sabato 14 luglio 2012

l’Unità 14.7.12
Un patto tra produttori per ridurre il debito pubblico
di Stefano Fassina


LASCIAMO STARE LE AGENZIE DI RATING, FIGLIE DELL’IDEOLOGIA LIBERISTA DELL’AUTOREGOLAZIONE dei mercati, al loro destino di irrilevanza: cantano, come sempre, quando il sole è già alto. Guardiamo, invece, ai fondamentali per capire quanto avviene nell’euro-zona e provare a cambiare rotta prima di colpire l’iceberg. L’euro ha un “difetto congenito”: è insostenibile date le divergenti dinamiche di competitività tra i Paesi membri e la condivisibile indisponibilità dei nord-europei alla transfer union. Per i suoi primi 10 anni di vita, il credito facile delle banche internazionali (tedesche incluse) ai Piigs ha finanziato i deficit delle loro bilance commerciali e trainato la crescita dell’ex-area del Marco. Siamo stati una private debt union, un’unione fondata sull’indebitamento delle famiglie (la Grecia è caso unico). Poi, nel 2008, la giostra si è fermata per lo sgonfiamento delle bolle immobiliari e finanziarie e la conseguente zavorra sulle banche.
La diagnosi è condivisa a Berlino, Bruxelles e Francoforte. Lo scontro culturale e politico, tra conservatori e progressisti, nell'euro-zona è sulla cura. La ricetta dei conservatori e di larga parte delle tecnostrutture comunitarie prevede, per ciascun Paese in deficit di bilancia commerciale, la “svalutazione interna”: contrazione della domanda, attraverso politiche di bilancio soffocanti, per ridurre l’import; riduzione del costo del lavoro, attraverso l'ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici, per aumentare l’export. È la linea imposta anche al governo italiano, raccomandata ancora due giorni fa nell’ultimo bollettino della Bce. A Francoforte e Berlino sono soddisfatti dei nostri interventi di finanza pubblica, ma delusi dall’incapacità del governo di indebolire i sindacati e quindi preoccupati per l’insufficiente riduzione delle retribuzioni. Per rimediare, dopo il tentativo a vuoto di smantellare l’art 18, si passa a delegittimare le rappresentanze di lavoratori e imprese. Colpevoli, quest’ultime, per visione lungimirante del proprio interesse, non per generosità, di cercare un patto tra produttori, invece che procedere ad atti unilaterali stile Fabbrica Italia.
Al di là delle conseguenze drammatiche sulle condizioni di lavoratori e lavoratrici, imprenditori piccoli, medi e grandi, giovani e meno giovani senza lavoro, la strada della svalutazione interna seguita nell’area euro non funziona. Gli spread elevati sono soltanto colpa degli avvoltoi della finanza? Non illudiamoci. Sono conseguenza di politiche di austerità auto-distruttive che ampliano le divergenze economiche tra i Paesi euro e rendono insostenibile sul piano economico, sociale e politico la moneta unica. In Italia, abbiamo raggiunto, tra impennate di tasse e tagli a servizi sociali fondamentali, un avanzo primario intorno al 4% del Pil (il doppio della Germania), innalzato brutalmente a livelli record l’età di pensionamento, scolpito l’equilibrio del bilancio pubblico in Costituzione, approvato al volo un Fiscal Compact impossibile. In Grecia, il povero Papandreu ha realizzato un abbattimento del deficit senza precedenti storici e determinato sull’economia e sulle persone gli effetti di una grande guerra. Irlanda, Portogallo e Spagna continuano a tagliare welfare e retribuzioni. Eppure, tagli di spese, aumenti di imposte e regressione delle condizioni del lavoro non sono mai sufficienti a ridurre il debito pubblico. Perché? Perché affossano l’economia reale. E, dati i legami economici e finanziari, spingono fuori asse anche i conti pubblici in Olanda e frenano la Germania in una inevitabile stagnazione.
A quanto deve arrivare la disoccupazione, in particolare giovanile e femminile, per prendere atto che il modello tedesco non è generalizzabile? Affinché qualcuno abbia un attivo di bilancia commerciale (la Germania), qualcun altro deve avere un passivo (i Piigs). È, per costruzione, un gioco a somma zero. Non può essere a somma positiva.
Insistere sulla strada deflattiva della svalutazione interna per correggere gli squilibri macro-economici porta inesorabilmente alla fine della moneta unica.
È urgente cambiare rotta. Va realizzata subito una fiscal union e dato all’eurogruppo il potere di autorizzare la presentazione della legge di bilancio ai Parlamenti nazionali. Va allentata la morsa dell'austerità autolesionistica e attribuita al Fondo “Salva-Stati” licenza bancaria per svolgere funzioni di deterrenza credibili a garanzia dei debiti sovrani. Va sostenuta la domanda aggregata privata e pubblica attraverso la redistribuzione del reddito e gli investimenti innovativi finanziati da project bonds per ridurre le divaricazioni di competitività.
Insomma, sul piano politico, nell’area euro e in Italia, è urgente che le forze progressiste prendano il timone e promuovano un Patto tra produttori, orientato a ridurre il debito pubblico attraverso lo sviluppo sostenibile. Altrimenti, l'involuzione economica e democratica in corso è irreversibile.

l’Unità 14.7.12
Andrea Orlando, il responsabile giustizia del Pd:
«Nella prossima legislatura. Ora impostiamo il lavoro istruttorio
Dopo la verità giudiziaria serve quella politica»
«Il Parlamento deve indagare sui fatti di Genova del 2001»
intervista di Claudia Fusani


Una Commissione parlamentare d'inchiesta sui giorni del G8 di Genova. Non è un refuso ripescato da vecchie cronache ma la proposta di Andrea Orlando, deputato del pd e responsabile del Forum Giustizia. «Un modo – dice – per risolvere ingombranti eredità non chiarite».
Onorevole Orlando, a 11 anni dai fatti sembra una proposta d'antan, fuori tempo massimo visto che la legislatura è a fine corsa....
«La Commissione dovrebbe formalmente iniziare nella prossima legislatura. In questi mesi potremmo avviare un lavoro istruttorio decidendo chi sentire con l'aiuto di esperti internazionali sui diritti dell'uomo» . Perchè il prossimo Parlamento dovrebbe realizzare un’agenda decisa da altri?
«E' interesse di tutti oggi, senza distinzione di appartenenza politica, capire cosa è veramente successo in quei giorni a Genova. Siamo, e saremo, in un periodo di forti tensioni sociali che dobbiamo avere la certezza di poter affrontare avendo ben chiaro quale il modello di ordine pubblico da mandare in piazza. Solo in questo modo possono essere evitate quelle pericolose mitologie dietro le quali possono crescere fenomeni a volte sottovalutati. Sia sul fronte dell'istituzione forze dell'ordine che su quello dei manifestanti».
Chiarire oggi il modello di ordine pubblico per impedire, nel futuro, eccessi di ambiguità nei confronti di fenomeni di piazza?
«Significa assumere gli anticorpi giusti per garantire meglio chi va in piazza per manifestare un democratico dissenso. E chi nelle stesse piazze va perchè comandato a farlo per tutelare il bene pubblico. Per evitare colpevoli sottovalutazioni, da una parte e dall'altra, di certi fenomeni. Penso alle relazioni pericolose tra il legittimo movimento No Tav e frange dell' estremismo».
In una settimana sono andati a sentenza definitiva il processo sull'incursione e i pestaggi nella scuola Diaz. Si aspettava che i vertici della polizia fossero condannati?
«Francamente no. E le sentenze sono sovrane».
Che senso ha chiedere una Commissione d'inchiesta adesso?
«In questi 11 anni il Parlamento l'ha negata per evitare pericolose sovrapposizioni. Ora la sentenza dice molto ma non i presupposti politici di quei giorni. E su questo serve una risposta importante. Occorre sapere quale impatto ha avuto quella vicenda sugli apparati di sicurezza e nei rapporti tra apparati e politica. Le inchieste giudiziarie non potevano rispondere alla domanda più importante: quali i rapporti tra politica e struttura del ministero dell'Interno non hanno funzionato?».
Facciamo nomi e cognomi. In quei giorni del luglio 2001 a Genova il vicepremier Fini era nella sala operativa dei carabinieri. L'allora ministro dell'Interno Claudio Scajola aveva dato ordine di sparare a chi violava la zona rossa. L'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli era a Bolzaneto, luogo di orribili torture....
«Ecco, appunto. É importante ricostruire il clima di quei giorni. Il mandato piú o meno implicito dato alle forze dell'ordine a Genova, il perché di presenze eccellenti ed incongrue rispetto alla catena di comando. Elementi importanti per ricostruire le responsabilità politiche non tanto per punire ma per imparare. E non sbagliare piú».
In vista, anche, delle ipotizzate alleanze del Pd con il Terzo Polo? Con Casini ma anche con Fini?
«Per chiarire a che titolo Fini fosse in quella sala operativa non credo sia necessaria una Commissione d'inchiesta. Basterebbe che fossero superate certe reticenze. E certi silenzi. Ero a Genova in quei giorni. Sono testimone di quelle giornate, ho respirato quel clima. Non vorrei oggi chiamare in causa la politica. Capivo che c'era qualcosa di strano e preoccupante. Di sicuro chiarire il senso di quelle presenze non è marginale in una prospettiva di alleanza politica per governare il paese».
Il capo della polizia Antonio Manganelli ha chiesto scusa. L'allora capo della polizia Gianni De Gennaro ha parlato di “dolore” per le vittime. Sufficiente? «Credo che De Gennaro abbia perso l'occasione per chiarire. Ci avrebbe dovuto dire perchè i reparti mobili intonavano quei cori. Quale clima, e aspettative, si erano create con il cambio di maggioranza politica. Sono domande che continuano a circolare, giustamente, undici anni dopo. Servono risposte chiare».

l’Unità 14.7.12
Primarie, programmi, alleati: Bersani traccia la strada per il voto
Oggi l’Assemblea nazionale del Pd: il segretario illustrerà la proposta per la «carta d’intenti»
Sul dopo Monti: «Garantiremo la tenuta dei conti con i nostri valori»
di Simone Collini

Quel che il Pd «farebbe» e quel che il Pd «farà». Di questo parla oggi Pier Luigi Bersani aprendo l’Assemblea nazionale del suo partito ma soprattutto aprendo di fatto il percorso che porterà alle prossime elezioni. L’appuntamento sulla carta si preannuncia non privo di discussioni interne, visto che Anna Paola Concia e altri stanno valutando l’ipotesi di presentare degli ordini del giorno per superare le «ambiguità» del documento riguardante anche le unioni civili di coppie omosessuali messo a punto dal Comitato diritti (la presidente Rosy Bindi oggi lo presenterà), mentre Sandro Gozi, Pippo Civati e Salvatore Vassallo hanno già preparato tre ordini del giorno per chiedere di fissare subito la data delle primarie per il candidato premier (e che comunque non si vada oltre dicembre), di far rispettare il limite dei tre mandati per i parlamentari e di scegliere ai gazebo (dovesse rimanere il Porcellum) anche i candidati deputati e senatori.
Ma Bersani aprirà i lavori con un intervento che nelle sue intenzioni dovrebbe disinnescare ogni mina e permettere invece una discussione sui problemi del Paese e su come affrontarli quando toccherà al Pd governare. Come? Da un lato, rassicurando sul fatto che col centrosinistra al governo si farà una legge sulle unioni civili anche tra persone dello stesso sesso, sul fatto che «entro la fine dell’anno» si faranno primarie aperte per scegliere il candidato premier e che sul limite dei mandati si rispetterà lo statuto, che prevede tre mandati salvo un numero limitato di deroghe (sulla scelta dei candidati parlamentari ha già avuto modo di dire che si ricorrerà a metodi di «ampia partecipazione» nel caso rimanesse il Porcellum, eventualità che però il Pd non vuole neanche prendere in considerazione). Dall’altro lato, proverà a tenere alto il livello della discussione insistendo sui rischi che corre il Paese e facendo appello al senso di responsabilità dell’intero gruppo dirigente del partito: «Tocca a noi presentare un programma di governo per il 2013, con una maggioranza solida politicamente. Guai a guardarsi adesso la punta delle scarpe. Il Pd deve essere uno strumento per la ricostruzione economica, sociale, civica del Paese».
Il punto di partenza del ragionamento che farà Bersani di fronte ai membri dell’Assemblea nazionale (ci sarà anche Matteo Renzi, che adesso non intende aprire alcun fronte polemico col segretario) è la grave crisi che attraversa l’Italia, «la più grave dal dopoguerra ad oggi», e il rischio che questa situazione dia maggior fiato a «posizioni regressive e formazioni populiste». «È necessario porre un argine a questa deriva», è l’appello che il leader del Pd lancerà ai suoi ma anche alle altre forze interessate a dar vita a un «centrosinistra di governo» (Bersani ormai utilizza il primo termine soltanto in aggiunta del secondo) e alle forze moderate (partiti e non).
CONTI IN ORDINE E VALORI
Oggi Bersani, che di fatto è stato il primo a candidarsi per il 2013 (Berlusconi, a cui il leader Pd non dovrebbe dedicare neanche un passaggio della relazione, si è aggiunto tre giorni fa) illustrerà i capisaldi della «carta d’intenti» che dovrà disegnare il perimetro del fronte progressista (solo chi la siglerà potrà poi partecipare alle primarie per la scelta del candidato premier), a partire da quei «valori fondanti» su cui il Pd insisterà in campagna elettorale e poi (in caso di vittoria alle politiche) nell’azione di governo: Europa come orizzonte, rispetto per la Costituzione, lavoro al centro, legalità, eguaglianza, redistribuzione delle ricchezze e ridefinizione del carico fiscale, primato dell’economia reale, coesione sociale, diritto di cittadinanza. Una sorta di decalogo («nessun librone») a partire dal quale Bersani vuole impostare la campagna elettorale del Pd. «Noi oggi sosteniamo questo governo, anche se non ogni sua scelta ci piace del tutto, perché ci siamo caricati la responsabilità di salvare il Paese. Ma dopo Monti noi garantiremo la tenuta dei conti con le nostre scelte, partendo dai nostri valori». E il titolo scelto per l’Assemblea di oggi è un po’ già uno slogan per l’oggi e soprattutto per il domani: «Dalla parte dell’Italia con responsabilità e fiducia».
IL NODO LEGGE ELETTORALE
Una parte dell’intervento, e della discussione che seguirà, riguarda la legge elettorale. Bersani, che dell’argomento ha parlato anche con il segretario Pdl Alfano e col leader Udc Casini, ribadirà che il Pd è per il doppio turno e i collegi uninominali, ma che pur di superare il Porcellum è disposto anche a trovare soluzioni alternative. A patto che vengano garantiti tre paletti: scelta dei parlamentari in mano agli elettori, governabilità e che la sera stessa delle elezioni si sappia chi sarà a governare. Quanto alle preferenze, richieste sia dal Pdl che dall’Udc, la discussione non mancherà, visto che il fronte dei favorevoli, dentro il Pd, si va allargando, da Fioroni a Follini, da Boccia a Letta (per il quale su questo il Pd «non deve fare barricate» e per il quale, prendendosi insulti dai grillini, «è preferibile che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo»). Bersani, sostenuto in questo da Veltroni e dai due capigruppo Franceschini e Finocchiaro, non intende però cedere.

Corriere 14.7.12
Primarie, sfida congelata Bersani spiazza Renzi
Oggi l'assemblea, in platea il sindaco di Firenze che forse tacerà
di Alessandro Trocino


ROMA — Una chiamata alla responsabilità, perché il momento storico è difficile e non ci sarà da stappare champagne ancora per molto, ma anche un'iniezione di fiducia, perché un partito che si candida a governare non può non offrire speranze e idee per il futuro. Su questi due binari si muoverà la relazione di oggi di Pier Luigi Bersani, all'assemblea generale del Partito democratico, raduno interlocutorio con lo spettro del ritorno di Berlusconi che incombe e un rapporto con il governo che agita il partito, tra filomontiani a oltranza e critici. Il segretario rilancerà anche sulle primarie, annunciando che si faranno entro la fine dell'anno e garantendo che ci saranno le condizioni perché possano scendere in campo anche altri candidati del Partito democratico. In platea ci sarà lo sfidante in pectore Matteo Renzi, più propenso per ora ad ascoltare e a consolidare la sua popolarità, che a lanciare ufficialmente la candidatura.
L'assemblea nazionale, convocata per oggi alle 10 al Salone delle Fontane di Roma, si aprirà con la presidente Rosy Bindi e con il discorso di Pier Luigi Bersani. Il segretario farà una relazione non lunghissima ma concentrata, che indicherà la direzione di marcia e le idee che dovranno guidare il Pd nella nuova stagione di governo, se mai ci sarà. Non sarà ancora la Carta di Intenti, perché quella sarà stilata assieme agli alleati, sulla base del mandato dell'assemblea. Il problema è che gli alleati ancora non ci sono e grande è la confusione sotto il cielo. La maggioranza del Pd vorrebbe far sedere insieme a loro Pier Ferdinando Casini e Nichi Vendola, per nulla felici di stare vicini, per ora. Bersani coglierà l'occasione dell'annunciato ritorno di Silvio Berlusconi per spiegare che non gli toglie affatto il sonno ma che rafforza la necessità di un patto tra progressisti e moderati, ovvero di un'alleanza di centrosinistra che si rivolga alla parte moderata del Paese, contro populismi nuovi e vecchi.
Quanto alla legge elettorale, ribadirà che è «obbligatorio» cambiare la legge elettorale, rispolverando la proposta già approvata dal Pd, il doppio turno di collegio. Con una disponibilità al confronto limitata da tre paletti: la scelta dei parlamentari da parte degli elettori, l'indicazione di una coalizione prima del voto e la governabilità. Quanto alle preferenze e al premio di maggioranza al partito, entrambe avversate ufficialmente, non ci sarà probabilmente una chiusura netta.
Poi ci sarà l'apertura sulle primarie, non gradite da alcuni dirigenti, da Rosy Bindi, a Franco Marini, fino a Massimo D'Alema. Matteo Renzi, ieri sera, era ancora indeciso sul da farsi, più propenso a tacere che a parlare. Lo slittamento delle primarie (si parlava del 14 ottobre) fa saltare i suoi piani, che prevedevano la sfida a Bersani in assemblea, il lancio ufficiale qualche giorno dopo in una fabbrica dismessa o in un'università e la campagna vera e propria fino a ottobre. Troppo presto se le primarie sono a fine o inizio anno. Meglio consolidarsi sul territorio: i sondaggi non sono negativi, ma lo danno in svantaggio al Sud. Non a caso, lunedì sarà in Campania e poi in Basilicata e in Puglia. La guerra di nervi con Bersani, comunque, è già cominciata. Ieri l'annuncio via agenzia che Renzi poteva parlare, «anche se non fa parte dell'assemblea», secondo alcuni uomini a lui vicini, lo avrebbe piuttosto infastidito. Come l'intervista all'Unità di Dario Franceschini, con l'inciso «se fosse necessario fare le primarie». Anche il tempo a disposizione per le repliche, 5 minuti, è considerato un modo per togliere visibilità alle altre voci. Meglio tacere, allora, e aspettare a settembre.
Parleranno invece, Sandro Gozi, Salvatore Vassallo e Pippo Civati, che presenteranno tre ordini del giorno, per le primarie aperte per la leadership, e per i parlamentari, e per eliminare ogni deroga dalla regola del limite di tre mandati. Possibile battaglia anche sul documento dei diritti civili, dall'annosa questione dei diritti delle coppie gay al testamento biologico.

l’Unità 14.7.12
Riscoprire una politica popolare
di Livia Turco


LA SFIDA CUI SONO DI FRONTE IL PD E IL CENTROSINISTRA NON È QUELLO DI SUPERARE la distinzione tra la sinistra radicale e quella riformista, ma costruire un nuovo pensiero riformatore. Non solo perché non si capirebbero le ragioni del Pd (hanno ragione Rosy Bindi ed Emanuele Macaluso), ma perché tutti i grandi temi che ci stanno di fronte lavoro, welfare, diritti, democrazia richiedono nuove ricette e anche nuove parole. A partire dalla consapevolezza che oggi la giustizia sociale deve essere la stella polare non solo della sinistra, ma di tutte le forze che vogliono far tornare a crescere il nostro Paese e l’Europa, ridare forza e linfa alla democrazia.
C’è una questione cruciale che è stata ed è ragione fondativa della sinistra su cui dobbiamo cimentarci tutti: cosa significa e come si costruisce una politica popolare oggi? Penso che una nuova classe dirigente debba essere misurata, valutata e promossa nella capacità che ha di rispondere a tale sfida. Fa bene dunque il nostro segretario Pierluigi Bersani ad insistere sulla politica che guarda negli occhi le persone e, dunque, costruisce un legame diretto perché penso che qui vi sia la radice di una politica popolare, alternativa al populismo, capace di costruire una democrazia efficace.
Due sono le direttrici dell’innovazione. 1) La dimensione sovranazionale della politica che comporta nuovi assetti istituzionali, ma anche una dimensione di cittadinanza che superi la sua identificazione con la nazionalità e che definisca i diritti e i doveri in relazione alla dignità della persona e non solo del cittadino. 2) Una democrazia inclusiva che promuova l’ideale dell’eguaglianza non solo garantendo pari opportunità di accesso ma anche promuovendo le capacità della persona, e dunque un suo ruolo attivo nella società.
Le radici di una moderna politica popolare, di cui artefici fondamentali dovrebbero essere i partiti politici, sono iscritte nell’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo rapporto tra giustizia sociale, lotta alle diseguaglianze e partecipazione attiva dei cittadini è un tratto moderno della nostra  Costituzione che va riscoperto e rimesso a tema. Perché ci pone la questione dell’efficacia delle politica di welfare al fine di promuovere crescita e inclusione, ma anche di come le istituzioni e la politica promuovono la partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica. Che è al contempo ingrediente e misuratore della giustizia sociale. Fare in modo che le classi subalterne diventino classe dirigente. Questo era il tema di ieri. Lo è tanto più oggi. Lo è anche nell’era di internet e delle nuove forme di comunicazione, che sono uno straordinario strumento di promozione e di opportunità. Ma internet da sola non basta: ci vuole quella politica che costruisca relazioni umane e legami sociali. Che consenta alle persone di stare insieme, di avere opportunità formative, di discutere, di costruire punti di vista condivisi, di occuparsi insieme dei problemi della propria comunità. Altrimenti non si combatte la diseguaglianza e non si crea giustizia sociale.
Guardiamole in faccia le diseguaglianze che attanagliano il nostro Paese: l’impoverimento culturale, fragilità delle relazioni umane, isolamento sociale sono fenomeni che si accompagnano al lavoro precario, al reddito inadeguato, ai servizi inefficaci ed insufficienti. La diseguaglianza soffoca «le capacità» delle persone a partire da quella dei bambini e dei ragazzi. La politica deve farsi carico di questi diversi volti della diseguaglianza ed essere consapevole che la combatte non solo con misure adeguate di crescita di sviluppo, di welfare, ma anche con una azione quotidiana che coinvolga le persone, condivida i loro problemi, consenta loro di elaborarli in proposte ed in partecipazione consapevole.
Dunque, c’è bisogno di una politica che faccia uscire dal guscio, che promuova legami sociali, che costruisca nella vita quotidiana il senso e il valore della socialità e dunque della partecipazione attiva. Sarebbe utile e bello costruire un decalogo su come si costruisce una politica popolare sul territorio e fare una raccolta delle buone pratiche. Provo a dire cosa scriverei nel decalogo. Innanzitutto promuovere una conoscenza puntuale del territorio e dei suoi luoghi di lavoro. Farsi carico dei problemi e cercare di risolverli: la scuola, l’ospedale, il servizio sociale, il degrado urbano. Essere in contatto con le tante esperienze associative, dare loro sostegno, imparare da loro su come si interviene per risolvere i problemi, per esempio quando ci sono situazioni di povertà. Promuovere la formazione, a cominciare dai corsi di lingua italiana per gli immigrati e contemporaneamente chiedendo loro di raccontarci del loro Paese, come hanno fatto a Saviano (Napoli) o nella periferia sud di Roma, ad Anagnina. Costruire battaglie e vertenze per promuovere i diritti. Creare occasione di formazione politica per il giovani e coinvolgere le persone anziane a trasmettere ai giovani il loro sapere e la loro competenza. Ecco, credo che questa sia la politica sulla base della quale si seleziona oggi una classe dirigente.

La Stampa 14.7.12
Pesaro, choc nella diocesi
Il prete, giornalista e teologo, si è sempre occupato di giovani
“Abusi su una tredicenne” Arrestato un sacerdote
In manette il portavoce del vescovo di Fano. Sospeso dalle funzioni
di Giacomo Galeazzi


CITTA’ DEL VATICANO In carcere Don Giangiacomo Ruggeri 43 anni, è stato posto in isolamento in carcere Incredula la comunità di Fano, mentre il vescovo ha chiesto scusa alla vittima
Nel gioiello della riviera adriatica l’incubo della pedofilia si è materializzato con le manette ai polsi del sacerdote più conosciuto della diocesi. A Fano (Pesaro Urbino), è stato arrestato il sacerdote-giornalista don Giangiacomo Ruggeri, 43enne portavoce del vescovo Armando Trasarti. L’accusa: abusi sessuali su una 13enne. «Sconcerto e dolore per la gravità dell’accaduto», e «piena solidarietà a chi è stato oggetto di abuso», reagisce il vescovo all’arresto del suo braccio destro, sospeso «da ogni ministero pastorale». Altri, sacerdoti e laici, abbozzano una difesa. «Don Giangiacomo è stimato da tutti, ha lavorato tanto per i giovani, è nato nel mondo scout, non può aver fatto una cosa del genere». «Non c’era alcun sospetto, non è possibile».
Il fratello Giovanni, anch’egli giornalista, alza le mani: «Non sappiamo ancora nulla». Don Ruggeri non è un prete qualunque. È un esperto di new media, da sempre impegnato con i ragazzi tanto che nel 2001 è stato nominato in Cei «numero due» della pastorale giovanile. Di bell’aspetto, dal 2007 è anche assistente ecclesiastico regionale dell’Associazione cattolica Guide e Scout d’Europa. Ha insegnato nei licei e nei seminari, collabora con «Avvenire», il quotidiano dei vescovi. Ha la cattedra di Teologia della comunicazione ed Etica dei new media all’Istituto superiore di scienze religiose di Rimini. L’inchiesta è coordinata dal procuratore di Pesaro, Manfredi Palumbo. Le indagini sono partite dalla denuncia di una violenza di cui sarebbe stata vittima una minorenne. Gli agenti hanno eseguito l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip su richiesta della procura. Don Ruggeri è in isolamento nel carcere di Villa Fastiggi, a Pesaro. Il procuratore Palumbo e il questore Italo D’Angelo non commentano.
Recentemente don Ruggeri aveva rilasciato un’intervista ad un’emittente locale: «Un prete è chiamato a dare la vita per gli altri, come fecero i miei genitori che partirono per il Friuli dopo il terremoto». Un anno fa, alla vigilia della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid era stato don Ruggeri ad annunciare il «forfait» obbligato del vescovo Armando Trasarti, operato d’urgenza per un’ulcera gastrica. Fu don Ruggeri il referente dei 300 giovani pellegrini diocesani alla Gmg spagnola. Ieri il vescovo ha evidenziato che le ipotesi di reato contestate andranno «opportunamente verificate dall’autorità giudiziaria e attengono comportamenti immorali su un minore». In conformità alla disciplina canonica e in particolare alle «Linee guida» vaticane anti-pedofilia, il responsabile della diocesi ha disposto «la sospensione da ogni ministero pastorale e da ogni atto sacramentale, e la revoca immediata della facoltà di ascoltare le confessioni sacramentali». Il vescovo manifesta la sua «piena solidarietà a chi è stato oggetto di abuso, con l’impegno di essere disponibile all’incontro e all’ascolto».

l’Unità 14.7.12
Quattro priorità per aprire il cantiere del cambiamento
di Andrea Cozzolino


VORREI DARE ANCH’IO UN CONTRIBUTO ALL’UTILE E NECESSARIA RIFLESSIONE AVVIATA SULLE COLONNE dell’Unità da Mario Tronti sul futuro e sulle prospettive della sinistra in Italia e in Europa. Non c’è dubbio che è stato ampiamente superato il modello novecentesco, sia quello ideologico (marxismo vs liberalismo) sia quello post ideologico (riformismo vs radicalismo), quest’ultimo al centro della dialettica interna alla sinistra degli anni ’90. La crisi o, come penso sia più giusto definirla, la fase di transizione economica esplosa negli Stati Uniti quasi un quinquennio fa con il crack di alcune delle principali banche d’affari al mondo ha segnato la fine di un modello di sviluppo e la necessità di riscrivere, in primo luogo da sinistra, le coordinate culturali, sociali e politiche su cui rilanciare l’iniziativa e ricostruire i soggetti protagonisti e interpreti di questo percorso.
La dicotomia tra riformisti e radicali è ormai anacronistica e superata. Come ha scritto, secondo me a ragione, Michele Prospero, questa divisione ha rappresentato uno degli elementi rovinosi del nostro dibattito interno. L’idea che esistesse una sinistra portatrice di una cultura liberare e liberista, seppure mitigata rispetto a quella della destra, e un’altra sinistra che fosse testimone e custode acritica delle conquiste sociali e civili del passato, non ha consentito una lettura e un confronto con la realtà, con il contesto sociale ed economico in rapido e mutevole cambiamento ed ha impedito l’elaborazione di una piattaforma culturale, programmatica e politica al passo con le sfide della globalizzazione.
Il Partito democratico da un lato e Sinistra e Libertà dall’altro sono state, in Italia, due felici intuizioni messe in campo per abbattere questo muro di incomunicabilità e di subalternità della sinistra. Ora però occorre che ci si scrolli definitivamente di dosso di tutte le pastoie che finora hanno impedito il compimento di questo processo di profondo cambiamento. Sul piano della prospettiva, i riferimenti europei sono l’esperienza di Hollande in Francia e il tentativo, attraverso la costituzione dell’eurogruppo parlamentare dei Socialisti e Democratici, di aprire il Partito Socialista Europeo alle forze progressiste, laburiste, ambientaliste, democratiche oltre che a quelle forze civiche e ai tanti movimenti che sempre più animano la vita pubblica e politica del panorama europeo, e non solo. La vera sfida, culturale e programmatica, della sinistra oggi sta nel trasformare le libertà e le conquiste dell’individuo del mondo globale in diritti universali dell’uomo e della persona. In questo senso, le priorità sono tre. In primo luogo la questione dei beni comuni: acqua pubblica, accesso alla conoscenza, mobilità, welfare, tutela ambientale e diritto alla casa sono obiettivi da tutelare e promuovere sempre e comunque. In secondo luogo, il lavoro: occorre ribaltare l’attuale modello delle strategie anticrisi messe in campo con l’austerità, partendo dalle misure economiche necessarie alla crescita e su queste costruire i necessari strumenti finanziari che le rendano sostenibili. In questo quadro, è il lavoro a riacquisire centralità nelle politiche di creazione e redistribuzione del benessere. In terzo luogo, occorre un nuovo percorso di partecipazione democratica: bisogna ricostruire e riorganizzare le forze politiche dando valore a meccanismi aperti per la selezione dei gruppi dirigenti e a organizzazioni che riprendano a vivere e a rilanciare le loro iniziative partendo dal contatto con il cosiddetto ‘paese reale’, innanzitutto nei luoghi di lavoro.
C’è infine una quarta priorità, che riguarda specificatamente la sinistra italiana, ed è la questione-Mezzogiorno dentro un nuovo rapporto Nord-Sud. La Seconda Repubblica è stata caratterizzata da una deriva «leghista» di questo rapporto, fino al punto paradossale di un modello ribaltato che ha visto la questione settentrionale prendere il sopravvento nell’agenda delle priorità di governo. Questo è avvenuto, spesso, anche con la complicità di tanta parte della classe dirigente della sinistra che ha subito il modello culturale padano. Anche su questo versante c’è bisogno che emerga con sempre più nettezza il protagonismo di una nuova classe dirigente di sinistra, consapevole del ruolo nazionale e dell’importanza che ha per l’intero Paese cambiare il volto del Sud, farne ripartire la crescita, liberarlo dalle mafie e dalla criminalità organizzata, dare l’opportunità ai suoi tanti giovani di poter esprimere talento e capacità senza esser costretti a emigrare. La realizzazione di questo percorso ha nelle esperienze di governo di Vendola in Puglia e di de Magistris a Napoli due oggettivi punti di riferimento. È necessario un progetto politico che dal Mezzogiorno parli a tutto il Paese e costruisca, insieme al Partito Democratico, le basi per la futura proposta di governo a partire dal 2013. Una nuova aggregazione può innanzitutto dare maggiore forza elettorale al centrosinistra, intercettando consenso tra quelle categorie sociali, soprattutto i giovani, oggi tentate dall’astensionismo o da avventure neopopuliste. Una prospettiva di governo tanto più è credibile, quanto più riesce a riconquistare e costruire fiducia intorno a scelte ed atti indispensabili a rimettere in moto un Paese da troppi anni fermo, socialmente ed economicamente. È solo in un clima di unità che a sinistra possiamo vincere queste sfide difficili. Da questa prospettiva, dopo le elezioni, può e deve nascere il cantiere del nuovo soggetto. Non la Cosa 4 o la Cosa 5, ma l’altra gamba della sinistra che con il Pd costruisce la prospettiva di una forza politica dal respiro e dalla prospettiva europea finalmente anche in Italia.

l’Unità 14.7.12
Dal no al liberismo un nuova sinistra
di Gennaro Migliore

LA POLITICA NON PUÒ DIVENTARE LA FABBRICA DELL'OBBEDIENZA, LO SPAZIO SENZA ALTERNATIVE, il circoscritto reparto di una specializzazione tecnica. Per questo ho trovato la discussione aperta da Mario Tronti sull'Unità una vera e propria boccata d'aria, di fronte al dilagante conformismo di maniera. Tronti, seguito da Vendola ed altri autorevolissimi contributi, parla di noi, della sinistra e della sua soggettività politica, per parlare del mondo e delle cose che possono provare a trasformarlo. È un esercizio di onestà intellettuale che non appartiene ai tardi epigoni di Margaret Thatcher, che soleva dire, in spregio ai suoi oppositori, che solo con T.i.n.a. (There is no alternative al liberismo of course) avrebbe potuto affrontare i problemi del suo Paese. È un vecchio vizio dei conservatori travestire d'oggettiva necessità le loro scelte. Neppure l'azzardo dell'affermazione della propria ragione contro il torto altrui, solo l'annullamento sistematico della legittimità dell'altro. Il pragmatismo liberista è vissuto di questa rendita e ha fagocitato, con le sue leggi «oggettive» e il «neutro» interesse del mercato, la sfera dell'economia e poi quella della politica. Le parole di Tronti come pure quelle di Rosi Bindi, per dire di chi non viene dalla mia storia, hanno affrontato il problema da un' angolazione che critica il paradigma liberista, cosa che condivido profondamente.
Il tema è, quindi, individuare quale spazio per costruire un nuovo campo in cui far crescere le idee differenti dal «liberismo necessario», di cui ci parlano in continuazione, e quali pratiche democratiche per rompere la principale conventio ad escludendum dei tempi nostri, quella delle persone. Per me l'oltrepassamento delle due sinistre, non la loro fusione frigida, parte da queste due ambizioni. Il primo terreno è quello europeo. La proposta degli Stati uniti d'Europa sta in piedi solo se si riuscirà a configurare un vero demos europeo. Per farlo non ci servono discussioni grottesche sulle identità, che per fortuna esistono e rappresentano una ricchezza, ma sulla possibilità di strutturare un patto di cittadinanza, la cui base non può che essere l'unificazione di politiche attive (welfare, energia, ambiente, diritti sindacali, politiche industriali, infrastrutture). Con ciò sarà più forte il coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio.
Questo è il primo terreno di convergenza che vedo tra noi, il Pd e tante forze sociali e civili, come viene giustamente esplicitato da Latorre e Vita. Per praticare tale strada dobbiamo decidere se in Italia possa esistere una soggettività politica che contribuisca alla critica del paradigma liberista e che progetti una proposta di governo alternativa a quello esistente. Il Pse, che in Europa sta affrontando con serietà la critica al quindicennio neoliberista blairista, è il campo privilegiato di questa convergenza. Per un tentativo del genere va archiviato Monti, il montismo e il tatticismo esasperante che ha introiettato l'assenza di alternative. Persino il tanto invocato rinnovamento, necessario e non rinviabile, deve essere in primo luogo un cambio di politiche e di persone che le sostengono. In questa prospettiva non vedo come sia praticabile ciò che alcuni chiedono, a partire da Casini, ovvero impegnarsi fin d'ora a proseguire le politiche di Monti.
Non mi convince la tesi di Macaluso e non vedo, dopo i provvedimenti votati per la «salvezza» dell'Italia, come si possa ancora negare la natura classista di Monti che loda i fallimentari Mussari e Marchionne mentre non perde occasione per additare come nemici del popolo e della «patria» tutti quelli che si permettano di contestare le sue scelte, a partire dai sindacati.
Infine, credo che il terreno per un nuovo inizio per le forze di rinnovamento nel nostro Paese sia quello di praticare una democrazia diretta e radicale. Non un estenuante rinvio delle proprie responsabilità, un eterno processo referendario, ma una pratica di relazioni che consenta alle idee di attraversare i partiti e non viceversa. Del resto, le proposte più innovative venute dalle primarie sono state anche quelle vincenti. Costruiamo luoghi dove si possa decidere insieme a tanti cittadini che credono nella politica come strumento per il cambiamento quali siano i nostri obiettivi, impegnandoci a mantenere i patti con il nostro popolo anche dopo le elezioni. Non una resa di conti tra storie che, ha ragione Bindi, appartengono effettivamente al passato, ma un luogo comune e plurale di costruzione del presente e del futuro.

l’Unità 14.7.12
Antonio Panzeri
L’europarlamentare Pd: alle primarie due assessori che hanno una responsabilità importante, Cultura e Bilancio, nominati solo un anno fa
«Boeri e Tabacci candidati? Poco serio per Milano»
di Maria Zegarelli


Se il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, alla notizia che due assessori della sua Giunta vogliono candidarsi alle primarie di coalizione del centrosinistra, risponde con un secco «la libertà è uno dei beni che ancora esistono in Italia. Ognuno è libero di fare le scelte che decide di fare», l’europarlamentare Pd, Antonio Panzeri, eletto proprio nel Nord, è di tutt’altra opinione.
Panzeri perché ce l’ha con Stefano Boeri e Bruno Tabacci?
«Mi sembra difficile riscontrare elementi di serietà in questa situazione. Capisco che ormai siamo in una fase di cambiamenti repentini, molto più di quanto immaginiamo, ma ho l’impressione che una costante della politica debba essere proprio la serietà».
Le sembra poco serio volersi candidare alle primarie?
«Voglio ricordare che queste primarie, che sono molto importanti, servono a decidere chi guiderà il Paese. Chi le vincerà dovrà candidarsi alla premiership e se vince le elezioni dovrà incontrare
Hollande, la Merkel, Obama... Vorrei ci fosse la consapevolezza della posta in gioco».
Sta dicendo che i due assessori di Milano non sarebbero all’altezza?
«Sto dicendo che mi auguro ci sia questa consapevolezza, non voglio esprimere un giudizio sulle persone, quello lo faranno gli elettori. Le primarie non sono un gioco. E poi stiamo parlando di due assessori che hanno una responsabilità importante, Bilancio e Cultura, e sono stati nominati un anno fa». Non sarebbe corretto nei confronti dei milanesi mollare l’incarico prima del tempo per rincorrere il sogno della premiership?
«È come se ci fosse stato un contratto tacito con l’opinione pubblica milanese. Noi ci siamo candidati e abbiamo vinto promettendo di fare cose nuove, di governare in modo diverso rispetto a chi c’era prima. Una volta che l’impegno si è assunto mi parrebbe giusto mantenere fede proprio per quella categoria della responsabilità che dovrebbe appartenere alla politica. Immagino che lo stesso sindaco di Milano un problema se lo dovrebbe porre se due pregiati assessori della sua giunta dopo soltanto un anno lasciano il loro incarico per andare a fare le primarie, perché è evidente che dovrebbero dimettersi per andare a fare la campagna elettorale».
Eppure Pisapia sembra sereno...
«Non dovrebbe. Non ci si può limitare a registrare un fatto anche se capisco che le persone sono libere di fare quello che vogliono. Quando si amministra la cosa pubblica si deve rispondere di quello che si fa e di quello che si dice all’opinione pubblica. Ripeto: credo che serva una valutazione un po’ più approfondita, di carattere politico».
E di Matteo Renzi, che pensa? Anche lui vuole candidarsi, malgrado nelle primarie di coalizione il Pd dovrebbe presentarsi con un candidato se non vuole suicidarsi come è avvenuto proprio a Milano.
«Bersani ha tracciato un percorso: prima la Carta di intenti, poi la delimitazione del campo del centrosinistra e alla fine le primarie. Mi sembra invece che la tentazione sia quella di discutere subito e solo di primarie, senza preoccuparsi del programma e delle alleanze. Bersani tra l’altro ha anche dichiarato la sua disponibilità a modificare lo Statuto per permettere a più candidati del Pd di partecipare, quindi mi sembra corretto rispettare quel percorso che giustamente indicato durante la direzione nazionale».
Ma secondo alcuni democratici, che hanno già scritto gli ordini del giorno da presentare all’Assemblea nazionale, il tempo stringe e sarebbe il caso di parlare anche di primarie.
«Io invece penso che durante questa Assemblea sia necessario fissare i punti della Carta di intenti da sottoporre a chi vuole allearsi con il Pd. Sono anche sicuro che una volta individuate alleanze e programma sarà lo stesso segretario con un’altra Assemblea ad affrontare il tema delle primarie con regole e tempi. Le cose vanno fatte tenendo ben presente quali sono le priorità».

il Fatto 14.7.12
“B. meglio di Grillo”. Letta confessa e divide il Pd
Il vice di Bersani dice ciò che al vertice del partito molti pensano
Ma il loro problema sono gli elettori che se ne vanno e scelgono 5 Stelle
Civati: “Parole incredibili”. Tonini: “Del Pdl sappiamo tutto, dell’altro no”
di Alessandro Ferrucci


Buongiorno, cosa ne pensa della dichiarazione di Enrico Letta al Corriere della Sera, secondo il quale “è meglio che i voti vadano al Pdl, piuttosto che disperdersi verso Grillo”? Lo abbiamo chiesto a numerosi parlamentari del Pd. Abbiamo ottenuto degli infiniti silenzi. Qualcuno ha balbettato. C’è chi ha avuto bisogno di tempo, molto, per mettere insieme una dichiarazione. Altri si sono innervositi. In rari casi le idee sono apparse decise, specialmente negli under. I più furbetti si sono nascosti dietro un “ne parleremo domani (oggi) all’assemblea del partito”. Lo stesso appuntamento che vedrà il rottamatore Matteo Renzi calare da Firenze per lanciare la sua candidatura alle primarie. Per stabilire le nuove regole, se ci saranno. Di seguito le loro opinioni.
Giuseppe Fioroni: “Dobbiamo preoccuparci di noi, non di Grillo! La colpa è nostra che non prendiamo voti”. Va bene, ma se suo figlio le dicesse ‘papà, sono indeciso tra Pdl e Grillo’? “Non me lo chieda”. Insisto. “Cambiamo la domanda... ”. No. “È dura. E comunque non influenzo mai il voto degli altri”. Dovrebbe, fa politica. “Ma tanto a mio figlio non gli sfiora l’idea”.
Enzo Carra: “Non la condivido del tutto. Il punto è uno: Grillo non è assorbibile in nessuna grande coalizione”. Ancora una grande coalizione? “Prima del ritorno di Berlusconi, c’era una possibilità si dieci. E comunque a mio figlio proibirei di votare Pdl! ”
Francesco Boccia: “Non l’ho letta”. Eccola. “Vabbè, è un passaggio”. Veramente è il titolo dell’articolo. “No”. Sì. “Il problema è che Grillo vuole uscire dall’euro e non pagare i debiti”. Lo ha detto anche Berlusconi. “Letta ha fatto un ragionamento più ampio. Che vuole fare un titolo su di me! ”. Le ho fatto una domanda. “Chi vuole uscire dall’euro è un incosciente o un delinquente”. Francesco Boccia è sposato con Nunzia Di Girolamo. Hanno un figlio. A lui niente domanda su cosa consiglierebbe alla prole.
Andrea Orlando: “Non mi convince. Sono comunque due manifestazioni dell’anti-politica. Detto questo, preferisco che la gente vada comunque a votare. Devo scegliere? C’è più genuinità nella preferenza a Grillo”.
Andrea Sarubbi: “Le idee di Grillo sono spesso simili a quelle del Pdl. Quindi lei mi chiede se preferisco morire accoltellato o fucilato. Certo, così non rispondo, sto facendo il democristiano”. Evitiamo. “Mio figlio? Gli pago il biglietto del cinema così non va a votare”.
Pippo Civati: “Quando ho letto l’intervista sono caduto dalla sedia. E ho visto ‘cinque stelle’. Non so come si possano dire certe cose. Ma di ‘perle’ Letta ne ha regalate anche altre... ”.
Anna Paola Concia: “Eh... cosa!? Non so niente. Ah, e secondo quale teoria? ”. Ce lo dica lei. “Conosco tantissima gente grillina”. E quindi? “Non mi sento di dire questa cosa... ”. Cosa? “Pdl e Grillo sono all’antico. Vorrei conoscere i loro programmi”. Qualcosa è uscito. “Non lo so. Sì, forse a tutt’oggi. Forse... ”. Prego. “No, forse... ”. Si. “Direi di votare Grillo. Ma resto problematica. Forse...”.
Deborah Serracchiani: “Non condivido l’affermazione di Letta. Vanno rispettati. Arrivederci”.
Stefano Fassina: “Non l’ho letta. Di cosa parla? Ah, mi richiami tra un’ora”. Passata l’ora. “Non ho voglia di commentare. No! Non voglio dire niente”. Nulla, nulla? “Ho detto di no (tono molto concitato) ”.
Enrico Gasbarra: “O mio Dio! Assolutamente no! Il Pdl ha fatto il male dell’Italia, mentre i grillini sono un movimento composto da tante sensibilità degne di attenzione. Mentre basta con il Pdl, non può esistere”.
Matteo Colaninno: “Sono impegnato. Ho da fare”. Neanche un minuto? È una domanda veloce. “È sul declassamento di Moody’s? ” No, su quanto detto da Letta. “L’ho detto che sono impegnato! ”. Però su Moody’s avrebbe parlato. “Sì, le interessa l’argomento? ”. In questo caso no. Ma qual è il suo giudizio sulla frase di Letta? “Sono impegnato”.
Mario Adinolfi: “È un errore totale. Il sistema dei partiti si puntella reciprocamente, mentre Grillo è la nostra grande occasione”.
Giovanni Lolli: “Concordo con Enrico quando dissente da Grillo su temi come la non cittadinanza ai figli degli immigrati e l’uscita dall’euro. Il problema è che i medesimi concetti li esprime anche il Pdl. Comunque non sono d’accordo, il voto a Berlusconi mi sembra paradossale”. Giorgio Tonini: “Si riferiva alle questioni europee. Su questo sono d’accordo”. Ha parlato di voto in generale. “Senta, del Pdl conosciamo pregi e difetti. Di Grillo no, lui resta una provocazione”. Giovanna Melandri: “No... ” Cosa? “Non intendo commentare una sola frase, l’intervista è molto più complessa”. Va bene, cosa ne pensa di Grillo? “Alcune sue parole sono populiste e fasciste. A me lui non piace per niente. Sa cosa le dico? ”. Prego. “Siamo dalla padella nella brace. E assomiglia molto a Berlusconi; sono tutti e due un pericolo per il Paese”.

il Fatto 14.7.12
Italianieuropei, il dibattito
Antipolitici? No, iperpolitici
di Caterina Perniconi


Enrico Letta ha le idee chiare: meglio Berlusconi di Grillo. La politica, qualunque essa sia, piuttosto che l’antipolitica. Un giudizio netto, formulato probabilmente senza aver dato un’occhiata all’ultimo numero della rivista della fondazione di Massimo D’Alema, ItalianiEuropei.
Alla base della riflessione c’è la crisi del Partito democratico e la necessità di capitalizzare il sentimento di rabbia contro la politica trasformandolo in voti. “Come può il Pd tornare a essere il partito di riferimento per il mondo del lavoro? ” si domanda nell’introduzione Alfredo Reichlin, e soprattutto, “è ancora necessario esserlo? ”. La risposta sembra essere in ogni caso affermativa. E per riconquistare gli elettori delusi, pronti a cedere alle sirene grilline, c’è molto lavoro da fare. Ma l’antipolitica non è il male assoluto bensì una forza da sfruttare, parola di autorevoli studiosi: “La condizione antipolitica è probabilmente la meno umana o la più innaturale per gli esseri umani – spiega Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University – come animali che comunicano per vivere, noi abbiamo bisogno di una vita associativa”. Che si identifica anche in Grillo: “Non c’è niente di più politico di questa persistente critica alla politica (...) anche i più astiosi demagoghi dell’antipolitica di oggi si presentano alle elezioni accettando le regole democratiche della competizione”. E conia, per gli elettori del Movimento 5 stelle, il termine di “iperpolitici” poiché “vedono tutto in chiave politica”. Nelle loro motivazioni c’è “una critica giustificata alla gestione delle istituzioni da parte degli eletti e dei loro partiti nei due decenni dopo Tangentopoli”.
Per Gianfranco Pasquino, docente di Scienza politica all’Università di Bologna, “l’antipolitica non è soltanto espressione di una società che respinge tout court la politica. É il sintomo, più o meno consistente, che la politica non riesce a convincere la società della sua necessità”. Secondo Pasquino il limite è che il sentimento antipolitico “si contrappone a tutta la politica, non solo quella cattiva” ma il prodotto non è tutta farina del sacco del comico genovese: “Grillo si comporta come un imprenditore politico – spiega ancora il professore – ha trovato uno spazio, lo cura, lo amplia, lo sfrutta (...) e può trarre massimo profitto perché oggi i partiti con le loro inadeguatezze e la corruzione non sanno più come predicare e praticare una politica decente”. La rivista ospita anche un’intervista ad Antonio Padellaro, nella quale si chiede perché la protesta trovi spazio nel mondo dell’informazione e un intervento del presidente di Sinistra e Libertà, Nichi Vendola, sulla necessità di costruire un’alternativa credibile a sinistra. Ma chi cerca facili assoluzioni dei partiti resterà deluso. Né la riflessione di Carlo Galli, professore di dottrine politiche a Bologna né quella di Mauro Magatti, docente di Sociologia alla cattolica di Milano, fanno sconti: “Il popolo lancia un appello: non ne possiamo più! Rispondere a questa invocazione è la vera strada per riassorbire l’antipolitica”. Senza equipararla a Berlusconi.

il Fatto 14.7.12
Solo il 3,5% preferisce B. a Grillo Elettori del Pd in rivolta
di Fabio Amato


Votare per il Popolo della libertà è meglio che votare Movimento 5 stelle? Decisamente no. Almeno a scorrere gli oltr 14mila voti e i 1300 commenti al sondaggio pubblicato sul sito del Fatto Quotidiano, dove l’uscita del vicesegretario del Partito democratico Enrico Letta – “preferisco che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo” – non ha, ma è puro eufemismo, riscosso particolare successo. I dati (aggiornati alle ore 21) sono un vero plebiscito, con il 96,52% dei votanti che considera sbagliata l’affermazione del numero due del Pd contro un misero 3,48% di sostenitori. Anzi, avvisano i lettori, se continua con questa linea, è il Partito democratico che rischia di regalare (altri e tanti) voti al Movimento 5 stelle. Ovvero, per dirla con la perfidia della logica (copyright Chiara): “Forse votare Pdl è meglio che votare Grillo, ma sicuramente votare Grillo è meglio che votare Pd”.
Del resto, tra chi ironizza se non sia stato per caso “Gianni, e non Enrico” a dare l’intervista incriminata al Corriere (Fabrizio la butta sulle parentele...) e chi si chiede se “con il caldo torrido che fa” (Giorgio se la prende con Caronte e Minosse) non sia meglio risparmiare le energie, l’opinione più diffusa è quella rappresentata dalle parole di Aigor1 e ripetuta con più o meno cattiveria: “Ringrazio Letta per avermi tolto definitivamente dall’empasse. Voterò Grillo senza più indugi ormai”. Il refrain non è nuovo, ed è sicuramente arrivato ai vertici del Pd dalle bacheche Facebook dei suoi dirigenti nel momento stesso in cui si è cominciato a parlare di alleanza con i centristi: “Allearsi con l’Udc di Casini? Quello che ha portato Cuffaro in Parlamento? Ma volete che veniamo ad occupare le sedi? ”.
LA GRAN PARTE dei commentatori considera poi il semplice accostamento Pdl contro 5 stelle alla stregua di un insulto cui rispondere, nella migliore delle ipotesi con accalorata ironia, nella peggiore con divertita perfidia (Marco): “Le dichiarazioni di Cicchitto sulle ferie, Giovanardi sui militari gay, adesso Letta... mi viene un dubbio che stiano facendo a gara a chi regala il maggior numero di voti al M5S con una singola dichiarazione”.
La palma del commento più digitato, tuttavia, gioca sulle infinite varianti del mantra inventato da Beppe Grillo medesimo, che coniò la dicitura “Pdl = Pd – L”.
Così come va detto che Enrico Letta certamente non parte da una posizione di gradimento tra i votanti del sondaggio: per il 63,5 per cento, infatti, il vicesegretario del Pd “fa parte della Casta e pensa che così non sarà spazzato via”. Solo il 15 per cento dei lettori che hanno espresso una preferenza pensa invece che alla base delle dichiarazioni ci sia la paura di governare “in anni di fortissima recessione” e che Letta punti a un “governo Monti-bis sostenuto da una grande coalizione”.
Per il 7,5 per cento dei vo-tanti, poi, la questione si gioca tutta in famiglia. E la parentela con Gianni Letta, da sempre ombra fedele del Cavaliere, diventa il motivo scatenante dell'assist al Pdl. Una percentuale non molto lontana da quel 6,1 per cento di persone che vede il Pd in versione Tafazzi – impersonificazione dell’autolesionismo – intento a bastonarsi da solo. Circa 930 persone che, evidentemente incredule, vedono il numero due del partito spingerlo verso “l’autodistruzione”.
Solo per il 2,6 per cento dei lettori, infine, la motivazione politica coincide con la motivazione addotta da Letta sulle colonne del Corriere: di fronte ad un Beppe Grillo che “non vuole ripagare il debito, vuole uscire dall'euro e non vuole dare la cittadinanza ai bambini nati da immigrati in Italia” (Letta dixit) meglio dare il voto al Pdl che disperderlo.
UN’OPINIONE che si ritrova, con percentuali paragonabili, anche tra i commenti. Chi come Ale162 si dichiara “orgogliosamente democratico” tra “fascisti di destra e non”. Chi continua ad esserlo “nonostante Letta” (Francesco F.). Chi non ce la fa più e ha bisogno di una sconfessione pubblica, ma non rinuncia ad un pizzico di autoironia come Parma11: “O viene smentito velocemente, o niente più voti al Pd. Lo giuro sui figli di Berlusconi”.
Ma gli attacchi a Letta arrivano anche sulla pagina Facebook del vicesegretario, e soprattutto da Twitter. Gli rinfacciano Lusi, lo zio Gianni, gli gridano “vergogna”. La serie è lunghissima. Tanto che a sera, lo stesso Letta, è costretto a tornare sull’argomento: “Ricevo insulti, ma nessuna risposta sulle mie critiche al Movimento”.

Corriere 14.7.12
Porcellum, trattativa segreta dei partiti
Intesa vicina tra Pdl, Udc e berlusconiani della Lega su proporzionale con premio al 6%
di Dino Martirano


ROMA — Apparentemente immobili sulle rispettive posizioni, i partiti rimandano a settembre l'ora della verità sulla legge elettorale. La pretattica, dunque, continuerà per tutto il mese di agosto. Ma qualcosa di concreto già si muove nelle segrete stanze dei leader se è vero che Pdl, Udc e l'ala berlusconiana della Lega hanno raggiunto un'intesa di massima (proporzionale, con sbarramento al 6%, più piccolo premio di maggioranza al primo partito) con o senza preferenze. E qualcosa si muove anche a sinistra se è vero che il Pd, nonostante l'irrigidimento ostentato dai suoi dirigenti, lavora (anche con gli emissari inviati da Maroni, che ieri su questi temi ha sentito Silvio Berlusconi) a un modello misto che nulla ha a che fare con la proposta ufficiale del partito: ovvero il doppio turno con i collegi uninominali maggioritari e una quota proporzionale. E uno che se ne intende, come Marco Pannella, sente puzza di bruciato: «Pier Luigi, no al tradimento del doppio turno alla francese. Spero ti sia chiaro che l'evocazione dei "preferenziali" non è altro che l'ipocrita restaurazione partitocratica delle liste proporzionalistiche».
Premio di maggioranza
Oggi il Porcellum assicura un premio (circa 60 seggi alla Camera, variabile su base regionale al Senato) alla coalizione che ottiene più voti. Chi vince, in linea di massima, ha il 55% dei deputati. Al tavolo intorno al quale si è discussa di recente la bozza Violante sottoscritta dai rappresentanti di ABC, il tema è stato affrontato ma non quantificato. Se comunque lo schema è quello tedesco — 50% collegi uninominali, 50% proporzionale, sbarramento al 5% — e il numero dei deputati della prossima legislatura si assesta a quota 500, si potrebbero prendere in prestito per la Camera i «vecchi» collegi senatoriali del Mattarellum che sono riutilizzabili: erano 232, appunto, mentre i 18 rimanenti per raggiungere quota 250 (cioè la metà uninominale prevista dal sistema tedesco) costituirebbero «il piccolo premio di maggioranza». Altrimenti, se si mette in discussione questo calcolo aritmetico e se si vuole tenere fuori dal tavolo la riforma costituzionale che porta a 500 il numero dei deputati e a 250 quello dei senatori, il discorso cambia radicalmente. Anche perché per disegnare nuovi collegi il governo impiegherebbe almeno tre mesi. Eppure i nuovi emissari di ABC (Verdini, Migliavacca, Adornato) si mostrano per ora irremovibili sulle rispettive posizioni: il Pdl (con l'Udc) mira a un premio basso (massimo 10%), da assegnare al primo partito, mentre il Pd chiede un premio più alto da attribuire alla coalizione che ottiene più voti: è ovvio che Bersani, in qualche modo favorito dai sondaggi, e «ricco» di potenziali alleati, sostenga il secondo scenario mentre un Pdl per ora in difficoltà, e senza più una Lega fedele al fianco, cerchi di limitare i danni con un «piccolo premio a chi vince».
Preferenze o collegi?
Angelino Alfano insiste: «Io sono molto laico e sereno sulla legge elettorale: non ce n'è una perfetta, ma tra tante imperfezioni con il bisogno di partecipare che c'è nei cittadini noi siamo per le preferenze, per far sì che ciascuno abbia la capacità di misurarsi. Ovviamente, servono candidature di persone oneste». Anche l'Udc, forte del know how dc, porta alta la bandiera delle preferenze. Mentre il Pd con la sua proposta di legge ha formalizzato che la scelta migliore è quella del collegio uninominale (magari a doppio turno) in cui si presenta un candidato selezionato dalle primarie (di partito o di coalizione, si vedrà).
Collegi piccoli
Quelli del Mattarellum erano collegi da 200-250 mila votanti mentre pezzature più piccole, cosiddette alla spagnola, aumenterebbero l'effetto maggioritario con una penalizzazione delle forze minori visto che in Spagna lo sbarramento nominale è del 3% ma quello reale è del 7-8%. Maroni ha sguinzagliato i suoi emissari che — al di là delle posizioni espresse al Senato dal «berlusconiano» Calderoli — hanno preso contatto con i deputati lombardi del Pd per chiarire un punto: Bersani appoggerebbe una clausola regionale dello sbarramento (un aiutino ai partiti che concentrano i voti in alcune zone del Paese)? Anche se la Lega, in crisi di identità persino nelle roccaforti, punta sul sistema proporzionale puro gradito a Berlusconi.

l’Unità 14.7.12
Sentenza tedesca:
«Per i profughi l’Italia è un inferno»
Un tribunale civile: negati i diritti umani
Spiegel: ai rifugiati viene riservato un trattamento disumano
di Roberto Brunelli


Per i profughi stranieri l’Italia è un inferno. Ai richiedenti asilo viene riservato un «trattamento inumano e umiliante». I migranti rischiano di condurre una vita «al di sotto della soglia di povertà», e quasi sempre sono costretti a vivere senza un tetto sulla testa. Giudizi impietosi, scolpiti nel marmo. Come si parlasse della Siria, o della Libia. Invece è il Bel Paese a essere nel mirino. Stiamo parlando di una sentenza del tribunale civile di Stoccarda, che con quelle argomentazioni vieta alle autorità tedesche il trasferimento di una famiglia di rifugiati palestinesi in Italia.
La notizia campeggiava ieri con grande evidenza sul sito on line dello Spiegel. Che non mancava di ricordare che «l’Italia è uno degli Stati fondatori dell’Unione europea, è un Paese che si vanta della sua ospitalità e nonostante la crisi attuale è ancora la terza economia dell’Eurozona». È dall’Italia che la famiglia palestinese era giunta in Germania. È vero, ammette lo Spiegel, che il Paese è letteralmente travolto dai richiedenti d’asilo. Però non è la prima volta che un tribunale stabilisce che dei profughi non debbano essere rispediti in Italia. Come riportato il mese scorso da l’Unità, una sentenza emessa il 25 aprile dal tribunale di Darmstadt «aveva dato ragione a una donna somala che, approdata in Germania non voleva essere rinviata in Italia, il Paese che per primo le aveva dato asilo. La giustizia tedesca, a cui si era rivolta, le ha dato ragione». Il motivo: il nostro Paese non garantisce ai richiedenti asilo i diritti fondamentali.
Non a caso, la deputata della Linke Ulla Jelpke ha chiesto al governo federale di impedire d’ora in poi qualsivoglia trasferimento di profughi verso l’Italia. «La situazione è davvero così grave?», si chiede lo Spiegel. La risposta che si dà l’autorevole testata è affermativa: si ricordano le condizioni indegne con cui vengono accolti i migranti che arrivano via mare spesso dopo odissee dall’esito tragico, come la vicenda dei 55 eritrei morti disidratati nel Mediterraneo e viene citata ovviamente l’emergenza continua di Lampedusa. Ma lo Spiegel riporta anche altri dati: secondo le organizzazioni umanitarie, la grande maggioranza dei richiedenti asilo, dopo il passaggio nei vari Cpa, vive nel migliore dei casi da baraccati o da homeless oltre le estreme periferie delle grandi città. Solo a Roma, su 6000 rifugiati al massimo 2200 hanno posti letti degni di questo nome.
E ancora: il commissario per i diritti umani del Consiglio europeo, Nils Muiznieks, la settimana scorsa è venuto in Italia per vedere con i propri occhi quale trattamento venga riservato ai profughi stranieri, molti dei quali in arrivo da situazioni belliche o di povertà estrema. Il suo rapporto è implacabile. «I profughi vengono obbligati a vivere in condizioni orrende», e lui stesso ha potuto constatare di persona «le condizioni intollerabili in cui 800 rifugiati sono costretti a vivere in un edificio abbandonato nella città di Roma: inaccettabile per un Paese come l’Italia». Secondo l’avvocato Dominik Bender, che ha realizzato un’indagine per conto dell’associazione «Pro Asyl», «le autorità italiane non fanno altro che spingere le persone verso altri Paesi europei attraverso una strategia di immiserimento».
Scrive lo Spiegel che il governo di Berlino, di fronte a questa situazione, preferisca fare orecchie da mercante. L’Italia, per conto suo, tace. Ragion di Stato: sulla pelle dei migranti.

l’Unità 14.7.12
Deidda: «Liberalizzare le droghe leggere può far calare il consumo»

«Una cauta liberalizzazione farebbe calare il consumo delle droghe leggere». È l'opinione di Beniamino Deidda, procuratore generale di Firenze. Deidda ha spiegato di essere favorevole a «una progressiva e cauta depenalizzazione da un lato e liberalizzazione dall'altro. Controllare il mercato significa anche controllare la qualità della droga, cioè garantire ai consumatori che non saranno vittime di qualità scadenti. La qualità è controllata oggi soltanto dai trafficanti. I quali hanno mano libera senza che nessuno possa seriamente intervenire». Per il pg l’ argomento in Italia è tabù perchè «c'è un pò di fariseismo e l'ideologia prevale su una serena valutazione». «Parole che fanno tristezza», il commento della struttura di San Patrignano.

il Fatto 14.7.12
Tav, Passera: “Si va avanti”. E la Francia lo gela
di Mar. Pal.


Quindi tutto procederà come prima? Nonostante le parole di facciata, tanto da parte italiana che francese, è lecito dubitarne. Ci si riferisce al destino del Tav Tori-no-Lione, che il governo di François Hollande pare aver rimesso in discussione. La notizia, diffusa giovedì dal quotidiano Le Figaro, aveva mandato in confusione il governo e buona parte dell’establishment politico italiano, schierato come un sol uomo sulla necessità e bontà dell’opera. Ieri Corrado Passera, dopo aver fatto le sue telefonate, ha provato a tranquillizzare tutti: “Il progetto del Tav è totalmente confermato da parte nostra e in maniera piena anche dal governo francese: ho parlato col loro ministro dei Trasporti e non c’è in nessuna delle loro ipotesi una modifica dei piani approvati”.
E ALLORA di cosa parlava Le Figaro? “Eventuali dubbi francesi riguardano altri progetti non ancora definiti, la Tori-no-Lione invece è un progetto sancito dagli accordi internazionali, e quindi è confermato e va avanti come da programma”. Sospiro di sollievo tra i pasdaran del Tav: “Le parole del ministro sono il classico bicchiere di bicarbonato che si dà agli ubriachi per far passare una sbronza pesante e favorire la riconciliazione con la realtà”, ha messo a verbale Stefano Esposito, deputato Pd e autore del libro “Tav sì”. In realtà non è ancora chiaro chi dovrà ricorrere al bicarbonato, perché - proprio mentre Passera spargeva ottimismo – le agenzie davano conto delle dichiarazioni proprio di un portavoce del ministro dei Trasporti francese, Frederic Cuvillier: “La linea ad alta velocità Lione-Torino è un progetto importante con dimensioni europee e ambientali evidenti”, garantito da “accordi internazionali e da un trattato: l’impegno tra i nostri due paesi c’è e non abbiamo mai pensato di ridiscuterlo”. E dunque? Serve “un nuovo accordo che tenga conto dei finanziamenti disponibili, in particolare europei”. Insomma, il Tav si può fare solo se la Ue sgancia più soldi. E che dicono a Bruxelles? Dicono che non sganciano: “E’ un progetto di Francia e Italia, il ruolo della Commissione è modesto, così come il contributo finanziario Ue rispetto a quello che deve essere garantito dai due Stati interessati”. Firmato Siim Kallas, vicepresidente del governo Ue e responsabile dei Trasporti.
AL NETTO della questione “a chi toccherà il bicarbonato”, insomma, la situazione è parecchio ingarbugliata e in Francia lo sanno assai bene soprattutto i pro-Tav come il socialista Jean-Jack Queyranne, presidente del Consiglio della regione Rhone-Alpes, quella di Lione: “Chiedo solennemente al governo di rispettare la parola della Francia a favore della Lione-Torino”, tanto più che Parigi pagherà “solo il 25% del costo totale del tunnel di base”. Speranzoso, ovviamente, il fronte contrario all’Alta velocità qui in Italia. Spiega Tobia Imperato, anarchico, uno dei 46 indagati per gli scontri in Val di Susa dell’estate scorsa: “C’è almeno il riconoscimento delle motivazioni del movimento, che non sono campate in aria: è da vent’anni che stiamo dicendo che l’opera è inutile, che il rapporto rischi-benefici è negativo e che la pagheranno le generazioni future. Ora questo diventa materia di discussione di un governo”.
ANGELO BONELLI, leader dei Verdi, invita Monti a ripensarci: “Riconosca di aver fatto una valutazione sbagliata sulla Torino-Lione e fermi un progetto inutile, dannoso e che farà crescere il debito pubblico italiano. Oggi è evidente a tutti che sul Tav in Val Susa c’è una ferocia ideologica che si è trasformata in un costo salatissimo per i contribuenti: a pochi chilometri dal tracciato che si vuole costruire esiste già una linea ferroviaria per il trasporto merci potenziata di recente e che viene utilizzata solo per 2,5 milioni di tonnellate quando ha una capacità di 20 milioni”. I dubbi della Francia, però, non fermano gli espropri. E nemmeno il Tar: quello del Piemonte ieri ha respinto la richiesta di sospensiva d’urgenza avanzata da alcuni cittadini dell’alessandrino i cui terreni sono interessati dai lavori del Tav-Terzo Valico.

l’Unità 14.7.12
Il futuro bosone e la ricerca massacrati dai tagli
di Antonio Zoccoli


A VOLTE PER IL PUBBLICO RISULTA DIFFICILE COMPRENDERE IL SIGNIFICATO DELLE SCOPERTE DELLA SCIENZA, quali quella del bosone di Higgs, annunciata la scorsa settimana. La difficoltà sembra riscontrarsi anche quando si parla delle peculiarità e dell’organizzazione degli enti di ricerca italiani che hanno dato un contributo fondamentale a queste scoperte, come l’Istituto nazionale di fisica Nucleare (Infn).
È infatti della scorsa settimana l’annuncio dei tagli programmati nella spending-review che colpiscono pesantemente l’Infn, basti ricordare che l’importo del taglio Infn è pari a 24 milioni di euro a fronte dell’importo totale per tutti gli enti di ricerca pari a 50 milioni.
Benché in questo caso il governo non abbia applicato tagli lineari, ma abbia seguito un metodo che cerca di tener conto delle diverse situazioni, questa manovra colpisce in modo devastante l’Infn a causa della sua organizzazione e delle sue attività che risultano uniche nel panorama nazionale.
L’Infn è infatti un ente con due peculiarità, da una parte possiede una grande dimensione internazionale, svolgendo molte delle proprie attività di ricerca in laboratori esteri, come il Cern di Ginevra. Dall’altra gestisce importanti infrastrutture di ricerca sul territorio nazionale. Questo implica che le spese dell’Infn per Beni e Servizi, su cui si sono concentrati i tecnici ministeriali per predisporre i tagli della spending-review, contengano diverse voci di considerevole importo direttamente legate alle attività di ricerca dell’Ente e quindi non comprimibili a meno di non voler comprometterle pesantemente.
Ad esempio, a differenza degli altri Enti, l’Infn spende molto in missioni, specialmente all’estero. Questo è del tutto naturale visto che il “nostro” più grande laboratorio è a Ginevra, il Cern. Potremmo dire che ne siamo proprietari per statuto al 11,5% (quota proporzionale al Pil). Lì nostri ricercatori, borsisti e dottorandi si recano frequentemente e per periodi anche lunghi per costruire e far funzionare le complesse apparecchiature di avanguardia dei diversi esperimenti, nell’ambito di collaborazioni i cui ricercatori provengono da tutte le parti del mondo. Dalla partecipazione a queste attività, oltre ai ritorni di immagine, ne ricaviamo anche commesse industriali, rendendo competitivo un intero settore di imprese italiane di alta tecnologia.
Nel capitolo formazione spendiamo una cifra definita esorbitante (circa 8 milioni di euro), ma in essa sono incluse le borse di dottorato che l’Ente finanzia alle Università, con cui abbiamo una stretto legame di collaborazione, i Post-Doc finanziati su fondi interni e quelli co-finanziati, nonché le borse per stranieri che per essere competitive a livello europeo devono avere un adeguato importo. In questo modo formiamo giovani che dovrebbero formare la futura classe dirigente del nostro paese, con cultura e contatti internazionali e conoscente tecnologiche d’avanguardia, in sostanza stiamo finanziando il futuro del nostro paese.
Inoltre, rispetto agli altri Enti, il consumo di energia elettrica dell’Infn, è molto elevato, questo è dovuto al fatto che tra le infrastrutture di ricerca che l’Ente gestisce sul territorio nazionale ci sono diversi acceleratori di particelle ed un centro di calcolo tra i più grandi ed efficienti al mondo.
Tutti questi finanziamenti servono non solo alle ricerche dei ricercatori dell’Infn, ma anche a quelle di circa 3000 ricercatori e docenti universitari.
Come ultimo punto bisogna anche sottolineare come anche il prolungamento del viincolo del turnover al 20% e le limitazioni sul personale abbiano un impatto molto negativo, infatti i nostri giovani migliori, non avendo una prospettiva di impiego in Italia se ne vanno a lavorare all’estero.
Come dice il presidente dell’Infn, Fernando Ferroni: «Se l’Italia vuole uscire dalla crisi con una visione di lungo periodo, la scienza non può essere letta esclusivamente come un problema contabile. Anche perché le risorse tagliate sono, in termini assoluti, molto piccole, ma in termini di possibilità di operare, devastanti».

l’Unità 14.7.12
Il villaggio martire: «Li ammazzavano casa per casa»
Massacro a Tremseh: «I morti sono oltre 200»
L’ombra delle armi chimiche. Annan: «Orrore»
di U.D.G.


Kofi Annan si dice «sconvolto, inorridito». La Casa Bianca denuncia l’ennesima «atrocità del regime». Ancora immagini di decine di corpi senza vita allineati per terra, ancora una voce fuori campo che saluta «i martiri» e aggiunge l'invocazione «Allah Akbar», Dio è grande. Sono i video che gli attivisti dell’opposizione hanno diffuso del massacro di Tremseh, nella provincia di Hama, avvenuto l’altro ieri. Una strage efferata, a colpi di armi pesanti, e non solo. La missione delle Nazioni Unite ha «osservato operazioni militari ancora in corso» anche nella giornata di ieri, riferiscono fonti della stessa missione. E l'inviato speciale dell’Onu Kofi Annan accusa: a Tremseh «l'esercito ha utilizzato armi pesanti, come artiglieria, carri armati ed elicotteri, in violazione degli impegni presi con il piano di pace». I bombardamenti «sono durati diverse ore» e i caschi blu hanno visto «i missili lanciati sulla città dagli elicotteri», emerge da un rapporto interno della missione. È ora, ha tuonato Annan, che il Consiglio di Sicurezza dell' Onu mandi al presidente Bashar al Assad un segnale che vi saranno «conseguenze».
Alcune fonti dell'opposizione hanno parlato di oltre 200 morti. L'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) afferma che le vittime sono circa 150, tra le quali «decine di ribelli» che erano asserragliati nel villaggio sunnita di un migliaio di anime, bombardato per ore dalle forze governative prima dell'assalto finale. Diversi testimoni citati dai media internazionali affermano che quando i soldati sono entrati nel villaggio erano accompagnati dai miliziani fedeli al regime Shabiha, che hanno ucciso, anche a colpi di coltello, civili che si erano rintanati nelle loro case o che cercavano di fuggire per i campi.
Quasi una replica del massacro di Hula, il 25 maggio, quando furono uccisi 108 civili, tra cui molti bambini. L'agenzia governativa Sana, parlando di «oltre 50 civili uccisi», addossa la responsabilità a gruppi di «terroristi». I militari siriani sono entrati a Tremseh «dopo una richiesta dei residenti», ha affermato la tv di Stato, e negli scontri, «sono stati uccisi tre soldati». L'esercito, ha aggiunto, ha inflitto «forti perdite ai terroristi», e non tra i civili.
I comitati locali di coordinamento dell’opposizione affermano che ieri almeno 66 persone, tra le quali molti civili, sono morte in scontri tra forze di Damasco e ribelli, in bombardamenti governativi e nella repressione di manifestazioni.
Come ogni venerdì, i raduni di ieri erano stati indetti con un tema, e questa volta a farne le spese è stato l'inviato dell' Onu, giudicato incapace di fermare la violenza: «Ritirate Annan, servo di Assad e dell'Iran». E i Fratelli musulmani chiamano in causa per il massacro di Tremseh, oltre al «mostro Assad», anche «Kofi Annan, i russi e gli iraniani».
ALLARME CHIMICO
Come se non bastasse, sul conflitto in Siria ora sembra aleggiare anche il fantasma delle armi di distruzione di massa. Le forze armate siriane stanno muovendo dai loro depositi parte del vasto arsenale di armi chimiche di cui dispongono, secondo quanto affermano fonti di intelligence statunitense. Damasco nega, ma gli Stati Uniti sono in allarme. L’arsenale di armi chimiche e biologiche di cui dispone il regime è il più vasto dell'intero Medio Oriente, e da tempo è fonte di preoccupazione per Washington e per i suo alleati nella regione. Diversi funzionari dell'amministrazione statunitense, citati in forma anonima ieri dal Wall Street Journal, esprimono il timore che tali armi possano segnare una ulteriore escalation dello scontro in Siria. «Si potrebbe fissare un precedente in cui armi di distruzione di massa vengono usate sotto i nostri occhi», ha affermato un funzionario Usa aggiungendo che si tratta di un aspetto «estremamente pericoloso per la nostra sicurezza nazionale».
In realtà, secondo lo stesso giornale, le analisi a Washington sul significato di questo nuovo sviluppo sono divergenti. Alcuni esponenti politici temono che il regime intenda usare le armi chimiche contro i ribelli e civili nell'ambito di una operazione di pulizia etnica. Altri ritengono che Damasco potrebbe invece aver deciso di nascondere le controverse armi per complicare ulteriormente gli sforzi delle potenze occidentali per individuarle. Altri ancora che potrebbe solo trattarsi di «una finta» per allarmare sia i ribelli che le capitali occidentali.

Corriere 14.7.12
«Così le milizie fantasma sciite ripuliscono i villaggi dei ribelli»
Gli «shabiha» reclutati per finire il lavoro sporco dei soldati
di Viviana Mazza


«Nella nostra religione non c'è l'inferno né il paradiso. Gli alauiti credono nella reincarnazione. Se sei buono, dopo molte trasmigrazioni, diventerai una stella. Se sei cattivo, sarai ridotto a un granello di polvere. Ma io non ci credo. Io credo nella vodka». Mingherlino, in jeans e maglietta rossa, il ventinovenne Bassel Ibrahim — pseudonimo che usa per scrivere per il giornale libanese Al Hayat — fuma una Lucky Strike dopo l'altra in un caffè di Damasco. È un attivista alauita, appartiene cioè allo stesso gruppo minoritario della galassia sciita di cui fa parte il presidente Bashar Assad. Ma Bassel, che anni fa aveva già avuto guai col regime per le sue idee comuniste, ora appoggia «la rivoluzione». Il conflitto attuale, secondo lui, è più una questione di potere che di religione, ma rischia di scatenare una guerra interconfessionale.
Per stragi come quella di Treimsa, il regime accusa terroristi armati dai Paesi arabi e dagli americani; l'opposizione parla invece di bombardamenti, seguiti da scontri tra soldati e ribelli, e infine dell'intervento degli shabiha, «i fantasmi», i miliziani in borghese fedeli al regime. «Sono giovani senza istruzione provenienti da quartieri alauiti come il mio — dice Bassel, originario di Zahra, a Homs —. Dieci anni fa venivano chiamati così i contrabbandieri nella zona costiera di Latakia che si sparavano fra di loro e prendevano ciò che volevano, incluse le ragazze. Invece adesso è un concetto diverso. Il regime ha creato gli shabiha. Nei primi giorni della rivoluzione, uomini in auto hanno fatto irruzione nei quartieri alauiti: hanno sparato, rapito, ucciso. È stato il regime — sostiene Bassel — ma ha sparso la voce che fossero i sunniti, così si sono formati gruppi di vigilantes per difendere i quartieri alauiti. Sono nati gli shabiha. Poi cinque alauiti sono stati portati in un quartiere sunnita dove circolano armi da sempre, zona di contrabbandieri, dov'era stata sparsa la voce che volessero uccidere gli abitanti, e così li hanno ammazzati e la comunità alauita è impazzita. Di shabiha ne conosco personalmente uno: il fratello è morto in un attentato, il padre è stato assassinato dall'Esercito Libero. Ha perso la ragione, e si è unito ai miliziani: è uno di quelli che hanno commesso il massacro di Karm Zeitun. Il regime ora sta creando anche degli shabiha cristiani a Wadi Nassara, vicino a Homs».
Bassel dice che questi miliziani vengono usati per circondare i villaggi sunniti, dopo che l'esercito li bombarda. «A coordinare le operazioni è l'intelligence. Spesso fanno arrivare gli shabiha da villaggi lontani, perché non è facile sterminarsi tra vicini. Se si rifiutano, possono essere uccisi. Quando il villaggio è circondato, un gruppo diverso compie i massacri. Sono grandi e grossi, con lunghe barbe, nessuno sa se siano siriani o meno. Secondo i sopravvissuti della strage di Houla indossavano bandane con simboli sciiti che, secondo me, sono troppo ovvi per essere veri. Quel che è certo è che risparmiano sempre qualcuno, perché racconti quel che è accaduto: vogliono che l'odio cresca tra alauiti e sunniti, vogliono che minacci l'Iraq, il Libano, la Turchia, cosicché tutti si scordino della rivoluzione siriana».
Non è facile per un alauita stare con l'opposizione. Bassel è scappato da Homs lo scorso luglio e si è fatto crescere una lunga barba. «Hanno avvertito mio fratello che mi avrebbero ammazzato. Per mesi nessuno ha rivolto la parola ai miei genitori, perché io sono un traditore. Ora sono ricercato. Ho un amico alauita, anche lui attivista anti regime. L'hanno preso, ma prima di metterlo in prigione l'hanno portato in tutti i quartieri alauiti di Homs per farlo picchiare e anche al funerale di uno shabiha: i parenti lo volevano uccidere». Ma poi a Damasco, scendendo in piazza contro il regime, Bassel ha sentito gridare: «A morte gli alauiti!». «La gente ormai uccide e basta. Forse ora pensano che se uccidono gli alauiti risolveranno il problema. Ma io sono convinto che non lo vogliono davvero». Dopo un massacro a Khaldiye, quartiere sunnita di Homs, Bassel ha portato soccorsi, poi è andato con altri alauiti ai funerali. «Dobbiamo lottare per evitare la guerra civile».

La Stampa 14.7.12
Il cinico calcolo di Putin
di Vittorio Emanuele Parsi


Sedici mesi di guerra civile e almeno 16.000 morti tra la popolazione, in gran parte causati dall’esercito di Bashar al Assad e dalle sue milizie, in un crescendo wagneriano, sempre più livido e sinistro. Risale all’altro giorno l’ultima ecatombe (oltre 200 morti nella martoriata provincia di Hama) denunciata dagli attivisti e confermata anche dal regime, che però ne ha addossato la responsabilità a «formazioni terroristiche al soldo di potenze straniere». Assad sembra aver definitivamente scelto la strada di giocarsi il tutto per tutto. Consapevole che forse neppure questo gli consentirà di sopravvivere politicamente, ma altrettanto disposto a sfruttare ogni singola possibilità che l’impotenza della comunità internazionale gli offre. La più sanguinosa delle intifade arabe partite dal sacrificio di un giovane venditore ambulante tunisino vede infatti il mondo ancora alla ricerca di una soluzione capace di arrestare l’orrore siriano. Se nelle ultime ore Pechino si è detta disponibile a considerare una mozione di condanna del regine siriano che non escluda l’imposizione del cessate il fuoco, permane invece il veto russo a qualunque ipotesi di intervento militare esterno. Per quanto cinica ci possa apparire la posizione russa, il Cremlino ha ben chiaro che proprio la sua «postura eccentrica» sulla crisi siriana è quella che gli ha consentito di tornare ad acquisire un peso in Medio Oriente dopo oltre un ventennio. Putin è ben conscio che un appoggio incondizionato e a tempo indeterminato ad Assad non è possibile (oltre ad aprire la prospettiva di un riacutizzarsi della mai sopita tensione con la numerosa minoranza musulmana della Federazione Russa), sa altrettanto bene, però, che con il crollo del regime la rilevanza di Mosca tornerebbe a essere nulla.
È proprio questo punto a rendere così difficile trovare un’intesa tra l’Occidente (e la Lega Araba) e la Russia. Una transizione al dopo Assad significherebbe inevitabilmente la fine del regime baathista e quindi la perdita di qualunque interlocutore per il Cremlino. Il regime siriano non è più riformabile. Forse non lo è mai stato, troppi essendo i beneficiari di oltre quattro decenni di potere assoluto, i cui equilibri erano garantiti dalla presenza della famiglia Assad. Di sicuro comunque non è più riformabile ora, 16 mesi e 16.000 morti dopo. Al di là della buona disposizione occidentale nei confronti di Mosca, della volontà di non umiliare la Russia come di fatto è avvenuto in Libia, l’Occidente non è in grado di offrire a Mosca null’altro che la scelta tra continuare così o accettare di perdere qualunque influenza sulla Siria del futuro. Dal canto suo, d’altronde, lo stesso Occidente non appare così determinato di fronte all’opzione militare, senza la quale è a questo punto impensabile arrestare il conflitto. Certo, la ferocia della repressione avrebbe già da tempo consentito di intervenire sulla base della «responsabilità di proteggere» sancita dalla Carta delle Nazioni Unite e invocata nei casi della Libia e del Kosovo (dove peraltro si agì senza autorizzazione Onu) ; ma il fatto è che le opinioni pubbliche occidentali (a iniziare da quella americana in un anno elettorale) sono stufe di guerre mediorientali che vedono il coinvolgimento dei propri eserciti dal 1990 (Desert Storm, per la liberazione del Kuwait), che gli assetti militari sono stati logorati in questi anni e che una crisi economica che dura dal 2008 e che non si sa quando e come finirà rende estremamente difficile capire dove reperire le risorse per avviare una campagna dal calendario assolutamente imprevedibile.
La Siria non è la Libia, evidentemente. Non lo è per dotazione militare (ieri si sono diffuse voci inquietanti sullo spostamento di munizionamento chimico dai siti di stoccaggio), non lo è per collegamenti internazionali (l’Iran non resterebbe a guardare la distruzione del suo principale alleato), non lo è per collocazione geografica (il Libano esploderebbe e il confine israeliano si surriscalderebbe). Oltretutto, chiunque volesse intervenire nel Paese dovrebbe avere un piano per la regione che contemplasse anche la soluzione del problema palestinese. Lo aveva ben chiaro George H. Bush, quando proprio a seguito della guerra del 1990/91 contro Saddam avviò i colloqui di Madrid e il processo di Oslo, che neppure la potentissima America di quegli anni seppe però difendere dal consapevole sabotaggio del governo di Tel Aviv. A complicare ulteriormente il quadro, infine, c’è la constatazione di come quasi due anni di primavere arabe abbiano segnato lo straordinario innalzamento della rilevanza saudita nella regione. E se Luigi XV non aveva intenzione di «combattere per il re di Prussia», c’è da scommettere che neppure Barack Obama frema dalla voglia di combattere per Abdullah Ibn Saud.

Corriere 14.7.12
Merkel in prima linea sulla circoncisione «Ingiusto vietarla»
Governo schierato con ebrei e musulmani
di Paolo Lepri


BERLINO — La libertà religiosa in Germania non è in pericolo. Lo ha assicurato il governo, costretto ad intervenire con una dichiarazione molto netta del portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, per placare l'ondata di proteste scatenata dalla sentenza della Corte regionale di Colonia che ha giudicato la circoncisione perseguibile penalmente. In cancelleria, d'accordo con il ministero della Giustizia, si lavora già ad una legge che risolva quanto prima il problema. È inoltre molto probabile che a margine della sessione parlamentare speciale sugli aiuti alla Spagna, convocata il 19 luglio, il Bundestag approvi una risoluzione per contribuire a riportare la pace con gli ebrei e i musulmani tedeschi. Il caso non è ancora chiuso, ma potrebbe esserlo subito dopo la pausa estiva.
«L'opinione di tutti, nel governo, è chiarissima: vogliamo che la vita religiosa degli ebrei e dei musulmani in Germania sia possibile. La circoncisione praticata in modo responsabile non può essere perseguita in questo Paese», ha detto Seibert. «La libertà religiosa è un diritto che sosteniamo fermamente», ha proseguito, aggiungendo che è «urgente» ristabilire un clima giuridico corretto. Le parole del portavoce della cancelliera sono giunte all'indomani della forte presa di posizione del presidente della conferenza europea dei rabbini, Pinchas Goldschmidt, che aveva detto di «non vedere un futuro» per gli ebrei in Germania e definito la decisione dei giudici «il più grave attacco dopo l'Olocausto».
Già nelle settimane scorse, tutte le associazioni degli ebrei e dei musulmani tedeschi avevano espresso forti critiche nei confronti della sentenza di Colonia, che non ha un valore vincolante fuori dai confini della regione ma può essere considerata come un precedente da altre corti in un Paese dove vivono 120 mila ebrei e quattro milioni di musulmani. I giudici si erano pronunciati il 26 giugno dopo aver esaminato il caso di un bambino di quattro anni, musulmano, ferito durante l'intervento, paragonando la circoncisione alle punizioni corporali e sostenendo il principio del consenso obbligatorio. Secondo la religione ebraica, invece, la circoncisione deve essere compiuta entro l'ottavo giorno dalla nascita.
Sono stati in molti a rilevare, sia nella maggioranza che nell'opposizione, che questa vicenda, se non risolta rapidamente, poteva provocare un danno non indifferente alla stessa immagine del Paese. Anche i rapporti con Israele, che ha invocato fin dall'inizio una chiarificazione da parte del governo, hanno vissuto momenti difficili. I giornali si sono schierati senza eccezione contro i giudici di Colonia. «La sentenza è stata sconsiderata e la forte protesta è giustificata», ha scritto Heribert Prantl, della direzione della Süddeutsche Zeitung. In questa «vergognosa farsa per la Germania», Die Welt ha visto «una manifestazione della crescente intolleranza contro i gruppi religiosi nel mondo». Molto documentata l'analisi compiuta da Christian Walter, docente di diritto pubblico all'università di Monaco, che ha parlato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung di una «inaccettabile ingerenza nella libertà di religione», avvertendo che «la difesa dai pericoli della religione non può trasformarsi in difesa dalla religione».

l’Unità 14.7.12
Il silenzio, lasciamolo parlare
Dire o non dire? Filosofi, musicisti e psicoanalisti a congresso
Anticipiamo un brano tratto dalla relazione di Nicoletta Polla-Mattiot per l’incontro di Lavarone: oggi soprattutto gli artisti ci insegnano la forza emotiva ed «ecologica» del tacere
di Nicoletta Polla-Mattiot


LAVARONE. AFFACCIARSI AL SILENZIO E TENTARE DI ESPRIMERLO (PARLARNE, CONDIVIDERNE L’ESPERIENZA) È UN PARADOSSO NELL’ESATTO SENSO ETIMOLOGICO: contrario all’opinione corrente, al buon senso e anche all’abitudine, alla prassi, al «così fan tutti» in un mondo che ha eletto la comunicazione a parametro dell’esistenza. Ciò che non è comunicato, semplicemente non è. Invece parliamo del silenzio, vuoto, nulla, assenza, sospensione (ed eccezione) dalle normali regole d’interazione. Facciamo di più: azzardiamo un paradosso sul paradosso, e cioè che il silenzio sia un’efficace forma di comunicazione e relazione. Uno strumento linguistico, espressivo e dialogico. Poiché il paradosso è la premessa, si comincia (e si finirà) con due esempi e due ipotesi paradossali.
Il primo è il visionario racconto di Douglas Coupland in Generazione A: la storia di un venditore di silenzi, che fonda un sito di «suonerie da camera delle celebrità». Per 4 dollari e 99, offre ai suoi clienti la possibilità di scaricare un’ora di silenzio, registrata nella camera di tutta una serie di personaggi, per lo più cantanti famosi, da Mick Jagger a Lou Reed. Intervistato sugli sviluppi del suo progetto, annuncia un grande ampliamento del business: il lancio di una nuova linea di suonerie, chiamata Notturni: panorami acustici serali. Perché spiega c’è differenza fra il silenzio diurno e il silenzio notturno. Immaginate di trovarvi in una stanza completamente buia con gli occhi chiusi. Poi aprite gli occhi. «È buio esattamente come quando hai gli occhi chiusi, eppure è un buio completamente diverso da quello di prima». Un meraviglioso imbroglione che però ci suggerisce, con la sua intuizione-truffa, che non c’è un solo silenzio, ce ne sono diversi, e possono essere diversamente percepiti. C’è un silenzio a occhi e orecchie chiuse e un silenzio a occhi e orecchie aperte.
Il secondo esempio è un’esperienza artistica. Protagonista Marina Abramovic e la sua performance al Moma di New York: The artist is present. L’assunto è semplicissimo: l’artista è presente, a disposizione del pubblico, totalmente affidata al suo sguardo e ai suoi tempi. Ciascuno può sedersi davanti a lei quanto vuole, tre minuti o tre ore, in silenzio. Abramovic, che pure è avvezza a lavorare con fuoco, lame, serpenti, sangue, brandelli di carne, lesioni autoinferte, dichiara: «Sarà la performance più radicale della mia vita». E per prepararsi si impone «una preparazione rigorosissima: non parlerò per tre mesi». La mostra ha un successo enorme, un fotografo documenta le reazioni della gente: moltissimi piangono. Un po’ come dentro un gioco rovesciato del silenzio, dove ci si guarda negli occhi e scappa da ridere. «Mentre hai lo sguardo fisso su di me spiega l’artista cominci a guardare te stesso. Io sono una scintilla, uno specchio: le persone prendono coscienza della loro vita, della loro vulnerabilità, del loro dolore... Piangono per se stesse».
Lacrime, emozione, risa. Difficilmente il silenzio lascia indifferenti, lasciarlo «parlare» significa lasciare le emozioni libere di affiorare.
Ma come e con che cosa si ascolta il silenzio? Sarebbe bello fare come il pittore Plasson che dipinge il mare con il mare. Enormi tele bianche che conservano la memoria invisibile di pennellate d’acqua. Allo stesso modo poter evocare la consistenza acustica del silenzio per semplici associazioni. Riuscire a sentire la grana soffice di un silenzio ovattato, un po’ ottundente, un silenzio di culla e di sonno, di passi felpati e ambienti protetti. E mettergli a fianco un profondo silenzio, che già allude e si sporge sull’abisso, interno ed esterno, e lascia intravvedere l’eco di remoti, sovraumani silenzi. Ci sono silenzi pesanti e silenzi leggeri, silenzi irritanti e silenzi carezzevoli, silenzi avvolgenti e assordanti, silenzi densi (che sembrano potersi toccare) e silenzi rarefatti, silenzi taglienti (che attraversano, da parte a parte) e silenzi impenetrabili.
Come cogliere le differenze? Con quali strumenti? Esiste un organo del silenzio? Le orecchie non bastano. L’approccio è necessariamente sinestesico e ci riporta a un livello più profondo e insieme arcaico, a volte regressivo, di fusione dei sensi, a una dimensione pre-verbale, pre-razionale. Il silenzio ha un odore, un colore e un sapore oltre che un suono e un’immagine. Gli si possono prestare occhi, mani, tatto, palato. Quel che si ricerca è la percezione silenziosa dell’esserci e di tutto quel che ci sta intorno.
Dalla percezione all’emozione, qualsiasi stato di forte agitazione psichica, la passione, l’amore, la meraviglia, l’indignazione, la collera, la delusione cocente lasciano a bocca aperta, incapaci di esprimersi. Le emozioni forti agiscono da detonatore della congruenza grammaticale, la lingua si incespica, il pensiero si confonde, si finisce attoniti, ammutoliti, sopraffatti da quel che proviamo. Bello o brutto che sia, trascinante o devastante, esaltante o desolante. Ci sono regioni ineffabili per la loro profondità, positiva o negativa, dove le parole sono troppo strette, scomode, imperfette, logore, ripetitive per contenere «l’animo nostro informe».
PARMIGGIANI: UNA PAROLA SOVVERSIVA
Spesso possiamo solo dire con Montale «quello che non siamo, quello che non vogliamo». Racconta Pascoli che Ulisse, ormai vecchio, è colto dalla nostalgia del mare e riparte con i compagni antichi, lasciando Itaca ritrovata, per ripercorrere, a ritroso, l’itinerario dei suoi ricordi. Ascolterà di nuovo il canto delle Sirene, per riprovare il piacere terrifico della conoscenza e rifare la domanda che continua a guidare il suo errare senza fine: «Chi sono io?» Ma il passato mitico non torna e quando la barca raggiunge gli scogli desiderati e temuti, le Sirene restano mute e immobili. Ulisse è tutti noi e Ulisse è Nessuno. Eppure è proprio quel vuoto, quella perdita così umana di centralità e di senso, quell’interrogativo che resterà eternamente senza risposta, che ha la nostra forma: è il nostro essere nel cercare senza fine.
Chiudo con due riflessioni, paradossali. La prima di ecologia della mente. Si parla tanto di emergenza clima, risorse in esaurimento del pianeta. E se lo fosse anche il linguaggio? Se le parole, a forza di usarne e abusarne, nel continuo scialo verbale, si esaurissero? Come nel racconto di Jonathan Safran Foer e di Thomas, l’uomo che prima «parlava, parlava, parlava e non riusciva a tenere la bocca chiusa» e poi perde, via via, pronomi, aggettivi, congiunzioni, nomi, tutto. Ebbene la provocazione, l’esercizio di fantasia che vi chiedo è questo: se rischiassimo di esaurire il linguaggio, voi quale parola vi terreste cara, quale non sareste disposti a spendere tanto facilmente, quale vi terreste per ultima? Amore? Caro/cara? Voglio? Sì? No?
La seconda riflessione è che il paradosso è (anche) la strada della conoscenza. E ben lo spiega Claudio Parmiggiani come un’arma non è mai «un gesto di buona educazione, rassicurante, ottimista, salottiero, decorativo, ma un atto sovversivo». In questo sta la sua verità. Eversiva «perché non ha obiettivi, non serve a niente, non è in funzione di niente. È esistenza, pura esistenza. ...Per la società è un assurdo, ma questo assurdo è dentro di noi e di questo assurdo noi abbiamo bisogno. Il termine sovversione oggi significa silenzio. Silenzio è una parola sovversiva ed è sovversiva perché è uno spazio meditativo».

l’Unità 14.7.12
Centro studi Gradiva
Questo ricchissimo nulla


Si aprono oggi a Lavarone, coordinati dal Centro Studi Gradiva, i lavori della XXI edizione del congresso le Frontiere della psicoanalisi che quest’anno ha quale tema «Il silenzio». Se è vero, come ripeteva il premio Nobel José Saramago, che «si parla troppo», giunge opportuna una riflessione a più voci... sul silenzio, questo ricchissimo «nihil», che per dirla con Zanzotto non è certo vuoto! Dialoghi serrati allora fra psicoanalisti, filosofi, musicisti e semiologi (fra i molti Francesca Rigotti, Daniela Federici, Emiliano Battistini, Roberto Mancini): un coro di appassionati del silenzio. Un silenzio che può indicare sia la vita che la morte, occupa momenti creativi o distruttivi nelle sedute di analisi. Un silenzio che si fa metodo per ascoltare, generatore di fragore, di invenzioni o di silenzi altri. E per chi – dopo l’assaggio a Lavarone voglia proseguire, e esercitarsi nella pratica del silenzio e nella comunicazione senza parole, ad Anghiari, dal 30 agosto al 1 settembre, avrà l'opportunità di trascorrere tre giorni in Toscana seguendo i laboratori della scuola di Accademia del silenzio. Sei i seminari proposti, a scelta (con un limite massimo di 20 partecipanti): dal silenzio poetico al silenzio escursionistico, dalla meditazione al cinema (per iscrizioni e informazioni: www.lua.it/accademiasilenzio-0575/788847)

l’Unità 14.7.12
La collana, alla Biblioteca Sigmund Freud
Piccoli libri per imparare a «staccare»


Lunedì alle 17 a Lavarone (Biblioteca Sigmund Freud) appuntamento per un pomeriggio ancora dedicato al silenzio, o meglio alla presentazione di una piccola deliziosa collana: i «taccuini del silenzio», edita da Mimesis, e pensata e realizzata dall’Accademia del Silenzio, nata a Anghiari da un’idea di Duccio Demetrio (ordinario di filosofia all’università Milano Bicocca) e di Nicoletta Polla Mattiot (giornalista, ricercatrice e saggista) che ne sono anche i fondatori. Tre libri di piccolo formato e piccolo prezzo (60 pagine a euro 4,90). Tre percorsi di riflessione, meditazione, poesia, ricchi di esercizi e suggerimenti pratici per imparare a «staccare». Un formato che sta in una mano, per ritagliarsi una pausa, solo per sé, in treno, in metrò, in viaggio... Silenzi, dunque, tascabili questi primi tre titoli: «Pause» di Nicoletta Polla-Mattiot (un viaggio attraverso le sensazioni e le emozioni a cui le parole non bastano); «I sensi del silenzio» di Duccio Demetrio (esercizi per riscoprire il piacere di scrivere, di noi, della natura, degli altri, e per coltivare e difendere stati d'animo ignoti, che solo nel silenzio possono emergere); «Il silenzio» di Franco Loi (lo stupore, l'incanto, la sorpresa della parola, attraverso la poesia, esplora il silenzio che lega l'uomo a se stesso e all'essenza di ogni cosa che non ha nome).

Corriere 14.7.12
L’esperta di questioni europee sul wall Street Journal
«Ispiratevi alle città del Rinascimento»
La gara fra realtà statuali diverse  era un motore di crescita
La studiosa Kurapovna: «L'Italia nata nell'800 è un modello sbagliato»
di Danilo Taino


Se l'Italia e la Grecia hanno un grande passato e un modesto presente ci sarà pure una ragione. Marcia Christoff Kurapovna l'ha individuata nello Stato nazionale. Mentre Atene, Corinto, Tebe prosperavano e seminavano civiltà, mentre le città rinascimentali italiane e le repubbliche marinare fiorivano e preparavano la modernità, ora le entità Italia e Grecia sono quasi diventate sinonimi di crisi e di autoinganno: perché nell'Ottocento hanno scelto il modello sbagliato, romantico ma sbagliato. La signora Kurapovna è una studiosa di questioni europee e autrice di un libro sulla Seconda guerra mondiale in Jugoslavia, Shadows on the Mountain, che ha fatto discutere. Sull'opportunità di riprendere in considerazione il modello delle città-Stato ieri ha pubblicato un articolo sul Wall Street Journal Europe e ha dato questa intervista al Corriere.
Lei fa un'analisi molto radicale di Italia e Grecia. Li considera Stati falliti?
«Vedo lo Stato greco come un fallimento. Ho vissuto ad Atene negli anni Novanta, è stato piacevolissimo, l'ho amata molto. Adesso è un incubo. Per l'Italia è diverso, rimangono industrie eccellenti, non è ancora a quel punto. L'Italia sarà sempre grande in termini di bellezza, scienza, letteratura. Ma le questioni fondamentali che stanno alla base della mia ricerca, che ha un interesse filosofico, sono due: come può l'Italia tornare grande, in termini di status; e stabilire se lo Stato centralizzato funziona».
Prima la risposta alla seconda domanda.
«Non funziona, è davanti agli occhi di tutti. L'idea di one-size-fits-all, di una politica che vada bene per l'intero Paese, è sbagliata. Venezia era Venezia, Genova era Genova, Firenze era Firenze: le repubbliche marinare e i comuni avevano una loro personalità. Ogni parte dell'Italia era unica. Con il risultato che le città-Stato erano in competizione tra loro e questo era il motore della crescita, dell'innovazione, del potere. Nel Rinascimento si premiavano i talenti e nasceva l'uomo economico. Il caso di Lucca e del suo leader Paolo Guinigi che tennero a distanza i Visconti di Milano è un esempio straordinario di indipendenza che produsse banca e industria. L'Italia non è più così».
Ma era una terra divisa.
«Era una terra senza governo centrale. Ma dopo il declino del Sacro Romano Impero, l'Italia era tenuta unita dalla concorrenza economica tra centri locali, tra città-Stato. Fu un periodo di sviluppo straordinario, senza precedenti, che creò prima ricchezza e poi virtù civica. I rapporti con il resto dell'Europa e del mondo crebbero, le esportazioni e le importazioni anche. Una dinamicità che si è poi persa».
Colpa dello Stato?
«Oggi mi pare che gli italiani abbiano paura delle imposizioni dello Stato centrale. Quando trovo italiani e greci all'estero vedo che in genere hanno grande successo, sono abili e di talento. In casa no. Credo che la ragione stia nel fatto che si sentono addosso l'imposizione politica inefficiente dello Stato. C'è la paura dello Stato centralizzato e inefficiente».
È stata dunque un errore ottocentesco l'unità nazionale italiana?
«Comprensibile data la realtà europea del periodo. Un'idea romantica. Ma l'unità dell'Italia la capisco ancora meno di quella della Grecia, che almeno fu dettata dal disfacimento dell'Impero Ottomano. Garibaldi e Cavour li capisco meno: unire qualcosa che non avrebbe funzionato. Morto Cavour, poi, è mancata ogni leadership, non si sono avute più soluzioni pratiche».
Ora l'altra questione: come può l'Italia tornare grande?
«Per spiegarlo uso l'esempio del Sud Tirolo (l'Alto Adige, ndr). Quando ogni regione si auto-organizza, le cose riprendono a funzionare, come lì. Quando si dà uno stop alle interferenze e alle imposizioni di Roma, intesa come centro dello Stato, l'innovazione e la crescita lievitano, scompare la paura dello Stato. E la competitività ne guadagna enormemente. Questo, credo, è quello che l'Italia dovrebbe imparare dalla sua storia».
Cosa pensa della Lega Nord?
«Confesso che inizialmente l'ho vista con simpatia. Quando è cresciuta mi pare che si sia invece persa, che non abbia più avuto spinta innovativa».
Ma lei dunque immagina un'Italia delle regioni, dei comuni?
«Come esito finale sì, delle regioni. Il primo passo necessario, probabilmente, sarebbe la separazione tra il Nord e il Sud. Per togliere paura ad ambedue le entità. Poi si dovrebbe andare verso regioni autonome, che si governano da sole. Dopo un po' si potrebbe introdurre qualcosa che dia un feeling simbolico di identità italiana, ma niente di più. Come in alcuni Paesi è la monarchia».
Questa sua idea di Stato negativo vale solo per i Paesi mediterranei oppure anche per quelli del Nord?
«Particolarmente per quelli mediterranei. Ma vale anche per gli altri. Io penso che, come entità politica, l'Europa sia finita. Credo nell'Europa culturale, nel senso dei valori dell'Occidente. Ma per il resto penso si debbano avere indipendenza, specializzazione, capacità di affrontare i propri problemi. E ognuno con la propria moneta».
Politicamente fattibile?
«Politicamente no, almeno per i prossimi 50 anni. Questione di mentalità. Ma intellettualmente praticabile subito. Credo che molta gente in gamba ci stia già pensando».

Corriere 14.7.12
Quando l'umanità perderà la memoria
La profezia di Proust e la Shoah: una storia che gli eredi non potranno testimoniare

di Alessandro Piperno

La «Recherche» come tragedia e l'ossessione del Ricordo
Pubblichiamo le pagine iniziali del libro di Alessandro Piperno Contro la memoria in libreria lunedì per Fandango (pp. 262, 16). Il volume nasce dal saggio critico Proust antiebreo, pubblicato da Franco Angeli nel 2000 e ormai introvabile. Piperno, vincitore del premio Strega 2012 con il romanzo Inseparabili (Mondadori) ha completamente riscritto il testo precedente aggiungendo molte parti inedite, come quella che anticipiamo. Il volume, uscito prima in Francia, indaga il concetto di memoria e i rischi ad essa connessi, utilizzando l'opera di Proust, interpretata in chiave profetica. Secondo Piperno la memoria è ormai una vera e propria ossessione, «una spettacolare macchina da guerra» utilizzata da istituzioni politiche e autorità religiose, che si è tradotta in luoghi-simbolo, «mete privilegiate per viaggi pedagogici alla scoperta, si direbbe, della parte tenebrosa della natura umana». Non è privo di significato il fatto che la Recherche sia considerata il «grande libro del Ricordo», il testo che mette in scena «le perigliose acrobazie della memoria umana: smottamenti, resurrezioni, ma soprattutto fatali e irrimediabili eclissi». Piperno legge l'antisemitismo dell'autore della Recherche che, al pari di altri giovani ebrei della fine del XIX secolo, ripudiò le proprie origini, come una ricerca di autenticità, in opposizione all'ansia di promuoversi socialmente che secondo lui costituiva il vizio congenito che rendeva gli ebrei invisi a molti. L'attenzione maniacale prestata alla memoria e all'oblio è, secondo Piperno, parte integrante della profezia proustiana e soltanto alla luce della Shoah la tensione irrisolta tra ciò che andrebbe conservato e ciò

È ogni istante più vicino il giorno in cui l'ultimo sopravvissuto della Shoah scomparirà dalla faccia della Terra. Probabilmente sarà uno di quei bambini (ormai diventato vecchio) che, con occhi smarriti dalla rassegnazione ancor prima che dal terrore, mostra i numeri incisi sul polso alle cineprese degli Alleati ansiosi di documentare l'entità e l'orrore dello sterminio. Sì, uno di quei bambini, quasi indistinguibili dai suoi compagni di sventura, che riappaiono in tv ogni fine gennaio, nella settimana durante la quale, per convenzione e non senza qualche ipocrisia, usiamo commemorare i milioni di vittime del genocidio.
È più che probabile che, data l'inaudita vastità del fenomeno, per non dire della sua intricatezza statistica, nessuno si accorgerà che è venuto a mancare l'ultimo internato superstite di un campo di sterminio nazista. Ciò non di meno è indubbio che quel giorno (sobriamente travestito da giorno qualsiasi) arriverà. E porterà un cambiamento non immediatamente percettibile ma, alla lunga, a dir poco fatale. Con la scomparsa dalla faccia della Terra dell'ultimo internato, infatti, non ci sarà più nessun essere umano capace di testimoniare con il proprio corpo, con il proprio spirito, con il proprio cervello, con il proprio sangue quello che successe in Europa centrale più di mezzo secolo fa. Da quel momento in poi i testimoni verranno sostituiti dai figli e dai nipoti. Verrà affidato alla prole il compito di tramandare ai posteri il dolore inumano patito dai genitori scomparsi. Toccherà ai figli essere intervistati. Andare nelle scuole. Parlare nelle pubbliche commemorazioni. Toccherà a loro tentare di raccontare. Naturalmente, non potendo avvalersi di una memoria diretta, dovranno contentarsi di narrare ciò che è stato loro narrato dai genitori. È lecito ipotizzare che questi testimoni di secondo grado, coniugando esigenze intime a ragioni pedagogico-istituzionali, accettino di accompagnare le scolaresche nell'ennesimo macabro pellegrinaggio ai campi della morte trasformati in scabri musei dell'orrore. Così come è sensato immaginare che questi figli di deportati proveranno un certo imbarazzo nel parlare di ciò che non hanno vissuto.
Primo Levi, ne I sommersi e i salvati (il suo libro più tragico), sostiene, con la durezza che lo contraddistingue, che i sopravvissuti non hanno alcun diritto di parlare a nome di chi non ce l'ha fatta. Per lo stesso identico motivo, o forse per un motivo ancor più forte, è assurdo che i figli dei sopravvissuti parlino a nome dei loro padri e delle loro madri.
Che non sia questo il limite della cosiddetta «memoria collettiva»? Essa nasce già come impostura. Visto che la memoria, per sua stessa definizione, non può che essere individuale, e visto che ogni testimonianza indiretta non ha niente a che fare con la memoria — tutt'al più con la letteratura, in taluni casi con la mitologia —, ecco che il giorno dopo la morte dell'ultimo perseguitato dalla furia nazista, l'umanità dovrà fare i conti con la propria incapacità di ricordare e con l'invincibile forza dell'Oblio. Da quel giorno in poi la Shoah inizierà a trasformarsi in qualche altra cosa. Alla lunga gli sforzi delle istituzioni di mantenere viva la fiamma della commozione si riveleranno vani. Perché gli uomini sono fatti in modo da provare commozione solo per ciò che li riguarda direttamente. E se un individuo è capace di immedesimarsi nella tragedia occorsa a un genitore, a uno zio o a un nonno, egli incontra qualche difficoltà a solidarizzare con il dramma di un trisavolo.
Tutto questo autorizza l'ipotesi che, nel corso di poche generazioni, la Shoah — inghiottita dai decenni trascorsi, divorata dalla retorica istituzionale, banalizzata dal profluvio bibliografico, oltraggiata dal risentimento dei negazionisti, offuscata da qualche altra tragedia più incombente — diventi un fantasma? Ovvero, qualcosa di non immediatamente intellegibile. Qualcosa imposto dall'alto: come una religione, o come una vecchia carta costituzionale. Una ricorrenza in mezzo a tante altre ricorrenze. Quanto tempo deve passare prima che il più spaventoso dei ricordi cada in prescrizione?
A onor del vero, occorre dire che qualsiasi studente della nostra epoca, provvisto di buonsenso e di empatia, prova orrore, commozione e sdegno leggendo un libro come Se questo è un uomo di Primo Levi. C'è da chiedersi però se tra un paio di secoli l'effetto prodotto sui posteri da tale lettura sarà il medesimo. O se quelle terrificanti pagine non corrano il rischio di essere consultate con lo stesso spirito con cui noi oggi leggiamo le cronache del famoso terremoto di Lisbona del 1755. Di certo la tecnologia fornirà un aiuto prezioso alla causa della Memoria. Inutile negare che le immagini — le migliaia di immagini archiviate — continuano a esercitare su di noi un'attrazione ipnotica, rappresentando un monito permanente. Un altro aiuto verrà offerto dall'azione persuasiva delle retorica che, in talune circostanze, può rivelarsi utile, come ammette lo stesso Primo Levi: «Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, "l'urne dei forti", accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi di Foscolo ed è vero ancor oggi».
Ma chi può rassicurarci sul fatto che lo studente del ventitreesimo secolo si sentirà ancora implicato con quelle immagini? E che sarà ancora in grado di riconoscersi negli uomini che commisero e che subirono quelle orripilanti atrocità? Chi ci dice che il nostro studente venturo risponderà allo stesso codice emotivo e culturale che ancora oggi rende la retorica della Shoah così efficace? La verità è che ci vorrà qualche altro decennio per misurare l'entità del successo o del fallimento di coloro che hanno scommesso — in buonafede e con caparbietà — sulla Memoria. Per adesso è possibile provare a interpretare i dati di cui disponiamo. E fare un bilancio provvisorio.
Si è spesso detto che l'interesse di alcuni degli ex internati nei campi di sterminio a raccontare e riraccontare ciò che avevano subito (naturalmente ci sono anche ex internati che hanno scelto, con gesto non meno dignitoso e non meno comprensibile, l'opposta via del riserbo), derivasse soprattutto dal timore che certe atrocità potessero ripetersi. Le Memoria come ammonimento, quindi. La Memoria come pedagogia.
Ma siamo proprio sicuri che sia questa la ragione ultima di quell'inesauribile smania di ricordare? Davvero la prima preoccupazione di chi è scampato a un'esperienza così mostruosamente totalizzante è che nessun altro provi un giorno ciò che lui ha provato? Bisogna avere un'opinione lusinghiera (e decisamente irrealistica) del genere umano per crederlo. Primo Levi scrive: «Quasi tutti i reduci, a voce alta o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio». Mi pare che il sogno ricorrente di cui Levi dà conto sia l'ennesima dimostrazione di come uno dei pochi sproni a sopravvivere degli internati fosse quello di poter raccontare, un giorno, la loro esperienza. I pochissimi che ebbero la fortuna di sopravvivere dovettero affrontare il dramma di non essere all'altezza del compito che si erano prefissi. Se è vero che non c'è esperienza individuale che sia totalmente comunicabile, ciò è ancora più vero quando l'esperienza che vuoi raccontare è così spaventosa.
Non a caso Elie Wiesel ha scritto: «Quelli che non hanno vissuto quell'esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l'hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non sino in fondo. Il passato appartiene ai morti, e il sopravvissuto non si riconosce nelle immagini e nelle idee che pretendono di descriverlo». In un processo psichico non così difficile da comprendere, l'impossibilità di riuscire fino in fondo a «dire» ciò che ti è capitato si trasforma in un'esigenza di dirlo a tutti costi. Il fatto di non riuscirci fino in fondo non è che l'ennesima beffa, una specie di vittoria postuma dei nazisti e dei loro spregevolissimi fiancheggiatori. L'inesprimibilità di una tragedia è parte stessa della tragedia.
Bruno Bettelheim — lo psichiatra che meglio di qualsiasi altro ha saputo descrivere la cosiddetta «sindrome del sopravvissuto ai campi di sterminio» — ha raccontato come, durante i primi giorni di prigionia in un campo di concentramento, lui, per tenere desta la mente, per non abbrutirsi, avesse provato ad analizzare i propri comportamenti e quelli degli altri internati con un atteggiamento scientifico che gli era stato inculcato da una severa educazione accademica: «Tale studio fu un meccanismo sviluppato ad hoc per poter mantenere almeno un minimo di interessi intellettuali e riuscire quindi a meglio sopportare la vita del campo. L'osservazione e la raccolta di dati vanno quindi considerate alla stregua di un particolare tipo di difesa sviluppata in quella situazione estrema».
Lo «studio» cui allude Bettelheim non è solo un atto di comprensione, ma in un certo senso anche un atto di memoria. Capire vuol dire (lo dice Bettelheim stesso) immagazzinare una miriade di dati interessanti che ti consentono di ricostruire retroattivamente ciò che ti è capitato. E, dopo averlo capito, di raccontarlo.
Dalle centinaia di testimonianze raccolte possiamo dire che l'internato in un campo di sterminio (soprattutto i primi tempi) — oltre alle tragedie legate alla violenza subita, allo scenario apocalittico in cui si è ritrovato quasi da un giorno all'altro, oltre al pensiero terrorizzante di ciò che potrebbe essere capitato ai suoi cari, al permanente pericolo di essere ammazzato, all'amministrazione delle energie residue in uno stato paurosamente insalubre di denutrizione, affaticamento, malattia, oltre al senso di solitudine aberrante — si trova a fronteggiare un dramma psicologico di proporzioni inaudite: da un lato sente che una delle poche ragioni per cui deve salvarsi è per poter raccontare la sua esperienza (molti hanno detto che questo era un pensiero ricorrente: salvarsi al solo scopo di poter raccontare. Affinché tutto ciò non restasse impunito, affinché tutto ciò avesse un senso). Ma, dall'altro, come ci spiega bene Levi, affianco a questo pensiero in qualche misura vitale ce n'era uno contrario: la paura di non essere creduti. Il terrore che, qualora fossi riuscito a salvarti, non avresti trovato le parole per raccontare, per ordinare i tuoi ricordi in un modo logico, laico e efficace.
Chissà allora che si possa dire che una delle ragioni (non la sola, certo) per cui chi ha patito l'esperienza concentrazionaria non smette di ricordarla a se stesso e al mondo è perché lui è rimasto lì, se non con il corpo, di certo con la mente.

Corriere 14.7.12
Le leggi di Solone nell'Atene degli schiavi
di Eva Cantarella


N ato ad Atene attorno al 640 a.C., nel 594 Solone venne eletto arconte e incaricato di dare un corpus di leggi alla città, con il titolo, oltre che di nomothetes (legislatore, appunto) anche di diallaktes (arbitro, riconciliatore). Il momento era molto difficile, le tensioni sociali altissime. Da una parte stavano le famiglie nobili, che detenevano la quasi totalità della terra (ovviamente, la ricchezza dell'epoca); dall'altro una massa di persone che viveva, o meglio sopravviveva in condizioni assolutamente drammatiche. Secondo alcuni, questa massa era composta da schiavi che coltivavano la terra dei padroni, versando a questi cinque parti del prodotto, e tenendone per sé solo un sesto (donde il nome di ektemori, con cui venivano designati). Secondo altri, invece, erano contadini liberi che, alle condizioni di cui sopra, coltivavano la terra pubblica usurpata dai nobili. E poiché queste condizioni non consentivano loro di sopravvivere si indebitavano con questi, dando in pegno se stessi. Con la conseguenza che, se non pagavano, diventavano schiavi del loro creditore. Uomo di grande cultura e di larghe vedute, probabilmente nato da famiglia aristocratica, Solone (foto) eseguì il compito che gli era stato affidato, per poi allontanarsi dalla città. E un giorno, interrogato da un amico che gli chiese se riteneva di aver dato agli ateniesi le leggi migliori, rispose «le migliori che essi potessero accettare» (la storia in Plutarco).

Repubblica 14.7.12
Che cosa significa “accoglienza”
L’interazione con gli altri, secondo Nesi, stasera alla Milanesiana
di Edoardo Nesi


Le vite imperfette sono le nostre. Certamente la mia. Il saggio userebbe il suo tempo vuoto — mai libero, perché non esiste una cosa come il tempo libero — per cercare di avvicinarsi alla perfezione. Alla sua idea di perfezione. O forse, anzi meglio, al perfezionamento possibile di sé. All’accumulo di conoscenze, che meno sono tecniche e più mi sembrano importanti, quasi necessarie. Preferisco siano gli altri, ad accumulare conoscenze tecniche, e certo, non è sempre stato così, nella mia vita imperfettissima. L’accoglienza fa parte del processo di perfezionamento di sé. Accogliere i concetti, le idee, i sentimenti, le opinioni persino le sensazioni degli altri fa parte dell’accumulo della conoscenza. Anzi, forse è la conoscenza. Comporta un minimo sforzo concettuale, però, questa accoglienza, e la si può interrompere in qualsiasi momento per tornare felicemente chiusi dentro noi stessi. Basta chiudere il libro, spegnere il computer o lo stereo (scusate l’imprecisione della definizione, ma mi garba troppo continuare a chiamarlo così, lo stereo, come a distinguerlo dal mono). Accogliere gli altri, e rispettarne la presenza, persino l’essenza, è tutt’altra cosa. Accoglierli senza imperfe- zioni, poi, è difficilissimo, per quanto possa sembrare necessario. Ogni imperfezione nell’accoglienza, infatti, equivale per lo meno a una scortesia. A questo proposito, avrei una storia da raccontarvi. All’inizio degli anni Novanta, tre mercanti siriani venivano nella nostra azienda tessile a comprare lo stock, e cioè le pezze dei tessuti che non avevamo venduto nella stagione. Onestissimi, grandi pagatori, i siriani arrivavano da anni a Prato negli ultimi giorni di luglio, poco prima della chiusura estiva dell’azienda, quando sapevano che saremmo stati più morbidi nelle trattative, e volevano trattare solo con Alfiero, il socio più anziano, un personaggio ruvido e genuinissimo. Io traducevo dall’inglese. Quella volta, diciamo fosse il 1992, i siriani comprarono molte pezze, e Alfiero, per una volta felice lui che affrontava la vita con l’astio incessante dell’imprenditore, decise di invitarli a pranzo in una trattoria famosa per la sua griglia. Dopo le pappardelle sul papero, che i siriani gradirono moltissimo, ricevetti una telefonata dalla mia fidanzata, e dovetti uscire dal ristorante. Fu una telefonata piuttosto lunga e, quando rientrai, il capo dei siriani, addentando una costola di rosticciana, mi chiese di tradurre ad Alfiero: - Signor Nesi Alfiero, ma che carne è questa? E’ buonissima. Ora, non so se sapete cosa sia la rosticciana. E’ una specialità toscana. Sono le costolette del maiale cotte sulla brace, condite con sale e pepe, e spennellate d’olio con un rametto di rosmarino. Inorridito, vidi che sul tavolo campeggiava una grigliata mista, dalla quale i tre siriani pescavano con liberalità, dirigendosi proprio su quella carne che, non avendo mai mangiato, doveva sembrargli buonissima ed eccezionalmente saporita. Mi scusai col siriano e dissi sottovoce ad Alfiero che i siriani erano musulmani, e non potevano mangiare maiale per motivi religiosi. Alfiero mi guardò con lo sguardo vitreo. - Come? La religione? Icchè vuol dire? - Vuol dire che non gli devi dire che era maiale. Sennò si offendono e non comprano più lo stock. Alfiero mi fissò per un lungo attimo, mentre la comprensione di quel pensiero insostenibile si faceva strada dentro di lui. - Gli dico che era manzo? - Sì. E così fece. Eccola, l’accoglienza imperfetta.

Repubblica 14.7.12
L’introduzione di Fofi alla celebre opera della scrittrice che adesso torna in libreria in occasione del centenario della nascita
Il mondo di Elsa
In quei ragazzini tutte le speranze della Morante
di Goffredo Fofi

Nelle poesie, nei poemetti di Il mondo salvato dai ragazzini c’è la Morante dei romanzi già scritti, in particolare L’isola di Arturo, e di quelli ancora da scrivere, La Storia e Aracoeli, anche se a una prima lettura questi tre titoli sembrano così distanti e diversi tra loro. Il mondo salvato dai ragazzini è una sintesi sorprendente, comprensibile solo a distanza. Quando il libro uscì, nei primi mesi del ’68, non se ne comprese appieno l’ampiezza, la novità. Si era nel vivo di un movimento che in qualche modo era stato annunciato e invocato molti mesi prima dalla pubblicazione su «Nuovi Argomenti» della Canzone degli F. P. e degli I. M., letta con la dovuta attenzione da pochi, e tra questi dai collaboratori dei «Quaderni piacentini» su sollecitazione dello psicoanalista libertario Elvio Fachinelli. La causa? La distanza, che non è mai stata colmata e che anzi continua a crescere, tra chi agisce e chi pensa, o meglio: tra chi agisce e chi evoca e canta. E d’altronde il ’68 trovò molte simpatie in molti degnissimi rappresentanti delle generazioni precedenti, ma non fu tra loro che andò cercando i suoi maggiori. Non era prevedibile, il nostro ’68, quando Elsa scrisse la Canzone, nonostante le anticipazioni statunitensi. Ma era come se la Canzone lo prevedesse, fosse stata scritta con quella convinzione, e avesse eletto i suoi lettori tra coloro che, nelle università ma non solo, si sperava giungessero a ribellarsi. E Il mondo salvato dai ragazzini diventò dunque, volendolo essere, una voce nel deserto ma che si rivolgeva a lettori specifici, ai «ragazzini» delle ultime grandi rivolte possibili, ben oltre quelle della classe operaia dei gruppi e partiti marxisti passati e futuri. Alle definizioni del libro che Elsa Morante volle elencare nella quarta di copertina – «È un manifesto. È un memoriale. È un saggio filosofico. È un romanzo. È un’autobiografia. È un dialogo. È una tragedia. È una commedia. È un documentario a colori. È un fumetto. È una chiave magica. È un testamento. È una poesia» –, e che ci sembrano oggi tutte adeguate, ne mancavano forse due più prosaiche e banali: È un comizio, È una predica. Sembrano insulti e non lo sono, se appena si rende alle parole il loro significato più profondo: di invito (orazione) e di monito (spiegazione). Non si può comprendere appieno il valore di questo libro nella sua complessità e varietà e nel compendio che propone, se non si tiene conto della sua aspirazione a incidere nella realtà con i mezzi della poesia attraverso i lettori potenzialmente più ricettivi di tutti, i giovani, i nuovi. Ed è infine questo il risultato più ardito a cui la poesia abbia mai potuto aspirare. Veggente come l’amato Rimbaud (si conosce una piccola incisione moderna del volto di Rimbaud su cui la Morante ha scritto una dedica paradossale: «A Elsa, Arthur») e in quanto tale anche profeta: annunciatrice, suscitatrice. La funzione del poeta è, nella visione della Morante, la più alta possibile, è quella di chi deve mettere in guardia i lettori (il mondo) dai pericoli che covano al suo interno – il maggiore tra tutti quello dell’irrealtà –, ricordandogli la bellezza del vero, della realtà. Veggente sì, ma veggente, se così si può dire, armata, poiché è suo compito anche quello, da rendere il più possibile concreto, di affrontare «il drago notturno, per liberare la città atterrita». Sono pochi i poeti che, nei turbamenti e nelle tempeste del Novecento, hanno osato chiedere così tanto alla poesia: un’ambizione smisurata, che La Storia reitera reinventando il grande romanzo dell’Ottocento, e che non poteva non andare incontro alla dichiarazione di sconfitta, già cento volte intuita, narrata più tardi in Aracoeli. Poiché «fuori del Limbo non v’è Eliso». La Nota introduttiva alla prima edizione economica del libro, nel 1971, è assolutamente chiara nella definizione del progetto morantiano di poesia come politica e come religione. Pochi scrittori hanno osato assumersi un compito così arduo, scomodo e pesante, e pochi hanno chiesto così tanto alla poesia. Quando l’hanno fatto è stato in epoche di massima trasformazione, in epoche rivoluzionarie, quando lo scontro con il potere è stato più grave. E potremmo, di conseguenza e senza forzar troppo, considerare Il mondo salvato dai ragazzini come il documento più alto del ’68 e dei suoi dintorni – insieme a Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana e forse a Con- tro l’università di Guido Viale. Però con una profondità più radicale e in una luce assai più intensa, poiché la Morante sapeva vedere più indietro e più avanti; sapeva vedere oltre senza rinunciare a una leggibile precisione, a riferimenti comprensibili, senza mai dimenticare che bisogna parlare a tutti, ai ragazzini come alle professoresse, e soprattutto agli «analfabeti» della bellissima citazione da César Vallejo «por el analfabeto a quien escribo», che apre La Storia e che chiude, annunciando quella fatica, la prefazione del ’71 al Mondo salvato dai ragazzini. Questi due libri, che andrebbero letti insieme al saggio Pro o contro la bomba atomica, sono bensì libri di speranza e non di disperazione, di apertura e non di chiusura, ed è forse per questo, per il radicamento nel proprio tempo, per il dialogo forte col proprio tempo e per la scelta di lettori non abituali – gli studenti, «gli analfabeti» – che essi hanno faticato a venire accettati, non dai lettori – pochi per il primo, tanti per il secondo – ma dagli «alfabetizzati» per definizione: gli intellettuali letterati e critici e artisti suoi contemporanei (con le debite eccezioni in coloro che sapevano capire, e cioè nei grandi poeti dalle visioni più larghe: c’è stato infatti un tempo, ancora molto vicino a noi ma che oggi ci appare lontanissimo, in cui c’era ancora chi sapeva ascoltare per tradurla nella nostra povera lingua la felliniana – leopardiana – «voce della luna»). Forse il rapporto da indagare con più attenzione, se qualcuno vorrà mai farlo, è quello tra Elsa e Pasolini, amici-e-lontani perché al tempo della rivolta dei «ragazzini » fu assai diverso il loro modo di reagire alla novità che quei ragazzini portavano. E se ognuno deve qualcosa all’altro, è pur vero che tra il «pazzariello» ideale della Morante e il «pazzariello » ideale di Pasolini la distanza è assai grande. Dietro quello morantiano c’è pur sempre l’Arthur/Arturo/Artú dell’Isola e c’è la sconfitta del suo sogno di avventura liberatoria o semplicemente di un’età adulta da «eroe» in grado di controllare il proprio destino che, nel Mondo, è quella di Edipo, folgorato dalla conoscenza e dalla sofferenza che ne consegue e che sarà più tardi quella, ancor più cupa, di Aracoeli. Dietro il «pazzariello » pasoliniano (che nei film, e si pensa soprattutto all’episodio più ardito ed esemplare, quello del Fiore di carta, ha i tratti di Ninetto Davoli) c’è una materialità che contrappone alla Storia la Natura, la cui spontanea bellezza è uccisa dalla concretezza di una trasformazione economica e di un’evoluzione sociale piuttosto che dal metafisico cozzo dell’esperienza con la vita, dalla comprensione dell’inguaribile povertà della propria condizione – dell’umana condizione. (...) C’è un breve testo postumo di Elsa Morante che risale agli anni in cui il movimento dei «ragazzini » andava perdendosi in interne diatribe e nel ritorno a una visione della politica di stampo partitico e leninista, verticistico e autoritario, ancora una volta ragionando soltanto in funzione della «presa del potere». È il Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito), che sembra una spiegazione o un’aggiunta didascalica ai temi più immediati del Mondo: la rivoluzione è una «assoluta necessità », ma il suo compito è «liberare tutti gli uomini dal Potere affinché il loro spirito sia libero». L’esercizio del potere è un vizio degradante, un vizio che rende ciechi alla realtà: questa la persuasione che avrebbe dovuto fare della rivolta dei ragazzini una svolta, mentre così non è stato. È per ricordarlo un’ultima volta, che Elsa ha scritto La Storia, un romanzo dal titolo così ambizioso, e tuttavia così leggibile, accessibile, il cui scopo è mettere in guardia da quanto la Storia da sempre riserva agli umani, poiché padroni ne diventano coloro che ambiscono al Potere e fanno di tutto per averlo. Se anche i giovani, se anche il ’68 rischiano di lasciarsi trascinare da questa abituale deriva, il romanzo La Storia sarà per Elsa l’ultimo appello, l’ultimo memento. (...) Quando Elsa scrive Aracoeli, la sua speranza nell’anti-potere della poesia come religione e politica, come filosofia, è ormai morta: ciò che aveva temuto è accaduto, anche da quest’ultimo scontro con il drago dell’irrealtà ella è uscita sconfitta. Come i suoi amati Felici Pochi, nel cui elenco noi possiamo includerla senza paura di sbagliare. E il problema non è la sua sconfitta, ma quella, ancora una volta, del mondo.
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Repubblica 14.7.12
Bellocchio e Ciprì alla Mostra di Venezia con il nuovo Malick
In anteprima ecco alcuni titoli in gara al Lido
Bella addormentata di Marco Bellocchio, in concorso a Venezia
di Arianna Finos


ROMA Una Mostra snella, ma che non si fa mancare niente. Annunciati i giurati (Matteo Garrone, Marina Abramovic, Laetitia Casta, Peter Ho-Sun Chan, Ari Folman, Ursula Meier, Samantha Morton, Pablo Trapero) che affiancheranno il presidente Michael Mann, a dieci giorni dalla conferenza ufficiale, si delinea il cartellone del festival del cinema di Venezia che partirà il 29 agosto: il neo-direttore Alberto Barbera mette insieme maestri centenari e giovani talenti, divi americani e autori asiatici, film destinati a far discutere e opere di struggente poesia. Ecco i maestri Terrence Malick e Manoel De Oliveira, Robert Redford e Takeshi Kitano. Nell’Italia del concorso i nomi certi sono Marco Bellocchio e Daniele Ciprì. A due anni dalla Palma vinta a Cannes con The tree of life, Malick, l’autore più schivo del cinema mondiale porta al lido To the Wonder, storia d’amore con Ben Affleck e Rachel McAdams. Pronto per Venezia anche The company you keep di Robert Redford, il cui il regista e attore interpreta un ex-militante politico. Punta sull’attualità e farà discutere per l’inevitabile rimando a Scientology The Master di Paul Thomas Anderson: Joaquin Phoenix è irretito da una setta guidata da un leader carismatico, Philip Seymour Hoffman in versione Ron Hubbard. Ancora aperti i giochi per gli italiani. Certi La bella addormentatache, ispirato al caso di Eluana, ha già suscitato polemiche, e È stato il figlio, primo film di Ciprì senza Maresco, su un omicidio di mafia che sconvolge una famiglia. Protagonista, di entrambi, Toni Servillo. Potrebbero essere al Lido anche Giuseppe Piccioni con Il rosso e il blu, Giorgio Diritti (La vanità delle vanità, girato in Amazzonia), Paolo Virzi (Tutti i Santi giorni) e Cristina Comencini (Un giorno speciale). Sfumate invece le ipotesi Soldini, Castellitto (al Festival di Roma) e Salvatores (a quello di Berlino). All’Inghilterra ecco Anna Kareninadi Joe Wright con Keira Knightley e Jude Law. Per il glamour d’autore c’è anche il divo Ryan Gosling, in versione platino nel film The place beyond the pines di Derek Cianfrance. Dal Portogallo Manoel De Oliveria, 104 anni, con Gemo e l’ombra. Monica Bellucci è protagonista di Le stagioni del rinoceronte, dell’iraniano in esilio Bahman Ghobadi. La danese Susanne Bier presenta una commedia girata in Italia, Love is all you need. Tra gli altri anche Olivier Assayas, Johnnie To, Kim Ki-Duk, Francoise Ozon e Rama Burshstein.