sabato 14 ottobre 2017

Repubblica 14.10.17
Turchia, decifrato il codice che nasconde il segreto dei Popoli del mare
di Marco Ansaldo

ISTANBUL È un antico simbolo della mitica Età del Bronzo. Un’iscrizione in pietra, lunga ben 29 metri, risalente a 3200 anni fa, contenente secondo alcuni ricercatori «uno dei più grandi puzzle dell’archeologia del Mediterraneo». Fu ritrovata in Anatolia nel 1878, e ora studiosi olandesi e svizzeri sostengono di avere finalmente concluso il lavoro sul significato del geroglifico, la cui interpretazione completa verrà svelata a dicembre in una rivista archeologica specializzata e in un libro.
Il segreto della pietra misteriosa, rimasto tale per 140 anni, risalta dalle figure dell’iscrizione più lunga esistente dell’Età del Bronzo. Solo pochi studiosi al mondo sono in grado di comprendere l’antica lingua luvia in cui il geroglifico è stato scritto. E la sua traduzione si pensa che possa offrire una spiegazione su come collassò quella civiltà, ritenuta allora potente e avanzata. I ricercatori ritengono che l’iscrizione fu commissionata nel 1190 avanti Cristo da Kupanta-Kurunta, re dello stato di Mira. Il testo suggerirebbe che il Regno e gli Stati dell’Anatolia invasero l’antico Egitto e altre regioni del Mediterraneo già prima e durante la caduta di quella antica civiltà dominante. A lungo gli studiosi hanno attribuito il suo collasso improvviso e incontrollabile all’impatto sofferto per le incursioni navali. Ma è sulla loro identità e le origini degli invasori che si sono appuntati i dubbi, facendo scervellare per secoli gli specialisti, senza ottenere una risposta convincente sull’esatta provenienza di quei popoli guerrieri. A quel che è trapelato finora, secondo il quotidiano londinese Independent prontamente ripreso dai media turchi, il geroglifico racconta di come una flotta di sovrani provenienti dalla parte più occidentale dell’Asia Minore raggiunse in mare le coste orientali del Mediterraneo. Questa confederazione marinara dedita alle scorrerie e al saccheggio è considerata dagli storici come una delle cause che portarono al crollo della civiltà bronzea. Adesso la svolta sembra però vicina. E potrebbe arrivare dagli studi compiuti da una squadra interdisciplinare di archeologi, composta da olandesi e svizzeri. Fra loro il dottor Fred Woudhuizen, ritenuto una delle venti persone al mondo in grado di leggere la lingua luvia. È lui ad avere tradotto l’iscrizione.
Il luvio è una lingua indoeuropea appartenente al sottogruppo del ramo anatolico, usata a sudovest di Hattusa, la capitale dell’impero ittita. Le attestazioni più antiche risalgono al Secondo millennio avanti Cristo, ma la lingua era usata fino al Primo millennio a.C.. Compare sotto forma di scrittura cuneiforme e anche di geroglifici (nel Primo millennio esclusivamente in questa seconda forma). Da un punto di vista genealogico il luvio è imparentato ad altre lingue anatoliche, soprattutto al licio, al cario e al lidio. Alcuni studiosi hanno avanzato ipotesi di un suo legame con l’etrusco, benché con numerosi dubbi. La pietra misteriosa, l’originale, venne trovata nel villaggio di Beykoy, 34 chilometri a nord di Afyon, nella moderna Turchia, nel 1878. E fu l’archeologo francese George Perrot a copiare l’iscrizione prima che la pietra venisse usata dagli abitanti del villaggio come materiale di costruzione per edificare una moschea. La copia è stata ritrovata pochi anni fa, nel 2012, nella tenuta dello studioso inglese James Mellaart, dopo la sua morte, e affidata da suo figlio a Eberhard Zangger, presidente della Fondazione di Studi Luviani. Quest’ultimo, geologo e archeologo svizzero noto a livello internazionale per la sua tesi sulla presenza di un’area culturale luvia nell’Asia Minore occidentale nel Secondo millennio a.C., ha affermato che il geroglifico suggerisce che «I Luvi dall’Asia Minore occidentale contribuirono decisamente alle invasioni dei cosiddetti Popoli del Mare – e quindi alla fine dell’Età del Bronzo nel Mediterraneo occidentale».
La Fondazione sostiene così che ora «uno dei più grandi puzzle sull’archeologia del Mediterraneo può essere risolto». La soluzione integrale, compresa di traduzione, ricerche e analisi del lavoro svolto in questi anni sulla copia della pietra anatolica sarà pubblicata a dicembre sul giornale “Procedimenti della società archeologica e storica olandese” e in un volume del dottor Zangger. Un moderno Indiana Jones sul quale oggi si concentrano gli occhi degli archeologi di tutto il mondo.
il manifesto 14.10.17
«Riconciliazione a metà, accordo solo sul governo di Gaza»
Fatah/Hamas. Intervista all'analista Ghassan Khatib: «Uno scambio, Hamas voleva liberarsi dell'incombenza del governo di due milioni di palestinesi, l'Anp ora può affermare di aver ripreso il controllo di Gaza. I nodi veri sono stati congelati. Israele condanna ma trae vantaggio dell'accordo»
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Si continua, tra proclami di approvazione e non pochi interrogativi, ad analizzare l’accordo che ha messo fine allo scontro tra Fatah e Hamas e che consentirà all’Autorità nazionale palestinese di riprendere il controllo di Gaza. Al centro della discussione ci sono inoltre gli interessi di Egitto, Israele e Stati Uniti. Ne abbiamo parlato con Ghassan Khatib, analista politico e docente di scienze politiche all’Università di Bir Zeit, in Cisgiordania.
Chi tra Fatah e Hamas ci guadagna di più dall’accordo firmato due giorni fa al Cairo con la mediazione egiziana
Si tratta di uno scambio. Hamas voleva liberarsi dell’incombenza del governo di due milioni di palestinesi, un compito arduo che è costato parecchio in termini di consenso popolare al movimento islamico. Da parte sua l’Autorità nazionale palestinese ora può affermare di aver ripreso il controllo di Gaza rimasta sotto Hamas per dieci anni. In termini pratici ci guadagna la popolazione perché l’estensione dell’autorità del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) potrebbe interrompere il boicottaggio di Gaza da parte dei governi occidentali e riaprire i rubinetti dei finanziamenti necessari per la ricostruzione della Striscia tre anni dopo l’offensiva israeliana Margine Protettivo.
Sul piano umanitario è un passo in avanti. Ma sul piano politico l’accordo è davvero una svolta nei rapporti tra Hamas e Fatah.
A mio avviso no. Certo un progresso è stato fatto ma sulla sicurezza, la costruzione di una nuova Olp e anche sulla convocazione di nuove elezioni legislative e presidenziali, non credo che Hamas e Fatah possano andare oltre. La riconciliazione è parziale.
Quindi niente elezioni
Non penso che presto, come si dice, ci saranno elezioni. Ho letto il testo dell’accordo e l’unica cosa sulla quale hanno trovato un’intesa è il ritorno dell’amministrazione di Gaza al governo del premier Rami Hamdallah. Hamas e Fatah dicono che continueranno a negoziare e ciò conferma che l’accordo riguarda solo la gestione civile di Gaza. Sugli altri nodi le possibilità di successo sono minime, quasi nulle. Le due parti di fatto li hanno congelati a tempo indeterminato.
E questo riguarda anche le armi di Hamas e il suo braccio militare, le Brigate Ezzedin al Qassam.
Soprattutto quel punto. Quando il presidente Abbas ha proclamato che non accetterà una doppia sicurezza a Gaza, quindi un ruolo per la milizia di Hamas, l’ha fatto solo allo scopo di inviare un messaggio ai governi occidentali che lo sostengono. Di fatto ha accettato una situazione a Gaza simile a quella del Libano, dove convivono l’esercito regolare e l’ala armata del movimento sciita Hezbollah. Penso che Hamas puntasse proprio a questo obiettivo quando (il mese scorso) ha avviato il riavvicinamento a Fatah. Attenzione. Abbas si è lasciato una via d’uscita. Se le cose dovessero mettersi male per lui potrebbe sempre fare retromarcia sull’accordo, proclamando che Hamas si è rifiutato di disarmare la sua milizia, cosa che ora accetta tacitamente. Quindi dall’inizio di dicembre il governo dell’Anp comincerà ad operare a Gaza e le forze militari di Hamas rimarranno dove sono, anche se lasceranno a 3mila poliziotti fedeli ad Abbas la gestione degli affari quotidiani nella Striscia.
Dovesse esserci una guerra, un nuovo attacco israeliano contro Gaza chi deciderà se rispondere sparando razzi o lanciando azioni armata, Abbas o il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
I comandi di Hamas, non c’è alcun dubbio.
Eppure Hamas dice che, in un caso di guerra con Israele, non deciderà più da solo.
Questa disponibilità a parole serve ad evitare che l’accordo del Cairo possa saltare. I palestinesi sono consapevoli che Hamas deciderà sempre da solo se e come usare le sue armi.
Quanto questo accordo è finalizzato, come lasciano intendere gli egiziani, ad aprire la strada ad soluzione della questione israelo-palestinese e del conflitto arabo-israeliano, sulla base, dicono altri, del “piano di pace” che starebbe per annunciare l’Amministrazione Trump.
Non c’è un vero piano americano, Trump non ha alcun interesse a mettere a rischio i rapporti con Israele per realizzare i diritti dei palestinesi. E l’Egitto vuole soltanto garantirsi la collaborazione dei palestinesi di Gaza nella lotta contro i jihadisti nel Sinai.
Israele condanna ma non si oppone sul serio all’accordo Fatah-Hamas. Perché?
Perché ha tutto da guadagnarci. La tensione, il peggioramento delle condizioni di vita a Gaza, l’inquinamento del mare causato dalla mancanza di elettricità nella Striscia e molte altre cose, sono indirettamente un problema per Israele. (Il premier) Netanyahu non cerca, almeno per ora, l’escalation. Vuole che i palestinesi di Gaza se ne stiano buoni e ben chiusi nel loro territorio. L’estensione dell’autorità dell’Anp perciò non può che soddisfarlo.
il manifesto 14.10.17
Polonia, «sotto tiro la protesta delle donne»
Diritti. La denuncia di Marta Lempart, attivista del movimento per il diritto all’aborto, dopo il blitz della polizia nei centri antiviolenza: «Le perquisizioni nelle sedi del Women Right’s Center e dell’associazione Baba sono un chiaro atto di intimidazione nei nostri confronti»
di Federica Tourn

Centri antiviolenza nel mirino in Polonia, il giorno dopo le manifestazioni che hanno di nuovo percorso il paese, a un anno dallo Straik Kobjet, lo sciopero generale in cui decine di migliaia di donne erano scese in strada per impedire un ulteriore irrigidimento della legge sull’interruzione di gravidanza, fra le più oscurantiste d’Europa. Sequestro di materiale e dati sensibili, documenti e pc, tutto è finito nelle mani della polizia il 4 ottobre, con un blitz in pieno giorno. Il Women Right’s Center è la più grande organizzazione che si occupa di violenza domestica a livello nazionale; ha uffici nelle maggiori città della Polonia e tre di questi, a Varsavia, Danzica e Łódz, hanno subito l’irruzione. Così come è successo a Baba, un’associazione regionale impegnata sullo stesso fronte, con sede a Zielona Góra, nella Polonia occidentale. «È un chiaro atto di intimidazione», denuncia Marta Lempart, avvocata, una delle leader del movimento delle «Donne in nero» che hanno organizzato le proteste del 3 ottobre 2016 e che da allora non smette di battersi contro le politiche illiberali del governo di destra della premier Beata Szydło, particolarmente accanita contro i diritti di donne e gay. Il numero delle interruzioni di gravidanza legali, in base alla legge del ’93, oscilla fra i 600 e i 1.000 casi all’anno ma in realtà si stima che siano quasi 150mila, gli aborti praticati clandestinamente in patria o privatamente all’estero. Se si aggiunge un parlamento che imbavaglia la stampa e cerca di controllare la magistratura e la Chiesa cattolica che organizza lungo le frontiere un rosario anti migranti, la Polonia sembra più che mai lacerata fra tensioni opposte.
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Come legge le perquisizioni dei giorni scorsi nei centri antiviolenza?
Stiamo parlando di ong che ogni giorno svolgono un lavoro professionale molto importante e che, anche se rappresentano una voce fondamentale per i diritti delle donne in Polonia, non sono movimenti di protesta come il nostro delle «Donne in nero». Quindi il fine di quest’azione è chiara: noi non abbiamo sedi che possano essere violate con falsi pretesti di natura finanziaria, così preferiscono colpire e paralizzare organizzazioni che fanno un lavoro cruciale e quotidiano per aiutare le vittime di violenza domestica in Polonia. Quando la polizia è entrata negli uffici del Women Right’s Center, c’erano delle persone che chiedevano informazioni o venivano aiutate in altri modi a cui sono stati presi i dati.
Era un’azione programmata da tempo secondo lei?
Il mandato di perquisizione era stato emesso in luglio, hanno aspettato 72 giorni prima di entrare in azione: la perquisizione è arrivata giusto a un anno dalla grande manifestazione del 3 ottobre 2016 e il giorno dopo il «martedì nero», quando avevamo organizzato in tutto il paese riunioni, raccolte di firme per l’aborto legale, picchetti, marce e azioni dimostrative in più di cento città. Penso che cerchino di farci sentire responsabili del fatto che organizzazioni professionali tanto necessarie siano ora minacciate e danneggiate a causa del loro coinvolgimento nella nostra protesta.
Come è stato giustificato l’intervento della polizia?
L’operazione rientrerebbe nel quadro dell’inchiesta sui presunti illeciti commessi dai funzionari del ministero della Giustizia del precedente governo, che avrebbero fornito sostegno finanziario alle suddette organizzazioni. L’indagine in corso però non giustifica in alcun modo l’irruzione nei locali delle ong; inoltre i documenti sono tutti al ministero e in questi casi la prassi è una semplice richiesta alle istituzioni sotto inchiesta, non certo il prelevamento forzato del materiale. Ora abbiamo promosso una raccolta fondi in aiuto delle organizzazioni sotto indagine.
Che cosa succederà adesso?
Il mio timore è che ora vogliano provocare le piccole organizzazioni. Molte delle leader dello Straik Kobjet sono impegnate in attività sociali o culturali, lavorano per associazioni locali non necessariamente femministe, librerie, centri culturali. Nel caso queste organizzazioni fossero colpite, insieme a chi ci lavora, sarebbe molto difficile difenderle, perché il legame con noi del movimento non è così definito e il nostro intervento sembrerebbe frutto di paranoia. Alcune attiviste, inoltre, lavorano nella scuola e, dato che siamo nel mezzo di una «riforma» in cui gli insegnanti vengono licenziati quotidianamente (fino a oggi sono 6.500), sarebbero forse le prime a essere lasciate a casa. In conclusione la paura per il futuro c’è, ovviamente. Abbiamo bisogno di un serio monitoraggio internazionale su quello che sta succedendo in Polonia.
C’è già chi è stato colpito personalmente per aver partecipato alle proteste contro il governo?
Io devo affrontare due cause con accuse ridicole: aver infranto la legge e la protezione dell’ambiente per aver utilizzato il megafono durante una protesta nel centro città; Jurek Owsiak, il leader di Wosp, una grande fondazione di beneficienza che ha raccolto e donato milioni per gli ospedali, amato da tutta la nazione, è accusato di aver imprecato in pubblico. Ci sono circa un migliaio di persone in Polonia che sono sotto processo per aver protestato, in un modo o nell’altro. Ma riceviamo anche molto sostegno nella nostra lotta e ora abbiamo avviato un comitato di aiuto, «gli Ombrelli», e non c’è motivo di preoccuparsi. Il punto non sono le accuse assurde per le proteste, quelle possiamo affrontarle; il problema serio sono le conseguenze di queste accuse sui posti di lavoro, in famiglia, sulla «rispettabilità» personale e in generale sulla vita quotidiana. La persecuzione strisciante.
Il Fatto 14.10.17
Perfida Albione: bianca, arrabbiata e classista
Il Race Disparity Audit: entro il 2020 asiatici e neri con standard di vita peggiori
di Sabrina Provenzani

Un anno fa, al suo primo congresso dei Tory da primo ministro, una Theresa May che sembrava invincibile lanciò la sua visione del futuro del Regno Unito: “Credo in un Paese che funzioni per tutti, costruito sui valori di eguaglianza e opportunità, dove ognuno segue le stesse regole e – indipendentemente dalle sue origini e da quelle dei suoi genitori – ha la possibilità di diventare tutto quello che desidera”.
Come lei, figlia di un vicario di campagna arrivata, per merito, a Oxford e da lì al comando di una delle nazioni più potenti del mondo. Per questo aveva subito commissionato una ricerca approfondita sulle disuguaglianze su base razziale. Conoscere per cambiare.
In un anno, la leadership della May si è accartocciata su se stessa, schiacciata da cinque attentati terroristici, la perdita della maggioranza parlamentare, clamorosi errori politici, Brexit che comincia a far scricchiolare l’economia e il prestigio internazionale del paese.
I risultati di quella ricerca sono stati pubblicati da poco: fotografia pubblica di un paese dove la provenienza etnica condiziona il resto dell’esistenza.
Nella quarta potenza economica mondiale, patria del multiculturalismo. Si chiama Race Disparity Audit, verifica delle disparità su base razziale, ed è stato pubblicato dal governo in contemporanea al lancio di un sito dove vengono raccolti, e costantemente aggiornati, i dati pubblici disponibili sulla composizione etnica in 130 distretti di Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord e Scozia, nei settori della salute, istruzione, lavoro, giustizia criminale e condizione abitativa. È una lettura che conferma molti stereotipi.
Per esempio, la proporzione di uomini di colore che finiscono in carcere è di 112 per ogni cento bianchi. Ma vengono arrestati tre volte di più.
Meno di due terzi degli appartenenti a minoranze etniche ha un lavoro, contro i tre quarti dei bianchi. Studenti cinesi e indiani eccellono, seguiti a distanza dai britannici bianchi, poi dai neri, infine dai Rom. Ma fra i bambini più poveri quelli di minoranze etniche hanno risultati migliori dei figli dei britannici bianchi, meno di un terzo dei quali raggiunge la sufficienza alla fine delle elementari. Sono i bianchi descritti nel saggio Chavs di Owen Jones: quello che resta di una working class un tempo compatta e orgogliosa della propria cultura proletaria, oggi relegata ai margini della società, massicciamente pro Brexit, incattivita verso i non-inglesi accusati di rubare lavoro ed opportunità. Dati che si intrecciano con l’impatto delle politiche di austerità: il Runnymede Trust, think tank indipendente sull’eguaglianza razziale, ha appena pubblicato una ricerca sul rapporto fra tagli e condizione delle minoranze etniche.
Se le politiche attuali continueranno, entro il 2020, le famiglie asiatiche e nere più povere subiranno un peggioramento del 20% dei loro standard di vita.
Razzismo? Sì, ma intrecciato a un aspetto ancora più pervasivo della società britannica: il classismo.
Il 13% della popolazione del Regno Unito proviene da minoranze, ma secondo una ricerca dell’organizzazione anti-discriminazione Operation Black Vote, è bianco il 97% dei componenti delle elite, nel governo, nelle Istituzioni, nel mondo della cultura e della finanza.
Un recente documentario della BBC ha esaminato le possibilità per un bambino di oggi di diventare primo ministro. Risultato: un bianco educato nella scuola pubblica ha 12 volte più chance di un nero. Un bianco educato nel sistema privato 90 volte di più.
Repubblica 14.10.17
Il reportage.
Toni accesi e musica trash al comizio di Heinz-Christian Strache il leader dell’ultra-destra: “Basta profughi”
Tra gli eredi di Haider all’assalto di Vienna “Ora governiamo noi”
di Tonia Mastrobuoni

VIENNA. Tiene la foto del leader populista Stracher come fosse un santino, lo preme sul cuore. Maria Brunnstein, 47 anni, a Vienna da cinque, ha sposato un austriaco ma viene dalle Filippine. L’intervista è faticosa per la musica a tutto volume sparata dagli altoparlanti, ma soprattutto perché Brunnstein parla male il tedesco e lo mescola con l’inglese. Le chiediamo perché è venuta all’ultimo comizio del capo della destra austriaca, islamofobica e xenofoba. «Per l’invasione!», ci risponde. Quella dei profughi del 2015? «Esatto. Io non voglio un’islamizzazione dell’Austria. Ho paura».
La triste nemesi dell’Europa aperta ai profughi è la paura dei vecchi migranti nei confronti dei nuovi. Diffusissima anche in Austria, il Paese di passaggio per i milioni di rifugiati arrivati attraverso i Balcani due anni fa e fuggiti in Germania, in Svezia e nel Nordeuropa. E se c’è un partito che ha approfittato delle fobie da profughi, è la Fpö di Heinz-Christian Strache. L’anno scorso ha sfiorato la conquista della Hofburg, della presidenza della Repubblica, con Norbert Hofer, battuto per un soffio da Alexander van der Bellen. Questa volta, che la destra populista torni al governo dopo diciassette anni, è praticamente sicuro. L’ultima volta che ci era riuscita, nel 2000, molti Paesi europei avevano inflitto sanzioni diplomatiche all’Austria a causa dell’antisemitismo e delle posizioni estremiste del partito di Haider. Sembra preistoria. La destra euroscettica e xenofoba, quando non antisemita, è ormai una presenza fissa di molti Parlamenti e in alcuni Paesi ha espresso premier e presidenti della Repubblica, come in Polonia o in Ungheria. Che sarà mai, se torna al governo in Austria.
Quando l’erede del partito di Jörg Haider sale sul palco, dopo due ore di musica trash, è accompagnato dalle note di Jump dei Van Halen. Lui entra subito nel vivo, spara il leitmotiv che ripeterà per mezz’ora: «Quando si tratta del potere, popolari e rossi si mettono sempre d’accordo. Dobbiamo spazzare via il Proporzsystem » (il “sistema di spartizione” tra socialdemocratici e popolari, ndr) , «la Fpö è l’unica forza per il cambiamento!». L’attacco alla Grande coalizione di governo è il cuore del comizio.
Come sono cambiati i toni, dalla campagna elettorale per le presidenziali del 2016: la piazza per questa ultima arringa al popolo dei “blu” è la stessa, quella del mercato dietro alla stazione dedicata a un socialista ebreo, Viktor Adler. Ma alla destra populista, che pullula ancora di antisemiti, interessa soprattutto l’essere in un ex quartiere operaio e “rosso” con moltissimi migranti, dove gli austriaci hanno votato in massa per la destra, negli ultimi anni. Una metonimia, un “cappottone” che i blu vogliono infliggere anche all’Austria. «L’Islam non è parte dell’Austria», grida Strache, e dal pubblico si levano un boato, poi un’ovazione. E il leader della destra promette anche di volersi battere per «controllare i confini per impedire l’immigrazione irregolare», dopo che la Spö e la Övp «hanno aperto le porte a un’ondata incontrollata di profughi tra i quali si nascondevano anche centinaia di migliaia di terroristi». Un numero un tantino inventato, ma tant’è. I passaggi contro i migranti si sono accorciati. Un anno fa Strache e Hofer avevano fatto dallo stesso palco l’elenco dettagliato di stupri di donne austriache da parte di profughi. Stavolta il leader della destra che si prepara si è risparmiato quei dettagli. Sarebbe stato un po’ troppo, per un partito che si candida a governare.
Maximilian Fischl, diciannove anni, completo blu attillato e capelli fonati, è venuto dalla Stiria con tre amici. Indossano maglioni in cachemire o giacche tirolesi. Fanno parte del movimento giovanile del partito. «A noi interessa che finisca questo sistema rosso- nero, ci interessa che l’Austria cambi davvero. Non vogliamo un futuro di Grande coalizione», spiega Fischl. Già, il “sistema di spartizione”, come lo chiamano qui, è il bersaglio principale della arringhe della destra, il potere da sempre diviso tra socialdemocratici e popolari, che si nel dopoguerra sono sempre alternati alla guida dell’Austria. Finora.
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Ma ci sono anche stranieri che votano per la destra: “Abbiamo paura dell’Islam” Ovazioni per il leader dell’Fpö quando promette la fine della Grande coalizione
Corriere 14.10.17
Il paradosso di un partito in conflitto con i padri nobili
di Massimo Franco

Forse dipende soprattutto dalla riforma elettorale e dalla scissione: sebbene si abbia l’impressione di una rottura più di fondo. È un fatto che la festa del decennale del Pd oggi avviene nell’assenza o nel silenzio ostile dei suoi «padri nobili». Si tratta della certificazione di una forza che ha deciso di emanciparsi dai suoi personaggi-simbolo; e che è coprotagonista di quella scomposizione a sinistra vissuta in gran parte dei Paesi europei. Colpisce che sia il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, sia l’ideologo di quella operazione, Arturo Parisi, oggi non ci saranno.
Né ci sarà l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che si prepara a parlare in Senato contro la legge voluta dal Pd, e appoggiata dal Quirinale. Se si aggiungono le autoesclusioni traumatiche di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, registi della scissione dai dem, risalta l’immagine di un partito di «parricidi»: una realtà che la presenza di Walter Veltroni non basta a bilanciare. E, probabilmente uno degli effetti secondari dello scontro sul nuovo sistema di voto finirà per sovresporre presto la seconda carica dello Stato, Pietro Grasso.
La richiesta di fiducia sulla riforma a Palazzo Madama farà apparire in bilico anche la terzietà del presidente del Senato: come la fiducia alla Camera ha schiacciato sul Pd il premier Paolo Gentiloni. Il mancato invito a Prodi e allo stesso Parisi è probabilmente frutto solo di «sciatteria», sottolinea piccato l’ex ministro: al punto da definire l’appuntamento odierno «invece di un giorno di festa, un giorno di lutto»; e con un giudizio durissimo sul cosiddetto Rosatellum, «grave nel merito e nel metodo», secondo Parisi.
Sono le parole deluse di un ostinato difensore del maggioritario. Di fronte a una legge che apre la strada a un ritorno al proporzionale e a governi assimilabili all’unità nazionale, si percepisce la fine di un’epoca. Ma c’è, altrettanto trasparente, il timore di una reale ingovernabilità. La convinzione di alcuni dei «padri nobili» è che la forzatura delle ultime ore in Parlamento sia stata probabilmente una scelta inevitabile; e tuttavia foriera di altri strappi, e riflesso di una crisi dei partiti tradizionali in tutta Europa.
Il ridimensionamento secco dei socialdemocratici alle ultime elezioni in Germania, e l’affanno perfino della cancelliera Angela Merkel e della sua Cdu, sono segnali d’allarme: come lo era stato la vittoria del movimento trasversale di Emmanuel Macron in Francia, nonostante l’argine decisivo contro l’ultradestra. La sinistra ne è uscita umiliata. Prodi, d’altronde, ha notato di recente che approvare una riforma in extremis, percepita come un’alleanza di «tutti contro i Cinque Stelle», sarebbe stato un regalo al M5S. Dalle reazioni feroci e grevi di Beppe Grillo, si intuisce una gran voglia di «venderla» così. Le elezioni diranno chi ha sbagliato i calcoli.
Corriere 14.10.17
Il gelo prodiano sui dieci anni del Pd «Lutto dopo il sì alla legge elettorale»
Parisi duro. Franceschini: mi spiace per le sue parole. Renzi a M5S: noi senza padroni
di Dino Martirano

ROMA Nel giorno del decimo compleanno del Partito democratico, che si festeggia oggi al Teatro Eliseo con Matteo Renzi e Walter Veltroni ma senza il cofondatore Romano Prodi, il segretario dem porta come regalo speciale una legge elettorale approvata dalla Camera con tre voti di fiducia e uno scrutinio finale segreto. Da martedì, poi, il «Rosatellum 2.0» inizierà il suo iter veloce al Senato dove i numeri della maggioranza sarebbero in sicurezza, in vista del via libera definitivo previsto per il 24-25 ottobre, ma il clima nel partito del Nazareno non è sereno. E il professor Prodi, interrogato a Bologna sulla legge elettorale, è stato tranciante: «Non ne parlo neanche sotto tortura...».
La festa del decimo compleanno del Pd, dunque, ha già preso un sapore amaro per i prodiani: «Dopo l’approvazione del Rosatellum, grave nel merito e nel metodo, il decennale del Pd invece di un giorno di festa si è trasformato in un giorno di lutto», argomenta il prodiano Arturo Parisi senza ricorrere a troppi giri di parole. Anche lui, ex ministro della Difesa, non ci sarà all’Eliseo (il cerimoniale del Nazareno non ha chiarito se gli inviti formali erano stati inviati a tutti gli interessati per tempo): «Ricordo che 12 anni fa, quando Berlusconi ci impose il Porcellum, almeno non lo fece con la fiducia. Quanto alla festa del Pd, noto almeno una sciatteria nel coordinamento delle agende. E dire che io e Romano qualche ruolo lo abbiamo avuto». E a proposito delle possibili larghe intese Pd-FI, proprio Silvio Berlusconi ha inviato un segnale ai malpancisti del Pd: «Un accordo con il Pd? Lo escludo».
La tripla fiducia chiesta da Renzi e autorizzata dal governo sta rovinando la festa a mezzo Pd. Ma Renzi non ci sta a subire gli attacchi: «Il Pd non appartiene a nessuno. Non appartiene a un proprietario, a un’azienda, a un blog, non appartiene a un leader. È una comunità in cui tutti possono sentirsi a casa e nessuno è padrone». E il ministro Dario Franceschini replica ai prodiani: «Mi spiace davvero per le parole di Arturo (Parisi). Date le attuali condizioni, mi pare che il Rosatellum con i collegi uninominali spinga più di tutti gli altri modelli, di cui si è discusso negli ultimi mesi, verso le coalizioni e quindi verso la ricomposizione del campo del centrosinistra».
Tra i padri nobili che il Pd non può trascurare, poi, c’è anche il senatore a vita Giorgio Napolitano la cui posizione sulla legge elettorale è critica. Sul metodo della fiducia («Che limita fortemente la funzione parlamentare») e sul merito di alcune norme contenute nel testo che andrebbero corrette. Napolitano ha annunciato un suo intervento in Aula ma potrebbe farsi sentire già nella I commissione presieduta da Salvatore Torrisi che da martedì esaminerà il «Rosatellum 2.0». L’ultima grana interna riguarda i sindaci che non potranno candidarsi. Per correre alle politiche i primi cittadini avrebbero dovuto dimettersi già a metà settembre e per questo l’Anci aveva chiesto di cambiare le regole dell’incompatibilità su input del presidente Antonio De Caro e del vice Matteo Ricci. Entrambi del Pd.
il manifesto 14.10.17
Decennale Pd, festa dei forfait Prodi non va. Parisi: un funerale
Democrack. Gaffe sugli inviti, ulivisti assenti ma anche Rutelli, Letta, Orlando. Martina: aperti a tutti. Sul palco Veltroni, Gentiloni e Renzi. L’ex braccio destro del prof attacca il Rosatellum 2.0
di Daniela Preziosi

Sarà la festa del forfait, delle assenze polemiche e delle foto sbianchettate. Nella più classica – a sinistra – tradizione morettiana (nel senso di Nanni, il regista) stamattina al Teatro Eliseo di Roma, alla celebrazione dei primi dieci anni di vita del Pd, si noteranno più gli assenti che i presenti.
A INCARICARSI DI ESPRIMERE il gelo diffuso intorno al compleanno del partito – il 14 ottobre del 2007 Walter Veltroni fu eletto primo segretario con le primarie, tre milioni e mezzo di votanti – è Arturo Parisi: «Dopo l’approvazione del Rosatellum, grave nel merito e nel metodo, il decennale del Pd, invece di un giorno di festa s’è trasformato in un giorno di lutto». Parisi non è stato neanche invitato.
«UNA SCIATTERIA dell’organizzazione nel coordinamento delle agende», spiega lui con amarezza, «e dire che io e Romano qualche ruolo l’abbiamo avuto». E sì, anche Prodi, fondatore e primo presidente, non ci sarà. «Per un impegno preso in precedenza», la versione del Nazareno. «Non è arrivato nessun invito», quella di chi sta vicino al prof.
NON CI SARANNO MOLTI ULIVISTI della prima ora, del resto: non Rosy Bindi e il resto della vecchia corrente prodiana, pur nelle sue mille e litigiose sfumature. La ragione la spiega Franco Monaco, anche lui di quella parrocchia, oggi ancora un deputato Pd ma tendenza Pisapia: «Intenzionale o meno (cosa è peggio?), il mancato invito a Prodi e agli ulivisti si spiega perfettamente. Quello di oggi non c’entra nulla con il nostro Pd. Emorragia di elettori e iscritti, scissioni più cercate che subite, centrosinistra piccolo e diviso, ammiccamenti a Berlusconi, previsioni elettorali infauste, destra e M5S in salute e da ultimo, una legge elettorale pessima imposta con uno strappo istituzionale. Che c’è da celebrare?».
Ma l’elenco degli illustri assenti spazia fra le correnti: fra i fondatori Francesco Rutelli e l’ex premier Enrico Letta, oltreché i fuoriusciti Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani (due ex segretari), e naturalmente Massimo D’Alema.
ANCHE FRA I LEADER DI OGGI c’è qualche forfait. Non ci sarà il ministro Orlando, della sua minoranza il più alto in grado sarà il governatore Nicola Zingaretti.
Sul palco, nell’ordine, parlerà il primo segretario Veltroni, il presidente del consiglio Gentiloni e il segretario Matteo Renzi. Sotto il palco, a fare il vuoto fra le prime file è un mix di scarsa diplomazia, rancori, disorganizzazione. E dissenso: il fatto che l’appuntamento cada all’indomani dell’approvazione con voto di fiducia del Rosatellum ha inasprito i dissensi. E reso meno opportuno indulgere sull’autocelebrazione.
PROVA A METTERCI UNA PEZZA il vicesegretario Maurizio Martina: il decennale «sarà un momento di festa e riflessione aperto a tutti con grande rispetto per le storie e i contributi personali che hanno attraversato e attraversano ancora oggi la nostra comunità», dice. Aperto, dunque, ma senza inviti, chi vuole viene e ascolta i tre comizi. E così anche Dario Franceschini che sarà «fra il pubblico», «da ex segretario del Pd e da primo capogruppo dell’Ulivo per festeggiare non solo i dieci anni ma anche il passo compiuto (la prima approvazione del Rosatellum, ndr), che spingerà a riunire le forze che in questi anni hanno dato vita proprio a Ulivo e Pd, per battere destra e Grillo». Insomma, la legge spinge «più di tutti gli altri modelli di cui si è discusso negli ultimi mesi, verso le coalizioni e quindi verso la ricomposizione del campo del centrosinistra».
IL MINISTRO, fan della coalizione dei «sistemici» contro «gli antisistema», sa bene che una lista alla sinistra del Pd si troverà per una qualche alleanza nei collegi, da spacciare per uno straccio di centrosinistra. Va da sé, non sarà la lista di ’sinistra’ che gli ex Pd cercano di radunare: «Il Rosatellum allunga la distanza tra noi e il Pd. Non ci sono le basi per un’alleanza elettorale con il Pd. I nostri elettori non ci seguirebbero, piuttosto ci saluterebbero», ha detto da Palermo ieri Massimo D’Alema. A Pisapia fischiano le orecchie
Repubblica 14.10.17
Matteo Renzi.
10 anni del partito festeggiati senza Prodi “Tenda o no, questa è casa sua. Mdp non vuole ricucire”
Il leader dem: “Noi unico argine ai populisti, possiamo puntare al 40% alleandoci a centristi, europeisti e alla sinistra civica”. Sul Rosatellum: “Non era la mia legge ma è un passo avanti, fiducia necessaria”
“Se perde il Pd, salta il sistema coalizione ma senza primarie il candidato premier sono io”
intervista di Tommaso Ciriaco

ROMA. Matteo Renzi, partiamo dalla stretta attualità. Come valuta il Rosatellum?
«Un passo avanti. Non sono entusiasta, naturalmente, perché il 4 dicembre è stato sconfitto il nostro modello istituzionale e il ballottaggio, che garantiva la governabilità. Con la legge Rosato almeno ci sono i collegi. A me piacciono, anzi ne avrei voluto di più».
Il collegio è un passo avanti, ma perché non prevedere il voto disgiunto? Nasconde la voglia di blindare le candidature?
«No, il voto disgiunto lo fa al massimo l’1% degli elettori. È solo un tecnicismo».
Un tecnicismo? In realtà affida all’elettore una scelta più ampia.
«Per me è un tecnicismo, tanto è vero che avevo dato la mia disponibilità a introdurlo. Ma avremmo portato la guerra in casa del centrodestra. E dunque non c’era l’accordo. Poi c’è un altro dato».
Quale?
«Siamo in una fase in cui qualcuno organizza marce su Roma. In cui Di Battista dice che il padre ha dato “una carezza a uno che ha il vitalizio”: vi rendete conto che è un principio violento in una piazza verbalmente violenta? Nel momento in cui la cultura politica della destra scommette sulla paura, noi siamo l’unico argine, l’unica forza di centrosinistra ancora in campo in Europa. In Francia i socialisti sono al 5%, in Olanda al 6%, in Germania c’è stato il risultato peggiore della storia dell’Spd. Se salta il Pd, salta il sistema. Crolla l’argine contro estremisti e populisti. E il problema è il tecnicismo sul voto disgiunto? Siamo seri».
Il Rosatellum apre la strada alle coalizioni. Il centrodestra la farà. E il Pd che vantaggio ha?
«A me lo domandate? Io avevo un’altra idea, e cioè un’unica lista dove invitare Pisapia – che ha sempre detto di no - e gli altri. Ma con la sconfitta al referendum la mia idea diventa secondaria rispetto alla necessità del Pd di costruire una coalizione con la quale difendere l’Italia dal populismo dei grillini e dall’estremismo di Salvini e Berlusconi».
Avete messo la fiducia alla Camera. Non è una forzatura democratica?
«Dissento radicalmente. Parlare di forzatura democratica è inaccettabile. La fiducia è uno strumento democratico che permette di fare le leggi. L’ha messa De Gasperi, non Di Battista. E poi sentirsi dire per due giorni che ho paura delle primarie da un partito azienda, dove fanno le cliccarie – o come diavolo si chiamano – che poi annullano quando vince quello sbagliato, e dove Di Maio prende 59 preferenze a Pomigliano d’Arco, ecco, penso sia un annebbiamento collettivo».
Ma proprio per questo, perché mettere la fiducia?
«Con 120 voti su norme di dettaglio, a tre mesi dal voto, era dura approvare la legge. È senso di responsabilità averla messa. Volete parlarne ancora? Guardate il dito, io penso la luna. Per me è un atteggiamento elitario, da presunto bon ton di galateo politico che non avrebbe prodotto una legge elettorale».
Il caso di De Gasperi è diverso. Allora fu messa al Senato, dopo aver almeno consentito il dibattito alla Camera.
«Conosco la storia, cercai i precedenti per mettere la fiducia sull’Italicum. Sono mesi che si discute, il problema è che si è discusso sin troppo, non troppo poco».
Stavolta non c’era l’ostruzionismo.
«Ma di cosa discutiamo? È mancato dibattito in Parlamento sulla legge elettorale?».
Sul Rosatellum sì. Anche Napolitano dice che è stato strozzato il dibattito.
«Con tutto il rispetto per il Presidente emerito, ho un’opinione radicalmente diversa. Non è la prima volta, ma la stima e il rispetto non vengono certo meno».
Con il Rosatellum le segreterie potranno indicare i tre quarti dei parlamentari?
«Tre quarti no. Certo, erano meglio le preferenze. Io mi volevo candidare al Senato. Ma è una legge imparagonabile rispetto al Porcellum: hai la lista, i tre nomi scritti e un collegio. I candidati gireranno come trottole. A Marradi, sopra Firenze, non ci andava più nessuno col Porcellum. Adesso ci andranno, eccome».
Chi deve favorire la norma ribattezzata “salva Verdini” nel Rosatellum?
«Verdini ormai viene citato in ballo per tutto. E se abbiamo le unioni civili, è grazie a lui. Io non ce lo vedo candidato nel Sud Est asiatico o in Nigeria. Ma il principio di consentire la candidabilità ovunque di tutti i cittadini italiani mi sembra giusto. Anche se francamente secondario».
Con chi costruirà una coalizione?
«Abbiamo quattro margini di azione. Primo: il mondo centrista, dall’ex Scelta civica ad Ap, cattolici e moderati. Secondo: Forza Europa, i radicali, magari coinvolgendo anche personalità dell’attuale governo. Terzo: la galassia ambientalista, a cominciare dai Verdi e dall’associazionismo. Quarto: un mondo di sinistra che, senza voler tirare la giacchetta a qualcuno, credo ci sarà. E in più la rete di alcuni sindaci. Naturalmente con un baricentro forte: il Pd».
Che obiettivo vi date?
«Penso che questa coalizione sia in tutti i collegi sopra il 30% e possa puntare altrove al 40%. Vedremo cosa farà il mondo di Campo progressista, per il quale le porte sono totalmente spalancate ».
In questo ragionamento c’è anche Mdp?
«Hanno rotto loro e i loro leader non vogliono ricucire. La loro rottura si spiega solo con il risentimento. Però sottovalutano un dato: la seconda Repubblica era caratterizzata dall’idea che un leader fa un partito, poi se ne va e quel partito finisce. La vera novità del Pd è che non appartiene a un leader. Ci sarà anche tra dieci anni, ovunque saranno Renzi, Veltroni o Gentiloni. Questa comunità esiste, comunque. È quello che non hanno capito Bersani e D’Alema. E che, prima di loro, non aveva capito Rutelli. Loro se ne sono andati, il Pd c’è ancora. Ed è più forte di prima».
Più o meno dieci anni fa il Pd si presentò con un’ampia alleanza, dopo primarie di coalizione. Ci saranno anche questa volta?
«Con questa legge elettorale, il leader del Pd è per statuto candidato premier del Pd.Questo punto non lo mettiamo in discussione. Quello che deciderà la coalizione, purtroppo lo vedremo dopo. Non credo che ci saranno primarie di coalizione ».
Pisapia ha detto che Gentiloni è un profilo altissimo. Non basterebbe schierare l’attuale premier per riunire il centrosinistra? Lei segretario, lui candidato a Chigi.
«La coalizione si fa sulle idee comuni, non sulla sistemazione di posti. Quanto a Paolo, condivido: è un profilo altissimo. E con buona pace di chi sperava che litigassimo lavoriamo insieme e bene. Continueremo così».
E farete quel governo con Berlusconi dopo le elezioni, di cui parlano in molti?
«Se con la coalizione facciamo il 40% governiamo da soli. Mica facile, eh, ma ci proviamo. Berlusconi vuole governare con Salvini, io voglio governare con il centrosinistra».
Sempre parlando di fiducia: l’avete messa sul Rosatellum, perché non sullo ius soli?
«Per me lo ius culturae arriverà. È scritto. Non so se in questa legislatura o nella prossima, questo non so dirlo. Però so una cosa: farne l’unica battaglia di principio paradossalmente non fa l’interesse dei soggetti a cui è rivolta. È un problema tattico, direi. Lo dice uno che ha ottenuto una legge sulle unioni civili tenendola bassa, e oggi si commuove quando incontra in aereo due ragazzi che, mano nella mano, mi dicono: “Stiamo partendo in viaggio di nozze”».
Delrio fa lo sciopero della fame mentre Boschi parla di rinvio della legge. Il governo non dovrebbe mostrarsi unito?
«Parliamo di due amici del cosiddetto Giglio magico, che hanno lavorato in tandem alla legge. Graziano è stato l’ispiratore da sindaco, Maria Elena ha siglato l’accordo di merito quando era ai rapporti col Parlamento. Graziano, che soffre per la legge - che la vive come battaglia di vita o di morte – a domanda risponde che è disposto a fare lo sciopero, gesto che rispetto ma che non farei. Maria Elena ha detto che se non ci dovessero essere i numeri in questo giro, si farà nel prossimo. Dov’è la differenza?».
Che il prossimo giro non è nella vostra disponibilità.
«Sveliamo un segreto: se fosse stata nella nostra disponibilità anche adesso, sarebbe già passata. Ma non lo è, non ancora almeno».
Con la fiducia passerebbe, ma il Pd non la chiederà?
«Deciderà Gentiloni. E qualsiasi cosa deciderà avrà il mio totale supporto e appoggio. Siamo una squadra, ve ne siete accorti?».
Nel decennale del Pd, può elencare tre cose incarnate oggi da questo partito?
«Primo: capacità di innovazione. La sinistra è futuro, o non è. Bisogna studiare nuove forme di protezione, scommettere sull’ambiente, seminare speranza. Secondo: se il M5S con il reddito di cittadinanza è il partito dell’assistenzialismo, se FI e la Lega sono quello della rendita, il Pd è il partito del lavoro. Abbiamo creato 978 mila posti di lavoro in tre anni grazie al JobsAct, il 61% a tempo indeterminato. Abbiamo un compito storico: archiviare la filosofia del fiscal compact. E dobbiamo tornare ai parametri di Maastricht, con il deficit sotto il 3%, avremmo 40 miliardi di euro di riduzione delle tasse e di investimenti».
Si ferma, disegna cifre. «Un milione di posti di lavoro... Ora direte che sono come Berlusconi, solo che il mio milione è vero!».
Il terzo punto?
«Il Pd ha l’idea dell’Italia come comunità. Non solo il Pil che cresce, ma diritti, cultura, educazione. Abbiamo riaperto musei a Reggio Calabria e Taranto, fatto ripartire Pompei, scommesso su Matera o Bagnoli, stanziato 1,7 miliardi sulla povertà».
A proposito del decennale: ci saranno assenti illustri, come Bersani e Prodi.
«Nessuno poteva certo aspettarsi che venisse Bersani. Quanto a Prodi, continuo a pensare che tenda o non tenda, il Pd sia la casa di Romano. Il mio augurio è che lui si senta sempre a casa. E se anche una singola scelta non è andata giù, il discorso dell’argine ai populisti vale per tutti noi, specie per chi come Prodi volle l’Ulivo come prima casa dei riformisti. Domani (oggi) festeggiamo con Walter Veltroni: a lui si deve l’intuizione originaria e sono felice che in teatro ci saranno vecchi dirigenti della nostra storia e nativi democratici».
Renzi, non pensa di aver perso la connessione sentimentale con la sinistra?
«Non credo. Ho perso il consenso di alcuni ex leader, ma i dati nei circoli più rossi delle primarie dicono che la base ex comunista del Pd nutre un affetto impressionante, persino immeritato, per il segretario. Le famiglie di origine del Pd, ormai, non si distinguono. Sull’immigrazione quello più di sinistra è stato Delrio, che viene dalla-Margherita, mentre quello più di destra Minniti, che proviene dal Pci».
Le amministrative siciliane incombono: teme che destabilizzino la sua segreteria?
«No. Per scegliere il segretario del Pd ci vogliono le primarie nazionali, non le regionali siciliane. Le abbiamo fatte cinque mesi fa, sarebbe curioso se qualcuno volesse rifarle».
La Stampa 14.10.17
Il Pd e la grande beffa dei collegi
Renzi spiazzato: “Non ci credo”
Nei sondaggi i democratici col Rosatellum ne conquisterebbero meno di centrodestra e M5S. Effetto negativo di Mdp nelle regioni rosse
di Fabio Martini

Al Pd la chiamano già la “beffa dei collegi”. Dopo che proprio Matteo Renzi si è battuto per inserire nella legge elettorale (approvata l’altroieri alla Camera) centinaia di collegi uninominali, ieri mattina la lettura di un ampio sondaggio della Ipsos ha suscitato qualche brivido sulla schiena dei notabili Pd. In base ad una elaborazione spalmata su tutto il territorio nazionale, affiorano tre dati spiazzanti. Il primo: se si votasse oggi, nei collegi il Pd e l’alleato Alfano se ne aggiudicherebbero pochi (58), molti meno della coalizione di centro-destra (108 collegi-Camera), ma a sorpresa meno anche del solitario Movimento Cinque Stelle (70). Una cattiva performance, quella del Pd, che è determinata dalla seconda sorpresa: nelle regioni “rosse” il Pd non farebbe il consueto “cappotto”, in particolare in Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Liguria e anche Campania. Terza sorpresa. Lo studio Ipsos dimostra che con l’Italicum “corretto”, la legge elettorale attualmente in vigore e ricavata dalle sentenze della Consulta, il Pd conquisterebbe alla Camera 178 seggi, mentre il Rosatellum in via di approvazione gliene assegnerebbe 163.
Quando Matteo Renzi ha letto il sondaggio, pare che abbia espresso profondo scetticismo: «Non ci credo...». Nel senso che il leader del Pd è impegnato nel tentativo di creare una coalizione di liste attorno al suo partito e proprio grazie a questi convogli aggiuntivi, si immagina di invertire il destino “cinico e baro” suggerito dallo studio Ipsos. Destino inatteso perchè a partire dal 1996, i partiti di centrosinistra sono andati sempre bene nei collegi. In particolare nelle “regioni rosse”, dove l’antico insediamento del Pci ha consentito ai suoi eredi politici risultati ragguardevoli. Nel 1996 in Emilia-Romagna l’Ulivo (a trazione Prodi) vinse in 31 collegi su 32, nel 2001 (quando le elezioni le vinse Berlusconi), il cappotto si ripetè: 30 contro i 2 collegi vinti dal centrodestra. Ed ecco la sorpresa: col Rosatellum voluto da Renzi, in Emilia il Pd vincerebbe in meno metà dei collegi (5 su 11). Nelle Marche, nel 1996 l’Ulivo conquistò 11 collegi su 12, oggi ne prenderebbe 2 su 7, in Liguria 10 su 14 nel 1996 e oggi 2 su 7. L’en plein sarebbe confermato soltanto in Toscana con 12 collegi vinti su 14.
Una caduta che ha una spiegazione quasi “meccanica”. Sostiene Piero Martino, già portavoce del Pd durante la segreteria Franceschini e che da qualche settimana è passato con Mdp: «Nei collegi delle regioni “rosse”, le percentuali che vengono attribuite a Mdp sono superiori a quelle della media nazionale e dunque quando al candidato del Pd venisse a mancare un 6-8 per cento in un collegio, questo finirebbe per diminuirne le possibilità di vittoria».
Certo, Renzi medita di rimontare, almeno un po’, con la predicazione del “voto utile”. E anche con le liste alleate del Pd, che nelle sue intenzioni sono destinate a coagulare una coalizione con una somma finale superiore a quella del centro-destra. Ma per ora siamo ancora ai preliminari. È sfumata la suggestione di una lista-Calenda, un agglomerato capace di “parlare” al mondo delle imprese: il ministro dello Sviluppo economico ha declinato l’offerta del Pd. Carlo Calenda potrebbe partecipare al “laboratorio” della lista Pisapia-Bonino ancora in mente dei? Da quelle parti si attende la manifestazione dei Radicali italiani del 28 e 29 ottobre, nella quale sono previsti come relatori, oltre a Carlo Calenda e Roberto Saviano, anche Enrico Letta e Romano Prodi. Una lista che, se mai si facesse, sarebbe alleata del Pd, ma - il segretario lo sa - anche quella capace di sottrarre più voti al partito di Renzi.
Il Fatto 14.10.17
I dilemmi di Grasso, ma in Senato il rischio è il numero legale
L’ex magistrato ancora non commenta l’ipotesi fiducia A Palazzo Madama, però, potrebbero servire i voti di B.
I dilemmi di Grasso, ma in Senato il rischio è il numero legale
di Gianluca Roselli

Il giorno che questa maggioranza spuria in perfetto Nazareno style ha segnato con un cerchietto rosso sul calendario è martedì 24 ottobre: per quella data Renzi, Gentiloni, Berlusconi, Salvini, Alfano e Verdini vogliono veder approvata la legge elettorale anche in Senato. Il testo martedì prossimo arriverà in commissione Affari costituzionali, per poi approdare in aula dopo una settimana. La domanda che rimbalza da Montecitorio a Palazzo Madama è: in Senato le cose andranno diversamente? Sarà posta la fiducia come alla Camera? Per evitare il voto segreto no, visto che in Senato non è previsto.
La fiducia, però, qui tornerebbe utile per accorciare i tempi e spazzare via gli emendamenti delle opposizioni. Matteo Renzi, si sa, vuole chiudere la partita velocemente, prima del voto siciliano del 5 novembre. E prima della sessione di Bilancio. Ma se la fiducia verrà posta, Pietro Grasso potrebbe tenere un atteggiamento diverso rispetto a quello di Laura Boldrini? Da Palazzo Madama arrivano parole improntate all’estrema cautela. “Il presidente reputa che siamo ancora solo a ricostruzioni giornalistiche, quindi per ora nessun commento sui tempi e nemmeno sulla fiducia” fanno sapere. Qualcuno, però, da sinistra guarda a Grasso con un filo di speranza, specialmente da Mdp, partito con cui l’ex magistrato negli ultimi tempi ha dimostrato di avere un ottimo feeling, partecipando, ricoperto da applausi, anche alla festa di Napoli. Difficile, però, che il presidente del Senato possa non diciamo opporsi, ma nemmeno criticare l’eventuale richiesta del governo, anche perché qui i poteri del presidente sono anche più limitati rispetto a Montecitorio.
Oltretutto anche ammettendo che a Grasso la fiducia sulla legge elettorale non piaccia, sull’ex magistrato potrebbe pesare il fatto che su questo aspetto non avrebbe nemmeno la copertura politica di Sergio Mattarella, che ha posto la riforma del sistema di voto come priorità assoluta. Insomma, la strada per mettersi di traverso, anche solo a livello di moral suasion, appare assai stretta.
La fiducia, però, in Senato è un’arma a doppio taglio da maneggiare con cura. Perché, se è vero che essa accorcia i tempi del dibattito, è anche vero che obbligherà i partiti di centrodestra pro Rosatellum – Forza Italia e Lega – a uscire dall’aula al momento delle votazioni, perché qui la sola astensione vale come voto contrario. Ma se oltre a loro usciranno dall’emiciclo anche tutti gli anti-Rosatellum, per il Pd potrebbe porsi un serio problema numerico. In aula, infatti, resterebbero solo Pd, Ap, Autonomie e qualche senatore sparso, raggiungendo a mala pena le 140-145 presenze, ben al di sotto della quota minima di 161. Creando anche un serio problema di numero legale. Pure i 14 verdiniani potrebbero non bastare, obbligando il Pd ad andare a caccia di senatori dell’opposizione disposti a votare la fiducia al governo. Alla fine la soluzione si troverà, ma il rischio che la legge venga impallinata è serio e non si potrà sbagliare nulla.
Senza fiducia, invece, i numeri del Rosatellum bis in Senato sono larghi: Pd, Lega, Forza Italia, Ap e Ala assicurano 191 voti, che arrivano a 220 se si aggiungono quelli di Idea di Quagliariello, Direzione Italia di Fitto e le Autonomie. Il Rosatellum bis verrebbe quindi approvato in scioltezza, ma col rischio di andare per le lunghe. E Renzi non può permettersi di non portare a casa la legge prima del probabile tonfo in Sicilia.
Il Fatto 14.10.17
Paolo Mieli
“Il Rosatellum? Legge criminale, pensata per penalizzare il M5S”
In libreria il suo ultimo saggio: per l’ex direttore la vera “tara” della nostra politica sta proprio nel non rassegnarsi all’alternanza di governo
di Silvia Truzzi

Nei suoi libri Paolo Mieli non fa solo i conti con la Storia, cerca anche i fili che intrecciano passato e presente. Il sottotitolo dell’ultimo saggio, Il caos italiano, lo spiega bene: “Alle radici del nostro dissesto”. Partiamo dall’alba tormentata dell’Unità d’Italia, per arrivare a un non meno inquieto oggi, ricordando sempre che in greco antico caos vuol dire vuoto.
Lei individua una tara genetica nella politica italiana, ed è il rifiuto dell’alternanza.
Se tutti i Paesi del mondo hanno scelto la strada dell’alternanza, mandando per via elettorale una volta al governo una parte politica e la successiva l’altra parte, un motivo ci sarà. Noi non abbiamo mai imparato a praticare l’alternanza. Dal 1861, quando ci siamo formati come Stato unitario, la prima volta in cui con il voto una maggioranza ha passato il testimone a un’altra di segno opposto, è stato nel 2001. La vicenda del ‘94-’96 è di altro segno, simile al primo cambio di maggioranza, nel 1876, dalla Destra alla Sinistra storica. Il governo presieduto da Minghetti inciampò su un provvedimento in tema di ferrovie: si formò una maggioranza trasversale in Parlamento guidata da De Pretis che sei mesi dopo si presentò alle elezioni, vincendole.
Le maggioranze si formano prima con ammucchiate parlamentari e poi si presentano agli elettori.
Non c’è mai un momento in cui il popolo decide. Le strade per liberarsi di questi ‘grumi parlamentari’ sono gli infarti. Fu infarto la crisi di fine Ottocento, fu infarto la marcia su Roma nel ‘22 così come Tangentopoli nel 1992.
Trasformismo ante litteram.
Esattamente: il trasformismo vero e proprio nasce tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento e si presenta come dottrina virtuosa. A Sinistra la usano come parola positiva: le presenze parlamentari estreme si portavano verso il centro.
Nel libro indica più volte, riferendosi a diversi momenti storici, una causa di questa situazione nel vizio di delegittimare l’avversario.
L’Italia è stata fatta da una ristretta élite che aveva il popolo all’opposizione. Le masse, negli Stati preunitari, erano indifferenti al Risorgimento. Tutta la dialettica maggioranza-opposizione procede per delegittimazione, passa per accuse di tradimento degli ideali, corruzione e via dicendo. L’avversario non merita di andare all’opposizione, merita di essere defenestrato. Sfogliando la pubblicistica degli ultimi 160 anni, l’avversario è sempre uno da levare di mezzo.
A sinistra, negli ultimi decenni, è stato così. Veltroni nel 2008 nemmeno nominava Berlusconi…
Anche prima! Quello che lei ricorda fu un tentativo di declinare il discorso che sto facendo io. Forse era fuori tempo. Però l’Italia è l’unico Paese in cui dall’altra parte della mia opzione politica c’è sempre un mostro. E contro il mostro non s’invoca la propria vittoria, ma soluzioni straordinarie, le famose ammucchiate, per evitare il trionfo del mostro. Una volta, due, tre può essere ammissibile… per 160 anni no. I Paesi funzionano meglio quando c’è l’alternanza.
Non sembra che alle viste ci siano soluzioni, anzi.
Io sono ottimista. Sono sicuro che torneremo, in un tempo ragionevole, a una sana dinamica dell’alternanza. Gli elettori non sopportano l’idea che già durante la campagna elettorale si alluda alle larghe intese con la scusa che non ci saranno maggioranze. Chi vota a sinistra vuole che la sinistra o vada al governo con la sua identità o vada all’opposizione. Stessa cosa vale per la destra. Abbiamo alle spalle cinque anni in cui entrambe le identità sono state snaturate, questo porterà acqua al mulino dei 5Stelle. Penso che avremo una stagione di elezioni ravvicinate, a differenza di quanto abbiamo visto dal 2013 a oggi. Peraltro queste maggioranze ‘spurie’ hanno trovato la propria legittimazione nelle riforme costituzionali, andate poi in frantumi. Escluderei che se ne facciano altre con identico impianto: senza quella scusa non si trovano ragioni per alleanze innaturali.
Ha definito il Rosatellum “criminale”.
Ci fa fare una figuraccia, anche a livello internazionale. Non si fa una legge che appare contro il partito che potrebbe essere, secondo molti sondaggi, il partito di maggioranza relativa alle prossime elezioni. Siccome notoriamente è un partito che non fa alleanze, prendere lo stato di cose esistenti – i sistemi risultanti dalle sentenze della Consulta – e modificarlo in modo da danneggiare quel partito, è criminale e autolesionista. Chi l’ha voluta farà male soprattutto a se stesso. Mentre il centrodestra è un’alleanza tra diversi e ognuno porta una dote, il centrosinistra è fatto dal Pd con piccole appendici (Alfano, Pisapia). Sarebbe meglio che si presentassero da soli: i seggi sottratti ai Cinque Stelle andranno al centrodestra. I 5Stelle uscivano indeboliti dalle ultime vicende, ma questa legge che sembra fatta contro di loro, li agevola.
La Stanpa 14.10.17
Cacciari
“Una legge ignobile per fermare i grillini
Ma ora alimenterà populismi peggiori”
Il filosofo Cacciari: “Temo che Matteo si sia bevuto il cervello”
di Francesco Grignetti

«Sbaglierò io, sono pronto a inchinarmi davanti ai grandi strateghi della politica, ma mi sembra che Renzi stavolta si sia bevuto il cervello...». Caustico come sempre, il professor Massimo Cacciari. Che vede nero, anzi nerissimo. «Siamo sull’orlo di un’esplosione di malcontento che non verrà più controllata da nessuno. Qui si gioca con il fuoco».
Cacciari, questa legge elettorale non le va proprio giù.
«Lasciamo perdere che si riproduce un Parlamento di nominati. E lasciamo perdere che lo fanno a colpi di voti di fiducia. Quel che più mi indigna è che fanno una legge solo per fottere i grillini; li capisco se protestano. È stata una mossa ignobile. In cambio dal giorno dopo avremo l’ingovernabilità delle accozzaglie politiche. Delle pseudocoalizioni. Della paccottiglia. Più una marea di partitini perché lo sbarramento al 3% è una burla».
Ma la legge non nasce per aiutare il formarsi di coalizioni omogenee?
«Guardi, la logica di questa legge è chiarissima. Con i collegi, i grillini vengono tagliati fuori perché non hanno nessuno con cui coalizzarsi e gli resta solo la quota proporzionale. Ma il Pd secondo me non ha fatto bene i suoi calcoli. Renzi con chi si va ad alleare? Con Alfano? Non so in Sicilia, ma qui al Nord con Alfano i voti si perdono. Oppure con Pisapia? Ma dai. L’unico effetto che vedo è che bersaniani e compagnia si raggrupperanno in chiave antirenziana. E che anche il centrodestra si unirà: dio non voglia, magari vincerà le elezioni. Capisco bene, quindi, l’interesse di Berlusconi: gli hanno ridato centralità. E capisco pure l’interesse di Salvini, che si è fatto i suoi calcoli, e medita di ripercorrere la strada di Bossi che nel 1994 si fece pagare caro, in numero di seggi sicuri, l’appoggio a Berlusconi».
Meglio sarebbe stato, per Renzi, affidarsi al proporzionale?
«Certo. Non ci sarebbero state queste forzature che sono tutte fascine per il fuoco grillino. E poi, una volta in Parlamento, i partiti avrebbero visto il da farsi. Al limite, anche un accordo con Forza Italia sarebbe stato visto come il male minore. Ma ora, con le coalizioni contrapposte, come possono immaginare di fare un governo assieme il giorno dopo il voto? Tatticamente parlando, io questa mossa di Renzi non la capisco proprio».
Forse si guarda un po’ troppo alle dinamiche di Transatlantico e non abbastanza alla società italiana?
«Appunto. Io vedo solo l’ossessione di non far vincere i grillini, che con il proporzionale magari sarebbero arrivati primi e Mattarella avrebbe avuto l’imbarazzo di dare l’incarico a Di Maio. Ma intanto si approfondisce il fossato tra la politica e la società. E temo seriamente che dopo i grillini vengano altri populismi, eversivi, non antipolitici ma antisistema. Bisognerebbe pensare più alla povertà, alle diseguaglianze, alla disoccupazione giovanile che sta al 35%, al precariato universale. Invece no, procedono a colpi di maggioranza, e non fanno altro che rinfocolare i risentimenti».
Il Fatto 14.10.17
Il budino letale e puzzolente dei soliti cuochi
di Gianfranco Pasquino

Inquinato, da tempo, con riferimenti a una governabilità che consisterebbe nel premiare con molti seggi un partito e a una rappresentanza politica che sarebbe delega totale ai capipartito e ai capi corrente, il dibattito sulla legge elettorale è culminato con l’affermazione di Sabino Cassese che “la prova del budino sta nel mangiarlo” e con la sua valutazione positiva del budino perché ha “armonizzato” le leggi elettorali per Camera e Senato. Lascio da parte che a qualcuno, me compreso, i budini non piacciono, ci sono comunque molte buone ragioni per evitare persino di assaggiarlo: quando conosciamo i cuochi e, sulla base di budini precedenti, non ci fidiamo; perché quel budino è fatto di ingredienti di bassissima qualità già usati nel passato; perché è maleodorante e rischia di avvelenare in maniera letale oppure lasciando durature conseguenze inabilitanti.
Il budino Rosatellum bis sintetizza tutte le ragioni che lo rendono pericoloso anche per la democrazia rappresentativa. No, persino a detta dei proponenti non garantirà la governabilità, ma le leggi elettorali, dappertutto e soprattutto nelle democrazie parlamentari, debbono eleggere “bene” un Parlamento, mai un governo e mai “fabbricare” una maggioranza assoluta. La governabilità la può garantire esclusivamente una classe politica preparata, competente, selezionata anche dagli elettori. Se i parlamentari sono tutti nominati, dai capi dei rispettivi partiti nonché dai capicorrente (a mo’ d’esempio chiedo: rinuncerà Franceschini a nominare i suoi sostenitori? Farà a meno Orlando di imporre i suoi collaboratori e, per cambiare registro, ottenuta la sua personale clausola di salvaguardia-seggio, il mio ex-studente Denis Verdini abbandonerà alla deriva i “verdiniani”?) che tipo di rappresentanza di preferenze, di interessi, di ideali (sì, lo so, nello slancio mi sono allargato) gli eletti saranno in grado di offrire? Il problema non si pone soltanto proprio per quegli eletti che, inevitabilmente, dovranno mostrare la loro gratitudine agli sponsor (incidentalmente, per quelli che paventano le conseguenze nefaste del voto di preferenza, davvero si può credere che le organizzazioni di interessi, le lobby non si preoccupino di fare inserire in quelle liste qualcuno sul quale faranno affidamento?), si pone anche per gli elettori. Da un lato, non sapranno chi è il/la loro rappresentante che, comunque, da loro non si farà vedere più di tanto il loro rientro in Parlamento non dipendendo in nessun modo da quegli elettori, ma dai capi: lo zen Renzi, l’avvocato Ghedini, Alfano e Lupi…, quegli eletti impiegheranno il loro tempo e le loro energie in altre attività, per esempio, nel vagabondare fra gruppi parlamentari seguendo l’acclamata prassi italiana del trasformismo. D’altronde, non essendo stato introdotto nella legge neppure un requisito minimo di residenza nel collegio nel quale si viene candidati (oops, paracadutati) e anche protetti, grazie alla possibilità delle multicandidature (fino a cinque), bisognerebbe costruirli ab ovo quei rapporti con l’elettorato: troppa fatica per nulla. Gli eletti potenti sapranno farsi ricandidare altrove. In questo modo, comprensibilmente, la legge non offre possibilità di rappresentanza politica, ma neppure di responsabilizzazione che, ad esempio, consentirebbe agli elettori che hanno trangugiato un budino andato a male di chiederne conto ai parlamentari che hanno contribuito a metterlo sul mercato elettorale. Invece, chi non può sapere da chi è stato eletto non dovrà minimamente preoccuparsi di rendere conto dei suoi comportamenti, nel mio mantra: di quello che ha fatto, non ha fatto, fatto male. Peccato poiché raccontano alcuni studiosi della democrazia, persino italiani, come Giovanni Sartori, che l’interlocuzione e l’interazione fra candidati e elettori e poi fra i parlamentari e l’elettorato, non unicamente il “loro” (peraltro, sconosciuto): “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” (art. 67), stanno al cuore di una democrazia rappresentativa, la fanno pulsare e le danno energia.
Infine, molti studiosi e, per fortuna, anche molti uomini e donne in politica continuano a ritenere che le leggi elettorali debbano essere valutate anche con riferimento alla quantità di potere che consentono di esercitare ai cittadini elettori. Una crocetta su un simbolo che serve a eleggere un candidato e dare consenso a un partito o a una coalizione è proprio il minimo. Per rimanere nella logica di Rosato e di chi per lui “non si poteva fare meglio”, certo che si poteva fare meglio: con la possibilità del voto disgiunto previsto e ampiamente utilizzato in Germania oppure con il doppio turno nei collegi uninominali come per l’elezione dell’Assemblea nazionale in Francia. Buttate, voi senatori, l’Italian pudding nella raccolta indifferenziata. Non c’è nulla da riciclare.
il manifesto 14.10.17
Risposta a Boldrini, i precedenti sono altri
L'approvazione alla camera con il voto di fiducia della legge elettorale (Rosatellum)
di Felice Besostri

Non voglio nemmeno adombrare che la Presidente della Camera Boldrini non abbia agito in buona fede: sarebbe inquietante pensare il contrario.
Resta il fatto che, venuta meno la prassi di nominare alla presidenza di una camera parlamentari di lungo corso, con pratica di vicepresidenti, ovvero di esponenti dell’opposizione, chi presiede rischia di prendere per oro colato i suggerimenti degli uffici, per i quali la prassi è Vangelo; fosse Talmud sarebbe invece dialettica.
Tuttavia ci sono momenti in cui, in relazione alla sensibilità politica, istituzionale e soprattutto costituzionale della materia, occorre verificare fino in fondo la prassi.
Si racconta che quando dissero a Fanfani che nella prassi regolamentare non c’erano precedenti, nel senso da lui auspicato, rispose :«Se non c’è un precedente lo si crea!».
In effetti l’unico precedente che giustifica la Presidente Boldrini sulla fiducia al Rosatellum è quello da Lei stessa creato ammettendo tre voti di fiducia sull’Italicum nel 2015.
Tutti gli altri precedenti alla Camera non riguardano leggi elettorali nel loro complesso.
Trattandosi di un articolo della Costituzione, non modificato, come l’articolo 72 della Costituzione, poiché siamo ancora un sistema bicamerale paritario, si poteva richiamare il precedente del Senato nella domenica delle Palme, 8 marzo 1953.
Gli uffici della presidente Boldrini non l’hanno fatto, credo, per tre ragioni.
La prima che è ogni camera è gelosa della propria prassi.
La seconda per non evocare l’unico precedente a Costituzione invariata, collegato a una legge conosciuta come «legge truffa».
La terza e più importante, perché il Presidente, della seduta, Giuseppe Paratore, fece mettere a verbale, fatto inusitato, «Quindi questo non rappresenta un precedente».
Quel precedente non andava evocato soprattutto perché Paratore, non avendo gradito l’imposizione del Presidente del Consiglio De Gasperi (non Gentiloni) si dimise il 24 marzo, 16 giorni dopo. Ma era un uomo di 77 anni e non agli esordi di una carriera politica.
L’argomento che l’articolo 116 comma 4 del regolamento della Camera non esclude le leggi elettorali prova troppo, cioè nulla perché non esclude nemmeno le leggi in materia costituzionale.
Cosa dovremmo aspettarci, grazie a questa prassi regolamentare? Una Costituzione approvata a colpi di voti di fiducia?
Infine invece che la Presidente Iotti del 1990, gli uffici avrebbero dovuto dare alla Presidente Boldrini copia del Lodo Iotti del 1980. Dal quale risulta chiaro che quando si chiede la fiducia la procedura da normale diventa speciale.
il manifesto 14.10.17
Cgil, Cisl e Uil: cento piazze per una manovra
La protesta. Manifestazioni oggi in tutto il Paese per una legge di Bilancio che contenga welfare, occupazione e pensioni. Lunedì l'incontro con il ministro Poletti e l'approdo della finanziaria in Consiglio dei ministri
di Antonio Sciotto

Alla vigilia della presentazione della legge di Bilancio – attesa lunedì al Consiglio dei ministri – i sindacati si fanno sentire: manifestazioni oggi in molte città italiane, a partire da Milano, Firenze e Matera, dove parleranno in piazza rispettivamente Susanna Camusso (Cgil), Annamaria Furlan (Cisl) e Carmelo Barbagallo (Uil). La piattaforma di richieste è tanto semplice quanto difficile da concretizzare – lavoro, previdenza, welfare e sviluppo – visto che il governo guidato da Paolo Gentiloni sembra guardare ad altre priorità. E intanto, sempre per lunedì ma in mattinata, il ministro del Lavoro Poletti ha convocato i tre sindacati, giusto per non interrompere il dialogo in una fase sicuramente non delicata.
Ieri, comunque, il Consiglio dei ministri non è rimasto con le mani in mano: ha varato il dl fiscale allegato alla legge di Bilancio, con misure – dalla rottamazione bis delle cartelle esattoriali a una estensione dello split payment – che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha definito «propedeutiche alla legge di Bilancio».
Una efficienza che non concquista Cgil, Cisl e Uil, che hanno già preparato le bandiere da srotolare in tante piazze. Pronte a rivendicare: 1) più risorse sia per l’occupazione giovanile che per gli ammortizzatori sociali; 2) il congelamento dell’innalzamento automatico dell’età pensionabile legato all’aspettativa di vita; 3) un meccanismo che consenta di costruire pensioni dignitose per i giovani che svolgono lavori discontinui; 4) riduzione dei requisiti contributivi per l’accesso alla pensione delle donne con figli o impegnate in lavori di cura; 5) l’adeguamento delle pensioni in essere.
E non basta, Cgil Cisl e Uil chiedono ancora: la piena copertura finanziaria per il rinnovo e la rapida e positiva conclusione dei contratti del pubblico impiego; risorse aggiuntive per la sanità e il finanziamento adeguato per assistere che non è autosufficiente.
Camusso ricorda che molte richieste del sindacato (come quelle sulle pensioni e sulla previdenza dei giovani) erano già «in gran parte contenute nel verbale sottoscritto un anno fa» con il governo. «Sono – spiega la leader Cgil nel dettaglio – il congelamento dell’aumento automatico dell’età pensionabile legato all’aspettativa di vita, la costruzione di una prospettiva previdenziale per i giovani e il riconoscimento del lavoro di cura, la modifica e l’estensione dell’Ape sociale e dell’intervento per i lavoratori precoci, la rivalutazione delle pensioni e migliori condizioni di accesso alla previdenza integrativa».
E ancora, secondo la Cgil «è importante rafforzare e sostenere gli investimenti, pubblici e privati, e gli strumenti di politica attiva e passiva di governo del mercato del lavoro, ad iniziare dalla proroga degli ammortizzatori sociali».
«Abbiamo detto basta con le finanziarie lacrime e sangue, basta con le risorse distribuite a pioggia o a fini elettorali», aggiunge la segretaria Cisl Furlan. «Con le poche risorse a disposizione – aggiunge -si possono fare provvedimenti importanti per le assunzioni dei giovani, per le infrastrutture e gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione, rinnovare i contratti pubblici e ridurre la povertà». «Occorre selezionare bene gli interventi e guardare ai bisogni veri delle persone – conclude Furlan – Servono incentivi fiscali per le imprese che investono non solo in tecnologia ma anche nel capitale umano e nella formazione dei lavoratori. Bisogna irrobustire l’apprendistato, finanziare le politiche attive e l’alternanza scuola lavoro. E poi dobbiamo far crescere le buste paga dei lavoratori e le pensioni bloccate da anni. C’è una questione salariale nel nostro paese».
La Stampa 14.10.17
Un milione di lavoratrici vittime di ricatti sessuali
Il caso Weinstein non è solo un fenomeno americano In Italia non abbiamo nemmeno una legge ad hoc
di Linda Laura Sabbadini

Il caso Weinstein a Hollywood, con tante donne dello spettacolo vittime di questo odioso atto di potere sessista, ha richiamato l’attenzione su una forma di violenza di cui si parla ancora pochissimo: il ricatto sessuale sul lavoro. È una forma di violenza odiosa, umiliante per le donne, ma assai diffusa. In sostanza, l’uomo sfrutta la sua posizione di vantaggio o di potere, per ottenere prestazioni sessuali da donne in difficoltà o da donne che vogliono mettersi in gioco, per progredire nella carriera.
Non succede solo negli Stati Uniti. Non succede solo nel mondo dello spettacolo. I ricatti sessuali sul lavoro sono un’orribile realtà anche nel nostro Paese, misurata dall’Istat nel 2015-2016. Colpiscono tantissime donne, più di un milione li ha subiti nel corso della vita, quando cercavano lavoro, quando volevano fare carriera o semplicemente svolgevano il loro lavoro da libere professioniste o imprenditrici.
L’identikit delle vittime
Le indagini dell’Istat passate evidenziavano che subiscono ricatti sessuali più le disoccupate che le occupate, perché più vulnerabili, avendo bisogno di lavorare; più le indipendenti che le dipendenti, probabilmente perché vendono prodotti e servizi a grandi acquirenti, più frequentemente maschi che possono approfittarsene; più le impiegate e dirigenti che le operaie, perché più coinvolte in percorsi di carriera, per i quali devono sottoporsi al giudizio di superiori, di solito uomini.
Relazioni asimmetriche
E ci sono uomini che sfruttano le situazioni asimmetriche a sfavore delle donne, abusano del potere che hanno, abusando del corpo e dell’anima delle donne. «Sono abituato a fare così, non fare storie» ordinava Weinstein, come a dire, tu sei la mia preda, obbedisci, dispongo io di te. È la stessa logica del possesso che porta un marito a stuprare sua moglie, un imprenditore ad abusare della segretaria e un direttore a ricattare una funzionaria, aspirante dirigente. È terribile, anche perché le donne vivono questo tipo di violenza ancora più in solitudine. Solo il 20% ne parla con qualcuno, di solito colleghi di ufficio. Solo lo 0,7% denuncia. D’altra parte chi mai sarebbe disponibile a testimoniare? Nessuno. Chi si esporrebbe alle ritorsioni del capo? Anche i colleghi più vicini alla donna si sentirebbero ricattati e vedrebbero in pericolo il loro stesso posto di lavoro.
Italia inadempiente
C’è di più. Siamo inadempienti con il dettato della convenzione di Istanbul. Non abbiamo una norma specifica che riguarda i ricatti sessuali sul lavoro. Lo afferma anche il presidente di Sezione del Tribunale di Milano Fabio Roia: «Si può utilizzare l’art. 572 del codice penale, ma solo per le piccole imprese a conduzione familiare. Altrimenti bisogna rifarsi alla legge sulla violenza sessuale del 1996. Ma ciò impedisce di punire tutta quella parte di violenza che ha a che fare con le allusioni pesanti contro la donna, quotidiane, continue, che fanno intravedere che lei è consenziente e che è di facili costumi e la isolano dagli altri colleghi».
La rinuncia al lavoro
È la tecnica per mettere in un angolo la donna per ricavarne di più in termini sessuali costringendola a stare al gioco. La maggior parte delle donne fugge, finisce per lasciare il lavoro, sfinita dal clima insopportabile. Ma chi non può permetterselo e magari ha da sfamare anche i suoi bambini? E così ci troviamo nel paradosso del nostro Paese, che ha una legge importante come quella del 1996, che vieta che la donna da vittima si trasformi in imputata, ma che spesso nella realtà dei processi viene disattesa, provocando un’ulteriore violenza sulla donna. Ma nello stesso tempo su reati come questo, così gravi, non ha una fattispecie specifica. Perché non ci si accorda trasversalmente per farla?
Il Fatto 14.10.17
Scuola, protesta in tuta blu: “Noi manodopera gratuita”
Norma da rifare - Da chi viene spedito al call center a chi stacca ticket al museo il 24 dicembre. Scontri a Palermo, pomodori a Milano. In 50 città sfilano gli studenti contro l’alternanza insegnamento-lavoro
di Roberto Rotunno

Che ci fa un gruppo di tute blu in viale Trastevere? Quali rivendicazioni potranno mai portare gli operai presso il ministero dell’Istruzione? Nessuna, infatti quelli non sono metalmeccanici ma semplici studenti di scuola superiore. Così vestiti perché dal 2015 l’alternanza scuola-lavoro ha reso molti di loro manodopera gratuita per le imprese. Per questo hanno manifestato: per segnalare tutto quanto non funziona in una legge che viene definita (da chi l’ha scritta) “Riforma della buona scuola”. In 50 città italiane ha avuto luogo il primo sciopero degli studenti “alternati”, organizzato dalla Rete degli studenti medi inseme all’Unione degli universitari, l’Unione degli studenti e Link. Un’occasione per chiedere anche più risorse per il diritto allo studio e per l’edilizia scolastica. I problemi dell’alternanza hanno comunque rappresentato il tema predominante della giornata.
Il liceo scientifico Isacco Newton di Roma, per esempio, in questi giorni si è trasformato in una grande riserva di addetti al call center. Circa 40 ragazzi sono impiegati presso un’azienda che gestisce una piattaforma online per professionisti. “Il nostro compito – racconta Cecilia, una studentessa – è telefonare a questi professionisti, spiegare loro come possono avvantaggiarsi iscrivendosi al sito e cercare di farci dare l’indirizzo email. Abbiamo fatto turni da cinque ore, con almeno 150 telefonate a testa; nelle prossime settimane faremo il pomeriggio”. A fine giornata – segnala la ragazza – devono rendicontare il numero di telefonate effettuate e di indirizzi ottenuti. “Ci siamo lamentati – aggiunge – e anche i professori si sono rammaricati, ma dall’azienda hanno detto che ci fanno un favore facendoci imparare come funziona e che ci vanno a perdere perché non siamo molto produttivi”. Tommaso Berardi, invece, è un ragazzo del quarto anno di un liceo artistico, sempre della Capitale. Mentre toglie la tuta, ricorda la sua esperienza dello scorso anno a Palazzo Venezia. “Pensavamo che avremmo imparato a fare le guide – dice – e invece ci siamo ritrovati a staccare i ticket all’ingresso”. Il suo “stage” lo ha tenuto impegnato anche il 24 dicembre.
La legge prevede 400 ore obbligatorie per gli istituti tecnici e professionali, 200 per i licei; tutte da spalmare nell’ultimo triennio. La disorganizzazione, però, potrebbe penalizzare molti studenti che denunciano l’assenza di attestati. Si rischia insomma la beffa: ritrovarsi con ore non registrate, di conseguenza mancanti all’appello, e doverle recuperare nel corso del quinto anno. La proposta, quindi, è concentrare l’alternanza nell’orario delle lezioni così da trasformarla in “didattica alternativa”. “Se abbiamo questo impegno nell’orario extracurricolare – spiega una studentessa – ci toglie tempo per studiare o per svolgere un lavoro vero, retribuito”. Ci sono anche i racconti stravaganti. Per esempio ragazzi ai quali è stata riconosciuta come alternanza una visita ai musei di Torino o altri che hanno potuto assolvere l’obbligo praticando sport a livello agonistico.
La mattinata ha vissuto anche momenti di tensione: a Palermo sono avvenuti scontri tra studenti e polizia nel corso di un sit-in non autorizzato davanti alla sede del McDonald’s, il quale è accusato di approfittare dell’alternanza grazie a un accordo siglato con il ministero. A Milano, inoltre, alcuni manifestanti hanno lanciato uova e pomodori contro uno dei fast food della catena statunitense.
Comunque, non si è trattato di piazze “contro”. Non c’è stata la richiesta di abolire l’alternanza scuola-lavoro ma di renderla davvero un’esperienza formativa. Tra le esperienze svolte fino a questo momento, spiccano molte cattive pratiche. Martedì alla Camera è stata presentata un’indagine, svolta dalla Rete degli studenti medi e la Cgil, la quale ha coinvolto 4 mila ragazzi. Il 48% si è detto soddisfatto, ma un giudizio pesantemente negativo è stato espresso dal 33% degli intervistati. Le maggiori critiche si sono registrate nei licei, dove la coerenza tra gli studi e il progetto di alternanza ha avuto voto 2,4 su 5 (più soddisfatti, invece, i ragazzi dei tecnici e professionali). Il 60,7% fa notare come “l’obiettivo sia più quello di collocare gli studenti che garantire competenze”. Ragionando in decimi, i liceali hanno dato 4 al livello di personalizzazione dell’alternanza e 3 alle chance di lavoro successive allo “stage”. Una bocciatura.
il manifesto 14.10.17
Valeria Pinto: «L’alternanza scuola-lavoro rieduca gli studenti all’ordine e alla disciplina»
Intervista. Valeria Pinto insegna filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice del libro "Valutare e punire": "Sono obbligati a pensarsi veicoli di un progetto e non come soggetti autonomi"
Valeria Pinto insegna filosofia teoretica alla Federico II di Napoli
intervista di Roberto Ciccarelli

«L’alternanza scuola-lavoro serve a una rieducazione degli studenti – afferma Valeria Pinto, docente di Filosofia teoretica alla Federico II di Napoli e autrice del fortunato libro Valutare e Punire – è un dispositivo che trasforma l’idea di conoscenza, dell’insegnamento e dell’apprendimento».
In che modo?
Basando la formazione sull’idea di «progetto». Questa, in fondo, è la forma del lavoro attuale, non si fa nulla che non sia contenuto in un progetto attraverso il quale si definisce il risultato, gli strumenti e l’impiego del tempo. È un educazione al pensarsi come veicolo di un progetto, non come soggetti critici e autonomi. Lo studente obbligato all’alternanza con il lavoro è considerato lo strumento per la realizzazione di un progetto, non è lui stesso il progetto di una vita.
Gli studenti in piazza hanno denunciato il carattere di sfruttamento e il lavoro non pagato e la riduzione del sapere a merce…
Hanno ragione, ma non sono pochi i casi in cui quello che chiamano lavoro non serve a niente.
Ad esempio?
Tra le denunce degli studenti esiste un’ampia casistica di progetti sulla carta dove sono impiegati in attività inutili o all’inattività. Un’utilità tuttavia esiste e consiste, come dicevo, nella rieducazione. Il suo obiettivo è quello del disciplinamento dei ragazzi e della loro trasformazione antropologica in progetto.
Ma quale razionalità ha un sistema di questo genere?
Mostrare come l’unico principio regolatore, l’unica mentalità possibile, sia quella di un mercato del lavoro a cui piegarsi. Dove non può esistere nella vita delle persone nulla di eccentrico e dove nulla deve sfuggire al progetto. Tutti gli aspetti della vita di una persona devono rientrare in logica ferrea.
I sostenitori dell’alternanza sostengono che il sistema riavvicina la scuola al lavoro e risolve un problema storico in Italia: la separazione tra la teoria e la prassi…
Questo avviene solo in apparenza. In effetti il sistema si presenta come un superamento della divisione tra teoria e prassi, tra lavoro manuale e intellettuale. Ma questo non avviene.
Perché?
Perché non c’è un rapporto tra l’idea astratta del lavoro e la realtà di ciò che si è e ciò che si fa. La separazione che si voleva superare invece è confermata. Un lavoro invece non dovrebbe essere staccato da una funzione formativa.
Che tipo di effetti ha questa impostazione sull’insegnamento?
Lo rende sempre più nozionistico, basta vedere i manuali di storia, filosofia. Sono veicoli di informazioni e dati, una semplificazione sconcertante.
Quale sarà l’impatto di questo esperimento di massa sul futuro della scuola?
Ci troviamo di nuovo a che fare con il disciplinamento nella sua accezione più inaspettata. Pensavamo che la società disciplinare fosse superata e invece sta riemergendo. È accompagnata a fenomeni regressivi che emergono in alcuni regolamenti scolastici che hanno un carattere carcerario. Con questa idea di formazione i ragazzi sono ricondotti all’ordine e alla disciplina.
La Stampa 14.10.17
“Non siamo manodopera gratis”
Gli studenti sfilano in 70 piazze
Tensione a Milano, Roma e Palermo. Lancio di uova contro McDonald’s I ragazzi contestano l’alternanza scuola-lavoro. Fedeli: presto migliorie
di Francesca Paci

«Studente con la tuta blu, da oggi non lavora più»: a un mese dalla ripresa delle lezioni i liceali italiani (affiancati dagli universitari nemici del numero chiuso) indossano l’uniforme della classe operaia e scendono in piazza contro la riforma «al ribasso» dell’istruzione e contro l’alternanza scuola-lavoro. Da Milano a Roma a Palermo passando per i centri minori, una settantina di cortei coordinati da collettivi e associazioni studentesche sfilano in simultanea rilanciando l’insoddisfazione dei Cipputi a salario zero.
«La formazione professionale va bene ma fatta sul serio e non tanto per fornire alle imprese manodopera gratis» ragiona Sofia Milian, 17 anni, studentessa al liceo artistico Enzo Rossi di Roma. Il bersaglio è unico, gli approcci - come spiega il comunista 19nne e paladino dei «popoli affamati» Giulio Chiaramonti - variegati. Così, al netto di fumogeni e petardi esplosi qua e là, Milano vive momenti di tensione quando un gruppo di ragazzi incappucciati lancia uova contro le vetrine del McDonald’s di piazza Sant’Eustorgio, reo, secondo gli assalitori, di aver siglato con il ministero dell’istruzione l’accordo per l’alternanza e di servirsi degli studenti per non assumere personale. Una recriminazione che assume toni analoghi anche a Palermo, dove la catena di fast-food di piazza Castello fa da sfondo al parapiglia tra manifestanti e polizia, mentre a Roma a venire alle mani sono gli organizzatori del corteo diretto al Miur e i loro oppositori politici di Lotta Studentesca, che fanno capo a Forza Nuova.
I ragazzi chiamano e la ministra Fedeli pare rispondere. A fine mattina riceve una delegazione di studenti per difendere il progetto («è un’innovazione didattica importante») garantendone la migliorabilità, ma soprattutto per annunciare l’imminenza della tanto invocata Carta dei diritti e dei doveri. E se in serata le notizie degli scontri vedono la Fedeli condannare le violenze, la cifra generale è il dialogo, anche perché nel frattempo il M5S si è schierato con la piazza. Matteo Renzi lo ribadisce su Instagram, a bandiere studentesche ripiegate: «Penso che quando l’alternanza scuola-lavoro è ben organizzata questa esperienza sia molto utile e formativa per i ragazzi. Viceversa talvolta è tempo clamorosamente buttato via». I piccoli Cipputi ascoltano. «Siamo soddisfatti dell’incontro al ministero - annuncia la Rete degli Studenti Medi - ma le risposte sono ancora deboli».
Corriere 14.10.7
«Il mondo dovrebbe assistere alla ripresa della corsa iraniana all’atomica e alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, senza escludere una guerra tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita con probabile coinvolgimento americano in entrambi i casi. Si apre un conto alla rovescia ad altissimo rischio. E questo mentre è già aperto un braccio di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord»
Il calcolo rischioso
di Franco Venturini

Negando la periodica certificazione della Casa Bianca sull’accordo nucleare concluso con l’Iran nel luglio del 2015, Donald Trump ha dato ieri libero sfogo alla sua ben nota volontà di sradicare l’eredità politica di Barack Obama. Devono essere stati il timore delle conseguenze del suo gesto e i molti pareri contrari ricevuti, dagli alleati europei ma anche dai suoi più stretti collaboratori, a consigliarli di coprirsi le spalle: gli Usa non escono dal patto incriminato, e nessuna nuova sanzione contro Teheran è stata decretata dal presidente. Semmai, dovrà essere il Congresso a decidere in questo senso nei prossimi sessanta giorni. Così Trump può vantarsi di aver mantenuto la sua promessa elettorale, e il peggio sembra provvisoriamente scongiurato perché il patto di Vienna, sottoscritto anche da Gran Bretagna, Francia, Germania, Ue, Russia e Cina, sembra poter sopravvivere. Ma è una speranza, questa, che rischia di diventare illusione se il Congresso imporrà all’Iran nuove condizioni per mantenere la partecipazione Usa.
Le prudenze formali di Trump in tal caso si rivelerebbero inutili.
Il mondo dovrebbe assistere alla ripresa della corsa iraniana all’atomica e alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, senza escludere una guerra tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita con probabile coinvolgimento americano in entrambi i casi. Si apre un conto alla rovescia ad altissimo rischio. E questo mentre è già aperto un braccio di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord.
Le modalità scelte da Trump per annunciare la sua «de-certificazione» del comportamento iraniano, ritenuto invece conforme dall’Agenzia atomica dell’Onu, lasciano aperto qualche spiraglio alle pressioni degli alleati europei dell’America. Ma il tono quasi violento utilizzato dal presidente nel descrivere i molteplici peccati iraniani (e di Obama) non lascia molto spazio alle mezze misure. Le accuse contro gli esperimenti balistici e contro le imprese militari di Teheran in Siria, Iraq e Yemen, le attività terroristiche di oggi e di ieri, le violazioni dei diritti umani, si sono affiancate alla «autorizzazione» a varare nuove sanzioni contro le Guardie Rivoluzionarie, che sono l’architrave del potere iraniano. I pareri degli europei, secondo cui molte di queste attività possono essere discusse ed eventualmente sanzionate in sede diversa dal patto atomico, non sono stati tenuti in conto. E a ben poco è servito che il capo del Pentagono generale Mattis definisse l’intesa di Vienna «nell’interesse nazionale degli Usa».
Ma sparare all’accordo nucleare senza ucciderlo subito, come tenta di fare Trump, è una strategia dalle gambe corte per un buon numero di ragioni. La prima riguarda l’Iran, che vede un forte ridimensionamento del suo interesse al rispetto dell’accordo. Ridurre drasticamente la disponibilità di uranio arricchito e il numero delle centrifughe in cambio della levata delle sanzioni finanziarie che strangolavano il Paese poteva essere conveniente, due anni fa. Ma se ora si prospettano nuove sanzioni, perché non riprendere da subito quella via del nucleare che Teheran, con poca credibilità, assicura essere pacifica? Il risultato sarebbe allora quello di moltiplicare le inquietudini di Israele, che comprensibilmente non intende consentire che Teheran possieda l’arma capace di distruggerlo al primo colpo. Senza contare che i «pragmatici» firmatari dell’accordo nel 2015 verrebbero spazzati via dalla scena politica iraniana. E che diventerebbe, per ovvia mancanza di fiducia, ancora più ipotetica la possibilità di un accordo negoziato tra Stati Uniti e Corea del Nord.
Gli sforzi degli europei per limitare i danni si volgeranno ora verso il Congresso e i suoi sessanta giorni, con una strategia che prevede di riaffermare nel modo più fermo l’appoggio dei governi alleati al mantenimento dell’accordo e di esercitare pressioni sull’Iran nel settore missilistico e della politica regionale. Una ipotesi di riserva prevede poi di proporre alla Casa Bianca una formula innovativa: l’accordo di Vienna ci tutela soltanto per un decennio, questa è la sua vera debolezza; decidiamo allora di mantenerlo a patto che Teheran accetti di negoziare sul dopo 2025.
L’Italia, che ha rispettato il tempo delle sanzioni pur essendo stata in precedenza il primo partner economico dell’Iran, è in prima fila nel tentativo di salvare il salvabile. Serve, però, che il Congresso non giunga a nuove sanzioni, perché esse costringerebbero le imprese europee a scegliere tra gli accordi con l’Iran e quelli con gli Usa. Con il solito risultato: l’Iran non avrebbe più perché stare al gioco, e la corsa nucleare ripartirebbe.
Un accordo non perfetto ma prezioso, invece di essere migliorato, è stato probabilmente buttato nel cestino da Donald Trump. E quanto ai comportamenti dell’Iran, sono stati davvero migliori quelli dell’Arabia Saudita? A ben vedere gli europei sono attesi dalla prova internazionale più difficile della loro esistenza comune. Peccato che l’alleato americano non li aiuti.
La Stampa 14.10.17
L’Sos degli scienziati
“Migrazioni scatenate dalla scarsità di cibo”

Dietro dati, numeri e statistiche soffrono uomini, donne e bambini. Per questo dopo la fase analitica deve seguire quella propositiva. E un momento ormai «istituzionale» per affrontare questi temi è il Forum internazionale su alimentazione e nutrizione del «Barilla Center for Food & Nutrition» che si terrà il 4 e 5 dicembre a Milano.
Giunto all’ ottava edizione, quest’anno sarà all’Hangar Bicocca e oltre a lanciare il consueto Food Sustainability Index - la mappatura globale dei Paesi più sostenibili in fatto di alimentazione - presenta molte novità. Fra gli ospiti più attesi Bob Geldof, Jeffrey Sachs, Gunter Pauli e l’italiano Carlin Petrini. Il primo è il cantante-attivista che ha denunciato la piaga della fame con il concerto-evento Live Aid; il secondo è l’economista che ha verosimilmente ispirato la «Laudato sì» di Papa Francesco; il terzo, Gunter Pauli, è l’ideatore della teoria della cosiddetta Blue Economy; il quarto è il fondatore di Slow Food Carlin Petrini e si confronterà con Guido Barilla sul «sistema cibo».
Fra le novità più interessanti, la presentazione del primo studio sul rapporto cibo-migrazioni realizzato da «Macrogeo», la società di ricerche geopolitiche presieduta da Lucio Caracciolo. La sicurezza alimentare, infatti, è la priorità fondamentale, in mancanza della quale si decide di migrare. Si allargano anche i “target” cui il Forum si rivolge. Dopo i giornalisti con il «Food Sustainability Media Award» e il Premio ai giovani ricercatori, ora si coinvolgono anche i bambini con laboratori su favole di Gunter Pauli studiate per raccontare ai piccoli il tema della sostenibilità.
[s.r.v.]
La Stampa 14.10.17
La nave dei bambini
A Palermo sbarcano 606 profughi, 200 sono minori
Oltre 120 senza essere accompagnati da un adulto
di Laura Anello

Dal Corno d’Africa
La maggior parte dei 120 bambini sbarcati ieri a Palermo senza essere accompagnati da genitori o parenti sono partiti dalla Somalia e dall’Eritrea

È tornata l’Africa profonda, nel porto di Palermo, con i suoi figli che chiedono terra e vita, con il suo carico di dolore, di teste ricce in braccio alle madri, di toraci scheletrici, di racconti di stupri e di violenze, di bocche affamate ad addentare i panini con la marmellata offerti dalla Caritas. Di speranza, nonostante tutto. È tornata ieri - dopo i mesi di blocco seguiti all’intesa con la Libia - più forte di qualsiasi accordo, su nuove rotte e nuove spiagge di partenza dei trafficanti, come una bottiglia stappata. È tornata con i suoi bambini, un fiume di bambini nell’Europa a crescita zero.
L’assistenza
Duecento minorenni sui 606, tutti salvati dalla nave “Aquarius” di Sos Méditerranée, tra le poche rimaste a presidiare il Canale di Sicilia. Centoventi di loro sono arrivati da soli, “minori non accompagnati”, come si dice in linguaggio tecnico. E questa volta sono bambini a partire da dodici anni, lo sguardo di chi ha già visto il deserto e le botte nei container libici. Per lo più somali ed eritrei. Assistiti dal Comune di Palermo che li distribuisce nei centri di prima accoglienza, tutti con il diritto di chiedere il permesso di soggiorno, di restare in Italia. E poi altri ottanta minorenni arrivati con entrambi i genitori o in braccio a madri sole o ancora nel grembo di undici donne incinte. Treccine, tutine da notte, pannolini. La mascotte ha solo sei giorni, si chiama Salimata, nata da una madre che ha partorito da sola poco prima di prendere il mare. Nugoli di famiglie di più di quindici Paesi del mondo, tra cui cinquanta siriani richiedenti asilo. Egitto, Mali, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Sudan, Marocco, Somalia, Eritrea, Senegal, Camerun, Nigeria, Liberia, Etiopia, Algeria, Ghana, Benin, Gambia, Yemen. C’è pure un turco.
La nave dei bambini. Una famiglia siriana ne ha portati otto. Tutti i 606 sono stati raccolti in sei diverse operazioni condotte in tre giorni, in acque internazionali a trenta miglia a nord della Libia.
Martedì l’“Aquarius” ha salvato prima 29 e poi 144 profughi, durante la notte ne ha accolti 36, trasferiti da un mercantile che li aveva soccorsi. Il giorno dopo è stata chiamata a intervenire dal Centro nazionale di coordinamento di Roma per andare in aiuto di un altro gommone dove si trovavano 130 persone. Poi ne ha tratti in salvo 220 che si trovavano su due imbarcazioni. E infine ha effettuato il trasferimento a bordo degli ultimi 47 dalla nave “Vos Hestia” di Save the Children. In totale, appunto, 606. Tanta gente malnutrita, con il diabete, con sospetta tubercolosi.
L’inferno
Tutti a raccontare la loro storia. Torture, violenze sessuali, fame. A giudicare dalle testimonianze, gli accordi con la Libia hanno provocato soltanto un più lungo calvario dei migranti in attesa di partire. «C’è gente che ha pagato anche undicimila euro - racconta una mediatrice culturale eritrea, che ieri ha assistito settanta connazionali - ho parlato con un uomo di 51 anni che ne ha passati tre in Libia. Quando all’ennesima richiesta di soldi ha detto: non posso più pagare, uccidetemi, lo hanno picchiato fino a fargli perdere la vista di un occhio e l’udito. È stato preso a caso tra un mucchio di ottocento, quasi non crede di avercela fatta».