un certo punto crolla sotto la pretesa di essere un luogo per iniziati. Quel crollo è il segno di un cambiamento epocale. Il terzo grande personaggio è Jorge Luis Borges. Fu lui a immaginare La biblioteca di Babele nel celebre racconto di Finzioni. Quant’è vicino (nel bene e nel male) quel modello alla costellazione sterminata della Rete? Ecco, provi ora a formare un acronimo dalle iniziali di Warburg, Eco, Borges: WEB. Saranno loro ad accompagnarci, in modo umano, nella grande rete del 21° secolo».
Volando più basso, ci saranno ancora i dibattiti, gli autori superstar?
«Certo, ma gli autori che mettono in fila la gente saranno invitati in quanto portatori di contenuti, non solo di autografi. Faremo firmare pure quelli, ma ci interessano le loro idee. Fra le novità ci sarà la possibilità di ospitare da parte di una casa editrice un editore straniero a condizioni di favore. E di questa internazionalità beneficerà anche l’International Book Forum».
Se le diciamo Fiera del Libro di Milano, qual è il suo primo pensiero?
«Non ho cattivi sentimenti verso di loro. Il dialogo è la mia bussola. Soprattutto di questi tempi, molto meglio costruire ponti che innalzare muri. Sono tra l’altro molto amico di Chiara Valerio, e penso che un salto in fiera lo farò».
Come sarà il Salone by night, quando chiuderà il Lingotto?
«Porteremo i grandi autori in piazza, organizzeremo reading, concerti, faremo una notte bianca dedicata al libro. Saremo a maggio, farà caldo, sarà una grande festa. Gli autori stranieri che non sono mai stati a Torino, quando ci mettono piede per la prima volta “scemuniscono”: non sono preparati a una città così bella, e quando tornano nei loro paesi sono i migliori ambasciatori all’estero che il possa immaginare».
Ha più parlato con il ministro Franceschini dopo la rottura con Milano?
«L’ho visto l’altro ieri a Milano, a un convegno organizzato da Laterza. Mi ha detto: “in bocca al lupo”. Gli ho risposto “ speriamo che non morda”!».
Sulla scrivania bianca, all’ombra di un ficus, qualche appunto scritto a mano, un’agenda e un computer. Tanto bianco, pareti disadorne e tre libri, che già da soli raccontano in quale incubatrice ci troviamo. Lettere e sogni di James Joyce, Io vedo me stesso di David Lynch e la Trilogia di Holt di Kent Haruf. Questo è l’ufficio dove nascono le idee del 30° Salone Internazionale del Libro di Torino. Quindici metri quadri al secondo piano di una palazzina del centro dove trascorre - quando non è in viaggio per l’Italia a reclutare editori e scrittori - quindici ore al giorno il suo direttore, lo scrittore Nicola Lagioia. Maglione mélange e jeans neri, il premio Strega si muove fra i corridoi della Fondazione con l’aria sbarazzina dello stagista. Ma quando chiude la porta e comincia a raccontare il suo Salone, il discorso si fa lucido e affilato, quasi una lectio.
Lagioia, lei ha appena terminato il giro fra gli editori. Bilancio?
«Sì li ho incontrati tutti, sono andato a Milano da Adelphi, a Firenze da Giunti, ho visto Stefano Mauri e anche i vertici di Einaudi, più volte. E il risultato che ho ottenuto è che tutti gli editori, compresi quelli che non potranno venire a Torino manderanno al Salone i propri autori. È il messaggio che il Salone è un evento che richiama molta gente ed è amato da tutti. Guardi, io non lo avrei mai immaginato, ma l’affetto per l’evento è tale che non solo a Torino, ma anche a Napoli o a Roma, la gente mi ferma per strada per sapere come va e mi dà appuntamento al Lingotto, dal 18 al 22 maggio. Tutto questo affetto noi cercheremo di restituirlo».
A proposito di legami forti, con Einaudi come è finita?
«Mi è davvero difficile immaginare il Salone di Torino senza una qualche partecipazione di Einaudi. Sul serio».
È vero che per la prima volta i librai di «Portici di Carta» e i bibliotecai avranno un ruolo chiave nel Salone?
«La loro partecipazione sarà molto intensa e darà un’impronta nuova e ambiziosa. Consideri il Lingotto come un quadrato. Lungo i suoi quattro lati interni costruiremo una gigantesca libreria che risulterà uno specchio aumentato del programma, gestito direttamente da librai, bibliotecai e consulenti. Questo mare di libri sarà ispirato a tre giganti del Novecento che saranno in grado di accompagnarci anche nel 21° secolo. Si parte da Aby Warburg rampollo di una facoltosa famiglia di banchieri che a 13 anni cedette al fratello Max il diritto di primogenitura in cambio della realizzazione di un desiderio: comprare tutti i libri che desiderava. Alla sua morte lasciò una biblioteca che conta 65 mila volumi e 80 mila fotografie suddivisa in tre parti. La prima sta sotto l’insegna “word”, parola. In quella sezione ci puoi mettere tutta la narrazione, la poesia, il teatro. Poi c’è “immagine” e qui si raccoglie l’arte la fotografia, la graphic novel, il fumetto. Infine c’è l’area della “azione”, che noi chiameremo comunità, perché non dimentichiamo di essere nella regione di Adriano Olivetti, e qui rientreranno le scienze sociali, l’economia, la politica. Poi ci sono gli altri due giganti...».
Anche loro con una biblioteca ideale che si rifletterà dentro il Lingotto?
«Sì: quella de “Il nome della rosa” di Umberto Eco, una biblioteca medievale chiusa, per iniziati che noi invece apriremo trasformando il libro maledetto in benedetto premiando il lettore che indovinerà di quale volume si tratta. Il terzo, monumentale, personaggio è Jorge Luis Borges e la sua biblioteca infinita è il modello più vicino a quello di oggi. E adesso provi a leggere l’acronimo di questi tre cognomi. Le iniziali da Warburg, Eco, Borges: WEB. Saranno loro ad accompagnarci attraverso la loro grande lezione umanista, nel Salone delle tecnologie digitali».
Questi i filoni, ma ci saranno ancora i dibattiti, gli autori superstar?
«Certo, ma saranno invitati in quanto portatori di contenuti non di autografi. Faremo firmare pure quelli, ma ci interessano le idee. I dibattiti si costruiranno in modo nuovo. Ad esempio, vogliamo parlare di Kent Haruf? Gli affianchiamo anche Marillyne Robinson e Faulkner. Le case editrici poi potranno ospitare un collega straniero a condizioni di favore».
Se le diciamo Fiera di Rho, qual è il suo primo pensiero?
«Non mi preoccupa. Sono molto amico di Chiara Valerio. E penso che un salto in fiera lo farò di sicuro».
Come sarà il Salone by night, quando chiuderà il Lingotto?
«Dalle 20 in poi Torino si trasformerà in capitale del libro. Porteremo i grandi autori in piazza, organizzeremo reading, concerti, faremo una notte bianca dedicata al libro. A maggio farà caldo, tutte le librerie resteranno aperte sarà una grande festa. E gli autori stranieri che quando vedono per la prima volta Torino “scemuniscono” saranno sempre più estasiati».
Ha più parlato con il ministro Franceschini ?
«L’ho visto l’altro ieri a Milano a un convegno organizzato da Laterza. Mi ha detto in bocca al lupo. Gli ho risposto “speriamo che non morda” ».
Nicola Lagioia
“Al Salone di Torino verranno anche gli autori degli editori assenti”
Il direttore svela i suoi piani per l’edizione del 2017
intervista di Emanuela Minucci
Sulla scrivania bianca, all’ombra di un ficus, qualche foglio di appunti, un’agenda e un computer. Al cospetto di pareti disadorne solo tre libri: Lettere e sogni di James Joyce, Io vedo me stesso di David Lynch e la Trilogia di Holt di Kent Haruf. In questa dozzina di metri quadri al secondo piano di una palazzina del centro di Torino si rifugia quindici ore al giorno Nicola Lagioia. Maglione mélange e jeans neri, si muove fra i corridoi della Fondazione con l’aria sbarazzina dello stagista. Ma quando chiude la porta e comincia a raccontare il Salone del Libro che verrà, il discorso del direttore diventa lucido e affilato, quasi una lectio.
Com’è andato il battesimo del fuoco con gli editori?
«Sto cercando di incontrarli tutti. Ho visto gli Amici del Salone a Francoforte (da Sellerio, a e/o, a Instar, a Iperborea), sono andato a Milano da Adelphi, Feltrinelli, Baldini&Castoldi, a Firenze da Giunti, ho incontrato Stefano Mauri e i vertici di Einaudi. Il risultato è che tutti gli editori manderanno a Torino i propri autori. L’affetto per il Salone è tale che non solo qui, ma anche a Napoli o a Roma, mi fermano per strada per sapere come va e poi mi danno appuntamento al Lingotto. È un sentimento frastornante: cercheremo di restituirlo alle persone, perché il Salone ha scandito non solo la loro vita culturale, ma in certi casi anche quella affettivo».
A proposito di legami forti, con Einaudi come è finita?
«Mi è difficile immaginare che l’Einaudi volti le spalle a Torino, e a tutti torinesi che vedono nella casa editrice di Cesare Pavese, Primo Levi, Beppe Fenoglio anche una parte della propria storia. Queste cose contano ancora, nel sistema di valori di tanti lettori. Mi fa invece un enorme piacere che si sia aperto un dialogo molto bello con la Scuola Holden».
Ci parli del programma. È vero che per la prima volta i librai di «Portici di Carta» e i bibliotecari avranno un ruolo cardine nel Salone?
«Certo, la loro partecipazione sarà significativa e darà un’impronta molto nuova e ambiziosa. Provo a spiegargliela. Consideri la pianta del Lingotto. Lungo i lati costruiremo una libreria divisa in quattro parti che risulterà uno specchio aumentato del programma, gestito da librai, biblioteche civiche e consulenti. La libreria sarà ispirata a tre protagonisti del Novecento che possono farci da guida anche per l’inizio del 21° secolo. Il primo è lo storico dell’arte Aby Warburg , rampollo di una facoltosa famiglia di ebrei tedeschi che a 13 anni cedette al fratello il diritto di primogenitura in cambio della realizzazione di un desiderio: comprare tutti i libri che voleva. Alla sua morte lasciò ad Amburgo una meravigliosa biblioteca (poi trasferita a Londra) divisa in quattro aree tematiche. I libri sono disposti al suo interno secondo la logica del “buon vicinato”, cioè per affinità...».
Diceva che questa libreria proverà a ispirarsi anche ad altri due grandi personaggi.
«Sì, il secondo è Umberto Eco. Chi non ricorda la biblioteca de Il nome della rosa? In quel caso si trattava di uno spazio chiuso, che a un certo punto crolla sotto la pretesa di essere un luogo per iniziati. Quel crollo è il segno di un cambiamento epocale. Il terzo grande personaggio è Jorge Luis Borges. Fu lui a immaginare La biblioteca di Babele nel celebre racconto di Finzioni. Quant’è vicino (nel bene e nel male) quel modello alla costellazione sterminata della Rete? Ecco, provi ora a formare un acronimo dalle iniziali di Warburg, Eco, Borges: WEB. Saranno loro ad accompagnarci, in modo umano, nella grande rete del 21° secolo».
Volando più basso, ci saranno ancora i dibattiti, gli autori superstar?
«Certo, ma gli autori che mettono in fila la gente saranno invitati in quanto portatori di contenuti, non solo di autografi. Faremo firmare pure quelli, ma ci interessano le loro idee. Fra le novità ci sarà la possibilità di ospitare da parte di una casa editrice un editore straniero a condizioni di favore. E di questa internazionalità beneficerà anche l’International Book Forum».
Se le diciamo Fiera del Libro di Milano, qual è il suo primo pensiero?
«Non ho cattivi sentimenti verso di loro. Il dialogo è la mia bussola. Soprattutto di questi tempi, molto meglio costruire ponti che innalzare muri. Sono tra l’altro molto amico di Chiara Valerio, e penso che un salto in fiera lo farò».
Come sarà il Salone by night, quando chiuderà il Lingotto?
«Porteremo i grandi autori in piazza, organizzeremo reading, concerti, faremo una notte bianca dedicata al libro. Saremo a maggio, farà caldo, sarà una grande festa. Gli autori stranieri che non sono mai stati a Torino, quando ci mettono piede per la prima volta “scemuniscono”: non sono preparati a una città così bella, e quando tornano nei loro paesi sono i migliori ambasciatori all’estero che il possa immaginare».
Ha più parlato con il ministro Franceschini dopo la rottura con Milano?
«L’ho visto l’altro ieri a Milano, a un convegno organizzato da Laterza. Mi ha detto: “in bocca al lupo”. Gli ho risposto “ speriamo che non morda”!».
Sulla scrivania bianca, all’ombra di un ficus, qualche appunto scritto a mano, un’agenda e un computer. Tanto bianco, pareti disadorne e tre libri, che già da soli raccontano in quale incubatrice ci troviamo. Lettere e sogni di James Joyce, Io vedo me stesso di David Lynch e la Trilogia di Holt di Kent Haruf. Questo è l’ufficio dove nascono le idee del 30° Salone Internazionale del Libro di Torino. Quindici metri quadri al secondo piano di una palazzina del centro dove trascorre - quando non è in viaggio per l’Italia a reclutare editori e scrittori - quindici ore al giorno il suo direttore, lo scrittore Nicola Lagioia. Maglione mélange e jeans neri, il premio Strega si muove fra i corridoi della Fondazione con l’aria sbarazzina dello stagista. Ma quando chiude la porta e comincia a raccontare il suo Salone, il discorso si fa lucido e affilato, quasi una lectio.
Lagioia, lei ha appena terminato il giro fra gli editori. Bilancio?
«Sì li ho incontrati tutti, sono andato a Milano da Adelphi, a Firenze da Giunti, ho visto Stefano Mauri e anche i vertici di Einaudi, più volte. E il risultato che ho ottenuto è che tutti gli editori, compresi quelli che non potranno venire a Torino manderanno al Salone i propri autori. È il messaggio che il Salone è un evento che richiama molta gente ed è amato da tutti. Guardi, io non lo avrei mai immaginato, ma l’affetto per l’evento è tale che non solo a Torino, ma anche a Napoli o a Roma, la gente mi ferma per strada per sapere come va e mi dà appuntamento al Lingotto, dal 18 al 22 maggio. Tutto questo affetto noi cercheremo di restituirlo».
A proposito di legami forti, con Einaudi come è finita?
«Mi è davvero difficile immaginare il Salone di Torino senza una qualche partecipazione di Einaudi. Sul serio».
È vero che per la prima volta i librai di «Portici di Carta» e i bibliotecai avranno un ruolo chiave nel Salone?
«La loro partecipazione sarà molto intensa e darà un’impronta nuova e ambiziosa. Consideri il Lingotto come un quadrato. Lungo i suoi quattro lati interni costruiremo una gigantesca libreria che risulterà uno specchio aumentato del programma, gestito direttamente da librai, bibliotecai e consulenti. Questo mare di libri sarà ispirato a tre giganti del Novecento che saranno in grado di accompagnarci anche nel 21° secolo. Si parte da Aby Warburg rampollo di una facoltosa famiglia di banchieri che a 13 anni cedette al fratello Max il diritto di primogenitura in cambio della realizzazione di un desiderio: comprare tutti i libri che desiderava. Alla sua morte lasciò una biblioteca che conta 65 mila volumi e 80 mila fotografie suddivisa in tre parti. La prima sta sotto l’insegna “word”, parola. In quella sezione ci puoi mettere tutta la narrazione, la poesia, il teatro. Poi c’è “immagine” e qui si raccoglie l’arte la fotografia, la graphic novel, il fumetto. Infine c’è l’area della “azione”, che noi chiameremo comunità, perché non dimentichiamo di essere nella regione di Adriano Olivetti, e qui rientreranno le scienze sociali, l’economia, la politica. Poi ci sono gli altri due giganti...».
Anche loro con una biblioteca ideale che si rifletterà dentro il Lingotto?
«Sì: quella de “Il nome della rosa” di Umberto Eco, una biblioteca medievale chiusa, per iniziati che noi invece apriremo trasformando il libro maledetto in benedetto premiando il lettore che indovinerà di quale volume si tratta. Il terzo, monumentale, personaggio è Jorge Luis Borges e la sua biblioteca infinita è il modello più vicino a quello di oggi. E adesso provi a leggere l’acronimo di questi tre cognomi. Le iniziali da Warburg, Eco, Borges: WEB. Saranno loro ad accompagnarci attraverso la loro grande lezione umanista, nel Salone delle tecnologie digitali».
Questi i filoni, ma ci saranno ancora i dibattiti, gli autori superstar?
«Certo, ma saranno invitati in quanto portatori di contenuti non di autografi. Faremo firmare pure quelli, ma ci interessano le idee. I dibattiti si costruiranno in modo nuovo. Ad esempio, vogliamo parlare di Kent Haruf? Gli affianchiamo anche Marillyne Robinson e Faulkner. Le case editrici poi potranno ospitare un collega straniero a condizioni di favore».
Se le diciamo Fiera di Rho, qual è il suo primo pensiero?
«Non mi preoccupa. Sono molto amico di Chiara Valerio. E penso che un salto in fiera lo farò di sicuro».
Come sarà il Salone by night, quando chiuderà il Lingotto?
«Dalle 20 in poi Torino si trasformerà in capitale del libro. Porteremo i grandi autori in piazza, organizzeremo reading, concerti, faremo una notte bianca dedicata al libro. A maggio farà caldo, tutte le librerie resteranno aperte sarà una grande festa. E gli autori stranieri che quando vedono per la prima volta Torino “scemuniscono” saranno sempre più estasiati».
Ha più parlato con il ministro Franceschini ?
«L’ho visto l’altro ieri a Milano a un convegno organizzato da Laterza. Mi ha detto in bocca al lupo. Gli ho risposto “speriamo che non morda” ».
La Stampa 3.12.16
La battaglia delle ferrovie per la nuova Via della Seta
Cina, Russia e Iran si sfidano per il controllo del mercato in Oriente
di Giordano Stabile
Il Grande gioco in Asia centrale ora si disputa sui binari. Due grandi progetti stanno per trasformare Afghanistan e Pakistan nella futura piattaforma degli scambi commerciali fra Cina, India, Russia e anche Europa. Con rivalità che ricordano quelle fra le grandi potenze coloniali di due secoli fa. Per l’Afghanistan, uno dei pochi Paesi al mondo che non ha mai avuto una ferrovia, è un balzo in avanti impressionate e anche una delle ultime chance di ancorarsi all’Asia in pieno boom e mettersi alle spalle il Medio Evo dei Taleban.
Ma proprio gli studenti coranici barbuti, assieme al rivale strategico di sempre, il Pakistan, sono i maggiori ostacoli al sogno del presidente afghano Ashraf Ghani. Il progetto della linea Turkmenistan-Afghanistan-Tajikistan (Tat), che da Atamyrat dovrebbe arrivare a Panj, dovrà attraversare tutto il Nord del Paese, compreso il distretto di Kunduz in gran parte occupato dagli islamisti. Quattro giorni fa il leader afghano ha inaugurato la prima tratta, assieme al presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhammedov. Quattro chilometri sono in territorio afghano, fino alla cittadina di Aqina.
Giochi di potere
L’Afghanistan è rimasto fuori dalle reti asiatiche che hanno cominciato a svilupparsi già nella seconda metà dell’Ottocento, in India e nell’Impero zarista. Nelle fasi finali del Grande gioco, Gran Bretagna e Russia decisero che il Paese dei fieri guerrieri Pashtun doveva essere un cuscinetto fra i loro domini, quindi isolato, in modo che nessuno potesse sfruttarlo per spedizioni militari.
Oggi la sua sopravvivenza dipende invece nel collegarsi il più rapidamente possibile alla nuova Via della Seta, ferrovie, autostrade, porti, che la Cina sta realizzando a tappe forzate e che la collegherà al vicino Pakistan.
La Tat, 635 chilometri in tutto per un costo previsto in 2 miliardi di dollari, è invece sponsorizzata dall’Iran, e in misura minore dalla Russia. Permette di collegare il Turkmenistan al Tagikistan, bypassando l’Uzbekistan, ostile a Teheran, e in prospettiva di offrire uno sbocco al mare ai prodotti cinesi senza passare dal Pakistan, gigante musulmano sunnita mal visto dagli iraniani. Per Kabul invece si tratta anche di un modo per avvicinarsi all’Europa, perché il Turkmenistan è collegato alla vecchia rete sovietica che arriva fino ai confini dell’Ue.
Progetti alternativi
La Tat però va a rilento e i problemi di sicurezza non promettono sviluppi rapidi. All’inaugurazione dei binari, su traversine di cemento immacolate, Ghani e Berdymukhammedov hanno parlato di «momento storico» e un nuovo via «alle relazioni commerciali».
Due giorni dopo però i cinesi hanno risposto con l’apertura del primo collegamento treno-nave fra la regione interna dello Yunnan alla costa e di lì fino al porto pachistano di Karachi. L’antipasto di quello che sarà il tassello fondamentale della Via della Seta, le linea ferroviaria diretta Cina-Pakistan, 1800 km fra Kashgar e il porto pachistano di Gwadar. Correrà parallela a una nuova autostrada per costo complessivo di 18 miliardi.
Il progetto è stato lanciato lo scorso dicembre. Preoccupa Kabul, che teme di restare isolata nella morsa Cina-Pakistan. Pechino è l’alleato storico di Islamabad ma guarda anche all’Afghanistan. E ha cercato di rassicurare il presidente Ghani con un’altra proposta. Unire la nuova linea a Kabul con due deviazioni, da Quetta e Peshawar.
Il viceministro degli Esteri cinesi Kong Xuanyou l’ha illustrata al palazzo presidenziale e ha sottolineato che la Via della Seta «sarà decisiva» anche per l’Afghanistan. Chissà se i nuovi binari, se mai vedranno la luce, riusciranno a mettere d’accordo i rivali di sempre.
La battaglia delle ferrovie per la nuova Via della Seta
Cina, Russia e Iran si sfidano per il controllo del mercato in Oriente
di Giordano Stabile
Il Grande gioco in Asia centrale ora si disputa sui binari. Due grandi progetti stanno per trasformare Afghanistan e Pakistan nella futura piattaforma degli scambi commerciali fra Cina, India, Russia e anche Europa. Con rivalità che ricordano quelle fra le grandi potenze coloniali di due secoli fa. Per l’Afghanistan, uno dei pochi Paesi al mondo che non ha mai avuto una ferrovia, è un balzo in avanti impressionate e anche una delle ultime chance di ancorarsi all’Asia in pieno boom e mettersi alle spalle il Medio Evo dei Taleban.
Ma proprio gli studenti coranici barbuti, assieme al rivale strategico di sempre, il Pakistan, sono i maggiori ostacoli al sogno del presidente afghano Ashraf Ghani. Il progetto della linea Turkmenistan-Afghanistan-Tajikistan (Tat), che da Atamyrat dovrebbe arrivare a Panj, dovrà attraversare tutto il Nord del Paese, compreso il distretto di Kunduz in gran parte occupato dagli islamisti. Quattro giorni fa il leader afghano ha inaugurato la prima tratta, assieme al presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhammedov. Quattro chilometri sono in territorio afghano, fino alla cittadina di Aqina.
Giochi di potere
L’Afghanistan è rimasto fuori dalle reti asiatiche che hanno cominciato a svilupparsi già nella seconda metà dell’Ottocento, in India e nell’Impero zarista. Nelle fasi finali del Grande gioco, Gran Bretagna e Russia decisero che il Paese dei fieri guerrieri Pashtun doveva essere un cuscinetto fra i loro domini, quindi isolato, in modo che nessuno potesse sfruttarlo per spedizioni militari.
Oggi la sua sopravvivenza dipende invece nel collegarsi il più rapidamente possibile alla nuova Via della Seta, ferrovie, autostrade, porti, che la Cina sta realizzando a tappe forzate e che la collegherà al vicino Pakistan.
La Tat, 635 chilometri in tutto per un costo previsto in 2 miliardi di dollari, è invece sponsorizzata dall’Iran, e in misura minore dalla Russia. Permette di collegare il Turkmenistan al Tagikistan, bypassando l’Uzbekistan, ostile a Teheran, e in prospettiva di offrire uno sbocco al mare ai prodotti cinesi senza passare dal Pakistan, gigante musulmano sunnita mal visto dagli iraniani. Per Kabul invece si tratta anche di un modo per avvicinarsi all’Europa, perché il Turkmenistan è collegato alla vecchia rete sovietica che arriva fino ai confini dell’Ue.
Progetti alternativi
La Tat però va a rilento e i problemi di sicurezza non promettono sviluppi rapidi. All’inaugurazione dei binari, su traversine di cemento immacolate, Ghani e Berdymukhammedov hanno parlato di «momento storico» e un nuovo via «alle relazioni commerciali».
Due giorni dopo però i cinesi hanno risposto con l’apertura del primo collegamento treno-nave fra la regione interna dello Yunnan alla costa e di lì fino al porto pachistano di Karachi. L’antipasto di quello che sarà il tassello fondamentale della Via della Seta, le linea ferroviaria diretta Cina-Pakistan, 1800 km fra Kashgar e il porto pachistano di Gwadar. Correrà parallela a una nuova autostrada per costo complessivo di 18 miliardi.
Il progetto è stato lanciato lo scorso dicembre. Preoccupa Kabul, che teme di restare isolata nella morsa Cina-Pakistan. Pechino è l’alleato storico di Islamabad ma guarda anche all’Afghanistan. E ha cercato di rassicurare il presidente Ghani con un’altra proposta. Unire la nuova linea a Kabul con due deviazioni, da Quetta e Peshawar.
Il viceministro degli Esteri cinesi Kong Xuanyou l’ha illustrata al palazzo presidenziale e ha sottolineato che la Via della Seta «sarà decisiva» anche per l’Afghanistan. Chissà se i nuovi binari, se mai vedranno la luce, riusciranno a mettere d’accordo i rivali di sempre.
Repubblica 3.12.16
Usa. Appello a Obama
I Rosenberg “Nostra madre va scagionata”
di Alberto Flores D’Arcais
NEW YORK. Michael e Robert avevano 10 e 6 anni quando — era il 1953 — davanti ai cancelli della Casa Bianca implorarono (inutilmente) il presidente Eisenhower di salvare la vita ai propri genitori. Davanti a quei cancelli sono tornati ieri, a 73 e 69 anni, per chiedere a Obama di riabilitare la madre. Oggi si chiamano Meeropol (dalla famiglia che li adottò), sessant’anni fa Rosenberg: figli di Julius ed Ethel, condannati a morte nel giugno ‘53 come spie dell’Unione Sovietica. L’accusa, aver passato al regime di Stalin i segreti dell’atomica; principale accusatore David Greenglass, fratello di Ethel che aveva lavorato al “progetto Manhattan”.
Fu un processo storico. L’America (e non solo) si divise tra colpevolisti (la maggioranza) e innocentisti, Julius ed Ethel divennero, loro malgrado, icone di una guerra fredda a colpi di propaganda, falsità e zone d’ombra. Si divisero anche gli storici, finché — crollato l’Impero sovietico — dagli archivi del Kgb venne a galla la verità: Julius era una spia, la moglie sapeva. Nel 2015 nuovi documenti (una deposizione giurata di Greenglass) sembrano scagionare Ethel. E Robert e Michael chiedono al presidente uscente che le sia resa giustizia.
Usa. Appello a Obama
I Rosenberg “Nostra madre va scagionata”
di Alberto Flores D’Arcais
NEW YORK. Michael e Robert avevano 10 e 6 anni quando — era il 1953 — davanti ai cancelli della Casa Bianca implorarono (inutilmente) il presidente Eisenhower di salvare la vita ai propri genitori. Davanti a quei cancelli sono tornati ieri, a 73 e 69 anni, per chiedere a Obama di riabilitare la madre. Oggi si chiamano Meeropol (dalla famiglia che li adottò), sessant’anni fa Rosenberg: figli di Julius ed Ethel, condannati a morte nel giugno ‘53 come spie dell’Unione Sovietica. L’accusa, aver passato al regime di Stalin i segreti dell’atomica; principale accusatore David Greenglass, fratello di Ethel che aveva lavorato al “progetto Manhattan”.
Fu un processo storico. L’America (e non solo) si divise tra colpevolisti (la maggioranza) e innocentisti, Julius ed Ethel divennero, loro malgrado, icone di una guerra fredda a colpi di propaganda, falsità e zone d’ombra. Si divisero anche gli storici, finché — crollato l’Impero sovietico — dagli archivi del Kgb venne a galla la verità: Julius era una spia, la moglie sapeva. Nel 2015 nuovi documenti (una deposizione giurata di Greenglass) sembrano scagionare Ethel. E Robert e Michael chiedono al presidente uscente che le sia resa giustizia.
La Stampa 3.12.16
E Donald sceglie il “Cane matto” per guidare il Pentagono
L’ex marine James Mattis teorico della linea dura con l’Iran
È la rivincita dei generali messi da parte da Obama
di Paolo Mastrolilli
Oltre al colore, che non manca, la scelta di James «Mad Dog» Mattis come capo del Pentagono di Trump significa almeno quattro cose: la quasi completa rivincita dei generali accantonati da Obama; la certezza del ripotenziamento delle forze armate; una politica più dura sull’Iran e più presente in Medio Oriente; e più prudenza nelle aperture alla Russia.
Mattis, un mito tra i marines che ha comandato in Afghanistan e Iraq, si è guadagnato il soprannome di «Cane rabbioso» per l’intensità della sua persona, il profilo da falco, e la retorica aggressiva: «Devi essere gentile e professionale, ma anche avere un piano per ammazzare chiunque incontri». Prima di partire per l’Afghanistan, aveva tenuto un discorso ai suoi uomini: «Andiamo a combattere contro tipi che da cinque anni prendono a schiaffi le donne, solo perché non portano il velo: sarà divertente sparare a questa gente, e io sarò in prima linea». Il suo comandante lo invitò a moderare il linguaggio, ma non lo punì.
Queste massime sono passate alla storia come «mattisms», una specie di filosofia per affrontare la vita militare e civile. Sarebbe sbagliato, però, dimenticare l’altro soprannome del nuovo capo del Pentagono, «Warrior Monk», cioè il monaco guerriero, a metà tra Yoda e Obi Wan Kenobi. Mattis infatti ha una biblioteca di oltre 7.000 libri, compreso il pensiero strategico dell’italiano Giulio Douhet per l’aviazione, perché «non mi danno tutte le risposte, ma aiutano a schiarire il buio che ci circonda». Quindi da lui bisognerà aspettarsi riflessione e prudenza, sebbene quando combatteva in Iraq avesse scelto come nome in codice «Chaos».
Michael Flynn, prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, aveva inserito Mattis in un elenco di 4 generali epurati da Obama, che oltre a loro due comprendeva Stanley McChrystal e David Kiernen. Se ora David Petraeus diventerà segretario di Stato, la loro rivincita sarà completa e Trump avrà costruito una squadra di generali. Nel caso di Mattis al Pentagono, che richiederà una licenza speciale da parte del Congresso perché ha lasciato il servizio attivo da meno di 7 anni, gli investimenti promessi dal presidente eletto per far tornare le forze armate americane le più potenti al mondo sono garantiti. Nel 2013, poi, il nuovo segretario alla Difesa era stato sollevato in anticipo dall’incarico di capo del Central Command, perché si era opposto al negoziato nucleare con l’Iran. La sua scelta dunque annuncia una linea più dura verso Teheran, che Mattis considera la vera minaccia strategica di lungo termine in Medio Oriente, più dell’Isis, che sarebbe solo un prodotto temporaneo di questa destabilizzazione regionale. Il nuovo capo del Pentagono non è convinto che cancellare l’accordo nucleare convenga agli Usa, ma di certo vuole che la sua applicazione sia stringente, insieme agli altri Paesi che lo hanno firmato e all’Onu che lo garantisce. Poi, secondo fonti congressuali citate dal «Financial Times», la nuova amministrazione si appresta a colpire l’Iran varando nuove sanzioni che non riguardano il programma atomico, ma quello missilistico e la violazioni dei diritti umani. Così Teheran sarebbe penalizzata, senza però avere la scusa per aggirare gli obblighi dell’accordo nucleare e riprendere la corsa verso l’arma atomica.
Mattis pensa anche che la linea defilata di Obama in Medio Oriente sia stata un errore, perché ha creato il vuoto occupato non solo dall’Isis, ma in generale dall’instabilità. Questo non significa necessariamente l’inizio di una nuova fase interventista sul piano militare, ma di sicuro una presenza più forte, riorientata verso Israele e gli alleati tradizionali sunniti contro l’Iran sciita, a patto che smettano di aiutare l’Isis per usarla proprio contro Teheran. Sulla Russia, invece, la pensa diversamente da Trump. Secondo lui Mosca resta un rivale strategico e geopolitico degli Stati Uniti, e quindi spingerà il presidente alla prudenza nel dialogo con Putin.
E Donald sceglie il “Cane matto” per guidare il Pentagono
L’ex marine James Mattis teorico della linea dura con l’Iran
È la rivincita dei generali messi da parte da Obama
di Paolo Mastrolilli
Oltre al colore, che non manca, la scelta di James «Mad Dog» Mattis come capo del Pentagono di Trump significa almeno quattro cose: la quasi completa rivincita dei generali accantonati da Obama; la certezza del ripotenziamento delle forze armate; una politica più dura sull’Iran e più presente in Medio Oriente; e più prudenza nelle aperture alla Russia.
Mattis, un mito tra i marines che ha comandato in Afghanistan e Iraq, si è guadagnato il soprannome di «Cane rabbioso» per l’intensità della sua persona, il profilo da falco, e la retorica aggressiva: «Devi essere gentile e professionale, ma anche avere un piano per ammazzare chiunque incontri». Prima di partire per l’Afghanistan, aveva tenuto un discorso ai suoi uomini: «Andiamo a combattere contro tipi che da cinque anni prendono a schiaffi le donne, solo perché non portano il velo: sarà divertente sparare a questa gente, e io sarò in prima linea». Il suo comandante lo invitò a moderare il linguaggio, ma non lo punì.
Queste massime sono passate alla storia come «mattisms», una specie di filosofia per affrontare la vita militare e civile. Sarebbe sbagliato, però, dimenticare l’altro soprannome del nuovo capo del Pentagono, «Warrior Monk», cioè il monaco guerriero, a metà tra Yoda e Obi Wan Kenobi. Mattis infatti ha una biblioteca di oltre 7.000 libri, compreso il pensiero strategico dell’italiano Giulio Douhet per l’aviazione, perché «non mi danno tutte le risposte, ma aiutano a schiarire il buio che ci circonda». Quindi da lui bisognerà aspettarsi riflessione e prudenza, sebbene quando combatteva in Iraq avesse scelto come nome in codice «Chaos».
Michael Flynn, prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, aveva inserito Mattis in un elenco di 4 generali epurati da Obama, che oltre a loro due comprendeva Stanley McChrystal e David Kiernen. Se ora David Petraeus diventerà segretario di Stato, la loro rivincita sarà completa e Trump avrà costruito una squadra di generali. Nel caso di Mattis al Pentagono, che richiederà una licenza speciale da parte del Congresso perché ha lasciato il servizio attivo da meno di 7 anni, gli investimenti promessi dal presidente eletto per far tornare le forze armate americane le più potenti al mondo sono garantiti. Nel 2013, poi, il nuovo segretario alla Difesa era stato sollevato in anticipo dall’incarico di capo del Central Command, perché si era opposto al negoziato nucleare con l’Iran. La sua scelta dunque annuncia una linea più dura verso Teheran, che Mattis considera la vera minaccia strategica di lungo termine in Medio Oriente, più dell’Isis, che sarebbe solo un prodotto temporaneo di questa destabilizzazione regionale. Il nuovo capo del Pentagono non è convinto che cancellare l’accordo nucleare convenga agli Usa, ma di certo vuole che la sua applicazione sia stringente, insieme agli altri Paesi che lo hanno firmato e all’Onu che lo garantisce. Poi, secondo fonti congressuali citate dal «Financial Times», la nuova amministrazione si appresta a colpire l’Iran varando nuove sanzioni che non riguardano il programma atomico, ma quello missilistico e la violazioni dei diritti umani. Così Teheran sarebbe penalizzata, senza però avere la scusa per aggirare gli obblighi dell’accordo nucleare e riprendere la corsa verso l’arma atomica.
Mattis pensa anche che la linea defilata di Obama in Medio Oriente sia stata un errore, perché ha creato il vuoto occupato non solo dall’Isis, ma in generale dall’instabilità. Questo non significa necessariamente l’inizio di una nuova fase interventista sul piano militare, ma di sicuro una presenza più forte, riorientata verso Israele e gli alleati tradizionali sunniti contro l’Iran sciita, a patto che smettano di aiutare l’Isis per usarla proprio contro Teheran. Sulla Russia, invece, la pensa diversamente da Trump. Secondo lui Mosca resta un rivale strategico e geopolitico degli Stati Uniti, e quindi spingerà il presidente alla prudenza nel dialogo con Putin.
Repubblica 3.12.16
Hofer è il candidato dell’ultradestra alle presidenziali di domani: ammorbidisce i toni ma una sua vittoria fa ancora paura
“Dico basta al governo di Bruxelles ma la mia Austria resterà nella Ue”
intervista di Tonia Mastrobuoni
VIENNA. Quando entrano gli spazzacamini, un’ondata di sorrisi attraversa la grande sala della Borsa di Vienna. Nei Paesi germanici portano fortuna, soprattutto se ci si tocca un bottone. Un contributo creativo per l’ultimo comizio di Norbert Hofer. Però che abisso, rispetto all’ultimo comizio delle presidenziali di maggio, quelle cancellate dalla Corte costituzionale per le irregolarità legate al voto postale. Ieri il popolo di Hofer era radunato in un posto chiuso con i soffitti stuccati, i camerieri in livrea, le alzate con le delizie della pasticceria viennese e i cori della Carinzia.
Sei mesi fa, il candidato dei populisti aveva arringato la folla nella piazza di un vecchio e fiero quartiere operaio, ormai infestato di teste rasate e tossici, aizzandola con slogan anti-islamici e anti-profughi. Adesso, con la crisi migratoria che si è allentata, anche il politico della Fpö sembra navigare verso il centro. Ha smorzato gli slogan più feroci, ha relativizzato le minacce più note, come quella di un’uscita dell’Austria dalla Ue. Lo dimostra anche quest’intervista con
Repubblica, in cui spiega che l’Europa «non è finita », ma che deve cambiare, in cui sostiene che sui profughi «non si può lasciare sola l’Italia » e che «non bisogna chiudere le frontiere ma controllarle meglio». Hofer, poi, non è preoccupato per il referendum di domani.
Non tutti, però, credono al “nuovo” e più moderato Hofer. Ieri il sindaco di Vienna, Michael Häupl (Spö) ha fatto sapere di essere convinto che che domenica «si giochi la battaglia per la democrazia».
Hofer, con la sorpresa delle presidenziali degli Stati Uniti, molti si aspettano “un effetto Trump” anche in Europa, intendendo un’avanzata dei populisti — incluso lei. Se lo aspetta anche in Austria, domani?
«Mi aspetto un “effetto Hofer”».
Ci sono cose che la accomunano al nuovo presidente americano?
«Mi piace che sia un politico autentico. Ma l’Austria è l’Austria».
Come cambierà il suo Paese se lei diventerà presidente?
«Intendo lavorare ad un miglioramento dell’Unione europea, abbiamo bisogno di un’Unione che funzioni secondo il principio della sussidiarietà. È una grande sfida, per tutti i Paesi. Personalmente non credo che la Ue sia morta. Credo che sia molto in crisi, ma penso anche che possiamo risolvere questa crisi».
Come?
«Io non voglio un centralismo brussellese. Il principio della sussidiarietà significa che affrontiamo i grandi problemi insieme, spalla a spalla, collaborando in modo stretto su temi come la difesa o la sicurezza o altri ma senza un governo centrale».
C’è molta apprensione attorno alla sua minaccia di una Öxit, di un’uscita dell’Austria dall’Ue. Lei ha detto che proporrà un referendum se l’Europa dovesse fare passi verso un’integrazione maggiore.
Dobbiamo temere una Öxit?
«No» Si parla molto, riferendosi anche al suo successo, dell’avanzata dei populisti. Si identifica con questa definizione?
«A me piace una politica che si leghi di più ai cittadini del proprio Paese ma senza escludere rapporti con altri. A noi serve una politica razionale».
Lei è molto critico con i profughi e nei mesi scorsi il governo austriaco — un po’ per rincorrerla — ha creato il blocco delle frontiere lungo i Balcani che ha provocato l’emergenza a Idomeni. Adesso i migranti ricominciano ad arrivare — e ad annegare — nel Mediterraneo.
«Io penso che non possiamo lasciare sola l’Italia in questa situazione difficile. È molto complicato per l’Italia e la Grecia controllare da sole le frontiere. Anche qui l’Unione europea deve aiutare. Non a chiudere le frontiere, bensì a controllarle meglio».
E come si fa?
«La mia proposta è quella di creare una zona sicura in Nordafrica dove le persone trovino protezione, dove si possano esaminare con calma le richieste di asilo. Quelli che hanno bisogno davvero di una tutela — ma sono un quarto del totale — possono essere portati in modo sicuro in Europa. Un procedimento del genere consentirebbe anche di rovinare gli affari agli scafisti. E comunque i profughi devono rimanere in Europa a tempo, finché dura l’emergenza nel loro Paese».
Anche in Italia si vota, domani. C’è molta preoccupazione per un esito negativo del referendum, per le reazioni che potrebbe scatenare sui mercati. Lei è preoccupato?
«Io non sono mai preoccupato quando decidono le persone. In una democrazia le persone decidono sempre la cosa giusta».
Insomma. Nel 1933 in Germania non tanto. A proposito: in questi anni sono emersi legami di elementi di spicco del suo partito con l’estrema destra.
«Io non sono di estrema destra, l’ho detto più volte e lo ripeto».
Anche lei auspica che in Italia prevalgano i sì, come alcuni politici stranieri — ad esempio Wolfgang Schäuble?
«Io non mi pronuncio e non mi immischio, lo faccio per rispetto nei confronti degli elettori italiani» Angela Merkel ha detto che si ricandida per la quarta volta. È una buona o una cattiva notizia?
«Lo decideranno gli elettori tedeschi. Guardi che secondo me Merkel ha fatto moltissime cose buone cose. Ha solo sbagliato una cosa: i profughi».
Hofer è il candidato dell’ultradestra alle presidenziali di domani: ammorbidisce i toni ma una sua vittoria fa ancora paura
“Dico basta al governo di Bruxelles ma la mia Austria resterà nella Ue”
intervista di Tonia Mastrobuoni
VIENNA. Quando entrano gli spazzacamini, un’ondata di sorrisi attraversa la grande sala della Borsa di Vienna. Nei Paesi germanici portano fortuna, soprattutto se ci si tocca un bottone. Un contributo creativo per l’ultimo comizio di Norbert Hofer. Però che abisso, rispetto all’ultimo comizio delle presidenziali di maggio, quelle cancellate dalla Corte costituzionale per le irregolarità legate al voto postale. Ieri il popolo di Hofer era radunato in un posto chiuso con i soffitti stuccati, i camerieri in livrea, le alzate con le delizie della pasticceria viennese e i cori della Carinzia.
Sei mesi fa, il candidato dei populisti aveva arringato la folla nella piazza di un vecchio e fiero quartiere operaio, ormai infestato di teste rasate e tossici, aizzandola con slogan anti-islamici e anti-profughi. Adesso, con la crisi migratoria che si è allentata, anche il politico della Fpö sembra navigare verso il centro. Ha smorzato gli slogan più feroci, ha relativizzato le minacce più note, come quella di un’uscita dell’Austria dalla Ue. Lo dimostra anche quest’intervista con
Repubblica, in cui spiega che l’Europa «non è finita », ma che deve cambiare, in cui sostiene che sui profughi «non si può lasciare sola l’Italia » e che «non bisogna chiudere le frontiere ma controllarle meglio». Hofer, poi, non è preoccupato per il referendum di domani.
Non tutti, però, credono al “nuovo” e più moderato Hofer. Ieri il sindaco di Vienna, Michael Häupl (Spö) ha fatto sapere di essere convinto che che domenica «si giochi la battaglia per la democrazia».
Hofer, con la sorpresa delle presidenziali degli Stati Uniti, molti si aspettano “un effetto Trump” anche in Europa, intendendo un’avanzata dei populisti — incluso lei. Se lo aspetta anche in Austria, domani?
«Mi aspetto un “effetto Hofer”».
Ci sono cose che la accomunano al nuovo presidente americano?
«Mi piace che sia un politico autentico. Ma l’Austria è l’Austria».
Come cambierà il suo Paese se lei diventerà presidente?
«Intendo lavorare ad un miglioramento dell’Unione europea, abbiamo bisogno di un’Unione che funzioni secondo il principio della sussidiarietà. È una grande sfida, per tutti i Paesi. Personalmente non credo che la Ue sia morta. Credo che sia molto in crisi, ma penso anche che possiamo risolvere questa crisi».
Come?
«Io non voglio un centralismo brussellese. Il principio della sussidiarietà significa che affrontiamo i grandi problemi insieme, spalla a spalla, collaborando in modo stretto su temi come la difesa o la sicurezza o altri ma senza un governo centrale».
C’è molta apprensione attorno alla sua minaccia di una Öxit, di un’uscita dell’Austria dall’Ue. Lei ha detto che proporrà un referendum se l’Europa dovesse fare passi verso un’integrazione maggiore.
Dobbiamo temere una Öxit?
«No» Si parla molto, riferendosi anche al suo successo, dell’avanzata dei populisti. Si identifica con questa definizione?
«A me piace una politica che si leghi di più ai cittadini del proprio Paese ma senza escludere rapporti con altri. A noi serve una politica razionale».
Lei è molto critico con i profughi e nei mesi scorsi il governo austriaco — un po’ per rincorrerla — ha creato il blocco delle frontiere lungo i Balcani che ha provocato l’emergenza a Idomeni. Adesso i migranti ricominciano ad arrivare — e ad annegare — nel Mediterraneo.
«Io penso che non possiamo lasciare sola l’Italia in questa situazione difficile. È molto complicato per l’Italia e la Grecia controllare da sole le frontiere. Anche qui l’Unione europea deve aiutare. Non a chiudere le frontiere, bensì a controllarle meglio».
E come si fa?
«La mia proposta è quella di creare una zona sicura in Nordafrica dove le persone trovino protezione, dove si possano esaminare con calma le richieste di asilo. Quelli che hanno bisogno davvero di una tutela — ma sono un quarto del totale — possono essere portati in modo sicuro in Europa. Un procedimento del genere consentirebbe anche di rovinare gli affari agli scafisti. E comunque i profughi devono rimanere in Europa a tempo, finché dura l’emergenza nel loro Paese».
Anche in Italia si vota, domani. C’è molta preoccupazione per un esito negativo del referendum, per le reazioni che potrebbe scatenare sui mercati. Lei è preoccupato?
«Io non sono mai preoccupato quando decidono le persone. In una democrazia le persone decidono sempre la cosa giusta».
Insomma. Nel 1933 in Germania non tanto. A proposito: in questi anni sono emersi legami di elementi di spicco del suo partito con l’estrema destra.
«Io non sono di estrema destra, l’ho detto più volte e lo ripeto».
Anche lei auspica che in Italia prevalgano i sì, come alcuni politici stranieri — ad esempio Wolfgang Schäuble?
«Io non mi pronuncio e non mi immischio, lo faccio per rispetto nei confronti degli elettori italiani» Angela Merkel ha detto che si ricandida per la quarta volta. È una buona o una cattiva notizia?
«Lo decideranno gli elettori tedeschi. Guardi che secondo me Merkel ha fatto moltissime cose buone cose. Ha solo sbagliato una cosa: i profughi».
La Stampa 3.12.16
Nell’Austria di Hofer lo spettro dell’estrema destra
Domani il nuovo ballottaggio per il presidente È testa a testa tra populisti e i verdi di Van der Bellen
di Alessandro Alviani
Giunto alla fine di una campagna elettorale lunga undici mesi che l’ha trasformato da perfetto sconosciuto a nuovo spauracchio d’Europa, Norbert Hofer tira fuori ancora una volta la carta della rassicurazione. «L’Europa non dovrebbe aver paura di me perché sono un tipo normale, non sono un politico di estrema destra, semmai di centro-destra. E non sono il Donald Trump austriaco», commenta il candidato che alle presidenziali di domani in Austria potrebbe diventare il primo capo dello Stato della Ue espresso da un partito dell’ultradestra populista.
Una definizione invisa al 45enne ex ingegnere aeronautico che per il suo ultimo comizio ha scelto una cornice palesemente presidenziale. Abbandonate le piazze piene di sostenitori con scorte di birra e risentimenti anti-immigrati che avevano caratterizzato le ultime due tornate elettorali, Hofer e il leader della sua Fpö, Heinz-Christian Strache, hanno scelto stavolta un salone della Borsa di Vienna: marmi rossi e bianchi alle pareti, imponenti colonne e, dietro il palco, un unico slogan: «La tua patria adesso ha bisogno di te».
L’ideologo della Fpö lascia da parte gli affondi polemici contro il suo sfidante, il candidato indipendente (ma appoggiato dai Verdi e da una coalizione trasversale che va da politici a intellettuali) Alexander Van der Bellen, e sceglie toni più misurati. Anche sull’Europa, dopo che il suo partito era tornato a caldeggiare l’ipotesi della «Öxit» (l’uscita di Vienna dalla Ue). L’Austria resterà nell’Unione europea e «ha il compito di portarla avanti», ma la soluzione della crisi profonda della Ue «non passa per la creazione di un governo centrale a Bruxelles», scandisce tra gli applausi. Hofer vorrebbe far entrare in Austria solo gli immigrati che svolgono lavori di cui il Paese ha bisogno, come i cuochi, propone di creare in Nordafrica speciali «zone» in cui esaminare le domande d’asilo e dalle quali far arrivare in Europa «in modo sicuro e non sui gommoni» solo le persone perseguitate, che dovrebbero restare a tempo determinato. E a margine si sofferma anche sul referendum in Italia: «Non sono mai preoccupato quando ci sono decisioni democratiche, in una democrazia le persone fanno sempre la scelta giusta», nota Hofer, che evita di schierarsi per il sì o il no: «Non mi immischierò in decisioni democratiche in altri Stati, è una questione che spetta agli elettori».
Gli ultimi sondaggi (condotti due settimane fa) danno in lieve vantaggio Hofer, che si dice «ottimista, ma non sicuro di vincere». Il risultato definitivo potrebbe arrivare solo martedì. Van der Bellen, che per il suo appello finale ha scelto ieri un’ex fabbrica trasformata in centro eventi piena di sostenitori che agitavano cartelli con slogan come «Ora più che mai!», è convinto di poter fermare la Fpö. «Li abbiamo già battuti una volta, ce la faremo anche una seconda. Una terza non sarà necessaria».
Al primo turno (ad aprile, con sei candidati) l’aveva spuntata Hofer, al secondo (a maggio) Van der Bellen si era imposto sul filo di lana grazie al voto per corrispondenza. La Corte costituzionale aveva però annullato il ballottaggio per irregolarità nello scrutinio delle schede rispedite per posta. Rispetto a maggio il quadro è cambiato – e non a favore di Van der Bellen: gli Usa hanno assistito alla vittoria di Trump, che ha dato nuovo slancio alle formazioni populiste in Europa, la Gran Bretagna ha deciso di voltare le spalle alla Ue e in Austria l’effetto-Kern, la speranza, cioè, di recuperare gli elettori delusi dalla Grande coalizione nominando il socialdemocratico Christian Kern come nuovo cancelliere, si è già esaurito. Dietro le quinte socialdemocratici e popolari si dividono intanto sui rapporti da tenere con la Fpö, che dovrebbe rivelarsi primo partito alle elezioni previste nel 2018. Alcuni vedono in Hofer un possibile apripista per l’arrivo di Strache alla cancelleria, eventualmente già prima del 2018. Tra i poteri del presidente in Austria c’è anche quello di nominare il cancelliere, sciogliere le camere e indire nuove elezioni. Non a caso in campagna elettorale ha fatto molto discutere una frase «scappata» a Hofer: vi meraviglierete di tutto quello che sarà possibile. «Non vogliamo meravigliarci – ha ribattuto ieri Van der Bellen - e non ci meraviglieremo».
Nell’Austria di Hofer lo spettro dell’estrema destra
Domani il nuovo ballottaggio per il presidente È testa a testa tra populisti e i verdi di Van der Bellen
di Alessandro Alviani
Giunto alla fine di una campagna elettorale lunga undici mesi che l’ha trasformato da perfetto sconosciuto a nuovo spauracchio d’Europa, Norbert Hofer tira fuori ancora una volta la carta della rassicurazione. «L’Europa non dovrebbe aver paura di me perché sono un tipo normale, non sono un politico di estrema destra, semmai di centro-destra. E non sono il Donald Trump austriaco», commenta il candidato che alle presidenziali di domani in Austria potrebbe diventare il primo capo dello Stato della Ue espresso da un partito dell’ultradestra populista.
Una definizione invisa al 45enne ex ingegnere aeronautico che per il suo ultimo comizio ha scelto una cornice palesemente presidenziale. Abbandonate le piazze piene di sostenitori con scorte di birra e risentimenti anti-immigrati che avevano caratterizzato le ultime due tornate elettorali, Hofer e il leader della sua Fpö, Heinz-Christian Strache, hanno scelto stavolta un salone della Borsa di Vienna: marmi rossi e bianchi alle pareti, imponenti colonne e, dietro il palco, un unico slogan: «La tua patria adesso ha bisogno di te».
L’ideologo della Fpö lascia da parte gli affondi polemici contro il suo sfidante, il candidato indipendente (ma appoggiato dai Verdi e da una coalizione trasversale che va da politici a intellettuali) Alexander Van der Bellen, e sceglie toni più misurati. Anche sull’Europa, dopo che il suo partito era tornato a caldeggiare l’ipotesi della «Öxit» (l’uscita di Vienna dalla Ue). L’Austria resterà nell’Unione europea e «ha il compito di portarla avanti», ma la soluzione della crisi profonda della Ue «non passa per la creazione di un governo centrale a Bruxelles», scandisce tra gli applausi. Hofer vorrebbe far entrare in Austria solo gli immigrati che svolgono lavori di cui il Paese ha bisogno, come i cuochi, propone di creare in Nordafrica speciali «zone» in cui esaminare le domande d’asilo e dalle quali far arrivare in Europa «in modo sicuro e non sui gommoni» solo le persone perseguitate, che dovrebbero restare a tempo determinato. E a margine si sofferma anche sul referendum in Italia: «Non sono mai preoccupato quando ci sono decisioni democratiche, in una democrazia le persone fanno sempre la scelta giusta», nota Hofer, che evita di schierarsi per il sì o il no: «Non mi immischierò in decisioni democratiche in altri Stati, è una questione che spetta agli elettori».
Gli ultimi sondaggi (condotti due settimane fa) danno in lieve vantaggio Hofer, che si dice «ottimista, ma non sicuro di vincere». Il risultato definitivo potrebbe arrivare solo martedì. Van der Bellen, che per il suo appello finale ha scelto ieri un’ex fabbrica trasformata in centro eventi piena di sostenitori che agitavano cartelli con slogan come «Ora più che mai!», è convinto di poter fermare la Fpö. «Li abbiamo già battuti una volta, ce la faremo anche una seconda. Una terza non sarà necessaria».
Al primo turno (ad aprile, con sei candidati) l’aveva spuntata Hofer, al secondo (a maggio) Van der Bellen si era imposto sul filo di lana grazie al voto per corrispondenza. La Corte costituzionale aveva però annullato il ballottaggio per irregolarità nello scrutinio delle schede rispedite per posta. Rispetto a maggio il quadro è cambiato – e non a favore di Van der Bellen: gli Usa hanno assistito alla vittoria di Trump, che ha dato nuovo slancio alle formazioni populiste in Europa, la Gran Bretagna ha deciso di voltare le spalle alla Ue e in Austria l’effetto-Kern, la speranza, cioè, di recuperare gli elettori delusi dalla Grande coalizione nominando il socialdemocratico Christian Kern come nuovo cancelliere, si è già esaurito. Dietro le quinte socialdemocratici e popolari si dividono intanto sui rapporti da tenere con la Fpö, che dovrebbe rivelarsi primo partito alle elezioni previste nel 2018. Alcuni vedono in Hofer un possibile apripista per l’arrivo di Strache alla cancelleria, eventualmente già prima del 2018. Tra i poteri del presidente in Austria c’è anche quello di nominare il cancelliere, sciogliere le camere e indire nuove elezioni. Non a caso in campagna elettorale ha fatto molto discutere una frase «scappata» a Hofer: vi meraviglierete di tutto quello che sarà possibile. «Non vogliamo meravigliarci – ha ribattuto ieri Van der Bellen - e non ci meraviglieremo».
Repubblica 3.12.16
Il vero esame di maturità
Il pericolo è che le tensioni di questi mesi non vengano superate e accantonate
di Stefano Folli
ORA che una pessima campagna elettorale è finalmente conclusa, c’è un interrogativo che sovrasta gli altri, forse più importante di sapere se domani notte sventolerà la bandiera del “Si” oppure quella del “No”. Ed è capire cosa accadrà a partire da lunedì.
È EVIDENTE che circa sette mesi di psicosi referendaria sono destinati a lasciare qualche ferita nel paese. I toni demagogici delle ultime due settimane, poi, hanno richiamato tutti i temi del populismo anti-parlamentare: dal voto contro la “casta”, alla politica che deve “costare poco”, alle bollette della luce più economiche grazie alla riforma, ai membri del Parlamento che meno sono e meglio è. Si sono evocati scenari da incubo nella speranza di riuscire a sollecitare un sentimento anti- sistema a favore del Sì. Fino all’attacco di Palazzo Chigi e dintorni contro Mario Monti, fautore del No: gli argomenti usati tirano in ballo con toni sprezzanti il governo “tecnico” del 2011 e questo è suonato abbastanza offensivo all’orecchio di Giorgio Napolitano.
Il presidente emerito è stato fin qui il Lord Protettore di una riforma costituzionale che senza di lui non avrebbe mai visto la luce. Criticarlo per la nomina di Monti, rischiando così di indispettirlo, non sembra una grande strategia. Ma qualcuno intorno a Renzi ritiene invece che sia una tattica idonea a convincere un po’ di elettorato “grillino” e magari berlusconiano a votare Sì. Vedremo domani sera se avrà funzionato. Per ora è servita più che altro ad aumentare la confusione e a fare di Beppe Grillo, perfettamente a suo agio in questo clima, l’interlocutore perfetto. Tanto è vero che nonostante il bilancio peggio che mediocre di Virginia Raggi a Roma e le altre contraddizioni dei Cinque Stelle in giro per l’Italia, i sondaggi continuano a premiare il movimento. Forse è la prova che la carta della rincorsa demagogica può anche servire a breve termine per vincere il referendum — c’è poco da attendere per saperlo — , ma alla lunga finisce per favorire i depositari del populismo “hard”, a cui basta rilanciare per trovarsi sempre al centro della scena.
Ecco perché il vero quesito riguarda il dopo- referendum. Il pericolo è che le tensioni di questi mesi non vengano superate e accantonate, come la prudenza consiglierebbe, bensì diventino l’inevitabile compagno di viaggio di un’opinione pubblica frastornata. In altre parole possiamo dire che si sta avvicinando la vera prova di maturità per il presidente del Consiglio e segretario del Pd. Se vince, dovrà resistere alla tentazione di intestarsi il successo come se si trattasse di un plebiscito sulla sua persona. Dopo mesi di presenza televisiva in chiave di propaganda, il premier potrebbe sorprendere tutti e presentarsi dietro lo schermo per fare un discorso volto non a lacerare, bensì a riconciliare. Sarebbe il primo in tre anni, ma proprio per questo costituirebbe il segno di un maggior grado di responsabilità.
La storia insegna che rinunciare a stravincere tendendo la mano agli sconfitti, equivale ad agire con straordinaria saggezza. Senza dubbio favorirebbe il compito di Mattarella, perché da lunedì non ci sarebbe niente di peggio della continuazione della campagna elettorale con altri mezzi e altri fini, ossia il voto anticipato in un’atmosfera di corrida. Con i due fronti principali, renziano e grillino, che si sfidano a colpi di populismo un tanto al chilo.
Inutile dire che il successo del No richiederebbe altrettanta maturità. Inevitabile il chiarimento gestito dal Quirinale, ma se il problema dell’Italia è oggi la stabilità non si vede perché Renzi debba abbandonare la scena nel momento in cui i mercati e i nostri partner attendono un segnale rassicurante. Già Obama aveva consigliato al premier di non fare colpi di testa, ora anche il “Financial Times” lo invita a mantenere i nervi saldi. E in fondo un politico di razza si misura nelle sconfitte ancor più che nelle vittorie. La Francia ha scelto il misurato Fillon per battere Marine Le Pen. In Germania Angela Merkel non insegue certo Frauke Petry sul suo terreno. In Austria si vota domani e vedremo se davvero a prevalere sarà l’estrema destra. Se tiene conto del quadro europeo in cui l’Italia è immersa, Renzi può inaugurare una nuova stagione della sua carriera, meno spavalda ma forse più utile al paese.
Il vero esame di maturità
Il pericolo è che le tensioni di questi mesi non vengano superate e accantonate
di Stefano Folli
ORA che una pessima campagna elettorale è finalmente conclusa, c’è un interrogativo che sovrasta gli altri, forse più importante di sapere se domani notte sventolerà la bandiera del “Si” oppure quella del “No”. Ed è capire cosa accadrà a partire da lunedì.
È EVIDENTE che circa sette mesi di psicosi referendaria sono destinati a lasciare qualche ferita nel paese. I toni demagogici delle ultime due settimane, poi, hanno richiamato tutti i temi del populismo anti-parlamentare: dal voto contro la “casta”, alla politica che deve “costare poco”, alle bollette della luce più economiche grazie alla riforma, ai membri del Parlamento che meno sono e meglio è. Si sono evocati scenari da incubo nella speranza di riuscire a sollecitare un sentimento anti- sistema a favore del Sì. Fino all’attacco di Palazzo Chigi e dintorni contro Mario Monti, fautore del No: gli argomenti usati tirano in ballo con toni sprezzanti il governo “tecnico” del 2011 e questo è suonato abbastanza offensivo all’orecchio di Giorgio Napolitano.
Il presidente emerito è stato fin qui il Lord Protettore di una riforma costituzionale che senza di lui non avrebbe mai visto la luce. Criticarlo per la nomina di Monti, rischiando così di indispettirlo, non sembra una grande strategia. Ma qualcuno intorno a Renzi ritiene invece che sia una tattica idonea a convincere un po’ di elettorato “grillino” e magari berlusconiano a votare Sì. Vedremo domani sera se avrà funzionato. Per ora è servita più che altro ad aumentare la confusione e a fare di Beppe Grillo, perfettamente a suo agio in questo clima, l’interlocutore perfetto. Tanto è vero che nonostante il bilancio peggio che mediocre di Virginia Raggi a Roma e le altre contraddizioni dei Cinque Stelle in giro per l’Italia, i sondaggi continuano a premiare il movimento. Forse è la prova che la carta della rincorsa demagogica può anche servire a breve termine per vincere il referendum — c’è poco da attendere per saperlo — , ma alla lunga finisce per favorire i depositari del populismo “hard”, a cui basta rilanciare per trovarsi sempre al centro della scena.
Ecco perché il vero quesito riguarda il dopo- referendum. Il pericolo è che le tensioni di questi mesi non vengano superate e accantonate, come la prudenza consiglierebbe, bensì diventino l’inevitabile compagno di viaggio di un’opinione pubblica frastornata. In altre parole possiamo dire che si sta avvicinando la vera prova di maturità per il presidente del Consiglio e segretario del Pd. Se vince, dovrà resistere alla tentazione di intestarsi il successo come se si trattasse di un plebiscito sulla sua persona. Dopo mesi di presenza televisiva in chiave di propaganda, il premier potrebbe sorprendere tutti e presentarsi dietro lo schermo per fare un discorso volto non a lacerare, bensì a riconciliare. Sarebbe il primo in tre anni, ma proprio per questo costituirebbe il segno di un maggior grado di responsabilità.
La storia insegna che rinunciare a stravincere tendendo la mano agli sconfitti, equivale ad agire con straordinaria saggezza. Senza dubbio favorirebbe il compito di Mattarella, perché da lunedì non ci sarebbe niente di peggio della continuazione della campagna elettorale con altri mezzi e altri fini, ossia il voto anticipato in un’atmosfera di corrida. Con i due fronti principali, renziano e grillino, che si sfidano a colpi di populismo un tanto al chilo.
Inutile dire che il successo del No richiederebbe altrettanta maturità. Inevitabile il chiarimento gestito dal Quirinale, ma se il problema dell’Italia è oggi la stabilità non si vede perché Renzi debba abbandonare la scena nel momento in cui i mercati e i nostri partner attendono un segnale rassicurante. Già Obama aveva consigliato al premier di non fare colpi di testa, ora anche il “Financial Times” lo invita a mantenere i nervi saldi. E in fondo un politico di razza si misura nelle sconfitte ancor più che nelle vittorie. La Francia ha scelto il misurato Fillon per battere Marine Le Pen. In Germania Angela Merkel non insegue certo Frauke Petry sul suo terreno. In Austria si vota domani e vedremo se davvero a prevalere sarà l’estrema destra. Se tiene conto del quadro europeo in cui l’Italia è immersa, Renzi può inaugurare una nuova stagione della sua carriera, meno spavalda ma forse più utile al paese.
Corriere 3.12.16
La necessità di mettersi alle spalle una lunga rissa
di Massimo Franco
Il governo sembra convinto di avere la vittoria in tasca: come i suoi avversari. E Matteo Renzi e i suoi seguaci sono anche soddisfatti dell’andamento della campagna referendaria: come i loro avversari. Evidentemente, i toni da rissa e le cadute di stile dei due schieramenti, a scapito della chiarezza sui contenuti della riforma, non sono stati avvertiti come tali: quasi rientrassero nella fisiologia dello scontro. Eppure, bisognerà riesaminare quanto è accaduto; e fare in modo che, qualunque sia il risultato, prevalgano responsabilità e misura.
Anche perché la sensazione è che la radicalizzazione abbia favorito soprattutto il Movimento 5 Stelle. Probabilmente sono vere le voci di rimonta accreditate ogni giorno da Palazzo Chigi. Ed è indubbio che in termini di lessico greve, Beppe Grillo abbia superato di gran lunga il Pd: quel linguaggio, per il M5S, è un discutibile elemento di forza. Il problema è che nelle motivazioni con le quali il Sì ha opposto le proprie ragioni al No, la logica del discredito è stata simmetrica. E questo ha finito per equiparare i due schieramenti.
Il tema di fondo sarà presto quello della strategia più efficace per arginare un fenomeno non liquidabile solo come «populismo»: termine nel quale si comprendono fenomeni contraddittori, e che rischia di diventare un alibi per classi dirigenti incapaci di proporre un’alternativa moderata. Il dubbio che la campagna referendaria ha sottolineato è se il muro contro muro, oltre a spaccare inutilmente l’Italia, abbia fatto compiere passi avanti contro le spinte antisistema. Colpisce che il premier, dopo avere personalizzato la campagna, ora sostenga che «fosse stato per lui» non avrebbe indetto il referendum.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio spiega che, se vincesse il No, «andrà al Quirinale a dare le dimissioni: un atto di onestà nei confronti dei cittadini». C’è da giurare che, se per caso il Sì perdesse, Renzi lo farà. Per Silvio Berlusconi, «se non vuole perdere quel minimo di credibilità che ha, dovrebbe non lasciare il governo, ma la politica». Epilogo improbabile e da non augurarsi. Il problema di aprire una nuova fase, però, si porrà comunque. Bisognerà vedere come.
Una vittoria del Sì darebbe a Renzi nuova spinta, se supera la tentazione di stravincere. Ma un successo segnato da accuse di brogli nel voto degli italiani all’estero sarebbe un pessimo viatico: un’ombra che Lega e M5S proiettano strumentalmente. In parallelo, sarebbe nocivo demonizzare un’affermazione dei No. La tesi dell’«ondata populista» in arrivo, rilanciata dal New York Times , sarebbe l’ennesimo regalo a Grillo. Il quotidiano si è dimostrato incapace di leggere la realtà americana alle presidenziali: figuriamoci quella italiana.
La necessità di mettersi alle spalle una lunga rissa
di Massimo Franco
Il governo sembra convinto di avere la vittoria in tasca: come i suoi avversari. E Matteo Renzi e i suoi seguaci sono anche soddisfatti dell’andamento della campagna referendaria: come i loro avversari. Evidentemente, i toni da rissa e le cadute di stile dei due schieramenti, a scapito della chiarezza sui contenuti della riforma, non sono stati avvertiti come tali: quasi rientrassero nella fisiologia dello scontro. Eppure, bisognerà riesaminare quanto è accaduto; e fare in modo che, qualunque sia il risultato, prevalgano responsabilità e misura.
Anche perché la sensazione è che la radicalizzazione abbia favorito soprattutto il Movimento 5 Stelle. Probabilmente sono vere le voci di rimonta accreditate ogni giorno da Palazzo Chigi. Ed è indubbio che in termini di lessico greve, Beppe Grillo abbia superato di gran lunga il Pd: quel linguaggio, per il M5S, è un discutibile elemento di forza. Il problema è che nelle motivazioni con le quali il Sì ha opposto le proprie ragioni al No, la logica del discredito è stata simmetrica. E questo ha finito per equiparare i due schieramenti.
Il tema di fondo sarà presto quello della strategia più efficace per arginare un fenomeno non liquidabile solo come «populismo»: termine nel quale si comprendono fenomeni contraddittori, e che rischia di diventare un alibi per classi dirigenti incapaci di proporre un’alternativa moderata. Il dubbio che la campagna referendaria ha sottolineato è se il muro contro muro, oltre a spaccare inutilmente l’Italia, abbia fatto compiere passi avanti contro le spinte antisistema. Colpisce che il premier, dopo avere personalizzato la campagna, ora sostenga che «fosse stato per lui» non avrebbe indetto il referendum.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio spiega che, se vincesse il No, «andrà al Quirinale a dare le dimissioni: un atto di onestà nei confronti dei cittadini». C’è da giurare che, se per caso il Sì perdesse, Renzi lo farà. Per Silvio Berlusconi, «se non vuole perdere quel minimo di credibilità che ha, dovrebbe non lasciare il governo, ma la politica». Epilogo improbabile e da non augurarsi. Il problema di aprire una nuova fase, però, si porrà comunque. Bisognerà vedere come.
Una vittoria del Sì darebbe a Renzi nuova spinta, se supera la tentazione di stravincere. Ma un successo segnato da accuse di brogli nel voto degli italiani all’estero sarebbe un pessimo viatico: un’ombra che Lega e M5S proiettano strumentalmente. In parallelo, sarebbe nocivo demonizzare un’affermazione dei No. La tesi dell’«ondata populista» in arrivo, rilanciata dal New York Times , sarebbe l’ennesimo regalo a Grillo. Il quotidiano si è dimostrato incapace di leggere la realtà americana alle presidenziali: figuriamoci quella italiana.
Repubblica 3.12.16
Nell’inchiesta di Perugia spunta un sms al ministro dell’Interno dopo il blitz degli agenti a casa Ablyazov
Caso Shalabayeva ecco le nuove carte che accusano Alfano e i vertici della polizia
di Carlo Bonini Fabio Tonacci
ROMA Il fantasma del caso Shalabayeva torna a fare capolino al piano nobile del Viminale. E, a 4 anni da quella “extraordinary rendition” con cui, violando le norme del diritto d’asilo, vennero consegnate al Kazakhstan due donne che avevano la sola colpa di essere moglie (Alma) e figlia (Alua) del dissidente ricercato Mukhtar Ablyazov, il profilo e le responsabilità del ministro dell’Interno Angelino Alfano e quelle degli allora vertici del Dipartimento di Pubblica sicurezza tornano ad essere illuminate da nuovi, decisivi dettagli documentati dagli atti depositati nell’inchiesta per sequestro di persona appena conclusa dalla procura di Perugia. Quella per la quale si preparano ad andare a processo in 11. Sette tra dirigenti e funzionari di Polizia, il giudice di pace, Stefania Lavore, che autorizzò la consegna ad Astana, e tre diplomatici kazaki.
Si scopre ora, infatti, che, il 28 maggio 2013, il ministro dell’Interno non si limitò a segnalare l’urgenza della cattura di Mukhtar Ablyazov al suo capo di gabinetto di allora, Giuseppe Procaccini, consegnando di fatto alla piena disponibilità dei diplomatici kazaki la nostra Polizia. Fece di più. Chiese di essere informato
ad horas
degli esiti di quella caccia, a dimostrazione di quanto la faccenda fosse in cima alla sua agenda. Il che, evidentemente, spiegherebbe il movente della catena di abusi e illegittimità di cui si sarebbero resi responsabili i 7 tra dirigenti e funzionari di Polizia.
Sono due verbali di testimonianza ai pm di Perugia, quello dell’allora capo di gabinetto Giuseppe Procaccini (il 13 maggio 2015) e dell’allora capo segreteria del Dipartimento di Pubblica sicurezza Alessandro Raffaele Valeri (il 3 febbraio di quest’anno) a documentare di quale frenesia, su input di Alfano, vennero caricati i nostri apparati. Procaccini conferma ai magistrati quanto svelato in un’intervista a Repubblica nel gennaio 2014. «Non fu una decisione che presi di mia iniziativa — dice, riferendosi al blitz nella villa di Casal Palocco dove si voleva si nascondesse Ablyazov e dove, al contrario, venne trovata e fermata soltanto la moglie Alma — La sera del 28 maggio 2013, Alfano mi informò che l’ambasciatore kazako lo aveva cercato perché aveva urgenza di comunicare con il ministero. Aggiunse che era una questione di grave minaccia alla pubblica sicurezza». Circostanza confermata da Valeri che, sempre quella sera, convocato a sua volta nell’ufficio di Procaccini, inciampa in un singolare siparietto. «Trovai due signori che mi furono presentati come l’ambasciatore del Kazakhstan e un suo funzionario, che dovevano riferire notizie di sicurezza nazionale. Dissi all’ambasciatore che il loro referente avrebbe dovuto essere il ministero degli Esteri e non l’Interno. E mi sembra di ricordare che Procaccini mi disse di aver ricevuto l’ambasciatore su input del Viminale». C’è di più. All’alba del 29 maggio, dopo che Valeri, nella notte, ha messo in movimento «il prefetto Alessandro Maragoni, Capo della Polizia facente funzioni, Cirillo, direttore centrale della Criminalpol, e Chiusolo, direttore centrale dell’Anticrimine », e dopo che il blitz nella villa di Casal Palocco non ha dato gli esiti sperati dai kazaki, Valeri si rimette al telefono. «Comunicai a Marangoni e a Procaccini l’esito negativo della ricerca del latitante. E ricordo che Procaccini mi chiese di trasmettergli un sms con la notizia, in modo che lui potesse informarne il ministro dell’Interno. Io lo mandai».
Alfano, dunque, voleva sapere. Ma fino a un certo punto. Sia Procaccini che Valeri escludono infatti di averlo informato e anche solo di aver saputo che, al posto di Ablyazov, fosse stata fermata la moglie. Circostanza curiosa. Non fosse altro per un dettaglio. La sera del 28 maggio, al Viminale, nell’ufficio di Procaccini, i diplomatici kazaki avrebbero mostrato documenti su Ablyazov e un appunto Interpol sulla moglie, con un’annotazione, “ to deport her”, da espellere. I pm di Perugia ne chiedono conto all’ex capo di gabinetto. Che risponde: «Visionai solo sommariamente le carte che mi sottopose l’ambasciatore e non lessi quell’atto Interpol, non sono in grado di dire se contenesse le generalità della Shalabayeva e la richiesta alle nostre autorità di consegnarla».
Nell’inchiesta di Perugia spunta un sms al ministro dell’Interno dopo il blitz degli agenti a casa Ablyazov
Caso Shalabayeva ecco le nuove carte che accusano Alfano e i vertici della polizia
di Carlo Bonini Fabio Tonacci
ROMA Il fantasma del caso Shalabayeva torna a fare capolino al piano nobile del Viminale. E, a 4 anni da quella “extraordinary rendition” con cui, violando le norme del diritto d’asilo, vennero consegnate al Kazakhstan due donne che avevano la sola colpa di essere moglie (Alma) e figlia (Alua) del dissidente ricercato Mukhtar Ablyazov, il profilo e le responsabilità del ministro dell’Interno Angelino Alfano e quelle degli allora vertici del Dipartimento di Pubblica sicurezza tornano ad essere illuminate da nuovi, decisivi dettagli documentati dagli atti depositati nell’inchiesta per sequestro di persona appena conclusa dalla procura di Perugia. Quella per la quale si preparano ad andare a processo in 11. Sette tra dirigenti e funzionari di Polizia, il giudice di pace, Stefania Lavore, che autorizzò la consegna ad Astana, e tre diplomatici kazaki.
Si scopre ora, infatti, che, il 28 maggio 2013, il ministro dell’Interno non si limitò a segnalare l’urgenza della cattura di Mukhtar Ablyazov al suo capo di gabinetto di allora, Giuseppe Procaccini, consegnando di fatto alla piena disponibilità dei diplomatici kazaki la nostra Polizia. Fece di più. Chiese di essere informato
ad horas
degli esiti di quella caccia, a dimostrazione di quanto la faccenda fosse in cima alla sua agenda. Il che, evidentemente, spiegherebbe il movente della catena di abusi e illegittimità di cui si sarebbero resi responsabili i 7 tra dirigenti e funzionari di Polizia.
Sono due verbali di testimonianza ai pm di Perugia, quello dell’allora capo di gabinetto Giuseppe Procaccini (il 13 maggio 2015) e dell’allora capo segreteria del Dipartimento di Pubblica sicurezza Alessandro Raffaele Valeri (il 3 febbraio di quest’anno) a documentare di quale frenesia, su input di Alfano, vennero caricati i nostri apparati. Procaccini conferma ai magistrati quanto svelato in un’intervista a Repubblica nel gennaio 2014. «Non fu una decisione che presi di mia iniziativa — dice, riferendosi al blitz nella villa di Casal Palocco dove si voleva si nascondesse Ablyazov e dove, al contrario, venne trovata e fermata soltanto la moglie Alma — La sera del 28 maggio 2013, Alfano mi informò che l’ambasciatore kazako lo aveva cercato perché aveva urgenza di comunicare con il ministero. Aggiunse che era una questione di grave minaccia alla pubblica sicurezza». Circostanza confermata da Valeri che, sempre quella sera, convocato a sua volta nell’ufficio di Procaccini, inciampa in un singolare siparietto. «Trovai due signori che mi furono presentati come l’ambasciatore del Kazakhstan e un suo funzionario, che dovevano riferire notizie di sicurezza nazionale. Dissi all’ambasciatore che il loro referente avrebbe dovuto essere il ministero degli Esteri e non l’Interno. E mi sembra di ricordare che Procaccini mi disse di aver ricevuto l’ambasciatore su input del Viminale». C’è di più. All’alba del 29 maggio, dopo che Valeri, nella notte, ha messo in movimento «il prefetto Alessandro Maragoni, Capo della Polizia facente funzioni, Cirillo, direttore centrale della Criminalpol, e Chiusolo, direttore centrale dell’Anticrimine », e dopo che il blitz nella villa di Casal Palocco non ha dato gli esiti sperati dai kazaki, Valeri si rimette al telefono. «Comunicai a Marangoni e a Procaccini l’esito negativo della ricerca del latitante. E ricordo che Procaccini mi chiese di trasmettergli un sms con la notizia, in modo che lui potesse informarne il ministro dell’Interno. Io lo mandai».
Alfano, dunque, voleva sapere. Ma fino a un certo punto. Sia Procaccini che Valeri escludono infatti di averlo informato e anche solo di aver saputo che, al posto di Ablyazov, fosse stata fermata la moglie. Circostanza curiosa. Non fosse altro per un dettaglio. La sera del 28 maggio, al Viminale, nell’ufficio di Procaccini, i diplomatici kazaki avrebbero mostrato documenti su Ablyazov e un appunto Interpol sulla moglie, con un’annotazione, “ to deport her”, da espellere. I pm di Perugia ne chiedono conto all’ex capo di gabinetto. Che risponde: «Visionai solo sommariamente le carte che mi sottopose l’ambasciatore e non lessi quell’atto Interpol, non sono in grado di dire se contenesse le generalità della Shalabayeva e la richiesta alle nostre autorità di consegnarla».
Corriere 3.12.16
Shalabayeva Tutti i buchi nella versione dei prefetti
di Fiorenza Sarzanini
ROMA I vertici del Viminale furono contattati dai diplomatici del Kazakistan che chiedevano la cattura di Ablyazov Mukthar e si misero a completa disposizione. Lo hanno ammesso i prefetti in carica nel maggio 2013, di fronte ai magistrati di Perugia che accusano di sequestro di persona l’allora capo della squadra mobile di Roma e attuale capo dello Sco Renato Cortese, l’ex capo dell’ufficio immigrazione e ora questore di Rimini Maurizio Improta, alcuni poliziotti e due diplomatici kazaki. Mentre lasciano fuori proprio gli alti funzionari che hanno raccontato di aver seguito ogni fase della vicenda. Una catena di comando che aveva al vertice l’allora capo di gabinetto del ministro Giuseppe Procaccini e il vicecapo della polizia Alessandro Valeri.
Sono loro a dichiarare di aver informato anche il ministro Angelino Alfano, negando però con decisione di aver mai saputo che fosse stata espulsa la moglie del latitante Alma Shalabayeva. Una versione che appare piena di contraddizioni visto che la donna fu portata via dalla sua abitazione di Casalpalocco proprio durante la perquisizione e dunque sembra incredibile che questa fase non sia stata raccontata dai poliziotti ai propri superiori, e addirittura che abbiano preso una decisione così importante senza consultarsi con chi li aveva incaricati di svolgere quell’attività. Dichiara Valeri: «La sera del 28 maggio fui chiamato dal dottor Procaccini che mi chiedeva di raggiungerlo nel suo ufficio per una urgente questione di sicurezza nazionale. Mi recai subito e trovai due signori che mi furono presentati come l’ambasciatore del Kazakhstan in Italia e un funzionario della stessa ambasciata... Io dissi che il referente dell’ambasciatore avrebbe dovuto essere il ministro per gli Affari Esteri e non degli Affari Interni e mi sembra di ricordare che Procaccini mi disse che aveva ricevuto l’ambasciatore kazako su input del ministro dell’Interno». Valeri va avanti, ammette di aver seguito personalmente la vicenda perché «l’ambasciatore iniziò a riferire che era stato localizzato a Roma un pericoloso latitante kazako che aveva collegamenti con il terrorismo e con i ceceni e con la criminalità organizzata». Aggiunge di aver parlato direttamente con i poliziotti e di aver saputo il giorno dopo «dal dottor Cortese per telefono dell’esito negativo dell’operazione, dicendomi che il latitante kazako non era stato rintracciato. Io telefonai subito al capo facente funzioni prefetto Marangoni. Procaccini mi chiese di trasmettergli un sms con questa notizia in modo che lui potesse informare il ministro. Io mandai l’sms». Valeri nega di aver mai saputo «dell’espulsione della cittadina kazaka Alma Shalabayeva». Lo stesso dice Procaccini che poi aggiunge: «Mi sono determinato a rassegnare le dimissioni per tre ragioni. Ho percepito l’estrema difficoltà in cui versava il governo e il ministro, avendo anche partecipato alle riunioni ristrette tra ministri e funzionari. Cominciavano a serpeggiare presso gli organi di informazione illazioni in ordine alla mia persona, assolutamente false. In ultimo ho ritenuto che se fossi rimasto sarebbe rientrato nei miei compiti assumere eventuali iniziative rispetto a comportamenti non avveduti o non professionali assunte da alcune articolazioni della polizia e non intendevo farlo».
Shalabayeva Tutti i buchi nella versione dei prefetti
di Fiorenza Sarzanini
ROMA I vertici del Viminale furono contattati dai diplomatici del Kazakistan che chiedevano la cattura di Ablyazov Mukthar e si misero a completa disposizione. Lo hanno ammesso i prefetti in carica nel maggio 2013, di fronte ai magistrati di Perugia che accusano di sequestro di persona l’allora capo della squadra mobile di Roma e attuale capo dello Sco Renato Cortese, l’ex capo dell’ufficio immigrazione e ora questore di Rimini Maurizio Improta, alcuni poliziotti e due diplomatici kazaki. Mentre lasciano fuori proprio gli alti funzionari che hanno raccontato di aver seguito ogni fase della vicenda. Una catena di comando che aveva al vertice l’allora capo di gabinetto del ministro Giuseppe Procaccini e il vicecapo della polizia Alessandro Valeri.
Sono loro a dichiarare di aver informato anche il ministro Angelino Alfano, negando però con decisione di aver mai saputo che fosse stata espulsa la moglie del latitante Alma Shalabayeva. Una versione che appare piena di contraddizioni visto che la donna fu portata via dalla sua abitazione di Casalpalocco proprio durante la perquisizione e dunque sembra incredibile che questa fase non sia stata raccontata dai poliziotti ai propri superiori, e addirittura che abbiano preso una decisione così importante senza consultarsi con chi li aveva incaricati di svolgere quell’attività. Dichiara Valeri: «La sera del 28 maggio fui chiamato dal dottor Procaccini che mi chiedeva di raggiungerlo nel suo ufficio per una urgente questione di sicurezza nazionale. Mi recai subito e trovai due signori che mi furono presentati come l’ambasciatore del Kazakhstan in Italia e un funzionario della stessa ambasciata... Io dissi che il referente dell’ambasciatore avrebbe dovuto essere il ministro per gli Affari Esteri e non degli Affari Interni e mi sembra di ricordare che Procaccini mi disse che aveva ricevuto l’ambasciatore kazako su input del ministro dell’Interno». Valeri va avanti, ammette di aver seguito personalmente la vicenda perché «l’ambasciatore iniziò a riferire che era stato localizzato a Roma un pericoloso latitante kazako che aveva collegamenti con il terrorismo e con i ceceni e con la criminalità organizzata». Aggiunge di aver parlato direttamente con i poliziotti e di aver saputo il giorno dopo «dal dottor Cortese per telefono dell’esito negativo dell’operazione, dicendomi che il latitante kazako non era stato rintracciato. Io telefonai subito al capo facente funzioni prefetto Marangoni. Procaccini mi chiese di trasmettergli un sms con questa notizia in modo che lui potesse informare il ministro. Io mandai l’sms». Valeri nega di aver mai saputo «dell’espulsione della cittadina kazaka Alma Shalabayeva». Lo stesso dice Procaccini che poi aggiunge: «Mi sono determinato a rassegnare le dimissioni per tre ragioni. Ho percepito l’estrema difficoltà in cui versava il governo e il ministro, avendo anche partecipato alle riunioni ristrette tra ministri e funzionari. Cominciavano a serpeggiare presso gli organi di informazione illazioni in ordine alla mia persona, assolutamente false. In ultimo ho ritenuto che se fossi rimasto sarebbe rientrato nei miei compiti assumere eventuali iniziative rispetto a comportamenti non avveduti o non professionali assunte da alcune articolazioni della polizia e non intendevo farlo».
Corriere 3.12.16
Le carte coperte (e i sospetti che crescono)
La partita difficile della legge elettorale per evitare uno stallo come nel 2013
Le incognite del dopo referendum: peserà anche il giudizio della Consulta sull’Italicum
di Francesco Verderami
Nel Palazzo tutti parlano del futuro, quasi nessuno ricorda invece il recente passato, la crisi costituzionale che nel 2013 paralizzò le istituzioni all’indomani del voto, con un Parlamento incapace di formare una maggioranza di governo e incapace persino di eleggere un capo dello Stato, mentre quello in scadenza — entrato nel semestre bianco — non poteva nemmeno sciogliere le Cameree indire nuove elezioni.
Le riforme e il referendum sono figlie di quella crisi, sono la «ragione sociale» di una legislatura sopravvissuta a se stessa proprio per ovviare al baco costituzionale che minava la Repubblica. Ma di questo problema non si è mai discusso in una lunga e volgare campagna elettorale, dove il fronte del Sì e il fronte del No hanno speso le loro energie per rappresentare l’avversario come l’emblema della «casta». E tra un comizio e l’altro hanno continuato a ragionare sul dopo, come se nulla fosse accaduto prima. Così Renzi ha dato il proprio imprinting alla nuova Carta, ipotecando il futuro in caso di vittoria e proponendo dei ritocchi a una legge elettorale che aveva imposto con voto di fiducia. Mentre dall’altra parte Berlusconi, che pure aveva condiviso la riforma in Parlamento fino al penultimo voto, ha preso d’un tratto a denunciare i rischi di una deriva autoritaria.
Appesi al verdetto delle urne, sugli scenari post referendari tutti tengono coperte le loro vere carte, e ciò alimenta reciproci sospetti. Nel fronte del No nessuno si fida — nemmeno i compagni della «ditta» — delle promesse fatte dal leader del Pd, che in caso di successo si è detto pronto a completare l’iter della legislatura senza strappi. Persino Gianni Letta, dopo molte titubanze, ha dato ragione infine al Cavaliere e si è convinto che «Renzi, se dovesse vincere, potrebbe non tener fede ai patti». I «patti» ovviamente riguardano la legge elettorale, che è l’alfa e l’omega per ogni forza politica, lo strumento da cui dipende la possibilità per Berlusconi di rientrare in gioco: magari non più per comandare, ma di sicuro per contare.
L’idea che il compromesso passi per la sconfitta altrui ha reso il referendum una sfida senza regole d’ingaggio, e ha complicato il lavoro del capo dello Stato. La vittoria del Sì avrebbe — fino a un certo punto — un percorso lineare, quella del No si porterebbe appresso molte più variabili e alcune incognite. A partire dalla scelta che farebbe Renzi. Perché un conto è mettere in preventivo le sue dimissioni, altra cosa è capire se — magari dopo un giro di consultazioni al Quirinale e un incarico esplorativo affidato al presidente di una Camera — il leader del Pd passerebbe comunque la mano o accetterebbe un nuovo incarico. Su questo tema anche ai fedelissimi Renzi ha opposto un muro di silenzio: «Vincesse il No saprei cosa fare. Ne ho parlato con mia moglie».
Vincesse il No dovrebbe parlarne anche con il capo dello Stato, sapendo che l’ipotesi di un governo tecnico — lo «spauracchio» con cui cerca di convincere gli elettori a votare Sì — si concretizzerebbe solo con il suo sostegno: dunque avrebbe una chiara paternità. E l’appoggio del Pd in Parlamento non permetterebbe al suo segretario di tenersi a distanza dalle scelte del nuovo esecutivo, chiamato l’anno prossimo a racimolare una ventina di miliardi per evitare che scattino le clausole di salvaguardia concordate con l’Europa. Di qui la scommessa che fanno i suoi avversari, e cioè che alla fine il capo dei democrat resterà a Palazzo Chigi. Ma è una scommessa che non tiene conto della personalità dell’ex sindaco di Firenze.
Così come sarebbe una scommessa riuscire a trovare un accordo sulla legge elettorale. Con la vittoria del No resterebbero due Camere con due diversi elettorati. Quale modello si adotterebbe? L’eventuale premio di maggioranza si assegnerebbe solo a un ramo del Parlamento o a entrambi? E se — visti i due diversi elettorati — dalle urne uscissero vincenti due forze o coalizioni diverse? Il Palazzo, dove si discute del dopo referendum, rischia di tornare allo stallo che precedette il referendum. In presenza di tre poli, il rebus avrebbe come unica soluzione il ritorno alla proporzionale, che non potrebbe però tenere conto di una variabile: la possibilità che le forze «antisistema» — per quanto non coalizzabili — superino insieme il 50% dei consensi.
Insomma, il Sì e il No sono due medaglie con il loro rovescio. Da lunedì toccherà ai partiti misurarsi con il verdetto popolare. E le scorciatoie sul sistema elettorale — vero oggetto della contesa — non appaiono praticabili. Sarebbe complicato anticipare la fine della legislatura. A meno che il Parlamento — incapace di mettersi d’accordo — non decida di affidarsi alla Consulta, pronta a «ritoccare» anche l’Italicum dopo il Porcellum. Ma una legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale sancirebbe l’abdicazione di tutti i partiti della Seconda Repubblica. E a quel punto vincitori e vinti del referendum, accomunati nella sconfitta, sarebbero costretti a passar la mano .
Le carte coperte (e i sospetti che crescono)
La partita difficile della legge elettorale per evitare uno stallo come nel 2013
Le incognite del dopo referendum: peserà anche il giudizio della Consulta sull’Italicum
di Francesco Verderami
Nel Palazzo tutti parlano del futuro, quasi nessuno ricorda invece il recente passato, la crisi costituzionale che nel 2013 paralizzò le istituzioni all’indomani del voto, con un Parlamento incapace di formare una maggioranza di governo e incapace persino di eleggere un capo dello Stato, mentre quello in scadenza — entrato nel semestre bianco — non poteva nemmeno sciogliere le Cameree indire nuove elezioni.
Le riforme e il referendum sono figlie di quella crisi, sono la «ragione sociale» di una legislatura sopravvissuta a se stessa proprio per ovviare al baco costituzionale che minava la Repubblica. Ma di questo problema non si è mai discusso in una lunga e volgare campagna elettorale, dove il fronte del Sì e il fronte del No hanno speso le loro energie per rappresentare l’avversario come l’emblema della «casta». E tra un comizio e l’altro hanno continuato a ragionare sul dopo, come se nulla fosse accaduto prima. Così Renzi ha dato il proprio imprinting alla nuova Carta, ipotecando il futuro in caso di vittoria e proponendo dei ritocchi a una legge elettorale che aveva imposto con voto di fiducia. Mentre dall’altra parte Berlusconi, che pure aveva condiviso la riforma in Parlamento fino al penultimo voto, ha preso d’un tratto a denunciare i rischi di una deriva autoritaria.
Appesi al verdetto delle urne, sugli scenari post referendari tutti tengono coperte le loro vere carte, e ciò alimenta reciproci sospetti. Nel fronte del No nessuno si fida — nemmeno i compagni della «ditta» — delle promesse fatte dal leader del Pd, che in caso di successo si è detto pronto a completare l’iter della legislatura senza strappi. Persino Gianni Letta, dopo molte titubanze, ha dato ragione infine al Cavaliere e si è convinto che «Renzi, se dovesse vincere, potrebbe non tener fede ai patti». I «patti» ovviamente riguardano la legge elettorale, che è l’alfa e l’omega per ogni forza politica, lo strumento da cui dipende la possibilità per Berlusconi di rientrare in gioco: magari non più per comandare, ma di sicuro per contare.
L’idea che il compromesso passi per la sconfitta altrui ha reso il referendum una sfida senza regole d’ingaggio, e ha complicato il lavoro del capo dello Stato. La vittoria del Sì avrebbe — fino a un certo punto — un percorso lineare, quella del No si porterebbe appresso molte più variabili e alcune incognite. A partire dalla scelta che farebbe Renzi. Perché un conto è mettere in preventivo le sue dimissioni, altra cosa è capire se — magari dopo un giro di consultazioni al Quirinale e un incarico esplorativo affidato al presidente di una Camera — il leader del Pd passerebbe comunque la mano o accetterebbe un nuovo incarico. Su questo tema anche ai fedelissimi Renzi ha opposto un muro di silenzio: «Vincesse il No saprei cosa fare. Ne ho parlato con mia moglie».
Vincesse il No dovrebbe parlarne anche con il capo dello Stato, sapendo che l’ipotesi di un governo tecnico — lo «spauracchio» con cui cerca di convincere gli elettori a votare Sì — si concretizzerebbe solo con il suo sostegno: dunque avrebbe una chiara paternità. E l’appoggio del Pd in Parlamento non permetterebbe al suo segretario di tenersi a distanza dalle scelte del nuovo esecutivo, chiamato l’anno prossimo a racimolare una ventina di miliardi per evitare che scattino le clausole di salvaguardia concordate con l’Europa. Di qui la scommessa che fanno i suoi avversari, e cioè che alla fine il capo dei democrat resterà a Palazzo Chigi. Ma è una scommessa che non tiene conto della personalità dell’ex sindaco di Firenze.
Così come sarebbe una scommessa riuscire a trovare un accordo sulla legge elettorale. Con la vittoria del No resterebbero due Camere con due diversi elettorati. Quale modello si adotterebbe? L’eventuale premio di maggioranza si assegnerebbe solo a un ramo del Parlamento o a entrambi? E se — visti i due diversi elettorati — dalle urne uscissero vincenti due forze o coalizioni diverse? Il Palazzo, dove si discute del dopo referendum, rischia di tornare allo stallo che precedette il referendum. In presenza di tre poli, il rebus avrebbe come unica soluzione il ritorno alla proporzionale, che non potrebbe però tenere conto di una variabile: la possibilità che le forze «antisistema» — per quanto non coalizzabili — superino insieme il 50% dei consensi.
Insomma, il Sì e il No sono due medaglie con il loro rovescio. Da lunedì toccherà ai partiti misurarsi con il verdetto popolare. E le scorciatoie sul sistema elettorale — vero oggetto della contesa — non appaiono praticabili. Sarebbe complicato anticipare la fine della legislatura. A meno che il Parlamento — incapace di mettersi d’accordo — non decida di affidarsi alla Consulta, pronta a «ritoccare» anche l’Italicum dopo il Porcellum. Ma una legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale sancirebbe l’abdicazione di tutti i partiti della Seconda Repubblica. E a quel punto vincitori e vinti del referendum, accomunati nella sconfitta, sarebbero costretti a passar la mano .
La Stampa 3.12.16
Il Consiglio di Stato sospende la riforma delle Banche Popolari
Alla Consulta la norma di Bankitalia che consente di imporre un tetto al diritto di recesso
di Gianluca Paolucci Francesco Spini
La nuova mina sul sistema bancario italiano arriva dla Consiglio di Stato. Che ha rinviato alla Corte Costituzionale alcune norme attuative del decreto che ha imposto la trasformazione della banche popolari in società per azioni. Nel mirino della sesta sezione sono finite in particolare due norme attuative emanate dalla Banca d’Italia: la facoltà lasciata agli istituti di imporre un tetto al diritto di recesso e il divieto di costituire una holding cooperativa per controllare la banca trasformata in società per azioni.
La decisione, che accoglie parzialmente una serie di ricorsi, non produce effetti immediati né per le banche né per i soci, spiegano dal Consiglio di Stato, almeno fino al pronunciamento della Corte. Ma di certo apre un nuovo fronte d’incertezza nel già tribolato sistema bancario italiano. Il decreto del governo del gennaio 2015 imponeva la trasformazione in spa entro la fine di quest’anno. Ad oggi due istituti, la Popolare di Bari e la Popolare di Sondrio devono ancora trasformarsi (le assemblee si terranno rispettivamente l’11 e il 17 dicembre), mentre la Bper deve ancora stabilire le regole per l’esercizio del diritto di recesso, ovvero la possibilità di vendere le proprie azioni ad un prezzo fissato alla banca stessa a fronte di una modifica radicale dello statuto, come appunto la trasformazione in Spa. La situazione più complicata, sulla carta, sembra essere quella della Popolare di Bari. L’istituto pugliese non è quotato e il diritto di recesso - che secondo i giudici si può differire ma non negare - potrebbe rappresentare per molti soci una sorta di uscita di sicurezza da un investimento assai poco liquido. Tanto più che potrebbero approfittare di un prezzo fissato a 7,50 euro, che valorizza la banca oltre una volta il proprio patrimonio, a livelli che le quotate possono solo sognare. Per la Popolare di Bari potrebbe essere un colpo durissimo - perfino fatale, secondo alcuni osservatori - anche se il recesso è ammesso solo per chi non ha contribuito alla delibera di trasformazione, e dunque vota contro, si astiene o non si presenta in assemblea. Fermare la trasformazione in Spa, però, non sembra al momento un’opzione. Ieri, in ambienti sia di Banca d’Italia sia del ministero dell'Economia, si sottolineava come - allo stato - la trasformazione delle banche debba andare avanti come previsto. Dalle banche, da Bari in particolare, attendono segnali che chiariscano la situazione.
Gli istituti che hanno già completato il processo di trasformazione (Ubi, PopVicenza, Veneto Banca, Creval, Bper) sono in situazioni molto diverse. Per Ubi, le richieste dei soci avrebbero comportato un esborso di 258 milioni di euro, ma l’istituto ha liquidato i soci fino a 13 milioni. Nessun rimborso sia da BpVi che da Veneto Banca, su richieste però molto limitate: 14,5 milioni per Veneto e 1,7 milioni per Vicenza. Ancora sospese invece Bpm e Banco Popolare. Le richieste ammontano in totale a 207 milioni e le decisioni sulla loro liquidazione verranno prese dopo la fusione, esecutiva dal primo gennaio del 2017. Altra possibile fonte di ricorsi è la bocciatura del divieto di costituire una holding cooperativa, schema che farebbe rivivere la criticata governance delle popolari («una testa, un voto») spostandola semplicemente al piano di sopra. Con tanti saluti alla riforma.
Il Consiglio di Stato sospende la riforma delle Banche Popolari
Alla Consulta la norma di Bankitalia che consente di imporre un tetto al diritto di recesso
di Gianluca Paolucci Francesco Spini
La nuova mina sul sistema bancario italiano arriva dla Consiglio di Stato. Che ha rinviato alla Corte Costituzionale alcune norme attuative del decreto che ha imposto la trasformazione della banche popolari in società per azioni. Nel mirino della sesta sezione sono finite in particolare due norme attuative emanate dalla Banca d’Italia: la facoltà lasciata agli istituti di imporre un tetto al diritto di recesso e il divieto di costituire una holding cooperativa per controllare la banca trasformata in società per azioni.
La decisione, che accoglie parzialmente una serie di ricorsi, non produce effetti immediati né per le banche né per i soci, spiegano dal Consiglio di Stato, almeno fino al pronunciamento della Corte. Ma di certo apre un nuovo fronte d’incertezza nel già tribolato sistema bancario italiano. Il decreto del governo del gennaio 2015 imponeva la trasformazione in spa entro la fine di quest’anno. Ad oggi due istituti, la Popolare di Bari e la Popolare di Sondrio devono ancora trasformarsi (le assemblee si terranno rispettivamente l’11 e il 17 dicembre), mentre la Bper deve ancora stabilire le regole per l’esercizio del diritto di recesso, ovvero la possibilità di vendere le proprie azioni ad un prezzo fissato alla banca stessa a fronte di una modifica radicale dello statuto, come appunto la trasformazione in Spa. La situazione più complicata, sulla carta, sembra essere quella della Popolare di Bari. L’istituto pugliese non è quotato e il diritto di recesso - che secondo i giudici si può differire ma non negare - potrebbe rappresentare per molti soci una sorta di uscita di sicurezza da un investimento assai poco liquido. Tanto più che potrebbero approfittare di un prezzo fissato a 7,50 euro, che valorizza la banca oltre una volta il proprio patrimonio, a livelli che le quotate possono solo sognare. Per la Popolare di Bari potrebbe essere un colpo durissimo - perfino fatale, secondo alcuni osservatori - anche se il recesso è ammesso solo per chi non ha contribuito alla delibera di trasformazione, e dunque vota contro, si astiene o non si presenta in assemblea. Fermare la trasformazione in Spa, però, non sembra al momento un’opzione. Ieri, in ambienti sia di Banca d’Italia sia del ministero dell'Economia, si sottolineava come - allo stato - la trasformazione delle banche debba andare avanti come previsto. Dalle banche, da Bari in particolare, attendono segnali che chiariscano la situazione.
Gli istituti che hanno già completato il processo di trasformazione (Ubi, PopVicenza, Veneto Banca, Creval, Bper) sono in situazioni molto diverse. Per Ubi, le richieste dei soci avrebbero comportato un esborso di 258 milioni di euro, ma l’istituto ha liquidato i soci fino a 13 milioni. Nessun rimborso sia da BpVi che da Veneto Banca, su richieste però molto limitate: 14,5 milioni per Veneto e 1,7 milioni per Vicenza. Ancora sospese invece Bpm e Banco Popolare. Le richieste ammontano in totale a 207 milioni e le decisioni sulla loro liquidazione verranno prese dopo la fusione, esecutiva dal primo gennaio del 2017. Altra possibile fonte di ricorsi è la bocciatura del divieto di costituire una holding cooperativa, schema che farebbe rivivere la criticata governance delle popolari («una testa, un voto») spostandola semplicemente al piano di sopra. Con tanti saluti alla riforma.
il manifesto 3.12.16
Sanità sempre più costosa: 11 milioni rinunciano alle cure
Rapporto Censis. Liste d'attesa infinite e strutture obsolete allontanano i cittadini più deboli dagli ospedali, mentre tornano a crescere le spese per l'assistenza privata. E intanto i medici più giovani emigrano all'estero: secondo l'Anaao in mille fanno le valigie ogni anno
di Roberto Ciccarelli
Gli effetti regressivi delle manovre di contenimento, e di taglio alla spesa sociale, hanno indotto 11 milioni di italiani a rinunciare, o rinviare, nel 2016 alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche. Il dato, impressionante, viene riportato anche nel cinquantesimo rapporto Censis.
Gli effetti dell’austerità si riflettono anche nelle infrastrutture ospedaliere la cui offerta si riduce da anni, a cominciare dai posti letto (3,3 per 1.000 abitanti in Italia nel 2013 secondo i dati Eurostat, contro i 5,2 in media dei 28 Paesi Ue, gli 8,2 della Germania e i 6,3 della Francia).
Obsolescenza delle strutture, file d’attesa lunghe mesi anche per esami decisivi, chiusure delle strutture pubbliche. L’insieme di questi fattori ha portato a un nuovo boom della sanità privata. La spesa per curarsi fuori dal pubblico è tornata ad aumentare negli ultimi due anni (+2,4% dal 2014 al 2015), e ha raggiunto nel 2015 i 34,8 miliardi di euro. Poco meno del 24% della spesa sanitaria totale va ai privati, annota il Censis.
Aumenta anche la compartecipazione dei cittadini alla spesa: +32,4% in termini reali dal 2009 al 2015 (con un incremento più consistente della compartecipazione alla spesa farmaceutica: 2,9 miliardi, +74,4%).
Leggere questo rapporto nel giorno in cui la maggioranza dei sindacati dei medici hanno dichiarato uno sciopero generale il prossimo 16 dicembre riporta l’attenzione sulle conseguenze dei tagli sul personale medico e infermieristico. L’accordo del pubblico impiego, siglato tra il governo e i sindacati confederali, non ha per nulla soddisfatto le associazioni professionali, anche quelle della sanità.
«Un topolino di incremento retributivo, pari al costo di due caffè al giorno, che nascerà dalla montagna del fondo per il pubblico impiego non può essere considerato il finanziamento del Ccnl. Tanto più se il governo non ferma lo scippo delle loro risorse contrattuali, a opera di Regioni ed Aziende – scrivono in una nota intersindacale Anaao Assomed, Cimo, Aaroi-Emac, Fvm, Fassid (Aipac-Aupi-Simet-Sinafo-Snr), Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici – Se poi tale incremento è destinato, per dirla con il premier, a valorizzare il merito, vuol dire che il nostro, per lui, tanto vale. Di fatto si proroga, solo per noi, un blocco retributivo in vigore da 7 anni, a onta della sentenza della Corte costituzionale».
I tagli hanno provocato, da un lato, il blocco del turn-over che ha imposto di non sostituire i medici in pensione; dall’altro lato, hanno dato origine a un’emigrazione all’estero dei giovani, e meno giovani, professionisti. Un rapporto Anaao Assomed sostiene che nel Regno Unito, secondo i dati del General Medical Council, i medici italiani che prestano servizio sono più di 3 mila. Oramai siamo a circa 1000 laureati o specialisti che emigrano ogni anno. Altre destinazioni: Francia, Germania, Svezia, Danimarca, Svizzera, Stati Uniti. Nei prossimi dieci anni si prevedono oltre 80 mila pensionamenti attesi e il sistema sanitario pubblico rischia di trovarsi senza gli specialisti. Sono 7.280 solo quelli ospedalieri che possono essere rimpiazzati a causa dell’austerità.
Sanità sempre più costosa: 11 milioni rinunciano alle cure
Rapporto Censis. Liste d'attesa infinite e strutture obsolete allontanano i cittadini più deboli dagli ospedali, mentre tornano a crescere le spese per l'assistenza privata. E intanto i medici più giovani emigrano all'estero: secondo l'Anaao in mille fanno le valigie ogni anno
di Roberto Ciccarelli
Gli effetti regressivi delle manovre di contenimento, e di taglio alla spesa sociale, hanno indotto 11 milioni di italiani a rinunciare, o rinviare, nel 2016 alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche. Il dato, impressionante, viene riportato anche nel cinquantesimo rapporto Censis.
Gli effetti dell’austerità si riflettono anche nelle infrastrutture ospedaliere la cui offerta si riduce da anni, a cominciare dai posti letto (3,3 per 1.000 abitanti in Italia nel 2013 secondo i dati Eurostat, contro i 5,2 in media dei 28 Paesi Ue, gli 8,2 della Germania e i 6,3 della Francia).
Obsolescenza delle strutture, file d’attesa lunghe mesi anche per esami decisivi, chiusure delle strutture pubbliche. L’insieme di questi fattori ha portato a un nuovo boom della sanità privata. La spesa per curarsi fuori dal pubblico è tornata ad aumentare negli ultimi due anni (+2,4% dal 2014 al 2015), e ha raggiunto nel 2015 i 34,8 miliardi di euro. Poco meno del 24% della spesa sanitaria totale va ai privati, annota il Censis.
Aumenta anche la compartecipazione dei cittadini alla spesa: +32,4% in termini reali dal 2009 al 2015 (con un incremento più consistente della compartecipazione alla spesa farmaceutica: 2,9 miliardi, +74,4%).
Leggere questo rapporto nel giorno in cui la maggioranza dei sindacati dei medici hanno dichiarato uno sciopero generale il prossimo 16 dicembre riporta l’attenzione sulle conseguenze dei tagli sul personale medico e infermieristico. L’accordo del pubblico impiego, siglato tra il governo e i sindacati confederali, non ha per nulla soddisfatto le associazioni professionali, anche quelle della sanità.
«Un topolino di incremento retributivo, pari al costo di due caffè al giorno, che nascerà dalla montagna del fondo per il pubblico impiego non può essere considerato il finanziamento del Ccnl. Tanto più se il governo non ferma lo scippo delle loro risorse contrattuali, a opera di Regioni ed Aziende – scrivono in una nota intersindacale Anaao Assomed, Cimo, Aaroi-Emac, Fvm, Fassid (Aipac-Aupi-Simet-Sinafo-Snr), Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici – Se poi tale incremento è destinato, per dirla con il premier, a valorizzare il merito, vuol dire che il nostro, per lui, tanto vale. Di fatto si proroga, solo per noi, un blocco retributivo in vigore da 7 anni, a onta della sentenza della Corte costituzionale».
I tagli hanno provocato, da un lato, il blocco del turn-over che ha imposto di non sostituire i medici in pensione; dall’altro lato, hanno dato origine a un’emigrazione all’estero dei giovani, e meno giovani, professionisti. Un rapporto Anaao Assomed sostiene che nel Regno Unito, secondo i dati del General Medical Council, i medici italiani che prestano servizio sono più di 3 mila. Oramai siamo a circa 1000 laureati o specialisti che emigrano ogni anno. Altre destinazioni: Francia, Germania, Svezia, Danimarca, Svizzera, Stati Uniti. Nei prossimi dieci anni si prevedono oltre 80 mila pensionamenti attesi e il sistema sanitario pubblico rischia di trovarsi senza gli specialisti. Sono 7.280 solo quelli ospedalieri che possono essere rimpiazzati a causa dell’austerità.