martedì 30 dicembre 2008

il Riformista 30.12.08
Bonaccorsi, il comunista che licenza
di Peppino Caldarola


Vi segnalo fra i prepotenti dell'anno che sta morendo un signore che si è affacciato alla ribalta in queste ultime settimane. Si chiama Luca Bonaccorsi. Tranne che per la parentela con il figlio di Raul Gardini, poco si sa di lui. Ha una passione. Comprare giornali senza versare una lira. L'ha già fatto con "Avvenimenti", poi trasformata in "Left", ora si accinge a conquistare "Liberazione". Le biografie su Bonaccorsi che trovate in Rete vi aiuteranno a capire chi sia questo signore. Si sa che nel giro di pochi mesi la rivista da lui acquistata è finita sotto sequestro giudiziale, come denuncia la Federazione della stampa, e ha accumulato un vasto contenzioso giuslavoristico, cioè deve dare un sacco di soldi ai suoi dipendenti. Il Bonaccorsi ha un segreto per conquistare quella ribalta mediatica che con il suo curriculum neppure sfiora. Licenzia i direttori che si trova davanti. A "Left" ne ha licenziati quattro che, a differenza di lui, non sono sconosciuti nel mondo dell'editoria. Ha fatto fuori Adalberto Minucci, già direttore di "Rinascita", Giulietto Chiesa, corrispondente di "Unità" e "Stampa" da Mosca, Andrea Purgatori, giornalista e scrittore, Alberto Ferrigolo, penna di punta del "Manifesto". Ora il Bonaccorsi si ripete e vuole licenziare Sansonetti. Intendiamoci, non vuole versare quattrini suoi e poi cambiare il direttore. No, lui prima vuole i soldi del finanziamento pubblico e il licenziamento del direttore e poi farà l'editore. È il capitalismo versione Ferrero.

il Riformista 30.12.08
De profundis. Rifondazione comunista è morta
di Ritanna Armeni


Ci sono articoli che si scrivono con imbarazzo e con qualche sofferenza. Questo è uno di quelli. Per chi ha creduto per anni in un progetto politico radicale e avvincente come quello che ha portato alcuni anni fa alla nascita del partito di Rifondazione comunista non è facile comunicare un'analisi e una percezione netta che la porta dire che quel progetto è morto. Quel che mi spinge a fare oggi un'affermazione tanto drastica è la recente vicenda di Liberazione. Il tentativo di chiudere l'esperienza di quel quotidiano attraverso un editore discusso e normalizzatore o attraverso il diktat del partito mi pare davvero l'atto di chiusura di un'esperienza politica importante sia per chi ci ha creduto e partecipato sia per la storia politica del Paese.
Rifondazione comunista è nata dopo la svolta della Bolognina riunendo nella stessa formazione gruppi, tendenze e culture diverse della sinistra italiana.
Ingraiani, cossuttiani, togliattiani, trotskisti e appartenenti ai gruppi della sinistra estrema degli anni Settanta. Nonché una parte consistente di quel popolo comunista socialmente e politicamente messo ai margini dalla nascita modernizzatrice del Pds.
Questa formazione aveva certamente un'identità di classe, ma anche una connotazione conservatrice e arretrata. Poteva diventare un piccolo mostro politico identitario e settario con gli occhi rivolti nostalgicamente al passato e scarsa capacità di analizzare e cambiare il presente.
Così non è stato come anche i meno dogmatici e i più intelligenti dei suoi avversari si sono accorti.
Il tentativo fatto negli anni che sono seguiti alla scissione dal Pci ha capovolto alcune facili previsioni e ha delineato un altro percorso. Il leader politico che l'ha perseguito con davvero straordinario coraggio e audacia, Fausto Bertinotti, si è posto l'obiettivo ambizioso di cambiare la sinistra, tutta la sinistra, a cominciare dal partito di cui era leader smantellando a uno a uno quei muri ideologici e culturali che la condannavano a un ruolo di retroguardia nel mondo dominato dall'ideologia neoliberista nella sua fase trionfante.
Questo è stato il tentativo di introdurre nella politique politicienne di cui erano imbevuti i partiti italiani, le grandi questioni sociali. Questo lo sforzo di penetrare e di farsi penetrare dei grandi movimenti di massa (anche quelli che andavano oltre la tradizione del movimento operaio come il movimento no global) a costo di scalfire il moloch del partito. Questo è stato soprattutto l'innovazione culturale ed eversiva nella cultura della sinistra (anche di quella moderna e moderata) del riconoscimento degli "orrori" e non solo degli "errori" del comunismo e la lotta contro lo stalinismo. Inteso come concezione del potere, dello Stato e anche di quei rapporti fra le persone che permeano fortemente le relazioni nella politica. Questa infine l'affermazione della non violenza come idea forte, costitutiva di una sinistra che rifiutava davvero fino in fondo l'ideologia dell'avversario. E quindi si pronunciava contro la guerra, per la pace, sempre. La scommessa era grande e rischiosa. Si poteva cambiare radicalmente se stessi rimanendo altrettanto radicalmente critici nei confronti di un mondo dominato dall'ingiustizia sociale nelle sue forme più profonde e pervasive?
Non è stato ovviamente un percorso semplice e privo di errori. Chiunque abbia partecipato a quell'esperienza potrebbe elencarli. Chi scrive, ad esempio, rimprovera a quel percorso un eccesso di illuminismo e cioè una eccessiva fede nelle idee e una scarsa attenzione alla relazione delle persone; una solo formale attenzione alla cultura femminile e una sostanziale indifferenza all'innovazione della forma partito. Ma quel percorso era comunque permeato da una profonda ricerca innovativa. E dalla convinzione che una sinistra radicalmente cambiata nei suoi contenuti e nelle sue forme avrebbe potuto portare (questa la seconda audace scommessa) un contributo necessario al governo del Paese.
Bene, tutto questo è stato spazzato via. Questo progetto è stato sconfitto. Il modo in cui siamo stati al governo è stato il catalizzatore. Il che non significa - sia ben chiaro - che esso fosse sbagliato. La storia è piena di sconfitte di idee e progetti giusti. La recente crisi del capitalismo ha riabilitato, e con una forza incredibile persino per chi le ha sostenute, molte idee considerate fino a qualche mese fa "estremiste" e oggi adottate dai più potenti leader mondiali. Ma dobbiamo dirci, a costo di essere crudeli innanzitutto con chi ci ha creduto e con chi ci crede ancora che è stato battuto. Oggi al suo posto ci sono due entità. Rimane un partito che si chiama Rifondazione comunista, che vuole vivere e per farlo si affida a quella che negli scacchi è chiamata "la mossa dell'arrocco" ma che non ha alcun collegamento con quei progetti che ho sinteticamente riassunto. In esso permane una spinta anticapitalistica ma che pare indirizzarsi verso forme di neopopulismo più che verso la ricerca di efficaci forme di lotta sociale. C'è ancora un residuo di critica al potere e alle gerarchie, ma ridotta a qualche facile demagogia e a un inevitabile qualunquismo.
Poi c'è l'entità (non so definirla diversamente) di coloro che non questo progetto non sono d'accordo, vedono il ritorno indietro verso una nostalgica inefficacia, che vorrebbero proseguire nel cammino cominciato, che tentano, ma, a loro volta, non sono in grado (per difficoltà oggettive o per difetti soggettivi) di riprendere in altre forme e in una situazione ben più difficile quel percorso di innovazione politica.
Rimaneva Liberazione, un quotidiano eretico e audace. Capace di dire cose nuove, di aprire percorsi inesplorati e, naturalmente, di fare errori. Il tentativo di chiuderlo (e con quali metodi) mi pare la dimostrazione più chiara e dolorosa della fine di un'esperienza. Mi spinge a parlare di "morte". Per me scriverlo con tanta chiarezza non è facile, ma significa almeno poter cominciare a elaborare il lutto. E darsi la possibilità di ricordare ed esaminare criticamente, duramente e onestamente il passato. Mi pare - almeno personalmente - la condizione per poter nominare il futuro e impegnarsi di nuovo.

il Riformista 30.12.08
Il perbenismo pedagogico di Repubblica
di Andrea Romano


Da anni è prigioniera del ruolo che si è trovata a incarnare nell'universo della sinistra italiana, via via che le sue agenzie più tradizionali entravano in crisi o mutavano di funzione. Ed è rimasta immobile

Almeno una volta la settimana mi dico che dovrei ridurre il numero di quotidiani che compro ogni mattina. Non sono molti, non riuscirei a leggerne più di tre o quattro, ma a fine mese fanno comunque il loro effetto. E comincio la lista delle rinunce possibili da Repubblica. Potrei farne a meno, immagino. Non perché sia un brutto giornale, né perché costi più degli altri. Potrei farne a meno perché non mi sorprende mai. Giorno dopo giorno so sempre cosa aspettarmi, quale sarà la prima pagina e quale la linea prevalente nei commenti. Ma è solo una fantasia di breve durata. In realtà continuo e continuerò a comprare Repubblica, proprio perché non riesco a privarmi di quel suo essere tanto prevedibile e scontata. Nelle paludi della sinistra italiana, dove tutto affonda e riemerge con tanta frequenza, Repubblica è l'unico motore immobile di una rappresentazione del mondo di cui continuo ad aver bisogno per alimentare passioni e idiosincrasie.
È vero che ogni quotidiano (e anche il Riformista) ha una sua componente di fissità. Così come è vero che la grande stampa italiana ha conosciuto nell'ultimo quindicennio una fase di conclamata stagnazione. Nessun grande giornale, tranne la Stampa di Anselmi, ha davvero cambiato i modi del proprio linguaggio e le forme della propria lettura del Paese. Non è colpa di nessuno in particolare se non del generale immobilismo che ha colpito la società politica italiana, e dunque anche la sua leadership giornalistica, in questa lunga stagione storica. In fondo se ogni giorno sentiamo parlare gli stessi protagonisti politici di quindici anni fa perché mai avrebbero dovuto cambiare le pagine che ne raccontano e ne commentano le gesta?
Detto questo, Repubblica è rimasta più immobile di altri. Perché da anni è prigioniera del ruolo che si è trovata a incarnare nell'universo della sinistra italiana, via via che le sue agenzie più tradizionali entravano in crisi o mutavano di funzione. E in questa transizione tutt'altro che conclusa, dei partiti ma non solo, Repubblica ha finito per essere l'unico punto di riferimento nell'orizzonte di una vasta tribù sprovvista di altri ganci. In questo senso è l'unico vero giornale di partito che ancora sopravviva in Italia. Di un partito che non c'è ma che si sente tale nella grammatica quotidiana di aspettative e percezioni. La stessa cosa non è accaduta a destra, sia perché da quel lato la trasformazione dell'antropologia politica è stata più traumatica sia perché il Giornale non è mai riuscito a sostituire la funzione di indirizzo culturale esercitata su quel mondo dalla televisione.
Repubblica ha dunque colmato il vuoto della politica a sinistra, trasformandosi essa stessa in fonte di legittimità più di quanto non fosse mai accaduto sin dalla sua primissima e già molto pedagogica versione proto-scalfariana. Ma l'ha fatto restando un giornale commerciale, che deve vendere e farsi leggere ogni giorno che il Signore manda in terra. E dunque un giornale che legittima e indirizza una parte del Paese senza smettere di diversificare la propria offerta, ad esempio riducendo le pagine di cronaca politica e aumentando quelle di società come è accaduto nell'ultimo anno. Ma sempre restando fedele al patto stipulato nei fatti con il proprio pubblico, che da quelle pagine si aspetta ogni giorno la stessa dose di rimbrotti e pedagogia.
È qui la ragione della sua prevedibilità. Diventata una sorta di partito senza poter mai governare né essere votata, Repubblica ha curvato la sua nuova funzione in direzione di una forma peculiare di perbenismo, adattabile alle sue diverse pagine e composto di una galleria di formule immutabili che devono rassicurare e mai sorprendere, nei consumi culturali e nei comportamenti sociali molto più che nelle manifestazioni direttamente politiche. Qualche anno fa la fenomenologia del perbenismo di Repubblica fu sezionata da una bella e rimpianta rubrica del Foglio, "Recensire Rep" di Christian Rocca. Oggi ce la troviamo tutti i giorni sotto gli occhi, in una melassa che appanna anche le firme più brillanti schierate da quel quotidiano.
Io, ad esempio, sono da sempre un fan appassionato di Francesco Merlo, che considero uno dei più fulminanti scrittori italiani molto più che un grande giornalista. Da quando lo cerco su Repubblica ho come l'impressione di faticare a ritrovarne la forza, tra i tanti Michele Serra e i Pietro Citati che gli si affollano intorno con il loro piccolo catalogo di luoghi comuni. Sono gli effetti collaterali di una stagnazione che ha avuto in Repubblica la sua boa più ferma. Ma che domani, magari per l'innesco di una qualche trasformazione delle leadership politiche, potrebbe tornare a liberare l'enorme potenziale comunicativo di cui ancora dispone.

Corriere della Sera 30.12.08
Retroscena. E la De Gregorio accentua la linea dura e si scaglia contro «l'Italia dei favori»
«Scissione» all'Unità, Padellaro pensa a un nuovo progetto L'ipotesi: un giornale antiberlusconiano di 12 pagine
di Fabrizio Roncone


ROMA — La voce girava da giorni, ma poi — lavorandoci su — si è rivelata un po' più di una voce. Allora, sentite: Antonio Padellaro starebbe pensando di lasciare
l'Unità, di cui è stato a lungo direttore, per fondare e dirigere un nuovo quotidiano. Il progetto sarebbe questo (e ora, naturalmente, vi verrà facile pensare subito a un Foglio di sinistra): ci hanno spiegato che Padellaro immagina un giornale agile, colto, spregiudicato; con una foliazione intorno alle 12 pagine, una decina di giornalisti (ben selezionati) in redazione, il bilancio in pareggio già a quota 8 mila copie, e poi, soprattutto, una linea politica netta, militante, vicina pure a una certa sinistra radicale delusa, una linea dichiaratamente antiberlusconiana ma anche molto sferzante sul fronte della questione morale, intransigente, incapace di qualsiasi compromesso. Verrebbe da scrivere una linea «dipietrista », non fosse che Padellaro sembrerebbe avere poche intenzioni di chiedere aiuto all'Italia dei valori (che pure non ha ancora un quotidiano di riferimento e un finanziamento pubblico potrebbe, quindi, garantirlo).
Padellaro, a questo progetto, crede fortemente. Raccontano che nonostante all'Unità non abbia più neppure una stanza, ha rifiutato collaborazioni prestigiose e il suo tempo lo spende incontrando persone, si confronta con il suo amico e predecessore Furio Colombo, avrebbe già pure individuato un potenziale editore, tiene alto l'umore dei giornalisti — «verranno tempi migliori» — che, nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci e ora diretto da Concita De Gregorio, gli sono rimasti fedeli.
La De Gregorio, come rilevano molti osservatori, continua a fare il suo eccellente lavoro (il nuovo accattivante formato sembra funzionare e ci sarebbero addirittura copie conquistate sul difficile mercato): ma parrebbe aver annusato il pericolo. Così si spiegherebbe la virata su certi temi caldi rilevabile ieri in un suo editoriale, in cui bellicosa annunciava «una serie di conversazioni sull'Italia dei favori », cominciando con un'intervista a Gerardo D'Ambrosio.
Padellaro legge e ricorda però i bei tempi andati quando l'Unità cavalcò magnificamente l'ondata girotondina, e immagina ciò che potrebbe accadere con un giornale firmato da lui e capace di intercettare gli umori di piazza Navona: sul palco, quel giorno, con Di Pietro, c'erano Marco Travaglio e Moni Ovadia (due suoi fidati editorialisti). Padellaro starebbe pensando, così, già alla nuova squadra: nella quale conta di portare, dicono, anche Maria Novella Oppo, strepitosa critica televisiva, ed Enrico Fierro, inviato di punta.

Repubblica 30.12.08
Un sondaggio online conta i fan del dittatore è lui il terzo personaggio più amato del Paese
Il "Piccolo padre" scalda ancora il cuore del popolo russo
L’uomo che creò i gulag superato solo da Nevski e dal ministro zarista Stolypin
di Pietro Del Re


MOSCA. È il terribile Josif Stalin l´eroe della Russia, il personaggio più rappresentativo della sua storia. Questo emerge da un popolare sondaggio online che si è concluso due giorni fa. In realtà, in questa sorta di referendum nazionale destinato a proclamare l´icona del Paese e insieme il suo nume tutelare, al primo posto è arrivato il leggendario principe Aleksander Nevski, colui che nel 1242 respinse gli invasori teutonici. E secondo è giunto il ministro zarista Piotr Stolypin, che fu feroce contro gli oppositori dell´epoca ma che poté promuovere importanti riforme agrarie. «È vero, Stalin è soltanto terzo, ma la sua presenza in testa alla classifica ha di fatto eclissato gli altri vincitori», scriveva ieri il quotidiano Nezavissimaia Gazeta.
«Il nome della Russia» è il titolo del sondaggio lanciato lo scorso maggio dal canale televisivo Rossia. Nei dibattiti organizzati attorno al concorso, ogni candidato aveva un suo illustre "avvocato". Il leggendario Nevski è stato brillantemente difeso dal metropolita Kirill, reggente della Chiesa ortodossa e probabile successore del defunto patriarca Alessio II. A perorare la causa dell´oscuro Stolypin è stato il regista Nikita Mikhalkov, che con la sua scoppiettante oratoria ha consentito al ministro di superare personaggi ben più importanti, quali il poeta Pushkin (quarto classificato), Lenin (sesto), Dostoievskij (settimo) o il chimico Mendeleev (nono).
L´avvocato di Stalin è stato invece un personaggio senza carisma e non particolarmente abile. Proprio per questo è difficile avere dubbi sulla popolarità del "Piccolo padre". A difendere il dittatore è stato infatti il generale Valentin Varennikov, uno dei protagonisti del tentato golpe dell´agosto 1991. Oggi ottantacinquenne, il generale era tra quelli che cercarono di rovesciare il presidente Gorbaciov e che, dopo pochi mesi di galera, furono graziati da Boris Eltsin. Varennikov, in altre parole, non è mai stato una figura popolare né stimata. Il che non ha impedito al tiranno di cui s´era fatto sponsor di piazzarsi al terzo posto.
Come spiegare allora questa popolarità? È vero, durante «la grande guerra patriottica», come viene chiamata qui la II Guerra Mondiale, i soldati russi andavano incontro al piombo nazista inneggiando a Stalin. Ma la storia ha dimostrato che l´organizzatore di deportazioni e carestie ha provocato milioni di morti, molti dei quali russi. E allora? «Allora, dopo il crollo dell´Unione sovietica e la successiva crisi di fiducia, il nostro Paese vuole ritrovare la sua forza. E Stalin, fondatore della super-potenza sovietica, è il simbolo di una Russia vittoriosa», dice Elena Jampolskaja delle Izvestia, quotidiano vicino al Cremlino. Sulle colonne dello stesso giornale, Maxim Yussin riconosce che è tuttavia «difficile andar fieri dell´inventore dei gulag e delle purghe del 1937».
C´è anche chi si stupisce dei due primi arrivati. Anzitutto il principe Nevski, di cui le cronache riportano poche cose, se non che strinse amicizia con gli stessi tartari che invasero la Russia, e la cui celebrità è probabilmente soltanto dovuta allo splendido e immaginifico film realizzato nel 1938 da Serghei Eisenstein. E poi il ministro Stolypin, passato alla posterità per la sua "cravatta": così veniva chiamata la corda con cui faceva impiccare i "terroristi" quando era ministro dell´Interno di Nicola II.
La prima fase del concorso si era conclusa con la presentazione di cinquecento candidati. In luglio il voto riservò una sgradita sorpresa: Stalin era in testa, distanziando di varie lunghezze tutti gli inseguitori. Il voto fu sospeso e i risultati annullati: il balzo del dittatore, dissero gli organizzatori, era stato manipolato da hacker neo-nostalgici. A settembre, quando la corsa riprese con nuovi sistemi di sicurezza, e con soltanto dodici candidati, Stalin aveva resistito alla scrematura.
Domenica sera, durante l´annuncio dei risultati, il regista Mikhalkov ha dichiarato che in Russia è giunto davvero il momento di ragionare sul significato della popolarità di Stalin. «Grazie a Dio, Aleksander Nevski s´è aggiudicato il primo posto, ma il fatto che Stalin sia arrivato terzo deve farci seriamente riflettere», è sbottato il regista.

il Riformista 30.12.08
Il partigiano, il boia nazista e la mediocrità della barbarie
di Andrea Romano


Polonia. Per otto mesi, nel 1949, l'antifascista Kazimierz Moczarski si trova nella stessa cella con il generale delle SS Jürgen Stroop, braccio destro di Himmler e responsabile della distruzione del ghetto di Varsavia. Tornato in libertà raccoglie i frutti di quell'incontro in un libro, che esce in questi giorni in Italia.

«Il sigillo ufficiale di chiusura della Grande Azione fu l'esplosione della Grande Sinagoga… Prolungai l'attimo di attesa. Alla fine gridai "Heil Hitler!" e schiacciai il bottone. Le fiamme dell'esplosione si levarono fino alle stelle. Un boato spaventoso. Una fantasmagoria di colori. Un'indimenticabile allegoria del trionfo sull'ebraismo. Il ghetto di Varsavia aveva cessato di esistere. Perché tale era la volontà di Adolf Hitler e di Heinrich Himmler».
Sono le parole con cui il generale delle SS Jürgen Stroop, braccio destro di Himmler e responsabile della distruzione del ghetto di Varsavia nel 1943, ricorda la conclusione del suo capolavoro di ferocia. Sono le parole di un carnefice del tutto normale. Cresciuto in una normale cittadina di provincia e padre di una normale famiglia tedesca, protagonista di una normale carriera nella burocrazia nazista che lo portò altrettanto normalmente a rendersi responsabile dell'assassinio e della deportazione dei 70mila ebrei superstiti di Varsavia dopo aver partecipato allo sterminio di oltre mezzo milione di ebrei galiziani.
Una normalità di cui rischiavamo di perdere i contorni. Perché abbiamo conosciuto nazisti raffigurati in ogni travestimento e depravazione morale, afflitti da perversioni sessuali semplici o composte, ma sempre più lontani dalla banalità del male novecentesco di cui furono interpreti perfetti. Jürgen Stroop ci riporta al grado zero del nazifascismo, in una testimonianza di enorme valore che arriva ai lettori italiani finalmente pubblicata da Bollati Boringhieri (Kazimierz Moczarski Conversazioni con il boia, 440 pp., 20 euro).
È la straordinaria normalità di un libro tutt'altro che normale, scritto da un eroe partigiano costretto nella stessa cella del boia nazista che fino a qualche anno prima aveva combattuto con le armi. Kazimierz Moczarski era stato un dirigente dell'Armia Krajowa, la principale formazione militare della resistenza polacca, e prima ancora un fondatore del Club Democratico, organizzazione antifascista nata a sinistra dalla frantumazione del movimento nazionalista dopo la morte del maresciallo Pilsudski nel 1935. Dunque un democratico polacco, con studi a Parigi e mestiere di giornalista, che negli anni dell'occupazione tedesca si occupa di informazione e controspionaggio per il movimento clandestino di liberazione. E che nel 1945 viene travolto dall'ondata repressiva che il nuovo potere comunista insediato dai sovietici scatena contro l'Armia Krajowa e le altre organizzazioni antifasciste democratiche.
Rinchiuso nella galera di Mokotòw, è condannato prima a cinque poi a dieci anni e infine (nel 1952) alla pena di morte per «tradimento del popolo polacco» al termine di un processo farsa nel corso del quale ha la forza di dichiararsi innocente e di denunciare i metodi dell'inchiesta.
Quella pena non fu mai eseguita, ma nel frattempo Moczarski era stato sottoposto fin dal 1945 a ben quarantanove tipi di tortura per agevolare una delazione che non arrivò mai. Come scrisse nel 1955 in una lettera al Tribunale supremo, pochi mesi prima della fase di disgelo che lo liberò da undici anni di prigionia, tra quelle torture erano comprese «le percosse con un manganello di gomma sulle parti del corpo più sensibili (base del naso, mento, ghiandole salivali, parti sporgenti delle scapole), percosse con un bastone sulla parte superiore dei piedi nudi all'altezza delle dita e sulle piante dei piedi; strappo dei capelli da tempie, nuca, mento, petto, perineo e organi genitali; stritolamento delle dita in mezzo a tre matite; bruciature con una sigaretta accesa intorno alla bocca e agli occhi; bruciatura con la fiamma delle dita di entrambe le mani; privazione del sonno per sette o nove giorni».
Per oltre otto mesi, dal marzo al novembre 1949, quel democratico antifascista viene rinchiuso dai nuovi padroni della Polonia nella stessa cella occupata dal nazista che aveva messo a ferro e fuoco Varsavia. E invece di subire la circostanza come una tortura minore, utilizza quel tempo per un'indagine nella mente di Jürgen Stroop. Parlandogli tutti i giorni e ricostruendo le esperienze, le convinzioni e le circostanze che lo avevano condotto a essere il boia perfetto. È davvero la mediocrità del male il tratto di quella vita, così come la ricostruirà Moczarski una volta tornato in libertà. La modestia del figlio di un sergente di polizia che cresce senza altre aspirazioni che quella di un impiego all'ufficio provinciale del catasto e che combatte da volontario nel primo conflitto mondiale, tornando a casa convinto come molti altri che solo «il lavorio sotterraneo di ebrei, marxisti e minoranze nazionali del Reich» avesse sottratto la vittoria a Berlino.
Un miserevole reduce sedotto dal mito germanico non meno che da quello del prestigio e dei beni materiali, che aderisce nel 1932 alle SS e al Partito nazionalsocialista convinto di aver trovato la giusta strada di autopromozione sociale prima ancora che la declinazione più esatta per la propria identità politica. Fino al sogno più sfrenato, che per Stroop ha la forma di un latifondo di cui godere in Ucraina dopo la vittoria finale sull'Urss: «Un palazzo dove la mia sposa avrebbe diretto una servitù educata all'europea. Il cameriere avrebbe apparecchiato per la cena. Porcellane, argenterie, cristalli, candele… Sehr elegant! Io, nel cortile, che insegno a mio figlio Olaf a montare a cavallo. Tutt'intorno il silenzio, interrotto dal ronzio delle zanzare». Ed è facile immaginare che per Moczarski le mediocri aspirazioni del nazista Stroop fossero le stesse della nuova casta di funzionari del regime comunista polacco che lo costringevano in galera. Anche questi sorretti dalla stessa miscela di opportunismo e sottomissione, privilegio e gigantismo che aveva sorretto la burocrazia nazista fino alla guerra.
Il gigantismo di Stroop si chiamò infine Varsavia, dove nell'aprile 1943 fu incaricato direttamente da Himmler di completare la distruzione del ghetto ebraico con la deportazione dei circa 70.000 sopravvissuti dagli oltre 400.000 che vi erano stato segregati nel 1940. La resistenza opposta dagli abitanti del ghetto alla "Grande Azione" tedesca, nel corso di quattro settimane di combattimenti casa per casa e bunker per bunker, divenne già in quei giorni il segno della possibilità della rivolta civile contro il dominio nazista. E fino a oggi sarebbe rimasta emblema della tenacia ebraica contro qualsiasi minaccia di annientamento rivestita da qualsiasi forma di fondamentalismo.

Nel maggio del 1943 Jürgen Stroop avrebbe provvisoriamente vinto con il fuoco e con la demolizione di ogni edificio del ghetto, fino alla Grande Sinagoga, per poi concludere i suoi giorni impiccato nel 1952 per crimini di guerra. Ma la sua seconda punizione sarebbe arrivata alcuni anni dopo, con il ritratto che solo un ex nemico e compagno di cella come Moczarski fu in grado di rendergli dopo averne compreso e descritto i veri meccanismi dell'anima.

Corriere della Sera 30.12.08
Novecento Un saggio sulla «Difesa della razza» e sulle discussioni che la rivista suscitò nella cultura del regime
E il fascismo arruolò Dante e Leopardi per colpire gli ebrei
di Antonio Carioti


Uno dei falsi più eclatanti fu l'arruolamento di Giacomo Leopardi come «poeta protofascista», addirittura precursore del mito ariano. Si leggeva anche questo sulla rivista La Difesa della razza: fuMassimo Lelj, bizzarra figura di ex anarchico convertito alla fede littoria, grande cultore della filosofia di Vico, a pubblicare un'antologia di pensieri tratti dallo Zibaldone, scelti e commentati con perizia manipolativa in modo da presentare l'autore come un accanito nazionalista. E lo stesso Lelj non esitò ad arruolare anche Dante: di lui scriveva che, adottando la lingua volgare, ci aveva mostrato «il volto della razza».
D'altronde tutta la carriera di Telesio Interlandi, direttore del famigerato quindicinale, è segnata da un sistematico asservimento della cultura, di cui il giornalista siciliano non era affatto sprovvisto, alle esigenze politiche. Non a caso le sue creature, a partire dal quotidiano Il Tevere (fondato nel 1924), furono sempre generosamente foraggiate dal potere. Lo storico Francesco Cassata, nell'ampio e approfondito saggio «La Difesa della razza» (Einaudi), presenta Interlandi come un «estremista di regime», un ringhioso mastino antisemita che per diverso tempo Benito Mussolini tenne al guinzaglio, per poi scatenarlo al momento di varare le leggi razziali, affidandogli uno strumento apposito per colpire con violenza inaudita le vittime designate.
Non bisogna credere però, nota Cassata, che La Difesa della razza, con i testi e le immagini aberranti di cui il volume fornisce copiosi esempi, fosse l'unica (e magari isolata) espressione del razzismo fascista. Al contrario, proprio l'attenta ricostruzione delle polemiche suscitate dalla rivista dimostra che l'antisemitismo circolava abbondantemente negli ambienti intellettuali legati al regime. Per esempio il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti respingeva con sdegno gli attacchi di Interlandi all'arte moderna quale «adulterazione ebraica del gusto italiano», ma solo per sostenere che gli ebrei non erano dotati di alcuna creatività artistica e quindi appariva assurdo attribuire a loro le realizzazioni delle correnti d'avanguardia.
Inoltre Cassata documenta quanto possa essere fuorviante una distinzione rigida tra il razzismo biologico e quello spirituale. È vero che il filosofo tradizionalista Julius Evola fustigava ogni visione «zoologica » e «scientista», a suo avviso subalterna agli «idoli del positivismo ottocentesco», richiamandosi al valore preminente dello spirito. E dalle colonne della Difesa della razza gli replicava, per una curiosa combinazione, un futuro strenuo avversario degli evoliani nel Msi, Giorgio Almirante, che esaltava invece il razzismo «del sangue, della carne e dei muscoli». Ma a ben vedere Evola non rigettava affatto la discriminazione su base biologica, semmai intendeva integrarla e affinarla su un più sofisticato piano etico, per definire una concezione «totalitaria » della razza atta a smascherare gli individui che «pur non essendo proprio ebrei nel sangue, lo sono decisamente nel modo d'essere e nel carattere».
Al tempo stesso, Interlandi e i suoi collaboratori non si accontentavano certo di bersagliare ebrei, neri e meticci, magari raffigurandoli in forma di animali repellenti (rettili, ragni, topi, avvoltoi). La Difesa della razza era anzi ossessionata dalle influenze giudaiche occulte, temute come un gravissimo fattore d'inquinamento della nazione. Pullulavano quindi sulle sue pagine, come su quelle del Tevere e dell'altra rivista interlandiana, Quadrivio, le invettive rivolte alla «gente falso-ariana, indelebilmente circoncisa, anziché sul prepuzio, nella malata profondità dello spirito». L'intera borghesia italiana, per il fascismo razzista intransigente, era sospetta di coltivare abitudini contaminate dalla mentalità ebraica.
Insomma, sottolinea Cassata, La Difesa della razza e i suoi critici spiritualisti, compresi quelli di fede cattolica come Nicola Pende e Giacomo Acerbo, concorsero a produrre un sincretismo razzista nel quale i confini tra biologia e cultura tendevano a sfumare. L'importante non era la coerenza teorica, ma lo sforzo di plasmare un «italiano nuovo », depurato da qualsiasi influsso allogeno e prono alle direttive del regime. Perciò il motivo razziale va considerato parte integrante della «rivoluzione antropologica» perseguita dal fascismo. Il «culmine logico, seppure estremo», come scrive Cassata, del programma di Mussolini. Non certo una fatale deviazione dovuta alla scelta politica di allearsi con il Terzo Reich.

Corriere della Sera 30.12.08
Ideologie Teorie pseudoscientifiche, populismo, fondamentalismo religioso, xenofobia
Tutti i pregiudizi che alimentano l'antisemitismo
di A. Car.


Morbo niente affatto debellato, l'antisemitismo continua ad attirare l'interesse degli studiosi. Lungi dal costituire «una teoria ideologica precisamente strutturata», osserva lo storico Simon Levis Sullam nel saggio L'archivio antiebraico (Laterza, pp. 101, € 14), esso si presenta come un groviglio retorico in cui confluiscono elementi della più varia natura (stereotipi xenofobi, pregiudizi religiosi, suggestioni anticapitaliste e populiste), che si combinano di volta in volta in forme diverse. Una rassegna ampia e articolata di come il problema si è posto in Italia (con interessanti incursioni altrove, dalla Gran Bretagna alla Romania) si trova nel volume L'intellettuale antisemita (Marsilio, pp. 229, € 20), curato da Roberto Chiarini e aperto da una prefazione di Stefano Folli. Il libro raccoglie gli atti di un convegno organizzato a Salò dal Centro studi sulla Rsi, con un confronto serrato fra studiosi di vario orientamento (da Giovanni Belardelli a Francesco Germinario, da Alberto Cavaglion a Renato Moro) sulle origini, la natura e le conseguenze dell'antisemitismo fascista. Sposta invece l'obiettivo dai persecutori alle vittime, soffermandosi sul nodo della memoria, lo studio di Raffaella Di Castro Testimoni del non-provato (Carocci, pp. 327, € 26): un'inchiesta sulla difficile condizione psicologica e morale di coloro che, come l'autrice, hanno avuto la ventura di ascoltare testimonianze dirette dei propri cari sulla Shoah. Da segnalare infine il numero speciale dedicato al settantesimo delle leggi razziali dalla rivista Ventunesimo Secolo, edita da Rubbettino.

Corriere della Sera Roma 30.12.08
L'eroe e il Tevere
In un libro di Daniel Pick, storico e psicoanalista, l'ossessione di Garibaldi: «salvare» Roma dal fiume
di Pietro Lanzara


«Un'ora della nostra vita a Roma vale un secolo di vita in qualsiasi altro luogo», aveva scritto Giuseppe Garibaldi mentre la Repubblica Romana, nel 1849, stava crollando intorno a lui. A fine gennaio 1875, a 68 anni, Garibaldi lascia Caprera per Roma avviando una «crociata» che sarebbe diventata la sua ossessione: deviare il corso del Tevere fuori dalla Città Eterna, sconfiggere le esondazioni e le febbri malariche, prosciugare le paludi dell'Agro e irrigare le campagne, creare dighe e bacini, rendere il fiume navigabile e perfino colmarne il letto per creare dentro Roma un boulevard che sarebbe stato la meraviglia del mondo moderno, simile a quelli parigini del barone Haussmann.
L'Eroe dei due Mondi sbarca a Civitavecchia in camicia rossa e poncho, piegato dall'artrite e dai reumatismi, al braccio del figlio Menotti, sale sul treno in terza classe al suono della banda, trova nella Capitale una folla di adoratori, una processione trionfale che lo scorta e, subito, riceve oltre trecento carte da visita dai parlamentari.
La scienza contro la superstizione: il sogno è di riportare il fiume alla purezza dell'antichità, non più squallido veicolo di inondazioni che lasciano acque stagnanti, che provocano infezioni e miasmi, la Febbre Romana (la «mal'aria» colpiva ancora nel 1886 il 66 per cento degli abitanti del Lazio).
Per realizzare il progetto che era stato sfiorato da Papi e Imperatori dei secoli passati, il generale crea un gabinetto di esperti, progetta grandi opere di ingegneria, dà vita a un autentico «lobbysmo» politico, cerca fondi e assistenza tecnica in tutta Europa, contatta anche i Rotschilds, discute con medici, archeologi, artisti. Fra il febbraio 1875 e la fine dell'anno si susseguiranno tre progetti: uno di Quirico Filopanti (pseudonimo di Giuseppe Barilli) professore d'ingegneria idraulica a Bologna, compagno d'armi del 1849, che prevedeva 17 chilometri di canale a est della città e una diga sopra Roma, oltre a un porto a Fiumicino collegato per ferrovia; un altro del colonnello e patrizio romano Luigi Amadei, altro reduce delle camicie rosse»; il terzo di Alfredo Baccarini, consulente governativo, che proponeva una soluzione di compromesso.
Dopo una frustrante odissea, fra ostacoli e rinvii, Garibaldi vedrà svanire la sua chimera nelle spire di un inestricabile labirinto burocratico di politici, ministri, commissari, e una stampa popolare lo mostrerà come un novello Gulliver, legato e immobilizzato dalle corde dei lillipuziani.
All'impresa che non fu compiuta, Daniel Pick ha dedicato il libro «Rome or Death, the Obsessions of General Garibaldi» (Jonatahn Cape, The Random House Group). Storico e psicoanalista, professore alla Queen Mary, University of London, Pick affronta una serie di questioni: che cosa trasformò il condottiero e rivoluzionario in un apostolo della salute pubblica, della redenzione di quella Roma dove era arrivato la prima volta a diciott'anni, per portare con il padre, su una barca tirata da bufali lungo il Tevere, un carico di vini? Come avvenne che la Città Eterna si trasformò per lui nella «matrona del mondo», una malata da guarire, una donna da amare, una prigioniera da liberare? Daniel Pick indaga, attraverso una serie di folgoranti concatenazioni, su enigmi biografici e «puzzles» psicologici che si innestano sui temi sociali, culturali e politici; rivisita documenti e biografie, scava nelle corrispondenze, nelle cronache del tempo, nelle carte spesso inedite degli archivi pubblici e privati, dall'Istituto del Risorgimento al Vittoriano alle Biblioteche del Parlamento e all'Archivio centrale dello Stato. Senza trascurare, ma anzi dando un senso profondo e illuminante alle pagine degli scrittori che hanno raccontato Roma come luogo di «morte e desiderio», con la sua «allure» anche morbosa, sensuale: la patologia della città come l'hanno vissuta John Ruskin e Charles Dickens, Henry James e Nathaniel Hawthorne, George Eliot, Matilde Serao e Gabriele D'Annunzio, Hippolyte Taine ed Émile Zola.
Nella notte fra il 26 e il 27 dicembre 1870, il Tevere aveva invaso «come un ladro nella notte » Trastevere e il Ghetto, i piani bassi dei palazzi in via del Corso, dove si transitava su barche, via Condotti, via Giulia; piazza Navona e quella del Pantheon apparivano piuttosto come laghi. Per fortuna le vittime furono pochissime, ma si trattò di un disastro epico, che i clericali invisi a Garibaldi considerarono una punizione biblica per la presa di Porta Pia. Fango e melma dappertutto, la città senza più gas e illuminata solo a candele. Vittorio Emanuele II arrivò alle tre del mattino, distribuì elemosine in centro e alle cinque del pomeriggio ripartì per Firenze. Ma Garibaldi rinnovò il suo mantra «Roma o Morte », quello del 1862, quando l'aveva proclamata nel suo cuore Capitale d'Italia: ora occorreva salvarla da una putredine fisica ma anche morale.
Pure tenendosi lucidamente a distanza dalle «spiagge selvagge della psicostoria», Daniel Pick affascina i lettori con un approccio psicoanalitico (del resto Freud aveva paragonato Roma a «un'entità psichica» e aveva fatto notare agli astanti, al capezzale, che «mio padre sul suo letto di morte assomigliava a Garibaldi»). Lo studioso individua, nel triangolo colpa, lutto ed espiazione, il peso del trauma patito con la morte di Anita proprio per le febbri malariche, nella marcia terribile del 1849 in fuga da Roma; emergono gli aspetti depressivi della personalità: «naturale tendenza alla melancolia », dirà di sè Garibaldi, «divento ogni giorno più scettico e misantropo».
Il «coup de grâce» al suo sogno sul Tevere, «il tramonto della mia carriera», arriverà il 27 novembre in una riunione al ministero dei Lavori Pubblici: cade la soluzione «esterna», contro le inondazioni si costruiranno banchine e muraglioni. La vecchia Roma ha vinto sulla nuova. Lo stesso anno, quasi segno del destino, muore a 16 anni di malaria, come la madre, la figlia che ne porta il nome, Anita. I fantasmi ritornano.

il Riformista 30.12.08
Voci da Gerusalemme. Le proteste nelle Università, il timore di ritrovarsi sul campo di battaglia
«Siamo stufi, al fronte non ci andiamo»
di Anna Momigliano


Il peggio deve ancora venire. L'avvertimento è di Dan Harel, numero due dello Stato maggiore israeliano, diretto ai dirigenti di Hamas. Ma il messaggio è sufficiente a fare gelare il sangue nelle vene a molti giovani israeliani: l'operazione militare a Gaza andrà avanti, questo è solo l'inizio.
Mentre le bombe continuano a cadere sulla Striscia e i razzi sulle cittadine del Sud di Israele, la vita nel resto del Paese continua a scorrere normalmente, o quasi. Ma la domanda è : ci sarà un'invasione da terra? Le autorità hanno richiamato 6500 riservisti e l'esercito è pronto a intervenire. L'incertezza tiene l'intero Paese con il fiato sospeso. E non solo perchè un'operazione via terra significa una guerra più lunga, sanguinosa, e più difficile da vincere. Ma soprattutto perchè un conflitto via terra significa coinvolgere, direttamente o indirettamente, l'intera popolazione israeliana. In un Paese dove tutti gli uomini sotto i 45 anni sono regolarmente richiamati alle armi (le donne trascorrono due anni consecutivi nell'esercito), tutti avrebbero qualcuno al fronte: un fratello o una sorella, un figlio o un genitore.
Insomma, anche se per il momento i grandi centri abitati (Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme) restano lontani dal fronte, in Israele si respira tensione e incertezza. Proprio come due anni e mezzo fa, quando nell'estate del 2006 cominciavano ad arrivare le lettere di richiamo ai riservisti che avrebbero combattuto la guerra contro Hezbollah. Fu anche la loro rabbia a costringere Ehud Olmert alle dimissioni: l'accusa era quella di avere mandato al massacro centinaia di giovani israeliani, per combattere una guerra inutile e mal pianificata.
Non deve stupire, dunque, se anche oggi sono i giovani ad opporsi all'operazione militare. Ieri studenti hanno organizzato manifestazioni di protesta nelle principali tre università israeliane. Circa 300 giovani nel campus dell'Università di Haifa, 200 a Tel Aviv e alla Hebrew University di Gerusalemme. Sempre a Tel Aviv qualche altro centinaio di manifestanti pacifisti si è raccolto davanti alla sede del ministero della Difesa. Inoltre, alcuni attivisti di destra hanno organizzato contro-manifestazioni, a sostegno delle operazioni militari.
Si tratta di manifestazioni relativamente piccole, beninteso. Ma il fatto che la reazione sia stata così pronta rappresenta comunque una novità, per Israele. Un segno che la preoccupazione per una ulteriore escalation è più forte che mai: ai tempi della guerra del Libano, si era dovuto aspettare settimane perchè il fronte pacifista si mobilitasse.
Uno studente spiega al Riformista il fatto che sempre più giovani israeliani non si riconoscono più nel mantra che «non c'è alternativa», «molti di quelli che hanno combattuto hanno visto che non è servito a molto», ci dice un manifestante a Tel Aviv. Tanti ragazzi hanno rischiato molto, sia in termini di pericolo sul campo che di stress psicologico, tanto che i suicidi tra i coscritti e i riservisti sono un fenomeno in crescita, racconta un altro ragazzo. E aggiunge: «Siamo stufi, semplicemente stufi».
Anche al di fuori dei campus, le critiche all'operazione «Piombo fuso» su Gaza sono molto più forti rispetto all'inizio della guerra del 2006: L'intera idea di «dare una lezione a Hamas» non ha alcun senso, perchè se c'è una cosa che la Storia ci insegna è che nessuna azione militare ha aiutato il dialogo con i palestinesi, scriveva ieri lo storico Tom Segev su Haaretz. Per il momento, l'opposizione alle operazioni militari è ancora minoritaria tra la popolazione. Ma se Israele dovesse lanciare un'operazione massiccia via terra, le cose potrebbero cambiare. La rabbia per la guerra del Libano, e le vite di giovani israeliani mandati a morire inutilmente, è ancora molto radicata.

Repubblica 30.12.08
La guerra dei poeti
Se Penna assalta Montale
Recuperate alcune annotazioni inedite. Un saggio di Roberto Deidier
di Francesco Erbani


L’autore di "Una strana gioia di vivere" appuntò su una copia delle "Occasioni" una serie di giudizi molto critici
La pretesa di fare chissà che: Verso Vienna (il ridicolo) o cose brevi e ridicole e in più povere
La sigla finale: d´effetto ma troppo forte, barocco, disgustoso o letterario e comune

Il Montale delle Occasioni - le Occasioni sono la seconda raccolta del poeta ligure, pubblicata nel 1939 - è un Montale «che ha la pretesa di fare chissà che: Verso Vienna (il ridicolo) o cose brevi e ridicole e in più povere». Scritte con calligrafia nervosa su una pagina bianca di quella stessa raccolta (Verso Vienna è il titolo di una poesia che lì compare), le parole di Sandro Penna sono il suggello smozzicato e un po´ spietato di un´amicizia che si è chiusa e, con l´amicizia, del rapporto intellettuale troncato fra un poeta già affermato e a suo agio con riviste ed editori e un altro più acerbo e che il primo aiuta a inerpicarsi sulla scena letteraria.
Il sodalizio fra Montale e Penna, come quello fra Saba e Penna, è intricato. Si colloca negli anni in cui sboccia una stagione poetica, di cui segna in buona parte il destino, definendo due poli differenti, persino opposti, di scrivere versi, due poli che pure si muovono da una matrice in larga misura analoga (Penna e Montale, scrive Cesare Garboli, sono «simili a due costellazioni che si fronteggiano», affetti da «gemellarità litigiosa»). Quell´appunto acido di Penna nei confronti del suo mentore emerge ora dalle carte del poeta perugino. Nella sua disordinata biblioteca in via della Mola dei Fiorentini, a due passi da Via Giulia a Roma, era infatti conservata un´edizione delle Occasioni nella quale compaiono due paginette di annotazioni manoscritte. Sono osservazioni che Penna verga d´istinto, con inchiostro blu, nient´affatto sistematiche e di carattere prevalentemente stilistico. Ma che, epilogo di una vicenda iniziata anni prima, sono un capitolo di storia della poesia italiana del Novecento.
Quelle osservazioni le pubblica Roberto Deidier, poeta e professore di Letteratura moderna e contemporanea a Palermo, nel volume Le parole nascoste. Le carte ritrovate di Sandro Penna (Sellerio, pagg. 212, euro 16). Secondo Deidier, che in passato ha curato anche il carteggio fra Saba e Penna, quando scrive le note su Montale, il poeta di Una strana gioia di vivere «si sente escluso da quel circuito affettivo» che negli anni precedenti «lo aveva coinvolto appieno, come testimone vicino e lettore, nella genesi dell´opera» montaliana. L´edizione delle Occasioni che lui possiede è del 1942, di tre anni successiva all´uscita della raccolta. Non reca alcuna dedica: nessuno, tantomeno Montale, gliene ha fatto avere una copia.
Prima di quella su Verso Vienna, un´altra annotazione colpisce in genere le invenzioni poetiche di Montale definite "il giochetto". Penna diventa sprezzante di fronte ad altre figure tipiche del poeta ligure, chiosando con un "ma bravo qui" il "topo" che compare in Barche sulla Marna oppure "la cappelliera" di A Liuba che parte. Poche parole fulminanti, brevi frasi il più delle volte lasciate in sospeso investono il modo di far poesia del Montale di quegli anni: «Forse è davvero poco ciò che, fuor dai Mottetti, si salva nelle Occasioni», scrive Deidier. Eppure la nota più incalzante di Penna tocca proprio i versi dei Mottetti, una delle sezioni delle Occasioni: «La sigla finale: d´effetto ma troppo forte, barocco, disgustoso, o letterario e comune (E il tempo passa)». («E il tempo passa» è la chiusa di una poesia dei Mottetti).
L´ultima chiosa di Penna, nonostante resti sospesa, sembra la più argomentata e tuttavia non arriva alla compiutezza di un giudizio critico motivato: «Quello che salverei è la forza descrittiva quando per miracolo si salva dal cattivo gusto ? è fine a se stessa e serve il gioco puro, elegante: la farfalla di Vecchi Versi, il gasista, la stanza dell´Amiata, Pico Farnese,». La frase si chiude con una virgola, che forse annuncia un approfondimento, rimasto però inespresso.
Montale e Penna si erano conosciuti nel 1932, avevano dieci anni di differenza - del 1896 il primo, del 1906 il secondo. Fra loro si era avviata una corrispondenza e Montale si era incaricato di aiutare Penna a pubblicare i suoi versi (il carteggio fra i due è stato pubblicato da Elio Pecora). Lo scambio è fitto, intenso. Ma in una lettera del 1935 Montale fa balenare il sospetto che alcuni testi di Penna non sarebbero stati accettati dalla censura fascista. Troppo esplicito, a suo avviso, l´erotismo. Il progetto di pubblicazione si arena e fra i due poeti il rapporto si incrina. Di queste vicende ha scritto Cesare Garboli in un piccolo volume del 1996, Penna, Montale e il desiderio (Mondadori). Secondo Garboli, «Montale aveva visto in Penna quello che gli sembrava, o gli era, negato: i sensi, il desiderio, le poesie afrodisiache capaci di fare limpido e semplice tutto ciò che è più impuro e oscuro. Poi erano trascorsi degli anni, il tempo necessario perché si formassero dei dubbi e maturasse un´altra convinzione; che i sensi sempre accesi di Penna erano una bella favola, fantasmi di gioia improbabile, sintomi di patologia risaputa e puerile, ricordi di un passato inventato. Il tempo della seduzione è finito. Penna era diventato un pensiero noioso».
Montale ha letto i versi di Penna destinati alla pubblicazione e restati invece fermi sulla sua scrivania. Li ha letti, aggiunge Garboli, e li ha mescolati nella sua memoria letteraria, servendosene nei Mottetti. In particolare per due di essi, Lontano, ero con te quando tuo padre e Al primo chiaro, quando, due poesie alla cui data Montale affianca un punto interrogativo. Forse, aggiunge Garboli, per farli apparire di epoca più antica e dunque non influenzati dalla lettura di Penna.
La storia dell´amicizia continua anche oltre la sua interruzione, oltre l´uscita delle Occasioni e di Poesie, la raccolta d´esordio di Penna, che vede la luce contemporanemanete a quella montaliana. Garboli ne ha ricostruito il groviglio. Penna riconosce nei Mottetti qualcosa di suo, talmente mescolato «da non farglielo appartenere più». In privato accusa Montale di non aver pubblicato i versi che gli aveva dato per motivi bassi: voleva farli uscire dopo i Mottetti. E non sarebbe dunque un caso che le annotazioni di Penna sulle pagine delle Occasioni non coinvolgano i Mottetti, se non parzialmente.
Pochi mesi dopo l´uscita del volume di Garboli, Domenico Scarpa, recensendo il libro, aggiunge un altro capitolo alla detective story. E Penna non avrà preso qualcosa anche lui da Montale? In almeno una occasione, secondo Scarpa, il prestito è evidente (da uno dei Mottetti in direzione di una poesia della raccolta Peccato di gola di Penna). E sarà il solo? Scarpa ricostruisce un altro tassello di questo tortuoso mosaico. Siamo negli anni Settanta. Preparando un volume per festeggiare gli ottant´anni di Montale, qualcuno coinvolge anche Penna. Il quale rimette insieme dieci versi divisi in due strofe risalenti a vent´anni prima e già pubblicati. È un poeta ingrigito e triste quello che scrive: «La festa verso l´imbrunire vado / in direzione opposta della folla / che allegra e svelta sorte dallo stadio». I volti radiosi di chi ha partecipato a un trionfo e ai quali guarda dolente un anziano signore che cammina in senso contrario, non nascondono, si domanda Scarpa, «quei critici e poeti che hanno appena finito di rendere omaggio (la festa) al decano Montale?». Ciascuno offre il proprio omaggio, Penna, scrive Scarpa, rievoca «la libbra di carne viva che Montale gli ha strappato per nutrirsene dopo averla cucinata secondo la sua ricetta».
Le cose possono essere andate così, ma potrebbero anche essere lette diversamente. La poesia è il territorio delle ambivalenze. E i poeti, scriveva Garboli, sono più in quello che danno che in quello che prendono. Ma nella poesia scritta vent´anni prima e senza alcun riferimento montaliano, Penna potrebbe aver letto la propria sorte di poeta «depredato nella e della poesia», ramingo e solitario, che lascia all´ex amico un messaggio che solo lui, in quel momento di gloria, può leggere nel modo giusto, sentendosi ferito.

Agi.it 29.12.08
Editoria: Vladimir Luxuria, domani sit-in a Liberazione


Roma, 29 dic. - Vladimir Luxuria difende Liberazione, il 'suo' giornale e domani mattina ci sara' un sit-in davanti alla sede del quotidiano. "Non basta la crisi economica. La vigilia di Natale e' spuntato per Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista, diretto da Piero Sansonetti, anche lo spauracchio di un compratore-choc: Luca Bonaccorsi, discepolo dello psicanalista Massimo Fagioli. Cosi' la testata che piu' si e' battuta per dare spazio alle culture femministe, gaylesbotransgender, e in generale dei movimenti, sarebbe consegnata a un gruppo di idee opposte", si legge in una nota.
E per dire 'No' domani, martedi' 30 dicembre alle 12 in viale del Policlinico 131, davanti alla sede di Liberazione, si terra' un sit in di protesta. In prima fila Vladimir Luxuria, nell'occhio del ciclone per essere stato messa in prima pagina con la sua vittoria all'Isola dei famosi.

Cari amici,
ho letto la e-mail con vostra relativa risposta ad una signora molto inviperita perchè la trattate male, ma, alla fine della lettura, mi sono reso conto di aver sprecato inutilmente alcuni minuti della mia (per me assai preziosa) vita. La signora comesichiama si è molto arrabbiata in primis perchè pare che non sia vendoliana come è stata definita, bensì autonoma (questa sì che è una notizia... che esistano ancora 'autonomi' intendo, ma anche che la signora sia tale) e poi perchè, ritenendo importante Focault e non Fagioli, ci illumina del suo profondo disinteresse circa il pensiero del secondo che, bontà sua, non è stato criticato ottocentomila volte (sic !) dalla signora stessa, come sarebbe potuto accadere (wow ! Fagioli, così poco abituato ad essere criticato, si sarà preso un gran spavento !).
Credo che un non disumano, bensì umanissimo pensiero si possa sintetizzare nel classico, molto popular, 'echissenefrega?' piuttosto che in forbite discussioni in punta di fioretto. O dobbiamo proprio perdere tempo con ogni stizzita intellettualautonoma in vena di ripicche?
Un saluto e affettuosi complimenti per il vostro lavoro.
Fabio Della Pergola

lunedì 29 dicembre 2008

Repubblica 29.12.08
La polemica
Bonaccorsi: "Sansonetti è come Villari"


ROMA - «Il comportamento di Sansonetti mi sembra inqualificabile e le sue affermazioni su Repubblica, che spero smentirà, gravissime. Io antifemminista e omofobo? Ormai siamo alle bugie palesi e alla diffamazione». Lo afferma Luca Bonaccorsi, direttore editoriale del settimanale Left ed interessato a rilevare il quotidiano del Prc, diretto da Sansonetti. «Se Sansonetti pensasse ad altro oltre che alla sua poltrona saprebbe che nella carta d´intenti dell´associazione per la sinistra il matrimonio gay è stato inserito su mia proposta. È evidente che anche dentro il Prc c´è un caso Villari: quello di un signore, che mentre sta aggrappato alla poltrona mettendo a rischio i lavoratori del giornale da un lato diffonde bugie e disinformazione».

Repubblica 29.12.08
La commedia del popolo
di Albero Asor Rosa


In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l´ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia).
In questo testo è in gioco l´apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un´opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell´intero «sistema letterario» italiano. E per quanto l´occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l´essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all´altro l´intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all´altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all´opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all´opera e ai precetti teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all´infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l´occasione fermerò l´attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com´è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso). Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell´uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l´elemento popolare.
Le parole di Petrarca sono di un´inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l´insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell´esercizio delle loro attività artigianali? Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s´alza o s´abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com´è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d´una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino. «Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un´affermazione d´identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata). È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt´altro che casuale.
L´origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d´esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.

Repubblica 29.12.08
I critici di Fini ignorano la Storia
di Mario Pirani


Ho trovato abbastanza spudorate le polemiche contro Gianfranco Fini per la chiamata di correo, limpida e coraggiosa, da lui avanzata in occasione del 70° anniversario delle leggi razziali che, come ha ricordato il presidente della Camera, se bollarono di ignominia il regime fascista, non assolsero certamente il silenzio della stragrande maggioranza dell´opinione pubblica, né tanto meno della Chiesa cattolica. Torno sull´argomento perché una rassegna stampa conclusiva mi ha indotto a riflettere sugli automatismi di certe prese di posizione, spiegabili in base ai calcoli politici attuali ma non certo preoccupate dalla verifica della realtà storica.
Quanto al primo aspetto, è pur vero che molti italiani non nutrivano particolari antipatie per gli ebrei e individualmente lo manifestarono. Resta, però, l´assenza di ogni dissonanza collettiva, mentre fu evidente la caccia ai posti lasciati liberi dagli ebrei nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nell´amministrazione pubblica, nell´esercito, nelle accademie, nei giornali, negli istituti di cultura, nelle assicurazioni, nelle banche, negli studi professionali, nelle case editrici a cui nessuno dei prescelti si sottrasse.
Quanto all´atteggiamento della Chiesa torno a premettere che il comportamento di tanti presuli e di semplici sacerdoti, dal 1938 fino al ´43-´45, fornì la prova che cominciava a prevalere lo spirito di solidarietà sull´intolleranza dei secolari anatemi contro i «perfidi giudei». Di questa svolta conservo qualche personale memoria. Ciò non cancella il valore della dichiarazione, ricordata da Luigi Accattoli sul Corriere, che il segretario della Cei per l´ecumenismo, l´arcivescovo Giuseppe Chiaretti, rivolse dieci anni orsono alla Comunità ebraica, rievocando «la pagina oscura della storia religiosa durante la quale la comunità ecclesiale, anche per lunga acritica coltivazione di «interpretazioni erronee e ingiuste della Scrittura» (Giovanni Paolo II), non seppe esprimere energie capaci di denunciare e contrastare con la necessaria forza e tempestività l´iniquità che vi colpiva». Per parte mia voglio citare in proposito un testo di accertata obiettività dello storico cattolico, Renato Moro, su "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei" (Il Mulino 2002) in cui ricostruisce, tra l´altro, i contrasti che divisero la Curia al momento delle leggi razziali, tanto che un´allocuzione di Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in cui papa Ratti affermava verbalmente: «L´antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti», non venne pubblicata dall´Osservatore Romano, mentre, al contempo, la diplomazia vaticana, diretta dal cardinal Pacelli, siglava un accordo col regime in base al quale, preso atto che nei confronti degli ebrei il governo italiano intendeva applicare «onesti criteri discriminatori», si manifestava la opportunità che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo si astenessero «dal trattare in pubblico questo argomento». Il papa, tuttavia, non parve fermarsi e il professor Moro analizza la complessa vicenda della preparazione dell´enciclica Humani Generis Unitas rivolta alla condanna del nazismo e dell´antisemitismo razziale. Il testo venne completato, tradotto in latino e consegnato, perché lo sottoponesse al pontefice, al generale dei Gesuiti, padre Lédochowski, ma questi assunse una linea dilatoria, convinto che il pericolo vero per il cattolicesimo fosse il comunismo e non Hitler e che occorresse evitare l´acuirsi di eventuali dissidi tra la Chiesa e le potenze dell´Asse.
Il Papa fece allora inviare dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Tardini, una dura nota al generale dei Gesuiti e questi dovette cedere. L´Enciclica giunse in Vaticano il 21 gennaio e il papa prese ad esaminarla nei giorni successivi. Troppo tardi. Il documento fu trovato sul suo tavolo al momento della morte, nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 1939. A Pio XI successe il cardinale Pacelli, accolto da molte speranze che andarono presto deluse. Pio XII, infatti, reputò dannoso, alla vigilia di un conflitto ormai certo, il "rigore" dell´enciclica del suo predecessore e la fece archiviare. Inviò, invece, una lettera a Hitler in cui gli esprimeva la speranza in rapporti migliori fra le due parti. Uno dei primi atti del pontificato fu poi la riconciliazione con l´Action Francaise, movimento cattolico dell´estrema destra antiebraica francese, condannato da papa Ratti. Una erronea e catastrofica visione diplomatica prevalse in quell´epoca sull´afflato ecumenico che il mondo attendeva. Come dar torto a Fini?

Repubblica 29.12.08
Analisi sui manoscritti dell´evoluzionismo Un software rivelerà la paternità della teoria
Darwin "copione" ultimo round contro Wallace
In Gran Bretagna tutto pronto per il bicentenario della nascita del celebre naturalista
di Cinzia Sasso


LONDRA. Sarà mai che quella parola che tutti comunemente usiamo per intendere l´evoluzione della specie - il darwinismo - sia frutto di un imbroglio e che il vero scopritore della teoria che ha rivoluzionato la scienza non sia il grande Charles Robert Darwin ma un suo meno conosciuto collega di nome Alfred Russel Wallace? Dopo l´americano Wall Street Journal è il Sunday Times a dare conto di una diatriba che mette gli uni contro gli altri i sostenitori dei due più grandi naturalisti dell´Ottocento e a raccontare di come, partendo da un´associazione che ha sede in Indonesia, la polemica stia salendo di tono proprio mentre la Gran Bretagna si prepara a celebrare nel 2009 il bicentenario della nascita del suo eroe, Darwin, lo scienziato che è appena stato definito "una delle figure di maggiore spicco della storia nazionale" e al quale il Museo di storia naturale di Londra dedicherà la più grande esposizione sul tema di tutti i tempi.
La polemica, stavolta, non è sui contenuti. Non si mette in dubbio la teoria dell´evoluzione che traumatizzò la tranquilla Inghilterra vittoriana. Ciò che è in discussione, piuttosto, è la paternità di quella sconvolgente scoperta. E per chiarire chi sia colui che per primo ha individuato nella selezione naturale e nelle mutazioni genetiche la ragione del progresso delle specie è stato commissionato un esame dei libri e delle lettere scritte da Darwin mentre si apprestava a pubblicare, nel 1859, «L´origine della specie». Perché il sospetto dei sostenitori dell´oscuro Wallace è che Darwin sia stato un copione. A dare il responso definitivo saranno degli specialisti informatici, con l´impiego di un software che viene usato anche nelle università per scoprire se i lavori degli studenti siano farina del loro sacco. Sono originali di Darwin, o sono tratti dagli studi dell´autodidatta Wallace, i concetti di quello che è passato alla storia come darwinismo? I promotori dell´iniziativa promettono di sottoporre, a luglio, ad Amsterdam, i risultati della ricerca ai massimi esperti del ramo, riuniti nell´Association of Forensic Linguists.
Darwin e Wallace, di 14 anni più giovane, hanno svolto nello stesso periodo studi paralleli. Si sa che tra loro erano in contatto e che Darwin venne a conoscenza della scoperta della rana volante proprio attraverso una lettera di Wallace. Tutti e due presentarono alla Linnean Society di Londra le conclusioni dei rispettivi studi: riassunte in due paginette da Darwin e in un corposo saggio da Wallace. Poi, dice l´accusa, Darwin si diede da fare come un matto per riuscire a pubblicare per primo "L´origine della specie". La controversia non è nuova: un libro racconta già delle origini del "crimine scientifico" che avrebbe sottratto a Wallace la paternità della scoperta ma oggi, in vista del bicentenario e dei grandi onori che saranno tributati a Darwin, si registra questo nuovo bollente capitolo. Con David Hallmark, un avvocato che rappresenta la Wallace Foundation of Indonesia, che tuona: «Il silenzio caduto su Wallace è frutto dell´imbroglio di Darwin». E con James Moore, professore all´Open University, che ribatte: «Quest´accusa di plagio è inconsistente ed è costruita solo per fare rumore».

Repubblica 29.12.08
Sorprendenti le vendite fra natale e capodanno
Il libro ci salverà? Ecco le feste piene di libri
E arrivano nuove librerie
di Simonetta Fiori


Tutti gli editori sono concordi: quello del settore librario è un caso di controtendenza rispetto alla crisi che ha penalizzato altri consumi con vistose diminuzioni
"Siamo protetti dalla nostra arretratezza. In Italia pochi leggono, ma quei pochi leggono molto" dice Ferrari della Mondadori
Carlo Feltrinelli annuncia l´apertura di un grande spazio alla Stazione di Milano Ma per l´anno che viene le previsioni sono prudenti

Il libro ci salverà? Nel clima funerario che avvolge l´economia, con i consumi in caduta verticale rispetto al Natale precedente, segnali rassicuranti arrivano dalle librerie, piene zeppe sotto le feste a dispetto delle più cupe previsioni. Al tempo della crisi, quello strano oggetto con cui metà degli italiani non ha per niente confidenza, e l´altra metà scarsa dimistichezza, viene inaspettatamente promosso a ultimo bene rifugio: non solo come regalo identitario, da donare con modica spesa; ma anche come unico approdo possibile, al quale aggrapparsi spaesati per poi ricominciare. In assenza di cifre definite - ancora troppo presto per tracciare bilanci certi - intervengono le testimonianze degli editori, omogenee nel rilevare la tenuta dell´editoria libraria all´urto della crisi. E a riscuotere maggiori consensi non sono titoli frivoli o d´intrattenimento, ma saggi pensosi o di contenuto spirituale, dalle analisi del Nobel Krugman alle meditazioni in forma di ricordo di padre Enzo Bianchi, dai grandi affreschi sociologici di Zygmunt Bauman alle riflessioni su vita e morte del cardinal Martini. Che la crisi ci costringa a rivedere le nostre abitudini?
Da Mondadori a Laterza, dal gruppo Mauri-Spagnol a Feltrinelli, i nostri publisher concordano nel restituire un ottimo andamento del mercato librario italiano. A differenza di quel che accade altrove. «Il 2008 è andato bene, meglio delle previsioni», dice Gian Arturo Ferrari, direttore generale della Mondadori, il primo gruppo italiano. «La crisi da noi non si è manifestata con la virulenza che ha avuto in altri paesi. Negli Stati Uniti ad ottobre il mercato è crollato di circa il 15 per cento e poi non si è più ripreso. In Spagna è crollato sempre con percentuali a due cifre a partire da settembre. Da noi c´è stata una flessione ma molto più contenuta nella seconda metà di settembre e poi, ancora inferiore, nel mese di ottobre. Ma dopo il mercato si è ripreso». Anche a Segrate i conti registrano un incremento: «Nel 2008 le nostre case editrici trade - fatta esclusione dunque per la scolastica, le vendite congiunte, il canale edicola e le attività non editoriali di Electa - raggiungeranno un fatturato di copertina netto rese di circa 482 milioni di euro. Circa l´1,5 % in più rispetto al 2007». Un quadro dai contorni ancora più rosei proviene da Stefano Mauri, alla guida della costellazione ereditata dal padre Luciano e da lui ancora accresciuta (un fatturato dichiarato più 7% rispetto al 2007). «Stando ai dati censiti settimanalmente da Nielsen, le vendite in libreria non si sono fermate neppure nelle settimane più nere della Borsa. E dai primi risultati il Natale appare un trionfo».
Segnali d´un mercato dinamico arrivano da Carlo Feltrinelli, che registra un incremento di fatturati sia nelle librerie (più 7 %) che in casa editrice (tra il 5 e il 6 %). E a partire dal 2009 annuncia grandi progetti affidati, pur in un quadro poco sereno, a una permanente fiducia nella lettura. «Apriremo una libreria di 2.700 quadri nella stazione centrale di Milano: spazi analoghi sono programmati nelle stazioni di Napoli e Torino. E in giugno sarà inaugurato a Genova un nuovo modello di libreria integrata, il megastore finora più avanzato: libri, dischi, dvd, caffetteria e molte altre cose. Per noi sarà un anno carico di impegni, nonostante le brutte avvisaglie che arrivano dagli Stati Uniti. Ma io continuo a credere nel libro e nelle sue possibilità».
Le ragioni di questa tenuta possono essere differenti. Di natura merceologica, ma anche di carattere culturale. «Il libro ha il vantaggio di essere ad altissima identità», interviene Giuseppe Laterza, editore di saggistica di qualità "premiata" dalla crisi (il 2008 si chiuderà in linea con l´anno precedente, tra i più brillanti per la casa editrice nell´ultimo ventennio). Nello scaffale degli autori più richiesti figurano il sociologo Bauman, profeta della società liquida, e uno storico come Christopher Duggan, artefice di un monumentale saggio sulla nostra identità nazionale irrisolta. «A differenza di altri oggetti», spiega Laterza, «il libro identifica chi lo regala e chi lo riceve, per giunta a un prezzo molto contenuto». La libreria Laterza, a Bari, ha registrato sotto le feste un 10% in più di venduto. «Nel paniere di una società del benessere», interviene Stefano Mauri, «ci sono beni ben più voluttuari di un libro, che a conti fatti ha un costo orario assai basso in cambio di un intrattenimento molto gratificante. Un costo cresciuto meno dell´inflazione negli ultimi anni».
Ma alla spiegazione mercantile s´aggiunge un´analisi più profonda. «Quando accadono grandi eventi che colpiscono l´opinione pubblica», dice Laterza, «i libri sono strumenti essenziali per capire cosa succede. Dopo l´11 settembre aumentarono le vendite del Corano: i lettori vi cercavano le spiegazioni più complesse. Lo stesso accade ora con la crisi economica. Le persone vogliono capire in che cosa abbiamo sbagliato e come cambiare». L´enorme frastuono di un´informazione televisiva sciatta, superficiale e spesso strumentale ti spinge a cercar riparo in altri luoghi. «Si cercano analisi meno mistificatorie e superficiali di quelle propagandate dai talk show», dice Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale di Garzanti e autore del recente I mestieri del libro. È venuto il momento di prendersi una pausa di riflessione. «La gente ha bisogno di pensare, ritrovando una dimensione spirituale», dice Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi. «Non è casuale il favore racccolto dai libri di padre Bianchi o del chirurgo Atul Gawande, che invitano a prendersi cura dei valori più profondi». Siamo dinanzi a un mutamento culturale?
Il timoniere di Segrate, Gian Arturo Ferrari, suggerisce cautela. «Non esistono generi favoriti o sfavoriti dalla crisi», anche se i lettori tendono a premiare «libri che colgono meglio di altri il senso della crisi», da qui «il successo del volume di Tremonti e la buonissima accoglienza riservata al saggio di Carlo De Benedetti e Federico Rampini». A livello più generale, secondo Ferrari, il fenomeno in assoluto più rilevante è quello dei megaseller, libri che superano il mezzo milione di copie e molto spesso il milione. «E´ un fenomeno ancora tutto da studiare, ma di fatto determina il risultato delle case editrici». Il riferimento è al milione di copie venduto da Paolo Giordano e ai due milioni raggiunti da Roberto Saviano: ma, a guardar bene, specie Gomorra rientra a pieno titolo nel genere di libri che fanno pensare. Megaseller e impegno non sono dunque incompatibili.
Il libro resiste alla crisi anche perché quello italiano rimane un mercato ancora esiguo. «Siamo protetti dalla nostra arretratezza», sintetizza Ferrari. «Non abbiamo mass market, a leggere libri regolarmente siamo cinque milioni, un decimo della popolazione adulta. Ma siamo cinque milioni di persone con un livello di istruzione elevato e di elevato livello socioeconomico. Non rinunciamo ai libri». Siamo un paese di non leggenti, ma con un´invidiabile nicchia di lettori forti, tra le più alte in Europa. «Pur contenuto», suggerisce Laterza, «il nostro s´è rivelato un settore solido, che in questi anni ha resistito alla concorrenza del web e dei quotidiani con i libri allegati». Un mercato stabile, osserva Giovanni Peresson dell´Aie, «che pur registrando modesti incrementi nei fatturati, negli ultimi anni ha dato vita a uno straordinario indotto di film, dvd, programmi satellitari». Piccolo, ma prolifico.
Il "piccolo" appare la misura favorita dalla crisi, che sembra penalizzare le vendite nei supermercati, «meno frequentati quando il piatto piange», dice Mauri, dall´osservatorio delle Messaggerie. Gli scaffali tradizionali tornano a essere luoghi di festa per il libro, come conferma una libreria storica di Bologna, la Giannino Stoppani, specializzata nell´editoria per ragazzi. «I lettori arrivano profondamente motivati, non solo spinti dalla necessità di risparmiare», dice Silvana Sola. «Sotto Natale abbiamo respirato un´atmosfera di attenzione e calore che ci conforta nella nostra scelta ormai venticinquennale».
Previsioni per l´anno che viene? Qui i toni si fanno più prudenti. Unico dato certo, le prenotazioni dei nuovi titoli sono sensibilmente calate. «I librai hanno tagliato del 10% sulle loro normali abitudini, che sono sempre caute al principio dell´anno», spiega Mauri. «Ma per sapere come andrà a finire, bisognerebbe avere la sfera di cristallo». Secondo Ferrari, è probabile un calo di qualche punto in percentuale, «più per la possibile mancanza di megaseller, che per la crisi». In generale si attende guardinghi. Nella speranza che a salvarsi nel maremoto dell´economia sia proprio il "consumo meno consumistico". Uno dei pochi, da cui ricominciare.

Repubblica 29.12.08
Madrid. Tra dei e uomini
Museo Nacional del Prado. Fino al 12 aprile.


In contemporanea con la bella mostra dedicata a "Rembrandt pittore di storie" (aperta fino al 6 gennaio), da vedere una strepitosa raccolta di scultura antica, quella degli Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. In occasione della temporanea chiusura dell'Albertinum, l'edificio rinascimentale distrutto nel 1945 e ricostruito per ospitare le collezioni d'arte, quarantasei capolavori di scultura sono esposti in questi giorni a Madrid, insieme a venti opere importanti, provenienti dalla collezione del Prado. Entrambe le raccolte, frutto del collezionismo barocco e neoclassico, integrano versioni romane di opere greche del periodo classico ed ellenistico, originali greci con policromia antica e un nucleo eccezionale di ritratti. Tra le opere esposte, l'Efebo e Zeus di Dresda, repliche romane dell' Atena Lemnia di Fidia e del Satiro versante di Prassitele, o la Menade di Dresda. Tra i pezzi esposti, da segnalare la presenza di tre rilievi sepolcrali attici, tre terrecotte policrome di Tanagra, una serie di sculture ellenistiche di Alessandria e di altri centri, alcuni ritratti romani di grande qualit?.

Repubblica 29.12.08
Parigi. Mantegna
Musée du Louvre. Fino al 5 gennaio.


I musei francesi vantano un considerevole insieme di capolavori del maestro, di gran lunga il pi? importante conservato fuori d'Italia. Basti pensare alla Preghiera nell'orto degli ulivi , alla Vergine della Vittoria del Louvre, all' Ecce Homo del Mus?e Jacquemart Andr? di Parigi. Non stupisce quindi che il museo parigino dedichi un'importante retrospettiva a questo protagonista della pittura del Rinascimento italiano. La mostra, curata da Dominique Thi?baut e Giovanni Agosti, ripercorre le tappe principali della carriera dell'artista nel contesto in cui si ? sviluppata durante la seconda met? del XV secolo, tra Padova, Verona e Mantova, dando conto al contempo dell'influenza esercitata dalla sua pittura sull'opera dei contemporanei e della sua diffusione precoce in tutta Europa. Il percorso espositivo distribuisce centonovanta lavori in sezioni dedicate a Padova, come centro d'arte, a Mantegna e Giovanni Bellini, al Trittico di San Zeno di Verona, al periodo mantovano, al San Sebastiano di Aigueperse , allo Studiolo di Isabella d'Este , ai Trionfi di Cesare e alla ?maniera moderna?, offrendo una lettura aggiornata dell'opera del maestro, improntata all'austerit? e all'erudizione antiquaria.

Corriere della Sera 29.12.08
L’attentato a Togliatti, Stalin rimprovera il Pci
risponde Sergio Romano


Plutarco scrisse che «spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti». Partendo da tale considerazione, con riferimento all'attentato del 14 luglio del 1948 ai danni di Palmiro Togliatti, le domando: corrisponde al vero la versione, accreditata dallo stesso Pci, secondo cui proprio il Migliore, prima di entrare in sala operatoria, raccomandò ai suoi fedelissimi o forse alla sola Nilde Iotti di non cavalcare le insurrezioni che sarebbero certamente scoppiate, ma anzi di fare il possibile per frenarle? Era dunque veramente sfumata, almeno ai vertici del partito, la speranza della famosa «seconda ondata» rivoluzionaria che avrebbe dovuto abbattere lo Stato capitalista e borghese, sicuramente ancora molto diffusa nella base? Le faccio altresì notare che nel riportare le drammatiche conseguenze dell'evento, molti autori ricordano come la vittoria di Bartali (spronato telefonicamente da De Gasperi) al Giro di Francia abbia notevolmente contribuito a stemperare la tensione e a riportare l'ordine nel Paese. Davvero fu sufficiente — a me pare improbabile — una grande impresa sportiva per frenare la rabbia e le rivolte nelle città?
Andrea Turturro
andreaturturro@ gmail.com

Caro Turturro,
la frase che Togliatti avrebbe mormorato ai comunisti della sua scorta, subito dopo l'attentato, sarebbe «Siate calmi, non perdete la testa!». Molti, tuttavia, non gli dettero retta. Secondo Aldo Agosti, autore di una biografia di Togliatti pubblicata da Utet nel 2003, «la notizia del suo ferimento suscita nel Paese un'ondata di emozione enorme e una mobilitazione di massa spontanea impressionante per le sue dimensioni e la sua forza ». Credo che Agosti abbia ragione quando scrive che gli ordini non vennero dall'alto e che la reazione fu probabilmente dovuta a una sorta di automatica applicazione di «quei meccanismi di difesa che il partito aveva predisposto per l'ipotesi di una "provocazione" e di un colpo di Stato».
La direzione del partito non voleva l'insurrezione, ma discusse a lungo, sin dalla sua prima riunione, sulla strategia da adottare. Occorreva spegnere subito gli ardori della base o lasciare che desse una dimostrazione di forza? Secondo Agosti, Longo avrebbe detto a un suo collaboratore: «Se l'onda cresce, lasciala montare, se cala, soffocala del tutto». Non credo che la vittoria di Bartali nel Giro di Francia abbia avuto su quegli eventi l'influenza che le è stata attribuita. Ricordo bene le giornate dell'attentato perché tornai in Italia da Parigi dopo il trionfo del ciclista toscano e assistetti alla nascita della leggenda. Ma credo che le dimostrazioni e gli scioperi si siano spenti per due ragioni. In primo luogo, il partito sapeva che non vi erano, dopo la cocente sconfitta del 18 aprile, le condizioni per la conquista del potere. In secondo luogo, il governo e in particolare Mario Scelba, ministro degli Interni, dettero prova di grande fermezza. Mentre il Paese scioperava, il partito comunista era occupato a decifrare il significato di un telegramma in cui Stalin, tra l'altro, si diceva «contristato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo». Era certamente un rimprovero, ma non era facile intenderne il senso. Forse Stalin lamentava che il partito non avesse un'organizzazione sufficientemente «militare». Forse diceva indirettamente: cercate di evitare situazioni che potrebbero sfuggirvi di mano, divenire crisi internazionali e ricadere sulle spalle dell'Unione Sovietica.
La partita, alla fine, fu vinta da Scelba. Quando la polizia e i prefetti restaurarono l'ordine, il ministro dell'Interno del governo De Gasperi lanciò quella che Giorgio Bocca, nella sua biografia di Togliatti pubblicata da Laterza, ha definito, forse con troppa enfasi, «la grande repressione ». Furono aperte inchieste, denunciati gli agitatori, e rinviate a giudizio circa settemila persone. A giudicare dalla particolare solerzia con cui vennero prese di mira le Camere del lavoro, Scelba voleva «colpire (...) i quadri intermedi del partito e del sindacato». Erano per l'appunto le forze che si erano spontaneamente mobilitate ed erano sfuggite al controllo del vertice del Pci.

Corriere della Sera 29.12.08
Bruno De Finetti. Il padre del relativismo
di Giulio Giorello


Il suo pensiero, a partire dagli anni Trenta, demolisce la vecchia idea della ricerca «intesa come scopritrice di verità assolute» e la rende «carne della nostra carne, frutto del nostro tormento»
Matematico scomodo, rifiutò di fare della scienza un idolo Irredentista, fascista della prima ora, simpatizzò con il '68

Gli studenti contestano i professori? La maggioranza dei «baroni» trova che sia uno scandalo. «Io credo, invece, che si debba chiedere il privilegio di essere i principali imputati: solo accettando e sollecitando la critica... potremo liberare le molte e valide energie latenti che si trovano tra noi, accendere la volontà di rinnovamento, combattere con fiducia e con fermezza la battaglia contro i mali che altrimenti continueranno a sopraffarci e cui saremo costretti ad assuefarci, non foss'altro che per non morire di rabbia». Così il matematico Bruno de Finetti (1906-1985) parlava della «rivolta degli studenti» nel formidabile Sessantotto: «Se i giovani non rifiutano a 18 o 20 anni quello che è da rifiutare nella società, non ne saranno capaci mai più».
Fa bene leggere parole come queste in momenti in cui alcune tendenze «revisioniste» liquidano come infantile o dogmatica la «ribellione» di quarant'anni fa — dimenticando cos'era l'Italia di allora e come quella «rivolta» abbia contribuito a cambiarla: dalla condizione femminile a una concezione laica della famiglia, dal diritto allo studio allo svecchiamento delle strutture burocratiche (altro che ridurre il Sessantotto alle squallide esibizioni muscolari dei servizi d'ordine di qualche gruppetto neostalinista). Era l'epoca di slogan come «l'immaginazione al potere». Bruno de Finetti non avrebbe mai pensato al potere politico, bensì a quello dell'intelligenza scientifica e artistica: l'immaginazione è «l'energia mentale che permette l'emergere della novità». Un'energia che a torto una scuola fossilizzata reprime «facendo passare per sempre la voglia ai giovani di occuparsi di tutte le cose che vengono loro insegnate». Bastano riflessioni del genere a farci capire perché de Finetti fosse davvero «un matematico scomodo» — così recita il titolo del volume costruito dalla figlia Fulvia de Finetti e dal giornalista Luca Nicotra come una sorta di «intervista postuma »; che sfrutta non solo pubblicazioni scientifiche ma anche interventi estemporanei, articoli su quotidiani e riviste, lettere a colleghi e familiari ( Bruno de Finetti. Un matematico scomodo, Belforte, pp. 293, € 22).
Nato a Innsbruck da famiglia italiana, «piccolo simpatizzante dell'irredentismo» affascinato dal «patriota» Cesare Battisti, poi fascista della prima ora («movimentista», per usare la terminologia dello storico Renzo De Felice), inizialmente studioso di genetica delle popolazioni, passato quindi alle basi concettuali del calcolo delle probabilità, grande maestro della statistica italiana prima ancora che cattedratico universitario, decisamente avverso a sfruttare la sua affiliazione politica per fare carriera — e, nel secondo dopoguerra, sempre più incline ad appoggiare battaglie libertarie (come quelle condotte dal Partito radicale) — Bruno de Finetti riassume non poche contraddizioni del secolo scorso, ma anche le speranze per quello in cui noi stiamo vivendo. I suoi tentativi di liberare il calcolo delle probabilità da qualsiasi incrostazione metafisica, di rendere l'insegnamento della matematica più vicino alle esigenze dei fisici, degli economisti o degli ingegneri, la sua fiducia nella «economia di pensiero» consentita dai nuovi mezzi dell'informatica non sono soltanto elementi interni a una riflessione che lo aveva condotto dalla matematica alla filosofia, ma scelte di vita in cui continuamente lo studioso si metteva alla prova senza timore di quella «critica» che costituisce il lievito della crescita scientifica come della fioritura di una società libera.
Senza bisogno di entrare in particolari tecnici, basterà ricordare come l'impostazione soggettivistica di de Finetti nel campo della probabilità (semplicemente «il grado di fiducia che ognuno sente nel verificarsi di un dato evento») non solo non distrugge il carattere intersoggettivo dell'impresa tecnico-scientifica, ma anzi lo esalta. Come scriveva nel suo capolavoro del 1931 (dal titolo Probabilismo), con il soggettivismo viene meno solo una concezione della scienza «intesa come scopritrice di verità assolute» (che rimane «disoccupata» per mancanza di tali verità!), «ma mentre cade infranto il freddo idolo marmoreo di una scienza perfetta, eterna e universale», compare «al nostro fianco una creatura viva, la scienza che il nostro pensiero liberamente crea: carne della nostra carne, frutto del nostro tormento, compagna nella lotta e guida alla conquista».
Lo stesso spirito si ritrova nella splendida lezione filosofica che nel 1934 Bruno aveva dedicato all'Invenzione della verità — testo che ha visto la luce solo due anni fa grazie alla cura di Fulvia (Raffaello Cortina, pp. 204, € 19). La logica «viva e psicologica » invocata da Bruno non nega la verità scientifica; piuttosto, rifiuta di farne un idolo. Lo stesso dovrebbe dirsi delle strutture istituzionali, a cominciare dallo Stato: mezzi cui si ricorre per soddisfare ai nostri bisogni e desideri, non fini a cui sacrificare l'autonomia degli individui o l'indipendenza dei popoli. Solo così i nostri concetti fondamentali — dalla matematica alla morale — non si riducono alle marionette di una commedia dove ogni ruolo è definito una volta per tutte, ma restano «i sei personaggi in cerca d'autore» di Pirandello, capaci di stimolare il cambiamento in campo scientifico e tecnologico. Relativismo? Fin dai lavori degli anni Trenta, Bruno de Finetti non aveva paura di pronunciare quella parola che oggi sembra tanto godere di cattiva stampa! Mi sia lecita una nota personale: in un appassionato intervento sul Corriere del 12 dicembre, Claudio Magris — alludendo anche al mio dialogo con Dario Antiseri sulla Libertà (Bompiani, pp. 180, € 17) — ha ripreso la fiera immagine dei calvinisti scozzesi che pregano Dio restando in piedi e non strisciando in ginocchio. Quel loro Dio non era un sapere assoluto, ma l'impossibilità di un sapere di tal genere! In un bel libro ( Molte nature. Saggio sull'evoluzione culturale, Raffaello Cortina, pp. 172, € 18) scrive il fisico Enrico Bellone: «Solo gli dei promulgano verità non negoziabili. Gli umani, invece, fabbricano teorie per meglio adattarsi al loro ambiente »; e nelle comunità ove si tende ostinatamente a proteggere dalla critica principi o valori «non negoziabili» si finisce col portare in tribunale l'innovazione, come vari episodi mostrano: dalla condanna di Galileo all'attuale messa sotto accusa delle biotecnologie. Sono d'accordo con de Finetti: teniamocelo stretto, il relativismo — è uno dei modi di resistere a tutto quello che non ci piace del nostro Paese e «non morire di rabbia»!