sabato 29 giugno 2013

l’Unità 29.6.13
La Fiom strappa la promessa: «Un tavolo al ministero»
Tremila lavoratori in piazza a Roma
Landini, incontro con Zanonato: vuole convocare l’azienda
di Massimo Franchi


Mentre tremila iscritti della Fiom manifestavano sotto Montecitorio contro i soprusi della Fiat, Sergio Marchionne si presentava a sorpresa a Pomigliano, stringendo mani e ringraziando i lavoratori del turno per i due sabati lavorativi fatti nelle scorse settimane. L’intento di oscurare mediaticamente lo sciopero dei metallurgici della Cgil è evidente. Nell’ennesimo scontro Lingotto-Fiom, a far pesare la bilancia dalla parte di Landini arrivano i risultati ottenuti. Dal ministero dello Sviluppo economico confermano le parole usate dallo stesso Landini per resocontare l’incontro avuto a fine manifestazione con Flavio Zanonato: «Il ministro pensa che utile lavorare per un tavolo con la Fiat con tutti i sindacati», «capiamo le difficoltà perché l’azienda si è sempre opposta», incassando il fatto che Zanonato ha valutato come «legittima e utile la richiesta» della Fiom. Il ministro, riferisce sempre Landini, «si rende conto delle difficoltà per le divisioni sindacali e per il fatto che Marchionne non lo ha mai permesso. Ma è fiducioso».
Se veramente il tavolo sarà convocato si tratterebbe di un avvenimento storico. Da Pomigliano in poi, giugno 2010, la Fiom (e dunque la Cgil) è stata esclusa da qualsiasi trattativa abbia riguardato qualsiasi stabilimento Fiat. Nel frattempo gli altri sindacati hanno sottoscritto due contratti aziendale e Marchionne è stato ricevuto da Mario Monti e un mese fa dallo stesso Zanonato: conferme degli impegni in Italia in modo generico avevano accontentato i due governi. Mai un confronto.
Landini in più ha strappato tre altri tavoli specifici. «Entro il mese di luglio il ministero riconvocherà i tavoli per Termini Imerese e Irisbus, mentre ha deciso di convocare anche un nuovo tavolo sul settore della componentistica», colpita fortemente dal calo di produzione Fiat e fatta di piccole aziende che non hanno diritto alla cassa integrazione ordinaria. E proprio i lavoratori di Termini Imerese e dell’Irisbus di Valle Ufita (Avellino) sono stati i protagonisti del corteo della Fiom che ha attraversato il centro di Roma fino a piazza del Parlamento. «A fine anno saremo licenziati perché scadranno gli ammortizzatori sociali racconta Roberto Mastrosimone della Fiom siciliana . La nostra unica possibilità è che la Fiat chieda la cassa integrazione in deroga, ma l’azienda non ha alcun interesse a farlo anche perché sperava di essersi disfatta di noi lasciando a Dr Motor. Quando tutto l’affare è saltato anche le assunzioni delle altre aziende previste nel piano (varie aziende nel settore della logistica, delle biomasse, delle pro-
tesi e del cinema, ndr) sono saltate». «Da noi fanno manutenzione allo stabilimento ma non hanno alcuna intenzione di vendere spiega Dario Meninno dell’Irisbus . Noi siamo andati anche dal viceministro Vincenzo De Luca per proporgli un polo italiano per la produzione dei bus assieme alla Bredamenarini di Bologna con AnsaldoBreda. È l’unico modo per lo Stato di non prendere multe per gli autobus troppo vecchi e inquinanti. Il viceministro ci ha detto che è una buona idea e che si muoverà».
POLEMICA BOLDRINI-MARCHIONNE
Come detto, Marchionne è stato a Pomigliano per ringraziare di persona gli operai per i due sabati di lavoro del 15 e 22 giugno. Con lui c’era anche Haijme Yamashina, il guru giapponese del World class manufacting (Wcm), il metodo «zero difetti», che proprio ieri ha premiato Pomigliano con la medaglia d’oro. In serata poi Marchionne ha polemicamente risposto al presidente della Camera Laura Boldrini che, ricevendo da Landini una copia della Costituzione firmata dai lavoratori Fiom, aveva commentato: «La nostra Carta va rispettata sempre, non è concepibile che la sua attuazione si arresti ai cancelli delle fabbriche». Marchionne ha replicato al vetriolo: «Ho avuto modo di leggere del suo interessamento ai problemi del lavoro in fabbrica, sia pure nell’ambito di un incontro con un sindacato che in Fiat ha una rappresentatività molto limitata e non è sottoscrittore di alcun contratto. Mi farebbe piacere che lei toccasse con mano la realtà che Fiat sta ricostruendo in Italia».

l’Unità 29.6.13
Indesit, l’azienda manda a casa i lavoratori
Alta tensione a Fabriano: 500 operai «messi in libertà a causa degli scioperi che hanno ridotto gli approvvigionamenti»
Il sindaco: la proprietà non vuole il dialogo
I sindacati: atto grave, valutiamo il ricorso. Martedì il tavolo nazionale
di Massimo Franchi


Rappresaglia, serrata, messa in libertà. Le parole pesano e cambiano. Resta la gravità di quello che è successo ieri a mezzogiorno negli stabilimenti Indesit di Melano e Albacina, entrambi vicini alla sede di Fabriano. Mentre gli operai dei due stabilimenti, fra i più colpiti dall’annunciata riorganizzazione aziendale con 1.435 esuberi, erano tornati al lavoro dopo giorni di sciopero a macchia di leopardo, verso mezzogiorno l’azienda ha fatto suonare le sirene di fine turno comunicando la massa in libertà per circa 500 lavoratori e il fermo produttivo. Immediata la protesta dei lavoratori che hanno protestato fuori dalle fabbriche al grido di «Lavoro, lavoro».
Pochi minuti dopo la stessa azienda ha diramato un comunicato molto duro: «A seguito delle modalità utilizzate nell’esercizio del legittimo diritto di sciopero e dei blocchi delle merci attuati agli ingressi è risultato impossibile approvigionare correttamente le linee produttive. Per tale motivo l’Indesit si veda costretta ad effettuare il fermo produttivo».
Il responsabile metalmeccanici per Fabriano della Fiom Cgil, Fabrizio Bassotti, parla di «provocazione», mentre il responsabile nazionale Alessandro Pagano si «augura che l’azienda non faccia ricadere sui lavoratori ulteriori conseguenze di una situazione che è stata determinata dal piano che lei stesa ha deciso».
Nel pomeriggio Fiom, Fim e Uilm annunciano che verificheranno «se procedere per vie legali per la condotta antisindacale» di Indesit Company che «a causa degli scioperi articolati ha messo in libertà i lavoratori degli stabilimenti di Melano e Albacina», ribadendo che «da subito partiranno altre iniziative di lotta esterne».
«Si tratta di un atto grave commenta il sindaco di Fabriano Giancarlo Sagramola sono molto preoccupato perché non vedo segnali di apertura da parte dell’azienda». Il tutto infatti è successo alla vigilia del Tavolo nazionale sulla vertenza Indesit che si terrà martedì 2 luglio al ministero dello Sviluppo economico. Come anticipato da l’Unità giovedì il ministro Flavio Zanonato ha incontrato i vertici dell’azienda ancora controllata da (una parte) della famiglia Merloni. L’amministratore delegato Marco Milani è però sembrato molto deciso nel non modificare minimamente il piano annunciato che prevede 1.435 esuberi e la chiusura degli stabilimenti di Melano (Fabriano) e Teverola (Caserta) e una forte riduzione dell’occupazione a Comunanza (Ascoli). Come si vede a pagare il prezzo più alto è proprio il territorio delle Marche, quello da cui è partita la storia del gruppo Merloni. «A me non piace parlare della famiglia, perché all’interno si sono già fatte sentire alcuni distinguo (il riferimento è ha Francesca Merloni che ha criticato pubblicamente la scelta degli esuberi, ndr), io dico che la proprietà non sta dando segnali di dialogo ed è una novità dopo 45 anni di relazioni sindacali ottime. Io come sindaco continuo ad appoggiare i lavoratori e a battermi contro le delocalizzazioni: come Comune abbiamo approvato un ordine del giorno che chiede l’applicazione di una legge regionale contro la delocalizzazione: l’Indesit deve ripagare alla Regione Marche i 227mila euro avuti per fondi alla formazione».
Ieri sulla vicenda si è fatto sentire anche il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Interpellato a margine dell' Assemblea di Confindustria Ancona, Squinzi ha detto: «Spero che si possano trovare soluzioni che non danneggino i lavoratori e che non distruggano l'occupazione nel nostro paese. Non conosco tutto il pregresso ma dalla settimana prossima so che ci sarà un tavolo nazionale».
WHIRPOOL CHIUDE A TRENTO
A conferma che tutto il settore del bianco, degli elettrodomestici, sta vivendo un momento nerissimo arriva la notizia di un’altra chiusura da parte di un concorrente di Indesit. Ieri la direzione del gruppo Whirlpool ha comunicato ai sindacati la chiusura dello stabilimento di Trento. Il nuovo Piano industriale prevede lo spostamento delle produzioni di Trento nei siti di Wroclaw (Polonia) e di Cassinetta (Varese), dove però verrà chiusa la fabbrica del Side by Side. In una nota Fim Fiom Uilm «ritengono inaccettabile la decisione» anche in considerazione degli «esuberi e licenziamenti delle riorganizzazioni del 2011».

il Fatto 29.6.13
I nostri manager più pagati d’Europa
Prendono 723 euro l’ora. Un operaio per quella cifra deve lavorare 10 giorni
di Salvatore Cannavò


Siamo il paese con i salari tra i più bassi di Europa. Tranne quelli dei manager. Dei grandi manager, i Chief executive officier, Ceo, che vuole dire amministratore delegato, capo azienda. Insomma, i vari Marchionne o Tronchetti Provera. Per i quali le cose vanno bene, molto bene. Almeno a giudicare dal rapporto Pay in Europe 2013 redatto dalla Federation of European Employers.
Considerando solo gli stipendi base, quindi senza stock option, premi, dividendi e benefit vari, un Ceo italiano nel 2012 ha ottenuto uno “stipendio” medio di 723 euro l’ora. Battendo il collega spagnolo che si è fermato a 600 euro, i 499 euro degli svizzeri, 465 in Gran Bretagna per arrivare ai 416 euro in Francia e i 412 euro in Germania. Si tratta di circa 6 mila euro al giorno, tra l’1,5 e i 2 milioni l’anno. La classifica cambia quando si prendono in considerazione anche i premi. In questo caso è la Svizzera a salire in testa alla classifica, seguita da Gran Bretagna e Germania. I paesi di solida storia capitalista, quindi, riescono a realizzare un rapporto virtuoso tra i compensi ai propri manager e i risultati economici. I manager italiani, invece, vengono retribuiti meglio degli altri a prescindere dall’andamento delle loro aziende. Che come dimostrano i ripetuti allarmi di Confindustria non se la passano molto bene.
La ricerca, pubblicata ogni anno dalla Fedee, analizza lo stipendio medio di 32 profili professionali nei 47 paesi membri del Consiglio d’Europa. L’altro aspetto messo in evidenza è il rapporto tra i dirigenti e i dipendenti: mentre in Europa il divario si va riducendo, in Italia il rapporto è di 80 a uno, sempre al netto di eventuali premi (che possono far schizzare quel rapporto anche a 160 a uno, come nel caso di Marchionne). Quello che un Ceo guadagna in un’ora un dipendente di medio livello lo ottiene in 10 giorni. In Spagna va ancora peggio, perché servono 15 giorni.
LO SCARTO, DEL RESTO, è facilmente intuibile visto che l’Italia è all’ultimo posto in Europa nelle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Secondo il rapporto Labour market Statistics, sui redditi 2009 in aziende con almeno dieci dipendenti, la retribuzione media annua lorda è di 23.600 euro. Un dipendente greco ne guadagna 29 mila e uno spagnolo 26 mila. Lontani sideralmente dagli stipendi dei paesi “nordici”: 41 mila in Germania, 44 mila in Olanda, 40 mila in Belgio, 33 mila in Francia. Primi nelle posizioni apicali, ultimi in quelle più diffuse. E questo nonostante le imprese italiane non brillino per competitività e per gestione. Secondo la Banca d’Italia, infatti il rapporto tra debiti finanziarie delle imprese e valore aggiunto è del 180 per cento. “Le imprese italiane presentano un’incidenza dei prestiti bancari sul totale dei debiti molto più elevata rispetto agli altri paesi industrializzati” pù orientati verso strumenti azionari od obbligazionari. Affidarsi alle banche è più sicuro che rivolgersi al mercato. Anche se si guadagna più di 700 euro l’ora.


l’Unità 29.6.13
La vergogna che non c’è più
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Ho letto a marzo sul sito del Partito Democratico: «Se venisse certificato che Berlusconi nel 2006 comprò il voto del senatore De Gregorio per far cadere il governo guidato da Romano Prodi, si riconfermerebbe, ancora una volta, la totale incompatibilità del presidente del Pdl con le istituzioni di questo Paese». Quando è troppo è troppo ed è ora di finirla, con distinzioni, doppi pesi e doppie misure, cavilli ed azzeccagarbugli.
Paride Antoniazzi

La proposta di patteggiamento di De Gregorio, concordata con la Procura, apre scenari drammatici per il futuro politico di Berlusconi. Documentata e sanzionata, la confessione dell’uomo che prima e più di ogni altro minò, fra il 2006 e il 2008, la maggioranza di Prodi dimostra con estrema chiarezza la slealtà e la violenza di una opposizione pronta a tutto pur di riconquistare il potere perso con le elezioni. Guerra totale e senza alcun rispetto per le istituzioni o, il che è lo stesso, per il bene del Paese, l’attività politica di Silvio Berlusconi e dei suoi vari Verdini non dovrebbe essere più tollerata all’interno di un Paese che vuole interessare di nuovo i cittadini alla politica. Disgustosa, per molti, non è soltanto la situazione giudiziaria di un leader che non si dimette neppure di fronte alle condanne ma anche, e a volte soprattutto, il servilismo di quelli che lo difendono e la prudenza di chi, da posizioni diverse, continua ad assicurargli, in attesa della pronuncia definitiva (il terzo grado di giudizio) una solidarietà formale che non è facile da comprendere per chi guarda da fuori. Chiedendosi se dal repertorio delle emozioni private degli uomini politici sia scomparsa definitivamente, ormai, la «vergogna»: per sé o per gli altri

Corriere 29.6.13
Giustizia, Quagliariello annuncia la tregua
«Tempesta in un bicchier d’acqua». Berlusconi rilancia: riforma necessaria
di D.Mart.


ROMA — «Mi sembra che le dichiarazioni del ministro Quagliariello abbiano chiarito la vicenda». Da Bruxelles, il presidente del Consiglio Enrico Letta derubrica il presunto «blitz» sulla giustizia del Pdl a questione che è in via di soluzione nel suo alveo naturale: la commissione Affari costituzionali del Senato dove, a partire da martedì 2 luglio, inizieranno le votazioni sul ddl costituzionale 813 che istituisce il comitato dei 40 per le riforme e nel cui perimetro di azione il partito del Cavaliere vorrebbe far rientrare anche gli assetti della magistratura. «È stata una tempesta in un bicchiere d’acqua, la magistratura resterà fuori dalle modifiche della Costituzione», ha detto il ministro Gaetano Quagliariello (Pdl), parlando poi della necessità di prevedere un raccordo tecnico anche con i Titoli IV e VI della Costituzione (la magistratura e le garanzie costituzionali).
E ora anche Silvio Berlusconi, intervistato dal Tg1, non insiste più di tanto: «Se c’è un settore che ha bisogno assolutamente di una profonda riforma è quello della giustizia», ha detto il Cavaliere non entrando nel merito delle riforme costituzionali. Piuttosto, Berlusconi ha insistito sullo stesso tasto: «Stanno cercando di colpirmi sul piano patrimoniale, dell’immagine, dei diritti politici e addirittura della libertà», ha aggiunto riferendosi al Lodo Mondadori, al processo Ruby e alle altre vicende giudiziarie che lo inseguono da tempo: «Stanno cercando di concludere la guerra dei 20 anni contro di me».
Eppure, in commissione Affari costituzionali dove si discute dei tre punti su cui è incardinata la riforma concordata tra Pd e Pdl (forma di Stato, forma di governo, bicameralismo) il clima sembra ristabilito al sereno. Sul tavolo ci sono tre opzioni per creare quel coordinamento necessario anche con le norme contenute nei Titoli IV e VI e della Costituzione. L’esempio fatto dal Pdl riguarda la figura del capo dello Stato: «Se variamo il semipresidenzialismo, come facciamo poi a non toccare il Csm che è presieduto dal capo dello Stato e i giudici costituzionali che per un terzo sono nominati dal Quirinale? ».
Il problema del coordinamento delle norme è riconosciuto da tutti ma ci sono diversità di vedute sul modo in cui vada affrontato. E infatti le opzioni in commissione sono tre. Uno: l’emendamento della discordia, quello presentato da Donato Bruno (Pdl), che però apre la porta a tutti i cambiamenti immaginabili nella seconda parte della Costituzione. Due: l’emendamento Lo Moro-Zanda (Pd), che limita le correzioni a piccoli interventi chirurgici di coordinamento da attuare all’interno dello stesso ddl 813. Tre: un emendamento di sicurezza scritto dal presidente della commissione, Anna Finocchiaro, che rinvia a un’altra legge costituzionale e a un’altra legge ordinaria gli interventi per le correzioni «strettamente necessarie e conseguenti in esclusiva ragione del coordinamento». Questa ultima ipotesi, sebbene più farraginosa, avrebbe il vantaggio di poter limare anche l’articolo 48 della Carta (prima parte della Carta) in cui è previsto anche il voto degli italiani all’estero.
Dunque, ora, la parola passa ai tecnici che dovranno trovare una soluzione entro martedì. Ma il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, fa capire che il Pdl non ha i numeri per fare leggi da solo in Parlamento: «Il provvedimento muore prima di nascere perché non siamo d’accordo. E avendo noi i numeri in maggioranza non ho neanche bisogno di insistere. È un segnale di fumo: gli accordi sono diversi, il programma presentato da Letta diceva altre cose. Tra i Titoli che si modificano nella seconda parte della Costituzione, la giustizia non a caso era stata esclusa dagli accordi».
Non va sottovalutata, però, l’opposizione dei grillini al calendario a tappe forzate di Senato e Camera: «Colpo di mano con l’assist della Boldrini», attaccano i gruppi parlamentari del M5S. Che avvertono: «A fine luglio (dopo l’approvazione del Senato, ndr) sarà portato in Aula alla Camera il provvedimento per cambiare l’articolo 138 della Costituzione, che stabilisce le regole per cambiare la stessa Costituzione. Si fa di corsa, forzando i tempi, con gli italiani in vacanza e distratti. Il M5S si opporrà».

Corriere 29.6.13
Finocchiaro
«Troveremo una soluzione col Pdl La priorità ora è la legge elettorale»
di Dino Martirano


ROMA — Tra governo e maggioranza, alla fine, «si troverà una soluzione» sul ddl costituzionale che istituisce il comitato dei 40 per le riforme: «L’emendamento Bruno è comunque inaccettabile perché è ambiguo e in questo modo aprirebbe la porta ad incursioni imponderabili sugli assetti della magistratura, che devono tassativamente rimanere fuori dal perimetro delle riforme. Ma il problema del coordinamento tecnico con gli articoli del titolo IV e VI della Costituzione va affrontato, tant’è che noi abbiamo i nostri emendamenti... ». Anna Finocchiaro, la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, auspica dunque che lo scoglio posto sulla rotta delle riforme dal Pdl venga aggirato al più presto. Ma poi non nasconde che sotto la cenere delle larghe intese covi ben altro: «Il Pdl non deve scordare che dobbiamo mettere subito in sicurezza la legge elettorale perché se si interrompe il percorso delle riforme, non si può tornare alle urne con il Porcellum. Davanti a un’eventualità del genere, tutti i partiti ci rimetterebbero le penne».
Quella del Pdl è stata una proposta indecente, una provocazione?
«Non so se dentro il Pdl c’era qualcuno che voleva andare alla prova di forza sulla giustizia che poi è un loro tratto identitario. In ogni caso, è una strada impraticabile perché l’accordo politico dal quale siamo partiti comprende solo forma di Stato, forma di governo e bicameralismo. Per altro, questo emendamento illustrato in commissione dal collega Bruno è stato presentato come necessario perché, per esempio, se si introducesse il semipresidenzialismo poi bisognerebbe modificare anche altre parti della Costituzione».
Il problema tecnico legislativo esiste, dunque.
«Esiste. Però, siccome la formulazione dell’emendamento Bruno è troppo lasca e quindi lascia un’ambiguità sul perimetro delle competenze del comitato, io avevo già presentato un emendamento che pure risolve il problema del coordinamento derivante dall’approvazione dei testi di riforma costituzionale sui tre punti. I colleghi del Pd ne hanno presentato un altro. Con i nostri emendamenti, contrariamente a quello di Bruno, non ci sarà possibilità di equivoci e ambiguità. Anzi, è nostro preciso dovere fare in modo che il testo sia chiarissimamente descrittivo di una competenza che non va oltre forma di Stato, forma di governo e bicameralismo. Sceglieremo un emendamento, lo formuleremo insieme in commissione».
Sulla legge elettorale, invece, siete ancora d’accordo con il Pdl che arrivi come atto conseguente alle riforme?
«Io non mi stancherò mai di ripetere che dobbiamo metterci in sicurezza rispetto allo scenario in cui, malauguratamente, si interrompa il percorso delle riforme e si torni a votare. Non è che bisogna mettere in sicurezza il Porcellum rispetto alla sentenza della Corte costituzionale, come vorrebbe qualcuno ma, piuttosto, è necessario mettere in sicurezza il Paese rispetto al fatto che si torni a votare con una legge elettorale che non assicura la governabilità. Noi abbiamo bisogno di una legge elettorale che sia una cintura di sicurezza per il Paese».
Legge elettorale e riforma costituzionale devono andare avanti parallelamente?
«La legge elettorale di garanzia è competenza delle commissioni permanenti di Camera e Senato e non rientra nel percorso del comitato che, invece, ha il compito di fare la legge elettorale conseguente alle riforme. Noi abbiamo bisogno di una legge elettorale di scorta, subito».
Senza il Pdl, però, il dibattito in commissione non può partire.
«Mi sembra che su questo punto ci sia una certa ostilità da parte del Pdl. Il nostro però non è un capriccio. Perché se torniamo al voto con il Porcellum la gente arriva con i forconi in mano, anche in casa del Pdl. Quindi è interesse di tutti cambiare la legge elettorale, magari iniziando a ragionarci prima della pausa estiva».
Perché il Pdl non vuole mandare in soffitta il Porcellum?
«Per loro un ritocco al Porcellum andrebbe bene. Ma questo sistema che non produce un vincitore, che non fa scegliere gli eletti, che consegna maggioranze non omogenee a Camera e Senato, non va bene. Non possiamo mica pensare che le larghe intese siano il modulo per il governo del Paese nei prossimi 10 anni. Non è un Paese normale quello che ha in sé un sistema elettorale che genera le larghe intese invece di indicare chi vince e chi perde».

Corriere 29.6.13
Ritorno alle origini
Forza Italia 2.0 , uno scudo per il Cavaliere Nello schema del nuovo centrodestra l’idea di alleanze con Lega, destra, centristi dell’Udc e parte di Scelta civica
di Francesco Verderami


Il «ritorno alle origini» in politica è sempre stata considerata una forma di regressione, l'istinto di chi si rifugia nel passato per difendersi dal futuro. Si vedrà se Berlusconi riuscirà a sovvertire anche stavolta i pronostici, ma non c’è dubbio che l’idea di una Forza Italia 2.0 sia dettata da un suo convincimento confidato al ministro della Difesa, al quale il Cavaliere aveva accennato lo schema di un nuovo centrodestra. Siccome il progetto appariva identico a quello della Casa delle libertà, vecchio di oltre un decennio, Mauro non aveva potuto fare a meno di sottolinearlo. «Questo è quanto sono stato capace di fare», si era sentito rispondere con inusitata sincerità da Berlusconi. In fondo anche la genialità ha dei limiti e alla fine si riduce a una rimasticatura di esperienze precedenti, ai ricordi nostalgici del passato, «quando fui subissato di critiche — aveva rammentato durante il colloquio l’ex premier — perché avevo fondato un partito azienda. Ma quello era un partito vincente che poi ho sbagliato a trasformare in un partito politico tradizionale».
Strano, perché il Pdl — battezzato su un predellino e capace di sbancare alle elezioni del 2008 — doveva essere «l’eredità» del Cavaliere da affidare al popolo dei moderati. Così com’è strano che la rinascita di Forza Italia sia legata (anche) all’insofferenza verso la componente degli ex An, perché — per paradosso — lo zoccolo duro dell’elettorato rimasto a Berlusconi dopo l’emorragia di sei milioni di voti alle scorse Politiche, è proprio quello di destra. Eppure il Cavaliere è convinto che il Pdl, acronimo da sostituire alla vecchia Cdl, debba essere formato dalla nuova Forza Italia, dalla Lega, dai Fratelli d’Italia, dai centristi dell’Udc e dal pezzo più consistente di Scelta civica: «Con Monti — aveva spiegato Berlusconi — i rapporti si sono rasserenati, e vanno recuperati definitivamente».
Sarà, ma questa forma di reducismo incontra ancora resistenze nei potenziali alleati. Non è solo una questione di prospettiva e di scenari futuri, anche se il Cavaliere si tira fuori dalla disputa sulla leadership di coalizione, se è vero che al Tg1 ha annunciato di voler essere solo il «numero uno» di Forza Italia. L’intendimento rischia di generare però un sommovimento, sembra cioè un azzeramento delle cariche di partito, un reset che potrebbe apparire una diminutio di chi oggi veste i panni del segretario del Pdl. Non è così, almeno questo è ciò che ha assicurato Berlusconi ad Alfano durante il drammatico vertice di ieri a palazzo Grazioli, dove il vice premier e la delegazione di governo erano giunti all’appuntamento con le dimissioni da ministri in tasca.
Perché non si è mai visto un partito che non segue le indicazioni di partito, se è vero che il Cavaliere traccia il solco ma non tutti lo difendono. Anzi non passa giorno senza che il governo sia bersaglio di esponenti del Pdl, quotidiani di riferimento, talk show televisivi. Ci vorrebbe poco per perdere la pazienza, Alfano ha impiegato due mesi, e quando ieri mattina si è sentito dare dell’«unfit» dal Giornale di famiglia, ha alzato il telefono e ha riempito di stupore tutti i suoi interlocutori: parenti di Berlusconi, amici fedeli di Berlusconi, consiglieri di Berlusconi, e ovviamente Berlusconi stesso. «Così non ha senso stare dove stiamo», ha esordito il vice premier: «Invece di essere quotidianamente oggetto di critiche, preferisco tornare a fare quello che facevo». Già Alfano galleggia sull’alito del drago, dovendo gestire i delicati equilibri tra palazzo Chigi e palazzo Grazioli, se poi i suoi colleghi di partito si mettono a usare contro di lui il lanciafiamme...
Raccontano che il Cavaliere abbia ricevuto i ministri, che si erano di fatto autoconvocati nella sua residenza, invitandoli a calmarsi: «Non vi permettete. Io ho dato la parola e il governo deve andare avanti. Non vi preoccupate di me, a me ci penso io», con chiara allusione alle sue tragedie giudiziarie. E per dare più effetto alla scena, mentre gli ospiti si trovavano ancora nell’anticamera, ha chiesto di parlare al telefono con il direttore del Giornale: «Ma non si trova», ha scosso il capo sconsolato. Può darsi l’abbia trovato dopo, di sicuro ha sentito Brunetta, che proprio sul quotidiano di famiglia aveva giocato a freccette con il governo: «Non so più quante volte l’ho pregato di concordare con me la linea», è sbottato Berlusconi.
Il capogruppo del Pdl alla Camera non può essere inserito tra i falchi del partito, è piuttosto un battitore libero che non ha mai smesso di puntare al ruolo di Saccomanni. Ancora all’ultima riunione di partito, parlando dei ministri del Tesoro che si sono succeduti nella storia repubblicana, aveva salvato solo Einaudi al suo cospetto. Ma il nodo più complicato è il rapporto con l’ala dura del Pdl, incarnata dalla Santanchè, «che se si torna a Forza Italia — è stata l’obiezione dei ministri — non può certo rappresentare il blocco dei moderati». Perciò il Cavaliere ha avocato a sé i poteri, «non consentirò giochi nel partito», perciò ha deciso l’intervista al Tg1. Un modo per tutelare il soldato Angelino, e ribadire la parola data a Napolitano e Letta. Non a caso ha usato la stessa formula del premier per zittire le critiche al governo: «Sono solo uno stimolo a fare di più». Il rischio per il governo è un’overdose di stimolanti.

La “Quinta colonna” di Berlusconi: del resto sono al governo con lui...
l’Unità 29.6.13
Berlusconi: «Si torna a Forza Italia e il capo resto io»
Lele Mora: «Ad Arcore abuso di potere e degrado»
I radicali: sbagliato escludere la giustizia dalle riforme


È «un errore da matita blu escludere la giustizia dalla riforma costituzionale», solo perché chi parla di giustizia viene visto automaticamente come filoberlusconiano. Questa la protesta dei Radicali, a nome dei quali Rita Bernardini promotrice dei 12 referendum sulle libertà civili e la giustizia contesta: «In Italia siamo arrivati al punto per cui anche il deposito di un assennatissimo emendamento viene visto attraverso la lente dell’antiberlusconismo. Siamo vicini a punto in cui non sarà più possibile pensare alla riforma della giustizia senza incorrere nel rischio di essere tacciati come filo-berlusconiani». Secondo Bernardini «i riformatori “de noantri” non pensano alle riforme che sono necessarie al Paese; si pongono come unico problema se questa o quella riforma possa o meno piacere a Berlusconi». Per questo rilancia i 12 referendum radicali «che restituiscono direttamente ai cittadini capacità decisionali che parlamenti e governi, di ieri e di oggi, hanno dimostrato e dimostrano di non avere».

Congresso Pd
La Stampa 29.6.13
In campo il viceministro Fassina “Ma in tanti possiamo guidare”
Bersaniani in pressing per candidarlo. “Non ci sono solo io...”
di Francesca Schianchi


I candidati
Fassina Viceministro dell’economia, potrebbe candidarsi spinto dall’area bersaniana
Civati Molto legato al territorio e alla base Pd, dialogante coi movimenti
Cuperlo Triestino, intellettuale, dalemiano. Negli ultimi anni defilato
Renzi Sindaco di Firenze è considerato il favorito

«Io candidato? No comment. Dobbiamo parlare di politica, dare risposte al Paese mettendo insieme un’ampia area che si riconosca in un progetto progressista forte. Poi chi possa guidarla si vedrà, di figure nel partito ce ne sono diverse, Cuperlo, io, Speranza…». Non è ancora una candidatura ufficiale, certo, ma Stefano Fassina, oggi viceministro dell’Economia, già responsabile economico del Pd, nemmeno smentisce l’ipotesi che scuote i democratici: quella che anche lui possa candidarsi alla segreteria del partito.
Al congresso mancano mesi, le regole sono in via di definizione, ma si parla di candidature. Anzi, in realtà è già tempo di polemiche, perché una voce nei giorni scorsi voleva che si pensasse a un rinvio delle primarie nel 2014, ipotesi che vede contrari Renzi e i suoi. «Il congresso si farà entro l’anno», ha ribadito ieri il segretario Epifani. La conferma della candidatura più attesa – appunto il sindaco di Firenze – non arriverà prima che, a metà luglio, siano messe a punto le regole («stavolta non mi faccio fregare», ha detto, ma Epifani assicura che «le regole saranno il più possibile condivise e fatte nella massima trasparenza»). Già in campo sono il parlamentare triestino Gianni Cuperlo, l’europarlamentare Gianni Pittella, il deputato molto autonomo Pippo Civati.
Ieri, poi, spunta l’ipotesi Fassina. E se il fedelissimo di Bersani Nico Stumpo predica che «non bisogna partire dai nomi, prima dobbiamo costruire un’area, poi individueremo il nome», altri nel partito confermano che «c’è una grossa pressione per fare candidare Fassina da parte dei bersaniani». Visto che difficilmente decideranno di convergere su Cuperlo, considerato il candidato di D’Alema, data la freddezza scesa tra l’ex premier e Bersani. Il viceministro dell’Economia è stato – con Orfini e Orlando – uno dei leader dell’ala sinistra del partito definita dei “Giovani turchi”, ma già da qualche tempo si è riavvicinato ai bersaniani, almeno da quando, qualche settimana fa, ha firmato un documento in vista del congresso.
Il suo nome gira. «Stefano ha sempre detto che se ci sarà in campo Cuperlo lui lo sosterrà – ragiona Matteo Orfini, già schierato con il deputato triestino – Le cose vanno spiegate politicamente, e Fassina contro Cuperlo non è spiegabile. Sono certo che Stefano non si presterà a un capriccio di corrente dei bersaniani». Qualcun altro fa notare che anche l’immagine di sinistra dell’ex responsabile economia potrebbe risultare annacquata, da quando fa parte del governo Letta gomito a gomito con prime file del centrodestra.
Chi accoglie serenamente l’ipotesi è proprio Gianni Cuperlo, che martedì incontrerà i deputati in un avvio di percorso congressuale. L’eventualità di un candidato di area sinistra simile a lui non lo fa retrocedere: «La mia candidatura non dipende dagli altri». L’importante è che «chiunque vinca si dedichi alla costruzione del partito: dirigere il Pd non può essere una corvée in attesa di approdare altrove». Stoccata per il sindaco di Firenze, che non ha mai fatto mistero di puntare a Palazzo Chigi: anche lui con i suoi si è mostrato tranquillissimo dinanzi alla possibilità di avere Fassina come competitor. Se deciderà di scendere in campo, sa bene che sarà lui il grande favorito.

Repubblica 29.6.13
Il Partito democratico
Spunta Serracchiani per la segreteria la mediazione di Franceschini con Renzi
Epifani conferma i tempi del congresso: si terrà entro il 2013
di Giovanna Casadio


ROMA — «Mi sembra più che altro una grande precarietà di candidature nel Pd in questi giorni...». Debora Serracchiani è impegnata nel suo ruolo di “neo governatrice” del Friuli, ma da Ettore Rosato, coordinatore di Areadem, la corrente di Franceschini, è stata “sondata”, per vedere se è disponibile a correre per la segreteria. Un tentativo, per ora lasciato lì a decantare. I cattolico democratici di Franceschini lavorano a una mediazione che possa ricomporre lo specchio frantumato che il partito è diventato, in vista del congresso che sceglierà il successore di Epifani. Tante correnti, tanti candidati e su tutti domina Matteo Renzi, il sindaco “rottamatore”, sempre più in campo, ma anche incerto nel timore di regole-trabocchetto fatte apposta per ostacolarlo.
Non basta a Renzi e ai renziani la rassicurazione di Epifani: «Voglio rassicurare Matteo, non abbiamo intenzione di fregare nessuno, le regole per il congresso saranno condivise e la data non slitterà al 2014, si terrà entro il 2013». È in questa zona d’indecisione che la corrente di Franceschini sta tessendo la sua tela con doppia offerta: a Serracchiani la sfida per la segreteria e a Renzi quella a cui il sindaco fiorentino tiene davvero, la premiership. Su Serracchiani potrebbero convergere anche i bersaniani, che in questo momento sono all’offensiva da soli, e Rosy Bindi, i lettiani. Renzi accetterebbe il patto? Il sindaco “rottamatore” a sua volta sta scandagliando ogni possibilità, alleanza, rapporto: nei giorni scorsi, oltre al pranzo con Nicola Zingaretti, il governatore del Lazio, è stato a cena con Vasco Errani. Errani, presidente dell’Emilia Romagna, è ancora tra i più ascoltati consiglieri di Bersani. Grandi manovre in corso, quindi. «Una cosa è certa, ed è che io sono fermamente in campo»: annuncia Gianni Cuperlo. Appoggiato da D’Alema e soprattutto dai “giovani turchi”, la sinistra del Pd, Cuperlo martedì presenterà il suo programma per la segreteria: «Avrei preferito una cosa che, mi hanno spiegato, è fuori dal mondo: immaginavo che un congresso in due mesi si potesse mettere in piedi. Ho preso atto, ora mi auguro che si faccia entro l’anno, va benissimo». Dichiara inoltre: «Non temo nessuno » e propone la divisione tra il ruolo di segretario e quello di candidato premier. Cuperlo ha sentito ieri Stefano Fassina, che per Bersani è il “pupillo” da lanciare nella corsa alla segreteria come candidatura alternativa aRenzi. Gli ha chiesto conto della ragione di una sua candidatura, tenuto conto che Fassina si era espresso in passato per Cuperlo. Il vice ministro dell’Economia ha intenzione di candidarsi davvero? Non lo esclude: «Vedremo. Intanto i Democratici devono trovare una convergenza sul progetto politico». E il 4 luglio con Bersani al Nazareno organizza una iniziativa al Nazareno invitando tutti i leader.
In corsa anche Pippo Civati; Gianni Pittella; un ecodem. Le candidature si moltiplicano. Epifani però ribadisce che lui no, nonci sarà: «Confermo che non mi candiderò segretario al prossimo congresso. Le regole non le scrivo io, c’è una commissione». Che si riunirà l’8 luglio. Giuseppe Lupo, il segretario democratico siciliano, tenterà una mediazione tra le posizioni sull’iter del congresso. In Sicilia qualcosa si muove: il Megafono, il movimento del governatore Crocetta, dialoga con il Pd. «Dialogo è la parola giusta da usare con il Megafono, che può essere un valore aggiunto del partito e dare un contributo importante », osserva Lupo.


l’Unità 29.6.13
Anitori è uscita dal gruppo 5 Stelle
La senatrice passa al Misto, in contrasto col M5S: «Un partito personale, un sistema feudale che espelle o respinge chi dissente»
di Toni Jop


Questa signora è una biologa, insegna; è toccato a lei, ieri, dire addio al gruppo senatoriale dei Cinque Stelle, nel solco di una emorragia quotidiana di energie e di intelligenze – quattro abbandoni in pochissimo tempo solo al Senato, dopo l’espulsione di Marino Mastrangeli e Adele Gambaro e l'addio di Paola De Pin che sta segnando la cronaca parlamentare della nuovissima formazione politica. Si chiama Fabiola Anitori. Non ce l'ha con i ragazzi che l'hanno accompagnata in questo avvio di legislatura, attacca il sistema di potere che tiene assieme la struttura del Movimento. Così, passa al gruppo Misto ricordando che la decisione non è appesa a sue necessità personali ma a un giudizio politico peraltro niente nuovo. Racconta che i Cinque Stelle sono diventati «un partito personale», «un sistema feudale di fedeltà – precisa – che respinge o espelle chi dissente, chi non si allinea». Sembrava anche a noi che le cose stessero a questo modo, ma nei blog ci accusavano di essere cadaveri putrefatti assetati di sangue ogni volta che ci siamo azzardati a trascrivere queste fondate impressioni. «Ogni tentativo di costruzione di una scelta politica sulla base del confronto inteso come ricerca di punti di incontro, viene etichettata come tradimento o inciucio, e ciò costringe a un immobilismo e a una stagnazione che non porta da nessuna parte»: questo il cuore del «testamento» di Fabiola Anitori, merita attenzione.
Al pari di altri colleghi dei gruppi grillini, la senatrice contesta l’assenza di un confronto interno, conseguenza di un ordine che ne impedisce l'apertura, che ne sacrifica la vitalità. È una questione, di nuovo, di potere quella che emerge da queste parole e la base potrà non tenerne conto, ma a questo punto lo farà a suo rischio e pericolo, perché questo lamento è ormai un coro potente che chiede udienza. Non solo: la ricerca della mediazione, strada maestra della pratica democratica, nei Cinque Stelle merita, secondo Anitori, la bolla di «tradimento» o di «inciucio».
Ciò significa che il potere di Grillo e Casaleggio non si limita a deprimere il confronto ma lo sanziona così come farebbe qualunque regime totalitario. Anitori svela con lucidità impietosa la frizione che il padre-padrone ha imposto tra i suoi gruppi e l'istituzione parlamentare: tra quei banchi, pure popolati da brava gente che si sta impegnando allo spasimo per capire e per saper fare, vige una legge che va a cozzare contro il dettato costituzionale. E non c'è dubbio che il diritto costituzionale debba essere sovrano rispetto alle norme che regolano le relazioni e gli atteggiamenti dei parlamentari Cinque Stelle.
Grillo, è evidente, se ne frega: anzi, ultimamente pare abbia messo nel conto l'assottigliamento delle sue file con l'obiettivo di smaltire il dissenso, la critica. Li vuole pronti all'uso, disciplinati, fedeli, col capo chino, zombie Cinque Stelle, mentre predica la tabula rasa, la disinfestazione delle aule parlamentari dai morti viventi degli altri partiti. Magari si è convinto che solo uno zombie può combattere un altro zombie. Per i fans di Grillo, riportare queste notizie significa tuffarsi nel gossip.

il Fatto 29.6.13
M5S, un addio a settimana. Lascia un’altra senatrice
Fabiola Anitari se ne va dal movimento. Sale a 7 il bilancio dei fuori
Il piano dei dissidenti per un nuovo gruppo
di Paola Zanca


“Non riconosco più l’impostazione iniziale del Movimento che è diventato proprio quel ‘partito personale’ dallo stesso tanto criticato, con un sistema feudale di fedeltà che respinge o espelle chi dissente, chi non si allinea. Ogni tentativo di costruzione di una scelta politica, sulla base del confronto inteso come ricerca di punti di incontro, viene etichettata come tradimento o ‘inciucio’ e ciò costringe ad un immobilismo ed una stagnazione che non porta da nessuna parte”.
Nessuna assemblea, nessuna lite, nessuna porta sbattuta. Fabiola Anitori se ne va così. Con uno stringato comunicato, reso pubblico di venerdì quando il Senato sta chiudendo e davanti ci sono quarantotto ore di calma piatta. Si è fatta assistere da un avvocato, questa professoressa 51enne di Ostia. Non ha voluto dire nulla a nessuno, anche se tra i “dissidenti” c’era chi conosceva da giorni la sua “insofferenza verso il clima sospettoso”. Era stata una delle più votate, alle parlamentarie: capolista per il Senato nel Lazio, nonostante sul territorio qualcuno avesse criticato la contestuale candidatura (poi sfumata) del fratello Attilio. Eppure, alle regole del Movimento, la Anitori era attenta e fedele. Subito dopo l’elezione, all’inizio di marzo, aveva spiegato ai suoi compagni di meetup che bisognava organizzarsi, stabilire un metodo di lavoro, disciplinare le votazioni, mettere tutto a verbale e spedire mail solo da indirizzi impersonali “onde evitare personalismi ed eccesso di visibilità determinati dal ruolo”. Invece, quattro mesi dopo, è proprio quella parola “personalismi” a ritornare nel comunicato con cui annuncia il suo addio. È la settima volta che succede: l’abbandono dei deputati tarantini Alessandro Furnari e Vincenza Labriola, le espulsioni di Marino Mastrangeli e Adele Gambaro, il benservito di Paola De Pin e Adriano Zaccagnini. Ora se ne va la Anitori. E chiude il mese di giugno, segnato da un addio a settimana.
LA STRATEGIA dell’abbandono scadenzato sembra studiata; evitare di uscire in massa, per fugare ogni sospetto in concomitanza con la prima rendicontazione. Meglio lo stillicidio ogni sette giorni: entro luglio si capirà quante sono le persone che “prendono coraggio”. L’obiettivo è arrivare al numero sufficiente per costruire due nuovi gruppi alla Camera (ne servono 20) e al Senato (10). Restare annacquati nel gruppo misto non ha senso: bisogna portare avanti “il progetto di un Cinque Stelle vero, senza ingerenze dall’alto”. Si era parlato della bozza di uno statuto già pronta, ma nessuno dei “dissidenti” conferma. Tra i più impegnati nell’ipotesi di redigere un “documento” c’era Alessio Tacconi, ora però alle prese con il caso della sua diaria (vive in Svizzera, ha chiesto una deroga alla restituzione). La riorganizzazione delle truppe è in cantiere per settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva: lì, gli “obiettori di coscienza”, come si chiamano tra di loro, proveranno a capire come tornare insieme. Del resto, i “talebani”, non si strappano i capelli. La furia che aveva scatenato il passaggio al gruppo misto di Furnari e Labriola (un comunicato durissimo del gruppo comunicazione, criticato anche dai parlamentari) non c’è più. Non si intravede nemmeno l’ombra della campagna contro la Gambaro. De Pin, Zaccagnini e Anitori se ne vanno praticamente nel-l’indifferenza generale. Solo qualche collega accenna al-l’annosa questione della diaria (il giorno della restituzione è slittato di nuovo, mancano ancora alcuni bonifici). È Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, il più duro: “Ha collezionato il 95% di assenze in aula (per malattia), alle riunioni non l’ho mai vista (consultare sito del Senato). Con tutto il rispetto per il suo caso, ma come fa a parlare di “partito personale” se qui con noi in Parlamento non c'è mai stata?... ”.

l’Unità 29.6.13
Anonymous assalta il sito di Casaleggio: «Altro che democrazia del web»
Messo fuori uso dagli hacker il sito del guru 5 Stelle: «Siete il cancro che volevate eliminare»
di Natalia Lombardo


Il Re della Rete finisce nella Rete. Questa volta Anonymus, gli immateriali pirati informatici dall’identità collettiva si sono infilati abilmente nel sito della Casaleggio associati e l’hanno messo fuori uso per tutta la mattinata di ieri, come si dice, defacemen, «defacciato», oscurato e sostituito con il marchio di Lulz Sec (il magnate beffardo dello storica branca Usa di Anon, poi sbaragliato). Il tutto con un link che portava direttamente al blog di Anonymous Italia, che questa volta quindi hanno «firmato» l’attacco. Dopodiché il sito del guru grillino è stato reso non raggiungibile.
Altri attacchi erano avvenuto negli ultimi mesi, ma Beppe Grillo aveva negato che si trattasse di hacker, anzi aveva chiesto aiuto a loro stessi. Ma questa volta Anonymus ha colpito nel segno anche con un senso politico accusando il leader 5 Stelle e il suo guru di «essere il cancro che vi eravate ripromessi di eliminare». Perché ciò che viene contestato al duo Beppe e Gianroberto è proprio la mancanza di democrazia, le esplusioni, i processi e le «faide» interne, quasi interpretando il forte malessere degli stessi militanti a Cinque Stelle, sia quelli che sono usciti, sia quelli a disagio. A lanciare come una palla la notizia su Facebook è stato infatti Adriano Zaccagnini, deputato che ha lasciato da poco il gruppo M5S per passare al Misto. Altro punto messo a segno: l’aver dimostrato la vulnerabilità di chi vanta l’onnipotenza informatica, l’essere stati invasi fino all’oscuramento anche nel cuore commerciale del sistema.
SEDOTTI DAL POTERE
«Ciao Beppone, Casaleggio e carissimo SysAdmin. A quanto pare il caveau non era blindato abbastanza e un pirata avido e sanguinario ha fatto irruzione!»: inizia così il messaggio-beffa di Anonymus, i pirati con l’identità coperta dalla maschera,
«saccheggi e scorribande,ecco cioè che un pirata apprezza di più», è il tono piuttosto ludico, che però poi si appesantisce. Niente paura nessuna «caccia di ricchezze», spiega Anon, è già una bella soddisfazione avervi invaso: «Per rallegrare questi giorni di lavoro abbiamo deciso di fare una visita al vostro Guru Informatico & sommo esperto di comunicazione nonché eminenza grigia e burattinaio supremo, aka Mr.Gianroberto Casaleggio», prosegue il messaggio con tono di scherno, per poi andare al punto: «Sareste estremamente più popolari e benvoluti se la smetteste di dedicarvi unicamente a faide interne e a decidere chi è la persona non grata della settimana. State diventando il cancro che vi eravate ripromessi di eliminare. Ma purtroppo come è noto “Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente”».
Come dire: avete riproposto i meccanismi peggiori dei partiti che dite di voler combattere, siete stati infettati dal virus del potere. Anonymus poi distilla una rivelazione: che gli attacchi dei sedicenti hacker del Pd (che a maggio hanno fatto uscire dagli archivi web le mail dei parlamentari Cinque Stelle, alcuni hacker sono stati arrestati ma non sono mai stati individuati i responsabili) erano tutti endogeni, e venivano dai grillini delusi: «Siamo venuti a ricordarvi che c'è sempre qualcuno che osserva il vostro operato», prosegue il messaggio, «Non come i pagliacci degli hacker del Pd, che saranno stati molto probabilmente vostri ex colleghi non proprio soddisfatti del trattamento ricevuto».
LA SICUREZZA FA ACQUA
E poi basta caro Beppe, altro che «la Rete la Rete, voi la Rete non la meritate, incapaci». Punto critico, la massima sicurezza del sito, da conciliare con la massima trasparenza assicurata. E proprio in questi giorni, come spiega Il Fatto, si sta creando un dissidio interno anche sulle piattaforme che dovrebbero funzionare come un Parlamento virtuale, dove ognuno valuta e vota le proposte, una cosa promessa da Grillo & Ca. e che i militanti aspettano da mesi invano. Così i grillini del Lazio stanno lavorando a una piattaforma dalla totale trasparenza e non sono rimasti molto bene per il vedersi buttato nel cestino, dal grande Capo, il sondaggio che accettava la proposta di Marino per un assessorato in Campidoglio. Ma Casaleggio, secondo i «laziali», starebbe lavorando a una sua piattaforma che assicura la sicurezza «tramite l’oscurità».
INCAPACI E VULNERABILI
Anonymus infatti se la ride e critica anche le tanto sbandierate consultazioni web: «Le votazioni ed elezioni in rete, il megafono per tutti, il medium democratico per eccellenza. Quirinarie, Il futuro é la rete...e vi fate pwnare (sconfiggere, ndr) così??? Offrite anche servizi di IT Security...è uno scherzo?», Insomma, «nascondetevi dalla vergogna» con le maschere di Anon... è il consiglio degli hacker. E alla fine anche un colpetto a Mr Benzi (Maurizio, organizzatore del meetup di Grillo a Milano), «sono bastate due spingarde» per ridurre la barca «a un rottame galleggiante!
Sul blog di Grillo ieri non si faceva menzione di quanto accaduto, tutto dedicato a prendere in giro «Letta l’elefante sott’acqua», ben ripagato però dal premier che, a Bruxelles, non gli ha fatto passare liscia la gaffe sul decreto lavoro.
Ma anche Anonymus non ci è andato leggero, sconfessando con le stesse armi il mito della democrazia on line.

l’Unità 29.6.13
Le vere ragioni del «non attacco» al sito del guru
Troppe volte Casaleggio ha accusato gli hacker per giustificare ogni malfunzionamento
di Michele Di Salvo


FORSE QUESTO È IL PRIMO VERO ATTACCO CHE REALMENTE LA SOCIETÀ DI CASALEGGIO riceve da alcuni attivisti appartenenti al mondo di Anonymous. Intanto infatti va chiarito che la comunità «Anon» non è un gruppo unitario, omogeneo, coeso, ma soprattutto in alcuni Paesi, come l’Italia è decisamente eterogeneo. Seppure caratterizzato da alcuni elementi unificanti, tra cui la ricerca della vulnerabilità dei sistemi, lo smascherare molte falsità diffuse in rete, combattere i sistemi di controllo e filtraggio dei messaggi, e la a-partiticità delle azioni, ciascuno poi declina questi concetti «da solo», il che qualche volta come in questo caso può anche suscitare ex-post un dibattito interno sulla opportunità o meno di usare la «sigla comune» per un certo obiettivo o una determinata azione.
La scelta di colpire la Casaleggio e associati comunque non è casuale. Molte forse troppe volte dalla Casaleggio avevano tirato in ballo la community Anonymous per spiegare improbabili attacchi esterni, in realtà semplici bug dei propri sistemi, errori di programmazione, semplici cadute del sistema o altro. Cose comuni nel web. A meno che tu non debba esaltare sempre e al massimo il tuo ruolo di guru infallibile, la potenza della tua azienda e la solidità dei tuoi sistemi. Essere il migliore di tutti per forza, e quasi per definizione. E questo nel web è un errore di impostazione. Nessuno è infallibile, i guru (per quanto tutti alle volte ne sentiamo psicologicamente il bisogno) non esistono, e ogni sistema, anche il più sofisticato, ha un bug da qualche parte siamo tutti in fin dei conti umani e questa prosopopea di grandezza e infallibilità alla rete non piace (e a dire il vero non dovrebbe piacere soprattutto fuori dalla rete, nella vita reale).
In sostanza la rivendicazione ufficiale di AntiSecITA (ovvero Anti Sicurezza Italia) mette in luce le ragioni di questo «non attacco»: vendersi come esperti di sicurezza, presentarsi come i migliori del web, pretendere di essere quelli che gestiscono la democrazia in rete. L’obiettivo è Casaleggio. «Una persona che si professa guru informatico, che offre servizi di IT security, che vuole usare i propri portali e sistemi per “governare”, per fare elezioni, votazioni, etc. questi incompetenti, con il loro modo di fare piuttosto scadente, hanno messo a rischio migliaia e migliaia di persone, dai semplici utenti, ai loro “onorevoli”». E ovviamente la rivendicazione attacca direttamente Maurizio Benzi in quanto amministratore di sistema.
Tra le righe tuttavia si capisce che quello che proprio non è andato giù sono state le dichiarazioni di alcuni mesi fa sugli «hacker pd» che
avrebbero bucato le mail dei parlamentari 5 stelle e come abbiamo già detto a suo tempo, e come chi «sta nella rete» sa anche meglio in realtà semplicemente un episodio di «faide» interne. Il messaggio piuttosto va letto nel senso di dire «basta giocare» (non preoccupatevi eccessivamente però, questo particolare pirata non è alla ricerca di tesori e ricchezze... ovvero non ha danneggiato nulla, e a dirla tutta non ha nemmeno messo sulla pubblica piazza il vostro bug, ci sarebbe quasi da dirgli grazie), se volete un attacco vero lo avrete, ma non usate Anonymous per giustificare la vostra incompetenza tecnica, o la vostra volontà di mettere il cappello politico e filosofico su chi da anni (e da prima di voi) usa (meglio di voi) la rete per aumentare la partecipazione democratica dei cittadini alle questioni sociali e politiche e sul tema della libertà della rete.
Certo la decisione di «colpire» non è stata senza polemiche, tra le quali quelle di chi sostiene che questo attacco abbia dato più pubblicità che altro alla Casaleggio, o che forse c’erano obiettivi più interessanti o politicamente diversi... ma anche questa è la rete, anche questa è una community davvero senza capi né palesi né occulti e in cui oggettivamente si discute anche ex post (c’è da dire senza espulsioni o editti), e ciò avviene inevitabilmente quando pochissime volte l’obiettivo è in qualche modo politico e non solo tecnico. Di certo la rete Anon non è di parte, né contro, né soprattutto qualcuno se ne può appropriare come alleata. E dato che i guru non esistono, da nessuna parte, sono un po’ tutti avvisati.

l’Unità 29.6.13
Carceri, il dramma dei bambini
di Carla Forcolin


SI LEGGE SUI GIORNALI CHE IL NUOVO DECRETO LEGGE SULLE CARCERI PREVEDE LA SOSPENSIONE DELLA PENA per le donne in stato di gravidanza, per le mamme con figli minori di 10 anni e per gli ultrasessantenni.
Da tempo chi si occupa di mamme e bambini in carcere si chiede con inquietudine se saranno molti i bambini di oltre tre anni che seguiranno le madri nella loro pena. Pochi sanno che la stessa legge 62 del 21/4/2011, che non ha ancora avuto piena attuazione, finisce per far crescere in carcere bambini fino a sei anni. Essa recita così: «Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza».
È evidente che le intenzioni del legislatore sono quelle di far uscire i bambini dal carcere, ma poiché le esigenze cautelari esistono, di fatto obbliga al carcere bambini fino ai sei anni invece che bambini fino a tre anni. La legge 62 istituisce anche gli Icam (istituti a custodia attenuata per madri) proprio per rendere la detenzione meno dura per i bambini, ma gli Icam presenti sul territorio nazionale sono solo due, quello di Milano e quello di Venezia. Quest’ultimo non è ancora funzionante, anche se bello e già arredato. Il rischio che la pratica applicazione di una legge di riforma, nata per far uscire gli innocenti per antonomasia dal carcere, raddoppi il numero dei bambini reclusi è concreto. Il decreto legge appena approvato finirà forse per portare negli Icam bambini fino a dieci anni? Ci auguriamo caldamente che così non sia. Da anni noi dell’associazione «La gabbianella e altri animali» ci occupiamo dei bambini del nido del carcere di Venezia e vediamo come soffrano nell’essere rinchiusi, nell’essere privati nel quotidiano del padre e delle figure maschili, nel vivere accanto a madri spesso depresse, nell’essere privati di una vita «nomale». Non sembra per nulla che il prolungare l’età dei bambini che vivranno accanto alla madre detenuta sia una buona idea e la nascita degli Icam non riuscirà a risolvere il problema inevitabile del punire indirettamente i bambini figli di persone che hanno compiuto dei reati. Il carcere non un posto per i bambini, ma gli stessi hanno bisogno della madre. È per questo che le madri devono essere poste agli arresti domiciliari o, se proprio questa soluzione è impossibile, almeno i loro figli devono essere posti nelle condizioni di avere una vita, negli Icam, la più normale possibile, simile a quella degli altri bimbi. Però non oltre i tre anni, perché più i bambini crescono più sembrano soffrire la detenzione che indirettamente subiscono.
Tenere in carcere o anche in un istituto a custodia attenuata bambini fino a sei o fino a dieci anni significa peggiorare lo stato delle cose presenti. Si auspica che gli Icam portino gli attesi miglioramenti, senza aggiungere anni di carcere nella vita dei bimbi.

l’Unità 29.6.13
Nel Cie per errore Karim è tornato libero
Il caso ripreso dal New York Times. La lunga battaglia di Federica
L’egiziano era nel centro di identificazione di Roma
La sua storia era stata raccontata da l’Unità e ripresa dal Times. Adesso è con la sua famiglia
di Luciana Cimino


Si chiama Karim ed è egiziano. Ma in Italia ci è arrivato quando era in fasce, in Italia ha trovato Federica e in Italia è nata Aurora, la loro figlia. Eppure Karim è finito per mesi nel Cie di Ponte Galeria, una storia assurda che l’Unità ha raccontato. E che ora è finita.

Da 4 giorni Karim è tornato a casa. Nella Milano che lo ha accolto e cresciuto, tra le braccia della sua giovanissima compagna, Federica, e della sua bambina Aurora. Il tormento degli ultimi mesi è alle spalle. Anche se gli strascichi, psicologici e legali, di tutta la faccenda sono ancora tutti lì e fanno anche male. Il 25 giugno Karim è uscito dal Cie di Ponte Galeria dove era finito per errore. «L’Unità» aveva raccontato la sua storia a maggio. Poi anche il New York Times si era occupato dell’assurda condizione del ragazzo. Per mesi la sua compagna ha lottato, con LasciateCIEntrare, per non farlo rimpatriare. L’Egitto, dove è nato per poi arrivare quasi in fasce con la famiglia in Italia, per Karim non era la sua terra ma un nome scritto sul passaporto, con il quale lui non aveva alcun legame.
In Lombardia c’era invece tutta la sua famiglia, i suoi fratelli (tra cui uno sposato con una italiana e con un bimbo italiano), la sua donna, la sua bambina e un altro in arrivo. Federica poi però per lo stress ha abortito. Troppo faticosa la spola tra Milano e Roma, le code per la burocrazia, Aurora da gestire, l’angoscia. «È stato difficile, mi sento ancora stanca e provata ma questo deve essere il passato, non ci voglio più pensare», dice adesso lei. Racconta che Aurora adesso «non si stacca più dal padre», che appena gli hanno detto che poteva lasciare il Cie Karim non ci ha creduto, che la sua famiglia sta impazzando di gioia. E che si sposeranno presto, forse a luglio, se i documenti saranno pronti. A giorni riceverà un permesso di soggiorno di 6 mesi, «è già qualcosa, per un po’ stiamo tranquilli». Ma, dice, «la burocrazia per quelli considerati immigrati è un travaglio infinito».
Karim aveva avuto in passato problemi di droga. È stato in comunità, ne è uscito riabilitato. Poi l’errore dell’associazione che doveva presentare la richiesta del suo permesso di soggiorno e i cancelli del Cie. Ora, dopo l’impegno di LasciteCIEntrare e dell’Asgi (associazione studi giuridici immigrazione) e la raccolta firme su change.org, il Tribunale di Roma ha accolto la richiesta di sospensiva del trattenimento, in attesa che si definisca il procedimento di asilo politico. «Se dovesse ritornare in Egitto – spiega l’avvocato dell’Asgi Salvatore Fachile sarebbero violati i suoi diritti fondamentali, per prima cosa perché è un luogo che Karim non conosce, poi perché la reazione al fatto che non è ancora sposato con la sua compagna sarebbe ostile in questo momento storico, infine perché sarebbe costretto a tre anni di servizio militare in un ambiente totalmente estraneo». «Come Asgi – dice ancora Fachile – accogliamo molto positivamente il pronunciamento del tribunale perché compensa le disattenzioni e la poca competenza dimostrata dai giudici di pace e da altri che volevano espellerlo». Esprime soddisfazione anche Gabriella Guido, di LasciteCIEntrare, «abbiamo risolto una evidente ingiustizia politica e civile ma soprattutto abbiamo riunito due ragazzi che stavano cercando di costruirsi serenamente un futuro insieme. Ma siamo addolorati che abbiano perso il bambino, Federica si è ritrovata impaurita e sola. Questa crudeltà è senz’altro
una tra le tante conseguenze». «Grazie alla associazioni, agli avvocati e ai politici che hanno difeso questo caso Karim è uscito, altrimenti sarebbe stato uno dei tanti abbandonati al suo destino».
Secondo le associazioni sarebbero infatti molto numerosi in tutta Italia i casi simili. «Per esempio ora a Ponte Galeria c’è un ragazzo bengalese, arrivato piccolissimo in Italia, che si trova dentro per il mancato rinnovo del permesso di soggiorno», racconta Fachile. «Una prassi estremamente scorretta: la direttiva europea 115 prevede l’uso dei Cie solo in casi straordinari mentre in Italia è uno strumento da utilizzare ogni qual volta una persona viene trovata senza documenti in regola. Questa è una violazione intollerabile». Dice ancora Giudo «stiamo elaborando una serie di proposte volte a depotenziare la normativa sulla detenzione amministrativa e a creare aree più civili e democratici, intanto continuiamo a chiedere con forza al nuovo Governo di esaminare alternative ai Cie». O almeno, chiosa Fachile, «rispettare la normativa comunitaria: deve essere solo una eccezione»

il Fatto 29.6.13
Intervista a Gino Strada
“La Repubblica non esiste più, l’han privatizzata”
di Sandra Amurri


Ascoltare Gino Strada, fondatore con la moglie Teresa Sarti di Emergency presieduta dalla figlia Cecilia, è come immergersi in un mondo smarrito in cui le parole riacquistano la loro umanità. Con quell'aria apparentemente stanca, quasi assente, scapigliato, quando parla cattura l'attenzione perchè il suo dire è passione e pratica di vita. Apostrofato dai giornali berlusconiani come “visionario, venditore di fumo, comunista”. È Amato da migliaia di volontarie e volontari e da quella sinistra in cerca di casa. E indicato dal popolo web di Grillo come candidato per il Quirinale. Strada è a Livorno per il XII Incontro di Emergency: “Diritti o Privilegi”.
Punto di domanda volutamente assente nel titolo?
Ovvio. Non dovremmo più chiamarci Repubblica italiana ma Paese privato. La messa in dubbio della sostenibilità della sanità, dell'acqua, della scuola pubblica. Ormai è al di fuori della politica. La Costituzione sta diventando la più grottesca del mondo, non siamo più una Repubblica fondata sul lavoro, ma sui licenziamenti.
Deluso da Grillo?
Il M5S è stato e resta un segnale forte per i “signori della politica”. Il problema non è M5S, ma questa nuova formazione bulgara che ci governa: la messa in pratica o meglio la conclusione di un processo che dura da decenni. Destra, sinistra, al di là del codice stradale vuol dire guerra o pace, pubblico o privato e tante altre cose. Quando una parola come la sinistra viene stuprata meglio cambiar parola.
Ne ha una nuova?
No, serve a poco. Non sono ottimista sul fatto che le cose cambieranno. Il che non significa che bisogna smettere di parlare di certi valori, di promuoverli, di fare delle cose giuste che cambiano la vita delle persone. Più delle coglionate dei politici. Se siamo in tanti ci troveremo in una società migliore. In questo sono ottimista.
Pentito di non aver accettato la candidatura al Colle proposta dal popolo di Grillo?
Era una proposta-provocazione, il Presidente lo eleggono i grandi elettori e siccome lì dentro ci sono condannati, papponi, pedofili...
Però il ministro della Sanità lo avrebbe fatto...
Intanto è il premier che forma il governo ma se uno qualsiasi, non importa chi, me lo chiedesse seriamente risponderei: il mio programma è questo: fuori il profitto dalla sanità, nessun soldo pubblico deve più finire nelle tasche del privato, via le convenzioni.
Emergency dal 2006 opera anche in Italia. Chi l'avrebbe mai detto?
Stiamo mettendo in piedi ambulatori mobili. Strutture di alta qualità e gratuite come da diritto costituzionale per chi, e sono tanti, non può più permettersi di essere curato. Stiamo costruendo una sanità non profit contro quella profit. Sanità che è stata rovinata con l'introduzione del concetto di azienda che risponde alla domanda: quanto bisogna spendere? Quanto serve, non un euro in più. Qualcuno ci dice che noi spendiamo 35 miliardi meno della Germania e della Francia ottenendo risultati migliori e che abbiamo tecnologie superiori ad altri Paesi ma non le usiamo? Però ci dicono che il sistema è in crisi. E il cittadino paga un ticket superiore a quello che pagherebbe in una struttura privata. Mi chiedo dov'è l'aggettivo pubblico? Cosa vuol dire ticket? Da quando in qua bisogna pagare i propri diritti? Il sistema resiste grazie alla volontà di tanti medici e infermieri che operano contro le politiche sanitarie.
Teoria ineccepibile. In pratica?
Basterebbe non firmare piu nessuna convenzione, riesaminare quelle esistenti e tagliare quelle senza senso ma non c'è la volontà politica perchè la casta ha profondi intrecci con la cricca del settore della sanità. Perché gli ospedali comperano lo stesso prodotto di Emergency e lo pagano 3,5,10 volte di più? Perchè nel gonfiare i prezzi c'è spazio per le mazzette. Secondo l'Oms il maggior determinante della salute è la giustizia sociale. La sanità non riguarda solo ospedali e ambulatori, ha a che fare con la difesa dell'ambiente. E vogliamo parlare delle malattie costruite a tavolino?
Parliamone.
Veicolazione della malattia vuol dire assicurarsi che vengano consumati sempre più farmaci da persone sane convinte di essere malate per fare soldi. Dicono che se hai la glicemia alta hai il diabete. Se il livello di normalità della glicemia prima era 125, la abbassano a 110. Uguale per il colesterolo, l'ipertensione... Parte una nuova campagna e si vendono i farmaci. Porcherie con il coinvolgimento dei medici.
Torniamo alla politica lei è molto critico però non vota da 35 anni.
Non voterò mai chi non mi garantisce che non mi porti in guerra, non ho bisogno dell'art 11 della Costituzione mi basta la mia coscienza civile. So che fino a che ci sarà questa casta politica non sarà possibile costruire un sistema etico, un sentire comune con regole certe. Invece di una società stiamo costruendo una grande giungla. Nello statuto dei diritti umani si dice che gli uomini debbono comportarsi in spirito di fratellanza, se siamo insieme il rispetto per gli altri è il rispetto per noi stessi, cioè un bene comune.

La Stampa 29.6.13
L’obolo di San Pietro. I mille scandali del forziere vaticano
Settant’anni di segreti, omicidi e tangenti Il cruccio che da sempre tormenta i Papi
di Francesco Grignetti


All’ombra del Cupolone Lo Ior ha sede nel quattrocentesco torrione Niccolò V Nel 2008 (ultimi dati disponibili) vi lavoravano 130 dipendenti, aveva 44.000 conti correnti cifrati e un patrimonio stimato in cinque miliardi di euro

In origine, quando ancora c’era il potere temporale dei Papi, era l’Obolo di San Pietro. Poi venne, la Breccia di Porta Pia, lo scioglimento forzato degli ordini e delle congregazioni, la nazionalizzazione dei conventi. Infine ci fu la riconciliazione tra Stato e Chiesa, ai tempi del cavalier Benito Mussolini. E ci fu un sostanzioso risarcimento: 1 miliardo di lire. Fu allora che nacque lo Ior, la banca del Vaticano, e venne chiamato il banchiere cattolico Bernardino Nogara a presiederne gli investimenti. Con Nogara e poi con Massimo Spada, il patrimonio dello Ior non smise mai di crescere. Investirono in miniere, energia elettrica, comunicazioni telefoniche, credito bancario, ferrovie locali, produzione di macchine agricole, cemento, fibre sintetiche, armamenti. Fecero mosse spregiudicate. Così capitò che Nogara nel 1930 riuscisse a vendere a caro prezzo all’Iri, cioè allo Stato italiano, gli immobilizzi mobiliari delle «sue» banche un attimo prima che il crollo di Wall Street deflagrasse. Oppure che Massimo Spada, nel 1939, alle soglie della guerra, convertisse il patrimonio in sterline-oro: il risultato fu che dopo il 1945 lo Ior disponeva di un tesoro immenso.
Fin qui, è storia. Però una storia che negli Anni Sessanta diventa noir. Lo Ior si appoggia a Michele Sindona, che è un astro nascente, nonché socio di David Kennedy, ministro del Tesoro di Nixon. David Kennedy era amico e concittadino del vescovo Paul Marcinkus. E un cerchio si chiude.
Il nome stesso di Sindona rinvia a uno scandalo pazzesco che significa mafia, massoneria, riciclaggio, bancarotta, delitto Ambrosoli. E non dimentichiamo che la magistratura milanese arriva a Licio Gelli e alla loggia P2 nell’ambito dell’indagine su Sindona. All’epoca si favoleggiava di una famosa Lista dei 500 (evasori eccellenti). Con la scoperta della P2 le liste si moltiplicano e così gli interrogativi. E siccome uno scandalo tira l’altro, si arriva anche a Calvi e a un corpo che penzola dal Ponte dei Frati Neri di Londra.
La figura di Paul Marcinkus in questa fase è onnipresente. E sarà vero che lo Ior sosteneva l’intrepida lotta di Solidanorsc, tanto cara al Papa polacco, ma appare anche chiaro che Marcinkus rastrellava soldi con ogni mezzo, lecito e illecito. Che cosa c’entri la Banda della Magliana, ad esempio, o la morte della giovane cittadina vaticana Emanuela Orlandi, lo dirà forse l’inchiesta penale ancora in corso. Ci sono giudici come Rosario Priore che pensano a un grande ricatto al Vaticano perché lo Ior avrebbe dovuto «lavare» 30 o 40 miliardi della banda e invece Marcinkus non aveva tenuto fede ai patti.
Anche la gestione successiva, quella del «moralizzatore» monsignor De Bonis, non è da meglio. Attraverso lo Ior, infatti, come ha raccontato con documenti inediti il giornalista Gianluigi Nuzzi in «Vaticano Spa», tra il 1992 e 1993 è passata la maxitangente Enimont da 100 miliardi, di cui tutto sa il faccendiere Luigi Bisignani. E sempre attraverso lo Ior, per il conto Fondazione Spellman di cui aveva la firma Giulio Andreotti, transitava un cospicuo quanto misterioso flusso di fondi.
Miracoli di un segreto bancario impenetrabile, di una banca sui generis che ha una sola sede, nel quattrocentesco torrione Niccolò V, 44 mila correntisti nascosti dietro un codice cifrato, e non emette libretti di assegni. Al termine dello scandalo Calvi, lo Ior, cioè la Santa Sede nella persona del cardinale Agostino Casaroli, staccò un assegno da 250 milioni di dollari. Non a titolo di risarcimento ma come atto di «contributo volontario» in cambio della rinuncia da parte delle banche a qualunque futura rivalsa. Casaroli chiuse così il contenzioso economico; allo stesso tempo, però, impedì l’arresto del vescovo Marcinkus, opponendosi con fermezza all’ordine della magistratura italiana.
Altri tempi. Altre grandezze. Negli ultimi tempi, infatti, gli scandaletti che toccano lo Ior sono stati ugualmente tanti, ma più miseri. C’è il banchiere «cattolico» Giampiero Fiorani che ammette di avere versato 15 milioni di euro in nero in Vaticano; c’è Angelo Balducci, ex Gentiluomo di Sua Santità, che nel suo conto allo Ior faceva confluire parte delle sue rendite milionarie, in parte utilizzate per finanziare l’acquisto di una villa dove il cerimoniere del Papa, monsignor Franco Camaldo, voleva sistemar la sede di una loggia massonica; c’è don Evaldo Biasini, economo della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, già soprannominato «don Bancomat» perché custode dei fondi neri del costruttore Diego Anemone; c’è Ninni Treppiedi, economo della Curia di Trapani, che ha trafficato con fondi non suoi.
La storia ultima racconta di uno scontro sanguinoso tra l’ex presidente Luigi Gotti Tedeschi, molto amico di Giulio Tremonti, e quella parte di Curia che fa capo al cardinale Tarcisio Bertone, dove non si capisce chi sia il vero moralizzatore e chi no. Resta il fatto che Gotti Tedeschi teme addirittura per la sua vita. Qualcuno ipotizza che sia stato il braccio di ferro attorno allo Ior ad avere logorato fino a stremare papa Benedetto XVI. È un fatto che papa Francesco abbia appena insediato una commissione d’indagine sullo Ior. E che stavolta il Portone di Bronzo non sia rimasto sbarrato quando la magistratura ha bussato per monsignor Nunzio Scarano.

l’Unità 29.6.13
Bufera Ior: arrestato «Monsignor 500 euro»
Corruzione e truffa: in manette Nunzio Scarano, uno 007 e un broker
Per l’accusa facevano rientrare illecitamente dalla Svizzera milioni di euro
di Franca Stella


Lo chiamavano, non a caso, «monsignor 500». Nunzio Scarano, ex responsabile della contabilità analitica dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, la cassaforte che amministra i beni della Chiesa), era conosciuto da tempo non solo per avere una grande disponibilità di banconote da 500 euro, che proponeva di scambiare ad imprenditori amici in cambio di assegni circolari, ma anche per la sua spregiudicatezza nel maneggiare denaro e nel fare ogni tipo di affari. Talmente spregiudicato da finire in un’inchiesta della Procura di Roma che ieri lo ha arrestato assieme ad altre due persone, Giovanni Maria Zito, sottufficiale dei carabinieri che prestava servizio nei Servizi segreti e Giovanni Carenzio, broker finanziario. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono corruzione in concorso, calunnia e truffa.
Gli arresti, eseguiti dalla Guardia di Finanza, sono avvenuti nell’ambito di un filone dell'indagine, autonomo rispetto alla principale, sullo Ior. I tre erano legati tra loro dall’appartenenza all’ordine Costantiniano. L’inchiesta riguarda una serie di atti di corruzione per far rientrare in Italia dalla Svizzera 20 milioni di euro. Secondo quanto emerso dalle intercettazioni, il tentativo di portare in Italia il denaro rappresenterebbe un favore alla famiglia degli armatori napoletani D’Amico, i fratelli Paolo, Maurizio e Cesare con la quale il prelato aveva rapporti da diversi anni. Scarano era stato anche iscritto lo scorso 13 giugno nel registro degli indagati per il reato di riciclaggio dalla procura di Salerno. Il monsignore, prima di essere ordinato sacerdote a 27 anni, era stato un funzionario della impiegato della Banca d’America d’Italia; non viveva più a Salerno da fine maggio era stato sospeso dal servizio presso l’Apsa.
Deve rispondere anche del reato di calunnia per aver denunciato lo smarrimento di un assegno di 200mila euro che aveva consegnato a Zito, come compenso per portare in Italia i soldi dalla Svizzera; tentativo poi non andato a buon fine. Zito aveva preteso ed ottenuto un primo compenso di 400mila euro e un successivo assegno da 200mila euro che poi il presule ha bloccato denunciandone la scomparsa. Gli inquirenti contestano a Zito il reato di truffa poiché nei giorni in cui si è recato in Svizzera per trasportare il denaro si è messo in malattia dal lavoro. Per trasferire i milioni di euro (in origine erano 40) era stato anche noleggiato da Zito un jet privato. Gli inquirenti hanno spiegato che il monsignore non è mai stato un funzionario dello Ior ma è titolare di conti correnti presso l'Istituto: un fondo personale e un altro dove riceve donazioni per gli anziani. Secondo la Procura di Roma Scarano, era in grado di trasferire ingenti somme di denaro in Italia anche dallo stesso Vaticano (che ha assicurato «la sua disponibilità a una piena collaborazione» con i giudici italiani).
Ecco come il gruppo si organizzava in una intercettazione telefonica del 13 giugno 2012. Scarano parla con Giovanni Zito. I due discutono proprio del trasferimento (poi «saltato») dei 20 milioni di euro dalla Svizzera, eludendo le normative antiriciclaggio e fiscale. L’intercettazione è definita dal gip «significativa» dal punto di vista probatorio. Zito dice: «Tu sai perfettamente che negli aeroporti ci sono i controlli di sicurezza no?». Scarano: «Sì!». Zito: «Ok, io ho la possibilità, organizzandomi da adesso, a poter saltare quel tipo di trafila, e con molta tranquillità utilizzare un aeromobile privato e atterrare in un aeroporto militare! Mi senti?». Scarano risponde: «Sì sì, ti seguo, ti seguo!». «Ecco, questa procedura ci permette di fare quel passaggio in tempi rapidi e sicurissimi. Allora mi devi dire con esattezza se si deve fare o non si deve fare perché mi devo organizzare...». «Si deve fare!» risponde Scarano.
Ma non c’è solo questo. Dagli accertamenti è emerso che l’alto prelato è titolare, come ricordato, di due conti correnti presso lo Ior. Uno è personale l’altro, denominato «fondo anziani», raccoglie le donazioni. A determinare gli accertamenti patrimoniali su Scarano è la «disinvoltura» con la quale movimenta ingenti somme di danaro. In un caso il prelato ha prelevato 560mila euro in contanti e dopo averli portati a Salerno li ha distribuiti tra una quarantina di fiduciari. Dagli stessi fiduciari Scarano si è fatto consegnare assegni di pari importo e li ha riversati in banca sotto forma di donazioni. Un espediente poco chiaro sul quale gli inquirenti di Roma e di Salerno vogliono ora fare luce.

il Fatto 29.6.13
Le inchieste rivelate dal “Fatto” nei giorni scorsi


DA UNA PARTE la vicenda di Don Poggi e le violenze su minori in Vaticano, dall’altra l’inchiesta che a portato al-l’arresto di monsignor Nunzio Scarano, insieme a Giovanni Carienzo e Giovanni Zito. Entrambe le indagini sono state rivelate nei giorni scorsi da Il Fatto Quotidiano. L’inchiesta sulla famiglia di armatori salernitani e il monsignor Scarano è stata pubblicata lo scorso 27 giugno. Nell’articolo si parlava dell’attività immobiliare di Scarano oltre che dei suoi conti presso lo Ior dove piovevano bonifici da parte della famiglia D’Amico. Per quanto riguarda la vicenda legata a Don Poggi, invece, per la prima volta è stato il fatto a rivelare l’esistenza della sua denuncia e dell’inchiesta del pm Maria Monteleone. Già nel primo articolo si parlava del reperimento di minori che poi venivano fatti prostituire. E ad abusarne, secondo l’accusatore, erano monsignori e prelati.

il Fatto 29.6.13
Il monsignore, il broker e l’agente segreto. Arrestati
Hanno messo in piedi un’operazione per riportare in Italia a bordo di un jet 20 milioni di euro di provenienza illecita
di Valeria Pacelli


Avevano ideato una dettagliata operazione per riportare in Italia venti milioni di euro di provenienza illecita. L’accordo salta, ma i reati commessi restano. Per questo un alto prelato, monsignor Nunzio Scarano, insieme a un ex funzionario dei servizi segreti italiani Giovanni Maria Zito, e ad un broker finanziario, Giovanni Carenzio sono stati arrestati ieri mattina nell’ambito di un’indagine della procura di Roma, di cui sono titolari i pm Nello Rossi, Rocco Fava e Stefano Pesci. A svolgere gli accertamenti invece sono gli uomini del nucleo valutario della guardia di finanza, guidati dal generale Giuseppe Bottillo. L’indagine che ha portato all’arresto dei tre è una costola di quella più ampia sui conti dello Ior. Stavolta però i reati sono corruzione, truffa e calunnia, che vengono contestati a vario titolo agli arrestati. I tre infatti volevano far rientrare in Italia venti milioni di euro di cui era fiduciario inizialmente il broker Carenzio, lo stesso che alla fine farà saltare l’operazione. Ma è leggendo l’ordinanza di custodia cautelare che si capisce come ogni cosa fosse organizzata nei minimi dettagli e come ognuno avesse delle mansioni specifiche. Stando alle intercettazioni, il tentativo di riportare quel denaro in Italia avrebbe rappresentato un favore per la famiglia degli armatori napoletani D’Amico, i fratelli Paolo e Cesare, indagati anche questi per evasione fiscale, come anticipato dal Fatto qualche giorno fa. “Il pm – scrive nell’ordinanza la gip Barbara Callari – ha ritenuto di individuare i titolari della somma di denaro in questione negli imprenditori Cesare e Paolo D’Amico, con i quali monsignor Scarano intrattiene frequenti e stretti rapporti”.
ED È DEI FRATELLI D’Amico, che smentiscono il loro coinvolgimento, che si parla anche in un’intercettazione del 13 giugno 2012, quando il monsignore e lo 007 fanno riferimento agli armatori. Zito chiede a Scarano: “la somma complessiva quant'è? ”. Scarano risponde: “Penso che per Cesare e Paolo saranno introno ai 20". Così monsignor Scarano e il broker Carenzio si accordano. La somma da far rientrare era più alta: 40 milioni di euro, che poi diventano 20. A conferma dell’esistenza del denaro in Svizzera i pm forniscono agli atti una mail inviata da un funzionario del servizio finanziario usb, dal quale emerge come l’istituto elvetico, il 20 giugno 2012, abbia messo a disposizione di Carenzio la somma di 41 milioni di euro, proveniente appunto dai fondi dei titoli. Per mettere a segno il tiro, però il duo ha bisogno di una terza persona, l’uomo degli agenti segreti Giovanni Maria Zito. Grazie all’agente infatti potranno eludere i controlli alla frontiera, e portare il denaro in contanti in Italia tranquillamente. È Zito, infatti, che si attiva per trovare un jet privato da utilizzare per il trasporto del denaro in contante. Coinvolge anche un uomo, Bruno, del tutto inconsapevole, che porterà con sè chiedendogli di presentarsi armato, e trova anche delle schede telefoniche “coperte” intestate ad ignari. Mentre prepara tutto questo, lo 007 presenta anche delle giustificazioni mediche non veritiere all’Aisi: per questo è indagato anche per truffa.
OVVIAMENTE il lavoro “parallelo” di Zito viene fornito dietro lauto compenso: nell’intercettazione del 21 giugno 2012 infatti Carenzio e Zito parlano anche di questo. Zito: “Io le assicuro il risultato finale, stia tranquillo senza alcun problema (...) in modo che io mi faccio già un... lei sa perfettamente che ci sono delle piccole spese di carburante e quelle ovviamente sono sue, poi ne riparliamo a voce... comunque sono sciocchezze”. Carenzio: “Si si”. Zito: “Il resto e gratis et amor dei”. Sembra tutto pronto insomma, ma a pochi giorni dall’operazione Carenzio ci ripensa e agisce in modo incomprensibile per gli stessi magistrati. Il 15 luglio chiama i carabinieri e denuncia anonimamente un attentato nei confronti del giudice Franco Roberto, capo della procura di Salerno. Secondo i magistrati, questa iniziativa era volta unicamente “a bruciare l’utenza telefonica provocando su di essa controlli da parte delle forze dell’ordine dopo la denuncia fatta”. Mentre brucia la scheda telefonica, però, Giovanni Zito è già in viaggio da Roma verso Padova, dove incontrerà il legale rappresentante di una società che mette a disposizione il jet privato. Il 16 luglio arrivano a Locarno, ma il broker non si presenta, inscena addirittura un attentato all’aeroporto di Capodichino tentando così di giustificare il ritardo del suo aereo. Ormai i rapporti sono totalmente deteriorati e l’operazione salta.
LO 007 però vuole esser pagato lo stesso. Così a dover fronteggiare le spese interviene Monsignor Scarano. Che stacca due assegni. Il primo ammonta a 400 mila euro e viene incassato da Giovanni Zito; il secondo di altri 200 mila. Per quest’ultimo però Scarano tenta di evitare il pagamento. Si presenta ai carabinieri e denuncia le scomparsa del libretto degli assegni in bianco. Azione che gli costa anche il reato di calunnia nei confronti di Zito. Scarano non ci sta e vuole il suo denaro. Pensa una seconda opzione per farlo recuperare quello perso. E con l’ausilio dell’avvocato Francesco Carluccio pensa addirittura di denunciare lo 007 affermando di avergli prestato quel denaro per un’immobile che lui effettivamente compra. Era un prestito nella mente di Scarano, non il compenso per un’operazione che anche lui voleva mettere a segno. Ma di questi assegni staccati è a conoscenza anche Maurizio D’Amico, della famiglia degli armatori salentini. In una intercettazione del 19 luglio 2012 Scarano infatti informa l’amico Maurizio di aver incontrato Zito nella serata precedente al quale “ho dovuto firmare 2 da 200 mila”. Poi il 20 luglio, ribadisce di stare in una situazione precaria a causa “dell’elevato importo a favore del tuo amico se servizi”.
Ma ci sono anche altri che sanno di questa brutta faccenda. Come Don luigi Noli, amico del monsignore salernitano che, scrivono i pm, “ha letto una lettera fattagli pervenire da Zito nella quale ha esposto le ragioni in merito al mancato rientro dei capitali svizzeri”.

il Fatto 29.6.13
Nunzio Scarano, il prelato devoto alle banconote
Sempre elegantissimo, sensibile al lusso e alle opere d’arte
di Marco Lillo


Un monsignore che chiama “Prima luce” la sua prima società per fare affari immobiliari con il cugino, che sceglie la dicitura “fondo anziani” per uno dei due conti dello Ior sui quali gli inquirenti stanno indagando e che scrive una lettera piena di balle per ottenere 400 mila euro indietro, usando però il tono del padre spirituale. Eccolo monsignor Nunzio Scarano.
Un uomo di Chiesa disinvolto nel dispensare le banconote da 500 euro come fossero ostie. Si dice che sia un amante del mondo dello spettacolo e che vanti una buona conoscenza con stelle del calibro di Michelle Hunziker. Ama Roma ma a Salerno si è comprato (dalle suore nel 2001) una magione principesca da 500 metri piena di opere d’arte. Sempre elegantissimo, al punto da sembrare un po’ effeminato e amante del lusso, Scarano è davvero un personaggio da film.
Insieme a un agente dei servizi segreti, Giovanni Zito, organizza il rientro con un aereo appositamente affittato di 20 milioni di euro depositati in una banca svizzera e appartenenti a personaggi ignoti che i pm ipotizzano siano gli armatori D’Amico, ovviamente suoi amici. Scarano dà il meglio di sé quando il faccendiere Giovanni Carenzio sparisce sul più bello. Non consegna i 20 milioni di euro all’agente segreto che doveva fare da spallone volante con apposito aereo privato. Scarano deve tirare fuori i soldi per lo 007 che aveva noleggiato l’aereo alla bisogna. Stacca un assegno in bianco per 400 mila euro, incassati. A quel punto si pente. Non del riciclaggio ma dell’assegno e ha una pensata geniale: si inventa una denuncia per smarrimento degli assegni in bianco.
COSÌ secondo lui sarebbero diventati carta straccia e avrebbe potuto citare in giudizio Zito, che ci aveva comprato nel frattempo una casa. Scarano viene arrestato per calunnia ma lascia una lettera illuminante. La moglie di Zito gli aveva ricordato gli impegni in una missiva: “Mio marito non ha mai tradito nessuno”. E Scarano, che non vuole tirare fuori un euro e anzi rivuole i soldi dell’assegno incassato, chiede lumi al suo legale. Gli inviano una bozza della risposta: “Cara Antonella sono molto sorpreso …Nel nome della verità, l’assegno richiesto da tuo marito Giovanni è scaturito dalla vostra imminente esigenza per l’acquisizione immobiliare di un appartamento più grande. Mi conforta di avervi potuto, temporaneamente, supportare con un prestito (…), naturalmente auspico il rientro della somma entro e non oltre il 15 settembre p. v., così come accordato con tuo marito Giovanni... auspici di ogni bene”. E, alla faccia della verità e della carità, Scarano copia quasi integralmente la lettera e la spedisce alla moglie di Zito. Monsignor Scarano era contabile dell’Apsa, l’ente che gestisce il patrimonio immobiliare del Vaticano, fino a poche settimane fa. Ha preso i voti a 35 anni, una “chiamata” tardiva che lo coglie alla Banca d’America e d’Italia, ora Deutsche Bank, dove lavorava.
Da tempo vive a Roma, nella Domus Internationalis Paulus VI, in via della Scrofa, dove ha alloggiato durante il Conclave anche papa Bergoglio.
Quando èstato indagato a Salerno per riciclaggio l’Apsa lo ha sospeso dal suo incarico. Ha la passione delle costruzioni. Monsignore è intestatario del 90 per cento della Nuen srl, che dall’ottobre del 2012 esercita l’attività di costruzione di edifici residenziali. L’altro socio, con il 10 per cento, è l’amministratore Enrico Vallese, un costruttore di Alba Adriatica. È stato intestatario di quote in altre due immobiliari, la Prima Luce Srl e la Effegi Gnm, create nel 2006-2007 con Giovanni Fiorillo e Domenico Scarano, 46 anni, suo cugino, con il quale poi ha litigato.
LA EFFEGI ha comprato due appartamenti a Pontecagnano. Mentre la Prima Luce ha investito a Capaccio, terreno e appartamenti vicino al mare in località Santa Venere. Gli investigatori però sono più interessati ai conti correnti. Scarano aveva acceso due conti presso lo Ior. Il primo personale e il secondo intestato come “Fondo Anziani”. In altre indagini, come il caso Montedison, i pm avevano scoperto presso lo Ior altri fondi di beneficenza e conti di monsignori che schermavano costruttori e politici.

il Fatto 29.6.13
L’intermediario
L’amante della bella vita già truffatore in Spagna
di m. l.


“Vogliono uccidere il giudice Roberti, a Capodichino”. Con questa denuncia anonima da un’utenza telefonica che voleva ‘bruciare’, indirizzando le indagini sui suoi complici, il 15 luglio del 2012 Giovanni Carenzio cerca di uscire dall’operazione che ora lo ha portato in carcere. Era lui che doveva mettere sull’aereo i 20 milioni di euro provenienti dalla massa più ampia di 41 milioni. Soldi che sarebbero tuttora giacenti su un conto dell’Ubs in Svizzera. Un personaggio notevole, non solo per il conto all’Ubs, Giovanni Carenzio, il broker arrestato ieri insieme a monsignor Nunzio Scarano. Carenzio fino a sette anni fa era molto amico di Clemente Mastella e del senatore Roberto Napoli, già capogruppo Udeur al Senato e poi membro dell’Agcom fino allo scorso anno. Muove i suoi primi passi nell’ambiente politico dietro a un maestro come Carmine Mensorio, il senatore ex Dc e poi Ccd che si lanciò dal traghetto lasciando una lettera in cui proclamava la sua innocenza per le accuse della Procura di Napoli che gli avevano consigliato la fuga.
Alla fine degli anni novanta Carenzio ripara nel più rassicurante e apparentemente accogliente terreno di Clemente Mastella. Nel momento d’oro di Mastella, all’inizio del nuovo millennio, era sempre vicino a lui. Quasi un membro di una sorta di direttorio occulto dell’Udeur. Partecipava addirittura alle riunioni del gruppo al Senato. Ricchissimo, aveva una stanza all’Hotel Minerva. Ed aveva parecchi amici illustri, tra cui Mauro Fabris, allora capogruppo Udeur.
Sposato con una nobildonna spagnola che chiamano la principessa, Dolores Molina de Aguilar, sbarca alle isole Canarie dove viene pizzicato a truffare numerosi nobili, amici della moglie: si era fatto affidare molti milioni di euro per investirli facendoli fruttare. Alla fine, nel 2011, non riesce a restituire i soldi e, come un piccolo Madoff scappa da Tenerife, dove millantava di avere rapporti anche con il Re di Spagna.
Proprietario di una bellissima casa alle Canarias, amava circolare per Roma intorno a Piazza San Lorenzo in Lucina. Spesso si accompagnava con nobili romani e si presentava come broker. Il napoletano col debole per la bella vita amava andare in barca e affittava aerei privati, talvolta. A Roma viaggiava solo con ammiraglie scure con conducente. E poi abiti, vestiti e cravatte sartoriali confezionati da Eddy Monetti. Dove diceva di andare insieme a Clemente Mastella per scegliere le cravatte e le camicie su misura. La rottura sarebbe intervenuta intorno al 2005 per una lite con Pellegrino Mastella, figlio di Clemente.

il Fatto 29.6.13
Lo 007
L’investigatore pugliese che “risparmia” i controlli
di v. p.


Giovanni Zito rappresenta per il trio che tenta di far rientrare soldi illeciti in Italia, un vero e proprio “ pass” per eludere i controlli. Alla frontiere Italia-Svizzera nessuno avrebbe mai pensato di far passare sotto un metal detector un agente dei servizi segreti italiani, per lo più se questi è in viaggio su un jet privato. Per questo, per il monsignor Nunzio Scarano e per il broker Giovanni Carenzio, Zito è l’uomo perfetto. Nato nel 1976, originario di Martina Franca, in provincia di Taranto, è un sottufficiale del-l’arma dei carabinieri che opera presso la sede distaccata dei servizi di informazione del governo italiano. Insomma lavora per l’Aisi. Nel trio è colui che in realtà concretamente organizza tutti i passaggi del colpo mancato. Per prima cosa contatta un uomo, tale Bruno (secondo i magistrati totalmente inconsapevole) che, lo avrebbe accompagnato nel viaggio fino a Locarno. Gli avrebbe addirittura chiesto di presentarsi armato. Lo stesso Zito trova alcune schede telefoniche da dare ai suoi soci, intestandole a soggetti ignari. E prenota il jet privato, facendo il viaggio fino in Svizzera. Nonostante l’accordo salti e di quel denaro non si abbia piuù traccia, Giovanni Zito vuole farsi pagare lo stesso il disturbo, oltre che i soldi già versati per le spese sostenute. A pagarlo però è monsignor Scarano che per prima cosa gli stacca un assegno da 400 mila euro. Denaro questo che verrà utilizzato dallo 007 per comprare una casa. Scarano poi gli consegna un secondo assegno, questa volta da 200 mila euro. Tuttavia lo stesso Scarano tenta di non fargli mai incassare quell’assegno, andando a denunciare la scomparsa del proprio libretto. Non solo. Il monsignor organizza anche una sorta di causa civile con un avvocato per far sembrare quei 400 mila euro iniziali un prestito, e non un compenso. A Giovanni Zito la procura di Roma contesta il reato di corruzione in concorso con gli atri due, ma anche quello di truffa. Infatti stando al capo di imputazione, “presentando apposite certificazioni mediche o comunque comunicando agli organi competenti un impedimento derivante da ragioni di salute - rappresentava falsamente all’amministrazione Aisi di essere impossibilitato a prestare attività nei giorni di servizio dal 16 al 18 luglio 2012,”. Per i magistrati romani questa è una truffa, anche perchè avrebbe indotto in errore l’amministrazione che gli erogava la retribuzione anche per giorni durante i quali si diceva malato. In realtà, lo 007 italiano si trovava a Locarno per mettere a segno un’operazione illecita ed aspettare per quattro giorni 20 milioni di euro, che non sono mai arrivati.

il Fatto 29.6.13
Arrestato Don Poggi: “Voleva ricattare il Papa”
Aveva denunciato l’esistenza di una organizzazione che reclutava giovani per sacerdoti pedofili
di Rita Di Giovacchino


Roma Voleva far esplodere il più grande scandalo sulla pedofilia in Vaticano, uno scandalo che avrebbe dovuto coinvolgere i piani alti della Curia, fino ad arrivare ai prelati vicini al Papa. Ma a finire in carcere, invece, è stato lui, monsignor Patrizio Poggi, il prete sospeso “a divinis” dopo la condanna definitiva a cinque anni di carcere per abuso su minori quando era parroco della chiesa San Filippo Neri a Primavalle.
A firmare l'ordine di arresto per calunnia aggravata è stato il gip Aldo Morgigni, dopo giornate convulse che avevano visto la Santa Sede prendere le distanze dalla denuncia dell'ex sacerdote per voce del cardinale vicario Agostino Vallini che aveva “espresso amarezza per informazioni sparate nel mucchio, senza distinguere chi ha sbagliato, chi deve pagare e chi è invece calunniato”. La risposta della procura di Roma non si è fatta attendere.
Le indagini del pm Maria Monteleone, affidate al nucleo investigativo l'8 marzo scorso, subito dopo la denuncia di don Poggi ai carabinieri del Noe, avevano portato alla luce un macchinoso “complotto” ordito dall'ex parroco per ottenere la riammissione al clero che Papa Ratzinger, nel perdonarlo, gli aveva promesso. Ma proprio in quei giorni Benedetto XVI si era dimesso e Poggi era passato all'attacco. Il piano, nelle intenzioni del prete, doveva fungere da “ricatto” nei confronti del futuro Papa, benché non si comprenda in che modo il dilagare di una scandalo sulla pedofilia potesse aiutarlo. Nelle otto pagine dell'ordinanza l'ex prete viene descritto come “una persona mossa da inestinguibile rancore verso chi, a suo parere, lo aveva incastrato”. Anche se nessuno dei vescovi e dei cardinali da lui denunciati per rapporti con la prostituzione minorile avesse avuto un ruolo nel processo a suo carico.
Ma i propositi di vendetta erano tali da fargli dire, in una telefonata alla madre: “Se avessi avuto i soldi li avrei fatti ammazzare, che loro neppure se ne accorgevano”. Don Poggi era in difficoltà economiche tanto da dover chiedere soldi a monsignor Lorusso, l'avvocato canonico che stava curando la sua “restitutio ad integrum” e a Don Marco Valentini, entrambi lo hanno accompagnato dai carabinieri del Noe.
“Di molti soldi certamente aveva bisogno, visto che ha continuato ad adescare giovani prostituti fino a momento dell'arresto”, ribatte il pm. Soldi che pretendeva anche dal Vaticano in virtù di quello scandalo “mondiale” da lui stesso costruito: “Faceva parte dei suoi piani al punto da contattare freneticamente ecclesiastici, magistrati e personale amministrativo cui forniva notizie... per causare uno scandalo ottenendo cosìla revisione della precedente condanna e la riammissione allo stato clericale".
Un progetto che lo stesso gip definisce ingenuo, anche se improntato a “impunità e scaltrezza”, anche coinvolgere stretti collaboratori del Sommo Pontefice manifesta “propositi estorsivi per ottenere la restituzione allo stato clericale”.
Per la procura l'indagine sui prelati accusati dall'ex sacerdote è ormai un capitolo chiuso, non quella sui testimoni che hanno avallato le sue menzogne, anche se non si può escludere che qualche giovane sia stato raggirato con minacce e bugie: “Con i ragazzi si spacciava per magistrato”. Non va dimenticato che ad accompagnarlo al Noe c'erano però anche due religiosi e che monsignor Lorusso, segretario del nunzio apostolico Adriano Bernardini, è un alto grado della Curia e potrebbe a breve diventare nunzio.
Non tutti i contorni di questa oscura vicenda sono chiari, dietro quella “lobby gay” che Papa Bergoglio ha denunciato per primo sembra essere esplose lotte di potere di cui Don Poggi è stato il primo sintomo.

Repubblica 29.6.13
I faccendieri in tonaca e gessato quell’intreccio di poteri forti dall’Ordine borbonico allo Ior
Il sodalizio frequentato da don Scarano e il broker Caranzio
di Alberto Statera


L’ANTICRISTO veste la tonaca e il gessato. L’ennesimo scandalo rivela quanto “la bestia che sale dal mare”, “l’uomo del peccato e della perdizione” sia diabolicamente incistato dentro i sacri palazzi. Accanto alla tonaca di monsignor Nunzio Scarano spunta il gessato diPaolo D’amico.
SCARANO, capo della contabilità dell’Amministrazione della Sede Apostolica ed ex funzionario della Deutsche Bank. D’amico, presidente della Confitarma, la confederazione aderente a Confindustria che rappresenta gli armatori. Intorno, il solito girone di faccendieri, broker, peccatori del settimo comandamento (non rubare) quando non del sesto (non commettere atti impuri), così oltraggiato da indurre Papa Francesco a lamentare la potenza della lobby gay in Vaticano.
Sullo sfondo, stavolta, non l’Opus Dei, non Comunione e Liberazione, né i Legionari di Cristo o i Focolarini, ma una new entry tra le cento sigle del mondo cattolico: il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, che si propone “la gratificazione della croce, la propagazione della fede cattolica e la difesa della Chiesa apostolica romana”. È qui che monsignor Scarano avrebbe incontrato il broker Giovanni Caranzio che, con lo 007 dell’Aisi Giovanni Maria Zito, doveva aiutarlo a riportare in Italia 20 milioni illegalmente esportati, con un blitz su un jet privato.
Gran Maestro dell’Ordine è nientemeno che Carlo di Borbone delle Due Sicilie, Duca di Castro, il quale è consorte di Camilla Crociani, figlia di quel Camillo Crociani defunto protagonista dello scandalo d’antan della Lockheed, e dell’ex attrice Edy Vessel. Madre e figlia sono azioniste della Vitrociset, partecipata anche da Finmeccanica, che si occupa di sistemi di difesa e gestisce la rete in ponte radio di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Oltre che dal monsignore salernitano arrestato ieri e dal suo compare, il Sacro Ordine è frequentato dal presidente della regione Campania Stefano Caldoro e dal re delle cravatte napoletano Maurizio Marinella. Ma con il grado di “Cavaliere di Gran Croce di merito con placca d’oro del S. M. O Costantiniano di San Giorgio”, troviamo tra gli adepti nientemeno che Silvio Berlusconi, iniziato il 14 marzo 2003. La presenza più interessante è tuttavia quella dell’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe, ex capo di Propaganda Fide, la congregazione vaticana proprietaria di un immenso patrimonio immobiliare, che per anni ha ceduto palazzi e appartamenti a prezzi di favore a un numero imprecisato di politici, tra i quali l’ex ministro Pietro Lunardi e l’ex sottosegretario all’Economia nel quarto Berlusconi, Nicola Cosentino, accusato di camorra.
“Monsignor 500”, come lo chiamano per la quantità di banconote da 500 euro che maneggiava, all’Apsa si occupava delle migliaia di immobili di pregio dell’Amministrazione e dei relativi depositi per centinaia di milioni. Mattoni e riciclaggio, riciclaggio e mattoni, le “correnti di corruzione” incrociate che albergano protette dall’Anticristo in Vaticano, come ha pubblicamente denunciato Papa Francesco, insieme al potere della lobby gay, che affluisce a sua volta. Una specie di coalizione anticristica di interessi e di peccati, come sostengono le comunità cristiane di base.
Fu dal telefono intercettato di Angelo Balducci, capo della cricca degli appalti e supervisore delle manutenzioni del patrimonio di Propagande Fide per conto di Sepe, che venne a galla il giro di prostituzione maschile nei sacri palazzi, di cui l’ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici usufruiva spesso. Tra le alte protezioni in Vaticano Balducci poteva contare anche su quella del Cerimoniere pontificio Francesco Camaldo, cui “prestò” 280 mila euro prelevati dal suo conto allo Ior, quando il cardinale si trovò nei guai per l’acquisto dell’ex villa di Sofia Loren sui Castelli Romani.
Papa Francesco ha dato segnali pubblici ripetuti di voler scoperchiare il pentolone luciferino. Ha costituito la commissione d’inchiesta sullo Ior e ha di fatto cassato i Gentiluomini di Sua Santità, il club più esclusivo del mondo che dà diritto ad avere un conto allo Ior e che nel corso dei decenni ha visto fregiarsi dell’onorificenza schiere di malfattori, dal piduista Umberto Ortolani al bancarottiere Roberto Calvi, fino, per l’appunto a Balducci, facendo della banca vaticana la sentina di tutte le nefandezze che hanno percorso questo paese nei decenni. Pochi giorni fa ha fatto traboccare il vaso papale l’arresto del prefetto e Gentiluomo di Sua Santità Francesco La Motta, ex vicecapo dell’Aisi (cui appartiene anche Giovanni Maria Zito, arrestato ieri con monsignor Scarano) con l’accusa di aver fatto sparire 10 milioni di euro del Fondo del Culto del ministero dell’Interno.
«San Pietro non aveva il conto in banca», ha detto il Papa. Tutti siamo peccatori, ma in Vaticano alligna una particolare specie di peccatori: «Questi — ha spiegato — sono corrotti; erano peccatori come tutti noi, ma hanno fatto un passo avanti, come se fossero proprio con-solidati nel peccato: non hanno bisogno di Dio, loro stessi si sentono Dio».
Ma alle forti e ripetute denunce pubbliche non sono seguiti finora atti papali risolutivi e questo in Curia sta provocando un misto, nell’ordine, di sconcerto e paura. «Fa paura persino l’umiltà di Papa Francesco — ci ha detto un alto prelato — e questo rischia di creagli inimicizie anche tra i molti che qui dentro implorano pulizia e un cambio deciso delle regole. Per cui urge mettere in atto un progetto globale di rinnovamento». Una voce voleva che il Papa stesse per annunciare novità,forse una grande riforma della governance vaticana già oggi, in occasione della celebrazione di San Pietro e Paolo. Ma la scoperta dei nuovi peccatori del settimo comandamento avrebbe consigliato ancora un rinvio.

l’Unità 29.6.13
La proprietà del Corriere della Sera
Nell’ultima battaglia di via Solferino non c’è il cavaliere buono
di Rinaldo Gianola


MENTRE DIEGO DELLA VALLE ANDAVA in barca con Enrico Mentana, la Fiat ha allungato le mani sul Corriere della Sera, raddoppiando la sua quota azionaria dal 10 a oltre il 20% nelle more di un aumento di capitale assai contrastato. La sorpresa è grande. Tutti si attendevano che Della Valle passasse dalle parole ai fatti e finalmente si decidesse a prendere il gruppo di Via Solferino. Invece sono stati i vecchi marpioni di Torino a muoversi per primi.
La novità azionaria che potrebbe mutare sostanzialmente gli equilibri di controllo arriva quasi nello stesso momento in cui viene annunciata la scomparsa di Giuseppe Rotelli, il maggior singolo azionista del Corriere della Sera col 16% prima dell’aumento di capitale. Questo imprenditore della sanità, diventato padrone anche del San Raffaele di don Verzè, aveva la passione per i giornali, da anni rastrellava le azioni del Corriere come se fossero reliquie con l’obiettivo di diventarne l’editore. La malattia gli ha impedito di raggiungere questo obiettivo. Rotelli, proprio perchè malato, aveva deciso di non sottoscrivere la sua quota di nuove azioni e di scendere al 4%: probabilmente i diritti venduti sul mercato dall’imprenditore milanese sono stati comprati dalla Fiat per raddoppiare la sua presenza in via Solferino. Business is business.
La decisione della Fiat di comprare sul mercato i diritti inoptati per sottoscrivere l’aumento di capitale, oltre la propria quota di competenza, è il segno che Torino non ha alcuna intenzione di recedere da quella influenza sul giornale che ormai esercita da oltre trent’anni, da quando dopo il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, l’avvocato bresciano Giovanni Bazoli favorì il passaggio del Corriere della Sera agli Agnelli. Per decenni il controllo della Fiat sull’ex gruppo dei Rizzoli è stato edulcorato da finanziarie che rappresentavano gli interessi della grande industria e della finanza privata, messi a insieme da Enrico Cuccia che con grande pazienza cercava allora di evitare che i padroni combinassero troppi guai. Prima Gemina, poi Hdp sono stati i salotti attraverso i quali Pirelli, Pesenti, le Generali, Bi Invest, Mediobanca, Montedison, i bresciani della Mittel e molti altri, accompagnavano gli Agnelli nel controllo del Corriere e di altre province industriali e finanziarie. Ma era chiaro chi comandava. C’era da scegliere il direttore del Corriere? L’avvocato Agnelli ne parlava con Cuccia qualche minuto ed era tutto fatto. Anche Cesare Romiti provò, o almeno tentò, per qualche tempo di fare l’editore, ma non fu un grande successo. Agnelli e Cuccia avevano un’altra mano.
Ora il Corriere e il gruppo Rcs vivono una delicata fase di passaggio, un pò come tutta l’editoria italiana, aggravata dai conti in rosso, dai debiti, dalle scelte sbagliate di manager benedetti da Montezemolo e dallo stesso Della Valle che in questa lotta di potere vorrebbe presentarsi come il cavaliere progressista e coraggioso che si oppone al giovane e inesperto Elkann e al tremendo Marchionne. La Fiat ha messo le mani avanti e si è presa il 20% del capitale, assieme ai sopravvissuti del patto di sindacato può tranquillamente comandare. Ma chissà se Della Valle, che in questa partita si è spesso esposto in prima persona, non ha rastrellato pure lui un po’ di diritti per sottoscrivere nuove azioni oltre al suo 8%? Sarebbe un segnale positivo se ci fosse un confronto di mercato, una battaglia vera a colpi di azioni. Sarebbe interessante se comparisse, tra le pieghe delle azioni non sottoscritte, un editore straniero, un tedesco, magari uno squalo come Murdoch.
Quello che succederà, probabilmente, è che Banca Intesa SanPaolo, di cui è presidente sempre il saggio Bazoli, si farà carico della quota di capitale non sottoscritto dai soci in fuga e cercherà di coabitare, pacificamente, con i torinesi che dopo aver soffiato Tevez al Milan magari sognano di portarsi a casa il Corriere per un piatto di lenticchie. Si racconta che in punto di morte l’avvocato Agnelli si fosse raccomandato a Bazoli di tutelare le sorti del Corriere. E forse sarà così, un’altra volta. Tutto il gruppo Rcs capitalizza in Borsa meno di 170 milioni di euro, mentre per sistemare il bilancio ci vogliono almeno i 400 milioni dell’aumento di capitale. Un imprenditore bravo, coraggioso lancerebbe un’offerta pubblica di acquisto, imporrebbe lo scioglimento del patto di sindacato e con pochi milioni di euro comanderebbe in via Solferino. Ma così sarebbe troppo semplice. Bisogna fare i conti con la realtà. La baraonda, i litigi, le diaspore che stanno avvenendo attorno al Corriere sono il segno di una enorme povertà culturale della classe imprenditoriale. Sono gli stessi protagonisti che, attraverso i Giavazzi gli Alesina e compagnia cantante , accusano la politica, la «casta», i sindacati, i lavoratori di privilegi e incapacità. Sono sempre loro che pensano di modernizzare l’Italia con l’incompreso Monti. Meritano di finire sotto Marchionne.

il Fatto 29.6.13
La Fiat si riprende il Corriere
Elkann rimpiazza gli azionisti contrari all’aumento di capitale e sale al 20% di RCS
di Marco Franchi


Milano Fiat prende il controllo di Rcs. Tra breve in edicola il Chrysler della Sera. Sarà stampato direttamente a Detroit”, cinguettava ieri sera su Twitter Vittorio Zucconi, penna della concorrente Repubblica. Il controllo della società che edita il Corriere della Sera passa infatti alla famiglia Agnelli che negli ultimi giorni è stata molto attiva sul mercato. La Fiat ha acquistato ulteriori diritti relativi alla ricapitalizzazione della Rizzoli che porteranno la sua quota post aumento al 20,135 per cento del nuovo capitale ordinario. Quasi il doppio della quota oggi detenuta, 10,5 per cento. A riversare le opzioni sul mercato sono stati i soci che non hanno intenzione di mettere mano al portafoglio e sottoscrivere l'aumento di capitale da 400 milioni: i Benetton, Merloni, le Generali e la Pandette dell’imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli, deceduto proprio ieri dopo oltre due anni di malattia che si è aggravata nelle ultime settimane. Dal Lingotto si ricorda in una nota che il gruppo torinese “si era già impegnato a sottoscrivere pro quota l'aumento di capitale del gruppo editoriale” e “ad acquistare ulteriori diritti di opzione offerti da altri partecipanti al patto di sindacato”. In questo modo, sarebbe salita fino al 13 per cento con un investimento complessivo di una cinquantina di milioni. Poi il blitz.
IERI FIAT HA ACQUISTATO altri 10.700.000 diritti di opzione che danno diritto alla sottoscrizione di 32.100.000 azioni ordinarie Rcs. Gli Agnelli saranno dunque il primo azionista di via Solferino, dove il primo socio uscente, Pandette, è al 16 per cento, seguito da Medio-banca (14,2). I riflettori sono però accesi su Diego Della Valle, che del gruppo editoriale ha l'8,7 per cento e che con il presidente di Fiat, John Elkann, si è più volte scontrato. La sua posizione sull'adesione all'aumento, fortemente criticato, resta incerta. Ieri il Sole 24 Ore, ha riportato indiscrezioni secondo cui mister Tod’s era indeciso se esercitare o meno i diritti. E in ogni caso l’imprenditore marchigiano difficilmente avrebbe sfruttato l’aumento per arrotondare la sua posizione attuale. La mossa di Torino complica la strategia seguita fin qui da Della Valle, un tira e molla, tra invettive nei confronti della gestione attuale del gruppo e aperture al dialogo dopo la ritrovata sintonia con alcuni degli altri grandi soci, a cominciare da Intesa Sanpaolo, che sembravano preludere a un rientro in grande stile di Tod’s tra i soci che contano in Rizzoli.
DELLA VALLE AVEVA anche dettato le sue condizioni, a cominciare dal cambio dei vertici del gruppo. Elkann, dal canto suo, ha rinnovato la sua fiducia all’amministratore delegato di Rcs Pietro Scott Jovane. E ieri ha fatto vedere che in Rizzoli comanda chi ci mette i soldi. A Torino ci si chiede cosa pensa del blitz Sergio Marchionne. Appena preso il timone della Fiat, il manager italocanadese definì come una sorta di dovere sociale il contributo a mantenere il Corriere della Sera immune dagli appetiti di parte. Strizzando l’occhio agli eredi di Gianni Agnelli che consideravano quella nel gruppo editoriale Rcs una partecipazione intoccabile del suo portafoglio. Oggi forse l’amministratore delegato del Lingotto, proiettato molto più su Detroit che su Torino, avrebbe già venduto le quote in Rcs da tempo. Ma via Solferino è una materia di Elkann, in questi anni attento alla carta almeno quanto alle automobili. Mentre Marchionne si prepara a pagare il conto della fusione con Chrysler, il presidente della Fiat sfoglia i suoi giornali. È stato anche chiamato di recente da Rupert Murdoch nel consiglio di amministrazione della nuova News Corp, “una società che ha fatto quello che noi abbiamo l’ambizione di fare: partiti come editori locali in Australia sono man mano diventati uno dei più grandi gruppi mondiali dei media”, ha detto lo stesso Elkann all’ultima assemblea della cassaforte di famiglia Exor. Parole risuonate nelle stanze di via Solferino, soprattutto in quella del direttore Ferruccio de Bortoli che con l’avanzata torinese potrebbe lasciare il posto al collega della Stampa, Ma-rio Calabresi, magari accontentandosi di diventare presidente della società editrice. Dal punto di vista industriale, si parla anche di un'operazione a più largo raggio che parta con la fusione fra Publikompass (concessionaria di pubblicità di proprietà Fiat) e Rcs Pubblicità e arrivi in futuro all’integrazione del Corriere della Sera e de La Stampa. Seguendo proprio il modello Murdoch che in questi giorni, ha completato lo spezzatino del suo impero: da una parte tutta la carta stampata e in un'altra scatola le tv e il cinema.

Corriere 29.6.13
Mezzo miliardo al mese Così Cina, Russia e Iran pagano la guerra di Assad
Una marea di petrolio per tenere in vita il regime
di Davide Frattini


GERUSALEMME — I camioncini carichi di materassi e pentole attraversano la frontiera. I siriani fuggono dalla guerra anche solo per qualche settimana, si ammassano nelle stanze dei parenti che vivono dall’altra parte in Libano. I tir carichi di container seguono il percorso inverso, dal porto di Beirut risalgono verso i valichi, scendono nella valle della Bekaa, passano la dogana e arrivano a Damasco.
Negli oltre due anni di guerra i rifornimenti non hanno mai smesso di raggiungere la capitale. Le merci — racconta un uomo d’affari locale — vengono scaricate dalle navi con i documenti di consegna che portano i nomi di commercianti libanesi, come se il materiale dovesse fermarsi lì. Invece continua il suo viaggio e va a sostenere il regime sotto assedio. Che paga ancora i suoi conti, perché gli alleati internazionali di Bashar Assad gli permettono di sopravvivere all’embargo economico imposto dagli Stati Uniti e dall’Unione europea.
Kadri Jamil, viceministro siriano dell’Economia, calcola per il quotidiano Financial Times che ogni mese l’Iran, la Russia e la Cina approvvigionano il Paese con petrolio per 500 milioni di dollari (quasi 385 milioni di euro), concedono crediti e agevolano le transazioni finanziarie. L’economia è diventata così dipendente dalle tre nazioni alleate che la Siria utilizza come valute negli scambi il riyal iraniano, i rubli russi e il renminbi cinese. «Abbiamo rimediato all’errore commesso prima della crisi e siamo usciti dal circolo dell’euro e del dollaro. La sterlina siriana è diventata troppo debole, abbiamo già un piano per rafforzarla nelle prossime settimane», spiega il viceministro.
Ammette che la situazione è «molto difficile e complicata», anche perché i ribelli controllano le province dove si trovano i giacimenti di petrolio. Accusa «i nemici di condurre una guerra finanziaria oltre che militare». Jamil ha studiato a Mosca ed è coinvolto nelle discussioni con il Cremlino: «I mercantili con la bandiera russa scaricano prodotti nei nostri porti. Vorrei vedere chi ha il coraggio di attaccarle», proclama al quotidiano britannico. Le zone sulla costa sono rimaste sotto il dominio del regime.
Il clan degli Assad ha resistito anche grazie al sostegno di imprenditori locali, non solo alauiti come la famiglia al potere. Khaled Mahjoub è un sunnita che tra gli anni Ottanta e Novanta lavorava con le piccole fabbriche della provincia italiana. Adesso investe in costruzioni eco-sostenibili e si è dato la missione di riavvicinare la Siria all’Occidente. «Il sistema funziona ancora e va salvato», commenta.
Bashar Assad, succeduto al padre Hafez nel 2000, ha favorito la nascita di una nuova classe, uomini d’affari arricchiti dalle privatizzazioni. Come il cugino (da parte di madre) Rami Makhlouf, che dopo i primi mesi della rivolta ha dovuto lasciare le numerose partecipazioni (una delle più importanti nella telefonia mobile) perché era diventato il bersaglio principale degli slogan creati dai manifestanti e il regime ancora cercava di calmare le proteste.
Makhlouf aveva promesso di devolvere i suoi profitti in beneficenza: non vivrebbe più a Damasco, forse si è rifugiato a Dubai. Dove risiederebbero anche la madre e la sorella di Bashar e da dove la moglie Asma si faceva spedire sotto falso nome divani e lampadari di lusso. Fino a febbraio 2012, quando il conflitto che ha fatto centomila morti andava avanti già da un anno.

Corriere 29.6.13
Sollevazione contro gli islamici. Scontri e morti in tutto l’Egitto
Tre vittime ad Alessandria e Port Said, tra cui un americano
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — Per le strade non ci sono più, «non ancora» qualcuno dice, i carri armati color sabbia come nei giorni della Rivoluzione, oltre due anni fa. E neppure, non ancora, fiumi immensi di gente che convergono sui punti caldi a partire da piazza Tahrir, presidiata ieri sera da qualche migliaio di persone che, mostrando cartellini rossi, gridavano «Fuori» al raìs Mohammed Morsi. Più numerosi i sostenitori del presidente islamico nel quartiere orientale di Nasr City, lontani dagli oppositori, nessuno scontro. Ad Alessandria, la seconda città del Paese, non è andata così: i due gruppi si sono affrontati, con un’ottantina di feriti e almeno due morti, uno dei quali avrebbe nazionalità americana. Nella stessa città e in un’altra più a sud le sedi dei Fratelli Musulmani sono state incendiate, nonostante la protezione dell’esercito e con dinamiche simili, in piccolo, a quanto avvenne due anni fa alla sede del partito di Mubarak nel centro del Cairo. Una persona è morta in un’esplosione a Port Said. Qualche incidente minore anche in altre città, nelle proteste contro Morsi e gli Stati Uniti, ritenuti «difensori» del presidente eletto un anno fa.
Una brutta giornata ma un bilancio tutto sommato contenuto per questo Paese dove spesso la rabbia si trasforma in violenza, dove i martiri della Rivoluzione avevano sfiorato l’impressionante cifra di 900. Per ora il Paese più importante del Medio Oriente sembra essersi trasformato in un’immensa scacchiera, dove gli avversari schierano i pezzi e giocano le prime mosse come prova generale della Grande Partita di domani. È infatti domenica che tutti attendono: nel primo anniversario della nomina di Morsi il neonato movimento Tamarrod, la Ribellione, vuole portare in tutte le piazze d’Egitto milioni di persone per dirgli di andarsene. La petizione diffusa su Internet e a mano fino nei villaggi ha raccolto (loro dicono) 20 milioni di firme. L’obiettivo, in teoria, è chiaro: liberarsi di Morsi e dei Fratelli Musulmani di cui il raìs è emanazione, creare un governo tecnico di transizione, stilare una nuova Costituzione e poi, finalmente, indire nuove elezioni.
Uno dei leader del Fronte nazionale di salvezza, l’ex capo della Lega Araba Amr Moussa, ieri ha ribadito che il voto anticipato è inevitabile. Lo stesso hanno detto altri capi dell’opposizione politica, che solo di nome è però unita. E tutti a partire dal premio Nobel Mohammad ElBaradei hanno condannato ogni violenza, pur ripetendo che così non si può andare avanti.
Morsi, per cui nel 2012 avevano votato anche molti liberal pur di non eleggere un uomo di Mubarak, è sempre più in difficoltà. La crisi economica ha assunto dimensioni enormi, con code di chilometri ai distributori e frequenti blackout per l’impossibilità dello Stato a importare carburanti. Le riserve valutarie sono crollate, il prestito tanto atteso del Fmi ancora bloccato, la disoccupazione è alle stelle. Politicamente, ha infilato fin dall’inizio una serie di errori che gli hanno inimicato prima i ceti urbani e i liberal, poi perfino gli islamici radicali. Mercoledì il raìs ha ammesso «alcuni sbagli» ma ha aggiunto di aver ereditato un Paese in preda alla corruzione e di aver dovuto combattere i «nemici dell’Islam e dell’Egitto», in patria e fuori. Parole che non hanno convinto nessuno, che certo non hanno disteso il clima. Al punto che Al Azhar, massima autorità del mondo sunnita, ha messo in guardia da una possibile «guerra civile». Mentre i generali hanno rotto domenica scorsa un lungo silenzio per dire che non permetteranno che l’Egitto si infili in «un tunnel oscuro».
Cosa significa? Difficile dirlo, qui nessuno può e vuole fare previsioni. Dipenderà molto da domani, dal fatto che il bagno di sangue che molti temono diventi reale, da cosa farà l’esercito che non pare intenzionato a «dimettere» Morsi come fece invece con Mubarak né vorrebbe tornare a reggere il potere, come fece per oltre un anno e come parte dell’opposizione più o meno esplicitamente vorrebbe. Ma pure se la Grande Protesta sarà del tutto pacifica, cosa che si augurano anche gli Usa, l’Europa e il mondo intero, non sarà facile ricomporre l’Egitto e farlo proseguire sulla via del pluralismo, della democrazia e del benessere che la Rivoluzione aveva fatto sognare. La spaccatura sembra insanabile, nessuna forza da sola (non certo il Tamarrod) è in grado di governare, e la possibilità di un accordo tra le parti non è prevedibile. La gente, che abbia o no firmato la petizione anti Morsi, in fondo lo sa. E per il momento corre nei negozi a comprare quello che può, e finché può, per il mese sacro del Ramadan ormai imminente.

l’Unità 29.6.13
Kant? Un incapace per i nostri atenei
Giovanni Puglisi: perché alle nostre università serve un cambio di rotta
L’intervista Il rettore della Kore e dello Iulm, nonché presidente dell’Unesco Italia, traccia un bilancio amaro: «La conoscenza ormai è stata ridotta a un quiz»
intervista di Salvo Fallica


«SE EMANUELE KANT TORNASSE A VIVERE E SI PRESENTASSE AD UN CONCORSO PUBBLICO avendo scritto “solo” un capolavoro quale La critica della Ragion Pura, con le attuali regole di valutazione del sistema universitario italiano, non potrebbe vincerlo. Non basta una sola pubblicazione. Se Einstein si presentasse con il celebre scritto sulla teoria della Relatività ristretta, non lo farebbero nemmeno partecipare. È un testo “troppo breve”. Sembra assurdo ma è la triste realtà di questo Paese».
Sorride con amarezza, Giovanni Puglisi, rettore dell’università Kore di Enna e dello Iulm, presidente dell’Unesco Italia, ed aggiunge: «Può sembrare solo un paradosso provocatorio, eppure è una questione reale. Se oggi Einstein si presentasse con quel testo, che ha cambiato la visione del mondo, non entrerebbe nella griglia delle valutazioni delle mediane, un sistema burocratico, quantitativo ed assurdo. Verrebbe superato da un ricercatore che ha scritto molti testi ed ha avuto parecchie citazioni. È un sistema talmente assurdo che lo stesso ministero della Pubblica istruzione, successivamente alla sua introduzione, ha sottolineato che non necessariamente bisogna tenerne conto in maniera rigorosa. Sa quale sarà il risultato? Un ginepraio di ricorsi giudiziari, alla fine saranno i giudici a doversi esprimere sulla selezione dei docenti».
Puglisi esprime con nettezza e chiarezza le sue critiche in questo dialogo con l’Unità, e mette in guardia sul rischio della deriva che incombe sul sistema del sapere italiano, scuola ed università. Ma una speranza la coglie nella visione culturale e nelle prime decisioni ed azioni del nuovo ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza. «Ha le idee chiare ed è partita bene. Condivido la sua impostazione culturale sulla valorizzazione del merito e sulla centralità degli studenti nel processo formativo. Ed ha anche la capacità del dialogo costruttivo. Vi è però un limite...» Quale?
«È un limite che non dipende dal ministro Carrozza ma dal programma del governo Letta. In nessun passaggio di quel programma vi è un accenno alla riforma universitaria. Purtroppo Carrozza è costretta a muoversi all’interno di una griglia legislativa che è ancora quella della Gelmini. Potrà apportare modifiche innovative, fare riforme specifiche ma per cambiare profondamente occorre mutare quell’impianto strutturale».
Vi sono già atti concreti, come li giudica? «L’annuncio delle assunzioni dei ricercatori è senz’altro positivo e in controtendenza rispetto ai governi precedenti, ma la vera novità è il fatto di ottenere l’innalzamento dal 20 al 50, in termini percentuali, del tetto necessario per poter dare corso al turnover quando i docenti vanno in pensione. È un risultato di estrema importanza. Le racconto un aneddoto. L’altro giorno, durante l'incontro dei rettori con il ministro dell'Istruzione, un collega ha detto: “Finalmente Saccomanni ha messo la firma sul decreto”. Il ministro ha chiosato ironicamente: “Prima la firma l’ha messa Carrozza”, rivendicando giustamente, in un quadro di armonico confronto, l’autonomia del suo ruolo, che invece è apparso subalterno nei governi precedenti. Non solo la Gelmini si è fatta dettare la linea da Tremonti, ma anche Profumo ha seguito la linea Monti-Grilli. Vorrei aggiungere che in quei casi vi è stato anche un prevalere del potere della burocrazia del ministero dell’Economia rispetto al potere politico. Ha fatto bene il ministro Saccomanni a cambiare i vertici, non ne metto in dubbio la loro bravura, ma in democrazia vanno fatte delle rotazioni, è fisiologico oltre che razionale. Chi arriva ha uno spirito nuovo, guarda le cose in maniera diversa».
Quali sono i limiti dell’università italiana? «Purtroppo negli ultimi 20 anni vi è stato un progressivo peggioramento, una moltiplicazione di ruoli che ha avuto un effetto finanziario disastroso. In nome dell’autonomia sono avvenuti fenomeni di dequalificazione, rettori e presidi per ingraziarsi l'elettorato hanno aggregato, a volte, persone diciamo di non alto profilo. Spesso i concorsi sono avvenuti in coincidenza di elezioni di rettori e presidi. Questo è accaduto finché la vacca, munta eccessivamente, non si è spenta. In questo sistema impazzito, si è andata ad incardinare la riforma Gelmini con le sue forme di reclutamento, che oggettivamente le debbo dire, qualche novità l’hanno apportata, ma le novità si stanno dimostrando delle negatività. Abbiamo già citato il paradosso di Einstein».
Quali sono gli altri punti deboli?
«Parliamo delle abilitazioni. Ebbene qui la pseudo novità consiste nel fatto che occorrono 4 voti su cinque, invece di tre su cinque. Sa cosa vuol dire? Basta che uno dei membri della commissione ne convince un altro e la minoranza può ricattare la maggioranza. E per evitare la paralisi, si potranno verificare molti casi di abilitazioni dei docenti con l'unanimità dei voti. Ciò vuol dire che i commissari dovranno spesso trovare una mediazione per evitare l'impasse. Per non parlare delle abilitazioni prima delle sedi, che potranno portare ad abilitati di serie A con le sedi, altri senza. Conoscendo l'Italia non è difficile immaginare che resteranno fuori i migliori».
Rettore, il metodo quantitativo dall'università è giunto anche alle scuole medie inferiori e superiori. Che ne pensa della cultura dei quiz?
«Il metodo quantitativo è semplicemente una boiata. La cultura dei quiz è ancora peggio, è una sottocultura. La dobbiamo smettere di valutare la storia, la letteratura, la filosofia con gli stessi metodi dell’ingegneria, della clinica e della matematica. Così si finisce per uccidere l’area umanistica. Alcuni insistono sulla necessità di regole. Ma la regola non vuol dire omologazione. È servilismo culturale ed esterofilo attingere a modelli di quiz pensati per altre realtà e calarle in contesti diversi. Senza neanche delle opportune modifiche».
Sui media sono state pubblicate notizie sulle domande dei quiz del concorsone per i docenti della scuola. Vi erano anche domande sulla cucina e sulla moda. Dunque un insegnante che non sa queste nozioni non può insegnare?
«Vede, la moda e la cucina sono cose che hanno una loro valenza culturale, ma non necessariamente debbono far parte del bagaglio di conoscenze di un insegnante di lettere. Ma ancor più grave è la medesima concezione dei quiz, oppure i testi brevi di risposta agli scritti, magari ispirati da una visione didattico-scolastica contraria all’originalità interpretativa, all’approfondimento intelligente. In questo modo non si selezionano i migliori, ma quelli che hanno alcune nozioni in più, oppure sono semplicemente più fortunati. Siamo dinanzi a una crisi storica del modello di valutazione, ormai simile ad una forma di sorteggio. Con questi metodi non si coglie la qualità, la preparazione autentica, la capacità di scrittura e di analisi critica. Il metodo quantitativo porta la scuola italiana ad essere più debole rispetto agli altri grandi Paesi. Si uccide la peculiarità della nostra storia».
Professore, in Germania dove convivono armonicamente cultura umanistica e scientifica, in parecchie scuole elementari studiano anche la filosofia...
«In Italia invece ai professori nei concorsi pubblici chiedono qualcosa sul taglio e cucito. Magari alcuni burocrati hanno sbagliato la taglia dei vestiti, dimenticando le taglie grosse. Fuor di metafora, parlo di burocrati, perché non penso che questa cultura dei quiz sia il frutto della Minerva dell’ex ministro Profumo. Ho troppo rispetto per la sua intelligenza, credo che sia stato mal consigliato da qualche burocrate o esperto».
Vi è qualche possibilità di uscire da questo impasse?
«Come dicevo prima ho fiducia intellettuale nelle qualità del nuovo ministro Carrozza, però avrà molte difficoltà ad intervenire in maniera efficace su questi aspetti. L’omologazione verso la cultura dei quiz, il metodo quantitativo applicato a tutto ed in maniera indistinta è ormai una moda. Vi è una deriva pericolosa, se non la si ferma ed inverte avremo un ulteriore decadimento del sistema del sapere ed anche una opinione pubblica peggiore. Serve un nuovo metodo formativo e valutativo che recuperi i valori della cultura e li coniughi con le innovazioni, lo spirito scientifico e tecnologico. Ma il tutto deve avvenire in maniera critica, sì alla multidisciplinarità, non alla distruzione delle specificità e delle differenze».
Il dibattito è aperto...

Corriere 29.6.13
Se l'ateismo diventa come una religione
Anche gli atei diventano una Chiesa Stessi diritti delle altre confessioni?
La Cassazione respinge il ricorso del governo che aveva escluso intese
di Francesco Margiotta Broglio


Anche gli atei diventano come una religione. Con gli stessi diritti di altre confessioni? La Cassazione respinge il ricorso di Palazzo Chigi che escludeva intese. L'Uaar, l'Unione delle associazioni di non credenti, aveva chiesto il riconoscimento del governo.

Anche le associazione atee e agnostiche devono ricevere dal governo la stessa tutela e gli stessi diritti riconosciuti dall'articolo 8 della Costituzione alle confessioni diverse da quella cattolica, mettendo al bando la discriminazione tra le fedi acattoliche. Lo afferma la Cassazione che ha respinto il ricorso con il quale Palazzo Chigi voleva riservare al suo «insindacabile atto politico», sottraendolo al controllo giurisdizionale, la decisione di escludere «l'ateismo organizzato» dal diritto alle «intese» con lo Stato, come quelle raggiunte dalla Chiesa valdese o dall'Unione delle comunità ebraiche. S i apre in Italia la questione dello «status» dell'ateismo organizzato. Le sezioni unite civili della Cassazione, con la sentenza depositata il 28 giugno, hanno rigettato il ricorso della Presidenza del Consiglio contro la sentenza del Consiglio di Stato del 18 novembre 2012 che, a sua volta, riformava una precedente decisione del Tar Lazio. Il tribunale amministrativo aveva dichiarato inammissibile il ricorso dell'Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti) contro la decisione della Presidenza del Consiglio di non aprire trattative con essa ai fini della stipulazione di una «intesa» come quelle previste dalla Costituzione (art.8) per regolare i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato.
È vero che si tratta di orientamenti di natura essenzialmente processuale e che riguardano, comunque, il solo obbligo di iniziare tali trattative con i culti richiedenti, ma non è affatto da escludere che si finisca, prima o poi, a riconoscere l'Uaar come entità avente gli stessi diritti — ai fini di una «intesa» con lo Stato, preordinata alla approvazione di una legge — delle confessioni diverse dalla cattolica.
In realtà la Cassazione si limita a confermare la tesi del Consiglio di Stato che ha negato la natura di «atto politico» (non sindacabile in sede giurisdizionale) al diniego governativo, confortato dall'Avvocatura di Stato, di accogliere le richieste di intesa (1996 e 2003), riconoscendone quella di atto di alta amministrazione. Spetterà ora nuovamente al Tar Lazio stabilire se sia legittima la qualificazione governativa dell'Uaar come organizzazione «non confessionale» e, quindi, non abilitata ad iniziare una trattativa — che, comunque, potrebbe sempre concludersi negativamente — e se la professione dell'ateismo possa essere regolata in modo analogo a quella di una credenza religiosa, sia pure «in negativo», diversamente dall'opinione del consiglio dei Ministri (2003) che abilita alla trattativa solo quelle organizzazioni definibili «un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra più persone». E, ora, la decisione del Tar potrà ulteriormente essere impugnata, dal soccombente, di fronte al Consiglio di Stato, mentre, e preliminarmente, la Presidenza del Consiglio potrebbe proporre conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte Costituzionale.
Non è certo questa la sede per entrare nella complessa questione della qualificazione (anche autoreferenziante?) e della identità dei soggetti abilitati a negoziare con i governi intese ai sensi delle norme costituzionali, o dei profili giuridici delle determinazioni governative di non giungere, dopo una trattativa con le rappresentanze confessionali, alla stipulazione della intesa, ma non si possono trascurare alcune esperienze di Paesi europei e i recenti sviluppi dell'ordinamento giuridico dell'Unione Europea. Vanno richiamate, sotto il primo profilo, le esperienze della Repubblica federale tedesca, dove alcuni lander hanno legiferato sulla base di intese con le Federazioni ateistiche, dei Paesi Bassi che riconoscono il movimento umanista (e in quale caso lo finanziano alla pari di quelli religiosi) e del Belgio che riconosce il «Consiglio laico centrale» e assicura agli assistenti spirituali «filosofici» gli stipendi e pensioni garantiti al clero dei vari culti riconosciuti. Ma è il secondo profilo ad avere maggiore rilievo giuridico e politico: l'art.17 del Trattato sul funzionamento della Unione Europea (Lisbona) parifica le «organizzazioni filosofiche e non confessionali» alle «chiese, associazioni o comunità religiose», riconoscendo di entrambe «l'identità e il contributo specifico» e impegnando l'Unione a mantenere, con le une e le altre, il medesimo «dialogo aperto, trasparente e regolare». Una disposizione che, combinata con la Carta dei diritti fondamentali della Ue e con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (diritti tutti giustiziabili alle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo), assicura alle organizzazioni degli atei e agnostici uno status e una dignità che mettono credenti e non credenti allo stesso livello di diritti anche collettivi e di garanzia contro ogni tipo di discriminazione, anche con riferimento ad eventuali regimi di «privilegio». E che si deve, paradossalmente, alle forti pressioni, in occasione del Trattato di Amsterdam, delle Chiese cristiane europee. E pensare che, nel lontano 1948 il Tribunale di Ferrara affidò la prole ad una madre (si disse... chiacchierata) solo perché il genitore era un «ateo perfetto e bestemmiatore» (Walter Bigiavi ci scrisse un libro gustoso e rigoroso). Ma che anche autori americani hanno parlato di «ateismo evangelico» (Corriere 7 dic. 2007), che Enzo Bianchi rivaluta la «spiritualità degli atei» e che Camus si riferiva ai «Santi senza Dio».
MicroMega ha dedicato il suo ultimo fascicolo (5/2013) ai vari aspetti dell'ateismo con contributi di particolare interesse e ha scritto in copertina «Ateo è bello!». Certo se la Cassazione avesse aperto la porta, anche in Italia, alla parificazione giuridica ateismo-religione, essere atei diventerebbe «bellissimo». Comunque è tutto già pronto: una Dea, la «Ragione», una festa nazionale, il XX settembre, un Santo, Giordano Bruno da Nola, da festeggiare il 17 febbraio. Piazza Campo de' fiori attende!

Corriere 29.6.13
«Ma ora vogliamo poter celebrare matrimoni»


Prossimi passi? «Pari diritti, pari doveri». Che significa, per dirne due, celebrare matrimoni e fare assistenza negli ospedali. «Adesso lo facciamo a discrezione del singolo centro. Ma poiché non tutti i pazienti sono credenti, non si capisce perché non possano avere adeguato sostegno». Raffaele Carcano è ben lieto della sentenza della Cassazione di ieri. Parla a nome dell'Uaar, l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti che chiede di poter avviare trattative e incontri con il governo proprio come ogni altra confessione religiosa. «Stime di fonti indipendenti dicono che in Italia i non credenti sono 10 milioni, un miliardo nel mondo. Gli iscritti all'Uaar sono quattromila: il ministero del Lavoro ci ha riconosciuti come associazione di promozione sociale». Gli enti con le stesse caratteristiche sono una trentina in Europa, un centinaio nel mondo. Il referente alla Ue è la Federazione umanista europea, a livello mondiale è l'International Humanist and Ethical Union.

Corriere 29.6.13
Fecondazione in vitro con tre genitori per prevenire malattie
Tecnica pronta, il Parlamento dovrà regolarla
di Fabio Cavalera


LONDRA — Un bambino, tre genitori biologici. Per quanto la sintesi giornalistica rischi di essere esagerata ciò che ha annunciato Dame Sally Davies, la «chief medical officer» del governo britannico, è un passo decisivo verso il pieno controllo e la manipolazione a fini di guarigione dell'eredità genetica.
La scienza è pronta, ha annunciato la ricercatrice che occupa la posizione di consigliere-capo di Downing Street per le questioni mediche, adesso tocca al parlamento dare un quadro giuridico alla sperimentazione condotta dall'università di Newcastle. E ciò avverrà entro un anno e mezzo, ha promesso Dame Sally Davies, facendo del Regno Unito il Paese che taglia per primo il traguardo nella produzione di una nuova, quanto controversa, tecnica di fecondazione artificiale.
Lo scopo di questa metodologia è di eliminare i difetti mitocondriali e di creare in provetta una cellula sana. In sostanza, se il Dna di origine materna presenta alterazioni che prefigurano malattie cardiache o epatiche o distrofia muscolare è possibile intervenire con un «pezzetto» di Dna estratto da un donatore sano così da produrre un embrione al riparo da lacune e malformazioni strutturali.
Fecondazione in tre passaggi: dalla cellula materna con il mitocondrio ammalato si estrae il nucleo sano e lo si impianta in provetta nella cellula del donatore. Questa cellula, a sua volta e sempre in provetta, viene fecondata dallo sperma del padre e infine impiantata nell'utero materno. Una vita che nasce «in vitro» con il concorso di tre patrimoni genetici, i due genitori naturali e il terzo genitore acquisito ma rigorosamente anonimo «e non tracciabile» per prevenire la malattia del bambino. «Mi pare più che corretto e comprensibile che si introduca un trattamento del genere. È un modo di salvare migliaia di vite», ha spiegato Dame Sally Davies, lei stessa ricercatrice e segnalata dalla Bbc come una delle sei donne più influenti del Regno Unito. A supporto della sua posizione la dottoressa ha citato una consultazione effettuata nei mesi scorsi dall'autorità di vigilanza sulle questioni di fecondazione, la Human Fertilisation and Embriology Authority, che ha ottenuto «generale approvazione» da parte delle persone interpellate sulla tecnica messa a punto a Newcastle, pur nel riconoscimento delle ricadute etiche e morali. Sono state sviluppate due diverse procedure per intervenire a correzione dei patrimoni genetici segnati dalla malattia e in entrambi i casi il contributo del Dna del donatore non supera lo 0,2% dell'intero tesoro cellulare. «È una notizia eccellente. Offre a chi è portatrice di difetti mitocondriali la possibilità di una gravidanza libera dal pericolo di future gravi patologie», ha certificato Doug Turnbull che ha diretto il team di Newcastle.
Tema delicato. Il dibattito è aperto. La domande di fondo sono: si superano i confini posti fino a oggi dalla bioetica? Ci sono rischi di alterazioni secondarie e non desiderate? Le modificazioni embrionali quali ricadute avranno nelle generazioni future? Ha risposto Dame Sally Davies: «Ora si tratta di definirne la regolamentazione, di allargare la consultazione e di portarla al Parlamento dove, spero in fretta, potrà essere approvata. Se tutto andrà bene saremo i primi a garantire questa tecnica sicura di fecondazione e di riparazione di geni ammalati. Sinceramente vi sono problematiche estremamente sensibili e non dobbiamo aggirarle ma l'obiettivo è salvare la vita del neonato e se si mettono paletti giuridici chiari è un grande successo per la scienza e per le famiglie che desiderano figli sani». Figli di tre genitori biologici.

Corriere 29.6.13
Il desiderio e l'ascesi principi del mondo secondo il dio Siva
Negli aforismi sacri ed eterni del tantrismo una energia che distrugge e ricrea l'universo

di Giorgio Montefoschi

Secondo quello che è l'insegnamento centrale del Tantrismo, scrive Raffaele Torella nella bella ed esaustiva prefazione agli Siva sutra, Gli aforismi di Siva (Adelphi) «il progresso spirituale non è più visto come un cammino di negazione e di rinuncia, ma come una coltivazione e intensificazione — fino al parossismo e alla trasgressione — di tutte le linee di energia che animano l'esistenza ordinaria e, in primo luogo, la persona individuale, anche nella sua fisicità e nelle sue pulsazioni».
Siva — racconta ancora Torella — è un dio che viene da lontano, ama i luoghi inaccessibili, e la notte. Egli è pura energia. Una energia talmente dirompente che, dilagando, può anche distruggere. Siva, infatti, è Creatore e Distruttore: insieme. Così come — in una unione degli opposti inestricabile — è asceta e animato da un inestinguibile desiderio sessuale, rappresentato dal lingam, il fallo eretto. L'ascesi (tapas) di Siva, dalla quale mai vorrebbe essere distolto, può durare anche migliaia di anni, nella solitudine più completa. Parvati, la figlia dell'Himalaya, solo con grandi sforzi e tentazioni riesce a distoglierlo e a unirsi a lui in matrimonio. Allora, la potenza sessuale che il dio manifesta è tale che può travolgere l'universo, e far sì che l'universo sia solo kama, desiderio. Al punto che, con il suo terzo occhio, Siva (per tornare all'austera ascesi di cui sente la nostalgia) incenerisce il desiderio; oscurando in tal modo il mondo. Sarà Parvati, di nuovo — secondo una leggenda trasferita in una quantità di leggende che le assomigliano, e valgono per altri esseri mitologici e umani — a resuscitare la voglia di congiungersi.
L'adepto, colui che insegue Siva, vivendo in se stesso questa contrapposizione degli estremi — l'ascesi più pura, il desiderio più travolgente e violento — si trasformerà in Siva. Si identificherà in Siva. E lo adorerà: solo in quel momento. Ma come, l'adepto, può arrivare a questa identificazione? Gli Agama, le scritture divine, dicono: con il rito, la conoscenza, lo yoga e la condotta. Rito e conoscenza, vale a dire: fare e pensare, si rispecchiano, e continuamente si rincorrono. Una parte non può fare a meno dell'altra. Tuttavia — e questa è davvero la sublimità dell'induismo, mai capita quanto sarebbe necessario dalla mentalità occidentale — l'agire, il fare, è più importante del pensare. Esistono dei livelli dell'essere ai quali nessun tipo di pensiero, anche il più spericolato, ha accesso. A quei livelli, a quella sostanza, si accede solamente attraverso la prassi. E la prassi è il rito.
Si narra che Gli aforismi di Siva furono trovati incisi in una roccia del Kashmir (che ancora viene mostrata al visitatore) da un asceta di nome Vasugupta, vissuto fra la fine dell'VIII e il principio del IX secolo dopo Cristo. Negli Aforismi — che risulterebbero impenetrabili senza il commento di Ksemaraja, un altro saggio asceta vissuto un paio di secoli più tardi in quella stessa regione fiorente di scuole e templi in cui convenivano yogi da tutta l'India — è indicato qual è il tracciato necessario a identificarsi con la Realtà Suprema, e cioè Siva.
Dunque. La Realtà Suprema non è altro che coscienza. Però, non una coscienza ferma. È una coscienza (spanda) che ha in se stessa una inesauribile vibrazione. Questa vibrazione si propaga al mondo: all'apparire. Che è illusione, sogno, dal momento che non esiste altro che come coscienza. Con un procedimento che ricorda molto quello che spiegano i testi cabbalisti, Siva, il Dio, si contrae, si macchia, e in quel modo conosce se stesso riflettendosi nell'universo. L'adepto che vuole diventare Siva, e percorre l'itinerario che consiste nel rito, nella conoscenza, nello yoga e nella condotta, sentirà a un tratto dischiudere se stesso. Sentirà che i suoi limiti bruciano e si annullano come il fuoco. E lui, liberandosi dalla dolorosa trasmigrazione, diventa coscienza pura.
La letteratura religiosa dell'India antica è principalmente una letteratura «di commento». Anche la parola, dicono i saggi indiani con grandissima parte di verità, è un limite. È uno dei limiti che meglio descrivono la nostra prigione. Va detto, però, che lo sforzo estremo compiuto dagli esegeti per penetrare nell'ineffabile, ed esplicarlo in qualche modo, può raggiungere vette di bellezza e di intensità straordinarie. Come nei commenti di Ksemaraja. Valga, per tutti, il commento al sutra numero dodici, che recita: «Gli stati dello yoga sono stupore». Questo, il commento di Ksemaraja: «Come uno che vede una cosa fuori dell'ordinario prova un senso di stupore, così il sentimento dello stupore, nel godere intensamente del contatto con le varie manifestazioni della realtà conoscibile, continuamente si produce in questo grande yogi con tutta intera la ruota dei sensi, sempre più dispiegata, immota, pienamente dischiusa, in forza della penetrazione nella sua più intima natura, unità compatta di coscienza e meraviglia sempre nuova, estrema e straordinaria. È uno sgorgare continuo di sbalordimento, sempre più intenso in quanto mai è saziato...».
Lo stesso sbalordimento che il viaggiatore prova nel piccolo museo di Tanjavur (Tamil Nadu), di fronte ai meravigliosi bronzi estatici del Dio creatore, distruttore, danzatore, mendicante, di epoca medievale.

Repubblica 29.6.13
Torna il filosofo legato alla Primavera di Praga
La lezione di Kosìk contro la farsa del nostro tempo
di Pier Aldo Rovatti


Di Karel Kosík, filosofo cecoslovacco, si parlò molto in Italia all’inizio degli anni Sessanta e fino alla Primavera di Praga, che certamente lui nutrì con il suo pensiero critico e dissidente, poi sempre meno fino a un completo silenzio. Quando morì nel 2003, a 77 anni, la rivistaaut aut — la stessa che nel 1961, grazie a Enzo Paci, lo aveva fatto conoscere — gli dedicò un dovuto omaggio. Adesso esce una raccolta di suoi saggi e interventi intitolata Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia (a cura di Gabriella Fusi e Francesco Tava, con una introduzione di Laura Boella, nella collana “Gli imperdonabili” delle edizioni Mimesis) e all’Università Statale di Milano se ne è parlato in un seminario di studi promosso dalla stessa Boella. Curioso: proprio lì dove, cinquant’anni fa, Kosík aveva tenuto la sua unica conferenza milanese dedicata a “La ragione e la storia”, invitato da Paci.
Ma chi è Kosík? È innanzi tutto colui che con La dialettica del concreto (pubblicata nel 1963 a Praga e tradotta nel ‘65 da Bompiani, oggi introvabile) lanciò al marxismo ufficiale di allora un messaggio critico di eccezionale portata, puntando sull’idea di filosofia come senso della pratica trasformatrice e invitando a una rilettura radicale delCapitale di Marx al di là di ogni naturalismo economicistico e di ogni schematismo politico. Un libro che innervò la giovane generazione intellettuale protagonista di quella “primavera”, facendo saltare molti interdetti che penalizzavano pensieri considerati “irrazionalistici” (Heidegger, Sartre, ecc.), compreso quello relativo all’importanza di Kafka, smascherando le “pseudoconcretezze” e aprendo tutte le dimensioni del campo del “concreto”, dall’arte alla vita quotidiana, alla politica ricondotta alla “prassi” vincente.
Un libro, infine, che ovviamente venne letto e usato dai critici del “socialismo reale”, e meno ovviamente incise a lungo nel dibattito a Occidente che cercava un marxismo più umano e spendibile. Troviamo, nelle pagine di Kosík, tante singolari anticipazioni: cito solo il suo interesse per iGrundrisse di Marx, che erano al tempo ignoti anche da noi (dopo, produssero dibattiti molto significativi soprattutto all’interno dell’“operaismo”) e in cui lui vedeva il necessario volano per non tagliare in due il pensiero di Marx, di là gli scritti giovanili e filosofici e di qua quelli maturi sotto il segno esclusivo dell’economia politica. Questo libro, La dialettica del concreto, tra l’altro scritto con rara chiarezza, è stato completamente dimenticato, letteralmente “sepolto” nel tritacarne di quella cultura dell’amnesia che oggi è diventata dominante. Andrebbe ripubblicato, fatto circolare presso le nostre giovani generazioni, troppo digiune di storia e troppo analfabete di dialettica (parola, quest’ultima, che per Kosík andava rimessa al centro di ogni pensiero critico, mentre per noi si è ridotta a nulla più che un flatus vocis).
Sono stati in pochi, e perciò ancor più meritevoli, coloro che hanno cercato di salvare la preziosa memoria di Kosík, a partire naturalmente da Paci stesso (che lo conobbe in Francia a Royaumont e che di lì a poco si sarebbe recato proprio a Praga per lanciare il suo discorso su fenomenologia e marxismo, appoggiandosi anche alla filosofia di un altro grande “dimenticato”, Jan Patocka, amico di Kosík), poi Gianlorenzo Pacini, Guido Davide Neri, per arrivare a Gabriella Fusi e a Laura Boella.
Dopo il ‘68 a Praga arrivarono i carri armati sovietici e con loro la cosiddetta “normalizzazione”. Molti intellettuali dell’Est andarono in esilio (e qui le vicende di Praga e quelle di Budapest si intrecciano, penso agli allievi di Lukács e in primis ad Ágnes Heller). Kosík decise invece di rimanere, accettando che un pesante silenzio calasse su di lui: più volte nel catalogo Suhrkamp fu poi annunciata una sua opera sul “tecno-capitalismo” che però non vide mai la luce. Il volume adesso uscito in Italia testimonia di alcuni scritti e conversazioni degli anni Novanta, una geniale conferenza sulla Metamorfosi di Kafka, un saggio su “globalizzazione e morale”, uno sulla “mafiosità” degli attuali poteri forti, interventi su altri temi vari (sull’architettura urbana, ecc.).
Ancora più coinvolgenti sono comunque un paio di recuperi di scritti del ‘69, allora bloccati dalla censura: Il ragazzo e la morte, in cui traluce il sacrificio del giovane Jan Palach (che si diede fuoco in piazza San Venceslao, lasciando attonita l’opinione mondiale), e dove viene posta a tema la filosofia come “offerta sacrificale”; eIl riso,dove questo tema assai caro a Kosík viene declinato come condizione spirituale del nostro tempo, un’epoca in cui saremmo ormai diventati del tutto incapaci di vivere la condizione della “tragedia”, sprofondati come siamo in quella della “farsa”. Ma, a guardar bene, resta un buco nero di più di vent’anni, tanti, in cui Kosík sembra essersi volontariamente sepolto vivo, condannato al silenzio, ben al di là — sembra proprio — della sua stessa idea di filosofia comeuna sorta di offerta sacrificale.

IL LIBRO Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia di Karel Kosík (Mimesis pagg. 290 euro 24)

La Stampa 29.6.13
Capalbio, presentato il Museo archeologico e paesaggistico della Valle d’Oro
Etruschi e Asburgo, tutto in un parco
di Raffaello Masci


L’ambizioso progetto è sostenuto da Maremmamare e dagli enti locali Il portico di Villa Settefinestre, fra Capalbio e Orbetello
Quando il «Parco archeologico e paesaggistico della Valle d’Oro» - presentato ieri mattina nella sala del Frantoio a Capalbio - vedrà la luce, sarà l’ennesima gemma nel patrimonio storico e naturalistico della Toscana. Siamo in Maremma, e la Valle d’Oro è un triangolo di quasi tremila ettari a Est di Orbetello, tra questo comune e quello di Capalbio.
Oggi la Valle si offre alla vista con le caratteristiche proprie del paesaggio toscano: lievi ondulazioni del terreno, distese erbose screziate di fiori, radi casali d’epoca, e boschi di lecci, di larici, di cerri, di ornelli, più la macchia arbustiva mediterranea. Da questo territorio ameno spuntano casali antichi, ruderi romani, manufatti medievali, tracce di luoghi di culto: una stratificazione architettonica che racconta la storia di questa valle dal VI secolo avanti Cristo fino ai tempi della bonifica della Maremma al tempo degli Asburgo di Toscana. Ed è su questo connubio di natura e cultura che si innesta l’idea di Parco Museo: un libro aperto al visitatore che può leggerlo sia come itinerario storico che come percorso naturalistico. Assiduamente studiata dagli archeologi fin dagli Anni Venti, la Valle conserva delle tombe etrusche afferenti alla città di Vulci nel cui territorio ricadeva. Dopo la conquista romana del 280 a. C.. e la costituzione della colonia di Cosa, sono sorte nel luogo una serie di ville rustiche le cui vestigia affiorano oggi dal terreno: la Villa Settefinestre doveva essere un’azienda ricca con un abitato nobiliare sontuoso e una produzione vinicola intensiva al punto che il prodotto veniva esportato verso le Gallie.
Quando nella tarda antichità le attività agricole svanirono l’area cominciò a impaludarsi e ad essere abitati furono solo i punti più alti, come il castello di Tricosto, o l’asceterio di Romitorio Rovinato che ospitava una comunità monastica.
Tutte queste fasi hanno lasciato tracce sia di manufatti che di stratificazione naturalistica, che rendono la Valle un museo a cielo aperto già ora. Su questa realtà si è impegnata negli ultimi 13 anni l’Associazione Marremmamare con l’ambizione di fare della Valle un museo archeologico e paesaggistico. Il sogno sta per realizzarsi e il progetto è da ieri materia di una mostra (aperta presso il Frantoio di Capalbio fino al 14 luglio) nella quale vengono illustrati il sito, le sue antichità, i suoi pregi naturalistici, il museo venturo e la valorizzazione del tutto questo anche in termini economici.

Corriere 29.6.13
Se la guida (in città) è un immigrato
di Livia Grossi


Al banco della frutta c'è un ragazzo marocchino, poco più un là, tra un negozio italiano e uno cinese, c'è la macelleria romena, un bar affollato da africani, e una moschea. Torino, Milano, Genova, Roma, Firenze... potremmo essere ovunque, ma se a fare da cicerone tra i quartieri multietnici della città è una guida di origine africana, cinese o sudamericana, la storia cambia. Per vedere con altri occhi le strade che percorriamo ogni giorno, e conoscere i nostri nuovi vicini di casa, Viaggi solidali onlus propone «Passeggiate migranti». Un giro intorno al mondo a kilometro zero, ma anche l'occasione per scoprire le culture che abbiamo sotto casa. Le prime «passeggiate» sono partite da Torino, città pilota del progetto ideato in collaborazione con l'antropologo Francesco Vietti. Ecco qualche appuntamento: oggi «Salam Torino», un viaggio tra le comunità islamiche che abitano a Porta Palazzo: il mercato con i suoi profumi, ma anche il museo d'arte Orientale, storia e arte dal Maghreb all'Asia Centrale (partenza: ore 10 dalla Galleria Umberto I a Porta Palazzo, durata 3 ore, 20 euro + 5 euro per il museo). Il 13 luglio si va in Cina: il ritrovo è alle ore 15 alla libreria Belgravia in via Vicoforte 14 (20 euro). Le comunità latinoamericane si incontrano invece in Borgo San Paolo: luoghi storici e di culto, associazioni, negozi, ristoranti e il Museo Etnografico delle Missioni della Consolata, una ricca collezione al momento chiusa al pubblico visitabile solo in questa occasione (20/7 ore 15 libreria Belgravia in via Vicoforte 14, 20 euro). Ciceroni-griot africani e di altre culture anche per conoscere i mondi che abitano a Roma tra le strade del quartiere Esquilino e del mercato di Piazza Vittorio; a Firenze, tra San Lorenzo e via Palazzolo, e infine a Milano, in via Padova, cuore multietnico della città (info e prenotazioni www.cittamigrande.it).

Corriere 29.6.13
Il vampiro Marzullo inventa «Senzavoce»
di Aldo Grasso


Si faccia una domanda e si dia una risposta. È la non domanda per eccellenza, quella sognata da generazioni di liceali alla maturità. Ora il prof Marzullo è stato costretto a lasciare il video. Pensare che sembrava uno di quelli che non muore mai, lui, vampiro che appare nelle notti di Rai1, era riuscito a far credere che l’unico modo per eliminarlo fosse un paletto di frassino. Più prosaicamente è bastata la policy interna Rai (no ai doppi incarichi): ora che ha accettato la nomina a vicedirettore della struttura notte di Rai1, non può più andare in video.
Così il giornalista avellinese per le ultime puntate di «Sottovoce» (e degli altri suoi appuntamenti vampireschi) si è inventato la pratica del nascondismo, la figura del non conduttore (del resto fa non domande): l’ospite di turno risponde a quesiti che il telespettatore non sente. Vent’anni di «Sottovoce» (ora Senzavoce), vent’anni di occupazione militare del palinsesto notturno a conciliare il sonno degli italiani (mancava solo la scenografia a righe di pigiama, ma magari un giorno chissà). I suoi nemici lo accerchiavano, ma lui, arroccato, ha resistito il doppio dell’assedio di Troia (in mezzo c’è comunque un Cavallo, qua quello di Viale Mazzini; là ci era voluto Ulisse, qui è bastato il direttore generale Gubitosi).
Mastino senza denti, Marzullo non mette a suo agio il suo interlocutore, fa molto di più, lo avvolge in una nuvola di marzullismo complimentoso, zuccheroso e stordente, con un incalzare del suo non interrogatorio che oscilla tra il molto lento e il francamente immobile. Però un programma di Marzullo senza Marzullo è peggio di una non domanda, è un non senso, è come Parigi senza la Torre Eiffel (non esageriamo, è come Avellino senza il santuario di Montevergine), perché il fascino perverso dei suoi programmi non sta nelle risposte degli ospiti, ma nelle sue non domande. Non è che si può fare un’eccezione, dottor Gubitosi?