sabato 23 maggio 2015

Repubblica 23.5.15
Il Trono di Spade ultimo classico di noi uomini senza passato
Nell’era dell’eterno presente web la febbre per la serie tv rivela un desiderio di radici culturali
di Silvia Ronchey


UNmese dopo l’esordio della quinta serie di Il Trono di Spade la Hbo indaga sugli indirizzi IP che hanno scaricato in anticipo i leaks delle prime quattro puntate: 100 mila download da piattaforme corsare sono un indicatore di conquista della frangia avanzata dell’audience globale, accentuano la tendenza delle stagioni precedenti, scaricate illegalmente oltre sette milioni di volte, confermano Il Trono di Spade una delle serie televisive più piratate della storia. A sua volta, la produzione commerciale incrementa esponenzialmente i suoi numeri: solo in America la prima puntata della quinta serie ha avuto oltre 8 milioni di spettatori, un milione e rotti in più rispetto alla quarta serie, che aveva a sua volta migliorato gli ascolti delle precedenti.
Tra legalità e pirateria lo spazio virtuale premia nel Trono di Spade una narrazione che allarga il suo target non semplificando ma complicando, raffinando, eludendo le disambiguazioni. I personaggi crescono in complessità, accrescono le loro sfumature caratteriali. La distinzione tra buoni e cattivi e la stessa polarità tra bene e male, che stava al cuore gotico-fantasy dei libri di George Martin da cui è tratta, è più esile nello script televisivo, che diffonde ambiguità e sofisticatezza in un bacino di utenza che accomuna gli abbonati Sky e la fascia underground dell’avanguardia acculturata. A questi due gruppi si aggiunge un terzo partito: i dotti hanno fatto del Trono di Spade la palestra di uno scambio erusola dito che ormai valica i confini del web e i limiti dei fan club, passa alle università e ai centri di ricerca, fa ritornare il pixel alla carta, rimette nelle biblioteche la mappa di un passato immaginario che si sostituisce a quello reale ormai in corso di oblio.
La verità è che non abbiamo più passato. Nella microstruttura delle news, dei tweet, dei post, nelle fibre della comunicazione istantanea, il mondo è fatto di presente. Non è una colpa — è un dato evolutivo, forse anche eversivo. Il rarefarsi e interrompersi della catena di trasmissione del sapere, sperimentato dall’occidente a partire dalla metà del Novecento, ha portato alla tabula rasa. «Du passé faisons table rase», cantava già nell’ Internazionale il comunardo Pottier. La pressoché totale perdita del passato è forse conseguenza del discredito ideologico delle dottrine novecentesche più che della rivoluzione mediatica del terzo millennio, che comunque, modificando i mezzi di accesso all’informazione, ha assecondato ed elevato a potenza la crisi di quelli tradizionali. Il passato, svuotato di informazioni, è rimasto come status. È la profondità abissale di un’antichità favolosa che legittima e dà prestigio. L’obiettivo del Trono di spade è rappresentare il passato assente.
Proprio come gli oggetti letterari del passato, i nomi dei luoghi del Trono di Spade sono resi più saldi alla memoria dall’estraneità all’esperienza, dalla non visitabilità: King’s Landing, Winterfell, Castelry Rock esistono quanto la Elsinore di Amleto o il Palazzo di Menelao del Faust secondo. Svuotandosi di fondamento geostorico, il passato rimane come distanza assoluta e come infinita possibilità di ibridazione. Nei nomi dei personaggi risuonano radici latine e barbariche, sassoni e celtiche, semitiche e sanscrite, greche, slave, bizantine, iraniche, mesopotamiche, mongole. Come la sconfinata, spaesaente onomastica del Trono di Spade ha colonizzato lo spazio lasciato vuoto dal passato, così l’intero sillabo della letteratura classica è sciorinato in immagini, suoni, costumi. Frammenti di tradizioni e leggende, schegge di miti e saghe vorticano come in un caleidoscopio o nella playlist di un dj impazzito. Il mondo greco e quello romano e quello bretone; il crepuscolo nordico, nel disperato scenario wagneriano della Barriera; i caftani degli eunuchi bizantini, i nodi dei sacerdoti isiaci, le corone dei romani, le asce dei vichinghi, gli elmi dei saraceni: ogni dettaglio è frutto di un’arte combinatoria esercitata su una disponibilità senza precedenti di dati di studio, solo parzialmente integrata dalla fiction creativa.
La forza di persuasione di questa base dati sta nell’antico espediente della comunicazione non scritta. E certo anche nel suo fondamento archetipico. La topografia fantastica del Trono di Spade ricalca l’esile traccia lasciata dalla storia universale nell’inconscio collettivo: la Peni- di Valyria, antico splendore in rovina; la Baia degli Schiavisti, ingiustizia sociale da sconfiggere; le città libere — Braavos, Pentos, Volantis — aperte ai dotti, agli esteti e agli eccentrici; la Barriera, da presidiare e difendere, sul ciglio delle tenebre, dall’invasione di nuovi popoli, nuovi diseredati: i Bruti, che gli stessi Guardiani della Notte via via però assorbono; la Terra delle Ombre, da cui non cessano di emergere infiniti altri popoli: gli Estranei, i non vivi, ancora neppure soggetti di storia. Le popolazioni al di là della Barriera sono un’aggiunta tardonovecentesca al calderone degli archetipi e dei miti del filone fantasy alla Tolkien: l’idea di un continuo affollarsi sugli spalti della storia, di un ciclico prela mere sui bordi della società di nuove classi subalterne. Un altro apporto nuovo è il mondo di Khaleesi, regina dei Dothraki, Madre dei Draghi dai capelli di cenere, ultima discendente dell’estenuata dinastia iperborea che contende a re più celtici il trono di spade. Secondo i dati della Social Security Administration americana, Khaleesi è diventato oggi un nome di battesimo straordinariamente diffuso. Nella sua avanzata attraverso il deserto, Khaleesi resuscita la memoria del matriarcato, insinua la promessa della supremazia femminile. Il mondo dothraki, l’unico tendenzialmente democratico nel gioco dei troni, riverbera la complessità degli orienti assolati, delle civiltà meticce, supera l’insieme di pregiudizi con cui guardiamo oggi all’islam. Lo dimostra anche la sua neolingua fittizia, appartenente al ceppo semitico e dall’ampio influsso arabo, ormai una lingua viva . Living language: Dothraki è anche un sito, le sue espressioni sono diventate modi di dire diffusi in tutto il web.
L’obiettivo del Trono di spade è rappresentare il classico mancante. Si diventa un classico solo con il prestigio del passato. Il passato in cui ci porta è un punto indefinito della caduta dell’impero romano. Come scriveva Borges: «L’impero romano non è mai finito e ci troviamo in un punto qualunque della sua decadenza e caduta». Come per il ciclo arturiano, così per ogni costruzione di mondi, da Tolkien a Blade Runner, il riferimento è quell’indefinita continuazione dell’impero alla fine della decadenza che chiamiamo Medio Evo tanto fantasiosamente quanto si può chiamare Terra di Mezzo la cosiddetta cerniera tra criminalità organizzata e colletti bianchi dell’inchiesta su Mafia Capitale.
C’è sempre un eufemismo, una censura, quando si parla di cose di mezzo. La storia, come la geografia, definisce, delimita, non ha vie di mezzo: un tempo, un luogo, o sono una cosa, o sono un’altra; lineare, circolare, dialettico, il divenire storico comunque diviene. Ripetiamo Medio Evo quando parliamo di cose che non capiamo o che non vogliamo che esistano, o tutte e due insieme. I nostri luoghi comuni dominanti si nutrono di una definizione “medievale” del mondo islamico a significare, alternativamente, l’arretratezza civile, sociale, economica della sua storia postcoloniale, o la brutalità delle guerre che vi scateniamo. Ma non esiste il Medio Evo, né esistono i secoli bui: esiste l’antico, con le sue persistenze, rinascenze, resistenze oscurantiste; ed esiste il moderno, con le sue rivoluzioni e le sue barriere, sociali, etniche, geografiche. Il Medio Evo è la rappresentazione irreale, puramente astratta, della dialettica tra l’antico e il moderno, la sua materializzazione in un territorio immaginario di castelli e duelli. È un’ossessione continuamente emessa, ridefinita e ricreata dalla psiche collettiva e dai suoi interpreti: che sono, prima ancora dei vari autori e sceneggiatori, i molti, diversi e avventurosi spettatori del Trono di Spade .
IL DIPINTO La foresta incantata di John Gilbert
Repubblica 23.5.15
Siamo rimasti senza scrittori e senza popolo
Intervista ad Alberto Asor Rosa. Torna il suo celebre saggio. Con un sequel
di Simonetta Fiori


CINQUANT’ANNI fa con Scrittori e popolo fece piangere i mostri sacri della sinistra intellettuale. Oggi con Scrittori e massa, che praticamente ne è un sequel, non fustiga più nessuno. O meglio, non fustiga più nessuno in particolare, forse per mancanza sia degli autori che del popolo. Alberto Asor Rosa ridacchia in un angolo della sua luminosa casa di Borgo Pio, determinato a non accettare provocazioni. «Il popolo non c’è più, sostituito dalla massa. Ma gli scrittori resistono, altrimenti non avrei scritto il nuovo libro».
Certo fa effetto leggere tutto di filato l’ opus maximum del 1965, un attacco radicale alle fondamenta gramsciano-storiciste del sistema culturale italiano, e il lavoro successivo dedicato al grande mutamento. In un unico volume (Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Einaudi) è racchiusa la storia culturale di questo paese, incluso il terremoto degli ultimi decenni. Con qualche risultato paradossale, che attiene alla biografia di Asor.
Irriverente, severo, anche un po’ aggressivo con Pasolini e Calvino, Vittorini e Pavese. E rispettoso, attento, misurato con Piccolo, Scurati e Veronesi, per citare tra i più famosi. Professore, che succede?
«Una prima spiegazione è anagrafica: al giovane spregiudicato e ribelle è subentrato un vecchio rispettoso del suo prossimo, per un fatto biologico. E poi m’è parso che nei confronti degli scrittori più recenti fosse più opportuno un atteggiamento di comprensione ».
Perché?
«Sono stati meno fortunati della nostra generazione. A 30, a 40, forse anche a 50 anni, non beneficiano di nessuna delle condizioni positive di cui abbiamo beneficiato noi. Nessuno di loro gode del sostegno di una società letteraria ormai dissolta».
Devono cavarsela da soli.
«Può sembrare paradossale, ma nella società di massa ognuno è costretto a cercare da sé. E nell’assenza di aggregati culturali si riempie il vuoto con una rete di relazioni private. Pensi a quel nuovo genere letterario che è il ringraziamento. Alla fine di ogni romanzo compaiono tabulae gratulatorie di impressionante ampiezza: compagni di vita, editor, amicizie varie. Ma quando mai Moravia o Calvino hanno ritenuto di dover ringraziare qualcuno?».
E in questa nuova rete l’editor diventa signore assoluto.
«Il rapporto tra autore e redazioni editoriali s’è fatto sempre più stretto e il compito di entrambi mi sembra sia quello di costruire trame che piacciano al pubblico. Naturalmente il rapporto con il mercato non è sempre così meccanico. Però mi convince l’analisi di Emanuele Trevi: la letteratura ha smesso di pensare. E l’unico compito che lo scrittore si assegna è lo story teller ».
Oggi la parola narrazione ha assunto una centralità ossessiva.
«Anche nella politica. E la narrazione deve soddisfare determinati criteri, che sono nel segno della normalizzazione».
È interessante la sua analisi: l’elemento che caratterizza la generazione di scrittori nati dal 1960 in poi è la rottura con la tradizione. La ignorano, non la conoscono.
«Hanno scavato un fossato rispetto alle generazioni precedenti. Fino a qualche tempo fa gli scrittori spendevano parte della ricerca nel confrontarsi con chi era venuto prima. Pasolini, Fortini e Calvino — gli ultimi tre classici — radicano la loro novità su una riflessione intorno al passato. Poi c’è stata la generazione degli eredi, ancora immersi nel clima culturale precedente: Cerami e Tabucchi, Starnone e Busi, Tondelli e Mari, per citarne alcuni. Infine la grande massa di autori degli ultimi decenni: tranne poche eccezioni come Mazzucco, pensano “il nuovo” come sciolto da qualsiasi debito con il passato».
Con quali conseguenze?
«Lingua e stile nascono dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c’era prima. Se non c’è conoscenza, non può esserci conflitto. E se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo. E se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione. L’unico frammento di tradizione che ogni tanto emerge è quella pasoliniana, ad esempio nel Saviano della testimonianza etico-politica: io so. Ma il Calvino delle Lezioni americane che erano un grande lascito per gli scrittori del nuovo millennio, è scomparso».
Questo cosa comporta?
«Negli scrittori più giovani la riflessione razionale su ciò che significa scrivere e su come si scrive si è molto indebolita. Il messaggio calviniano che mescola fantasia e razionalità è inapplicabile. E insieme a Calvino — cosa ancor più grave — esce di scena la tradizione occidentale in cui questi elementi si sono mescolati in modo profondo. È difficile ravvisare nei romanzi degli ultimi vent’anni l’impronta di Baudelaire o di Kakfa o di Mann. Gli ormeggi si sono totalmente liberati ».
Lei lamenta la mancanza di follia. A cosa si riferisce?
«La follia è quella che trovi in Pirandello o Svevo, la derogazione dalle regole. Oggi non ce n’è uno che deroghi dalle regole. E tra l’assenza di follia e l’assenza di tragedia il nesso è stretto. Per usare una terminologia infantile, è raro imbattersi in romanzi che finiscano male. Un’eccezione è nel primo Giordano. Anche Ammaniti che pure ci presenta storie drammatiche non ce le fa mai leggere come tragedia, preferendo la commedia».
Un po’ di follia era in Scrittori e Popolo , che prendeva a schiaffi il meglio della cultura progressista.
«Direi meglio, incredibile sfrontatezza».
Cosa aveva in testa? Far saltare il sistema culturale della sinistra?
«Noi pensavamo che si potesse realizzare il progetto politico operaista. E per fare questo occorreva sgombrare il campo dal principale ostacolo al rinnovamento che era lo storicismo: una linea culturale — Croce-De Sanctis- Gramsci — condivisa non solo dal Pci ma da tutta l’intellettualità italiana del tempo».
Accusava Pasolini e Vittorini, anche un po’ il Calvino de Il sentiero dei nidi diragno, di essere subalterni alla tradizione che impediva di creare cose nuove. Agli scrittori di oggi rimprovera il contrario, di non conoscerla per niente la tradizione. Si ricorda il vecchio detto? Rivoluzionari a vent’anni, conservatori a ottanta.
«Non c’è dubbio. Ma la differenza di atteggiamento dipende anche dal diverso clima culturale. All’epoca le spinte al rinnovamento erano formidabili. Mentre scrivevo quel libro andavo a fare volantinaggio davanti ai cancelli delle fabbriche e non sentivo alcuna separazione tra la mia vita da letterato e la milizia politica. Oggi dove ti attacchi? Questo però non bisogna dirlo: un vecchio professore non deve essere né fustigatore né tragicamente pessimista».
Gliela fecero pagare, all’epoca?
«Si arrabbiarono molto. Sull’ Unità uscì un veemente attacco di Carlo Salinari dall’espressivo titolo: Un piccolo borghese sul piedistallo . Mentre un giorno sorpresi Sapegno che ridacchiava con il mio libro in mano: “Queste cose le ho sempre pensate”».
Pasolini non la perdonò.
«Incontrandomi all’Università mi guardò con gli occhi a mirino: Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita».
Si è annoiato molto a leggere i giovani contemporanei?
«No, affatto. Non ho mai smesso di farlo pur continuando a studiare Dante e Boccaccio. Scrivono un po’ troppo, questo sì. Credo che dipenda dalle potenzialità del computer. Potrei chiedere un provvedimento di legge perché si torni all’uso della penna».
IL LIBRO Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo 1965 Scrittori e massa 2015 (Einaudi, pagg. 432, euro 32)
Columbia University: segnalare i «rischi» della lettura di testi greco-romani
La lettura delle Metamorfosi di Ovidio può arrecare gravi disturbi alla psiche dei laureandi.
Corriere 23.5.15
Giù le mani da Ovidio
di Eva Cantarella


Povero Ovidio, non bastava l’esilio nella desolata Toni, sul Mar Nero, dove lo spedì Augusto e dove finì i suoi giorni. La colpa, quella volta, fu l’aver dedicato un libro all’«Arte di amare»: un cattivo esempio, una lettura peri-colosa per l’onestà delle donne romane. Adesso a fargli rischiare di essere messo al bando, questa volta non da Roma ma dalla cultura clas-sica, sono le Metamorfosi. Un assoluto capola-voro: se esistesse un elenco delle opere lettera-rie patrimonio dell’umanità le Metamorfosi dovrebbero rientravi. Composte di circa 12.500 versi divisi in 15 libri (e spesso giustamente definite una «enciclopedia della mitologia classica»), esse raccolgono e rielaborano più di 250 miti greci: tra i quali quelli di Dafne e di Proserpina, per colpa dei quali sono finiti nell’elenco dei libri della cui potenziale perico-losità, in alcune università americane, i profes-sori dovrebbero allertare gli studenti. Leggerli potrebbe provocare un trauma, nella specie in chi, come Dafne e Proserpina, avesse subito una violenza sessuale. Con tutto il rispetto per chi ha subito un atto così ignobile, come non valutare la gravità delle conseguenze di una simile pratica? Nella Columbia University di New York, una delle più prestigiose del Paese, il corso nel cui programma i professori dovrebbe avvertire del rischio è quello chiamato Great Books (opere letterarie da Omero a oggi), obbligatorio per tutti gli studenti del College. Se la pratica si diffondesse quanti sarebbero, nel giro di qualche anno, i giovani americani che conoscerebbero l’esistenza di una della opere più importanti della cultura occidentale, che ha ispirato autori come Dante, Boccaccio, Chaucer e Shakespeare? Spaventa davvero, in questo episodio, il disprezzo per la cultura classica di Paesi (purtroppo non solo al di là dell’ oceano) che in quella cultura affondano le proprie radici e che sembrano non rendersi conto di cosa significhi dimenticarle.
Corriere 23.5.15
Gran Bretagna fra ebrei e arabi Storia di un mandato fallito
risponde Sergio Romano


 È vero che nel 1939 gli inglesi, con il Libro Bianco, decretarono che nei territori di quello che sarebbe poi divenuto lo Stato sionista non avrebbero potuto emigrare più di 75.000 ebrei in cinque anni? Se ciò fosse stato, lo sterminio degli ebrei avrebbe avuto così via libera, non per volontà dell’Inghilterra ma comunque perché quella legge agevolò Hitler nel compiere la strage. Le chiedo poi se il progetto nazista di inviare tutti gli ebrei in qualche isola africana (Madagascar?) fosse un programma effettivamente organizzato o solo un pretesto volto a mascherare il progetto di sterminio.
Vittorio Zanuso

Caro Zanuso,
Due anni prima del Libro Bianco, nel 1937, il governo britannico aveva affidato a una commissione reale, presieduta da Lord Peel, il compito di avanzare proposte per risolvere il costante conflitto tra ebrei e arabi, scoppiato all’inizio degli anni Trenta, quando una più numerosa immigrazione ebraica cominciò a modificare il rapporto demografico fra le due popolazioni. Londra stava pagando il prezzo delle troppe promesse fatte durante la Grande guerra. Agli arabi, per spingerli a insorgere contro l’Impero ottomano, aveva promesso l’indipendenza; agli ebrei, per indurli a sostenere gli Alleati soprattutto nella società americana, aveva promesso una home , parola aperta a diverse interpretazioni che fu tradotta in italiano con l’espressione «focolare».
Il governo britannico aveva dimostrato di essere sensibile all’aspirazione degli ebrei e ne dette una prova inviando a Gerusalemme, come Alto commissario, Herbert Samuel, un uomo politico liberale di origine ebraica. Ma nella seconda metà degli anni Trenta, dopo l’avvento di Hitler al potere e il numero crescente degli ebrei che desideravano lasciare la Germania per installarsi in Palestina, doveva tenere conto di altre esigenze, fra cui quella dell’ordine pubblico che divenne presto preminente.
La Commissione Peel, nel frattempo, aveva terminato i suoi lavori e proposto la spartizione della Palestina fra due Stati. La Gran Bretagna sarebbe rimasta nel territorio per garantire l’ordine e vigilare su un corridoio da Haifa a Betlemme, Gerusalemme e Nazareth. Era la migliore delle soluzioni possibili, ma la questione fu ulteriormente complicata dalla crescente radicalizzazione del conflitto. Mentre il Gran Mufti di Gerusalemme cercava appoggi fra i nemici della Gran Bretagna, in Palestina, accanto ai sionisti di Ben Gurion, nascevano gruppi «revisionisti» fra cui l’Irgun di Menachem Begin (il futuro Primo ministro dal 1977 al 1983) e la Banda Stern, che erano pronti a conquistare il potere con l’uso della forza e del terrore. Vi furono attacchi alle forze britanniche negli anni Trenta, ma gli atti più clamorosi cominciarono più tardi con l’uccisione nel 1944 di Lord Moyne, ministro di Stato britannico per il Medio Oriente e l’attacco al King David Hotel di Gerusalemme nel 1946, in cui perdettero la vita 100 persone, fra ufficiali britannici e civili.
È questo il contesto in cui il governo britannico, alla fine degli anni Trenta, ritenne di dovere contenere il numero degli ebrei che chiedevano asilo in Palestina. In Germania, nel frattempo, il regime nazista aveva messo allo studio il «piano Madagascar» per il trasferimento dell’ebraismo europeo nell’isola africana. Il piano fu accantonato quando l’evoluzione della guerra in Europa rese l’ipotesi Madagascar difficilmente realizzabile. Comincia allora, probabilmente nel 1941 allorché la Germania poté disporre dei grandi spazi russi, la politica della deportazione e dell’annientamento. Terminata la Seconda guerra mondiale, il governo laburista britannico (il ministro degli Esteri era Ernest Bevin) cercò di promuovere per qualche anno il progetto di un solo Stato palestinese per due popoli. Ma la soluzione non piacque né agli arabi né agli ebrei. Quando l’Onu, nel novembre 1947, accettò la tesi della spartizione, la Gran Bretagna gettò la spugna e rinunciò al mandato.
Repubblica 23.5.15
Governare il disordine, la sfida dei nuovi leader
di Thomas L. Friedman


PER essere una campagna elettorale iniziata con largo anticipo, è sorprendente che la maggior parte dei candidati abbia così poca voglia di affrontare i temi più caldi del momento, tanto meno quelli che si prospettano in futuro. Hillary Clinton non prende posizione in modo chiaro su due importanti questioni che lei stessa ha contribuito a negoziare da Segretario di stato: l’accordo di libero scambio trans-Pacifico e l’accordo nucleare con l’Iran. La campagna di Jeb Bush sembra impantanata sul fatto di decidere se egli è o non è il custode di suo fratello. Marco Rubio era favorevole a una riforma ad ampio raggio dell’immigrazione, poi ha cambiato idea e ora è contrario. E se i senatori Rand Paul e Bernie Sanders sono motivati da chiare ideologie, per il momento gli altri candidati manifestano un’ambizione a voler diventare presidente molto più persuasiva delle motivazioni per le quali dovrebbero diventarlo.
Le cose non potranno andare avanti così. Per rendersene conto è sufficiente ascoltare i titoli dei notiziari: ci troviamo nel bel mezzo di alcune enormi flessioni perturbatrici nell’ambito della tecnologia, del mercato del lavoro e della geopolitica che solleveranno questioni scottanti sul futuro del contratto del lavoro e del contratto sociale tra i governi e i loro impiegati e tra i datori di lavoro e i lavoratori. Questi problemi esploderanno tutti durante la prossima presidenza.
Quali ne sono i segni premonitori? Beh, per adesso il mio candidato preferito al titolo di autore del miglior incipit di un articolo di informazione quest’anno è Tom Goodwin, dirigente di Havas Media, il cui intervento del 3 marzo su Techcrunch. com iniziava così: “Uber, la più grande compagnia di taxi al mondo, non possiede vetture. Facebook, proprietario del social network più popolare del mondo, non crea contenuti. Alibaba, il rivenditore più efficace al mondo, non ha beni inventariati. E Airbnb, il più grosso fornitore al mondo di soluzioni ricettive, non possiede alcun bene immobiliare reale. Stiamo assistendo a qualcosa di molto interessante”.
Questo è poco ma sicuro. Ci troviamo all’inizio di una trasformazione molto significativa di ciò che vale la pena possedere. Le aziende di cui parlavamo hanno in comune una cosa: tutte hanno creato piattaforme fiduciarie nelle quali l’offerta incontra la domanda per oggetti e servizi che nessuno aveva pensato in precedenza di mettere a disposizione — una camera da letto in più nella propria casa, un posto a bordo della propria auto, un contatto commerciale tra un piccolo negoziante del Nord Dakota e un piccolo artigiano in Cina; oppure sono tutte piattaforme comportamentali che hanno generato come sottoprodotto informazioni di altissimo valore per i rivenditori al dettaglio o i pubblicitari, o ancora sono tutte piattaforme comportamentali nelle quali la gente comune può farsi un nome — per come guida, per come ospita qualcuno o per qualsiasi altra competenza si possa immaginare — per poi offrirsi al mercato su scala globale.
Tutto ciò nasce dalla crescita esponenziale dell’informatica — dalla potenza alla possibilità di archiviare e fare rete, a quella di generare e far interagire sensori e software — che ci consente sia di raccogliere enormi quantità di dati sia di applicare a questi ultimi programmi software in grado di evidenziarne gli schemi a una velocità e con una portata finora sconosciute. Tutto ciò sta rendendo meno complicate molte cose, come chiamare un taxi, prenotare una stanza a casa di qualcuno a Timbuctu, comprare verdura fresca, imparare da chiunque e ovunque a disegnare un pezzo di aeroplano da produrre con una stampante 3D in una sola settimana invece che in sei mesi. Ogni complessità sta per emanciparsi.
Un recente studio dell’Oxford Martin School è giunto alla conclusione che negli Stati Uniti entro i prossimi vent’anni il 47 per cento dei posti di lavoro corre un rischio molto alto di essere sostituito da macchine e software intelligenti. La cosa più singolare, fa notare James Manyika, direttore del McKinsey Global Institute e coautore di No Ordinary Disruption , è che contrariamente a quanto si potrebbe supporre da questo punto di vista corrono maggiori rischi i lavoratori della conoscenza che occupano i vertici e le posizioni intermedie, rispetto a chi svolge il lavoro fisico vero e proprio. Per generare oltre tremila comunicati finanziari al trimestre, per esempio, l’Associated Press adesso utilizza computer, non più giornalisti. Questo processo da un lato può affrancare i lavoratori e far sì che si occupino di mansioni più creative, per svolgere le quali dall’altro lato devono essere formati.
In geopolitica sussistono grandi contrapposizioni di potere, ma lo spartiacque più rilevante nel mondo di oggi non è più quello tra Oriente e Occidente, capitalisti e comunisti: sempre più spesso sarà quello tra Mondo dell’Ordine e Mondo del Disordine, a mano a mano che le pressioni di natura ambientale, settaria ed economica faranno piazza pulita di stati deboli e falliti. Tutti i giorni, ormai, leggiamo sui quotidiani di chi fugge dal Mondo del Disordine verso il Mondo dell’Ordine. I rohingya, un gruppo composto per lo più da musulmani, stanno cercando di raggiungere Tailandia e Malesia dal Myanmar e dal Bangladesh; africani e arabi fanno di tutto per guadare il Mediterraneo e raggiungere l’Europa; dall’America centrale alcuni genitori hanno mandato negli Stati Uniti migliaia di loro figli. La settimana scorsa il Washington Post ha reso noto che il governo di Israele ha iniziato a spedire una lettera ai 45mila profughi eritrei e sudanesi — arrivati in Israele a piedi, con mezzi di fortuna o via mare, alla ricerca di ordine e lavoro — per comunicare loro che hanno un mese di tempo a disposizione per accettare 3.500 dollari in contanti e un biglietto di sola andata per rimpatriare o trasferirsi in un non ben identificato paese terzo in Africa, perché in caso contrario potranno finire in carcere. L’anno scorso l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi e i rifugiati ha comunicato che in tutto il globo si contano più sfollati — 50 milioni circa — di quanti ce ne siano mai stati dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Il guaio è che non sappiamo proprio che cosa fare. Un tempo, per controllare molti di questi paesi nei quali regna il disordine facevamo affidamento su imperi, colonizzatori e dittatori, ma ormai viviamo in un’era postimperialista, post-colonialista e in qualche caso perfino post-dittatoriale. Nessuno vuole occuparsi delle zone nelle quali il disordine permea ogni cosa, perché tutto ciò che se ne ha in cambio è un conto da pagare. Per di più, la maggior parte di questi paesi è del tutto incapace di autogovernarsi in modo democratico. Chi assumerà dunque il controllo di queste aree? E se la risposta fosse “nessuno”? Questa sarà una delle più serie sfide di leadership del prossimo decennio.
In conclusione, volendo parafrasare Trotskij ancora una volta, possiamo dire che i nostri candidati preferiti alla presidenza forse non sono ancora interessati a parlare seriamente di futuro, ma il futuro sarà interessato a interloquire con loro. Traduzione di Anna Bissanti © 2-015 The New York Times
Il Sole 23.5.15
La Germania mette Atene alle corde
Merkel a Tsipras: c’è poco tempo e ancora molto lavoro da fare, l’accordo va raggiunto con le istituzioni
di Beda Romano


Riga Ancora una volta è fallito il tentativo del premier greco Alexis Tsipras di imporre una soluzione politica alla crisi finanziaria del suo paese, aggirando le trattative tecniche. L’atteso incontro di giovedì sera qui a Riga tra il primo ministro greco, la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese François Hollande, a margine di un (difficile) vertice europeo dedicato al Partenariato Orientale, è terminato con un nulla di fatto. Tutto è stato rinviato ancora una volta ai negoziati tecnici.
«È stata una discussione molto amichevole e costruttiva – ha detto la signora Merkel dopo l’incontro a tre terminato all’1 di notte in un albergo della capitale lettone -. Ma è molto chiaro che ulteriore lavoro deve essere compiuto con le tre istituzioni». La cancelliera si è così riferita alla Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, vale a dire alle tre istituzioni creditrici di Atene che dovranno in cambio di nuove misure concedere nuovi aiuti.
La Grecia ha bisogno di nuovo denaro per evitare il tracollo finanziario. In ballo ci sono 7,2 miliardi di euro provenienti da un programma economico in scadenza a giugno. Proprio all’inizio del mese prossimo, Atene è chiamata a rimborsare generosi prestiti all’Fmi. L’incontro di giovedì sera è terminato ancora una volta mettendo a confronto ottimismo greco e realismo tedesco. Mentre Tsipras ha parlato di accordo «a breve», la signora Merkel ha avvertito che «c’è ancora molto da fare».
Lo stesso Hollande si è allineato alla posizione tedesca: «Abbiamo bisogno di un accordo il più forte e completo possibile per facilitare i negoziati e superare le prossime scadenze». Il clima è avvelenato anche da voci e speculazioni. Secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, in un incontro privato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble avrebbe suggerito ad Atene di pensare all’adozione di una moneta parallela. Da Berlino, il ministero delle Finanze ha smentito.
Secondo le informazioni raccolte qui a Riga, gli ostacoli a un accordo riguardano sempre le riforme relative al sistema pensionistico e al mercato del lavoro, così come il risanamento delle finanze pubbliche (contrasti vi sono sugli obiettivi di bilancio). Il Financial Times spiegava ieri sera che, tra le altre cose, la signora Merkel e il presidente Hollande avrebbero spiegato al premier Tsipras che nessun accordo sarà possibile con i creditori europei senza il benestare del Fondo.
Agli occhi dei greci, l’Fmi è l’ostacolo forse più ostico. Da un lato il Fondo è favorevole a una ristrutturazione del debito greco, venendo così incontro alla posizione greca; dall’altro tuttavia è molto esigente in termini di politica economica prima di concedere nuovi aiuti. Tsipras ha incontrato ieri anche il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Un portavoce greco ha detto che i due si sono trovati d’accordo per considerare «raggiungibile» una intesa nelle prossime settimane.
Gli incontri greci si sono svolti a margine di un vertice dedicato al Partenariato Orientale. È stata l’occasione per correggere il tiro dopo che nel 2013 l’Unione ha dato l’impressione a Mosca di voler appropriarsi della sua zona d’influenza, contribuendo allo scoppio della guerra civile ucraina. I sei paesi del Partenariato Orientale – Moldavia, Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Armenia e Bielorussia – hanno rapporti diversi con l’Unione. I primi tre hanno firmato un accordo di associazione con Bruxelles.
Gli altri tre, invece, hanno preferito privilegiare i loro rapporti con Mosca. Un allargamento dell’Unione a questi sei stati non è in agenda. Nel comunicato si parla delle loro «aspirazioni europee», non più di prospettive europee. L’espressione è stata il risultato di accesi negoziati con i paesi più europeisti. In questo momento a Bruxelles prevale il desiderio di evitare nuovi screzi con Mosca, anche se l’Unione ha approvato ieri in via definitiva un prestito da 1,8 miliardi di euro all’Ucraina.
Repubblica 23.5.15
Le voci disperate di Palmira: “Noi, prigionieri siamo finiti”
La città siriana è ormai isolata ma soldati e civili lanciano richieste di aiuto con gli sms: “Moriremo, ma fino all’ultimo difenderemo il nostro patrimonio culturale”
di Anne Bernard, Hwaida Saad


La gente è terrorizzata L’unico panificio è controllato dallo Stato islamico
Sono contento che siamo liberi dal regime, ma non che siamo sotto il controllo del Daesh
Ho visto la foto del corpo decapitato di un’amica, la figlia diciannovenne di un generale

BEIRUT Il soldato dell’esercito siriano era stato in servizio a lungo a Palmira, ma era in congedo quando ha sentito che i miliziani dello Stato Islamico avevano attaccato un villaggio a nord-est della città nel deserto, uccidendo decine di suoi compagni. Ha spedito messaggi disperati cercando di raggiungerli. Nessuno gli ha risposto. La settimana scorsa ha condiviso la sua angoscia in una serie di sms, raccolti dal New York Times , mentre lentamente metteva insieme pezzi della storia con i sopravvissuti al massacro. I soldati gli hanno detto che avevano finito le munizioni. Un ufficiale ha chiamato il quartier generale via radio: «Per noi è finita ». La cosa peggiore, dice il soldato, è stata la fotografia che gli hanno mostrato del corpo decapitato di un’amica, la figlia diciannovenne di un generale siriano.
Palmira è un luogo in cui le tensioni covavano da tempo, una città tribale a maggioranza sunnita, dove una ribellione locale fu soffocata all’inizio della guerra e in cui i rapporti tra gli abitanti e le forze di sicurezza erano complessi. Un giovane ufficiale in servizio in quella città, proveniente dalla regione alawita, aveva confessato un anno fa di non sentire nessun collegamento con la popolazione e di temere che i residenti lo avrebbero ucciso alla prima occasione. Gli abitanti – sostenitori e oppositori del presidente Bashar Al Assad – hanno parlato di ufficiali in fuga, che hanno lasciato i civili e i militari di leva in balìa di se stessi. Un commerciante ha detto di aver visto dei militari filogovernativi correre disordinatamente nei frutteti, incerti su dove fuggire. «Tradimento », lo ha definito.
Giovedì, dopo che i miliziani hanno conquistato la città e iniziato ad mettere in atto le esecuzioni delle persone ritenute vicine al governo, molti abitanti si sono chiusi nelle loro case e nelle loro cantine terrorizzati dai miliziani per le strade, dai bombardamenti del governo e dagli attacchi aerei dal cielo. «Prevedo che il regime bombarderà la città in maniera massiccia, specialmente dopo le enormi perdite tra i suoi soldati», dice al telefono Khaled Al Homsi, membro del comitato che organizzò le proteste antigovernative a Palmira nel 2011, prima che qualcuno immaginasse lo scoppio di una vera e propria guerra civile, per non parlare di un gruppo come lo Stato Islamico. «I civili sono terrorizzati», afferma. L’unico panificio è controllato dall’Is. L’esercito sta bombardando in modo casuale ».
Homsi ha 32 anni e lavorava in un albergo. Usa un nome di battaglia per motivi di sicurezza. Dice che ha paura che i miliziani si vendichino contro di lui e contro altri attivisti che si oppongono tanto a loro che al governo. «Sono contento che Palmira sia stata liberata dal regime, ma non sono contento che sia caduta sotto il controllo del Daesh», dice, usando l’acronimo arabo per lo Stato Islamico. «Dal mio punto di vista, come attivista, non è una liberazione».
Khalil Al Hariri, un archeologo che si tinge i capelli di nero con il lucido da scarpe, è fuggito dalla sua casa al margine settentrionale della città, diventata la linea del fronte, mentre i suoi colleghi si affrettavano a portare via dal museo gli antichi reperti. Nelle poche strade commerciali di Palmira sono calate le serrande, chiudendo attività come quella dello Zenobia Café, che prendeva il nome da una leggendaria regina dell’antica Palmira. Omar, un compagno attivista di Homsi, ha cominciato a cancellare dal suo computer tutti i file che i miliziani potrebbero usare per incriminarlo. Homsi dice di non aver nulla da nascondere. Scherzando sul divieto di fumare dello Stato Islamico, dice: «Nasconderò le mie sigarette».
In attesa di recarsi a Palmira con i rinforzi, un soldato siriano di 27 anni ha spedito alla famiglia una fotografia: «Forse l’ultima », ha avvertito. Ma le strade erano bloccate. Un cugino gli ha risposto: «Resta dove sei, Dio ti ama». Dopo che i miliziani han- no preso il controllo, Hariri, l’archeologo, nuovamente raggiunto per telefono, ha detto di essere andato via con altre quattro persone. Tuttavia, ha detto: «La maggior parte dei civili è ancora lì». Poi, ha fatto una pausa. «Che cosa posso dire, la situazione è veramente brutta».
Un altro commerciante sbotta con rabbia: «È colpa dell’esercito ». Quando è arrivato l’assalto lui era fuori città, ma non è stato in grado di portare via i suoi genitori. Dice che suo padre gli ha riferito che i militanti hanno fatto un appello dai minareti perché la gente consegni tutti i soldati e gli impiegati pubblici. Tuttavia, allo stesso tempo, i miliziani si sono sparsi per la città per offrire dei servizi: «Stanno anche distribuendo del pane, Dio ce ne scampi».
Da giovedì notte, gli abitanti dicono che sono state messe a morte in pubblico diverse decine di persone. Gli eventi della giornata hanno presentato a Homsi un nuovo potere contro cui ribellarsi. «Ci opporremo alla distruzione della storia e del patrimonio culturale della città. La rivoluzione è stata e rimane la mia vita. Non accetteremo di farci opprimere da nessuno ». @The New York Times La Repubblica traduzione di Luis E. Moriones
Repubblica 23.5.15
Il dolore di Palmira Waterloo dell’Occidente
di Francesco Merlo


SOLO ora che non c’è, sappiamo che c’era e dov’era. Purtroppo solo ora che l’abbiamo persa, Palmira è per noi geografia che si fa storia: Palmira come Waterloo e come Danzica, come Sarajevo e come Dallas, come le Twin Towers e come Mostar, luoghi che segnano il tempo più degli anni, illuminano l’epoca più della filosofia. Dunque solo ora che comincia il “dopo Palmira” scopriamo che nella Palmira di prima c’era un pezzo della nostra identità . Innanzitutto nelle palme, nei tronchi alti e snelli che si piegarono per fare ombra a Maometto bambino e nelle foglie larghe ed aggraziate che si intrecciarono come un arco di trionfo al passaggio di Gesù.
Ebbene, da oggi il bellissimo nome di Palmira non parlerà più di quelle palme. Racconterà invece la guerra islamica all’Occidente, evocherà il terrorismo che si è fatto esercito e che si sta facendo Stato. Molto più delle date che si dimenticano e si confondono tra loro sono infatti i luoghi che riassumono la storia senza bisogno di aggiungere altro.
TIENANMEN per esempio, e piazza Fontana, nomi di isole come Sant’Elena ma anche Ustica e le Falklands, paesini come Lockerbie o come Salò. Forse la storia non è quella filosofia che ci insegnava Benedetto Croce, forse è geografia in cammino: Lepanto, Weimar, la Baia dei porci … E da oggi anche Palmira.
Ma sono quelli dell’Is che hanno ritrovato Palmira prima di noi. Eppure loro non distinguono tra le archeologie, vogliono distruggere con la dinamite e con i picconi tutto ciò che resta delle civiltà, non solo preislamiche. Si accaniscono infatti su colonne e statue ma anche sulle antiche moschee perché vorrebbero cancellare l’intera storia prima della Rivelazione, e dunque — se potessero — le Piramidi e persino la casa del profeta. Insomma combattono l’idea stessa di storia antica senza sapere che è un concetto romano anche la devastazione fisica e simbolica che non ha rimedio: la “tabula rasa”.
Palmira e Palmina e Palma sono anche i nomi di grazia e di delicatezza che hanno le ragazze italiane con gli occhi e i capelli neri, nomi di Terra Santa e di carovana. E Palmiro è il nome che l’ex seminarista Antonio Togliatti mise al figlio per ringraziare Dio che l’aveva fatto nascere nella domenica delle palme. Anche lui non sapeva nulla della città delle palme che ci mette i brividi solo adesso che ce l’hanno rubata perché, prima, la gran parte di noi, proprio come Antonio Togliatti, non la conosceva nemmeno.
E avevamo dimenticato che viene dalla città delle palme anche l’esotismo con cui i romani decorarono i mosaici nelle loro ville, come a Piazza Armerina per esempio. E sono palme colorate dai bizantini gli alberi della vita della Cappella Palatina di Palermo, alberi che nel Mediterraneo tengono testa agli ulivi. Le palme sono gli alberi della lussuria che in Asterix e Cleopatra sbucano improvvisamente dalla sabbia, alberi del sole ma anche delle oasi d’acqua, piante robustissime che neppure il punteruolo rosso riesce ad abbattere. E ci sono le palme nane, a cespuglio, quelle altissime che danzano nelle tempeste, tutte danno legno debole e dolce per ricoprire le capanne, foglie per i soffitti, palmeti per i datteri e paesaggi per le nostre sconfitte come sapevano i soldati italiani aspettando gli inglesi nell’oasi di Giarabub: “inchiodata sul palmeto / veglia immobile la luna”.
E però a Palmira i soldati dell’Is hanno trovato l’icona che noi avevamo perduto. Noi infatti dimentichiamo la bellezza, qualche volta la rinchiudiamo nei musei, in genere non ce occupiamo. Loro invece la distruggono. E noi scopriamo e rimpiangiamo le nostre pietre solo quando loro le riducono in polvere. E infatti anche le decapitazioni e i massacri, che sono ormai immagini di ordinaria ferocia che loro stessi divulgano, neppure ci sorprenderebbero se non fossero ambientate a Palmira. È la scenografia che ci mette una gran paura addosso. Eravamo abituati a vedere i macelli consumati negli scannatoi, in luoghi senza storia, nell’aridità dei deserti, nel degrado delle periferie, tra mura sbrecciate e piazzette di polvere e sporcizia. A Palmira invece le teste rotolano in un contesto di assoluta bellezza. È una novità che neppure Sade aveva immaginato. Le atrocità naziste, di regola, non venivano commesse sotto i monumenti ma in remoti boschetti, in appartamenti fuori mano, Birkenau vuol dire “bosco di betulle”, e la polizia stalinista torturava nei gulag inaccessibili della Siberia dove anche lo sputo gelava in aria. Mai gli assassini divulgavano immagini, tutti si fingevano buoni perché avevano la coscienza del misfatto, nascondevano la storia cancellando la geografia nel recondito e nell’indefinito. A Palmira invece il delitto è al quadrato: sacrilegio, profanazione, bestemmia di qualsiasi Dio. Sembra il mondo di Hieronymus Bosch, carne, scheletri e mostruosità nella luce accecante del giardino delle delizie.
La Stampa 23.5.15
“Un’armata di 22 mila stranieri, più forte di quella che sconfisse i sovietici in Afghanistan”
Rapporto riservato della Casa Bianca: kamikaze inarrestabili
di Paolo Mastrolilli


«Non abbiamo mai visto una roba come questa». La voce del funzionario del Dipartimento di Stato, che l’altro giorno ha tenuto un briefing riservato con i giornalisti sulla caduta di Ramadi, è più che preoccupata. Sarebbe meglio definirla sconsolata. Il presidente Obama ha detto che «non stiamo perdendo»: gli episodi di Ramadi e Palmira sono stati solo un incidente nel percorso di una lunga campagna. Ma l’impressione che si ricava dal briefing con questo alto funzionario, che lavora sul terreno in Iraq e Siria, e ha partecipato al vertice del Consiglio per la sicurezza nazionale tenuto alla Casa Bianca la sera della caduta della città nella provincia di Al Anbar, è diversa.
Come a Oklahoma City
La prima cosa che impressiona è la forza usata dall’Isis. Durante l’assalto finale sono state impiegate 30 Vbied, ossia autobombe guidate da jihadisti kamikaze. Di queste, almeno 10 avevano la stessa potenza esplosiva usata da Timothy McVeigh nel suo attentato a Oklahoma City. Significa che una trentina di militanti del califfato si sono immolati per dare il colpo finale agli avversari, e «hanno fatto saltare in aria interi quartieri». Azioni che potrebbero ripetere «nelle capitali dei Paesi alleati».
Il secondo problema è la quantità e la provenienza dei terroristi, e questo è l’elemento che ha spinto il funzionario del Dipartimento di Stato ad ammettere di non aver mai visto nulla di simile. L’Isis, secondo le stime dell’intelligence americana, può contare ora su almeno 22.000 combattenti stranieri, arrivati da un centinaio di Paesi diversi. «Per dare un contesto a questo numero, immaginate che si tratta del doppio dei mujaheddin andati in Afghanistan durante l’intero periodo di dieci anni della lotta contro le truppe di occupazione dell’Urss».
Detto questo, il problema ora è come fronteggiare una forza che minaccia di conquistare l’intero Iraq e la Siria. Obama ha detto che non intende mandare altri soldati americani, perché «se gli iracheni non vogliono combattere per il loro Paese, non saremo noi a poterlo fare». Il funzionario del Dipartimento di Stato non ha escluso altre operazioni delle forze speciali, come quella lanciata in Siria contro Abu Sayyaf, ma ha detto che il capo degli Stati Maggiori riuniti Dempsey non le ha richieste, e durante il Consiglio alla Casa Bianca non se n’è parlato.
E’ stato invece deciso l’invio immediato all’esercito regolare di 1.000 razzi anti-carro, da usare contro le autobombe per distruggerle prima che esplodano. Il fatto positivo, secondo l’alto funzionario, è che la forze irachene non si sono squagliate come a Mosul. Si sono ritirate, perché stavano perdendo, ma si sono raggruppate e stanno preparando la controffensiva. Gli elementi su cui ci si basa ora per evitare la caduta di Baghdad, e magari riprendere Ramadi, sono quattro: i soldati della Settima divisione che si sono ritirati; i circa 8.000 volontari delle tribù sunnite della regione che vogliono combattere l’Isis, e il premier Abadi intende armare; i 24.000 poliziotti di al Anbar che avevano disertato, ma sono stati amnistiati e torneranno in servizio; e soprattutto gli 80.000 uomini delle Popular Mobilization Forces, ossia le milizie in prevalenza sciite, che si sono formate in risposta alla fatwa contro l’Isis emessa dall’ayatollah al Sistani.
Governo senza soldi
Queste forze sono legate all’Iran, ma gli Usa non hanno alternative. Il governo di Baghdad è rimasto anche senza soldi, e solo «l’eroica azione del team dell’Onu presente in Iraq gli consente di avere i finanziamenti e far funzionare i suoi servizi». Una situazione estremamente complicata, quindi, che obbliga a rimandare l’offensiva per riprendere Mosul e lascia nell’incertezza i tempi per la controffensiva a Ramadi. Per «degradare» l’Isis, invece, «serviranno almeno altri tre anni».
La Stampa 23.5.15
Volontari, petrolio, nemici divisi ecco perché il califfato si espande
Finanziamenti e uomini continuano ad arrivare, Assad è indebolito, i sunniti iracheni temono l’influenza iraniana
Nove mesi di raid americani non sono bastati. Chi avrà la forza di mandare le truppe di terra?
di Maurizio Molinari


Perché il Califfato sta vincendo in Siria ed Iraq?
Per tre motivi convergenti. Primo: il nemico contro cui lo Stato Islamico (Isis) si batte sono gli eserciti governativi di questi due Paesi ed entrambi sono in pessime condizioni. Secondo: fra le tribù sunnite il sostegno per Isis è in crescita perché la diffusa percezione è che sia l’unica loro difesa dalle potenti milizie sciite sostenute dall’Iran. Terzo: la motivazione dei jihadisti sunniti è molto alta, vanno incontro al fuoco senza paura di morire perché imbevuti di un’ideologia che santifica il martirio.
Perché i raid della coalizione non riesconoa indebolirlo?
Oltre 6000 raid aerei, in gran parte compiuti dagli Stati Uniti, hanno distrutto centinaia di mezzi militari, edifici ed accampamenti ma sono in difficoltà nell’identificare le cellule di Isis perché si muovono in piccoli gruppi che ai satelliti appaiono come civili, a piedi, in auto o sui cammelli. In alcuni casi Isis è stata abile a proteggere gli spostamenti facendosi schermo con le tempeste di sabbia. Ma ciò che più conta è che nelle battaglie di terra, in zone urbane come Ramadi o Palmira, gli aerei possono poco se non sostengono truppe ben addestrate. A Kobane, in Siria, Isis è stato sconfitto perché i raid alleati erano coordinati sul terreno con i peshmerga del Kurdistan.
Perché il ferimento del Califfo e l'eliminazionedi alcuni leader non frena Isis?
Perché «Daesh», acronimo arabo per Isis, si autoalimenta con l’ideologia jihadista. Non è un’organizzazione terroristica classica, con gerarchie e catene di comando, bensì un gruppo di persone convinte nella necessità di usare la violenza più efferata sul prossimo per realizzare un’unica Jihadland, dal Pakistan al Marocco. Uccidere i leader serve a poco: ne emergono subito altri. A ben vedere anche il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi non ha il carisma di Bin Laden o al-Zawahiri, i leader di Al Qaeda. La forza sta nell’ideologia, capace di riprodursi ovunque.
Isis si sta rafforzando anche in Libia?
L’occupazione della «Sala Ouagadougou» di Sirte, dove Muammar Gheddafi ospitava i leader africani, dà la misura del rafforzamento di Isis in Libia. Se Derna è la roccaforte in Cirenaica e Bengasi è la città dove i jihadisti si muovono più facilmente, l’insediamento a Sirte svela un rafforzamento sul territorio confermato dal controllo di almeno una ventina di pozzi di greggio da cui Isis ottiene circa 200 mila barili al giorno. E’ l’afflusso di volontari da Tunisia, Egitto, Yemen e Sudan a rafforzare le cellule locali che hanno trovato in Libia una situazione favorevole per espandersi perché i due governi rivali, a Tobruk e Tripoli, creano una situazione di guerra civile endemica assai simile a quella siriana.
Quali altri Stati sono nel mirino del Califfo?
Anzitutto il Libano. La battaglia di Qalamun, iniziata il 6 maggio, continua perché Isis vuole sconfinare nella Valle della Bekaa per colpire le roccaforti Hezbollah, che alimentano il regime di Assad, spingendo i sunniti alla rivolta. Poi la Giordania, che oramai ha due confini con il Califfato, a Nord ed Est. E l’Arabia Saudita, come testimonia l’attentato di ieri alla moschea sciita di Qatif. Ma l’obiettivo più ambizioso è in Afghanistan-Pakistan con il gruppo «Khosaran», i taleban che hanno abbandonato il Mullah Omar per seguire il Califfo nella guerra genocida agli sciiti.
Chi e cosa può fermareil Califfato?
Le truppe del Califfato sono molto motivate ma non numerose: un intervento di terra da parte di un esercito ben strutturato potrebbe spazzarle via. Ma nessun Paese vuole farlo. Usa ed europei temono di impantanarsi, i Paesi arabi vedono il rischio di un effetto-boomerang ai loro danni e la Turchia, che dispone di un esercito formidabile, ha come priorità la caduta del regime di Bashar Assad, non la sconfitta del Califfo.
Ci sono degli Stati che in segreto aiutano il Califfo?
Nelle capitali del Medio Oriente è il tema più discusso. I sospettati sono numerosi ma ciò che colpisce è come il più citato sia la Turchia di Erdogan. Perché è attraverso il suo territorio che Isis riceve volontari e vende illegalmente greggio. Nonostante le proteste internazionali e le secche smentite di Ankara.
La Stampa 23.5.15
Mezza Siria nelle mani dell’Isis
Attacco anche in Arabia Saudita
L’Isis avanza, ecco perché non si riesce a fermarlo
di Maurizio Molinari


Lo Stato Islamico (Isis) apre le ostilità contro l’Arabia Saudita con un attacco kamikaze in una moschea del Qatif. Il bilancio di almeno 10 morti e 70 feriti nella «Imam Ali» del villaggio di Qadih, in una regione sciita, è rivendicato dai «Soldati del Califfato» con un comunicato sul web nel quale si preannunciano «giorni bui» per la minoranza sciita nel regno wahabita.
L’attentatore
L’identificazione del kamikaze in Abu Amer al-Najdi, cittadino saudita, è un messaggio a Riad: fra gli oltre duemila volontari sauditi nei ranghi di Isis molti «sono pronti al martirio». Nello scorso novembre era stato il Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, a chiedere ai seguaci di «colpire i Saloul», adoperando un termine dispregiativo per indicare nei sauditi la «testa del serpente e la roccaforte del male» da far «esplodere con un vulcano della Jihad».
Riad aveva preso sul serio le minacce, iniziando a costruire un vallo difensivo lungo i circa 1000 km di confine con l’Iraq, ma Isis riesce ora per la prima volta a colpire beffando la sicurezza saudita e rafforzando la proiezione di una potenza accresciuta in Medio Oriente.
L’avanzata jihadista
Nell’ultima settimana la conquista di Palmira ha portato il Califfato a controllare oltre il 50 per cento del territorio siriano - secondo un calcolo dell’Osservatorio sui diritti umani a Londra - e a minacciare tanto Damasco, come anche Baghdad dopo la presa di Ramadi. A conferma del consolidamento c’è il successo di al-Tanf, ultimo posto di frontiera Siria-Iraq ancora in mano al regime di Assad. Ciò significa che le milizie del Califfato potranno muoversi con più facilità fra Siria e Iraq, potendo accrescere il controllo sulle tribù locali. Ciò che accomuna i successi del Califfo è il messaggio di morte agli sciiti e ciò si ritrova nell’attentato nel Qatif, lasciando intendere di voler indebolire la credibilità del re Salman e del principe ereditario Bin Nayef, ex ministro degli Interni fautore della repressione contro i terroristi interni.
L’allarme italiano
Sono questi sviluppi che spingono il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, a sfruttare il summit Ue di Riga per dire che «il governo è preoccupato non solo per quello che succede in Siria ma anche per la forse ancor più minacciosa situazione in Iraq». «A Parigi ci sarà la riunione del gruppo di testa della coalizione anti-Daesh - termina Gentiloni, riferendosi a Isis – e sarà fondamentale una verifica della strategia seguita finora».
La Stampa 23.5.15
Francia, troppi sprechi. Cibo donato per legge
Negozi e supermercati obbligati a dare l’invenduto ai poveri La norma approvata ieri all’unanimità: multe fino a 450 euro
di Leonardo Martinelli


Sotto i viadotti della metropolitana, dietro alla Gare du Nord, a Parigi, si ammassano immigrati in transito per la capitale francese, affamati. Ma anche nei quartieri del centro, soprattutto d’inverno, è una costante la presenza di clochard alla ricerca di cibo. E intanto «i supermercati la sera cospargono di candeggina i cibi invenduti, vicini alla scadenza ma ancora commestibili, buttati nell’immondizia: vogliono che nessuno possa utilizzarli», ricorda scandalizzato Guillaume Garot, deputato socialista, alle spalle anni di battaglie contro lo spreco alimentare.
Ebbene, alla fine l’ha spuntata ma non solo lui, perché la nuova normativa è passata giovedì in tarda serata all’Assemblea nazionale, votata all’unanimità da tutti i deputati: destra, sinistra e verdi. Si tratta di tre emendamenti a una legge più vasta, sull’ambiente e l’energia. Si impone a tutti gli esercizi commerciali di non gettare l’invenduto alimentare e di donarlo perché venga consumato da chi ne ha bisogno. O, in alternativa, per poterlo utilizzare come mangime per gli animali, compost per l’agricoltura o in vista della valorizzazione energetica. L’obbligo è particolarmente forte per supermercati e centri commerciali, perché tutti gli esercizi con una superficie superiore ai 400 metri quadrati dovranno concludere un accordo con associazioni caritative. Chi sgarra rischia multe fino a 450 euro, anche se in una prima bozza erano previste multe fino a 75 mila euro e due anni di carcere.
I numeri da dimezzare
Ogni anno ogni francese getta in media tra i 20 e 30 chili di alimenti ancora utilizzabili, per un valore stimato fra i 13 e i 22 milioni di euro.
Il governo punta a ridurre la cifra alla metà da qui al 2025. La normativa appena approvata stabilisce anche che i supermercati non ricorrano alla candeggina per impedire la raccolta degli alimenti ancora buoni nei cassonetti. E prevede addirittura un programma di educazione alimentare anti-spreco fin dai primi anni di scuola. I tre emendamenti sono il risultato di una lotta «bipartisan». Se è stato Garot, il deputato socialista, a proporli inizialmente, una spinta a livello dell’opinione pubblica è venuta da Arash Derambarsh, vicino all’Ump, il partito di Nicolas Sarkozy. È un consigliere comunale di Courbevoie, periferia Nord-Ovest di Parigi, che ha iniziato a organizzare dei blitz per il recupero delle derrate alimentari alla chiusura la sera dei supermercati. Con l’aiuto dell’attore e regista Mathieu Kassovitz, aveva lanciato nei mesi scorsi una petizione per richiedere una normativa, sottoscritta da più di 200 mila persone.
Le uniche critiche sono arrivate da parte della grande distribuzione. Michel-Edouard Leclerc, proprietario di uno dei più importanti gruppi del settore, si è detto scettico sulla capacità delle associazioni di raccogliere, stoccare e distribuire il cibo loro donato. «È necessario un piano pubblico – ha detto – per sostenere queste organizzazioni. Bisogna comprare camion, frigoriferi. Non sarà facile».
La Stampa 23.5.15
“Spesso ci ammaliamo per i turni massacranti”
In sala operatoria anche 24 ore senza cambi
di P. R.


«È la nostra coscienza a trattenerci in corsia molte ore in più rispetto a quelle previste dal contratto, spesso nemmeno retribuite. Ma arrivati ad un certo punto le forze vengono meno e non ce la facciamo più». Ha la voce ed il volto segnato dalla stanchezza, la dottoressa Giuseppa Rita Pennisi.
Specializzata in chirurgia generale, è reduce dall’ennesima maratona di 16 ore in corsia nell’ospedale di Trapani: «Purtroppo per noi, dati i carichi di lavoro e l’esiguità del personale, spesso non abbiamo alternative e non otteniamo neppure nulla in cambio». Per la dottoressa e i tanti suoi colleghi sotto pressione ora però c’è uno spiraglio con la possibilità di ottenere un sostanzioso rimborso dallo Stato: «Molti medici non ne sono ancora informati, ma il pagamento degli straordinari è un nostro diritto e dobbiamo esercitarlo per ottenere quanto ci spetta». Di storie come queste ce ne sono migliaia in tutta Italia. Un recente studio del sindacato dei medici ospedalieri Anaao, lo ha anche certificato: Il 77,5% dei medici ospedalieri ritiene che la propria vita privata sia negativamente condizionata dalla attività lavorativa e addirittura il 22% non riesce ad avere una vita personale soddisfacente.
Straordinari eccessivi
«E come potrebbe esserlo se ogni giorno gestiamo più di 20 pazienti, facendo in media 13 guardie al mese e per le carenze d’organico, spesso, dobbiamo lavorare anche dopo il turno di notte», afferma il dottor Mario R. dopo una interminabile giornata trascorsa al pronto soccorso del Sant’Andrea di Roma. «Sa quante ore accumulo di straordinari al mese? Oltre 150...», dice Roberto L. che lavora al «Cardarelli» di Napoli ed è pronto a tuffarsi nei ricorsi: «La legge è dalla nostra parte e stiamo trovando supporto nelle stesse aziende sanitarie». Nel frattempo, però, l’incidenza dei turni massacranti sembra avere pesanti ripercussioni sulla salute dei camici bianchi: Il 40% riferisce di avere disturbi del sonno. Di questi quasi il 12,2% assume regolarmente farmaci anti-insonnia, il 34,2% presenta una sindrome della fase del sonno ritardata, il 6,2% addirittura narcolessia.
Risorse umane
«Esiste da tempo un utilizzo estremamente pesante delle risorse umane da parte delle aziende», afferma dottor Salvatore Vitale, otorinolaringoiatra siciliano, che poi aggiunge: «È molto importante cercare di recuperare quel che ci è stato tolto, almeno dal punto di vista economico, visto che noi medici, tra reperibilità e notti passate in ospedale, siamo stati sottoposti a turni massacranti». «Il numero di medici presente in un reparto – spiega Diego Piazza, presidente di Acoi, l’associazione dei chirurghi e capo dipartimento Chirurgia azienda policlinico-Ove di Catania - non viene stabilito dalla direzione generale ma risponde ad una legge dello Stato. Poi però vediamo che ci sono reparti con un solo chirurgo e mi chiedo come sia possibile far rispettare un orario di servizio adeguato, quando casomai su quattro medici a supporto del chirurgo due hanno la 104 e un altro ha un’invalidità per cui non può fare le notti». E se per i camici bianchi lavorare così è uno stress per i pazienti diventa un rischio.
Repubblica 23.5.15
Ancora freni ai super presidi il collegio docenti premierà i prof
Il governo apre alle richieste dei sindacati in vista dell’approdo della legge al Senato E mercoledì riprende la trattativa
di Francesco Bei, Corrado Zunino


ROMA Il governo apre ancora. Ai docenti schierati contro “La buona scuola”, ai sindacati che lunedì incontreranno il ministro Stefania Giannini al Miur, alla minoranza del Pd che si oppone al preside potente. Le trattative informali sono già partite e diventeranno richieste esplicite nei due giorni di audizioni che mercoledì prossimo — con Francesca Puglisi (Pd) e Franco Conte (Ap) relatori — apriranno il viaggio del disegno di legge in Senato. Ci sono tre punti su cui governo e sindacati discuteranno per trovare una mediazione. Un quarto è già condiviso: il “bonus school”, ovvero la possibilità per un privato di finanziare un istituto scolastico, avrà un tetto. Nessuno potrà investire cifre che in qualche modo lo autorizzino a dettare condizioni.
Le altre tre questioni sono desiderata del sindacato sulle quali il governo è disposto a trattare. Quella di maggior rilievo è la riapertura del capitolo assunzioni. Oggi, dopo il voto alla Camera, il ddl 2294 dice che i 101.700 neoinsegnanti saranno presi (e portati in cattedra il prossimo 1 settembre) dalle Graduatorie a esaurimento, la prima fascia. Quindi, 4.200 idonei al concorso 2012 saranno assunti nel 2016. Tutti gli altri abilitati dovranno passare per il concorso del 2016. Le seconde fasce potranno entrare, solo per fare supplenze, in quelle discipline dove non ci saranno più precari Gae da assumere. Ecco, il sindacato, che in chiaro chiede un piano di stabilizzazione ben più ampio dei 160mila assunti nei prossimi due anni, nelle trattative riservate si accontenta dell’assunzione di una fetta di docenti abilitati di seconda fascia — 25mila — che ha già fatto supplenze per almeno tre stagioni (i 36 mesi indicati dalla Corte di giustizia europea). Il governo potrebbe aprire e immaginare una stabilizzazione graduale limitata ai “+36 mesi”: dentro in tre anni, saltando il concorso. Poiché i numeri degli assunti totali — 160 mila in due stagioni — devono comunque restare fermi, la stabilizzazione dei “+36 mesi” significherebbe far scendere il bando 2006 da 60 mila posti a 35 mila. I responsabili scuola del Pd, tuttavia, sono scettici sull’ipotesi del governo: assumere solo una parte dei seconda fascia potrebbe invitare a ricorsi di massa da parte dei 125 mila esclusi presenti nella stessa graduatoria. Un’altra richiesta del sindacato su cui il governo apre è la gestione dei 200 milioni di premi ai professori migliori. Dalla versione iniziale (li assegna il preside), si era passati alla versione edulcorata (li assegna il preside su criteri stabiliti da un comitato di valutazione). Ora in Senato si potrebbe decidere che una quota dei premi sarà assegnata ai docenti dallo stesso collegio docenti. L’ultima apertura il governo la potrebbe fare sui bacini territoriali, e anche questa sarebbe una limatura dei poteri del dirigente scolastico. In questi “bacini” dove saranno collocati i neoassunti i sindacati vogliono ristabilire le graduatorie: chi è più in alto potrà scegliere la scuola dove vorrà insegnare. Il governo potrebbe trovare un sistema ibrido in cui a fianco della graduatoria resiste la “chiamata diretta” del preside.
Ieri in serata Francesca Puglisi ha dovuto rinunciare a un convegno sulla scuola allestito per oggi a Bologna dalla Cgil. Cambio di sede all’ultimo, possibili contestazioni in vista, sicurezza non garantita. La Puglisi ha declinato l’invito, la Cgil ha gradito.
Corriere 23.5.15
Ordinario razzismo
Viaggiatori senza biglietto e regole di Trenitalia
di Sergio Bontempelli


Mattino, treno regionale 3041 Lucca-Firenze. Un passeggero, italiano, non ha il biglietto. Ha l’aria strafottente, e si rivolge a male parole alla capotreno che, giustamente, gli fa la multa. Pomeriggio, regionale 23364 Firenze-Pisa. Un altro passeggero, senegalese, strafottente anche lui, è senza biglietto. Stavolta la capotreno ordina di scendere alla prima stazione. C’è anche un poliziotto che lo caccia senza troppi complimenti.
Decido di intervenire. Chiedo alla capotreno perché ha fatto scendere il passeggero: la legge dice che in questi casi bisogna fare la multa, inviandola a casa per posta se l’interessato non paga subito. Lei mi dice che si è comportata secondo le regole, e io insisto: desidero il riferimento normativo esatto. Mi chiede le mie generalità e io le mostro un documento, chiedo che prenda nota dei miei dati e che inserisca le mie contestazioni nel verbale. Lei si siede, respira e mi dice che in effetti la cosa non è prevista dalla legge, ma dai regolamenti interni di Trenitalia. Le mostro i regolamenti e le faccio notare che dicono il contrario. Lei telefona ad un responsabile: «ciao, scusa, ho fatto scendere un tizio “di colore” (è rilevante il dettaglio? I passeggeri non sono tutti uguali?) e adesso c’è un altro passeggero che mi chiede in base a quale legge ho agito». Dall’altro capo del telefono sento citare le Condizioni generali di Trasporto, art. 7. Riapro l’Ipad, cerco le Condizioni generali di Trasporto, vado all’art. 7 e glielo mostro: parla di multa, non di discesa forzata dal mezzo. «Ma io sul treno ho un potere discrezionale», prova a difendersi. Regolamenti alla mano, le faccio notare che le cose non stanno così. Alla fine si arrende: «Faccia una contestazione formale e vediamo cosa le rispondono». E così ho fatto: ho chiamato il call center della Regione Toscana e ho chiesto una risposta scritta dell’azienda. Nel frattempo, un passeggero italiano ha avuto una multa, e uno «di colore» — per usare la terminologia superficiale dell’operatrice — è stato cacciato in malo modo dal treno...
Repubblica 23.5.15
“Qui non vi vogliamo” Alla frontiera di Mentone dove gli agenti francesi respingono i migranti
Parigi teme un’invasione. E così blinda il confine, dando la “caccia” anche sui treni agli immigrati sbarcati in Sicilia, spesso violando trattati e diritti Ma loro promettono: “Torneremo qui e passeremo”
di Massimo Calandri


MENTONE Alle 7 e un quarto del mattino il furgone bianco della Crs, il Reparto Mobile francese, supera l’antico confine di Ponte San Luigi e accosta. Scendono due poliziotti in pantaloni e maglietta blu, guanti neri. Trascinano giù tre ragazzi eritrei, l’espressione smarrita. Gli agenti li spintonano, urlano «andate via!», fanno segno: «Italia, Italia». I tre voltano le spalle e si muovono, però non sembrano convinti. Si fermano dopo un centinaio di metri, guardano indietro. «Perché?». E’ così strano, riflettono: almeno avrebbero dovuto consegnarci agli italiani e con uno straccio di verbale, invece... Ma gli altri sono lì che li osservano. E puntano l’indice minacciosi: «Italia!». Gli eritrei riprendono a salire la strada a piedi. Tra poco saranno di nuovo a Ventimiglia. Forse stasera riproveranno ad andare in Francia. Forse stasera andrà meglio.
«Alerte rouge à la frontière franco- italienne» titola Le Figaro. «La Riviera sotto massima sorveglianza», incalza la televisione. I disperati sbarcati a Lampedusa sono già qui e molti altri ne arriveranno, raccontano i media transalpini. La Francia schiera i gendarmi al confine di Mentone, presidia i passaggi, intensifica i controlli sui treni dalla Liguria. Però dopo Schengen non è così semplice mettere delle barriere. Tra i due paesi in materia di riaccompagnamento c’è pure l’accordo di Chambéry (1997). Bernard Cazeneuve, ministro degli Interni, sostiene che «negli ultimi 15 giorni 890 migranti sono stati scortati alla frontiera, 390 questa settimana». Propaganda? Secondo la polizia italiana invece non sono più di cento le persone ufficialmente rientrate dall’inizio del mese. Gli altri migranti sarebbero stati più o meno “convinti” come i tre eritrei a Ponte San Luigi. A spintoni. O lasciati liberi di proseguire nel loro progetto di una nuova vita, magari più a nord: Olanda, Danimarca, Scandinavia.
Il primo treno dall’Italia ferma a Mentone-Garavan, un chilometro esatto dal confine, alle 7.23. Ne arriva uno più o meno ogni mezz’ora. L’ultimo è alle 21.28. Venti uomini della Crs ispezionano i vagoni. La caccia dura un paio di minuti, il convoglio riparte. Quattro furgoni della polizia parcheggiati sotto le palme della piccola stazione. Gli agenti fanno la spola con quella di Mentone: altri controlli, i passeggeri in attesa guardano stupiti e un po’ inquieti. Per le auto ci sono due valichi (Ponte San Ludovico, lungo il mare; Ponte San Luigi, in alto) e quello della Turbie in autostrada. La presenza della polizia è visibile ma discreta. In questi giorni c’è il Festival di Cannes, domenica il gran premio di Montecarlo: non è il caso di dare ai turisti l’impressione di una Riviera “militarizzata”.
Gli agenti francesi ostentano i muscoli però brontolano: «Le leggi non sono chiare. Non sappiamo come comportarci. L’ordine è frugare tra le loro cose e trovare la “prova” che vengono dall’Italia: un biglietto, un certificato medico, la richiesta di permesso o di asilo». Gli indizi finiscono nel dossier dello straniero, trasmesso alla polizia di frontiera italiana. Che si prende tutto il tempo necessario per fare le verifiche, avvertire il magistrato e l’ufficio immigrazione. Possono passare giorni. Da questa parte del confine non c’è fretta. La legge transalpina prevede che dopo 4 ore il migrante sia liberato o ospitato per altre 48 ore al massimo presso una struttura controllata. Ecco perché poi finisce che un furgone scarica tre eritrei spaventati, e i poliziotti li “ricacciano” in Italia. O come giovedì pomeriggio, quando venti stranieri sono stati rimandati indietro dalla stazione di Garavan, solo che vagavano per i binari e il Thello — il supertreno Milano-Marsiglia — è rimasto fermo per 2 ore prima di sgomberare la tratta. Ci sarebbero almeno altre due segnalazioni di episodi del genere trasmesse al nostro ministero dell’Interno.
La Francia alla fine dell’anno deve fare i conti con le elezioni regionali. La Costa Azzurra è tradizionalmente un feudo del centrodestra. Il sindaco di Nizza, la città più videosorvegliata d’Europa, è Christian Estrosi, grande amico di Sarkozy: ha fatto sgomberare dalla stazione ferroviaria un “accampamento” di migranti arrivati da Ventimiglia, pretendendo «che sia impedito a questa gente di entrare e siano espulsi i clandestini. Subito». Il presidente del Dipartimento — Eric Ciotti, monsieur Securité — ha rincarato la dose. Il ministro Cazenave ha risposto con le cifre. Che però non tornano.
Con i gendarmi al confine, a Ventimiglia i passeur fanno affari d’oro: un semplice trasporto in macchina da Ventimiglia a Mentone costa 50 euro, per arrivare fino a Nizza ce ne vogliono 150-200. Qualcuno pure di continuare nel suo viaggio verso il nord sceglie i vecchi sentieri dei contrabbandieri, che a piedi s’arrampicavano da Grimaldi Superiore fino alla cima di Punta Giraglia, quel panettone calcareo a picco sulla frontiera, e poi la discesa insidiosa fino a Garavan. Di notte ci vogliono almeno tre ore, l’ultimo tratto è il famigerato Passo della morte, perché tanta gente negli anni addietro è precipitata di sotto. Una notte un sudanese di 25 anni è rimasto aggrappato alla roccia sospeso nel vuoto, i pompieri di Cannes sono andati a salvarlo con in elicottero. Con una decina di suoi connazionali è già tre volte che tenta di passare, ma i francesi li rimandano indietro. I ragazzi africani riproveranno. «Ce la faremo - promettono - in un modo o nell’altro».
Corriere 23.5.15

Il reddito di cittadinanza dei dissidenti dem
La minoranza dem si schiera con l’associazione Libera nella battaglia per il reddito di cittadinanza. La sinistra pd, sulle orme di M5s e Sel, ha presentato un ddl in Senato, auspicando che il governo «dopo l’impegno su Irpef ed Irap dia una risposta anche su questo». «La battaglia sul reddito di cittadinanza è giusta e da sostenere», ha detto Roberto Speranza, che ieri ha annunciato l’iniziativa insieme a Enza Bruno Bossio (foto Italy Photo Press) . «Ben venga Speranza — ha detto Nunzia Catalfo, prima firmataria della proposta M5S —. Il testo e già calendarizzato, lo stiamo discutendo in Commissione e se la sinistra del Pd aderisce non possiamo che essere contenti»
Corriere 23.5.15
Perché il premier ora apprezza la lezione inglese
di Francesco Verderami


La camicia bianca non tira più, è in giacca che gli italiani preferirebbero vedere Renzi. Non è questione di gusti né di moda, è una richiesta politica vissuta dall’opinione pubblica come un’esigenza, la volontà di vederlo legato più strettamente al ruolo di presidente del Consiglio.
L’Italia parla al premier, non solo attraverso i social net-work. La voce del Paese gli giunge anche attraverso i sondaggi, dai quali risulta come i cittadini vorrebbero da Renzi un cambio di abito e un cambio di linguaggio. Rispetto ai tempi in cui conquistò la scena da rottamatore, l’approccio giovanilista e la tendenza alla battuta creano oggi distacco, e infatti si chiede al premier un profilo istituzionale.
Fossero questi i guai, Renzi indosserebbe lo smoking ad ogni conferenza stampa. I nodi sono altri, tutti attorcigliati nella matassa ingarbugliata della crisi: un recente report riservato di Swg, per esempio, segnala al capo del governo come si sia allargata di altri quattro punti la forbice tra chi si sente escluso (73%) e chi si sente incluso (27%) «rispetto al contesto sociale ed economico nazionale». Una frattura clamorosa che accompagna i dati sulle «principali preoccupazioni» degli italiani, legate alla «disoccupazione» (42%), alle «tasse» (33%) e alle «prospettive per i giovani» (32%).
È chiaro che tutto ciò si riflette sul consenso del premier, del suo governo e del suo partito, in uno scenario politico che — a detta di Renzi — mostra un elettorato fluido, ormai fuori dai vecchi recinti ideologici e che non risponde più ai richiami delle forze politiche: «Sono cambiati gli elettori, che ci consegnano nuove domande». Tutto oggi si scompone e si ricompone in fretta. Sembra passato un secolo, e invece non è passato nemmeno un anno da quando il leader del Pd, analizzando i flussi del voto europeo, spiegò al suo stato maggiore che «si è ridefinita la base sociale del nostro partito».
In effetti il 40% degli elettori che aveva portato il Pd al 40,8% proveniva da altre formazioni: Forza Italia, Lega, M5S, Scelta civica. Il profilo dei Democratici era mutato: più interclassista e con un consenso omogeneo sull’intero territorio nazionale. Era il partito della nazione, appunto, frutto di un programma che abbatteva i vecchi totem sul Jobs act, sulla riforma della Costituzione, sulla responsabilità civile dei magistrati, sul rapporto con i sindacati.
Oggi però — secondo le indagini demoscopiche — un terzo di quel 40% di elettori se n’è andato: una parte (minima) si è spostata a sinistra, la maggioranza invece è rifluita verso l’astensionismo. È il segno che Renzi continua a non aver rivali, ma che la luna di miele è terminata e si è arrestato il trend positivo. Gli analisti ritengono che la flessione si registri soprattutto tra gli elettori in difficoltà economica e che confidavano in un’immediata ripresa: paradossalmente gli 80 euro avrebbero creato un’eccessiva aspettativa.
Non a caso il premier — che presta attenzione a questi dati più di quanto ne riservi alle percentuali dei partiti — ha battuto negli ultimi tempi il tasto sugli «aiuti» da dare «ai più poveri»: avvertiva (e avverte) la loro delusione, e così mirava a contrastare (anche) l’offensiva dei grillini, che drenano consensi proprio in quelle fasce di elettorato con l’idea del reddito di cittadinanza. Ma la maledizione del tesoretto si è abbattuta anche su Renzi per mano della Consulta e della sentenza sulle pensioni.
L’elemento critico nel rapporto con l’opinione pubblica è il tempo d’attesa — legato ai tempi della crisi — che finisce per influire sui giudizi: un anno la maggioranza assoluta dei cittadini era favorevole all’Italicum, un anno dopo i numeri si sono ribaltati. Si palesa così — raccontano i sondaggi — un Paese schizofrenico a seconda del contesto. E non c’è dubbio che «il contesto» stia giocando un ruolo sull’accoglienza della riforma scolastica da parte degli elettori. Il «contesto» crea difficoltà al premier persino nella sua narrazione dell’Italia che verrà, perché le riforme vengono percepite come segmenti a se stanti, non come pezzi di un unico puzzle.
Ecco il quadro, ed ecco il motivo per cui il leader del Pd punta alle urne nel 2018. Il voto inglese l’ha rafforzato nel convincimento, «è stato un’autentica lezione», non solo per la sconfitta della sinistra di Miliband ma soprattutto «per il successo di Cameron, che ha potuto spendere in campagna elettorale i risultati economici del suo governo». Perciò Renzi legge i sondaggi e li interpreta inseriti nel «contesto», perciò si dice proiettato verso la fine naturale della legislatura, dove conta di presentarsi senza più camicia sbottonata e senza parlare più di rottamazione. Ma con il saldo positivo delle sue riforme.
Corriere 23.5.15
Economia e astensionismo, le incognite sulle Regionali
di Massimo Franco


Le parole usate ieri da Matteo Renzi in vista delle elezioni di fine maggio sono stranamente caute. Fanno intuire che il premier nutre qualche incertezza sulla possibilità di conquistare tutte o quasi le sette regioni in cui si vota; e che il suo timore principale è dato dai possibile effetti dello scontro all’interno del suo stesso partito. Così, quando dice che «non deve contare il numero delle regioni vinte ma quanti posti di lavoro riusciremo a mettere in piedi», schiva i sondaggi. E quando spiega che l’Italia ce la farà «se smettiamo di occuparci di polemiche interne», alludendo al Pd, invita ad un’unità interna non scontata.
Ha ancora dalla sua la vittoria alle europee dello scorso anno: quel 40,8 per cento storico, che magari si sarà assottigliato ma «puntiamo a vincere dovunque», azzarda il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Renzi ricorda con un filo di cattiveria quando, ad ogni sconfitta, nel Pd si faceva «terapia di gruppo come per gli alcolisti anonimi». Non è un caso che abbia parlato in questi termini a Salerno, davanti al candidato governatore della Campania, Vincenzo De Luca: un esponente condannato in primo grado e in teoria non legittimato ad assumere l’incarico anche se eletto.
Per di più, De Luca è appoggiato da liste nelle quali figurerebbero degli «impresentabili». A definirli così è stato lo stesso Renzi, nei giorni scorsi. E nel Pd i suoi avversari adesso usano l’argomento contro di lui. Critiche in buona parte strumentali, ma che si saldano con i dubbi delle settimane scorse su un eventuale successo di De Luca. Ieri il premier lo ha sostenuto pubblicamente: la possibilità di strappare la Campania al centrodestra fa passare in secondo piano le remore.
A sospendere la sua entrata in carica, infatti, dovrebbe essere Renzi stesso, in quanto presidente del Consiglio: a meno che la legge non venga cambiata in corsa. La preoccupazione non è tanto per il centrodestra. A parte il Veneto, dove è molto probabile una vittoria leghista, altrove le truppe berlusconiane appaiono sbandate. Silvio Berlusconi sta cercando di aumentare il livello dello scontro con il premier. Lo accusa di trovarsi a palazzo Chigi senza essere stato eletto. Eppure, fino all’elezione del capo dello Stato, il problema sembrava marginale, e questo indebolisce la sua polemica.
Le vere incognite che Renzi sa di dover fronteggiare sono altre. Intanto, un astensionismo aggravato dalle liti a sinistra e a destra, che potrebbe avvantaggiare il M5S. E poi, al solito, l’economia. Palazzo Chigi non può allineare i risultati ottenuti come avrebbe voluto. La sentenza della Corte costituzionale sui rimborsi ai pensionati ha asciugato il «tesoretto» annunciato in vista di misure per la ripresa. E Renzi ha dovuto correggere l’irritazione del ministro Pier Carlo Padoan, ribadendo massimo rispetto per la Consulta.
Corriere 23.5.15
Se il trasformismo fa bene alle riforme
di Michele Salvati


I nostri politici studieranno i risultati delle imminenti elezioni regionali con lo stesso interesse che gli aruspici romani dedicavano alle viscere dell’animale prescelto per il vaticinio. Dalle regionali si trarranno poi congetture per le più lontane elezioni nazionali: continuerà la resistibile ascesa di Matteo Renzi e il disfacimento di Forza Italia? Riuscirà Salvini a estendere la sua influenza a tutto il Paese? Il disgusto e l’indignazione per la politica continueranno a gonfiare le vele dei Cinque Stelle? Nessuno può negare che si tratti di interrogativi importanti, meritevoli di analisi, sondaggi e vaticini. Credo però che cittadini, politici e commentatori debbano rassegnarsi ad una fase non breve di instabilità e di incertezza, diversa sia dalla facile prevedibilità della Prima Repubblica (prevalenza sicura della Dc e dei suoi alleati), sia da quella della Seconda (vittoria o sconfitta di Berlusconi e alleati contro sinistra e alleati), esito questo meno facile da prevedere ma inquadrato in uno schema bipolare chiaro. Questo schema oggi è in pezzi e quale sia quello che lo sostituirà è per ora ignoto.
In un editoriale di grande interesse ( Corriere della Sera , 17 maggio) Ernesto Galli della Loggia vede nel nostro futuro quel che era già avvenuto nel passato, un esito trasformistico, l’impossibilità di organizzare stabilmente la competizione politica sulla base di due schieramenti. Alternativi sì, ma idonei a governare per il rispetto che entrambi nutrono per i principi del liberalismo e della democrazia, per l’adeguatezza dell’analisi dei mali del Paese e delle riforme necessarie a contrastarli, per la qualità delle classi dirigenti che possono mettere in campo: vogliamo chiamarli una destra e una sinistra civili? Il trasformismo di Depretis nasceva proprio dal riconoscimento che, raggiunta l’Unità attraverso il Regno, le vecchie passioni che avevano alimentato il conflitto tra destra monarchica e sinistra repubblicana si andavano attenuando ed entrambe erano disposte a collaborare al compito gravoso di costruire un Paese moderno e rispettato. Collaborare tenendo ai margini le forze antisistema, quelle che si rifiutavano di accettare il fatto compiuto di un Regno laico e conservatore: repubblicani intransigenti, cattolici, socialisti. E, di nuovo, fu trasformistica l’esperienza di un passato più recente, la seconda parte della Prima Repubblica: la necessità di impedire l’accesso al governo del Pci «costrinse» a stare insieme forze politiche che in altri Paesi si alternavano al governo, democristiani e socialisti.
Insomma il trasformismo (in senso sistemico, l’impossibilità di alternanza, non solo il banale cambiar casacca per opportunismo individuale) starebbe nelle corde profonde del nostro Paese e ora riemergerebbe nelle forme del «partito della Nazione», il partito democratico di Renzi. Vedo anch’io le forze che oggi si oppongono ad una democrazia dell’alternanza: Berlusconi ha fallito nel suo compito — ma se l’era mai posto? — di creare un partito di centrodestra capace di buon governo, e che fosse in grado di reggere al declino inevitabile del suo potere carismatico. E non sarà né semplice, né rapido il processo che condurrà all’emersione di uno sfidante serio al Pd, anche a seguito della forza d’attrazione che la sua linea riformatrice e centrista esercita sui ceti più moderati e governativi del centrodestra.
Faccio però fatica a paragonare questa incipiente fase di centrismo con le due lunghe fasi storiche cui Galli della Loggia si riferisce: le forze che impedivano l’alternanza allora erano assai più potenti di quelle che la rendono difficile ora. Oggi il suffragio è universale, la legge elettorale si limita a concedere un premio di maggioranza non diverso da quello che con diversi metodi il partito più votato ottiene in altri Paesi democratici, e non c’è alcuna conventio ad excludendum come quella che ostacolava l’accesso al governo del Pci nella Prima Repubblica: se Grillo o Salvini ottengono più voti di Renzi, governano loro.
Io resto un sostenitore di una democrazia competitiva, che consenta alternanza di governo. E spero che il centrodestra sia in grado di trovare un campione credibile in tempi non biblici. Ma se l’attuale governo soddisfa gli elettori non vedo cosa ci sia di male se esso viene sostenuto da ceti sociali e da politici che in passato avevano appoggiato governi di diverso colore. «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?»: questa è la famosa frase di Depretis che diede origine all’epiteto di «trasformismo» (G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema , Laterza, 2003). In un italiano più moderno potrebbe averla detta Renzi — di fatto ha spesso sostenuto tesi simili — e la troverei assennata: se la competizione non è esclusa, un po’ di centrismo e di stabilità governativa possono anche favorire un processo riformatore.
La Stampa 23.5.15
Il paese reale che la politica non capisce
di Mario Deaglio

Sono circa 23 milioni – un po’ meno di un elettore su due – gli italiani chiamati a votare, nelle elezioni locali che si terranno domenica 31 in sette regioni e in oltre mille Comuni d’Italia: un’occasione molto importante per capire com’è veramente fatto e che cosa si deve fare per questo Paese, nella prospettiva di una risalita della produzione che sembra finalmente arrivata, ma si manifesta sul territorio con molta irregolarità ed eccessiva lentezza. Un Paese diventato, con il passare degli anni, sempre più sfuggente, sempre più enigmatico e sempre meno in sintonia con i politici, come dimostrano, tra l’altro, gli elevati livelli di astensione nelle recenti prove elettorali.
Per questo motivo, il «Rapporto Annuale 2015» sulla situazione del Paese, preparato dall’Istat e presentato a Roma mercoledì scorso, riveste un’importanza particolare. Si tratta, come lo definisce lo stesso Istat, di una «riflessione documentata sui cambiamenti economici e sociali in atto» ossia di quelle valutazioni per le quali le forze politiche sembrano non aver mai tempo.
Questa «riflessione documentata» è condotta con metodi nuovi: si basa sull’esame di quelli che il Rapporto definisce «sistemi urbani giornalieri», ossia delle reti che si formano grazie agli spostamenti degli italiani per andare e tornare dal loro luogo di lavoro e definiscono, di fatto, un territorio con le sue potenzialità e le sue esigenze. Il che ha consentito, secondo l’Istat, di approntare nuove mappe per leggere il «Paese reale». Si tratta precisamente di quel «Paese reale» con il quale la politica ha una crescente difficoltà a mettersi in sintonia e di una visione per lo meno complementare, forse sostitutiva, di quella tradizionale, basata su entità geografico-amministrative, come sono le regioni, i comuni e le città metropolitane.
Sotto la lente dell’Istat, l’Italia si rivela economicamente molto più variegata di come viene normalmente presentata. Esiste un «altro Sud» fatto di quasi mille comuni che comprende quasi tutta la Sardegna, il Salento, le coste della Sicilia e della Calabria e quasi 7 milioni di abitanti che può vantare un certo dinamismo e discrete prospettive future; il modello della «città diffusa», presente soprattutto nella pianura lombardo-veneta, ma anche in varie zone del Centro, conta complessivamente 12 milioni di abitanti e 1500 Comuni e sembra contrapporsi, non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello dello stile di vita, alle «grandi città del Nord» che vantano 18 milioni di abitanti. L’elenco potrebbe continuare, mettendo in luce una varietà che quasi certamente non ha paragone al mondo.
L’Italia è stata sovente paragonata a un vestito da Arlecchino: il numero delle «pezze» che compongono questo vestito risulta molto superiore a quello che ci saremmo potuti attendere. E mentre il Mezzogiorno è praticamente scomparso dal dibattito sulla politica economica (un dibattito, peraltro, che diventa sempre più asfittico) tocca all’Istat sottolineare che la crescita dell’occupazione ha riguardato soltanto il Centro-Nord mentre il numero degli occupati al Sud si è ridotto fortemente durante la crisi. Ed è l’«Economist», noto settimanale inglese a scrivere «il Nord va avanti zoppicando, ma il Sud collassa», lanciando, pochi giorni prima dell’uscita di questo Rapporto, un grido d’allarme per questo divario sul quale troppo facilmente in Italia si chiudono gli occhi. Eppure il Mezzogiorno non è affatto privo di potenzialità e dispone di sistemi locali che potrebbero abbastanza facilmente essere rilanciati.
Alle diversità si accompagnano elementi tipicamente italiani di uniformità. Dal punto di vista economico, uno dei più importanti è dato dalla struttura imprenditoriale: le «microimprese», ossia quelle con meno di 10 addetti, rappresentano quasi la metà dell’occupazione complessiva, contro meno di un terzo della media europea. Le imprese con più di 250 addetti rappresentano solo un quinto dell’occupazione complessiva. Se le imprese piccole diventassero un po’ meno piccole, sarebbero probabilmente più produttive e la ripresa del Paese poggerebbe su gambe più solide.
Da tutto ciò si può trarre una conclusione: i segnali di ripresa – o meglio di rimbalzo – visibili oggi nell’economia italiana vanno nella direzione giusta ma non serviranno a nulla se non si va incontro a questa realtà frammentata che, in un modo o nell’altro, ha superato la crisi e mostra una vitalità non piccola. A questo dovrebbero pensare le forze politiche che si sfideranno domenica prossima in sette regioni d’Italia; e prima di valutare la percentuale del loro consenso elettorale dovrebbero guardare alla percentuale degli astenuti.
La Stampa 23.5.15
La “Generazione Millenials”
in pensione con meno di 500 euro
La bomba sociale esploderà nel 2050: i giovani precari e collaboratori diventeranno gli anziani poveri di domani
di Paolo Baroni


La «bomba» è destinata ad esplodere attorno al 2050. Ma questa volta non sarà tanto un problema di tenuta dei conti, visto che più o meno la spesa previdenziale resterà stabile attorno al 16% del Pil nonostante l’invecchiamento della popolazione. Sarà una bomba sociale, che avrà come protagonista l’attuale «generazione mille euro», che quando andrà in pensione percepirà una pensione che sarà molto più bassa del salario già misero che percepisce oggi. Nei casi più estremi, infatti, non arriveranno a 400 euro netti al mese.
Millenials nei guai
Il Censis stima che il 65% dei giovani (25-34 anni) occupati dipendenti di oggi, ovvero due su tre, avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti, considerando l’abbassamento dei tassi di sostituzione. E la previsione riguarda i più «fortunati», cioè i 3,4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard. Poi ci sono altri 890 mila giovani autonomi o con contratti di collaborazione e quasi 2,3 milioni di Neet, ragazzi che non studiano né lavorano, che avranno ancora meno. «Se continua così, i giovani precari di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani» segnala nelle scorse settimane il Censis. Dunque, se in prospettiva un problema di previdenza si pone, riguarda innanzitutto quella «solidarietà tra generazioni», evocata tra l’altro giusto ieri Matteo Renzi.
L’effetto contributivo
Il regime contributivo puro, che dalla riforma Fornero in poi si applica a tutti, secondo il Censis «cozza con la reale condizione dei millennials». E non a caso il 53% di loro pensa che la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro. La loro pensione dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi presto e con continuità. Ma il 61% di loro ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perché sono rimasti spesso senza lavoro o perché hanno lavorato in nero. Per avere pensioni migliori, con la previdenza integrativa che stenta a decollare, l’unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata. Ma non è detto che il mercato del lavoro degli anni a venire lo consenta: per ora i dati sull’occupazione ci dicono che il percorso è tutto in salita, visto che tra il 2004 ed il 2014 l’occupazione degli under 34 è scesa del 10,7% bruciando 1,8 milioni di posti.
Genitori e fratelli maggiori della «generazione mille euro», comunque, non se la caveranno tanto meglio. Secondo calcoli recenti della Ragioneria dello Stato anche chi andrà in pensione dal 2020 in poi avrà una pensione decisamente ridotta rispetto a quanti hanno lasciato il lavoro nel decennio precedente. In molti casi il loro assegno non supererà il 60% dell’ultimo stipendio. percentuale che scende addirittura sotto al 50% per gli autonomi.
L’equità possibile
Come rimediare? L’idea che Tito Boeri ha lanciato su lavoce.info a gennaio, prima insomma di prendere la guida dell’Inps, è quella di introdurre un contributo di solidarietà a carico di quel milione e 800 mila pensionati che oggi percepisce un assegno che supera i 2000 euro netti tenendo conto dello scostamento fra pensione effettiva e contributi versati. Il taglio dei trattamenti, attraverso una serie di aliquote progressive,, sarebbe compreso tra il 3 ed il 7% e frutterebbe circa 4,2 miliardi. Che secondo un esperto di previdenza come Alberto Brambilla potrebbe venire destinati ad una maggiore defiscalizzazione della previdenza complementare dei lavoratori più giovani. In maniera tale, come auspica anche Boeri, si avvicinare un poco padri. e figli.
La Stampa 23.5.15
“Serve una legge nazionale per avere stipendi meno rigidi”
Ichino: giuste le deroghe sui minimi delle retribuzioni
di Roberto Giovannini


Senatore Pietro Ichino, ora nel Partito Democratico, come commenta le parole di Mario Draghi? È vero che le imprese che possono abbassare i salari licenziano di meno?
«C’è una logica stringente nel ragionamento di Draghi. Le strategie neokeynesiane che piacciono alla nostra vecchia sinistra, in una situazione di salari nominali rigidi - rigidità dovuta proprio alla inderogabilità dei contratti nazionali - puntano a ridurre il valore d’acquisto dei salari con l’inflazione, e in questo modo evitare la disoccupazione. Ma noi non disponiamo della leva monetaria, e dunque abbiamo bisogno della flessibilità che ci permette di far fronte alla crisi congiunturale con una flessibilità salariale che consente di evitare di ridurre l’impatto della congiuntura negativa. In altre parole, la possibilità, e la possibilità di contrattare la retribuzione al livello aziendale permette di raggiungere lo stesso risultato di contrasto alla disoccupazione in modo più esplicito».
Dunque, Draghi ha ragione. In che modo si potrebbe adattare questa riflessione al sistema italiano, concretamente?
«Con un nuovo assetto della contrattazione collettiva che preveda la possibilità di deroga rispetto al contratto nazionale di lavoro non soltanto sulla parte normativa ma anche sulla parte salariale, come i minimi tabellari».
Senatore, ma già c’è la norma dell’articolo 8 voluto a suo tempo da Maurizio Sacconi: già si può fare!
«C’è però un problema: è vero che l’articolo 8 dà questa possibilità in linea generale, senza esplicitare che essa si estende anche alla materia retributiva; ma i giudici continuano a interpretare i minimi tabellari come i parametri per l’applicazione dell’art.36 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto del lavoratore alla “giusta retribuzione”».
Dunque neanche ci hanno provato, aziende e sindacati, a utilizzare quella norma?
«Nessuno ci ha neanche provato. Anche perché l’accordo interconfederale del 2011 - poi recepito nel “Testo Unico sulla rappresentanza” tra sindacati e Confindustria - esclude la retribuzione dalle materie su cui si può derogare. E in più c’era il rischio che il giudice dicesse che non si può andare sotto il minimo tabellare indicato dal contratto nazionale, perché significherebbe andare sotto il parametro della “giusta retribuzione”».
E quindi? Cosa bisogna fare per seguire l’indicazione del Governatore Draghi, e consentire di poter abbassare liberamente i salari in un contratto aziendale, magari perché si pensa di poter meglio difendere i posti di lavoro?
«Occorre una legge che espliciti questo punto, cioè dica esplicitamente che il contratto collettivo più vicino al luogo di lavoro prevale sul contratto di livello superiore, anche sulla materia della retribuzione. Successivamente, bisogna completare questa manovra con l’introduzione del salario orario minimo, che diventerebbe il vero “minimo dei minimi”, anche per la giustizia del lavoro».