giovedì 2 agosto 2007

Magazine del Corriere della Sera n.31 2 agosto 2007
Roberto Colderoli pensava che Freud fosse un po' un maniaco sessuale. Elena Sofia Ricci ha fatto 15 anni di terapia junghiana. Anna Serafini sostiene che tutti i politici dovrebbero finire sul lettino. La psicoanalisi divide
Prestigiacomo sogna topi. Ma Mentana è scettico
TUTTI SUL LETTINO
di Marta Serafini

Ma con riserva. Perché oggi, nonostante il re della moda Stefano Gabbana l'abbia scoperta e apprezzata, la psicoanalisi non gode di ottima salute.
E sarà perché nessuno ormai ha più tempo e voglia di andare a scavare nel passato o forse perché alcuni preferiscono iscriversi in palestra piuttosto che stare a ricamare sui sogni, ecco allora che l'intellighenzia italiana si scopre un po' perplessa in merito.
A partire da Enrico Mentana caustico come sempre: «L'analisi non mi incuriosisce più di tanto. Sebbene abbia tanti amici che ne sono entusiasti, la ritengo una moda sorpassata, è diventata come un film di Woody Allen. Certo la psicoanalisi è come la patente. lo non l'ho presa, ma non per questo vuoi dire che sia inutile e che non serva per guidare». Deve tutto alla psicoanalisi, invece, l'attrice Elena Sofia Ricci che, dopo 15 anni di terapia junghiana, dei suo medico (un noto neuropsichiatra infantile) è diventata persino amica: «Avevo un tappo da togliere alla mia personalità repressa e ammutolita. Ero una ragazza dipendente, poi un giorno ho raccontato all'analista che sognavo spesso di entrare nella mia automobile. A quel punto lui ha capito che dovevo prendere possesso del mio sé». Caso di auto-coscienza o in analisi tutto può voler dire il contrario di tutto? Risponde lo psicoanalista Umberto Galimberti «Certo, in questo momento la filosofia ha più chanches della psicoanalisi dato che il suo sforzo di ricerca tende al futuro. E, se la metafora freudiana (che guarda più al passato) non funziona più, possiamo dire che l'interpretazione adleriana (vedi box a pag. 34) risponde meglio ai bisogni della nostra epoca basata sulla tecnica».
A metà tra lo scettico e il divertito Carlo Freccero, ex presidente Rai: «Non sapete quanta gente della tv conosco che avrebbe bisogno dello psicoanalista», scherza. «La mia terapia è stata senza dubbio la Rai. ma devo dire che la psicoanalisi mi affascina soprattutto nella sua interpretazione lacaniana. Per la mia generazione ha indubbiamente rappresentato una grande narrazione collettiva». E se dall'analista ci vanno giornalisti, attori e autori, tocca anche ai politici mettersi sul lettino. Basti pensare a Fausto Bertinotti. presidente della Camera. che ha eletto suo guru personale Massimo Fagioli, analista ribelle e inventore delle sedute oceaniche. Più per l'autoanalisi l'onorevole di Forza Italia Stefania Prestigiacomo: «Io cerco di fare senza, ma in alcuni casi aiuta: una mia amica si è salvata dall'anoressia grazie alla terapia». Sogno ricorrente? «Per anni mi sono svegliata urlando per colpa dei topi. E io odio i topi. Mi hanno detto però che significano soldi in arrivo, ma ne avrei fatto volentieri a meno». dice confondendo credenza popolare e scienza. Ripone fiducia nei seguaci di Freud il senatore in quota leghista Roberto Calderoli. che di psiche si è dilettato da studente universitario: «Freud mi ha sempre attratto, anche se per certi aspetti mi sembrava un maniaco sessuale con le sue allusioni falliche». E chi manderebbe dei suoi colleghi sul lettino? «Tutti quelli che contestano per il gusto di contestare e che poi votano solo per interesse di cadrega (poltrona, ndr). Probabilmente questi signori hanno complessi quadrifallici!». A favore delle sedute collettive a Montecitorio la senatrice del Partito Democratico Anna Serafini, lacaniana abbastanza convinta: «Tutti i politici ne hanno bisogno. Cosa succede se il narcisismo si lega a una attività altruista come la politica? In Parlamento c'è eccessiva concitazione, ma a ben vedere ci si muove tanto anche per impedire che qualcosa si muova. E questa non è forse una nevrosi?». Sarebbe stato d'accordo pure Tomasi di Lampedusa: lui di analisi psicoanalitiche sul potere di sicuro se ne intendeva.

martedì 31 luglio 2007

Associazione RossoVerde 31.7.07
Costituente e partecipazione: se non ora quando?
Aprire la fase costituente di un nuovo soggetto politico della sinistra italiana


Siamo davvero ad un passaggio cruciale, la sinistra rischia la marginalizzazione o addirittura la scomparsa.
Può accadere in Europa ed anche in Italia, dove i processi di americanizzazione hanno scavato fin nelle viscere della società. Una politica separata dalla vita reale delle persone ed una società senza sinistra, con i conflitti sociali ridotti a “ribellismo” marginale ed ininfluente.
La stessa vicenda delle pensioni e della riforma del welfare ci dice che siamo difronte ad un passaggio cruciale.
Se questa è la posta in gioco, è sempre più urgente il percorso verso un nuovo soggetto politico unitario e plurale della sinistra: se non ora quando?
Una sinistra nuova che sappia innovare, a partire dai fondamenti, le culture e le pratiche politiche del ‘900 e che abbia una vocazione di massa e popolare in grado di incidere e di rifondare un pensiero critico per la trasformazione del modello economico-sociale neoliberista. Una sinistra che sappia porsi l’obiettivo di governare i processi di trasformazione. Una sinistra di popolo.
Dunque una sinistra nuova per una rinnovata rappresentanza politica del lavoro, capace di misurarsi con le sfide del mondo contemporaneo a partire dalla drammatica crisi ecologica planetaria, come abbiamo scritto nel manifesto di Orvieto dello scorso anno, redatto da diverse associazioni della sinistra.
Se questo è il cimento, nessuna delle attuali formazioni politiche della sinistra può farcela da sola.
Abbiamo contribuito, assieme ad altri soggetti politici ed associativi, alla nascita della sezione italiana della Sinistra europea con l’assemblea di giugno alla Fiera di Roma.
Ora, Sinistra europea, utile al processo unitario, va sviluppata e costruita nei territori insieme alle Case della Sinistra, moderne case del popolo.
Se è veramente condiviso l’obiettivo strategico di un nuovo soggetto della sinistra, non serve né sciogliere, né confluire, né accelerare, né frenare: basta andare avanti.
Saranno i soggetti che partecipano al percorso a decidere modalità e tempi. Ma è proprio sui soggetti del percorso che avvertiamo sempre più acutamente un’insufficienza.
Non bastano i partiti, che pure hanno compiuto importanti atti unitari, ma nemmeno, per essere chiari, associazioni o pezzi di movimento, serve un forte protagonismo dal basso e dai territori.
Un vero e proprio percorso costituente che restituisca lo scettro al principe, ossia consegni la titolarità del percorso unitario al popolo della sinistra, individuando forme e modi per attivare una partecipazione reale e consapevole che conti e decida.
Proponiamo di affidare ad un gruppo composto da autorevoli figure, donne e uomini della sinistra italiana, unanimemente riconosciute, il compito di avanzare una proposta per il percorso costituente da fare subito, accanto ad una mobilitazione che rilanci la questione sociale nel nostro Paese.
Quello che importa è uscire da una situazione che appare in stallo e che potrebbe favorire il prevalere di piccole convenienze. Accorciamo con buone pratiche partecipative, la distanza tra la politica e la società. Serve un percorso partecipato nel quale il popolo della sinistra prenda parola.
Non avremo un’altra possibilità.
Qui ed ora potremo farcela solo con una forte connessione sentimentale con le donne e gli uomini della sinistra del nostro Paese. Siano loro a decidere sui valori, sui contenuti ed i programmi per la sinistra nuova del Terzo millennio. Per il Socialismo del XXI secolo.

Per contributi e adesioni: www.rossoverde.org

Corriere della Sera 31.7.07
Giordano: «Programma stravolto. Liberi di votare contro»
intervista di Maria Teresa Meli


Franco Giordano, segretario di Rifondazione replica a Rutelli: «Non ricattiamo il
governo. Lui ha cancellato il programma. Se la riforma delle pensioni e l'accordo sul Welfare non vengono cambiati, noi in Parlamento voteremo contro».
Giordano: il vero ricatto è di Rutelli Non votiamo né welfare né pensioni
«Stracciato il programma: il Prc non si riconosce in lui, nel premier e in D'Alema»

PRECARIATO. La lotta al precariato è uno dei nostri obiettivi: ma ora non se ne parla più, se non per usare strumentalmente i giovani contro i diritti dei lavoratori e dei pensionati
LEALTÀ. La verità è che noi in questo anno e mezzo siamo stati sin troppo leali... e siamo stati facili profeti quando abbiamo detto che il Pd avrebbe destabilizzato il governo
SINISTRA. A questo punto la collocazione neocentrista del Pd è chiarissima: questo rende ancor più necessaria la creazione di un nuovo soggetto della sinistra

Onorevole Giordano, il vicepremier Francesco Rutelli, nell'intervista al Corriere della Sera, è chiaro: basta ricatti delle minoranze.
«È un'intervista sconcertante. Rutelli dice: siccome comandiamo noi, a voi non resta che obbedire. Una concezione autoritaria della politica, e non dico altro... ».
Autoritaria o no, questa è la sua posizione. E anche Prodi vi ha avvertito che sul Welfare non torna indietro.
«Rutelli ha cancellato la parola che ci teneva uniti, cioè il programma. Ora il programma non c'è più. E allora bisogna ricontrattare tutto daccapo».
Ossia?
«Il programma per noi era un vincolo di fiducia. Non c'è più e io non posso sentirmi rappresentato da un presidente del Consiglio e da due vicepremier che appartengono allo stesso partito».
Che significa?
«Significa che da ora in poi ci deve essere un luogo collegiale, e questo vale non solo per le decisioni della maggioranza, ma anche per quelle del governo, in cui si decidono insieme tutti i provvedimenti. Prima non ce n'era bisogno perché c'era il programma in cui ci riconoscevamo tutti. Ora che non è più così non si può pensare che io mi affidi ai rappresentanti del Pd nell'esecutivo ».
Ma Rutelli ha detto un'ovvietà, ossia che la forza maggiore del centrosinistra, l'Ulivo, insomma il Partito democratico che verrà, terrà il timone del governo. Potrebbe essere il contrario?
«Rutelli è anche simpatico per certi versi. Sembra uno che ha aperto una scuola guida e che si dà da solo la patente. Ma io gli chiedo: ah, Rutelli, chi ti ha dato la patente?».
Scusi, Giordano, però la sinistra radicale non può neanche pretendere di dettare l'agenda del governo e di distribuire patenti.
«La verità è che noi in questo anno e mezzo siamo stati sin troppo leali...
e siamo stati facili profeti quando abbiamo detto che il Partito Democratico avrebbe destabilizzato il governo. Basta leggere l'intervista di Rutelli e il suo "manifesto" per capire che il vicepremier ha messo in mora non solo il programma del centrosinistra ma l'Unione stessa. E a noi viene riservato il posto che hanno le minoranze nel Labour Party o nella Spd. Peccato che tutta la sinistra unita non sia né una minoranza né un'articolazione insignificante del Pd».
Sarà vero quello che lei dice, Giordano, dopodiché Rutelli pone un problema.
«Rutelli dice che noi ricattiamo il governo. Non è così. Ma non voglio neanche essere ricattato io: non mi si può porre di fronte all'alternativa o fate così o arriva Berlusconi».
Ma l'alternativa è quella
«E io mi ci sottraggo. Se la riforma delle pensioni e l'accordo sul Welfare non vengono cambiati, noi in Parlamento voteremo contro ».
Anche a costo di far cadere il governo?
«Le ripeto, io a questo gioco non ci sto: se questi provvedimenti non cambiano noi non li voteremo. Non accetto questo ricatto anche perché Rutelli punta alla cancellazione non della sinistra radicale ma della sinistra "tout court". A questo punto la collocazione neocentrista del Pd è chiarissima: questo rende ancor più necessaria la creazione di un nuovo soggetto della sinistra del Pd è chiarissima. E questo rende ancor più necessaria la creazione di un nuovo soggetto della sinistra, che non accetti la trappola del prendere o lasciare. Noi in autunno mobiliteremo il popolo del centrosinistra che è stato defraudato, con la costruzione del Pd, del suo programma e della sua coalizione».
Sia sincero, Giordano, se Prodi, come dice il suo portavoce Silvio Sircana, non farà un passo indietro, lo farete voi.
«No».
Scusi l'insistenza, anche a costo di fare cadere il governo?
«Insistenza per insistenza, io insisto: se la mobilitazione sociale di settembre non riuscirà a cambiare quei provvedimenti, noi voteremo contro».
E non vi sentirete responsabili degli esiti di una simile decisione?
«Responsabili? Io non so chi frequenti Rutelli in questo periodo, so che lui ha come punto di riferimento un generico cittadino consumatore, noi dobbiamo difendere gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, dobbiamo ricostruire lo spirito dell'Unione ed evitare una clamorosa rottura tra categorie sindacali. Se questa è una colpa, allora noi siamo colpevoli».
Colpevoli, dice qualcuno, anche di difendere i garantiti, ossia i pensionati, rispetto a coloro che garantiti non sono, ossia i precari.
«Falsissimo. La lotta al precariato è uno dei nostri obiettivi. Era il leit motiv della campagna elettorale dell'Unione, a dire il vero. Ma ora non se ne parla più, se non per usare strumentalmente i giovani contro i diritti dei lavoratori e dei pensionati. Il problema è che, come si deduce sentendo il ministro dell'Econom ia, Tommaso Padoa-Schioppa, per alcuni le coperture finanziarie non ci sono, mentre per le imprese ci sono sempre. Questa è la linea dei tecnocrati, ed è la linea monetarista della Confindustria, di cui il Partito democratico si è fatto portatore».
Ma è proprio sicuro, Giordano, che il suo non sia solo un problema di visibilità?
«La sinistra non ha nessun patema di questo tipo. Noi ci atteniamo al merito dei problemi, sperando di non continuare a subire condizionamenti esterni dalla politica di cui il Pd è allo stesso tempo veicolo e volano».

Repubblica 31.7.07
Il ministro Fabio Mussi critico sul protocollo-welfare: competitività non è solo tagliare il costo del lavoro
Intollerabile che si faccia passare per ricatto quello che è un legittimo dissenso
intervista di Luisa Grion


"Non vado in piazza contro il governo ma quell’accordo deve cambiare"
Mi paragonano alla Banda dei quattro? Voglio fare la parte della vedova di Mao

ROMA - Chiarisce subito la sua posizione: «Voglio che il governo resti in carica, credo nella mediazione e nel dibattito parlamentare, ma non tollero che si faccia passare per ricatto quello che è un legittimo dissenso». Fabio Mussi, ministro della Ricerca fa parte di quel terzo della maggioranza contraria al Protocollo sul Welfare. Favorevole all´accordo sulle pensioni - «è un compromesso equilibrato» - non accetta la parte riguardante competitività e lavoro.
Ministro, il Protocollo venerdì andrà al Consiglio dei ministri e probabilmente sarà approvato. Lei cosa farà?
«Darò battaglia politica. E comincerò chiedendo che si apra un tavolo per discutere delle vere questioni riguardanti la competitività, e che il capitolo sul lavoro non sia inserito nella Finanziaria, ma presentato come disegno di legge, in modo da lasciar spazio al dibattito politico».
Perché è contrario a due delle tre parti del Protocollo?
«Perché per quanto riguarda la competitività se ne parla solo in termini di taglio del costo di lavoro. Su innovazione, ricerca, formazione, impegno da parte delle aziende non c´è nulla. Per quanto riguarda il lavoro cosa dire se non che rispetto alle aspettative il risultato è molto deludente?».
Rutelli ha appena detto che gli accordi non si toccano e che è ora di finirla con i ricatti.
«Non accetto che un atteggiamento critico meditato venga bollato come ricatto. Anche perché tutte le volte che Rutelli ha espresso un´opinione nessuno ha parlato di ricatti da parte del centro. Su questo punto voglio essere chiaro: c´è una sinistra parlamentare con 150 rappresentanti, la sua voce ha tutti i numeri per avere un peso. Il partito democratico non ha né i voti, né i seggi per aspirare ad un monocolore, quindi il programma comune va rispettato».
E se la coalizione litiga sul modo di leggere quel programma?
«Se ne parla. Il programma delle elezioni non va più bene? Si ricontratta, vediamo cosa far cadere e cosa mantenere».
I suoi colleghi della sinistra radicale dicono intanto di voler far ricorso alla piazza. Condivide questa posizione?
«Portare la gente in piazza è un rischio, io sono per un dibattito politico che incida sulla linea del governo. Ma se invece di manifestazione contro il governo parliamo di pubbliche discussioni, di immersioni nella realtà del paese bene, credo che ciò sarà buona cosa per tutti».
E se intanto che si dibatte il governo di cui si fa parte cade?
«Una caduta del governo per mano della sinistra è assolutamente da evitare, ma questo non vuol dire piegare la testa e accettare tutto quello che si decide nello spazio assai variegato del nascente partito democratico».
Qual è l'attacco più forte oggi, quello centrista o quello radicale?
«Vedo crescere le vocazioni centriste, ma collegandole alla nascita del Pd credo che la tendenza sia ineluttabile».
L'opposizione ha paragonato i ministri della sinistra radicale alla Banda dei quattro. Lei rivestirebbe il ruolo del «teorico» Zang Chunqiao. Come si trova in quella parte?
«Beh, allora voglio fare la parte della leader: Jiang Qing, la vedova di Mao».

l’Unità 31.7.07
L’Unione: «L’accordo va inserito nella Finanziaria»
La risoluzione alla Camera sul Dpef. Ma infuria la polemica tra le varie anime della maggioranza
di Laura Matteucci


L’autunno si vedrà, ma l’estate è di certo parecchio calda. Nonostante le rassicurazioni di Prodi, che si dice «tranquillissimo», il protocollo sul welfare che ha fatto esplodere il conflitto tra sinistra e riformisti resta una mina vagante per governo e maggioranza. L’Unione nel frattempo inserisce alla Camera nella risoluzione del Dpef l’impegno per il governo di introdurre in Finanziaria anche gli interventi che riguardano «la modernizzazione ed estensione del sistema del welfare», ricorrendo alla riprogrammazione della spesa e senza aumentare la pressione fiscale. Un passaggio simile c’era anche nel documento del Senato, ma senza il riferimento alla Finanziaria.
Ma sul protocollo della discordia è sempre polemica. Intervistato dal Corriere della sera, il vicepremier Francesco Rutelli parla di «sostanza intoccabile». E detta l’aut-aut alla sinistra: no ai ricatti e agli estremismi, Rifondazione smetta di cavalcare tutte le proteste. «Vogliono concorrere a governare o sventolare le loro bandiere?», dice.
Immediate le repliche: «La carriera politica di Rutelli non è un esempio di coerenza - dice la capogruppo Pdci-Verdi al Senato Manuela Palermi - Non è legittimo che si permetta di dare lezioni di morale e di considerare ricatti le nostre scelte politiche, appunto la nostra coerenza». «Non ci sentiamo vincolati alla maggioranza - continua - quando non rispetta gli impegni sottoscritti nel Programma».
Le critiche riguardano in particolare straordinari e precariato, punti che «devono venire modificati in Parlamento», insiste la sinistra.
Mentre Confcommercio annuncia che non sottoscriverà il documento, poichè «le proposte sono modeste», torna sulla questione anche la Cgil, con il segretario confederale Fulvio Fammoni che parla di «diversità» tra i testi consegnati «con scelta unilaterale del governo come non più emendabili» e quelli discussi negli incontri tecnici.
Fammoni elenca i punti «non corrispondenti». Sullo staff leasing, «ci è sempre stata proposta l’abrogazione che invece nel testo finale scompare». Per il lavoro a chiamata «è stata inserita una mai discussa ipotesi di part-time breve». Sui contratti a termine «non solo manca la perentorietà della stabilizzazione dopo i 36 mesi, ma la norma risulta a favore delle imprese, con la trasformazione a tempo indeterminato solo in caso di mancato rispetto delle procedure».
Per il tempo determinato si era concordato che stagionalità, sostituzioni e avvio di attività fossero le uniche attività escluse dai limiti massimi fissati dai Contratti collettivi. Adesso la norma non lo prevede.

l’Unità 31.7.07
Strage di Bologna, un video per ricordare
di Adriana Comaschi


Il filmato dei registi Cicco e Loli andrà in onda giovedì prossimo su History Channel

SI VEDONO i primi cadaveri, coperti da semplici tovaglie, persone che inciampano nei detriti dell’esplosione, si sente la voce di chi offre sangue o cerca qualcu-
no abilitato a guidare un’ambulanza. Non sono le riprese dell’ennesimo attentato in Iraq, ma quelle effettuate da due giovanissimi cameramen, Enzo Cicco e Giorgio Lolli, a pochi minuti dalla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, che a 27 anni di distanza Sky ripropone nella loro versione integrale. Immagini in gran parte inedite che meglio di ogni parola raccontano lo smarrimento e insieme la compostezza dei bolognesi davanti alla più grande strage di civili del dopoguerra: 85 morti, 218 feriti. La più giovane delle vittime, Angela Fresu, doveva cominciare la scuola materna in autunno: oggi avrebbe 30 anni.
I quaranta minuti di video, senza interruzioni pubblicitarie, andranno in onda su History Channel nel giorno dell’anniversario, giovedì, alle 10.25 (repliche alle 19.05 e alle 22), la stessa ora in cui un’esplosione squarciò la sala attesa e parte del primo binario, in una stazione gremita per l’esodo estivo. Un modo per riaccendere i riflettori su uno degli episodi più oscuri della nostra storia, maturato nell’intreccio perverso tra terrorismo nero e frange dei servizi segreti in contatto con la loggia massonica P2 di Licio Gelli. Il filmato di Cicco e Lolli scorre senza commenti, a corredo solo le voci dei presenti, dei mezzi di soccorso e delle forze dell’ordine. Si percepisce l’incredulità di chi chiede, «parlano di una trentina di vittime, possibile?». E intanto si scorgono i primi corpi stesi sul piazzale antistante, come quello di un tassista, mentre le auto gialle vengono spinte via per fare spazio alle ambulanze e le barelle escono dalla stazione. Poi piano piano la telecamera si addentra tra le macerie: scene fortissime.
Solo una parte del filmato era stata finora messa in rete sul sito dell’Associazione familiari e vittime della strage, così come solo alcuni stralci erano stati mandati in onda in una puntata della Notte della Repubblica di Zavoli, sulla Rai. «Anche Mediaset le ha acquisite due mesi fa - racconta Cicco - per la sua trasmissione ”Terra”», dedicata alle polemiche sulla colpevolezza di Mambro e Fioravanti (condannati in via definitiva nel ‘95 come autori materiali della strage). Quello di giovedì allora è un appuntamento di rilievo, soprattutto per il pubblico nazionale. Un appuntamento di cui si rallegra Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari e vittime: «È un contributo importante, Rai e Mediaset avrebbero fatto bene a fare altrettanto invece di ospitare terroristi (la Mambro, ndr) in tutte le salse. Speriamo che questo video sia fatto vedere nelle scuole, per far capire che il terrorismo non è solo quello dell’Iraq».
Sotto le due torri intanto si prepara la cerimonia di giovedì. Per giorni si è temuto che la commemorazione fosse oscurata da contestazioni al ministro del Lavoro Damiano, che quest’anno rappresenterà il governo, per il braccio di ferro che da settimane oppone Prodi e la sinistra radicale sulle pensioni. Ieri però Bolognesi ha tirato un respiro di sollievo: dopo Fiom e Rdb, anche il Prc ha fatto sapere che «non fischieremo Damiano». Il segretario provinciale Tiziano Loreti aveva già messo le mani avanti: i fischi «non si possono escludere», ma «non arriveranno da noi». Un concetto che il Prc ieri ha sentito di dover ribadire a livello di segreteria nazionale. «Certo, avremmo preferito che fosse presente lo stesso Prodi o un ministro più legato a Bologna come Bersani - ha spiegato Imma Barbarossa - comunque invitiamo tutti i cittadini a una massiccia partecipazione contro aggressioni e provocazioni fasciste, in crescita soprattutto nella capitale». E se a contestare Damiano fosse qualche giovane dei centri sociali? Barbarossa si astiene: «Noi non li sconsigliamo come non li consigliamo, non è questo il nostro rapporto con loro».

l’Unità 31.7.07
Cronista russa, la figlia denuncia: la sua salute in pericolo
La giornalista Larisa Arap rinchiusa in manicomio dopo aver scritto articoli sull’uso dell’elettrochoc sui minorenni


NON SI PLACANO le manifestazioni di protesta per la cronista russa rinchiusa in manicomio. Sarà chiesto l'intervento dei difensori statali dei diritti umani nella vicenda di Larisa Arap, 48 anni, la giornalista di Murmansk ricoverata in un manicomio, secondo il movimento di opposizione cui appartiene, come vendetta per un suo articolo sull'elettrochoc praticato ai bambini nell'ospedale psichiatrico regionale. La donna, su richiesta della figlia Taisia, ha intanto interrotto lo sciopero della fame che aveva iniziato per protestare contro il suo trasferimento in una clinica per malati psichici cronici. «È molto debole, e la sua salute è in pericolo», ha riferito Marina Litvinovich, portavoce del Fronte civile unito, il movimento guidato dall'ex campione di scacchi Garry Kasparov, noto per le sue marce anti Putin. Movimento che ieri ha annunciato l'invio ufficiale di alcune lettere sulla vicenda a Vladimir Lukin, l'ombudsman russo per i diritti umani, e a Ella Pamfilova, presidente del consiglio per la promozione delle istituzioni civili e dei diritti umani. «Pensiamo che il caso di Larisa sia politicamente motivato e chiediamo che i dirigenti preposti alla difesa dei diritti umani intervengano», ha spiegato la Litvinovich.
La giornalista aveva scritto nelle scorse settimane su alcuni giornali locali dei cattivi trattamenti subiti dai pazienti nell'ospedale psichiatrico regionale e vi si è ritrovata ricoverata dopo essere andata in un ospedale a chiedere copia del certificato medico per la patente.
Il marito, Dmitri Terescin, ha sostenuto che alla moglie sono state praticate iniezioni di psicofarmaci mentre la figlia Taisia ha riferito che, alla sua richiesta di spiegazioni, un medico di turno le ha risposto beffardo: «sua madre dovrà fare un periodo di cure molto lungo e forse non uscirà mai».
La Arap si è iscritta al movimento di Kasparov sei mesi fa, dedicandosi ai problemi dei malati di mente. Nel 2004, ricordava ieri il quotidiano Kommersant, era già stata ricoverata per quattro giorni in un ospedale psichiatrico dopo aver denunciato le illecite attività finanziarie del direttore di una cooperativa immobiliare.
Il comitato regionale sanitario e un tribunale locale hanno riconosciuto come legittimo il ricovero, ma l'opposizione ha denunciato il rischio di un ritorno alla prassi comunista di usare la psichiatria contro la dissidenza politica.

l’Unità 31.7.07
Bergman, la vita è un film difficile
di Alberto Crespi


LUTTI Con Fellini, Bunuel, Kurosawa e pochi altri, è stato uno dei grandi padri del cinema del mondo. Aveva 89 anni, con i suoi film ha scavato l’anima per affrontare la morte. Ma c’è un altro Bergman, dolce e lieve che vi invitiamo a scoprire

«Tra i registi di oggi mi piace molto Steven Spielberg» (Ingmar Bergman). «Ho molto ammirato Bergman, e vorrei essere bravo come lui, ma non accadrà mai» (Steven Spielberg). Dite la verità, non ve lo aspettavate. Ma ci sono molte sorprese nella vita e nell’opera di Ingmar Bergman, classe 1918, morto ieri a 89 anni nel suo rifugio di Farö, l’isola svedese dove amava vivere, scrivere, riflettere e stupire il mondo. Bergman ci ha stupiti molte volte. Con i suoi film, certo, una sessantina di titoli dove si annidano numerosi capolavori.
Con le sue vicende personali, fatte di grandi amori e di dolorosi divorzi, ma anche di guai con il fisco svedese (nel ‘76 fu obbligato a riparare per qualche tempo in Germania) e di controverse dichiarazioni politiche (ormai anziano confessò di essere stato, da ragazzo, affascinato dal nazismo). E con le sue dichiarazioni, spesso sorprendenti, sui colleghi: detestava Orson Welles («è vuoto, falso, morto, ed è un pessimo attore»), apprezzava solo due film di Antonioni (Blow Up e La notte) e trovava gli altri «abissalmente noiosi», disprezzava Godard («fa film per i critici»). Amava sinceramente, almeno crediamo, Fellini, che incrociò diverse volte nella sua vita: a più riprese pensarono di fare un film a 4 mani, ma non se ne fece nulla, probabilmente erano troppo gelosi l’uno dell’altro (Federico disse: «Voleva vedere i miei giocattoli senza farmi vedere i suoi»). Chissà cosa pensava di Woody Allen, che lo idolatrava e avrebbe voluto essere come lui: nei suoi film «seri» (Interiors, Settembre) ha tentato di emularlo disperatamente, riuscendoci solo quando ha capito che Bergman non va imitato ma divorato, digerito e trasformato in qualcosa di completamente diverso (il vero film bergmaniano di Allen è Crimini e misfatti, dove il thriller e il dramma riescono a farsi commedia). Non c’è nulla di peggio dei «bergmanismi»: sono quasi peggio dei «fellinismi».
In realtà, non è così sorprendente che a Bergman piacesse Spielberg (e avesse stima di altri registi hollywoodiani come Coppola, Scorsese e il giovane Steven Soderbergh). Sotto l’apparenza solenne e ponderosa dei suoi film, il grande svedese era prima di tutto un burattinaio, un uomo di spettacolo, un illusionista. La sua vocazione nasce dal teatro di marionette con il quale giocava assieme alla sorella, e per tutta la vita ha probabilmente amato il teatro assai più del cinema. Come Fellini, e come Truffaut, ha usato i film per raccontare la propria vita: solo che il romagnolo si nascondeva dietro la forza evocativa dei sogni, mentre Bergman sapeva sprofondare, meglio di chiunque altro, nel realismo sconcertante degli incubi. In Italia ha avuto un curioso destino: i suoi film, regolarmente doppiati e distribuiti fin dagli anni ‘50, hanno contribuito a sdoganare il cinema nelle università e a dare alla settima arte una dignità accademica fin lì tutt’altro che scontata. Era come se, grazie a Bergman e a pochi altri (i soliti: Fellini, Bunuel, Welles...), il cinema diventasse finalmente una «cosa seria», da dibattito. Tutti i programmatori di cineclub, negli anni ‘60 e ‘70, sapevano che una personale di Bergman o Bunuel (magari con film visti e stravisti, in copie semidistrutte) attirava nuovi iscritti e rimpolpava le casse. Questo, assieme ai doppiaggi spesso pomposi e letterari, ha dato a noi italiani una visione distorta di questo grande imbonitore: lo vediamo come l’erede di Ibsen e Strindberg, e come il divulgatore cinematografico di Kierkegaard, mentre Bergman è anche, quando vuole, un artista lieve, mozartiano. Ci sono, nella sua carriera, opere e operette. Sapeva far tutto, è un continente in buona misura ancora inesplorato.
Per cominciare a esplorarlo, vi proponiamo due itinerari: cercate per quanto possibile di vedere i suoi film in originale (grazie ai dvd, oggi è possibile); e leggetelo. Bergman ha scritto alcuni libri splendidi. Lanterna magica (Garzanti) è un «romanzo autobiografico» di rara sincerità. Con le migliori intenzioni (anch’esso Garzanti) è un romanzo «biografico», nel senso che in esso Bergman racconta la storia dei propri genitori. «Fin dai tempi di Lanterna magica - scrive nella prefazione - ho coltivato l’idea di fare un film sugli anni giovanili dei miei genitori, sui primi tempi del loro matrimonio, sulle loro aspettative, i loro insuccessi e le loro “buone intenzioni”». E lo inizia così: «Scelgo un giorno di primavera agli inizi d’aprile del 1909. Henrik Bergman ha appena compiuto 23 anni e studia teologia all’università di Uppsala...». L’Io è subito in evidenza e il tempo della narrazione è il presente, perché il romanzo presuppone già la sceneggiatura, e poi il film (Con le migliori intenzioni verrà diretto da Bille August e vincerà la Palma d’oro a Cannes nel 1992). Figlio di un pastore, Bergman nasce a Uppsala il 14 luglio del 1918 e cresce nella Svezia fra le due guerre in un’atmosfera apparentemente borghese e ovattata, in realtà piena di tensioni: la futura opera del ragazzo, imperniata su rapporti familiari irrisolti e dolorosi, e la fascinazione per il vicino nazismo (la Svezia, ricordiamo, rimarrà neutrale durante la guerra) testimoniano una gioventù tormentata e problematica. A poco più di vent’anni comincia a scrivere drammi, uno dei quali (La morte di Kasper) gli procura i primi ingaggi come sceneggiatore. Nel 1944 un suo copione, Hets, diventa un film diretto da Alf Sjoberg. Esordisce come regista nel ‘46 con Crisi, cui seguono numerosi film oggi pressoché dimenticati: Bergman stesso considerava Prigione, del ‘49, il suo vero esordio. Diventa davvero grande negli anni ‘50: Donne in attesa (1952) e Monica e il desiderio (1953) sono i primi film di risonanza internazionale, Sorrisi di una notte d’estate (1955) è la prima deliziosa commedia, Il settimo sigillo (1957) è il «botto» che lo rende famoso nel mondo, Il posto delle fragole (ancora 1957) è il capolavoro indiscusso. Il resto è storia. Seguono altri capolavori come Il volto (1958), la cosiddetta «trilogia sull’assenza di Dio» composta da Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1962) e Il silenzio (1963), il lancinante, dolorosissimo Persona (1966), lo straordinario Sussurri e grida (1972), il televisivo e fluviale Scene da un matrimonio (1973), il meraviglioso Flauto magico (1975) in cui dichiara finalmente l’amore per Mozart, l’incontro con l’omonima (non parente) Ingrid in Sinfonia d’autunno (1978) fino alla summa - autobiografica, tanto per cambiare - di Fanny e Alexander (1982).
Figlio della grande drammaturgia nordica di Ibsen e Strindberg, si è detto. Ma non solo. Il Bergman regista di cinema rientra in una grande tradizione: altri pionieri del cinema scandinavo - Mauritz Stiller, Alf Sjoberg e soprattutto Victor Sjostrom, che lui volle come attore nel Posto delle fragole - gli avevano in qualche modo preparato il posto a tavola. Non si vuole certo sminuirlo affermando che nel cinema la sua grandezza è, nell’ordine: quella di un impeccabile sceneggiatore, di un sommo direttore di attori e infine, ma solo infine, di un regista visivamente geniale ma non più geniale di altri. Gli attori lo adoravano, al cinema come in teatro: e non è certo un caso che Max Von Sydow e Bibi Andersson abbiano fatto 13 film con lui, Ingrid Thulin e Liv Ullmann 10, Erland Josephson addirittura 14.
Come il solito Fellini, come Bunuel, Bergman era probabilmente un artista che amava il cinema non in sé, ma come strumento per parlare d’altro. Questo «altro» erano, in fondo, le relazioni umane, il vano dibattersi di uomini e donne per dare un senso alla propria vita. Tutti - anche se non siamo religiosi, né scandinavi - possiamo identificarci nel vecchio professore del Posto delle fragole o nell’attrice e nell’infermiera che duellano in Persona. In teatro e al cinema, Bergman metteva in scena la vita. E lui, nel retropalco o dietro la macchina da presa, tirava le fila: non a caso un suo film del 1980 - terribile, dimenticato e bellissimo - si intitola Un mondo di marionette.

l’Unità 31.7.07
Quei «folli» geniali del dottor Blanche
di Anna Lenzi


LA PAROLA e l’ascolto. Una terapia rivoluzionaria, quella praticata nella clinica di Parigi, che avrebbe segnato il passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi. E tra i pazienti artisti e scrittori famosi

La creatività ha qualcosa in comune con la follia? Tema antico. Controverso e dibattutissimo. Che potrebbe trovare conferma empirica nella sfilata di personaggi illustri che spuntano nel bel libro di Laure Murat La casa del dottor Blanche (Il Melangolo, 441 pagine, 25 euro). Concepita sul modello di una pensione familiare, la casa del dottor Esprit Blanche, fondata nel 1821 a Montmartre, poi trasferita a Passy, vide sfilare artisti del calibro di Gérard Nerval (su cui l’autrice si sofferma a lungo), Charles Gounod, Guy de Maupassant, che lì sarebbe morto di sifilide, Theo van Gogh, fratello del pittore Vincent.
Ma sono tante, e tutte interessanti e coinvolgenti, le tematiche che la Nurat affronta nel suo libro. Come la posizione della follia e dei pazzi nel XIX secolo (risalendo addirittura all’inaugurazione del primo manicomio a Parigi da parte di Pinel nel 1793). Le tecniche e le modalità di cura della follia allora in uso. Infine, la grande umanità e serietà professionale di una famiglia di medici, quella del dottor Blanche e del figlio, che da veri pionieri avevano iniziato una terapia insolita per l’epoca, quella della parola e dell’ascolto, destinata a segnare il passaggio fondante che va dalla psichiatria alla psicoanalisi. Forse nulla più di questa frase, densa di significato, citata nel necrologio del dottor Blanche, può dare l’idea di come intendesse la sua professione: «Per lui, medico della vecchia scuola, i malati di mente non erano casi patologici ma casi di persone profondamente infelici».
La famiglia Blanche nella successione di due generazioni aveva ugualmente implicato non solo la funzione del medico scrupoloso e attento ma anche il valido aiuto offerto loro dalle rispettive consorti che amorevolmente avevano continuato a prodigarsi aiutandoli a gestire i malati, ad organizzare la loro «casa» in funzione degli ospiti presenti, con alla base quello spirito di sacrificio e determinazione oggi sconosciuto e che unito all’autorevolezza del vero pater familias rivestito dai due medici nelle rispettive gestioni era stato determinante nel successo riscosso da «casa» Blanche. Istituzione osannata da ricchi e potenti che non esitavano a contendersi un posto per sistemarvi i propri familiari affetti dalle varie forme di malattie dell’anima.
I Blanche erano tuttavia conosciuti anche per la loro generosità, per il non pretendere niente da malati che non erano più in grado di pagare la retta richiesta. Al di la’ degli intrighi e delle storie familiari diverse, emerge dal libro quanto la follia sia stata sentita come una colpa, qualcosa da nascondere non meritevole di rispetto. Lo spirito del libro incalza con il racconto dei metodi di cura, con l’evolversi o la risoluzione delle malattie, con l’adattamento dei malati alle regole ferree imposte dal dottor Blanche adorato e rispettato, forse proprio perché in grado di rivestire quella figura di padre così unica e indispensabile per l’acquisizione di una buona salute mentale.
Il libro è complesso e denso di avvenimenti storici salienti come la sorte della «casa Blanche» durante la guerra del 1870, ed in particolare l’assedio di Parigi del 18 settembre che costrinse il dottor Blanche ed i suoi ospiti ad un tenore di vita rigidissimo. La posizione politica repubblicana assunta dal medico, la sua candidatura a consigliere municipale, completano il quadro di questo uomo integerrimo che anche se chiamato ogni giorno ad essere testimone delle sofferenze altrui non rimaneva passivo davanti ai problemi del suo tempo. Laure Murat conduce il lettore attraverso tutte queste vicende, che espone con tono brillante, con ironia e con una apprezzabile leggerezza stilistica. Qualità che fanno del libro, già interessante di per sé, anche un testo particolarmente godibile.
Proprio per questa ricchezza del libro, dispiace dover constatare come un recensore attento come Galimberti, parlandone su Repubblica, abbia citato solo il rapporto tra creatività e follia non cogliendo, aspetti più sottili ma importantissimi per individuare la vera «anima» del libro. Che è una testimonianza crudele delle ingiustizie legate al sesso femminile; del fatto che l’isteria fosse considerata tipicamente una malattia femminile legata alle frustrazioni sessuali; che il desiderio di autonomia di una donna nei confronti dell’autorità paterna fosse considerata una ragione per l’internamento; di come molto spesso le donne diventassero ladre o pazze quando avevano le mestruazioni o peggio ancora venissero ricoverate nei manicomi per privarle dei loro diritti, avvantaggiando padri insensibili o mariti avidi.
Una attenta disquisizione sulla capacità di intendere e di volere per quanto riguarda certi delitti così come i rapporti tra medicina pubblica e privata costituiscono altri punti salienti del libro sui quali non e’ possibile soprassedere perche’ di grande attualita’ anche oggi in quanto affrontano i complicati rapporti tra legge e follia, tra sanità pubblica e privata.
Un’ultima notazione. Curare la pubblicazione di un libro o tradurlo equivale oggi spesso ad un’arte non vantata. Mi vengono in mente le riflessioni di Michel Fumaroli a questo proposito. «Paragonabile al controverso talento del restauro di affreschi, quadri o celebri vetrate- afferma senza mezzi termini Fumaroli-,(l’arte di curare un libro) e’ apparentata ad un’altra arte trattata ingiustamente: la traduzione, a sua volta sorella maggiore dell’arte dell’adattamento scenico di romanzi o racconti. Mentre il più delle volte i curatori di testi,come i traduttori, rimangono nell’ombra, gli sceneggiatori e registi ricevono volentieri l’aureola di creatori. È in quei laboratori ignorati dal pubblico, invece, che viene messo a punto o riveduto il tallone aureo dei testi di ogni lingua, garantendone per quanto possibile la circolazione da una lingua all’altra, contro malintesi o malversazioni ….». Questa considerazioni di Fumaroli mi hanno riportato al momento in cui quel piccolo gioiello de La casa del dottor Blanche, scovato per caso alcuni anni fa in una piccola libreria del Quartiere Latino, colpì il mio interesse stimolando una curiosità viva. Ripagata dalla sua lettura frenetica. Così come dalla conversazione acuta e stimolante che in merito ebbi con Mauro Mancia. Autore della bella prefazione del libro e purtroppo di recente scomparso.

l’Unità 31.7.07
E Gounod fece scoprire il transfert

Otto mesi. Dal 21 marzo al 21 novembre 1841. Una semplice notazione sul registro della clinica: uscito. Che voleva dire che il trentenne Gérard de Nerval Labrunie tornava sì a casa, ma non poteva considerarsi guarito. E infatti il poeta, che nei suoi deliri vedeva «solo una sorta di trasfigurazione dei pensieri abituali, un sogno da sveglio» tornerà dopo qualche anno alla clinica Blanche.
Dove finirà i suoi giorni, in un delirio incessante scandito da allucinazioni, Guy de Maupassant, minato dalla sifilide, che trascorreva le sue giornate parlando con personaggi immaginari, ossessionato dal denaro, e senza più riconoscere gli amici che andavano a trovarlo.
La sifilide è il male che atterra Theo Van Gogh, internato dopo la morte del celebre fratello, dimesso con il giudizio «non guarito» e che finirà suicida, sei mesi dopo la morte di Vincent.
Benessere, creatività e stati di follia alternava il compositore Charles Gounod, che permise al dottor Blanche di scoprire un concetto centrale della terapia psicanalitica: il transfert.

Repubblica 31.7.07
Chi sono i nemici di Darwin
Cosa c’è dietro il tentativo di escluderlo dalla scuola. Perché la sua teoria è osteggiata
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Si fa confusione con deformazioni ottocentesche posteriori
Una costruzione fondata sulla selezione naturale

Tre anni orsono, il Ministero dell´Istruzione e della Ricerca decideva di escludere l´insegnamento dell´evoluzione dai programmi della scuola elementare e media, nella convinzione che la descrizione scientifica del mondo possa turbare le menti dei più giovani, cui sono più adatte le favole. A ripensarci sembra incredibile, ma andò proprio così. Il tentativo suscitò l´unanime protesta di ricercatori e insegnanti, ed è per fortuna fallito.
Spinge però a riflettere sulle ragioni dell´accanimento che perdura contro la teoria dell´evoluzione, che pur essendo una semplice interpretazione dei fatti del mondo, come ogni teoria scientifica, non è però meno robusta di quelle che descrivono il movimento dei pianeti, cui nessuno sembra più obiettare.
Vi sono alcuni fattori che spiegano in parte questa avversione, ad esempio l´influenza di alcuni filosofi postmoderni, che negano validità alle affermazioni della scienza. Vi è anche una confusione fra la teoria dell´evoluzione proposta da Darwin, basata sulla selezione naturale, e alcune deformazioni ottocentesche posteriori: una di queste è il darwinismo sociale, uno sviluppo politico cui Darwin non si associò mai e che contribuì ad alcune fra le peggiori forme di fascismo. La principale ragione per cui la teoria dell´evoluzione continua a trovare ostinati nemici ci sembra però risiedere nella diffusa ignoranza di ciò che essa afferma.
La teoria moderna dell´evoluzione comprende in realtà due sviluppi distinti, entrambi iniziati nel Novecento e tuttora fiorenti. Uno è la teoria matematica dell´evoluzione, creata negli anni Venti da tre genetisti, R.A. Fisher, J.B.S. Haldane e Sewall Wright. L´altro è lo studio del genoma, che è ora esteso a molti altri organismi oltre l´uomo. È un settore d´indagine assai giovane, ma chiaramente destinato a uno sviluppo gigantesco, grazie al progressivo abbassamento del costo dell´analisi chimica del Dna. Già i risultati finora ottenuti mostrano la straordinaria utilità di questo approccio anche per gli studi sull´evoluzione. Per questa strada infatti possiamo ricostruire in completo dettaglio tutti i passi della storia evolutiva, con limitazioni solo per gli organismi che sono da tempo estinti, di cui saremo forse costretti ad accontentarci di conoscenze parziali, perché il loro Dna è stato distrutto dal tempo.
Quando Mendel scoprì le leggi della trasmissione ereditaria non si conosceva ancora l´esistenza dei cromosomi. Quando Thomas Hunt Morgan dimostrò che i geni sono fisicamente parte dei cromosomi, si era ancora lontani dal capire quale fosse la sostanza chimica che contiene e trasmette l´informazione ereditaria. La teoria matematica dell´evoluzione nacque mettendo in numeri le leggi dell´eredità e le osservazioni di laboratorio, ben prima che si sapesse che cosa passa, materialmente, dai genitori ai figli. Ora che lo sappiamo e che la lettura dei singoli nucleotidi del Dna nelle più diverse specie viventi ci mette davanti agli occhi, come in un libro stampato, la storia delle singole specie e della loro differenziazione da antenati comuni, la strada percorsa dalla vita si manifesta con tale potenza da rendere molto difficile negare la realtà dell´evoluzione.
Se fino a qualche tempo fa potevano rimanere dubbi, che spingevano molte autorità a parlare dell´evoluzione come di un´"ipotesi", oggi l´evoluzione è una certezza, e ci stiamo avvicinando ad una comprensione pressoché completa.
Resta quindi necessario chiarire ai filosofi sprovveduti che cosa sia il darwinismo. La teoria di Darwin pone l´importanza centrale della selezione naturale come forza e guida dell´evoluzione, ammesso che vi sia variazione genetica, cioè ereditabile. Darwin aveva le idee errate comuni al suo tempo sull´origine della variazione genetica, che è stata compresa solo nel secolo scorso. Come praticamente tutti i suoi contemporanei, purtroppo non aveva tagliato le pagine degli atti della società delle scienze di Brno, in cui nel 1866 Mendel aveva pubblicato le sue famose leggi, che avrebbero potuto essere di aiuto. Ma perché la teoria della selezione naturale funzioni basta che vi sia variazione ereditaria, e non importa molto quale ne sia la base, se mutazioni genetiche o altro. Anche se storicamente non è corretto, la cosa più semplice è pensare al darwinismo come "mutazione e selezione naturale". La teoria matematica ha aggiunto altri due fattori fondamentali: drift e migrazione.
Il "drift", parola inglese che in italiano si traduce "deriva", è in pratica un effetto del caso, di origine strettamente statistica (di nuovo il caso, non solo nella mutazione!), che riguarda il numero di individui di un certo tipo genetico che compongono una popolazione. È un effetto che si manifesta ad ogni generazione, perché il numero di figli varia di famiglia in famiglia, e il numero di "riproduttori", cioè di persone che si riproducono, varia ad ogni generazione.
Una mutazione nuova si manifesta in un solo individuo: qual è la probabilità che sia ancora presente alla prossima generazione? Chiaramente, dipende dal numero di figli presente nella famiglia in cui la mutazione è comparsa, in uno dei genitori. Se i figli sono in numero di zero, la mutazione è perduta per sempre, o più esattamente fino a che non ricompaia in un altro individuo e in un altro tempo. Se la popolazione è stabile, cioè non aumenta né diminuisce, la mutazione viene perduta con una probabilità del 37%, secondo un teorema del calcolo delle probabilità. Con la stessa probabilità vi sarà un figlio che porta la mutazione, per cui la stessa situazione si ripeterà nella generazione successiva. Non vi è certezza, quindi, che una nuova mutazione si mantenga. Potrà però manifestarsi di nuovo nel futuro.
È chiaro che quando una mutazione porta vantaggio tenderà a diffondersi nel corso delle generazioni, e viceversa quando reca danno, ma la maggior parte delle mutazioni non ha effetto ai fini della selezione naturale: per lo meno, non ne ha in ogni ambiente e in ogni tempo. Per esempio, una mutazione che migliora la resistenza a un parassita sarà ininfluente se e quando quel parassita non è presente nell´ambiente di vita. Tali mutazioni si trasmetteranno da una generazione all´altra in modo del tutto fortuito: la loro frequenza nella popolazione potrà aumentare come diminuire da una popolazione all´altra, variando sull´onda del caso, senza subire l´effetto della selezione naturale.
Questo è il drift: la variazione casuale della frequenza di un gene in una popolazione. È un nome che può trarre in inganno, perché quando si parla di "deriva", nel linguaggio comune, ci si riferisce al movimento di un corpo sotto l´azione di una corrente, e le correnti marine, ad esempio, hanno di solito una direzione costante, mentre la frequenza di un gene può aumentate come diminuire, di generazione in generazione, sotto l´azione della deriva genetica. Per evitare ambiguità, si parla di "deriva genetica casuale".
Generalizzando, l´effetto del drift sul lungo periodo è di ridurre la variazione genetica ad ogni generazione, fino a rendere una popolazione completamente omogenea, cioè fatta di individui tutti geneticamente eguali. Il primo gene scoperto nell´uomo fu quello che dà origine ai gruppi sanguigni AB0, che sono dovuti a tre forme di uno stesso gene, designate, per l´appunto, come A, B e 0. La loro frequenza media nel mondo è rispettivamente del 22%, 12%, 66%. Se l´effetto del drift proseguisse per tutto il tempo necessario, fino ad esaurirsi, la specie umana risulterebbe tutta formata da individui di gruppo A, oppure B, oppure 0, con una probabilità che dipende dalle cifre appena dette.
Vi sono però due ragioni che rendono questo finale estremamente improbabile. La prima è che si tratta di un processo che in una specie delle dimensioni di quella umana richiede un tempo estremamente lungo per verificarsi. Infatti il tempo necessario è, in numero di generazioni, dell´ordine di grandezza del numero di individui che compongono la specie: si tratta quindi di miliardi di generazioni. Ma in una popolazione molto piccola, come quella di una colonia stabilita da un piccolo numero di fondatori e che magari abita un luogo isolato e non riceve più nuovi immigranti da fuori, un forte effetto del drift può manifestarsi in un numero di generazioni ben compatibile con la storia umana. Ve ne sono molti esempi, particolarmente chiari quando si tratta di malattie genetiche rare.
L´altro motivo per cui ben raramente la deriva genetica porta all´estremo la sua azione è che le popolazioni umane non vivono di solito del tutto isolate, ma ricevono immigranti dall´esterno, e che nuove mutazioni o fenomeni di selezione naturale possono ridurre l´effetto del drift.
La migrazione è un´altra forza evolutiva importante, che può modificare gli effetti del drift in entrambi i sensi, riducendoli oppure rafforzandoli. Di recente si è scoperto un effetto curioso nella genesi della specie umana oggi vivente, che ha tutta origine dall´espansione demografica di una piccola popolazione dell´Africa orientale, formata forse solo di un migliaio o di poche migliaia di persone, che si sono diffuse all´Asia occidentale e di lì all´Australia come all´Europa e più avanti alle Americhe. Questa colonizzazione progressiva al di fuori del continente africano è avvenuta ad opera di piccoli gruppi di pionieri, che via via si distaccavano dalla periferia degli insediamenti umani e aumentavano di numero, fino a che nuovi piccoli gruppi di pionieri si distaccavano per colonizzare regioni sempre più distanti dall´origine. Il processo è durato 50.000 anni ed è stato una diffusione regolare, che ha visto ad ogni passo un modesto gruppo di fondatori colonizzare una regione sempre più lontana. Il risultato è ancora visibile a livello genetico: è stato una perdita progressiva di variazione genetica con l´aumento della distanza dall´origine. Questo processo non ha avuto conseguenze negative rilevabili, ma dimostra una regolarità quasi incredibile. La migrazione regolare di piccoli gruppi dal punto di partenza verso la periferia ha avuto come effetto la riduzione della variazione genetica all´interno dei singoli gruppi: questa è una conseguenza del drift, la cui forza si fa sentire appunto all´interno dei gruppi di piccole dimensioni.
La migrazione ha più spesso però risultato opposto: riduce l´effetto del drift e tende a rendere omogenee popolazioni che si scambiano reciprocamente individui, e che se invece restassero isolate tenderebbero a differenziarsi le une dalle altre. Sarà questa la conseguenza della globalizzazione avviata dalle migrazioni planetarie verso i paesi di stato economico più elevato, che ridurrà la disparità genetica fra continenti prodotta dall´espansione umana degli ultimi 50.000 anni.
(5 – continua)

Repubblica Firenze 31.7.07
Dalla fucilazione dei 5 mugellani renitenti alla leva alle Fosse Ardeatine. Il filosofo invitava all'unità
Quel marzo '44, tempo di eccidi
E Calamandrei scrisse: l'attentato a Gentile è un atto di guerra
di Franca Selvatici


«Achille Totaro avrebbe dovuto, prima di parlare, calarsi nel clima della Firenze dell´aprile 1944 occupata dai tedeschi, terrorizzata dalla Banda Carità, mentre era in corso la guerra di liberazione?». Il giudice Giacomo Rocchi - che ha assolto il senatore di An dall´accusa di aver diffamato la memoria di Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro della Resistenza, definendolo «un assassino vigliacco» - sostiene che Totaro avrebbe dovuto «ovviamente» documentarsi se fosse stato uno storico, ma «sicuramente no» dal momento che intendeva svolgere un ragionamento politico.
Ma senza sapere che cos´erano l´Italia e Firenze in quella tragica primavera del ´44 si rischia di non capire niente dell´attentato mortale al filosofo Giovanni Gentile, che fu ucciso il 15 aprile ´44 da un commando di partigiani comunisti guidati da Fanciullacci. Un quadro vivido e drammatico di quei mesi è stato tracciato dallo storico (ed ex partigiano azionista) Carlo Francovich, nel suo libro «La Resistenza a Firenze» (La Nuova Italia). Francovich fu tra coloro che dissentirono dall´attentato a Gentile. Nel suo libro parla di «gloria piuttosto dubbia di questo gesto» e di «avvenimento luttuoso, in sé stesso deprecabilissimo». Ma tutto intorno era violenza, odio e disperazione. Firenze era occupata dai tedeschi e amministrata dai fascisti della Repubblica di Salò. Gli antifascisti rischiavano in ogni istante di finire fra le grinfie degli uomini della banda Carità, che praticavano torture spaventose. Le subirono, fra gli altri, il costituzionalista Paolo Barile, l´avvocato Enrico Bocci, animatore di Radio Cora, lo stesso Bruno Fanciullacci, che il 15 luglio ´44, dopo essere stato orribilmente torturato (gli avevano bruciato gli occhi e strappato le unghie) preferì uccidersi gettandosi dalla finestra piuttosto che tradire i compagni.
Chi cercava di sfuggire al reclutamento nell´esercito di Salò rischiava la deportazione o, peggio, la fucilazione. Il 19 marzo 1944 - lo stesso giorno in cui Giovanni Gentile pronunciò in Palazzo Serristori il discorso di inaugurazione dell´attività dell´Accademia d´Italia, di cui aveva accettato la direzione su richiesta di Mussolini, e inneggiò al «Condottiero della Grande Germania» e alla «battaglia formidabile per la salvezza dell´Europa» - «nove treni vuoti attendevano alla stazione centrale gli arruolati», scrive Carlo Ludovico Ragghianti, descrivendo scene strazianti di donne separate dai mariti e dai figli. I rastrellamenti erano drammatici: «Si prendevano gli uomini nelle vie e nelle piazze e nei cinema, e quando la caccia cominciava era un fuggire, un gridare di donne... un clamore di spavento, mentre a diecine i giovani e gli adulti erano presi, circondati da soldatacci teutonici e repubblicani con il fucile mitragliatore e avviati a centri di raccolta in piazza Santa Maria Novella, alle Scuole Leopoldine» (A. Campodonico - Sotto il tallone e il fuoco tedesco)».
Il 22 marzo ´44 cinque giovanissimi contadini arrestati a Vicchio durante un rastrellamento con l´accusa di renitenza alla leva, furono fucilati al Campo di Marte. Si chiamavano Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti, Ottorino Quiti, Leandro Corona. Vari reparti militari formati da coscritti furono costretti ad assistere alla fucilazione. Francovich riporta due testimonianze dell´«inutile strage». Un giovane militare, Luigi Bocci, ricorda i militi fascisti che «sghignazzavano, bestemmiavano e lanciavano insulti contro le vittime», ricorda le urla «che poco avevano di umano» dei cinque condannati, «e fra le urla gridi di "mamma, mamma"». «Un fremito di ribellione e di orrore corse fra la truppa. Da ogni parte si levavano voci di rivolta... I soldati del plotone di esecuzione, presi con la forza, piangevano, forse fino da quando erano stati condotti in mezzo al quadrato, e quasi nessuno di loro aveva sparato sulle vittime». Fu l´ufficiale di picchetto a dare il colpo di grazia. Per finire uno sventurato fu necessario sparargli nella testa un caricatore intero, e un altro fu messo nella bara ancora vivo e dovettero tirarlo fuori per sparargli un altro colpo in testa. «I miei compagni fuggivano e qualcuno era caduto svenuto per terra», ricorda il militare. Don Angelo Becherle, il sacerdote che porse l´estremo conforto ai cinque martiri, ha scritto a sua volta parole terribili: «Il Quiti era ancora vivo dopo la scarica del plotone, legato alla sedia si dimenava gridando: «mamma, mamma». Allora si avvicinò il comandante Ceccaroni che gli scaricò in faccia ad un metro di distanza sei colpi di rivoltella: il disgraziato non era ancora morto, continuava a chiamare mamma, buttando continuamente sangue... Alcune delle reclute svennero; si udì pure una voce: «Vigliacchi, perché li uccidete?»... Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che, dopo alcuni istanti, intervenne e diede il colpo di grazia».
In quei giorni atroci Giovanni Gentile, che propugnava una conciliazione degli italiani «nel nome della comune patria fascista», protestò forse segretamente con Mussolini contro gli orrori di Carità, ma non prese alcuna posizione pubblica. Il 24 marzo a Roma ci fu l´eccidio delle Fosse Ardeatine. Quando, tre settimane più tardi, Gentile fu ucciso sul cancello della sua villa al Salviatino, mentre rientrava senza scorta e disarmato, Piero Calamandrei annotò nel suo diario: «Storicamente questa uccisione è un atto di guerra» contro chi si è schierato a fianco degli autori della strage delle Ardeatine.

Corriere della Sera 31.7.07
La lezione di Jung da Pavese a Fellini
di Marco Garzonio


Ci sono voluti 40 anni, ma l'edizione degli scritti di C. G. Jung finalmente è completata. Bollati Boringhieri manda in libreria gli «indici analitici» delle Opere
(C. G. Jung, Indici analitici, Bollati Boringhieri, pp.518, e 67). In oltre 500 pagine, attraverso nomi di persona, sogni, argomenti, autori, questo secondo tomo del diciannovesimo e ultimo volume consente di rintracciare e unire i fili di uno dei percorsi umani e clinici più suggestivi, complessi, dibattuti, influenti del '900. Parlare della fortuna di Jung nel nostro Paese è rivisitare decenni di storia della cultura, degli interessi e delle vicende che hanno coinvolto non solo gli specialisti ma editori, scrittori, poeti, artisti, intellettuali. Pensiamo a Pavese che nel 1942 fece pubblicare
Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna da Einaudi; a Ernesto Buonaiuti, lo storico modernista avversato dal Vaticano e invece accolto con grande stima da Jung stesso e dai circoli junghiani internazionali; uno dei capitoli del conflitto allora tra psicoanalisi e Chiesa: Gemelli scrisse un libello contro gli «errori» di Jung. Pensiamo ad Adriano Olivetti, primo titolare dei diritti di Jung, con la passione politico-filosofica per il personalismo e le sue Edizioni di Comunità, al sodalizio con Bobi Bazlen (che sarà ispiratore di Adelphi e di una cultura «altra» rispetto a storicismo e marxismo imperanti) in analisi con Ernst Bernhard, come Natalia Ginzburg. Personaggio importante questo medico ebreo berlinese, lo junghiano che nella Roma postbellica accolse nel suo studio nevrosi e turbamenti fantastici di Federico Fellini ( 8e ½ e Giulietta degli spiriti sono passati di là), le tormentate e ironiche esplorazioni di Giorgio Manganelli, una generazione di psichiatri (e non solo) che avrebbero dato vita ad Aipa e Cipa, le associazioni storiche dello junghismo italiano.
Quando negli Anni '60 Paolo Boringhieri dà vita al progetto delle Opere di Jung, così come aveva già fatto con quelle di Freud (completate nel 1980), e ne affida la cura a Luigi Aurigemma, concretizza un'attesa diffusa. La linea editoriale è posta dallo stesso autore (morto nel 1961). Sulla scia delle edizioni inglese e tedesca i volumi si articolano per temi e contengono l'ultima versione di ciascuno scritto senza apparati critici né confronti storici. La scelta ha le contraddizioni e le ambiguità di Jung stretto fra lo sforzo di porre punti fermi (Tipi psicologici, edito nel 1969, primo testo della serie, tradotto dal freudiano Musatti, reca un'appendice «d'autore »: un centinaio di pagine di «Definizioni») e la creatività, il senso della provvisorietà di ogni conquista nel lavoro sul profondo, a confronto con l'inconscio, e della inesauribilità nella ricerca.
Si configura così nel corpus junghiano un nucleo consolidato: lo Jung «ufficiale», i 24 tomi di Bollati Boringhieri, quasi diecimila pagine, ora conchiuso dagli «indici» (un decennio per completarli!). Parallelo, e a tratti come fiume carsico, scorre un flusso continuo di sapere e di esperienze, che fa emergere molti materiali inediti il più delle volte già autorizzati da Jung in vita a circolare tra i seguaci.
Sono preziosi, fan conoscere l'uomo, la sterminata cultura, le sorprendenti incursioni in campi che egli lega alla psiche (mitologia, religione, alchimia, tradizioni orientali), ma soprattutto l'aspetto empirico della sua pratica analitica: il modo di lavorare coi pazienti e gli insegnamenti trasmessi di persona agli allievi. Un altro Jung rispetto a quello un po' convenzionale del presunto spiritualismo e degli archetipi universalmente validi e sempre uguali a se stessi. Ecco in anni recenti il susseguirsi della pubblicazione dei Seminari, editi ora da Bollati Boringhieri, ora dalle edizioni Magi. Queste hanno ripreso anche le conferenze dello Jung studente universitario e pubblicato l'epistolario. E altre novità si annunciano, in gran segreto. Le competizioni editoriali testimoniano la contemporaneità di un autore, che ha ancora molto da dire (e da farsi scoprire) proprio per quanto di poliedrico e di non completamente definito il suo lavoro offre. Quasi un'«opera aperta», prendendo in prestito da Eco l'espressione.

Le Scienze, agosto 2007, n.468
Il caso e le origini della vita
di Enrico Bellone


Se dite che il nostro pianeta ospita moltissime forme di vita, nessuno solleva dubbi. I dubbi invece s'affollano quando si cerca un significato del termine «vita», o si discute di come la «vita» abbia avuto origine e si sia evoluta. Quante persone potrebbero condividere la tesi di Richard Dawkins secondo cui la «vita» sarebbe emersa quando accidentalmente si formò una qualche molecola dotata della capacità di generare copie di se stessa in un ambiente variabile.
Lo scarso consenso culturale attorno a questo punto di vista - o ad altri più o meno simili - dipende da due fattori. Il primo nega che la «vita» sia un problema di chimica, e il secondo dice no all'ipotesi che la vita - e quindi l'uomo - sia il frutto del caso. Tornerò in chiusura sul problema del caso: ora mi preme far notare al lettore che sulle frontiere della ricerca si stanno comunque affacciando nuovi indizi sulle origini delle forme viventi e sulla loro evoluzione.
Indizi nuovi, certo. Nell'articolo Le origini della vita, Robert Shapiro espone alcune interessanti critiche alle tradizionali teorie centrate sulla genetica, e sostiene i pregi di linee di ricerca alternative. Suggerisce di non concentrarsi solo su DNA o RNA, ma di prestare più attenzione alla termodinamica di molecole di piccole dimensioni. Forse queste ultime sono state in grado di formare isole primordiali di vita, capaci di evolvere lungo direttrici diverse e di competere per le materie prime presenti nell'ambiente.
L'appello alla termodinamica è quasi ovvio, nella prospettiva di Shapiro: un aggregato di molecole è «vivo» se costituisce «un'isola» in cui si realizza, localmente, una crescita dell'ordine. Ipotesi ardite e poco tradizionali, come si vede, ma sempre collocate in una concezione darwiniana che vorrebbe tener conto anche delle possibilità di vita al di fuori della Terra.
E qui le righe di Shapiro si legano a quelle che Sushil Atreya dedica a Titano, il maggiore dei satelliti in orbita attorno a Saturno. Un legame sottile, che ci fa vedere come sia ragionevolmente analizzabile la congettura in base alla quale il metano esistente su Titano - su Marte, o sulla Terra - ha origini biologiche. Il che rinvia a ipotetici aggregati molecolari della vita, basandosi non solo su problemi tradizionalmente riferibili al DNA o all'RNA, ma a precursori più elementari delle molecole biologiche vere e proprie.
Il caso è sempre protagonista in queste vicende, e, come è noto, riguarda anche l'origine di noi umani. Come argutamente scrisse Jacques Monod, insomma, «il nostro numero è uscito alla roulette». Ma molti sollevano un'obiezione: come è possibile pensare davvero che l'azione del caso abbia prodotto sia i batteri sia Shakespeare? Stiamo attenti: ciò che nel senso comune rinvia al caso, in matematica rinvia invece al calcolo delle probabilità. E nulla di irrazionale o di disumano risiede in quest'ultimo.
È passato più di un secolo da quando si è capito sino in fondo che il calcolo delle probabilità è un capitolo razionale della matematica, e che, di conseguenza, non si compie alcuna rinuncia conoscitiva quando lo si usa per descrivere sistemi complicati. Lo studio della vita e delle sue origini è, in questo senso, esemplare.
Ma forse non è solo la roulette di Monod a sollevare incredulità. Forse si fatica ad accettare che la vita sia un processo materiale, e si preferisce invece credere che la ragione scientifica si debba fermare di fronte ai misteri dei corpi viventi. Come nel Seicento, quando si decise che la scienza doveva fermarsi di fronte al mistero dei corpi celesti.

Liberazione 31.7.07
Sempre più aggressive le componenti centriste che puntano ad un "nuovo '98" a parti invertite. L'obiettivo: espellere la sinistra dal governo
L'ex candidato dell'Ulivo "personalizza" il disegno di Confindustria, e finisce (intervista al "Corriere") per sparare anche su Prodi e Veltroni
Rutelli ad "alzo zero" contro l'Unione
«La sinistra? come i naziskin»
di Rina Gagliardi


Sentite questo bel concetto: «Io cerco una moderna democrazia dell'alternanza. Alleanze di nuovo conio significa non essere obbligati a coalizioni, a destra, persino con i gruppi neonazisti o, a sinistra, con l'estremismo anticapitalista». Chi parla, in un'ampia e minacciosa intervista al Corriere della Sera , è Francesco Rutelli, già leader della (disciolta?) Margherita, oggi vicepremier e ministro dei Beni culturali. E, se non è una classica "voce dal sen fuggita" (che comunque, avvertiva il poeta, "poi richiamar non vale"), il concetto è che Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra Democratica sono proprio come i gruppi neonazisti. Minoranze pericolose, anzi pericolosissime, di cui bisogna liberarsi entro il più breve tempo possibile. Roba o robaccia da perseguire, perseguitare per legge, magari sciogliere. Non volevamo credere ai nostri occhi, abbiamo letto e riletto il passaggio per essere sicuri, ma era proprio così: il vicepremier di un governo in carica tratta i suoi alleati di sinistra - un terzo della sua coalizione, quattro ministri, svariati sottosegretari, centocinquanta tra deputati e senatori, sei milioni almeno di voti conquistati alle ultime elezioni - alla stregua di altrettanti naziskin, forzanovisti, "fascisti sociali" o eversori. Davvero, non si era mai vista una teorizzazione così irrispettosa, offensiva e vergognosa dell'antico slogan degli "opposti estremismi". E raramente si erano lette dichiarazioni così proterve e arroganti, come quelle che ribadiscono la "intoccabilità" delle scelte del governo, chiudono perfino l'ipotesi di scuola di una discussione o di un confronto tra posizioni diverse e, infine e soprattutto, invitano "le minoranze" a finirla con i "ricatti". Quali ricatti? Quelli dello stesso Rutelli che fa carta straccia del programma di coalizione, insulta i suoi alleati e conclude all'insegna del "o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra"? Quelli di un leader politico che nemmeno prende in considerazione il disagio del più grande sindacato italiano, la Cgil? Quelli di un neo-convertito al totalitarismo della politica bipolare, secondo il quale la sinistra non dovrebbe neppure esistere e se esiste è comunque "estremista"?
La verità è proprio un'altra. E' giocoforza prendere atto dell'ennesima mutazione antropologica della politica italiana: Francesco Rutelli, che finora ci era parso, in sostanza, un politico molto moderato e molto prudente, ancorché sempre attento a compiacere i poteri forti, è diventato un pericoloso estremista. Uno che lavora, come può, a destabilizzare il governo nel quale, pure, occupa una posizione eminente. Uno che si sta agitando un po' inconsultamente per costruirsi un futuro adeguato alle sue ambizioni, visto che premiership e leadership di qualcosa di importante gli sono ormai precluse. Dev'essere soprattutto quest'ansia di futuro a suggerirgli di fare - come ha fatto nell'intervista citata - il pasdaran dell'epurazione a sinistra e, segnatamente, della cacciata dal governo di Rifondazione comunista - e in buona sostanza della caduta del governo Prodi. Al leader della Margherita (s'informino lo stesso presidente del consiglio o almeno il suo portavoce), del resto, il governo del Professore, non è mai andato a genio: ci è salito sopra come su un autobus, perché costretto dalle circostanze (da quella quisquilia, per esempio, che si chiama consenso di massa), dalla legge elettorale, dalla nascita di quella "cosa" che si chiamava Unione, così zeppa di infidi estremisti, perché insomma un giro di governo è sempre utile. Ma non ha mai davvero investito né nel progetto né nel programma (costruito non a tavolino, ma in una discussione che ha coinvolto e appassionato migliaia di persone): nel frattempo accarezzava altri scenari, un po' bipartisan un po' centristi un po' confindustriali un po' democristiani (ma senza la cultura politica della migliore Dc, che infatti Rutelli non ha mai frequentato, nei suoi pur numerosi giri di valzer tra una formazione politica e l'altra).
E oggi? Oggi, alla vigilia di una fase decisiva per la maggioranza, la quale rischia una rottura seria, forse drammatica, con parti larghissime del mondo del lavoro, dei giovani, delle donne, Rutelli dichiara sciolta l'Unione, non risparmia sassi ai Ds e preconizza, forse, una nuova maggioranza. Un altro esponente di spicco della Margherita, Lamberto Dini (come si è visto pochi giorni fa in Senato) è più che pronto: sembra uno di quei calciatori che, a bordo campo, si scalda i muscoli nell'attesa di entrare in campo, raccogliere i cocci del centrattacco azzoppato, dar vita a un "governo delle pessime intese" - di cui, per altro, allo stato dei fatti non si vedono né i numeri né, come dicono gli epistemologi, le condizioni al contorno. Ma forse il disegno è ancora un altro: il tentativo recondito è quello di far saltare il Partito Democratico, o quantomeno di minare la marcia trionfale di Walter Veltroni.
Gli estremisti come Rutelli, in effetti, cedono spesso e volentieri alla irresponsabilità politica, in assenza di un disegno generale, volto all'interesse generale del Paese.
Vedete bene dove si annida la sindrome del '98: in uno dei componenti "forti" dell'alleanza di governo, non certo nella sinistra, nelle sinistre che rivendicano il rispetto dei patti e sembrano, talora, le uniche forze interessate al recupero di una diversa "connessione sentimentale" tra governo e popolo. Una sinistra che ha lavorato fino allo spasimo per garantire un quadro di governo stabile e, possibilmente, coerente con le domande dei milioni di elettori che hanno scelto l'Unione. A questa sinistra, è giusto chiedere molto, non la rinuncia alla battaglia politica e sociale. Non il silenzio, o la cieca obbedienza. E nemmeno l'eutanasia, alla quale, caro il mio vicepremier, lei dichiara del resto di essere contrario. In ogni caso, a proposito dei suoi infelici paralleli, ci aspettiamo le sue scuse.

Repubblica 30.7.07
L’attrice, 27 anni, è una delle più richieste del cinema italiano. A Venezia con "Valzer" e come giurata
Solarino: "Odio la tv perché umilia le donne"
di Silvia Fumarola


Ci parla della sua carriera, critica i reality. Nel film di Wilma Labate, nella Torino dell´80, è un´impiegata della Fiat
la polemica Ma perché se un conduttore ha bisogno di una busta arriva una ragazza in bikini? La tv fabbrica illusioni

ROMA - Valeria Solarino ha una faccia spigolosa, importante, occhi neri inquieti che ridono. A 27 anni è una delle attrici più richieste del cinema italiano: torinese (ma nata in Venezuela, dove erano emigrati i nonni), diplomata al Teatro Stabile, ha girato Fame chimica quasi per gioco nel 2003, poi arriva Che ne sarà di noi di Veronesi e La febbre con D´Alatri, che segna la sua consacrazione. Andò le affida il ruolo ambiguo della sorella di Alessio Boni nel thriller sentimentale Viaggio segreto. A Venezia l´anno scorso è stata premiata come attrice rivelazione dell´anno. Quest´anno torna alla Mostra come giurata nella sezione Opere prime ma anche da protagonista: Valzer di Salvatore Maira, sarà presentato nelle Giornata degli autori. Ha appena finito di girare La signorina Effe di Wilma Labate, ambientato a Torino nel 1980 sullo sfondo dello sciopero di 35 giorni alla Fiat. Solarino è un misto di riservatezza e determinazione, pesa le parole, ma ha le idee chiarissime. È gelosa della vita privata, vive con il regista Giovanni Veronesi, ma lo nomina solo quando spiega «prima ero più timida, più dura. Da quando vivo con Giovanni ho imparato a ridere, a sdrammatizzare i problemi, a guardare la vita con ironia».
Che effetto fa tornare alla Mostra di Venezia in un doppio ruolo?
«Mi fa piacere consegnare il premio per l´opera prima. A Venezia ho ricordi bellissimi: la prima volta ho vinto il premio Biraghi per Fame chimica. In quei momenti capisci che ci sono pazzi come te, innamorati del cinema. Io farei un festival in ogni città d´Italia».
Come ha cominciato?
«In realtà volevo fare teatro. Il mio insegnante allo Stabile di Torino Mauro Avogadro, e lo ringrazio ancora, mi disse: "Valeria, tu devi fare cinema". Al momento ci rimasi male. Oggi so che mi ha dato il consiglio giusto. Quando ho girato Fame chimica andavo a scuola, e ho capito subito che stavo benissimo sul set. Una passione totale. Mi piace tutto: pure i cestini, che non sono sempre buoni. Ma significano che stai girando un film».
Quest´anno ha interpretato due film importanti: con "Valzer" andrà a Venezia.
«E´ una scommessa di Maira, è un film girato tutto in piano sequenza. Al di là del fatto che è un trionfo narcisistico per un attore, avere sempre la macchina da presa addosso, mi sembrava impossibile. Per un attimo ho pensato: "Questo è pazzo". E invece ci siamo chiusi in un albergo a Torino, con i clienti che andavamo e venivano. Io interpreto una cameriera che ascolta storie, sfiora le vite degli altri. Portando un vassoio entro in una suite in cui si sta parlando di calcio, stanno ritoccando il campionato. Maira anticipa calciopoli, il film è stato scritto prima dello scandalo della Juventus, prima che tutto accadesse».
Anche "La signorina Effe" è ambientato a Torino, negli anni 80.
«È una storia d´amore classica e tormentata sullo sfondo del grande sciopero alla Fiat e la marcia dei 40mila. Mi divido tra due uomini Fabrizio Gifuni e Filippo Timi. Sono Emma, una ragazza figlia di operai che lavora alla Fiat, una volta laureata ha altre prospettive rispetto alla famiglia piccolo borghese in cui è nata. Su di lei sono concentrate tutte le aspettative ma lei, la signorina Effe, la signorina Fiat, rompe la gabbia familiare. Quello che accade a Torino, le agitazioni, le rivendicazioni degli operai in sciopero, lo vive internamente, è una voglia di cambiamento generale».
Che rapporto ha con la politica?
«Mi dispiace di non aver vissuto gli anni delle ribellioni, anni in cui la gente s´indignava. Io sono una che s´indigna. Nel mio piccolo cerco di fare qualcosa, per esempio scarto storie che danno messaggi negativi. Scelgo con cura i ruoli, da La febbre al film di Andò è passato un anno. Ho aspettato, in compenso ho studiato l´inglese».
Non le piace la tv?
«Poco. La guardo sempre con occhio molto critico. Non mi piace l´immagine delle donne in tv, alcune sono bellissime e anche brave. Ma perché se un conduttore ha bisogno di una busta arriva una ragazza in bikini? Una dodicenne si convince che se lo fa poi diventa famosa. È un mondo finto, come sono finti i reality: t´illudono che diventi qualcuno perché entri nello schermo. Se penso alla bestemmia di Ceccherini... La bestemmia è il reality. Non lui. È l´idea stessa di fare un programma così che è un insulto».
Perché non ha girato fiction?
«Non ho pregiudizi, se una storia m´interessa ben volentieri. Ma se penso alla fiction mi viene in mente La meglio gioventù, che è cinema in televisione. O al lavoro fatto da Faenza per I vicerè. Sa qual è il problema della tv? Che se dai una qualità scadente va bene, e se la dai alta va bene lo stesso. Io credo che ci sia un modo solo per fare le cose, farle bene. Tirano sempre fuori la scusa che in tv non hanno i soldi, ma ne hanno tanti».
Invece il cinema ne ha pochi.
«Non c´è mercato. In più mettono anche la censura ai dieci anni. Ma dico, non ci devono pensare i genitori ai figli? Un padre che porta il bambino al cinema non sa quale film sia adatto? Poi, intendiamoci, anche Ultimo tango a Parigi è meno scandaloso di certi show che si vedono in televisione. Io invocherei la censura televisiva. Hai fatto questo programma orrendo? Via».
Avrà letto la polemica di Tarantino sul cinema italiano.
«Non è possibile paragonare il cinema italiano di oggi con quello di ieri. Ora giriamo sessanta, settanta film, e venti neanche escono. Eppure i registi bravi ci sono, solo che il sistema pensa solo agli incassi: anche se hai una bella idea, ma è difficile, un film non te lo fanno fare. L´assenza di mercato ha tagliato le gambe agli autori».
Parliamo della bellezza: come si vede?
«Come tutti. Mi specchio negli occhi degli altri. Alle medie ero innamorata di un ragazzino a cui non piacevo, preferiva un´altra. Mi sono detta: "Quella è bella, io sono brutta". Oggi ho un fidanzato che mi dice che sono bella, e mi sento bella».
Chi le piace tra i colleghi?
«Elio Germano, Scamarcio, Kim Rossi Stuart. Trovo bravissima Jasmine Trinca, che è anche un´amica. E mi piace Margherita Buy, qualunque cosa faccia».

Liberazione 31.7.07
Vero maestro del rodeo della politica, accusa la sinistra di «cavalcare tutte le proteste per i voti»
Dagli spinelli con Pannella alla Margherita, le inversioni a "U" di uno dei maggiorenti del futuro Pd
La parabola politica di "Cicciobello"
Da disobbediente a... "castigatore"
di Angela Mauro


«C'è qualcuno che pensa davvero che si guadagnino fiducia e consensi cavalcando tutte le proteste?». Francesco Rutelli non ne può più di questo indaffararsi di Rifondazione e della sinistra radicale che chiedono all'Unione di poter contare nell'alleanza e di rispettare il programma. Così il leader della Margherita sbotta sul Corriere della Sera (ieri, rispondendo a Liberazione di domenica) e rivendica il diritto del costituendo Partito Democratico di decidere per tutti nella coalizione (su welfare e pensioni la sinistra non è stata nemmeno interpellata prima dell'accordo con i sindacati). «La sostanza non si tocca», dice il vicepremier dichiarando l'inemendabilità dell'accordo sulle pensioni. E' un uomo che bada alla sostanza, Rutelli, non quella delle battaglie politiche, cavalcate e rinnegate alla bisogna, ma certo quella della carriera politica, arte nella quale ha sempre dimostrato un fiuto eccezionale e disinvolto.
La storia è arcinota, ma torna sempre attuale, ricca com'è di cambi di rotta senza preavviso, maxi-svolte senza spiegazioni, inversioni a "u" sulle strade della politica dalle quali l'ex sindaco della capitale, ora maggiorente del Pd, si è sempre salvato senza contusioni. Ce lo ricordiamo nel 2005, quando tenne sul filo l'Unione per mesi, dichiarando guerra a Prodi sul no alla lista unica dell'Ulivo alle elezioni. Salvo poi rimangiarsi tutto davanti allo straordinario successo delle primarie del centrosinistra: al suo posto chiunque avrebbe "grattato" sul cambio. Lui no, senza mea culpa pubblici, senza clamore di stampa, riuscì a restare in sella, faccia tosta sul sì alla lista unica.
La storia del Rutelli politico inizia nella seconda metà degli anni '70, quando incontrò Pannella e andava di moda il Partito Radicale. A 25 anni, il "Cicciobello" della politica (come è stato soprannominato negli anni e come Prodi stesso l'ha chiamato una volta, finendo inaspettatamente sulle cronache e determinando un piccolo incidente politico) diventa segretario del Partito Radicale del Lazio. E si fa notare: come "disobbediente" che fuma lo spinello in pubblico e si fa arrestare (record, è il primo segretario di partito a finire in cella), come antinuclearista, come giovane irrequieto che tenta di abbattere le sbarre che chiudevano per motivi di sicurezza una strada vicina all'abitazione di Andreotti. Nel '83 approda a Montecitorio e si scatena come capogruppo dei Radicali. La prima svolta avviene nell'89. In Russia c'è stata la "Perestroika", a Berlino cade il muro, cambia il mondo, Rutelli fiuta e si riposiziona. Abbandona il partito di Pannella e si impegna in una nuova formazione politica: i Verdi Arcobaleno. Traversie varie e nel '93 un Rutelli 39enne diventa per la prima volta ministro. All'Ambiente e per un solo giorno. A Palazzo Chigi c'è il governo Ciampi, al palazzo di Giustizia di Milano ci sono i pm che indagano su Tangentopoli. La Camera nega l'autorizzazione a procedere chiesta dai magistrati contro Bettino Craxi. Il ministro Rutelli, già anni luce dal garantismo del suo ex partito si dimette, insieme ai ministri del Pds. E oggi, parlando di Unipol al Corriere , dice che «all'avvio di Tangentopoli non furono i Ds a sventolare il cappio in Aula ma la destra». Quando si dice "sostanza"...
Ad ogni modo, Rutelli continua a cavalcare la scena. Si impegna nel movimento referendario di Mario Segni, aderisce ad Alleanza Democratica, tenta la scalata al Campidoglio, non ci riesce, ritenta e ce la fa, battendo Fini. Una volta sindaco, gestisce gli eventi per il Giubileo e "apparecchia" i lavori per l'Auditorium Parco della Musica e la nuova copertura dell'Ara Pacis, poi però inaugurati dal suo successore, Veltroni, che, a colpi di eventi e operazioni mediatiche, gli ruba, di fatto, la paternità. E' uno a zero per Walter, se si volesse operare un confronto tra i due. E sareLiberazione 31.7.07bbero due a zero se si prendesse in esame la comune esperienza da ministri dei Beni Culturali.
Rutelli (che nel frattempo ha maturato per bene l'altra sua svolta, quella democristiana che l'ha portato all'odierna Margherita) lo è da un anno, ma di fatto gioca altre partite, quelle interne al Pd (magari perchè convinto che questo governo dura poco). E così, in questa prima parte di legislatura, di lui si ricordano più gli interventi pro-liberalizzazioni dell'autunno scorso, il recente "manifesto dei coraggiosi" per alleanze di nuovo conio per il Pd, le prese di posizione anti-Dico e per il Family Day, contro l'eutanasia e l'antiproibizionismo, piuttosto che iniziative in materia di cultura. Non c'è un provvedimento di legge che porti la firma del ministro (al di là dei giudizi politici sul merito eventuale), il quale si è mostrato inerte su questioni come la minaccia di concessioni edilizie nell'area archeologica di Tuvixeddu a Cagliari (interrogazione del Prc a gennaio, alla fine le ha bloccate Soru). E' stato invece solerte nel contrastare la proposta di accesso gratuito ai musei (avanzata dal Prc alla Camera) e nel dire no alla petizione di Altroconsumo, che chiede di rivedere la legge Urbani punitiva dei download da internet. Del Veltroni ministro si ricordano le giornate di accesso gratis nei musei, la raccolta fondi per la cultura attraverso le estrazioni aggiuntive del lotto e altri provvedimenti magari meno condivisibili. Erano altri tempi, non c'era il Pd, ma non è difficile individuare dove tra i due sia di casa la "sostanza".
Ad ogni modo, Walter ora è in netto vantaggio, candidato principe alla leadership del Partito Democratico. Francesco dice di sostenerlo, in una corsa che pur comprende dirigenti della Margherita (Bindi, Letta), oltre che il Radicale e "insider" del Pd Pannella (ma Rutelli le "radici" se l'è ormai lasciate alle spalle da un pezzo). Di certo, il leader Dl ha fiutato l'aria. E se va male, si può sempre svoltare.

Liberazione 31.7.07
La senatrice del Pdci: «Sintonia con il Prc. Il '98? Se tornassi indietro lo eviterei»
Palermi: «L'unità a sinistra è difficile. Ci spero, ma iniziamo con chi ci sta»
di Angela Mauro


Su pensioni e welfare «Prodi ha dato uno schiaffo alla sinistra» che deve accelerare sul percorso unitario per contare di più. Ma Emanuela Palermi, senatrice dei Comunisti Italiani e presidente del gruppo unico con i Verdi, non nasconde il suo pessimismo, sia sul destino dell'Unione, sottoposta allo stress da tentazione neocentrista di alcuni esponenti del Pd, sia sull'unità a sinistra. «Lavoriamo perchè ci siano tutti: Pdci, Prc, Sd, Verdi», dice, ma «a un certo punto bisognerà tirare le fila e cominciare con chi ci sta». Vale a dire il Prc, forza con cui «avverto un legame più forte».

Il Partito Democratico si interroga sulle alleanze future. E' ancora possibile salvare l'Unione?
Prodi ha dato uno schiaffo alla sinistra sulle pensioni perchè l'accordo è pessimo e sono molto dispiaciuta che a sinistra non siamo riusciti a darne lo stesso giudizio. E ci ha dato uno schiaffo anche sul welfare. Il governo ha fatto una scelta di campo che non è quella della sua maggioranza intera, ma di una sua parte, quella più collegata ai poteri forti e non alla gente. L'obiettivo del Pd è far cadere Prodi da sinistra in modo da avere una giustificazione per fare un governo istituzionale con Forza Italia e cambiare la legge elettorale in senso maggioritario per vedere la nostra fine. Mi sono interrogata sulla capacità di tenuta dell'Unione, adesso sono abbastanza pessimista, nonostante il documento sul Dpef che ci mette tutti d'accordo.

Come risponde la sinistra? Al momento sembrerebbe che ci siano ricette differenti.
Mi piace l'idea di una costituente della sinistra lanciata da Giordano. Spero nell'unità, ma mi accorgo che è difficile. Avverto un legame più forte con Rifondazione, ci sono filoni comuni. Invece con Sinistra Democratica la vedo molto più complicata. Mi chiedo su quali punti trovare un'intesa. La mia speranza nell'unità è accompagnata da una buona dose di pessimismo: o iniziamo in fretta a parlare con la nostra gente, a mettere in piedi delle manifestazioni e buttare giù una piattaforma comune, oppure sarà una unità troppo legata al contingente, che regge su alcuni punti e poi crolla, come è crollata sulle pensioni.

Se non si riuscisse ad agganciare anche Sd e Verdi, andrebbe bene anche solo l'unità con Rifondazione?
L'unità dobbiamo farla malgrado le difficoltà. Ma a un certo punto bisogna tirare le fila. Sono rimasta colpita negativamente da un comunicato di Folena che dice no ad un "Pci mignon", alla unità Prc-Pdci. Io spero di poter fare l'unità con tutt'e quattro, ma bisognerà cominciare con chi ci sta, senza rassegnarsi al fatto che Verdi o Sd restino fuori. Soprattutto i Verdi, con il Pdci sta facendo questa esperienza del gruppo unico al Senato: sarebbe per me motivo di amarezza se questa esperienza non riuscissimo a portarla nel processo unitario. Ma a un certo punto bisognerà decidere.

Come giudichi l'iniziativa del Prc di consultare il suo popolo sulla permanenza al governo?
Con il Prc veniamo dallo stesso partito, ci siamo messi insieme quando hanno sciolto il Pci. Ma noi abbiamo dei militanti di riferimento che sono parecchio diversi da quelli di Rifondazione, che soprattutto negli ultimi anni si è lasciata contaminare dalla logica dei movimenti. Io sono per farmi contaminare dagli obiettivi dei movimenti, dalla logica un po' meno. Invece della consultazione sul governo, mi piacerebbe moltissimo che andassimo insieme, magari anche con Verdi e Sd, in mezzo alla gente per capire cosa si aspetta dal processo unitario, anche con veri e propri questionari e una manifestazione in cui la gente possa dire la sua. Bisogna costruire la massa critica come la chiama Bertinotti, noi comunisti li chiamiamo rapporti di forza, cioè una massa di persone che in sintonia con noi, che si batta per una società diversa, il che non significa solo attenuare i contraccolpi sulle pensioni o sul mercato del lavoro, sennò restiamo sempre in una logica emendativa di quello che fanno gli altri.

"Rapporti di forza", dici. Ma le differenze tra Prc e Pdci non sono solo un fatto di terminologia.
Rifondazione ha fatto una cosa di grande azzardo immergendosi nei movimenti in modo totalizzante. La cultura dei movimenti, che è una cultura massimalista, molto legata alle battaglie del momento, è entrata nel Prc. Per noi è diverso, siamo più portati a stare nei movimenti a cercare di capire orientamenti e obiettivi e tradurli in pratica politica. Siamo un partito più tradizionale per alcuni versi. Poi ci sono delle questioni sulle quali non sono d'accordo con il Prc, per esempio la legge elettorale. Non sono per il modello tedesco, prevede una soglia di sbarramento alta e a quel punto faremmo l'unità solo per convenienza elettorale. Invece, andrebbe bene rivedere semplicemente l'attuale sistema, il "porcellum", nella parte relativa al premio di maggioranza.

Alla luce di come sta andando il secondo governo Prodi, si poteva evitare la scissione nel '98?
Ci siamo divisi per un modo diverso di intendere il partito. Se tornassi indietro farei molto di più di quello che ho fatto per evitarlo, perchè eravamo una forza dell'8.6 per cento e contavamo tanto. Dividendoci contiamo tutt'e due di meno. Certo che si poteva evitare, ma forse in quel momento non lo voleva abbastanza nessuno di noi. Forse avevamo bisogno di prenderci un po' d'aria.

Liberazione 31.7.07
Fausto Bertinotti: «La sua storia nelle scuole italiane»
"Ciao Visone", Milano piange il suo comandante
di Davide Varì


Milano nostro servizio. Sono gli occhi di Nori, gli occhi della staffetta Sandra - «la mia staffetta più bella» come amava ripetere il comandante e come gli ha ripetuto chissà quante volte in tanti anni vissuti insieme. Sono quegli occhi pieni di dolcezza e dignità - una dignità antica e fiera - che hanno accolto una ad una le centinaia di milanesi che ieri hanno reso omaggio e salutato per l'ultima volta Giovanni Pesce: il comandante Visone, il partigiano gappista morto venerdì scorso dopo una vita spesa per la libertà e per la giustizia.
Donne e uomini, vecchi e giovani hanno affollato, gremito la sala Alessi di Palazzo Marino. Un andirivieni continuo di persone, di saluti, di pugni chiusi verso il cielo e di lacrime ha sfilato davanti al feretro di Visone, davanti a Nori, ai suoi occhi dolci, composti, limpidi. Occhi che rimandavano serenità ad ognuna di quelle persone che hanno voluto dare l'addio al suo comandante, al compagno di una vita.
Tante bandiere rosse a lutto, poi i gonfaloni dell'Anpi - Milano, Alessandria, la sua Alessandria, Brugherio …- e quelle delle istituzioni. Non è stata una giornata qualsiasi, ieri. E Milano pareva saperlo.
Ogni morte è una perdita: una perdita per i familiari, per i congiunti, per gli amici dell'estinto, ma quella di Giovanni Pesce è una morte che coinvolge e riguarda un'intera comunità, un'intero Paese. Tutti gli italiani sono debitori al gappista che ha dedicato la propria vita alla liberazione. La liberazione dal nazifascismo - grazie alle sue azioni temerarie - certo, ma anche e soprattutto liberazione da una vita subalterna. «Aveva 13 anni quando è andato a lavorare in miniera. Tredici anni - ha ripetuto più volte il Presidente della camera Fausto Bertinotti che per nulla al mondo sarebbe mancato per l'ultimo saluto a Visone -. Era un bambino che parlava a fatica l'italiano, come la gran parte degli italiani di allora, e che si è ritrovato catapultato in miniera. Ma lui non si è fermato, e come ripeteva e insegnava Antonio Gramsci, si è messo a studiare e non ha più smesso. Ed allora - ha ripetuto Bertinotti - la sua è diventata una "lotta senza tregua" nella ricerca della libertà, certo, ma anche alla ricerca della conoscenza come opportunità di riscatto per gli ultimi di questo mondo».
Poi la proposta: portare la resistenza nelle scuole. «Nicolas Sarkozy - ha infatti ricordato Bertinotti - ha detto di voler far leggere il primo giorno di scuola in tutta la Francia la lettera di un giovane comunista ucciso dai nazisti. Io vorrei che ogni scuola italiana raccontasse almeno una parte della storia di Giovanni Pesce».
«Pesce - ha continuato commosso il presidente della Camera - è poi andato in Spagna, a 18 anni, per combattere per la libertà. Credo che ricordasse più intensamente la guerra in Spagna che la Resistenza, ricordava più una grande speranza poi tramutatasi in sconfitta, che una grande vittoria come la Resistenza perchè il suo insegnamento era quello di continuare ad impegnarsi. Il suo impegno era poi diventato quello di trasmettere la memoria ai giovani. Un impegno che adesso dovrà portare avanti Onorina, la partigiana Sandra, la compagna di tutta la sua vita. Posso solo dire - ha concluso Bertinotti tra gli applausi - grazie comandante Visone, hai fatto la cosa giusta e ora riposa in pace. Che la terra sia leggera».
Tanti gli interventi che hanno risuonato nella sala di palazzo marino. Tanti gli applausi, tante le lacrime e tanti i ringraziamenti: «Grazie comandante Visone - ha esordito commosso Franco Giordano, segretario di rifondazione - Grazie per la tua insofferenza verso ogni dittatura, grazie per il tuo esempio che rappresenta la passione e la speranza. Giovanni Pesce - ha continuato Giordano - rappresenta una storia emblematica di un militante antifascista e comunista, due cose indissolubilmente intrecciate, che ha lottato per la democrazia e la libertà. Come lui hanno fatto altre milioni di persone. È stato un eroe per necessità, perchè ha subito la violenza e ha visto subirla a chi gli stava vicino, un eroe come altri su cui si basa la Repubblica. La sua missione è stata infine quella di parlare ai giovani perchè non si perda la memoria e anche questa missione - ha concluso Giordano - sarà portata avanti da noi. Lui ha scelto la nostra comunità e noi non smetteremo mai di lottare per le cose in cui credeva come la libertà e la giustizia sociale».
C'era anche Tino Casali, Presidente Nazionale dell'Anpi, il sindaco di Milano Letizia Moratti, il ministro per la solidarietà Paolo Ferrero, Giovanni Russo Spena, Gennaro Migliore, Claudio Grassi, Alfonso Gianni, Michele de Palma, Alfio Nicotra e tanti altri.
Tutti a ricordare la vita di questo uomo straordinario: dalla guerra civil in Spagna contro Franco - dove va diciasettenne, insieme a migliaia di giovani provenienti da mezzo mondo dopo aver ascoltato un discorso della «pasionaria» Dolores Ibarruri - alla reclusione, fino al confino a Ventotene per il suo antifascismo. È proprio lì che inizia a studiare la lingua e la letteratura italiana, ed è li che si fonda la sua formazione civile e politica.
Poi il ritorno a Torino ed a Milano dove contribuisce a formare i Gap, i Gruppi di Azione Patriottica, e l'incontro con Onorina «Sandra» Brambilla, sua futura moglie.
Il 25 aprile 1947 viene insignito della Medaglia d'oro al Valor Militare: «Valoroso combattente garibaldino - c'è scritto nelle motivazioni - lottò strenuamente in Spagna per la causa della libertà e della democrazia riportando tre gravi ferite. Il movimento di ribellione alla tirannide nazi-fascista lo trovò ancora, ardito ed instancabile partigiano, alla testa dei Gap, al suo posto di lotta e di onore».
Poi l'impegno costante e appassionato con i giovani, la formazione e la trasmissione di quella memoria, di quella grande epopea italiana che Visone ha contribuito a creare. In mezzo alla folla c'era anche un pezzo di Spagna, un pezzo della sua Spagna: «Era imprescindibile venire - ha dichiarato commossa Ana Perez, rappresentante dell'associazione volontari di Spagna -, un modo per esprimere la gratitudine e il rispetto degli spagnoli verso chi ha difeso la libertà». Che la terra sia leggera.

Giovanni Pesce. Un esempio, un maestro di vita
Caro Comandante Visone, apprendiamo con commozione la notizia della tua scomparsa. Sei stato per noi un esempio, un maestro di vita: la tua passione, il tuo coraggio, i tuoi ideali sono stati riferimento quotidiano per il nostro agire. Ci hai continuamente e con intelligenza mostrato il legame tra Resistenza e Costituzione e non hai mai lesinato energie per il progetto "Pedagogia della Resistenza" rivolto ai nostri giovani studenti della Provincia di Milano. Nessuno meglio di te sapeva comunicare loro il profondo legame tra lotta di Liberazione e gli ideali di democrazia, libertà e uguaglianza, che da essa sono venuti e hanno caratterizzato la vita della nostra Repubblica. Ci hai onorato della tua amicizia e di questo te ne siamo estremamente grati. La tua lezione ci accompagnerà costantemente e alimenterà i nostro impegno nella difesa dei valori della Resistenza.
Sandro Barzaghi e le/i compagne/i assessorato Istruzione ed Edilizia Scolastica Provincia di Milano

Ha fatto grande l'Italia
Con Pesce perdiamo, noi nati negli anni '40 e vissuti nel dopoguerra, una parte della nostra vita, Giovanni io l'ho visto dalla mia età di 28 anni quando iniziai a fare attività politica ad oggi che ne ho 64 in tutte le occasioni: ai 25 aprile, alle commemorazioni dei martiri di piazzale Loreto, alle grandi manifestazioni per la pace, alle feste dell'Unità e ovunque fosse necessaria la presenza di questo grande uomo. Ciao Giovanni hai fatto grande l'Italia e entrerai presto nei libri di storia per le future generazioni come esempio di vita.
Mirella Magni via e-mail

Un esempio per i giovani
Ho appreso con profondo dolore della scomparsa del comandante partigiano Giovanni Pesce, "Visone", un comunista che ha fatto l'Italia. Pesce ha rappresentato negli anni Settanta per i comunisti e i giovani antifascisti, anche se appartenenti ad organizzazioni diverse, l'esempio da seguire nelle lotte per difendere e ampliare la democrazia; il comunista da emulare per continuare l'impegno di quanti avevano fatto della Resistenza il momento più alto della lotta del popolo italiano per la trasformazione democratica e socialista dell'Italia. E le battaglie dei comunisti dai governi imperniati sulla dc dopo la liberazione per affermare i valori della Costituzione… Di questo Giovanni Pesce è stato una delle espressioni più alte e questi ideali ha saputo portare avanti nella militanza dentro il Prc. La sua morte è più pesante di una montagna e la sua figura sarà sempre presente.
Salvatore Distefano Catania

Per un mondo migliore
Abbiamo conosciuto Giovanni Pesce, figura leggendaria della lotta partigiana, persona sobria, uomo che ha scelto di dedicare la propria vita all'affermazione della democrazia, che ha speso il suo tempo, tutto il suo tempo, per combattere le ingiustizie e costruire un mondo migliore. Nel giorno della sua scomparsa lo vogliamo ricordare attraverso le parole che ha pronunciato il 25 aprile di quest'anno nel suo ultimo discorso in piazza del Duomo. «(...) La democrazia nel nostro paese è salda ma è anche quotidianamente incalzata da prepotenze, violenze, fenomeni di sfruttamento, emarginazione, spinte razziste, ingiustizie sociali. I temi della sicurezza sul luogo di lavoro, dell'occupazione giovanile, del salario dignitoso per tutti, di una scuola libera, di una informazione al riparo da interessi e veleni di parte, di pensioni rispettose dei sacrifici compiuti in una intera esistenza, di una giustizia che colpisca in termini rapidi e con pene certe i colpevoli di ogni reato, sono appuntamenti cui occorre dare una risposta. Abbiamo combattuto per questo. La festa deve essere onorata dunque in modo concreto. Va rispettata e difesa nell'applicazione costante della Costituzione. Ogni suo passo è frutto del nostro sacrificio e di chi è stato spazzato via dai barbari del tempo. Non sono concesse distrazioni, fughe in avanti, dimenticanze (…)».
Fiom Milano

"Salud, camarada internacionale!"
Compagno Pesce, per tutta la vita hai tenuto alta la bandiera della lotta, della giustizia e della fratellanza tra i popoli. A diciott'anni neanche compiuti lasciasti il lavoro e la famiglia e sporco del sudore e del terreno delle miniere francesi accorresti in Spagna, dove un popolo libero urlava aiuto al mondo, ascoltato non dalle nazioni ma dai popoli fratelli… In Spagna la gente ricambiava con entusiasmo lo sforzo ed il sacrificio dei combattenti internazionali, urlando al vostro passaggio "Salud, camaradas internacionales!". Non ti lasciasti abbattere quando venisti spedito al confino, punito per aver combattuto per la libertà, né quando ti proposero, col Paese occupato dai nazisti ed i briganti neri, di reimpugnare le armi ed organizzare i Gap: al comando di quelle formazioni partigiane tante e tante azioni hai compiuto, ricoprendo te ed i tuoi compagni di eroismo ed indicando al nostro popolo la strada della libertà. Non a caso tra i tanti eroi dimenticati dalla storia ufficiale tra i tuoi uomini combatteva Dante Di Nanni, che morì stremato abbattendo tanti nemici e, come ultimo gesto, gridò "W l'Italia libera" serrando il pugno… Per tutta la vita hai lottato per un'Italia libera e nuova… Compagno Pesce, ora ti unisci alla schiera di comunisti e di rivoluzionari che per il loro impegno verranno ricordati da generazioni intere, che sul vostro esempio si educheranno all'amore per la libertà ed allo spirito di devozione illimitata per un'ideale. Di tutte le trincee della storia questa è la più difficile in cui stare, ma la bandiera che finora hai retto non cadrà, perché adesso tocca a noi impugnarla e, con i nostri modesti sforzi, condurla nuovamente alla Vittoria!
Daniele Maffione, Arianna Ussi, Giorgio Lindi, Letizia Lindi, Alessandro Serra, Stefano Carlesi, Roberto De Filippis, Daniele Cipriano, Davide Di Lorenzo, Fiorenzo Parziale, Maria Rita Rasetto, Elena Vatteroni, Giulia Severi, Michele De Rosa, Davide Matrone, Luigi Cirscitiello, Rosa Linda Esposito, Tommaso Sorrentino, Gladys Agharese, Davide Guadagni, Naila Ricci, Gabriele Della Zoppa, Giuliano Marrucci, Roberto Severi, Federica Giovanelli, Ilaria Paladini, Silvia Filippi, Pietro e Barbara Maffione, Francesco Scarciello, Barbara Minozzi, Iacopo Simi

Siamo un po' più soli
Cari compagni, la morte di Giovanni Pesce ci lascia un po' più soli, impreparati anche se sapevamo del suo stato di salute. Permettetemi un piccolo ricordo personale. Dopo aver scritto il racconto, che di seguito vi mando, decisi di farlo pervenire al compagno Giovanni Pesce, così lo spedii presso la sede dell'Anpi di Milano che gentilmente glielo recapitarono. Passò circa una settimana ed un pomeriggio, mentre attraversavo Piazzale Loreto (guarda la combinazione) sentii squillare il cellulare e quando risposi, una voce con la erre arotolata mi disse: «Ciao compagno… ho ricevuto il tuo racconto… e mi ha commosso la dedica a Dante Di Nanni… bravo». Io rimasi paralizzato dalla commozione, fermai la macchina perché gli occhi si erano inumiditi. Poi ebbi modo di incontralo in altre occasioni perché lui andava a parlare con tutti, dalle feste di Liberazione o nei Centro Sociali dove veniva invitato e ascoltato con rispetto ed ammirazione.
Francesco Giordano via e-mail