sabato 29 giugno 2019

il manifesto 29.6.19
Carola-Antigone è nel torto, ma ha ragione
di Massimo Fini


Lo scontro sulla Sea Watch fra Matteo Salvini, ministro dell’Interno, che rappresenta la legge italiana, e la “capitana” Carola Rackete, comandante della nave, riproduce l’antico dramma greco rappresentato da Sofocle in Antigone.
Il fratello di Antigone, Polinice, dichiarato “nemico della patria”, non può essere sepolto, per le leggi di Tebe, rappresentate dal re Creonte, e il suo cadavere lasciato ai vermi e ai corvi. Antigone, che ho visto interpretata magistralmente da Elisabetta Pozzi al Teatro Fraschini di Pavia, mossa da pietas seppellisce ugualmente il fratello in segreto. Scoperta da Creonte, che deve far rispettare la legge (dura lex, sed lex come dicevano i latini), sarà di fatto costretta al suicidio.
Non c’è dubbio quindi che Salvini, come Creonte, dal punto di vista della legge abbia ragione e Carola Rackete, come Antigone, torto. Ma nel confronto e nel raffronto umano fra la “capitana” e il “capitano”, come viene chiamato enfaticamente e arbitrariamente Salvini, è quest’ultimo a uscirne in pezzi.
Gran bella ragazza, Carola Rackete si laurea giovanissima in Scienze nautiche, prende un master all’Università inglese di Edge Hill, diventa secondo ufficiale su alcune navi che si occupano di temi ambientali per approdare nel 2016 al comando della Sea Watch. Sia detta di passata: oltre a quella materna, il tedesco, parla quattro lingue, inglese, francese, spagnolo e russo. Dubito molto che una ragazza (oggi ha 31 anni) con queste credenziali percorra i mari per fare “il trafficante di uomini”. Altro è il suo sentimento.
Matteo Salvini, che non può essere considerato un adone, anzi a vederlo fa un poco ribrezzo, per usare una volta tanto un mantra berlusconiano non ha mai fatto una sola ora di lavoro, serio, in vita sua e non è nemmeno riuscito a laurearsi. Non ho contezza in quali lingue sia in grado di parlare, certamente non l’italiano. È un politico di professione più adatto alle parole, tonitruanti, che all’azione. È forte con i deboli, i migranti, debole con i forti e va a strisciare, umiliando la nazione italiana che in ogni momento afferma di rappresentare, ai piedi di Donald Trump, che i coglioni ce li ha davvero ed è il nemico numero uno dell’Europa e quindi anche dell’Italia. Nonostante le sue pose scultoree ha l’aria d’esser un vile.
Carola Rackete di coraggio, morale e fisico (in fondo su quella nave di dannati ci sta anche lei condividendone le sofferenze), ne ha da vendere: violando le acque territoriali italiane rischia grosso, l’arresto, la carcerazione e una condanna per “favoreggiamento di immigrazione clandestina”. Ha anche provato, con una certa sfrontatezza, a entrare nel porto di Lampedusa ma è stata fermata dalle navi della Guardia di finanza.
Insomma Carola Rackete è Antigone, Matteo Salvini, nobilitandolo parecchio, Creonte che nel prosieguo della tragedia greca finirà molto male, cosa che potrebbe capitare anche all’improvvisato “capitano”, come accadde a un altro Matteo, Renzi, se continuerà a fare il fenomeno anche in materie che, a differenza della difesa dei confini nostrani, non lo riguardano affatto. Insomma, almeno ai nostri occhi, Matteo Salvini pur avendo ragione ha torto e Carola Ril manifesto 29.6.19
ackete pur avendo torto ha ragione.

il Fatto 29.6.19
Gli attacchi al Mibac e l’interesse Lega-Pd
di Tomaso Montanari e Salvatore Settis


In un articolo dal titolo particolarmente spiacevole (Beni culturali, è guerra per bande) apparso ieri su Repubblica, Sergio Rizzo ha ritenuto di dare amplissimo spazio alle feroci censure del soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, contro il suo superiore gerarchico diretto, il direttore generale per le Belle Arti, Archeologia e Paesaggio, Gino Famiglietti, e contro il Segretario generale Panebianco e il ministro Bonisoli. L’oggetto del contendere è la riforma del Mibac, appena approvata dal Consiglio dei ministri e che entra ora in fase di attuazione.
Prosperetti attacca la norma che riporta nelle competenze del direttore generale l’apposizione dei vincoli: “Neanche il ministro fascista Bottai aveva osato tanto… la posta in gioco della nuova riforma è lo Stato di diritto, niente di più, niente di meno”. E, aggiunge Rizzo in una frase particolarmente misteriosa, “c’è perfino chi si spinge ad argomentare come questo passaggio possa generare un conflitto costituzionale, aprendo una contraddizione tra l’articolo 9, che tutela il paesaggio, e l’articolo 42 che garantisce la proprietà privata”. I cosacchi, insomma, starebbero per far abbeverare i loro cavalli nei ruscelli della Val di Susa o nei, salmastri, canali di Venezia.
Ora, questa riforma non è certo esente da difetti, anche seri. Tra questi va annoverata, per esempio, la scelta di togliere l’autonomia alla Galleria dell’Accademia di Firenze non per sostenere (con i suoi introiti, legati alla presenza del David di Michelangelo) il Polo museale della Toscana, ma per accorparla agli Uffizi, in un monstrum elefantiaco di dubbio fondamento storico e di difficile governo.
Invece, Prosperetti si scaglia proprio contro il principale punto di forza della riforma: riportare al centro le decisioni cruciali per la tutela di paesaggio e patrimonio. Il soprintendente di Roma e il suo intervistatore hanno un vuoto di memoria: i vincoli sono sempre stati in capo all’amministrazione centrale, fin dal 1909. Più esattamente spettavano al ministro stesso fino al 1993, e poi al direttore generale. Quando è che questa facoltà così delicata passò alle periferie? Il 20 ottobre 1998, e cioè l’ultimo giorno della permanenza di Walter Veltroni alla guida del ministero: quando fu varata una riorganizzazione che la assegnò alle testé create soprintendenze, e poi direzioni, regionali. Era il momento di maggior sudditanza culturale del centrosinistra alle istanze secessioniste della Lega, e infatti tre anni dopo passava l’orribile riforma del titolo V della Costituzione scritta dagli esponenti del futuro Pd.
Basta questo per far capire quale è la posta in gioco dell’attuale partita dei Beni culturali. Non sappiamo quali saranno le conseguenze, in questo campo, della scellerata autonomia differenziata che fa leva sul il titolo V di quell’infelice riforma, e che è ora l’oggetto del principale braccio di ferro tra i due contraenti del contratto di governo. Ma quasi ogni giorno Salvini dice che vuole mettere le mani sulle soprintendenze del Nord: ed è evidente che la “raffica regionalistica” che Concetto Marchesi paventava in Costituente fin dal 1946 potrebbe presto diventare realtà. Da siciliano, Marchesi sapeva bene cosa significava: la sua regione aveva avuto un’autonomia specialissima addirittura prima della Costituzione, e infatti lì, dal 1975, le soprintendenze saranno sottoposte al potere politico regionale, con i devastanti risultati ambientali che chiunque oggi può constatare.
Salvini dice anche che vorrebbe poter nominare il direttore di Brera: e la riforma Franceschini era arrivata a un passo dal permettere che i musei autonomi si costituissero in fondazioni di diritto privato con dentro gli enti locali, sul modello equivoco dell’Egizio di Torino.
Come in molti altri casi, Lega e Pd si trovano dunque perfettamente d’accordo nella politica del consumo del territorio: un partito unico che ha il suo simbolo nel Tav e nel rifiuto di ogni controllo terzo, come quello delle odiate soprintendenze.
Purtroppo il Movimento 5 Stelle è stato finora incapace di resistere adeguatamente all’“autonomia” secessionista di marca leghista mettendo in campo una chiara visione alternativa: ma bisogna dare atto al ministro Bonisoli di star provando a difendere il territorio (riportando i vincoli al centro) e i musei (annullando i cda dei musei autonomi) dalla balcanizzazione che rischia di far sparire il concetto stesso di ‘patrimonio della Nazione’, enunciato in un principio fondamentale della Carta.
Quanto al ventilato conflitto tra articoli 9 e 42, bisogna ricordare che quest’ultimo prevede che la proprietà privata sia limitata per legge “allo scopo di assicurarne la funzione sociale”: è esattamente ciò che fanno i vincoli. Certo, il partito del cemento ha nel lavoro di Famiglietti e nello spirito di questo pezzo di riforma due fieri nemici: ma a noi questa sembra un’ottima notizia.

il manifesto Alias    29.6.19
Tarkovskij nella “zona”
Mosfil'm. L'attività del regista in Urss tra ostacoli e successo internazionale
di Emiliano Dal Toso


Figlio d’arte – il padre era il grande poeta russo Arsenij – Andrej Tarkovskij ha imparato il mestiere di regista all’Istituto statale di cinematografia (VGIK) di Mosca, la prima scuola istituita per l’insegnamento delle arti filmiche, fondata da Vladimir Gardin nel 1919. Il suo incredibile talento e l’attenzione all’aspetto immaginifico si rivelarono presto, con i primi lavori che gli permisero di diplomarsi (Gli uccisori, tratto da un racconto di Ernest Hemingway, e Non cadranno foglie stasera) e che lo accompagnarono sotto l’ala produttiva della Mosfilm. Le visioni oniriche presenti ne Il rullo compressore e il violino (1960), il mediometraggio che conclude il suo percorso di formazione, anticipano L’infanzia di Ivan (1962), l’opera con cui Tarkovskij si presenta al pubblico europeo e che getta le basi dei suoi tratti distintivi: il linguaggio visivo poetico e sognante, la ricerca simbolica e la dimensione metafisica cominciano a inseminarsi nel suo sguardo registico. Il film si distacca dall’ottimismo e dall’immaginario realista stalinista, raccontando il dramma della guerra dal punto di vista di un ragazzo rimasto orfano che agisce soltanto per l’odio nei confronti di chi ha ucciso i suoi genitori. Tarkovskij vince il Leone d’oro a Venezia e mette a disagio il regime sovietico, che lo accusa di disfattismo e di eccessivo pessimismo.
La sua ambizione artistica, unita alle risorse produttive di cui può servirsi, lo portano a realizzare l’imponente Andrej Rubliov (1969), biografia del pittore russo vissuto tra il 1370 e il 1430 strutturata da un punto di vista narrativo in otto episodi ordinati ma nettamente separati tra di loro, accomunati dai tormenti del protagonista sui suoi ruoli di monaco religioso e artista creativo e dalla descrizione di una terra dilaniata dall’invasione dei tartari, dalla separazione conflittuale tra le dinamiche del potere e il sentimento del popolo, dall’afflizione della pestilenza. Tarkovskij non evita di nascondere i parallelismi con la Russia del suo tempo, suscitando l’entusiasmo della critica al Festival di Cannes e ottenendo di essere proiettato in tutta Europa. Soltanto nell’Unione Sovietica, infatti, il film viene osteggiato, ma riesce incredibilmente a ottenere un buon successo alla sua uscita nel 1972, nonostante fosse proibito alla stampa di dedicargli articoli e recensioni, e di comunicare ai lettori in quali sale venisse distribuito.
Gli inizi degli anni Settanta segnano una svolta per Tarkovskij, la cui vena innovativa è tale da smarcarsi dall’insofferenza per le limitazioni culturali che gli vengono imposte dalla politica, verso la quale ha compromesso ogni genere di sostegno e simpatia: l’uscita di Solaris registra una tappa fondamentale nell’evoluzione e nella profondità della fantascienza a livello mondiale. Seppur frettolosamente etichettata come la risposta sovietica a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, l’opera è ancora oggi riconosciuta come un capolavoro ineguagliato per la sua riflessione sulla perdita delle emozioni, sull’inevitabilità della morte e sull’impossibilità di emanciparsi dal passato, dalla nostalgia e dal ricordo. Nessuno prima di Tarkovskij aveva utilizzato il genere fantascientifico per porre interrogativi di lettura così trasparente sull’intimità della natura umana, rendendolo un laboratorio struggente di idee e di suggestioni.
I problemi del regista con l’ostracismo del governo tornarono a manifestarsi nell’autobiografico Lo specchio (1974), in cui affronta in maniera diretta la storia russa recente, dall’assedio di Leningrado ai drammatici scontri nel 1969 sul fiume Ussuri tra i soldati sovietici e i manifestanti maoisti per l’occupazione dell’isola di Damanskij. Da quel momento, il cinema di Tarkovskij si fa ancora più contemplativo e filosofico, interessato sempre più alla dimensione pittorica, costretto gradualmente ad allontanarsi dall’Unione Sovietica: Stalker (1979), Nostalghia (1983) e Sacrificio (1986) sono gli ultimi lavori di un autore radicale e rivoluzionario, contrario alla concezione di cinema come impianto dinamico e industria d’intrattenimento.

il manifesto 28.6.19
Che fare se il potere viola la Costituzione
di Gaetano Azzariti


Se le norme violate dalla comandante della Sea-Watch 3 risultassero incostituzionali l’atto di disubbidienza civile potrebbe alla fine non essere sanzionato. È evidente che in questa fase l’illegalità è stata commessa e la responsabile della nave si è dichiarata consapevole di dover essere sottoposta a giudizio e dover rispondere delle proprie azioni contra legem. Ma è appunto nel corso del giudizio che la vedrà protagonista che si potrà sollevare una questione di legittimità costituzionale chiedendo il sindacato della Consulta.
Ed è lì – io credo – che si giocherà la partita decisiva. Se, come molti sostengono, il decreto Salvini che ha dettato le nuove regole sull’entrata nelle acque territoriali delle imbarcazioni non governative che operano i salvataggi nel Mediterraneo si dovessero rivelare in contrasto con i principi dettati dalla nostra costituzione, oltre che non conformi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, la Corte costituzionale dovrà dichiarare la «cessazione dell’efficacia». Si dovrà allora riconoscere che il comportamento illegale del capitano della Sea-Watch è stato però conforme alla «superiore» legalità costituzionale. A quel punto a nulla serviranno le urla o le reazioni boriose di chi è stato definito «il ministro della propaganda», poiché – si ricorda – è la costituzione a porre limiti insuperabili e indisponibili alla politica. E quando il Parlamento o il Governo pongono in essere leggi o atti aventi forza di legge in contrasto con la costituzione quest’ultimi vengono espunti dal nostro ordinamento e ripristinati i principi di civiltà violati. Così è sempre stato in epoca repubblicana, e così ancora sarà anche in questo caso. Sin dalla prima sentenza della corte costituzionale promossa da altri disubbidienti civili (in quel caso si trattava della libertà di manifestazione del pensiero assoggettata ad autorizzazioni della pubblica sicurezza che ne limitavano la diffusione) abbiamo avuto persone che – a loro rischio – hanno violato le leggi per far valere la costituzione. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky: «Il violatore apparirà, ma solo ex post, o come un “fuorilegge”, oppure come un benemerito della Costituzione».
Si tratta pertanto ora di far valere le ragioni della costituzione in una contesa che non ha nulla di predeterminato. Quel che può dirsi sin d’ora che sono chiari i principi e le domande da porsi.
Da un lato il «paradigma sicuritario», in base al quale l’ordine pubblico e il controllo dei confini sono una specifica manifestazione della sovranità degli Stati; dall’altra il «paradigma umanitario», che ritiene non potere in nessun caso violare la dignità delle persone. Questo secondo paradigma non nega il primo, lo limita. Non rinuncia cioè a governare i flussi ovvero a garantire l’ordine necessario per l’esistenza stessa di ogni ordinamento giuridico. Stabilisce però che in nessun caso si possono porre in essere atti contrari al senso di umanità. Dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale è questo il principio che si rinviene in tutte la Carte sovranazionali (a partire da quella dell’Onu, passando per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sino alla Carta di Nizza) e le costituzioni nazionali (con particolare enfasi quella Italiana, ma anche quella tedesca). Sono queste le norme cui si dovrebbero attenere tutti gli Stati.
Potrei a questo punto ricordare le numerose disposizioni che la nostra costituzione contiene, a partire dall’articolo 2 sulla necessità di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, ovvero la giurisprudenza della Consulta, che risale ai lontani anni ’60, sull’estensione delle garanzie dei diritti fondamentali agli stranieri; potrei richiamare le norme internazionali relative alla protezione umanitaria cui l’Italia ha l’obbligo di conformarsi. Lo abbiamo fatto tante volte su questo giornale. Ora però mi sembra ancor più importante comprendere qual è la sfida che l’atto di ribellione di una cittadina straniera su una nave battente bandiera olandese pone al nostro paese. Forse potremmo usare le parole di Antigone per intenderne la portata: «Non potevo consentire a un mortale di calpestare le leggi non scritte degli dèi. Io non potevo cadere nella loro condanna per paura di un uomo e della sua arroganza». Antigone pensava che fosse inaccettabile trasgredire la legge di natura, noi possiamo interrogarci se sia oggi possibile che l’arroganza del potere possa giungere a violare la costituzione.
Nel rispetto della legalità e nelle forme che il nostro ordinamento prevede, dovremmo proporci di chiederlo al giudice delle leggi cui spetta l’ultima parola.

il manifesto 28.6.19
Carola Rackete come Antigone, «prima delle leggi»
di Raffaele K. Salinari


Carola Rackete, Comandante della Sea Watch 3, è certamente una figura che si può definire «tragica» . La memoria torna all’Antigone di Sofocle, che scelse la pietà verso il corpo del fratello insepolto e per questo fu condannata dalle leggi che il nuovo sovrano aveva promulgato. Eppure, esiste qualcosa oltre le leggi, anzi, esiste qualcosa prima delle leggi, ed è ciò che ci fa avvertire nel profondo il senso di appartenenza alla stessa specie: quella umana. Quando le leggi sconvolgono quest’ordine superiore, immutabile perché ancorato al senso stesso della vita, ecco che si perdono i punti di riferimento più saldi, e si corre il rischio di scivolare sul piano inclinato delle distinzioni gerarchiche: nascono così le norme razziste, la xenofobia, il nazionalismo becero; a norma di legge si alzano i muri e si abbattono i ponti, si chiudono i porti ed i produttori di filo spinato vedono alzare il prezzo del loro classico prodotto. Il rifiuto di accogliere i naufraghi della nave della Ong da parte del Ministro degli Interni, si colloca esattamente da questa parte dello spartiacque tra giustizia e legge del più forte, cercando così, strumentalmente, di erodere una altro tassello di quella diga a protezione dei Diritti Umani fondamentali eretta dalla Nazioni Unite dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale.
Questa è la posta in gioco, niente di meno, e bene lo ha colto il Presidente della Repubblica quando, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, ha riaffermato la necessità che l’Italia adempia ai suoi doveri di solidarietà, assistenza e accoglienza, così come previsto dalla Costituzione Italiana e dal diritto internazionale. E pretendere di trattare le questioni globali, come quelle migratorie, spesso legate alla povertà, alle guerre, o ai cambiamenti climatici, a livello nazionale, o addirittura regionale, rileva di una miopia che le ondate di calore di questa torrida estete tropicalizzante dovrebbero invece inquadrare in una scenario rovesciato: quello della cooperazione internazionale, a partire dalla lotta ai cambiamenti climatici e la ricerca della pace. Anche su questo il Governo a trazione leghista sta cercando di imporre la sua visione strumentale e stravolgente della cooperazione interazionale. Mentre in Libia, infatti, si combatte apertamente, e dunque in nessun modo questo Paese può essere considerato un porto sicuro, il Decreto sicurezza bis istituisce presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale un «Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio», che lega gli interventi di cooperazione italiani con i Paesi partner ad una «particolare collaborazione» di questi ultimi nei rimpatri di soggetti irregolari. Ora, dato che ci si appella alle leggi, ma evidentemente a corrente alternata, cioè solo a quelle create da questo Governo tralasciando le precedenti, bisogna ricordare che la legge riconosce alla cooperazione allo sviluppo gli obiettivi di: sradicare la povertà e ridurre le disuguaglianze; tutelare e affermare i diritti umani; prevenire i conflitti e rafforzare le istituzioni democratiche.
Il Fondo proposto, dunque, snatura le finalità ultime della cooperazione allo sviluppo, introducendo per la prima volta in modo formale un principio di condizionalità sugli aiuti, che risponderebbero a interessi nazionali italiani più che ad obiettivi di sviluppo. E allora, mentre da una parte si accusano le Ong di essere dalla parte dei trafficanti di esseri umani, dall’altra si decide di foraggiare l’apertura di un “mercato dei rimpatri” in cui i Paesi partner possono aspettarsi di incassare un prezzo per politiche di riammissione collaborative. Ecco perché, in una recente lettera aperta, oltre 40 sigle di Ong hanno chiesto al premier Conte di ricorrere alle sue responsabilità per fare sì che le operazione di sbarco dei naufraghi delle Sea Watch 3 possano essere condotte nelle prossime ore, assicurando l’opportuna immediata presa in carico dei minori ancora a bordo e di tutte le altre persone bisognose di cure e supporto. Restare umani significa anche questo.
Se le norme violate dalla comandante della Sea-Watch 3 risultassero incostituzionali l’atto di disubbidienza civile potrebbe alla fine non essere sanzionato. È evidente che in questa fase l’illegalità è stata commessa e la responsabile della nave si è dichiarata consapevole di dover essere sottoposta a giudizio e dover rispondere delle proprie azioni contra legem. Ma è appunto nel corso del giudizio che la vedrà protagonista che si potrà sollevare una questione di legittimità costituzionale chiedendo il sindacato della Consulta.
Ed è lì – io credo – che si giocherà la partita decisiva. Se, come molti sostengono, il decreto Salvini che ha dettato le nuove regole sull’entrata nelle acque territoriali delle imbarcazioni non governative che operano i salvataggi nel Mediterraneo si dovessero rivelare in contrasto con i principi dettati dalla nostra costituzione, oltre che non conformi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, la Corte costituzionale dovrà dichiarare la «cessazione dell’efficacia». Si dovrà allora riconoscere che il comportamento illegale del capitano della Sea-Watch è stato però conforme alla «superiore» legalità costituzionale. A quel punto a nulla serviranno le urla o le reazioni boriose di chi è stato definito «il ministro della propaganda», poiché – si ricorda – è la costituzione a porre limiti insuperabili e indisponibili alla politica. E quando il Parlamento o il Governo pongono in essere leggi o atti aventi forza di legge in contrasto con la costituzione quest’ultimi vengono espunti dal nostro ordinamento e ripristinati i principi di civiltà violati. Così è sempre stato in epoca repubblicana, e così ancora sarà anche in questo caso. Sin dalla prima sentenza della corte costituzionale promossa da altri disubbidienti civili (in quel caso si trattava della libertà di manifestazione del pensiero assoggettata ad autorizzazioni della pubblica sicurezza che ne limitavano la diffusione) abbiamo avuto persone che – a loro rischio – hanno violato le leggi per far valere la costituzione. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky: «Il violatore apparirà, ma solo ex post, o come un “fuorilegge”, oppure come un benemerito della Costituzione».
Si tratta pertanto ora di far valere le ragioni della costituzione in una contesa che non ha nulla di predeterminato. Quel che può dirsi sin d’ora che sono chiari i principi e le domande da porsi.
Da un lato il «paradigma sicuritario», in base al quale l’ordine pubblico e il controllo dei confini sono una specifica manifestazione della sovranità degli Stati; dall’altra il «paradigma umanitario», che ritiene non potere in nessun caso violare la dignità delle persone. Questo secondo paradigma non nega il primo, lo limita. Non rinuncia cioè a governare i flussi ovvero a garantire l’ordine necessario per l’esistenza stessa di ogni ordinamento giuridico. Stabilisce però che in nessun caso si possono porre in essere atti contrari al senso di umanità. Dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale è questo il principio che si rinviene in tutte la Carte sovranazionali (a partire da quella dell’Onu, passando per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sino alla Carta di Nizza) e le costituzioni nazionali (con particolare enfasi quella Italiana, ma anche quella tedesca). Sono queste le norme cui si dovrebbero attenere tutti gli Stati.
Potrei a questo punto ricordare le numerose disposizioni che la nostra costituzione contiene, a partire dall’articolo 2 sulla necessità di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, ovvero la giurisprudenza della Consulta, che risale ai lontani anni ’60, sull’estensione delle garanzie dei diritti fondamentali agli stranieri; potrei richiamare le norme internazionali relative alla protezione umanitaria cui l’Italia ha l’obbligo di conformarsi. Lo abbiamo fatto tante volte su questo giornale. Ora però mi sembra ancor più importante comprendere qual è la sfida che l’atto di ribellione di una cittadina straniera su una nave battente bandiera olandese pone al nostro paese. Forse potremmo usare le parole di Antigone per intenderne la portata: «Non potevo consentire a un mortale di calpestare le leggi non scritte degli dèi. Io non potevo cadere nella loro condanna per paura di un uomo e della sua arroganza». Antigone pensava che fosse inaccettabile trasgredire la legge di natura, noi possiamo interrogarci se sia oggi possibile che l’arroganza del potere possa giungere a violare la costituzione.
Nel rispetto della legalità e nelle forme che il nostro ordinamento prevede, dovremmo proporci di chiederlo al giudice delle leggi cui spetta l’ultima parola.

Repubblica 29.6.19
Putin
“Il liberalismo è un’idea superata Il muro di Trump contro i migranti? Lui almeno ci prova”
I rapporti con gli Usa di Trump e con l’Europa, il Medio Oriente, l’intesa con Xi: parla il presidente russo alla vigilia della sua visita in Italia
intervista di Lionel Barber e Henry Foy


Presidente Putin, come ha visto cambiare il mondo nei vent’anni in cui è stato al potere?
«La prima cosa che vorrei dire è che non sono stato al potere per tutti questi vent’anni. Per quattro anni sono stato primo ministro, e non è la carica più alta della Federazione Russa. Tuttavia, sono da parecchio tempo al Governo, perciò sono in grado di giudicare che cosa sta cambiando. Mi arrischierei a dire che la situazione non è cambiata in meglio, ma resto ottimista. Tuttavia, per dirla senza mezzi termini, la situazione è diventata più drammatica ed esplosiva».
Ritiene che il mondo sia più frammentato?
«Sicuramente, perché durante la Guerra Fredda, il problema era la Guerra Fredda, è vero. Ma almeno c’erano alcune regole che tutti i soggetti che prendevano parte alla comunicazione internazionale più o meno sottoscrivevano. Ora sembra che non ci sia più nessuna regola. In questo senso, il mondo è diventato più frammentato e meno prevedibile, che è la cosa più deplorevole».
Lei è uno studioso di storia. Ha intrattenuto ore di conversazioni con Henry Kissinger. Quasi sicuramente avrà letto il suo libro, “Ordine mondiale”. Con Trump assistiamo a un sistema molto più transazionale. Trump è molto critico delle alleanze. Va a vantaggio della Russia?
«Sarebbe meglio chiedere che cosa sarebbe a vantaggio dell’America.
Trump non è un politico di professione. Ha una visione diversa degli interessi nazionali degli Stati Uniti. Molti dei suoi metodi non li accetto. Ma penso che sia una persona di talento. Sa molto bene che cosa si aspettano da lui i suoi elettori. La Russia è stata accusata, e per strano che possa sembrare lo è ancora nonostante il rapporto Mueller, di una fantomatica interferenza nelle elezioni americane. Che cosa è successo in realtà? È successo che Trump ha visto i cambiamenti nella società americana, e ne ha approfittato.
Qualcuno ha mai ragionato su chi abbia beneficiato della globalizzazione? La Cina è quella che ha tratto vantaggio più di tutti. Negli Stati Uniti la classe media non ne ha beneficiato. La squadra di Trump lo ha usato in campagna elettorale. È qui che bisogna cercare le ragioni della vittoria di Trump, non in qualche presunta interferenza estera. Penso che questo possa spiegare le sue apparentemente irragionevoli decisioni economiche e i suoi rapporti con partner e alleati».
Lei difende la globalizzazione insieme al presidente della Cina, Xi Jinping, mentre Trump dice “Prima l’America”. Come spiega questo paradosso?
«Non penso che il suo desiderio di dare la precedenza all’America sia un paradosso. Io do la precedenza alla Russia, e nessuno lo percepisce come un paradosso».
Lei si è incontrato spesso con il presidente Xi, e Russia e Cina si sono indubbiamente avvicinate.
Non sta puntando troppe fiches su una carta sola? Perché la politica estera russa, anche sotto la sua guida, si è sempre fatta un vanto di parlare con tutti.
«Tanto per cominciare, le fiches da puntare non ci mancano, ma non ci sono molte carte su cui puntarle.
Questo è il primo punto. Il secondo è che valutiamo sempre i rischi. Il terzo è che le nostre relazioni con la Cina non sono motivate da opportunismo politico. Il trattato d’amicizia con la Cina fu firmato nel 2001, molto prima degli attuali disaccordi economici, per usare un eufemismo, fra Stati Uniti e Cina. Sì, la Russia e la Cina hanno molti interessi che coincidono. È la ragione dei frequenti contatti fra me e il presidente Xi Jinping. Naturalmente abbiamo anche stabilito un rapporto personale molto caloroso. Ci stiamo muovendo in linea con la nostra agenda bilaterale generale, che formulammo già nel lontano 2001, ma reagiamo rapidamente agli sviluppi mondiali. Non rivolgiamo mai le nostre relazioni bilaterali contro qualcuno. Non siamo contro nessuno, siamo per noi stessi».
Dopo 20 anni al vertice o vicino al vertice ha più fame di rischi?
«La mia fame di rischi non è aumentata né diminuita. Il rischio deve essere sempre ben giustificato. Non si può ricorrere al proverbio russo “Chi non rischia non berrà mai champagne”. Prima di rischiare bisogna procedere a una valutazione meticolosa di ogni aspetto. I rischi folli, che trascurano la situazione reale e non tengono conto delle conseguenze, sono inaccettabili perché possono mettere in pericolo gli interessi di un gran numero di persone».
La sua decisione di intervenire in Siria è stata un rischio grosso?
«Abbastanza elevato. Però ho riflettuto attentamente con largo anticipo. Ho deciso che a lungo termine gli effetti positivi per la Russia avrebbero superato di gran lunga la scelta di restare a guardare mentre una organizzazione terrorista internazionale si rafforza vicino ai nostri confini».
Che genere di risultato ha portato il rischio assunto in Siria?
«Innanzitutto molti militanti intenzionati a far ritorno in Russia sono stati eliminati. In secondo luogo, siamo riusciti a stabilizzare una regione contigua. Quindi abbiamo rafforzato direttamente la sicurezza interna della Russia.
Questo in terzo luogo. Quarto, abbiamo stabilito rapporti commerciali buoni con tutti i Paesi della regione e le nostre posizioni in Medio oriente si sono stabilizzate.
Quanto alla Siria, siamo riusciti a preservarne la sovranità, impedendo che il paese cadesse nel caos come la Libia».
Lei è impegnato a far sì che Al Assad resti al potere o può essere, ad un certo punto, che in Siria avvenga una transizione, con l’appoggio russo, che non sia come quella in Libia?
«Credo che i siriani debbano essere liberi di scegliere il proprio futuro. Al contempo, vorrei che le azioni degli attori esterni fossero, come nel caso dei rischi, prevedibili e comprensibili. Quando abbiamo discusso la questione con la precedente amministrazione Usa, abbiamo chiesto, “supponiamo che Assad si dimetta, cosa succederà domani?”. “Non lo sappiamo”, hanno detto. Ma se non sai cosa accadrà domani, perché parlare a vanvera oggi?».
Ritiene che vi sia la possibilità di un miglioramento delle relazioni anglo-russe e che si possano superare alcune questioni delicate, come la vicenda Skripal?
«Senta, tutta questa storia di spie e controspie non è degna di relazioni interstatali serie. Questa spy story non vale cinque copechi. E nemmeno cinque sterline. Le questioni riguardanti le relazioni interstatali si misurano in miliardi e riguardano il destino di milioni di persone. Come possiamo paragonare le due cose? Sappiamo che le imprese del Regno Unito, vogliono lavorare con noi. E noi sosteniamo questa intenzione. Creano posti di lavoro e valore aggiunto. E se aggiungiamo una situazione politica imprevedibile, non saranno in grado di lavorare. Penso che sia la Russia che il Regno Unito siano interessati a ripristinare pienamente le loro relazioni. Penso che sia più facile per May, perché se ne sta andando ed è libera di fare ciò che ritiene giusto e necessario senza preoccuparsi di alcune conseguenze di politica interna».
Qualcuno potrebbe dire che una vita umana vale più di cinque centesimi.
«È morto qualcuno?».
Oh, sì. Quel signore che aveva un problema di droga ed è morto dopo aver toccato il Novichok.
«E pensa che sia assolutamente colpa della Russia?».
Non ho detto questo. Ho detto
che qualcuno è morto.
«Sì, è morto un uomo, e questa è una tragedia. Ma cosa abbiamo a che fare con questo?».
Crede che quel che è successo a Salisbury mandi un messaggio a chiunque pensi di tradire Mosca?
«Il tradimento è il crimine più grave possibile e i traditori devono essere puniti. Non sto dicendo che l’incidente di Salisbury sia il modo di farlo. Questo signore, Skripal, era già stato punito. Era stato arrestato, condannato, aveva scontato la sua pena in prigione. Era fuori dal radar.
Perché interessarsi ancora a lui? Per quanto riguarda il tradimento, deve essere punibile. È il crimine più spregevole che si possa immaginare».
All’inizio della nostra conversazione ho parlato della frammentazione. Un altro fenomeno odierno è che c’è una reazione popolare contro le élite e contro l’establishment e lo si è visto con la Brexit in Gran Bretagna, in Germania con l’Afd, in Turchia e nel mondo arabo. Per quanto tempo pensa che la Russia possa rimanere immune da questo movimento globale?
«Bisogna considerare la realtà di ogni singolo caso. Certo, ci sono alcune tendenze, ma sono solo generali. Per quanto tempo la Russia rimarrà un paese stabile? Più a lungo è, meglio è. Perché molte cose e la sua posizione nel mondo dipendono dalla stabilità. La ragione interna del crollo dell’Unione Sovietica fu che la vita era difficile per la gente. I negozi erano vuoti e la gente aveva perso il desiderio di preservare lo Stato.
Pensavano che non potesse andare peggio. Invece la vita peggiorò, specie all’inizio degli Anni ’90, quando collassarono i sistemi di protezione sociale e di assistenza sanitaria e l’industria si sgretolò.
Poteva anche funzionare male, ma almeno la gente aveva un lavoro.
Dopo il crollo, lo perse. Quindi, ogni caso va esaminato separatamente.
Che cosa sta succedendo in Occidente? Le élite al potere si sono allontanate dal popolo. C’è anche la cosiddetta idea liberale che ha esaurito il suo scopo. Quando il problema dell’immigrazione ha raggiunto un punto critico, molti nostri partner occidentalihanno ammesso che il multiculturalismo non è efficace e che gli interessi della popolazione locale vanno presi in considerazione. Al tempo stesso, chi si trova in difficoltà a causa dei problemi politici nel proprio Paese d’origine ha bisogno della nostra assistenza. È giusto, ma cosa ne è degli interessi della popolazione locale quando il numero di migranti diretti verso l’Europa occidentale è nell’ordine di migliaia o centinaia di migliaia?».
Angela Merkel ha commesso un errore?
«Un errore capitale. Si può criticare Trump per la sua intenzione di costruire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti. Forse esagera. Ma almeno sta cercando una soluzione. Per quanto riguarda l’idea liberale, i suoi sostenitori non stanno facendo nulla. Dicono che tutto va bene. Ma è così? Sono seduti nei loro accoglienti uffici, mentre coloro che affrontano il problema non sono contenti. Lo stesso accade in Europa. L’idea liberale presuppone che non ci sia bisogno di fare nulla. I migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati. Quindi, l’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione. O prendiamo i valori tradizionali. Non voglio insultare nessuno, perché siamo già stati condannati per la nostra presunta omofobia. Non abbiamo problemi con le persone Lgbt. Ma alcune cose ci sembrano eccessive. Ora c’è chi sostiene che i bambini possono svolgere cinque o sei ruoli di genere.
Lasciamo che tutti siano felici, ma non dobbiamo permettere che ciò metta in secondo piano la cultura, le tradizioni e i valori familiari tradizionali di milioni di persone».
Ha conosciuto molti leader mondiali. Chi ammira di più?
«Pietro il Grande».
Ma è morto.
«Vivrà finché la sua causa sarà viva come la causa di ognuno di noi.
(Ride). Vivremo finché vivrà la nostra causa. Se si riferisce ai leader attuali di diversi Paesi e Stati, sono rimasto molto colpito dall’ex presidente francese Chirac. È un vero intellettuale, un vero professore, un uomo saggio e molto interessante. Quando era presidente, aveva la sua opinione su ogni questione, sapeva come difenderla e rispettava sempre le opinioni dei suoi partner».
I grandi leader preparano sempre la propria successione. Può dirci con quale processo sarà scelto il suo successore?
«Posso dirle che ci ho sempre pensato, fin dal 2000. La situazione cambia e cambiano anche alcune esigenze delle persone. Alla fine, e lo dico senza teatralità, la decisione dovrà prenderla il popolo russo. Non importa tanto quello che fa l’attuale leader e come lo fa, né chi rappresenta e come, perché è l’elettore che ha l’ultima parola».
Quindi la scelta sarà approvata dal popolo russo in una votazione?
«Nel vostro Paese, un leader se ne va e il leader che gli succede non è eletto dal voto diretto del popolo, ma dal partito al potere. In Russia è diverso, perché siamo un Paese democratico. Se i nostri alti funzionari se ne vanno, si tengono elezioni a scrutinio segreto diretto universale. Lo stesso accadrà in questo caso».
Non posso fare a meno di sottolineare che lei ha assunto la presidenza prima delle elezioni.
«Sì, è vero. E allora? Ero presidente in carica e, per essere eletto e diventare capo di Stato, ho dovuto partecipare a un’elezione, cosa che ho fatto. Sono grato al popolo russo per la fiducia accordatami all’epoca e, successivamente, nelle elezioni successive. È un grande onore essere il leader della Russia».
Traduzione di Emilia Benghi, Fabio Galimberti e Luis E. Moriones

La Stampa 28.6.19
Re Umberto e l'anarchico Gaetano Bresci un colpo al cuore dello Stato
di Giovanni De Luna


Giovanni De Luna
Il 29 luglio 1900 è il giorno in cui, a Monza, l'anarchico Gaetano Bresci uccise con tre colpi di pistola il re d'Italia Umberto I. A quel tragico evento Marco Albeltaro dedica il suo nuovo libro (29 luglio 1900, Laterza, pp. VIII-150, € 18): un suggestivo itinerario nella nostra storia alla svolta tra Ottocento e Novecento, attraverso una serie di cerchi concentrici che si dipartono proprio da quella data per investire prima il contesto italiano, poi il modo in cui l'intero Occidente euroamericano, il nostro mondo di allora, visse quello che una canzone anarchica definì «il fosco fin del secolo morente». La tecnica narrativa è avvincente ed efficace; con qualche indulgenza verso elementi che appartengono più alla fiction che alla saggistica storica, Albeltaro ci restituisce il profilo, non solo umano, dei due protagonisti. Il re e il suo assassino vengono seguiti in tutti i momenti di una giornata che per uno dei due sarà l'ultima della vita e per l'altro l'inizio di una dolorosa espiazione.
Umberto I, al risveglio, si tuffò nella routine di una quotidianità che prevedeva la colazione, il bagno, la passeggiata a cavallo, la visita – più o meno furtiva - alla sua amante storica, la duchessa Eugenia Litta Visconti, e poi una serie di incombenze legate al suo ruolo. Il re era soprattutto un simbolo. Lo Stato liberale nato dal Risorgimento aveva un disperato bisogno di «inventare una tradizione», di proporre ai cittadini del nuovo Regno un «patto di memoria» che li aiutasse a sanare le fratture della guerra civile, del brigantaggio meridionale, dell'opposizione della Chiesa cattolica, delle altre fratture che attraversavano la nostra fragile unità nazionale.
Nuova mitologia nazionale
La scuola, l'esercito, i prefetti furono tra i principali strumenti istituzionali di quel tentativo di «fare gli italiani»; sulla Monarchia se ne riversarono invece gli aspetti simbolici. La Marcia reale, intonata in ogni angolo d'Italia,il Canto degli Italiani e altre canzoni del Risorgimento si innestarono nel tessuto popolare con una grande forza evocativa. Intorno a casa Savoia e al culto dei padri fondatori (Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini) si costruirono i primi monumenti pubblici, la memoria di pietra che ogni Stato edifica a beneficio della propria legittimazione. Si delineò una nuova mitologia nazionale grazie alla diffusione capillare delle immagini della «Famiglia Reale», alle cerimonie legate alle nascite, ai matrimoni, ai funerali dei suoi membri, a un universo propagandistico a cui attinse largamente la proposta di religione civile dell'Italia liberale.
Dopo il «Re galantuomo», Vittorio Emanuele II, a Umberto I toccò il ruolo del «Re buono». Il nuovo sovrano si era così mostrato condiscendente verso i suoi sudditi, inizialmente rispettoso dello Statuto e delle prerogative del parlamento, circondandosi di un alone di bontà e di disponibilità. Fino al 6 maggio 1898, quando le cannonate del generale Bava Beccaris falcidiarono la folla (80 morti, migliaia di feriti) che a Milano protestava in piazza contro i disagi di una grave crisi economica. La brutalità della truppa fu impressionante. Umberto I non se ne lasciò turbare e anzi decorò con la massima onorificenza di allora «il feroce monarchico Bava» della canzone anarchica. Fu un gesto puramente simbolico. Ma, appunto, Umberto I era un simbolo e pagò caro quel gesto .
Fu la molla che fece scattare il proposito omicida di Gaetano Bresci. Albeltaro segue da vicino anche l'attentatore nella sua ultima giornata di libertà. Al mattino, dopo una notte passata tra le braccia di una amante occasionale, Bresci si veste e si sbarba, poi si reca nel parco di Monza dove sa che il re si recherà quella sera per premiare i partecipanti a un concorso di ginnastica. La differenza tra i due protagonisti è questa: Umberto I vive le sue ultime ore nella totale inconsapevolezza di quanto sta per succedere. Bresci invece lo sa, ha tutto programmato da tempo. La pistola l'ha comprata negli Stati Uniti, a Paterson, dove era emigrato; e nell'ambiente degli anarchici italoamericani aveva maturato il suo proposito: «chi vuol essere libero faccia un gesto , lui ha deciso di farlo e lo farà», scrive Albeltaro.
Bersagli simbolo
L'offensiva anarchica aveva allora raggiunto il culmine: nel 1897 Michele Angiolillo aveva ucciso Cánovas, il primo ministro spagnolo; Giovanni Passannante e Pietro Acciarino avevano già due volte tentato di assassinare Umberto I; nel 1894 Sante Caserio aveva assassinato il presidente della repubblica francese, Sadi Carnot; nel 1898 Luigi Luccheni aveva pugnalato a morte l'imperatrice Elisabetta d'Austria. Questo per restare ai soli anarchici italiani. Era una strategia di morte fondata sull'indissolubilità del binomio sovranità-Stato nazionale, una tragica anticipazione di quel «colpire al cuore dello Stato» che sarebbe stato al centro dell'anacronistica iniziativa terroristica degli anni Settanta del Novecento italiano e che in quell'ottica avrebbe selezionato i suoi bersagli simbolo.
Bresci, come i suoi compagni di allora, «si sentiva la storia sulle spalle» e se la caricò tutta. Uccise Umberto I e subito fu assalito dalla folla; i carabinieri lo salvarono dal linciaggio. Fu condannato all'ergastolo, con i primi sette anni di scontare in isolamento assoluto. Visse così la sua pena in assoluta solitudine. Era una condizione per lui innaturale. Solo, con il ricordo di un gesto che si era rivelato inutile e fallimentare come tutta la strategia politica che lo aveva ispirato. Morì il 22 maggio 1901: il referto medico garantì che si era ucciso impiccandosi. Ci furono molti dubbi. —

il Fatto 29.6.19
I “ruba bambini” dell’Emilia e la rete dei giudici “distratti”
Dall’inchiesta sullo scandalo affidi emergono i rapporti tra l’onlus “Hansel e Gretel” e alcune toghe minorili tra convegni, relazioni compiacenti e conflitti d’interessi
di Sarah Buono


“Facile ipotizzare per alcuni indagati i tentativi di sviare le indagini valendosi anche di contatti con organi giudiziari con specifica competenza sui ‘casi’ dei minori oggetto di focalizzazione investigativa”. C’è un passaggio nelle carte dell’inchiesta “Angeli e Demoni” che apre diversi interrogativi sul sistema di affido in uso nella provincia di Reggio Emilia. Pochi giorni prima di Natale scorso Claudio Foti, psicoterapeuta leader del Centro Hansel & Gretel, discute con Francesco Monopoli, assistente sociale, di un convegno. Entrambi oggi sono agli arresti. Il tema è l’eccellenza de “La Cura”, il centro a Bibbiano dove, secondo gli investigatori, i minori strappati alle famiglie subivano il lavaggio del cervello a 135 euro l’ora. “Io ho un giudice di Bologna che mi avrebbe aiutato su questo aspetto… mi ha detto ‘guarda che c’è tutto un giro su queste situazioni’”. A parlare è Monopoli ma la conversazione non è chiara.
I due tornano sul convegno, l’assistente sociale precisa che “il giudice amico” è Mirko Stifano, togato del Tribunale per i Minorenni di Bologna. Foti coglie la palla al balzo e decide di invitarlo. Il convegno alla fine non si fa, ma non è la prima volta che Foti prova ad ingraziarsi il giudice. Nel 2016 Stifano partecipa a Bibbiano a un incontro. Con lui sul palco anche Elena Buccoliero, giudice onorario al Tribunale dei Minori bolognese e presidentessa della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati. Il legame con il centro Hansel & Gretel sembra profondo, come scrivono gli inquirenti: “Manifesta una sicura amicizia e pieno sostegno per Federica Anghinolfi – dirigente dei servizi sociali arrestata – e il suo operato”. In particolare per quelle relazioni ritenute dalla pm Valentina Salvi false e tendenziose. Per Buccoliero erano ottime, come risulta dall’ordinanza: “Ci capitano camere di consiglio dove colleghi, non io perché siamo anche un po’ amici, che dicono ‘finalmente una bella relazione ben fatta, un’indagine sociale buona che ci dà tutti gli elementi per capire’ e sono le vostre e non capita spesso”. Tutto legittimo. Nel 2010 Buccoliero segue il corso “per conduttori” diretto da Claudio Foti, “sull’intelligenza emotiva”.
Nel 2012 termina un altro corso di perfezionamento, sempre al Centro Hansel & Gretel. “C’è un’indagine in corso e mi attengo a quanto stabilirà la magistratura” dice oggi. Sulla “macchinetta dei ricordi” usata in terapia per trasmettere un impulso elettromagnetico ai bambini e “incentivare” i ricordi (falsi) risponde netta: “Ho seguito molti corsi e convegni ma non ne sapevo nulla, non è mai stata nominata non ero assolutamente a conoscenza della sua esistenza o utilizzo”. Buccoliero non ricorda chi sia Francesco Morcavallo, dal 2009 al 2013 giudice con lei a Bologna. “Sono passati tanti anni, non ricordo tutti”. Morcavallo invece la ricorda bene: “Era una dei giudici che più violentemente reagì quando denunciai proprio il tipo di situazioni scoperchiate oggi. Non è strano, è un vero e proprio conflitto di interessi. Mi ricordo che una volta mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come ‘tutore’ del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare. Uno studio ministeriale del 2010 calcolava che i minori portati via in tutta Italia fossero meno di 40 mila, solo in Emilia 3.599. Credo sia più alto, sopra i 50 mila casi per un indotto di un miliardo e mezzo annuo sottratto allo Stato”. Dopo gli anni bolognesi Morcavallo ha abbandonato la toga: “Le irregolarità erano completamente organiche nella gestione di allora del Tribunale minorile, vere e proprie patologie che oggi sono esplose. Finché ci saranno giudici che non decidono sulla base dei fatti ma sui giudizi altrui espressi in una relazione e non verificano con una vera istruttoria Reggio Emilia non rimarrà un caso isolato”.

Reoubblica 29.6.19
L’analista e le bugie ai bambini "Facciamo il funerale di tuo papà"
Reggio Emilia, le carte sui piccoli plagiati per toglierli alle famiglie E quelle frasi inventate nei loro verbali "Vogliono rapirmi"

dal nostro inviato Giuseppe Baldessarro

REGGIO EMILIA — «Ho paura che mamma e papà mi rapiscano. Ho davvero tanta paura». Letta così la frase della bambina avrebbe messo in allerta chiunque, tribunale dei minori compreso. Sono le parole che le affidatarie, una coppia di donne, della piccola F. hanno raccontato di aver ascoltato dalla ragazzina prima di segnalarle alle assistenti sociali di Bibbiano, che le hanno riversate in una relazione. Si tratta di uno dei falsi rilevati nell’indagine "Angeli e Demoni", e fa il paio con una serie di altre frasi, mai pronunciate dalla bimba e giudicate, dalle operatrici, «fortemente equivoche» a proposito di baci in bocca col papà. All’epoca dei fatti Federica Anghinolfi (ai domici-liari), responsabile del servizio, trasmise all’autorità giudiziaria inserendo tra virgolette frasi «frutto dell’elaborazione degli indagati». Come ad esempio: «Mamma non fa più da mangiare perché papà non le da i soldi per la spesa».
Le diagnosi
Si tratta di frasi «testuali» mai pronunciate o «adattate allo scopo». Di diagnosi psicologiche omissive o false, a cui facevano seguito pressioni sui bambini, «anche con strumenti elettromagnetici per indurli a ricordi negativi dei loro genitori». Così scrive nelle 277 pagine dell’ordinanza il gip di Reggio Emilia Luca Ramponi, che ha disposto 17 misure cautelari (27 gli indagati), per il giro di affari sugli affidamenti dei minori nei servizi sociali in Val d’Enza.
La macchinetta
Sembra essere stato chiarito il mistero della macchinetta usata durante gli incontri di psicoterapi con i bambini. Si tratta di uno strumento a impulsi elettromagnetici (Neurotek) con cavi che i minori dovevano tenere fra le mani. Uno strumento, chiarisce il procuratore Marco Mescolini che «non provoca elettroshock». I carabinieri, dopo averne sentito parlare nelle intercettazioni, lo hanno trovato durante le perquisizioni e, a prima vista, appare innocuo. Si tratta di un prototipo non commercializzato in Italia, ma solo negli Usa, e il suo utilizzo non è previsto dal sistema sanitario italiano. Mescolini in ogni caso ha deciso di farlo analizzare da un perito per capire se, oltre alla pressione psicologica avesse altre effetti sui ragazzini.
Cancellare i genitori
I magistrati la definiscono una singolare «terapia di elaborazione del lutto » per considerare emotivamente morto un genitore e farlo sparire dai ricordi. Nella carte dell’inchiesta si parla di una psicoterapeuta che dice a un bambino: «È come se dovessimo fare un funerale». Nel colloquio, intercettato, la donna, Nadia Bolognini, (ai domiciliari), chiede al giovane paziente di ricordare «quando il padre lo umiliava» inducendogli, scrive il giudice, falsi ricordi. Il dialogo continua: «Dobbiamo fare una cosa grossa... Sai qual è? Gli psicologi la chiamano elaborazione del lutto (...) Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papà non esiste più e non c’è più come papà. È come se dovessimo fare un funerale! ».
La violenza verbale
Nella carte si racconta anche dei litigi tra una bambina e la sua affidataria. Mentre sono in macchina, per un motivo banale, la donna perde le staffe e inizia a urlare alla piccola: «Porca puttana, porca puttana vai da sola a piedi… porca puttana scendi, scendi. Non ti voglio più». A quel punto si sente aprire lo sportello (in una giornata piovosa annotano i carabinieri) e la bambina scendere chiedendo: «Perché?». Un’altra volta la donna grida alla bimba: «Cosa credi? Che gli adulti che sono attorno a te sono degli idioti?». E, denigrando i genitori: «Forse quelli che avevi prima. Se vuoi fare quello che ti pare puoi andare a vivere sotto i ponti». Non esattamente un modello educativo.
Roba da pedofili
«Una roba scritta da quattro pedofili ». Così uno degli indagati definisce la "Carta di Noto", cioè il protocollo con le linee guida deontologiche per lo psicologo forense, quando si trova di fronte ad abusi su minori. La frase è attribuita è Matteo Mossini, psicologo dell’Asl di Montecchio, che aggiunge: «Se una contestazione così in tribunale la facessero a me avrei chiesto lo spostamento del processo in un altro tribunale, con un giudice più competente».
Il sindaco
Il procuratore Mescolini ieri ha ridimensionato le accuse al sindaco di Bibbiano: «Risponde solo di abuso d’ufficio e falso. Gli viene contestato di aver violato le norme sull’affidamento dei locali dove si svolgevano le sedute terapeutiche, ma non è coinvolti nei crimini contro i minori ». Il Pd dell’Emilia Romagna ne ha preso atto e ha fatto sapere che non intende chiedere provvedimenti contro Carletti.

La Stampa 29.6.19
Versailles, la pace che doveva abolire le guerre e portò invece a quella più sanguinosa di tutte
di Gianni Riotta


La Storia che si insegna nelle scuole e la sua sorellastra, la Storia di giornali e tv, implicano che da un set di eventi possa derivare una sola conseguenza. Dal torchio a stampa di Gutenberg giornali, riforma protestante, rivoluzione francese. Dalla caduta di Parigi 1940 la riscossa inglese con Churchill nella II guerra mondiale. Queste sceneggiature a esito fisso facilitano l'attenzione di scolari e lettori, ma offuscano il passato. Giappone, Cina, Corea, perfino Roma antica, sperimentarono caratteri mobili a stampa ma niente rivoluzioni, Churchill fu a mezzo passo da non diventare premier nel maggio 1940 quando tanti a Londra volevano la pace con Hitler: le isole inglesi della Manica, occupate dai nazisti, furono docilissime con i tedeschi, chissà se così sarebbe stato anche nella madrepatria.
La stessa lettura forzosa grava sul centenario della firma del patto di Versailles, il trattato di pace che, il 28 giugno 1919, cinque anni dopo l'assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, nella pomposa Sala degli Specchi dell'antica reggia, chiuse la I Guerra Mondiale.
Il presidente americano Woodrow Wilson considerava il Trattato di Versailles, con la Società delle Nazioni di Ginevra, e i suoi piani per la pace perenne, una svolta nella storia, l'oblio della guerra. Le cose andarono altrimenti, perché nessun evento è mai ineluttabile. La Germania sconfitta pagò prezzi enormi, in territorio, riparazioni, smobilitazione militare, umiliazione nazionale e quindi – ci dicono libri e elzeviri- si posero i semi del nazismo, della II guerra mondiale, perfino del fascismo, con il presidente italiano Vittorio Emanuele Orlando a subire lo smacco della «vittoria mutilata».
Fu davvero così? No, in realtà il piano di pace che la Germania aveva in serbo per le democrazie, in caso di vittoria, era assai più acerbo, «Pace cartaginese», sale sulle rovine dei perdenti. E quando la Russia di Lenin si arrese ai tedeschi a Brest-Litovsk, marzo ‘18, il prezzo pagato da Mosca fu più pesante di ogni protocollo a Versailles.
Le immagini del 28 giugno 1919 rimandano a una coreografia grottesca, la Francia ama il melodramma politico, con i fanti mutilati, sull'attenti davanti ai notabili tedeschi, quasi a esigere vendetta personale. Hitler ripagherà i nemici, con analoga messa in scena su un vagone ferroviario nel ‘40 ma anche la sua soddisfazione sarà effimera.
Punto cruciale di Versailles non è la presunta durezza, intravista tra i primi dal geniale economista inglese Keynes, che aveva partecipato da diplomatico al Trattato e che, nel pamphlet Le conseguenze economiche della pace, aveva argomentato a favore non già di migliori condizioni per i tedeschi, ma dell'apertura di un processo di integrazione europea tra i belligeranti, senza la grandeur vana del premier francese Clemenceau. Come osserva l'astuto statista americano Henry Kissinger, nato in Germania 4 anni dopo Versailles, l'errore ebbe un'altra prospettiva, poco discussa: «La mappa dell'Europa di oggi è ancora quella di Versailles. Nessuno degli statisti, allora, comprese le conseguenze del patto, opposte a quelle che avevano in mente». La pace ha bisogno di due pilastri, ammonisce Kissinger, equilibrio tra i poteri e legittimità davanti ai popoli. Versailles irrise il potere di Russia e Germania, schierandole presto contro le democrazie, e nelle città e nella campagne d'Europa, anche in Italia, il documento venne considerato ingiusto.
Il presidente Wilson fece bene a introdurre in politica estera valori e diritti umani, secondo la migliore tradizione costituzionale Usa, ma dimenticò che tra etica e forza non c'è contraddizione, senza il sostegno militare agli accordi tutto precipitò. Anche dopo la II guerra mondiale c'era chi voleva la «Pace cartaginese» e la distruzione della Germania industriale, nel piano redatto per il presidente Roosevelt dal consigliere Morgenthau. Prevalse, memori della débâcle Versailles, la saggezza del Piano Marshall, ma il presidente Truman tenne alta la difesa militare. Versailles lasciò la Germania circondata, a Est, da stati fragili, solo la permanente smilitarizzazione di Berlino, avrebbe mantenuto la pace ricorda Kissinger. Una volta partito il riarmo, invece, con le democrazie preoccupate dalla Russia sovietica, il Genio della guerra era di nuovo libero. Il Trattato aveva dimenticato i razzi tra le sue clausole e su quegli ordigni si mise al lavoro un giovane scienziato von Braun, poi famoso per le bombe V1 e V2 naziste e lo sbarco sulla Luna.
Dai fasti del G 20, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che il liberalismo è obsoleto, i diritti di emigranti e Lgbt contro la tradizione, mentre i traditori vanno puniti con la morte. Scommette che l'Occidente non sappia difendere pace e libertà, con il diritto o le armi. Putin crede nella Storia a senso unico, come i manuali, talk nazionalisti e solenni statisti di Versailles, un senso per lui afferente all'autoritarismo di Mosca, Pechino o del populismo nostrano. Vedremo presto se avrà avuto ragione o se, come l'orgoglioso Clemenceau, resterà abbagliato dalla Storia riflessa nella Sala degli Specchi a venire. —

https://spogli.blogspot.com/2019/06/il-manifesto-29.html

giovedì 27 giugno 2019

L’Espresso 23.6.2019

In alto a sinistra
Da luglio Helsinki guiderà il semestre Ue. 
Ed è in “pole” per la bce. Mentre il nuovo governo di socialisti e verdi alleati alza le tasse in nome dell’ambiente 


di Gianfrancesco Turano da Helsinki

Di centrosinistra contro l’Italia, un paese infelice, sudista e di centrodestra. Potrebbe essere questo il tono del semestre finlandese di presidenza del Consiglio dell’Ue che inizia il primo luglio.
La nazione dell’oriente scandinavo, al confine con la Russia, può guardare dall’al-to, e non solo geograficamente, l’Europa del sud. L’Onu l’ha appena confermata in testa alla classifica dei luoghi dov’è meglio vivere. In più, è campione del mondo. Non di calcio, che qui conta fino a un certo punto. Nei negozi di Helsinki illuminati dalle notti bianche sono ancora in evidenza le magliette celebrative del mondiale di hockey su ghiaccio, lo sport nazionale, vinto a maggio in Slovacchia, dove una squadra di atleti giovani e sconosciuti guidati dal capitano Markko Anttila, un fuscello di 203 centimetri per 104 chili, ha spianato la concorrenza di russi, svedesi e canadesi portando in piazza decine di migliaia di tifosi.
Dal mondiale di hockey agli europei della politica, nella seconda parte del 2019 i finlandesi giocheranno le proprie carte per le nomine della commissione a Bruxelles e della Bce a Francoforte, entrambe in scadenza il 31 ottobre. Oltre agli equilibrismi fra Stati e schieramenti politici, la questione romana è in cima alla lista delle patate bollenti del Consiglio e dell’Unione in generale, con una procedura di infra- zione per deficit all’orizzonte e il governo grillo-leghista in arretramento rispetto ai suoi impegni europei, come si chiamavano una volta. I FALCHI DOPO DRAGHI
Non sempre in passato la Finlandia è stata tenera verso l’andazzo del debito pubblico italiano. Fra le bestie nere del lassismo contabile di palazzo Chigi, soprattutto durante gli esecutivi del Pd, Jyrki Katainen è il più noto. L’ex vicepresidente della Commissione Juncker e commissario uscente per il lavoro, gli investimenti e la competizione era stato fra gli spitzenkandidat (capilista) del Ppe per la prossima commissione prima di sorprendere tutti e annunciare il suo ritiro dalla politica. Katainen si è lasciato coinvolgere dall’onda ambientalista che furoreggia in Scandinavia. Dovrebbe prendere la testa del Sitra, il fondo costituito nel 1967 e finanziato dal governo di Helsinki che si occupa di economia circolare e che ha tenuto la sua assise annuale ai primi di giugno nella Finlandia Hall progettata da Alvar Aalto. Nel domino Ue hanno rilievo le due candidature finniche per la successione a Mario Draghi. In un recente sondaggio del Financial Times fra economisti, Erkki Liikanen, 68 anni, ha raccolto i favori del pronostico. Ex governatore della Banca di Finlandia e autore nel 2012 del Rap- porto Liikanen sulla condizione degli istituti di credito dopo la crisi finanziaria, il socialdemocratico originario della piccola Mikkeli si pone nel segno della continuità con la politica monetaria di Draghi e del suo “whatever it takes” (qualunque cosa ci voglia) culminato con il quantitative easing, il programma di sostegno da 2600 miliardi della Bce. Liikanen è noto per avere posizioni generalmente più morbide verso i paesi del cosiddetto Club Med, la sigla dispregitiva che i falchi del nord riservano al fronte meridionale.
Tra questi c’è il secondo candidato alla Bce, Olli Rehn, 57 anni. Il governatore della Banca di Finlandia in carica è un concittadino di Liikanen ed è entrato nel Partito di centro dopo una gioventù da calciatore nella serie A nazionale. Come Liikanen e a differenza del candidato tedesco Jens Weidmann, è allineato e coperto sulla linea Draghi ma da ex commissario Ue agli affari economici e monetari durante la seconda presidenza di Manuel Barroso (2009-2014), ha spesso picchiato duro su Italia, Spagna e Grecia. L’esecutivo di Giuseppe Conte lo vede male per una questione di manuale Cencelli europeo. Una Bce a guida finlandese, anziché francese o tedesca, non libererebbe un posto per l’Italia nel consiglio direttivo della banca continentale.
Svolta a sinistra
In Finlandia, un paese con 5,5 milioni di abitanti grande poco più dell’Italia con un decimo della superficie occupato da 188 mila laghi, è tempo di svolte politiche. Dopo sedici anni, una coalizione di centrosi- nistra ha spodestato il centrodestra alle elezioni politiche del 14 aprile. L’11 giugno il nuovo premier, il socialdemocratico Antti Rinne, ha esposto il programma del suo esecutivo «per costruire una società sostenibile socialmente, economicamente ed ecologicamente». Rinne, ex sindacalista, ha detto che aumenterà le tasse per migliorare i servizi pubblici. Non è l’unico cambio di rotta. La nuova coalizione a cin- que ha anche escluso dall’esecutivo il par- tito dei Finni di Jussi Halla-aho. La forma- zione di destra, xenofoba ed euroscettica, si è piazzata seconda alle elezioni di mag- gio per un soffio dietro i socialdemocratici (17,5 contro 17,7 per cento) ma ha perso qualche frazione di punto rispetto alle votazioni precedenti e ha confermato la flessione al voto europeo del 26 maggio, quando è scesa al 13,8 per cento. Compongono il governo anche il Partito di Centro del premier uscente Juha Sipila, in forte flessione, e il Partito degli Svedesi, espressio- ne della più numerosa minoranza etnica del paese.
A consentire la svolta progressista è stato il successo dell’Alleanza di Sinistra quattro seggi in più) e soprattutto dei Verdi. Il loro +3 per cento rispetto al 2015 è stato incrementato al voto continentale quando il partito presieduto da Pekka Ha- avisto, già inviato dell’Onu per l’Environment programme in Africa e Asia, è salito dall’11,5 per cento delle politiche al 16 per cento cioè al secondo posto. Durante la campagna elettorale Rinne ha insistito sulla necessità di mantenere e anzi rilanciare il welfare state includendo nel programma l’aumento delle pensioni per i dipendenti pubblici e un piano di forti investimenti nelle infrastrutture. L’aeroporto di Vantaa a Helsinki era già in ampliamento. Nel 2018 ha superato i 20 milioni di passeggeri per la prima volta. Il terminal 2 sta prendendo nuova forma con 1 miliardo di euro investiti nella nuova aerostazione disegnata dagli architetti dello studio Ala, gli stessi che hanno realizzato la biblioteca pubblica di Oodi, nel centro della capitale, un bellissimo centro polifunzionale dove un libro, un dvd e una poltrona sono sempre disponibili. Anche il porto passeggeri di Helsinki è in fase di ampliamento nella zona a ovest del molo destinato alle grandi navi che collegano la città con Stoccolma, l’Estonia e San Pietroburgo. Le grandi opere (1,2 miliardi di euro di investimenti annunciati) dovranno essere realizzate senza conflitti con l’obiettivo annunciato dal governo di avere un paese a zero emissioni di carbonio entro il 2035.
Generosi ma vecchi 
La felicità era un concetto complesso da molto prima che l’Onu decidesse di declinarla in una classifica. Dopo la vittoria nel 2018, anche nel 2019 la Finlandia è risultata al primo posto. L’Italia è al numero 47, dietro anche a El Salvador (40°), paese che in un’altra classifica delle Nazioni Unite ha la peggiore statistica mondiale per omicidi (83 ogni 100 mila abitanti).
I finlandesi battono la concorrenza globale con un punteggio basato su sei elementi: pil pro capite (46 mila dollari contro 32 mila dell’Italia secondo i dati della Banca mondiale), servizi sociali, libertà di scelta, corruzione, aspettativa di vita e generosità. È proprio la generosità che, secondo le Nazioni Unite, caratterizza in modo particolare i finnici. Metà di loro effettua regolari donazioni alle onlus e alle charity nazionali. In compenso, la politica di accoglienza verso i rifugiati è stata piuttosto sparagnina durante il governo del centro- destra. Per le strade di Helsinki le facce da straniero sono rare, se si escludono le comitive di turisti asiatici che usano l’aeroporto di Vantaa come hub di transito per le loro visite in Europa, facilitate dalle rotte brevi attraverso la zona preartica. I dati dell’Ufficio immigrazione finlandese dicono che, dopo il boom di richieste presentate nel 2015 (32 mila in maggioranza da Siria, Iraq, Etiopia), l’anno coincidente con il successo elettorale della destra, le domande sono scese a 3-4 mila nell’ultimo biennio. Il coefficiente di missioni è il 43 per cento nel 2018, in risa- lita rispetto al 2017 (40 per cento).
All’indomani della vittoria, il premier Rinne ha annunciato di volere integrare nella forza lavoro anche chi viene respinto, con una posizione molto diversa da quella che pure ha portato alla vittoria la sinistra in Danimarca. Fra gli elementi di infelicità c’è un tasso di invecchiamento fra i più alti dell’Unione. I cittadini in età lavorativa (15-64 anni) sono il 62 per cento, contro il 64 per cento di un paese vecchio come l’Italia e il 60 per cento dei più vecchi del mondo, i giappo- nesi. Il livello dovrebbe peggiorare fino al 60 per cento nel 2030 e al 58 per cento nel 2050. Questa statistica è ancora più critica se si considera che nessun altro paese dell’Unione ha lo stesso numero di madri con più di quattro figli (oltre il 10 per cento secondo Eurostat), grazie all’efficienza del welfare per l’infanzia. L’invecchiamento rappresenta un problema per i saldi del sistema pensionistico, che il governo di centrodestra non è riuscito a riformare e che Rinne potrebbe appesantire con la sua proposta di innal- zamento dei minimi.
Orso e porcospino 
Il semestre di presidenza finlandese non cambierà i cardini della politica estera europea ma a Helsinki sono molto attenti ai rapporti cordiali con i vicini di casa. La Nordic coalition (Finlandia, Svezia, Norve- gia e Danimarca) ha sottolineato di recente gli sforzi comuni per promuovere l’economia circolare: «I membri della coalizione sono piccoli ma insieme siamo l’undicesima economia del mondo». 
Più delicata è la relazione con il vicino russo, con il quale la Finlandia condivide oltre 1300 chilometri di confine e una storia di guerre iniziata a fine Settecento, durante il dominio svedese, e finita con la sconfitta dell’Asse nel 1945, quando parte della Carelia finnica passò al territorio dell’Unione Sovietica. 
A Helsinki stanno attenti a non trasferire la rivalità sportiva dell’hockey agli equilibri geopolitici. Del resto, nella piazza del Senato troneggia da oltre un secolo la statua dedicata ad Alessandro II, lo “zar buono” che ridiede una parziale autonomia al parlamento locale. Con lo zar in carica oggi al Cremlino, Vladimir Putin, i rapporti al momento sono altrettanto distesi. Helsinki ha sempre respinto ogni tentazione di aderire alla Nato, una linea condivisa con i vicini svedesi. L’allarme lanciato di recente dall’ex presidente geor- giano Mikheil Saak’ashvili, che ha messo Finlandia e Svezia fra i più probabili obiettivi dell’espansionismo militare putiniano nel prossimo futuro, è stato con- testato da Jyri Raitasalo, docente alla Finnish national defense university, in un articolo on line su Foreign Policy. «Anche l’orso più grande», ha concluso l’analista, «non mangerà un porcospino». Resta da vedere se il porcospino finnico andrà di traverso a qualche governo europeo dell’area mediterranea.

L’Espresso 23.6.2019

Non è stato il solo testimone di Auschwitz ma ha indagato l’animo umano. A un secolo dalla nascita, è il momento di riconoscere in lui un autore universale che parla di vita e non di annientamentoPrimo Levi scrittore ritrovato

di Marco Belpoliti e Wlodek Goldkorn


Nella scrittura il racconto della verità trasfigurata dallo sguardo del narratore è più reale del reale. Per capire cosa sia accaduto nei lager serve la letteratura
Primo Levi per decenni è stato celebrato come un grande testimone della Shoah, un’icona dell’antifscismo, custode della preziosa memoria, diventato scrittore per via delle esperienze ad Auschwitz e quindi uno scrittore sui generis. Il testimone tuttavia è una persona che rende conto, nei tribunali, degli eventi cui ha assistito, con tanto di date e circostanze. Il testimone aiuta il giudice, o lo storico, a ricostruire un evento nei dettagli, quasi sempre in ordine cronologico. Spetta a chi ascolta dare un senso: giuridico, storiografico, politico, alla testimonianza. Lo scrittore invece procede in un modo contrario rispetto al testimone, costruisce un mondo attraverso un sistema di simboli, segni, metafore, libero di usare frammenti di ricordi, di ricomporli in un ordine che corrisponda alle emozioni e non alle misure convenzionali del tempo. E lo fa per indagare sulla condizione umana e per dare un senso al mondo e alle cose prime e ultime. Oggi, a cent’anni dalla sua nascita, il compleanno cade il 31 luglio, possiamo sentirci liberi di affermare che Levi è uno dei più grandi scrittori del Novecento e non un testimone? 
Lo chiedo a lei, Marco Belpoliti, che è il curatore delle opere di Primo Levi.
Belpoliti Già negli anni Novanta c’era un gruppo di scrittori e poeti - ne cito alcuni: Antonella Anedda, Eraldo Affinati, Stefano Bartezzaghi, Domenico Starnone, Massimo Raffaeli, Dario Voltolini, di sinistra, antifascisti nati negli anni Cinquanta e Sessanta - che avevano capito quanto Levi fosse uno scrittore e non solo un testimone, e quanto la letteratura italiana e quella mondiale gli siano debitrici, non perché parlasse della Shoah, termine che per altro non usa nei suoi testi, ma per come scrivesse del mondo. Levi è uno scrittore contemporaneo, da un lato ottocentesco, classico, dall’altro straordinariamente postmoderno. Per postmoderno intendo la citazione, il riuso dei testi, l’ironia, la parodia. Lui parodiava i testi che citava.
Goldkorn Un esempio?
Belpoliti Il centauro. La figura metà uomo metà cavallo della mitologia greca, spesso utilizzata da altri, nei romanzi di fantasia, di invenzione, di intrattenimento, gli dedica un racconto, “Quaestio de centauris”, molto importante. Anche Levi lo usa, ma per parlare della condizione esistenziale dell’uomo dopo Auschwitz, della sua dualità. 
Goldkorn La necessità di raccontare è comune a tutti i superstiti e i sopravvissuti. Ma, nel caso della Shoah, si trattava di cose inenarrabili e inimmaginabili, eppure accadute. E non esisteva un canone letterario di questa materia. Molti testi, prodotti quindi subito dopo l’Olocausto sono stati scritti usando iperboli, frasi fatte, citazioni di letteratura dell’orrore, oppure in un idioma militante, socialista degli anni Trenta. Levi invece intuisce che di fronte a tutto quello che gli è accaduto, lui, da scrittore vero, deve creare una mitologia. Quello che racconta è accaduto, ma necessita di una mitologia come sulla crudeltà del destino, sull’importanza della fortuna e dell’astuzia. “Se questo è un uomo”, il suo capolavoro, è un libro non solo su Auschwitz, ma è un magnifico testo sulla catastrofe degli umani, sapendo che la catastrofe non è una parentesi nella storia e nelle biografie, ma svela tutte le contraddizioni della condizione umana. 
Belpoliti Infatti, il libro si intitola “Se questo è un uomo” e non “Se questo è un ebreo”, perché per Levi è chiarissimo il fatto che l’opera dei nazisti consisteva nel tentativo di cambiare, attraverso il sistema dei Lager, la natura umana. I nazisti, Levi lo capisce, non vogliono solo ammazzare tutti gli ebrei del mondo, ma intendono mutare i dati antropologici dell’universo umano. Il capitolo “I sommersi e i salvati” in “Se questo è un uomo”, è un testo di una grande profondità filosofica. Ed è un capitolo in cui l’autore parla di un “esperimento biologico e sociale”. Sembra anticipare le opere di Michel Foucault sulla biopolitica. Levi aveva un suo côté positivistico darwiniano. E così interpretava il Lager come un tentativo di trasformare il genere umano. La portata radicale dell’esperimento nazista poteva intuirla solo un uomo forma- tosi come scienziato e scrittore in potenza. 
Goldkorn Possiamo pensare che non sia stato Auschwitz a trasformare Levi in uno scrittore, ma al contrario Levi ha potuto raccontare il Lager perché aveva le capacità di osservazione di un letterato? 
Belpoliti Su questo non c’è dubbio. Noi non sappiamo che genere di scrittore sarebbe diventato senza l’esperienza di Auschwitz. Però qualcosa si vede in “Il sistema periodico” o nei racconti di fantascienza, o fantabiologia, come li chiamava Italo Calvino, scritti con lo pseudonimo Damiano Malabaila. 
Goldkorn Uno scrittore di fantasia, dotato di un’immaginazione fuori dal comune. 
Belpoliti Levi era attentissimo ai dettagli. Ne cito uno. La questione di Mahorka, il tabacco dozzinale che ad Auschwitz serviva da moneta di scambio tra i deportati e con il cantiere della Buna. Con tutto quello che succedeva nel Lager, tre pagine per parlare delle quotazioni in una specie di Borsa nera, di Mahorka? Ma non è strano, Levi lavora con il dettaglio per parlare del mondo. Tiene sempre i piedi per terra, ma è molto fantasioso. 
Goldkorn In “Se questo è un uomo” c’è una scena di impiccagione. Simili scene le raccontano quasi tutti i testimoni. Elie Wiesel, narrando una storia analoga, si chiede dove sia finito Dio: risponde sul patibolo. Levi dice che chi ha assistito a questa scena e ha dovuto chinare la testa senza reagire non è più un uomo. Capisce che il nichilismo è diventata realtà. Non c’è speranza nel racconto. Dio non gli interessa. 
Belpoliti È un uomo che non crede in Dio, lo ha detto in più di una intervista, è un tori- nese di cultura illuministica e positivista, ed è socialista. Un borghese che vive del proprio lavoro. È pure antifascista e anche un ebreo, ma laico. Un fenomeno unico, nel panorama italiano. 
Goldkorn Un chimico torinese, ebreo integra-issimo. In nessun paese del mondo gli ebrei erano integrati come nell’Italia post unità nazionale, e vede nel Lager un universo che non conosceva, di ebrei dell’Est. Gente che parla lo yiddish, che porta nel corpo la memoria dei pogrom. Levi osserva il mondo di Auschwitz come un entomologo. Ne fa parte, perché è prigioniero e vittima. Ma mantiene distanza. È quella distanza che gli permette di capire il Lager? 
Belpoliti Levi sembra un antropologo venuto da un altro pianeta su una terra incognita. In questa terra ci sono due entità: i carnefici e le vittime. Vede che cos’hanno in comune le vittime e i boia: l’umanità. Alla fine de “I sommersi e i salvati”, dice: io di mostri non ne ho visti tanti, suggerisce che le SS fossero persone educate male, nelle scuole dove si insegnava ubbidienza e non pensiero critico. Levi era diventato scrittore perché gli interessava capire come cambiavano le cose. Per questo era capace di raccontare la bestialità e l’asservimento dei kapo, non come fatto morale ma come dato antropologico. Sapeva cosa era l’uomo. E poi era un chimico. Ave- va fiuto. Alla lettera. All’epoca non c’erano macchinari per fare il mestiere di chimico: il chimico, per sapere le cose, doveva avere un buon naso. Lui ce l’aveva. 
Goldkorn Di “Se questo è un uomo” ci sono due versioni. La prima, del 1947, dopo la poesia, comincia con la descrizione della situazione degli ebrei italiani a Fossoli nel 1944. La seconda, canonica, del 1958 inizia invece (sempre dopo la poesia) con le parole: “Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza...”. Il primo incipit non è bello né accattivante; il secondo allude all’epica classica e pone l’eroe, il nar- ratore, al centro. 
Belpoliti Dal 1947 e fino a metà degli anni Cinquanta Levi raffina le strategie di narrazione. Un esempio. Nella prima versione, Alberto (Alberto dalla Volta, compagno di prigionia di Levi, ndr) è solo una delle persone citate, mentre nella seconda viene raccontato come il miglior amico, al centro della storia nei punti salienti. La spiegazione è semplice: Levi aveva nel frattempo cominciato a scrivere racconti. E ha progettato il secondo romanzo “La tregua”. Ha lavorato sulla qualità della scrittura di “Se questo è un uomo”, sulla struttura e sull’architettura di quel testo perché aveva deciso di essere scrittore appunto. Faccio un altro esempio. Il capitolo di “Se questo è un uomo” dove parla dei traffici dei manici di scopa, nel capitolo “L’ultimo”. Quelle pagine seguono la scena di impiccagione di cui abbiamo parlato prima. Abbiamo detto che in quella scena non c’è trascendenza né speranza, solo la morte e il Nulla. E allora perché dopo quella narrazione Levi decide di raccontare episodi che riguardano i traffici delle povere merci nel Lager? Per rimettere la persona umana, che traffica, e quindi si occupa della vita e del futuro, al centro. Per parlare della vita e non più dell’annientamento. È un procedimento da grande scrittore, non da testimone che racconta gli eventi in ordine cronologico. 
Goldkorn Forse la scena più bella e che meglio dà l’idea dell’uomo al centro dell’universo, anche nel Lager, è il racconto dove il narratore, mentre vanno a prendere la zuppa, recita al compagno di detenzione, Pikolo, Il canto di Ulisse di Dante. Levi fa vedere le stelle, il mare, fa respirare l’aria di libertà. Possiamo ipotizzare che almeno in parte quella scena è immaginata?
Belpoliti Jean Samuel, il Pikolo, non si ricordava di quell’episodio, ha detto dopo la morte di Primo. Probabilmente Levi ha parlato a Samuel di Dante, ma forse non in termini in cui lo ha scritto. Ma la storia è talmente bella che va approfondita. Levi dunque voleva citare Dante, perché era il suo punto di riferimento costante, era l’uomo in esilio, l’uomo che fugge, l’uomo libero. E poi c’è Ulisse, l’uomo che sfida gli déi. Tutto quello che ha scritto Levi è ancorato nella tradizione della letteratur italiana, in ogni riga c’è l’eco di un autore che lui ha frequentato, e credo che con il Canto di Ulisse volesse parlare pure della bellezza della lingua italiana. Aggiungo: la letteratura è un luogo della libertà, questo ci dice Levi. Ma se è così, la letteratura produce la realtà. Nella letteratura il racconto del reale, trasfigurato dallo scrittore, è più reale del reale. 
Goldkorn Levi è Ulisse. È astuto, fedele alla sua biografia, determinato a tornare a casa. Ha la sua Itaca in Corso Umberto a Torino. “La tregua”, in cui narra il vagabondare da Auschwitz a Torino, è la storia di Ulisse dopo Auschwitz. E in quel romanzo si manifesta il Levi creatore di una mitologia. È curioso quanto non racconti di Katowice, città dove soggiornò per più di tre mesi nel campo pro- fughi, perché è un luogo che si presta poco a una narrazione epica e quanto invece as- sume toni quasi atemporali parlando della Russia. Vi incontra uomini e donne vestiti di pelli d’animale. Vede boschi dove ci si perde come Hänsel e Gretel nella favola dei fratelli Grimm. 
Belpoliti Un libro riscritto due volte. Nel dattiloscritto che ho esaminato, ho trovato che aveva pensato di iniziare la storia con il Greco, suo compagno di viaggio. E poi ha riscritto anche il capitolo che si intitola così. Ha cassato un inizio meno letterario. Ha deciso di cominciare con due capitoli che appartenevano alla realtà di Auschwitz, là dove parla della salvezza e l’altro dedicato ai bambini e dove c’è l’episodio di Hurbinek. Li aveva già scritti all’epoca di “Se questo è un uomo”. Non butta nulla e poi ha pensato quel secondo libro come continuazione del primo, anche se letterariamente non lo è. Pensa da scrittore. Ha anche calcolato la lunghezza dei due libri contando le parole e le lunghezze dei capitoli: sono lunghi uguali. Ragiona come un chimico e tiene conto dei lettori. 
Goldkorn Un raccontatore di storie mentre il linguaggio è autonomo rispetto all’autore. La capacità di farlo trasforma un narratore in un grande scrittore. 
Belpoliti Per questo, considerare Levi uno scrittore significa porre di nuovo la questione del testimone. Ora la grande sfida è prendere la figura dello scrittore, liberata dal ruolo del testimone, e reinserirla nel discorso della te- stimonianza. Un compito non facile, ma decisivo per la testimonianza e per il nostro futuro di memoria viva. Ci serve la letteratura. La letteratura potenzia lo sguardo e lo rende acuto. Levi nel 1947 non usò il linguaggio neorealista allora di moda, ma il linguaggio classico della borghesia. Forse per questo Einaudi si rifiutò di pubblicarlo. Per capire cosa sia accaduto ad Auschwitz ci vuole la lettera- tura, perché solo la letteratura ci permette di comprendere cose che i realisti non riescono a immaginare. Levi prova che Auschwitz può essere narrata, però lo può fare uno scrittore, un artista, un musicista. La letteratura è il prosaico portato al sublime. 
Goldkorn Abbiamo parlato di Levi narratore di Auschwitz, non perché gli altri libri siano meno importanti (“La chiave a stella” è un capolavoro), ma per sottolineare quanto ha appena detto: solo la letteratura può dare senso all’inenarrabile. Perché Levi diceva di non sentirsi del tutto scrittore? 
Belpoliti Un po’ perché era rimasto traumatizzato dal rifiuto di Einaudi. Ma soprattutto perché da antifascista temeva che, presentandosi solo come scrittore, la forza della sua testimonianza potesse essere messa in dubbio. Era un problema politico e culturale, e lo sentiva molto, perché, ri- cordiamolo, nessuno, subito dopo la guerra, voleva ascoltare quanto era accaduto nei Lager. Gli scrittori inventano. Levi non inventava, costruiva la memoria sotto forma di una prosa sublime.
La chimica, l’Olocausto e la letteratura 
Di Federico Marconi
È il 31 luglio 1919. In una Torino alle prese con la febbre spagnola e scossa dai primi moti del Biennio Rosso nasce Primo Levi, primogenito di Cesare Levi ed Ester Luzzatti, entrambi di religione ebraica. Primo è gracile e di salute spesso cagionevole: così nei primi anni non frequenta la scuola con costanza, costretto a ricorrere a insegnanti privati. Nel 1934 inizia il liceo, il Massimo D’Azeglio, già sede di professori antifascisti ma allora politicamente “epurato”. Studia con profitto: sempre buoni i voti nelle materie scientifiche, meno quelli in italiano. Anche per questo, presa la licenza, nel 1937 decide di frequentare il corso di laurea in Scienze all’Università di Torino. Giusto in tempo: un anno dopo il regime promulga le leggi razziali che non gli avrebbero permesso di iscriversi. Levi si scopre diverso, discriminato, un nemico anche lui che era stato balilla prima e avanguardista poi.
Nel 1941, quando termina gli studi, sul diploma di laurea insieme alla lode ci sarà la menzione della “razza ebraica”. Inizia subito a lavorare e, nel 1942, si trasferisce a Milano. Lì inizia a militare nella Resistenza: dopo la caduta di Mussolini e l’armistizio di Badoglio, con l’inizio dell’occupazione nazista del Nord Italia si rifugia sulle montagne della Val d’Aosta.
Serve a poco: il 13 dicembre 1943 viene catturato e spedito nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi.
Da lì, pochi mesi dopo, è caricato su un treno direzione Auschwitz. Levi ha studiato, è considerato manodopera specializzata, per questo i tedeschi lo fanno lavorare nell’impianto chimico di Buna. È uno dei fattori che contribuiranno alla sua salvezza, insieme alla scarlattina: si ammala poco prima dell’arrivo dei russi, il 27 gennaio 1945, e le SS non lo portano con loro. Inizia allora un lungo giro d’Europa al seguito dei sovietici, raccontato ne “La Tregua”. Torna a Torino nel 1946 e inizia subito a scrivere la sua esperienza di deportato: nasce così “Se questo è un uomo”. Rifiutato da Einaudi, il libro è pubblicato da De Silva nel 1947: viene accolto da buona critica, ma delle 2500 copie stampate ne vengono vendute poco più della metà.
Levi, deluso, continua a scrivere ma torna a lavorare in fabbrica. Solo nel 1956 ritrova fiducia nella sua penna e ripropone il libro a Einaudi, che questa volta lo pubblica anche per l’interesse suscitato da Levi dopo una mostra sulla deportazione negli anni della guerra. Nel 1961 inizia a scrivere “La Tregua”, che pubblica due anni dopo e gli fa vincere il primo Premio Campiello.
Negli anni Settanta pubblica “Il sistema periodico” (1975) e “La chiave a stella” (1978), frutto dei suoi viaggi a Togliattigrad, con cui vince lo Strega. Poi è la volta di “Se non ora, quando”, del 1982, romanzo con cui vince di nuovo il Campiello e de “I sommersi e i salvati” (1986), da molti considerato il suo capolavoro intellettuale.
È il suo ultimo libro: malato e depresso, l’11 aprile 1987 si getta nella tromba delle scale del palazzo dove era nato 67 anni prima.

L’Espresso 23.6.2019 

L’abiura di Galileo e i dubbi di Brecht 
Nell’atteggiamento dello scienziato di fronte all’Inquisizione
il drammaturgo rivive la sua esperienza nell’America maccartista
di Bernardo Valli

Frammenti di Rembrandt, di Fra’ Angelico, di Caravaggio, di Raffaello dominano la scenografia di “La Vita di Galileo” rappresentata in questa stagione alla Comédie-Française. Per evocare subito nell’immaginario collettivo il Vaticano, la cappella Sistina, i palazzi veneziani o fiorentini o padovani, in generale l’imperante atmosfera religiosa dell’epoca in cui si svolge l’opera di Bertolt Brecht, il palcoscenico parigino è spesso avvolto da particolari di celebri dipinti, sapientemente ingranditi. E poiché il diavolo è nei dettagli, sottolinea Eric Ruf, il regista e scenografo, gli angeli scelti, scovati da lui hanno sguardi dubbiosi, e i santi espressioni distratte. Tutt’altro che ispirate. Galileo Galilei è come prigioniero di quelle immagini svagate rispetto alla pietà, come sentimento d’amore e comprensione. Su di lui pesa l’oscurantismo: l’Inquisizione. Il carattere del Galileo di Brecht non corrisponde a quello dei libri di storia. Anche se i fatti sono fedeli alla sua biografia. Sulla scena appare un personaggio ironico, a tratti spavaldo, sprezzante, reso euforico dalle sue scoperte, ma anche sconcertato, confuso, quando deve affrontare le conseguenze delle tesi (copernicane) da lui apertamente sostenute. Non perde tuttavia l’ambizione e la lucidità di fronte alla sconfitta e alle minacce fisiche, pur ritirandosi nella solitudine e nei rimorsi. L’attore Hervé Pierre interpreta, quasi sillaba, questi zigzaganti umori di Galileo, mentre intorno a lui si muove, scettica o minacciosa o delusa, una folla di personaggi: dal Papa ai cardinali, dai semplici inquisitori agli allievi fedeli o sconcertati: i cui costumi creati dal sarto Christian Lacroix sembrano usciti dai dipinti dell’epoca. Ricco dunque lo spettacolo, sia pure entro i classici canoni della Comédie-Française.
Come tutte le grandi opere il Galileo di Brecht esprime valori che vanno al di là dell’epoca in cui è ambientato. Brecht vi ha lavorato a lungo. Ne ha fatto tre versioni: quella danese (1938- ’39) durante il primo esilio dopo l’avvento del nazismo, quella statuniten- se (1943-’45), quella berlinese (1956). Quest’ultima rappresentata subito dopo la sua morte. La vita di Galileo tormenta Brecht. La legge anche at- traverso la lente del presente. Del suo presente. Nell’opera teatrale pone con chiarezza l’equazione tra il rifiuto dell’ oscurantismo religioso e il fondamentale dubbio sulla compiutezza, sulla perfezione della scienza. Trasformato un semplice cannocchiale olandese in un telescopio astro- nomico, Galileo si presenta trionfante alla corte fiorentina dei Medici dove spera di essere assecondato nelle sue ricerche. La Luna, sostiene, non ha una luce propria, è illuminata dal Sole, come la Terra, che gli ruota attorno. L’Inquisizione non è d’ accordo, giudica inaccettabile l’idea: se la Terra non è più al centro dell’universo che cos’è, allora, l’uomo nel creato? Sotto la minaccia della tortura Galileo ritratta le proprie idee. L’abiura lo salva fisicamente. Brecht si chiede allora se si possa parlare di sopravvivenza sen- za affrontare il problema della viltà. Costretto a lasciare la Germania nel 1933, dopo l’incendio del Reichstag, lui, Brecht, conosce la sorte subita dagli artisti e dagli intellettuali sotto- posti alla violenza nazista e costretti a risolvere il dilemma: accettare o meno il nuovo regime. Più tardi, negli Stati Uniti, si interessa alle appassionate discussioni, iniziate da Albert Einstein, sulle conseguenze del progresso scientifico, e sull’uso che gli scienziati fanno del loro sapere. Un’altra prova si presenta per Brecht quando, sempre negli Stati Uniti, con altri intellettuali viene convocato dal comitato del Congresso che si occupa delle attività antiamericane. Se la cava assumendo furbescamente atteggiamenti ingenui che gli valgono le felicitazioni degli inquirenti.
Incalzato dagli avvenimenti e dai dubbi Brecht ritocca più volte il giudizio sul “suo” Galileo. Ne fa un combattente, perché dopo l’abiura continua in segreto i suoi studi, affidando i risultati a un allievo incaricato di diffonderli. Ma ne fa anche un col- pevole. Lo stesso Galileo pronuncia un’autocondanna: riconosce che se avesse rifiutato di rinnegare le sue tesi avrebbe lasciato un esempio: un invito a utilizzare la scienza unicamente per il bene dell’umanità. Il Galileo di Brecht ha optato in definitiva per un compromesso.

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