sabato 19 gennaio 2013

l’Unità 19.1.13
Pd, operazione liste pulite
Esclusi Crisafulli, Papania e Caputo
Si fanno da parte Luongo in Basilicata e Brembilla in Lombardia
Berlinguer: tutelata l’onorabilità del partito
di Simone Collini


ROMA Sono nomi illustri in Sicilia, difesi sul territorio a spada tratta, e portano in dote consistenti pacchetti di voti, che soprattutto in una regione in bilico come questa sono decisamente preziosi. Ma sono stati esclusi dalle liste elettorali del Pd. Il motivo? La tutela dell’immagine e dell’onorabilità del partito.
Sono stati cancellati dalle liste elettorali del Pd Mirello Crisafulli, Antonio Papania e Nicola Caputo. I primi due avrebbero dovuto correre in Sicilia, il terzo in Campania. I garanti del Pd hanno però emesso dopo una lunga discussione un verdetto di esclusione perché hanno giudicato le loro candidature, giudicate le vicende giudiziarie che li riguardano, inopportune e in contrasto con i principi del codice etico. Il primo è stato rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, il secondo dieci anni fa ha patteggiato due mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d'ufficio, convertiti in una multa, in un processo su una presunta compravendita di posti di lavoro, il terzo è stato coinvolto in un’inchiesta sui rimborsi ai gruppi consiliari della Campania.
Hanno volontariamente rinunciato al posto in lista Bruna Brembilla (ha compiuto il passo indietro il giorno che la direzione Pd ha dato il via libera alle liste) e Antonio Luongo (era stato inserito nelle liste della Basilicata), mentre non sono invece stati giudicati incompatibili con le liste Pd gli altri due siciliani Angelo Capodicasa e Francantonio Genovese (uno tirato in ballo da un pentito con dichiarazioni che non hanno trovato riscontro, l’altro indagato per abuso d’ufficio), il calabrese Nicodemo Oliverio e la giornalista anti-camorra Rosaria Capacchione (indagata per calunnia).
Spiega il presidente della commissione di garanzia del Pd Luigi Berlinguer che si è voluto mantenere fermi due principi «tra di loro in difficile equilibrio»: «Da un lato quello costituzionale che si fonda sulla presunzione di innocenza del singolo e, dall'altro, quello che impone alla commissione che presiedo la tutela dell’immagine e della stessa onorabilità di quel grande corpo collettivo che è un partito di massa come il Pd. Di fronte a polveroni mediatici e a sommari processi di piazza, magari via web, che creano un irrespirabile clima di intolleranza e di generiche accuse all'intero sistema democratico, la Commissione di garanzia ha scelto sulla base dell'interpretazione severa di codice etico, statuto, leggi dello Stato. Questo ci ha portato a ottenere 2 rinunce volontarie e a deliberare l'esclusione, con motivazioni tra loro diverse, di tre candidati dalle liste del partito».
L’operazione liste pulite non è stata un blitz inaspettato. I garanti hanno ascoltato i diretti interessati, per sentire la loro versione dei fatti, poi si sono riuniti giovedì e riconvocati ieri, per una lunga discussione. Prima di far uscire la nota in cui si comunicavano le esclusioni hanno anche telefonato ai protagonisti della vicenda, per comunicar loro la decisione. Inutile dire che non l’hanno presa bene.
Bersani, prima che si chiudessero in stanza per decidere il verdetto, aveva espresso «piena fiducia» nell’operato dei membri della commissione di garanzia: «Sono sicuro che faranno bene». E anche se non ha commentato pubblicamente la sentenza, è certo che la linea del rigore dimostrata dall’organismo presieduto da Berlinguer lo ha lasciato soddisfatto. Si vede anche da questa decisione la differenza col centrodestra, che candida personaggi come Marcello Dell’Utri.
È proprio il criterio di «opportunità» che ha spinto i garanti ad escludere dalle liste Crisafulli, Papania e Caputo. È vero infatti che il decreto sulle liste pulite recentemente approvato dal Parlamento prevede norme di incandidabilità per chi sia stato definitivamente condannato a pene superiori a due anni di reclusione, ma i garanti hanno voluto far riferimento anche al codice etico e allo Statuto del Pd, che prevedono norme anche più stringenti. Nella delibera in cui si rende noto il verdetto, i garanti richiamano «tra i principi fondativi del Pd, il profilo etico della politica e delle sue concrete attività»: «In questo delicato frangente sottolineano la scelta delle candidature non può prescindere da criteri di eticità, da perseguire anche con valutazioni di opportunità, espressamente previste dalle norme interne del Pd e rafforzate dalla novità introdotta nella legislazione nazionale». E quelle di Crisafulli e Papania sono state giudicate, alla luce delle vicende giudiziarie in cui sono coinvolti, candidature «inopportune». Idem per Caputo, che la scorsa settimana è stato indagato nell'ambito di un’inchiesta sui rimborsi gonfiati dei gruppi consiliari della Campania.

il Fatto 19.1.13
La battaglia del Fatto
di Antonio Padellaro


Non è stata una decisione facile, ma il comunicato con cui la commissione nazionale di Garanzia del Pd chiede di escludere quattro “impresentabili” dalle prossime elezioni politiche fa bene alla credibilità del Pd. E dimostra che la politica italiana, pur ridotta come è stata ridotta da caste e profittatori di ogni genere, può ancora avere un sussulto di dignità. Non è stato facile perché personaggi come per esempio Mirello Crisafulli e Antonio Papania sono considerati dei veri signori delle tessere che in Sicilia muovono decine di migliaia di voti. Consensi che possono essere determinanti nell’isola di Cosa Nostra dove il centrosinistra deve competere con la destra dei Dell’Utri e del voto di scambio. E mentre il Pdl di Berlusconi fa incetta (perché tutto fa brodo) di collusi e indagati per reati gravissimi, come l’ineffabile Nicola Cosentino ritenuto dai magistrati il referente politico della camorra in Campania, i garanti presieduti da Luigi Berlinguer spiegano che “in questo delicato frangente la scelta delle candidature non può prescindere da criteri di eticità da perseguire anche con valutazioni di opportunità” politica. Insomma, in nome della presunzione di innocenza, che resta certamente un caposaldo della civiltà giuridica, non si può passare sopra ai comportamenti poco chiari e alle amicizie poco specchiate che ledono l’immagine del partito. Proprio ciò che il Fatto da giorni non ha smesso di scrivere (in quasi totale solitudine), raccontando le gesta di Crisafulli (rinviato a giudizio per abuso d’ufficio) contenute in un voluminoso rapporto dei Carabinieri, o illustrando i trascorsi di Papania, Luongo, Caputo e altri ancora. Le oltre 20 mila firme raccolte dal nostro giornale sotto l’appello rivolto a Bersani da Franca Rame e poi anche da Adriano Celentano per non presentare gli impresentabili dimostrano che, soprattutto se si tratta di legalità, un’informazione veramente libera non deve essere considerata un intralcio da rimuovere, ma un’opportunità da cogliere. Cosa di cui oggi volentieri diamo atto al Pd.

Corriere 19.1.13
E i democratici candidano i «nuovi italiani»


«I nuovi italiani sono la rivoluzione di queste elezioni, insieme alla scelta di avere più donne in Parlamento». Così il vicesegretario pd Enrico Letta ha presentato ieri le candidature di (da sinistra) Khalid Chaouki, nato in Marocco, in Italia dall'età di 9 anni, giornalista, responsabile Nuovi italiani del Pd; Fernando Biague, originario del Guinea Bissau, in Italia da 27 anni; Cecile Kyenge, nata in Congo, medico, responsabile immigrazione in Emilia Romagna e Nona Evghenie, nata in Romania, laureata in Economia, in Italia dal 2002, consigliere comunale di Padova. «La rappresentanza non può avere un'unica origine mentre nella società vi sono provenienze diverse», ha detto Letta.

l’Unità 19.1.13
Un’Italia più giusta anche per gli immigrati
di Livia Turco

È DIFFICILE PARLARE DI IMMIGRAZIONE IN TEMPI DI CRISI ECONOMICA E SOCIALE. È DIFFICILE FARLO IN CAMPAGNA ELETTORALE. Perché è uno di quei temi su cui difficilmente scatta l’applauso. Eppure è sul governo dell’immigrazione, sul progetto di convivenza tra italiani e immigrati che si decide quale sviluppo economico si intende promuovere, se basato sulla valorizzazione del capitale umano oppure sulla sua umiliazione attraverso la competizione sul basso costo del lavoro; se saremo un Paese euromediterraneo e se sapremo aiutare gli italiani a diventare cittadini europei e del mondo.
Colpisce l’assenza di questo tema nei programmi elettorali degli altri partiti. Lo si comprende nel centrodestra: il fallimento delle loro politiche in termini di compressione dei diritti umani fondamentali e creazione di inefficienze è sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare i richiami delle autorità internazionali rispetto alla condizione cui le persone sono tenute nei Cie o la mancata integrazione dei rifugiati, lo sfruttamento del lavoro, l’ampia fascia di immigrazione irregolare.
C’è da aspettarsi che il rinato Berlusconi rispolveri nel suo discorso populista il no agli immigrati perché ci portano via il lavoro e la casa. Dovrà però fare molta attenzione perché anche le favole più accattivanti possono essere smentite dalla realtà.
Molti sono gli immigrati che hanno perso il lavoro, che tornano nel loro Paese e quelli che sono qui e vivono con noi sono dotati di un corredo di diritti dal salario all’accesso al welfare che li vede ultimi nella scala sociale. Inoltre il governo Monti ha dovuto emanare un decreto flussi per la necessità di lavoratori in determinate professioni e perché anche dentro la crisi permangono quei lavori che gli italiani non vogliono fare.
Il Pd ha compiuto in questi anni bui della politica del centro destra una scelta netta e coraggiosa: combattere le politiche disumane ed inefficaci del centrodestra guardando all’Italia reale, ai suoi territori, alle sue persone. Abbiamo scelto di puntare sull’Italia della convivenza che c’è, che si sta sedimentando nelle nostre aziende, nelle nostre scuole, nei quartieri delle nostre città, nei piccoli borghi, nei paesi. Abbiamo messo in risalto e sostenuto la peculiare via italiana alla convivenza, costruita con il ruolo attivo dei Comuni, delle Regioni, delle associazioni, delle imprese, delle scuole.
Abbiamo scelto di investire sui giovani, su quelli che hanno una marcia in più, sui figli di immigrati che sono italiani di fatto ma non per legge. I nuovi italiani meravigliosamente rappresentati dai nostri candidati al Parlamento, di cui siamo molto orgogliosi: Cécile Kyenge Kashetu, Khalid Chaouki, Nona Evghenie, Fernando Biague. Bene fa Bersani a ripetere in modo costante che la prima riforma del suo governo sarà la norma che consente a chi nasce e cresce in Italia, figlio di immigrati che risiedono nel nostro Paese almeno da 5 anni di essere italiani. Nella consapevolezza che è in gioco non solo il cambiamento di una norma assurda e punitiva ma il riconoscimento di una risorsa, di una energia vitale per il Paese.
Nei primi 100 giorni il governo Bersani, dovrà compiere delle scelte nette sull’immigrazione per segnare una chiarissima discontinuità rispetto ai disastri del centrodestra. Pensiamo ad una azione in due tempi.
Ci sono norme che vanno abrogate subito, come il reato di immigrazione clandestina, la tassa sul permesso di soggiorno, il superamento dei Cie per ricondurre l’istituto del trattenimento al limitato e temporaneo scopo dell’identificazione dello straniero. Contemporaneamente bisogna definire una nuova legge quadro sull’immigrazione e sul diritto d’asilo alternative alla Bossi Fini e alla Maroni Berlusconi che abbia il suo fulcro nel rendere conveniente e praticabile l’ingresso regolare a partire dal lavoro.
Le proposte sono: programmazione dei flussi di ingresso che siano più efficaci e snelli; forme di incontro tra domanda ed offerta di lavoro come l’ingresso per ricerca di lavoro e lo sponsor; trasferimento ai comuni della competenza del rinnovo del permesso di soggiorno; potenziamento della formazione in loco; capacità di attrarre talenti; facilitazione degli ingressi agli studenti e ai docenti stranieri nelle nostre università; possibilità per i lavoratori immigrati che tornano nel loro Paese prima dell’età pensionistica di accreditare i contributi lavorativi acquisiti; promozione delle politiche di coosviluppo e dell’immigrazione circolare; miglioramento della qualità dell’amministrazione dedicata alla gestione dell’immigrazione regolare per renderla più efficiente. Per prevenire e contrastare l’immigrazione clandestina bisogna prevedere la concessione di regolarizzazioni ad personam, puntare sul rimpatrio volontario, definire un sistema di espulsioni che sia compatibile con i valori della nostra Costituzione.
Il terzo pilastro delle nostre proposte riguarda le politiche dei diritti e dei doveri, per costruire una civile convivenza: diritto all’unità familiare anche per i rifugiati e richiedenti asilo; riconoscimento del diritto di voto amministrativo; attuazione del diritto costituzionale alla libertà religiosa; programma di lingua e cultura italiana; servizio civile per i giovani immigrati; forte investimento nell’educazioni interculturale rivolta a tutti anche per prevenire e contrastare il fenomeno in atto di abbandono scolastico e segregazione formativa dei giovani immigrati; fondo nazionale per le politiche dell’immigrazione cofinanziato anche dalle imprese e da soggetti privati.
Tutte queste proposte hanno un senso ed acquistano efficacia se sono collocate in un contesto europeo. Non è più il tempo di chiedere all’Europa di aiutare l’Italia ma è l’Italia che deve diventare protagonista nella costruzione di una politica europea e del diritto d’asilo, che sia adeguata alle novità emerse nel Mediterraneo, in Africa e che risponda in modo efficace alla crisi economica e sociale.
Unità nella diversità, queste sono l’Italia e l’Europa che vogliamo costruire.

l’Unità 19.1.13
Pannella sale sul taxi di Storace, Bonino resta a piedi
di Marcella Ciarnelli

La senatrice rinuncia a candidarsi e guida la contestazione: il leader della Destra è all’opposto delle posizioni dei radicali su diritti civili e carceri
Alla fine (o per il momento) Marco Pannella ha deciso di accettare la mano tesa di Francesco Storace, che da consumato politico non lascia mai solo chiunque possa portargli voti, ed ha accettato di salire sul taxi messo a disposizione dei radicali dall’ex presidente della Regione Lazio che ci riprova a conquistare la Pisana. Prendendo a bordo tutti quelli che ci stanno a portare consensi, al di là delle distanze abissali degli occasionali compagni di viaggio.
Tant’è che nella stessa lista si troveranno, messo punto ad oggi, gli abituali sostenitori della linea politica di Pdl e Destra con punte di eccellenza come il diplomatico Mario Vattani, quello dal braccio teso e dall’ugola sotto pressione, e la paladina della battaglia contro i consultori, Olimpia Tarzia. Ma si troveranno anche esponenti Radicali, almeno quelli che si riconoscono in Marco Pannella dato che Emma Bonino, assieme ad altri esponenti del Partito tra cui Matteo Mecacci, hanno detto no, e con molta forza, all’innaturale scelta di campo che l’anziano leader ha deciso di sottoscrivere nel totale disinteresse della storia. Sua e del partito.
È spaccato a metà il partito radicale. Bonino contro Pannella, non è la prima volta. Con il vecchio leader reduce da un recente digiuno ma in forze per gestire l’alleanza fuori da ogni schema, che rivendica la necessità di essere presenti nel voto «a tutti i costi» convinto che l’alleanza con Storace «non intaccherà» un patrimonio innegabile di battaglie di civiltà fatte nell’interesse della gente.
Solo che Pannella, in questa fase convulsa in cui l’esserci per lui conta più che da che parte, sembra dimenticare che quando tutte le sue battaglie sono state combattute, proprio Storace, e la sua parte politica, erano il nemico da battere. Gli avversari a cui spiegare che i consultori servono per consentire alle donne gravidanze consapevoli e non vivere l’aborto come l’unica via d’uscita; che la sperimentazione è un diritto di chi poi, a ricerca completata, potrà usufruire di nuovi farmaci; che gli omosessuali sono persone da rispettare con i loro diritti e i loro doveri verso la società; che la situazione delle carceri in Italia è tale da autorizzare a pensare a misure straordinarie e che, comunque, il problema non si risolve certo rimandando a scontare la pena a casa loro gli stranieri detenuti nel nostro Paese. Ci sono fior di dichiarazioni e di verbali anche nell’attività dell’ultimo consiglio regionale in cui appare evidente l’abissale lontananza tra le posizioni di chi «onorato» mette a disposizione il taxi e di chi pensa di poter condurre in porto, in modo indolore, un’alleanza presentata solo come «tecnica» ma che evidentemente tale non può restare. Pena la perdita di identità degli uni o degli altri.
LA RIVOLTA VIA WEB
Pannella non sembra accettare che qualcuno si opponga alla sua devastante intuizione politica. È chiuso nel suo fortino, a testa bassa contro l’opposizione interna che, dice lui, «vuole farmi passare per un dittatore» e preoccupato solo dalla posizione di Emma Bonino. Per rispondere all’intesa con Storace alle regionali del Lazio, «molti» radicali stanno ritirando la propria candidatura alla lista nazionale “Amnistia Giustizia Libertà”, potrebbe farlo anche Emma Bonino, mentre sembra che Berlusconi voglia chiedere a Pannella di essere il suo ministro della Giustizia. Il movimento in subbuglio, la base è delusa. E questa volta non sembra disposta a seguire l’ultima battaglia dell’icona radicale.
«Mi dispiacerebbe se Pannella andasse con Storace. Ho sempre detto che per i Radicali avevamo porte aperte. Gli rinnovo l’appello ora perché i giochi da parte mia non sono ancora chiusi» ha detto il candidato del centrosinistra, Nicola Zingaretti, alla presidenza della Regione commentando l’apertura radicale a Storace che ha definito «un accordo di convenienza, un po’ triste». Quindi «chi si lamenta di essere stato escluso in realtà si è escluso da solo» dato che la richiesta avanzata ai radicali era di discontinuità nelle candidature «che gli altri partiti hanno accolto». Il rischio «armata Brancaleone» è all’orizzonte.
Il Pd Michele Meta: «Nella battaglie civili e antifasciste i Radicali hanno lasciato un segno indelebile che Marco Pannella, se fosse confermato l’orientamento a sostegno di Storace, rischierebbe delittuosamente di macchiare e infangare». «Un partito che ha una storia di autentica passione libertaria non può suicidarsi con i gagliardetti della destra di Storace» ha detto Bruno Tabacci, leader del Centro democratico.

l’Unità 19.1.13
Un mostro a due teste
Caro Marco, fermati Ascolta Emma: rischi di mandare la tua storia in malora
di Sara Ventroni

DAL LABORATORIO DEGLI ESPERIMENTI GENETICI ELETTORALI ARRIVANO NOTIZIE INQUIETANTI: un accoppiamento, tardivo ma consenziente, tra Marco Pannella e Francesco Storace. Per stare con la coscienza a posto dobbiamo lanciare almeno un appello, una raccolta di firme, un picchetto a largo Torre Argentina. Fermatevi. Fermateli. Stanno per partorire un mostro a due teste, con fez d’ordinanza e crine di canapa. Un golem ateo che crede in Dio, non ha patria ma la difende, tiene famiglia ma è single; un omuncolo che scrive testamento biologico ma pretende accanimento terapeutico, nottetempo fa le ronde e ulula contro la carognesca disumanità del carcere. Un lupo manettaro garantista. Un liberista corporativo. Un fascista abortista. È troppo.
Ma Berlusconi giunge in soccorso degli amanti e promette a Marco un posto da ministro nel prossimo governo dei Muppets.
La strana coppia nasce, spiega Pannella, per ripicca verso il centrosinistra traditore.
Ma perché, c’era amore? Non ce n’eravamo accorti. Da sempre è mancata la chimica, lo sanno tutti. Niente affinità elettive e molta incomunicabilità.
A dicembre abbiamo pregato perché Pannella ricominciasse a spiluccare almeno uno spicchio di mela, oggi gli suggeriamo: pensaci, Marcolino. Fallo per te, non per noi.
Nessuno ha il coraggio di dirtelo, ma arriva per tutti il momento di tirare i remi in barca e assicurarsi una vecchiaia tranquilla. Bisogna fare ginnastica, bere molta acqua e tenere i capelli a posto. La politica? Non più di quattro ore al giorno, possibilmente durante i pasti.
Arriva per tutti il tempo dei bilanci. Dopo una vita spesa a sgolarsi, o a imbavagliarsi, per la libera libertà di tutti i liberi individui (non hai mai creduto in un «noi», ma ti perdoniamo) forse si può anche appendere il megafono al chiodo. Basta con i colpi di testa. Fanno male al cuore e mettono in pensiero chi è ancora in pista. Anche Emma te lo dice: non mandiamo tutto in malora proprio adesso.

il Fatto 19.1.13
Pannella dice sì all'accordo con Storace


Il Pd insorge: "Inciucio vergognoso"
“Siamo in presenza di un accordo politico e di potere, altro che accordo tecnico"

qui 

Corriere 19.1.13
Lazio, Radicali con Storace
Pannella: «Imbarazzo? No, lui non è la Binetti»


ROMA — Sul «taxi» di Francesco Storace verso la Regione Lazio, c'è posto anche per i Radicali, fino a ieri alleati del centrosinistra (nel 2010 fu Emma Bonino la sfidante della Polverini) e oggi «tecnicamente apparentati» col candidato del centrodestra: così, per entrare alla Pisana, gli basterà superare l'1%. Marco Pannella annuncia: «Accogliamo l'invito di Storace, anche per un minimo di rivolta morale contro comportamenti vergognosi che ci hanno ingannato e tagliato fuori». Riferimento a Nicola Zingaretti, sfidante di Storace, che aveva chiesto «di non ricandidare gli eletti dello scorso consiglio regionale». Compresi Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita, che denunciarono la mole di soldi pubblici che affluivano nelle casse dei gruppi regionali, «base» dello scandalo Fiorito-Maruccio. Pannella viene sommerso dalla critiche. Contrario Mario Staderini, segretario nazionale: «Contribuiremmo alla vittoria di una coalizione in continuità con quella della Polverini». In silenzio Emma Bonino, che già aveva espresso il suo «no». Furiosi candidati e attivisti: in molti vogliono ritirare il proprio nome dalle liste di «Amnistia, giustizia, libertà», e sul profilo Facebook di Pannella si va dalle critiche agli insulti («Marco, che c... fai? Coi fascisti no!»). Gad Lerner twitta: «Un'umiliazione per la comunità ebraica». Roberto Morassut (Pd), attacca: «Ritirerò la mia firma per Pannella senatore a vita». Il leader, parlando al partito, risponde: «Storace un bandito? 'Sto c... Nessun imbarazzo, non è la Binetti». Che replica: «Pannella-Storace, la strana coppia». L'ex governatore incassa: «Mi farebbe piacere una vera alleanza: i valori della democrazia e della libertà ci uniscono». Zingaretti non ci sta: «Sono per il rinnovamento, senza privilegi e furbizie. Quella dei Radicali è una scelta politica, non tecnica».
Ernesto Menicucci

Corriere Roma 19.1.12
Querele e insulti, bufera su Pannella
di Maria Rosaria Spadaccino


Morassut: ritiro la firma per la sua nomina a senatore a vita
Si sono tollerati, a volte sopportati, hanno anche condiviso battaglie comuni. Ma ora il rapporto radicali/partito democratico sembra ad un punto di non ritorno. La discesa in campo di Marco Pannella accanto a Francesco Storace sembra firmare la fine definitiva di un'alleanza mai davvero digerita. E fa tornare suoi propri passi chi nel Pd aveva appoggiato (e firmato) per la richiesta di Pannella senatore a vita. «Avevo sottoscritto l'appello per la nomina - scrive in una nota il deputato Pd Roberto Morassut - ma la sua scelta di alleanza con Storace mi costringe a ritirare la firma sull'appello. Resta la mia convinzione del ruolo storico svolto come leader dei radicali in tante battaglie civili, ma non posso accettare che questa storia possa essere confusa con chi quelle battaglie le ha duramente avversate». Non usa mezzi termini la deputata Marianna Madia, anche lei pronta a togliere la firma per la richiesta di Pannella senatore a vita: «La sua è una scelta sciagurata, i valori dei radicali sono sicuramente meglio rappresentati da Nicola Zingaretti».
Non è meno forte il giudizio del collega Michele Meta: «Nelle battaglie civili e antifasciste i Radicali hanno lasciato un segno indelebile che Marco Pannella con l'orientamento a sostegno di Francesco Storace rischierebbe delittuosamente di macchiare e infangare».
Fastidio e sospetti ispirano le dichiarazioni degli altri candidati del partito democratico. «La verità è che questo è un accordo tattico - dice Jean Leonard Touadì, candidato capolista dei democratici alla Regione - che ha poco a che fare con le tradizionali lotte radicali che tanto hanno dato alla politica italiana». Parla di intesa «contro natura e di un accordo con l'oscurantista Storace», il segretario del Pd, Marco Miccoli.
Un fiume in piena di commenti durissimi che provocano la reazione di Giuseppe Rossodivita, capogruppo uscente dei radicali alla Pisana, che commenta così l'accordo stretto tra radicali e Storace che permetterà al partito di Pannella di avere ancora una rappresentanza in consiglio regionale. «Storace ci ha voluto offrire un taxi per riuscire ad avere una rappresentanza, lui non teme il nostro controllo - commenta - mentre Zingaretti sta ponendo un veto, dicendo che per rinnovare deve rottamare me e Berardo (altro rappresentante radicale alla Regione), è meglio che la faccia finita o sarò costretto a querelarlo». Invece prende le distanze, dando «una valutazione contraria», il segretario dei radicali italiani Mario Staderini: «L'apparentamento tecnico significa contribuire, almeno in potenza, alla vittoria di una coalizione che si colloca in continuità con la giunta Polverini e che ha al suo interno il Pdl romano, questa scelta non mi convince». Ma a questo diniego Staderini aggiunge il suo disappunto nei confronti di Zingaretti colpevole, a suo dire, «di una scelta di pulizia etnica contro i Radicali che deriva dal diktat partitocratico che rende indistinguibili i buoni dai cattivi, i nostri consiglieri Rossodivita e Berardo sono coloro che hanno fatto luce su quanto accadeva nella regione Lazio e in tutte le regioni italiane».

Repubblica 19.1.13
Al voto con Storace, i radicali si spaccano
Prevale la linea dura di Pannella, rivolta nel partito. La Bonino medita il passo indietro
di Silvio Buzzanca


ROMA — «Vorrei dire qui ufficialmente che ho, ripeto ancora, e così è stato deciso, che noi accogliamo l’invito, la proposta, di Storace». La voce di Marco Pannella diffonde da Radio Radicale che lui e quello che chiama «il ceto dirigente radicale » vogliono salire a bordo del taxi offerto dal candidato del centrodestra alla regione Lazio. Una volontà, che la trascrizione letterale della frase tradisce, forse sia più sua che di tutto «il certo dirigente». Perché nella riunione che si è svolta giovedì sera, come spiega Maurizio Turco, l’Era e Nessuno tocchi Caino si sono schierati per l’intesa tecnica con Storace. Scelta condivisa da sette parlamentari. Due i no; Matteo Mecacci ed Emma Bonino.
Con la leader radicale stanno però anche il segretario di Radicali italiani Marco Staderini e il presidente Guido Viale, poco gradito a Pannella. Per il no sono i leader dell’Associazione Coscioni Marco Cappato e Filomena Gallo. E da Torino prende le distanze anche il dirigente Giulio Manfredi che annuncia: «Io incrocio le braccia. Vado a casa e ci rimango fino a dopo le elezioni; ritiro la mia candidatura nella lista». Un malumore che coinvolge una buona fetta di militanti e simpatizzanti che hanno inondato i network di proteste, o di insulti, contro Pannella.
La decisione della Bonino non arriva però a ciel sereno. Perché, come ha spiegato ieri sempre Maurizio Turco, la scelta di mettere in campo la lista Amnistia Giustizia e Libertà nasce anche dal fatto che la vicepresidente del Senato ha “ritirato” il suo ok al simbolo Lista Bonino Pannella.
Inoltre la Bonino si è sì candidata nella nuova lista di scopo pensata dal leader radicale, ma nelle ultime posizioni. E sembra proprio che in questi giorni stia meditando di abbandonare anche questa postazione. Cosa che ha già fatto Viale, spiegando che «le iniziative radicali non sono andate nella direzione che speravo e non condivido gli sviluppi e le scelte residuali».
Infine la “principessa Emma”, come la chiama Pannella, non ha partecipato alle ultime iniziative di “lotta e di dialogo” del leader e del gruppo dirigente del partito. Anche se a detto no all’offerta di un seggio in Parlamento che le è arrivata da Antonio Ingroia. Che per quanto riguarda il Lazio ieri ha ufficializzato la candidatura a governatore di Sandro Ruotolo.
In questo contesto c’è da segnalare anche una mezza “frenata” nella generosità di Storace. Ieri, a Rainews, il leader della Destra ha detto che «l'apparentamento non c'è ancora stato, si sta dialogando». E in un videomessaggio ha spiegato che «forse si può fare questo accordo. Io non so come finirà questa storia che comunque è affascinante e appassionante». Un ripensamento che forse è legato a qualche malumore che serpeggia ne centrodestra. «Mi auguro che non ci sia alcuna alleanza tra il centrodestra e i Radicali alla Regione Lazio», ammonisce il consigliere provinciale di Fratelli d’Italia Federico Iadicicco.

Repubblica 19.1.13
L’amaca
di Michele Serra


L’apparentamento elettorale di Pannella con l'estrema destra (antiabortista, anti-immigrati e con forti venature antisemite) non si presta ad alcuna lettura politica. Sarebbe uno sforzo eccessivo e soprattutto immeritato. Valgono, come spiegazione, solamente l'eccentricità e la vanità di un vecchio leader disposto – da sempre – a qualunque strampalatezza pur di continuare a essere Pannella, cioè un unicum irriducibile a qualunque campo e a qualunque regola, un sapientone verboso, irritante e felice di esserlo. Pannella è così smisuratamente presuntuoso da considerare il campo politico nel suo complesso (dai nazisti a Pol Pot) come una subordinata della propria esistenza. Mai viceversa. L'umiltà di sentirsi – come tutti – influenzabile dal grande gioco politico, dalla Storia, dalle ideologie, non lo ha mai sfiorato. Chinare la testa di fronte all'evidenza del macro, lui che ha un peso politico micro, non fa parte delle sue facoltà: si crede Pannella e tanto gli basta.
Più di vent'anni fa, anche se per un solo anno, presi la tessera radicale. Mi dispiace molto averlo fatto. La restituisco simbolicamente a Emma Bonino, che è una grande donna e merita grande considerazione e, in questa fase, profondo cordoglio politico.

E qui, per comprendere un aspetto dell’ennesima scelta choc - dopo l’alleanza con Berlusconi nel ’94 (il quale però pur nominò commissario Ue l’ottima Bonino) - bisogna ricordare Pasolini. A inizio del 2011, quando il governo Berlusconi III già traballava, Pannella s’incontrò con Silvio: «Noi dialoghiamo, certo, è il comandamento lasciatoci da Pasolini quando ci spedì il suo testamento, “abbiamo dialogato anche con le meretrici...”». Pasolini diceva anche, in un discorso ritrasmesso proprio ieri su Radio radicale, «noi abbiamo buoni stomaci». Ecco, Marco ce l’ha. E per digerire Epurator ci vuole.
Iacoboni su La Stampa

l’Unità 19.1.13
Ingroia corre ovunque Finocchiaro: ci pensi bene
«L’ex pm così rischia di far vincere la destra»
«Il rischio di un ritorno al passato impone a tutti coloro che si oppongono al centrodestra un supplemento di responsabilità»
«Il Cavaliere si sta giocando tutto per tutto all’ultima mano, perché sa che è l’ultima»
di Francesco Cundari


ROMA «Io penso che questa campagna elettorale sia attraversata da un rischio gravissimo e che questo imponga una responsabilità in più». Il rischio di cui parla Anna Finocchiaro è il ritorno sulla scena, in primo piano, di Silvio Berlusconi e della Lega.
Non ha visto finora in tutti coloro che si oppongono al centrodestra un sufficiente senso di responsabilità? «Vedo che per esempio molti mettono in discussione che il partito che prende più voti esprima il presidente del Consiglio. Si sentono fare discorsi ambigui sul fatto che qualora il Pd non avesse la maggioranza anche al Senato tutto potrebbe tornare in discussione. L’impressione che si dà è insomma che ci sia una sorta di alea sulla promessa fondamentale che ogni forza impegnata a combattere Berlusconi deve poter fare agli italiani: la promessa che domani ci sarà un governo stabile e coeso. Una promessa che è anche la premessa minima per poter pensare di affrontare i problemi che abbiamo davanti, data la condizione in cui si trova il Paese». Eppure sono in molti, e per la verità non solo al centro, a contestare questi argomenti, accusandovi di puntare solo sul “ricatto” del voto utile. «Per questo dico sempre che il Pd, che è il più grande partito rimasto sulla scena, deve comportarsi come un elefante che non si innervosisce per un topolino. Noi dobbiamo stare sereni, anche nella discussione più aspra. Non possiamo mettere in dubbio, nell’area di centrosinistra, ma anche tra i moderati che si oppongono al berlusconismo, il fatto che l’Italia non deve essere riconsegnata a Pdl e Lega, né che l’Italia debba avere un governo stabile e coeso. Questi sono i due punti fermi su cui misurare ogni giorno comportamenti e strategie».
Come valuta le dichiarazioni di Beppe Grillo, che suggerisce di «eliminare i sindacati, che sono una struttura vecchia come i partiti»?
«È un’idea che trovo molto distante non solo dalle nostre, ma da quelle che circolano in tutte le democrazie occidentali. Del resto Grillo ce l’ha sempre avuta con il principio di rappresentanza: basta vedere come gestisce il suo partito. Bene ha fatto Bersani a mettere tutti in guardia dalla deriva dei partiti personali». A questo proposito, secondo lei esiste anche un’antipolitica dei tecnici? «L’antipolitica ha mille facce. Attorno ai tecnici c’è stata anche l’idea di un governo degli ottimati, che però non è molto innovativa. Anzi, è un’idea piuttosto vecchia. Ma tutto questo non fa che confermare il fatto che per organizzare la politica servono i partiti, come dice la Costituzione, al fine di dare sostanza e corpo alla democrazia. Un modo certamente imperfetto, ma per quanto imperfetto di gran lunga migliore delle alternative».
Eppure da un po’ di tempo sembra che per una ragione o per l’altra l’Italia non debba avere la possibilità di una fisiologica alternanza di governo, come in tutte le altre democrazie europee. Ora tutti sembrano scommettere che grazie alla Lombardia (e a questa assurda legge elettorale) nessuno avrà la maggioranza in entrambe le Camere. Per il centrosinistra, in particolare, sembra che il colpo decisivo potrebbe venire dalla presentazione della lista di Antonio Ingroia, che spianerebbe la strada alla vittoria della destra. È un rischio reale?
«È evidente che la Lombardia è una Regione strategica per il Paese. Mi chiedo se non sia possibile tenere aperto uno spazio di riflessione responsabile sul fatto che in Lombardia la presentazione della lista di Rivoluzione civile guidata da Ingroia non solo alla Camera, ma anche al Senato, dove quasi certamente non raggiungerebbe nemmeno il quorum, potrebbe consegnare i seggi decisivi a Berlusconi e alla Lega, con tutto ciò che questo comporterebbe: per l’Italia, per il Mezzogiorno e anche per la lotta alla mafia, perché la condizone di drammatica difficoltà in cui versa il Sud rappresenta una delle precondizoni del potere mafioso».
Il berlusconismo non è dunque ancora giunto al tramonto? Silvio Berlusconi rappresenta ancora un pericolo reale?
«Io penso che il berlusconismo sia definitivamente al tramonto e che Berlusconi si stia giocando il tutto per tutto nell’ultima mano, consapevole che è la sua ultima mano, e anche per questo gioca allo sfascio in questo modo. Aiutato in questo anche dalla sua caratteristica principale, che è la totale assenza di ogni senso del limite, il che gli permette di dire e fare praticamente qualsiasi cosa. Il suo problema, però, è che gli anni passano, e si vede. Vale per tutti, per lui come per me, perché il tempo è in questo straordinariamente democratico».
Quindi c’è poco da star tranquilli...
«Quindi io capisco bene che è difficile sgombrare il campo da alcuni topoi delle campagne elettorali, ma stiamo attenti, perché ora stiamo giocando una partita decisiva. Ed è anzitutto nell’interesse dell’Italia che passi il messaggio, chiaro e netto, che Berlusconi e la Lega non torneranno. E che l’Italia, dopo le prossime elezioni, avrà un governo stabile e coeso, in grado di affrontare la crisi e i tanti problemi ancora aperti».

l’Unità 19.1.13
Grillo come il duce: via i sindacati
Comizio a Brindisi: «Sono vecchi come i partiti, eliminiamoli»
Il comico attacca: voglio uno Stato con le palle. Dure reazioni sindacali
La Cgil: lui guarda a Casa Pound
di Giuseppe Vittori


ROMA «I sindacati sono una struttura vecchia come i partiti politici. Non c’è più bisogno del sindacato». Così, evocando parole e istinti del ventennio fascista, Beppe Grillo ha aperto ieri a Brindisi il cosidetto “tsunami tour”. «Le aziende ha proseguito devono essere di chi lavora». Questo «è il futuro come accade negli Stati Uniti e in Germania dove c’è la compartecipazione di chi lavora».
Durissime le repliche. «Dopo l’appoggio a casa Pound Grillo propone l’abolizione del sindacato e la cancellazione dei suoi 12 milioni di iscritti. L’obiettivo è lo sterminio di massa?»: così, con un messaggio su Twitter, la Cgil nazionale commenta le dichiarazioni di Beppe Grillo. «Siamo d’accordo con Grillo: trasferiamo la proprietà dell’impresa ai lavoratori e il sindacato diventerà inutile»: sempre via Twitter così commenta il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti. «Senza i sindacati non c’è nemmeno la democrazia», commenta invece il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.
Il comico capo dei 5 stelle ha dedicato buona parte del suo comizio a se stesso: «Noi non siamo partito, io non sono un leader, non mi candido, cosa è che mi fa fare tutto questo? Me lo fa fare si è risposto un sogno, che è condiviso da milioni di persone, sono gasatissimo, sono rinato, dietro non c’è nulla, pensano ci siano soldi, i casalesi, questi cialtroni non credono che ci sia qualcuno che fa qualcosa per gli altri senza un ritorno».
Ancora, in un crescendo di autoincensazione: «Gridatemi per favore populista», dice il fondatore del Movimento 5 Stelle ironizzando sull’accusa che gli viene rivolta, «sono uno come voi, sono un ex comico, potevo starmene a casa mia, mi avete dato benessere per 40 anni, potevo starmene al caldo, ma non me la sentivo di fare il pensionato benestante a 65 anni, non perchè sono francescano ma per una questione di vita ha aggiunto spiegando le ragioni del suo impegno politico -, esco non voglio stare in casa, mi sono buttato in mare nello Stretto di Messina e ci siamo andati a prendere la Sicilia. Una parte del mio lavoro lo dedico agli altri per solidarietà ha detto ancora se lo facessero tutti, se ognuno facesse la propria parte camberemmo il mondo in pochissimo tempo».

Corriere 19.1.13
Tasse e giovani, offensiva dei leader
La patrimoniale divide la Cgil e Bersani
di L. Fu.


Il segretario pd: c'è già l'Imu. Monti: detassare chi assume under 30 Grillo attacca i sindacati: vecchi come i partiti, vanno eliminati di Massimo Franco
ROMA — Niente patrimoniale, annuncia Pier Luigi Bersani giurando di avere al suo fianco l'alleato Nichi Vendola ma aprendo un fronte polemico con la Cgil di Susanna Camusso. La questione fiscale, quindi, entra prepotentemente in questa fase iniziale della campagna elettorale. Come entrano, anche dopo la sortita di Silvio Berlusconi, le misure a sostegno dell'occupazione giovanile proposte dal premier Mario Monti che immagina forme di detassazione a favore di chi assume giovani sotto i 30 anni. E proprio sulla questione tasse Pier Ferdinando Casini denuncia la presenza in tv di troppi buffoni e smemorati. Su tutto questo arriva a sorpresa l'attacco di Beppe Grillo ai sindacati che andrebbero «eliminati».
Il leader del Pd
Pier Luigi Bersani assicura che, una volta al governo, non ha alcuna intenzione di introdurre una patrimoniale sulle ricchezze finanziarie. Non credo a un'imposta del genere, obietta il leader del Pd, «non voglio fare il Robespierre, l'abbiamo già sugli immobili e si chiama Imu; ritengo, invece, che ci debba essere una maggiore progressività». Bersani aggiunge che «il nostro problema è la tracciabilità dei patrimoni» in modo da definire una sorta di «Maastricht della fedeltà fiscale». E quindi «mai più condoni perché noi lavoriamo per la fedeltà fiscale in modo che ogni euro che ricaviamo lo mettiamo a ridurre le tasse per chi le paga. Se non cominciamo mai non ne usciamo mai». Bersani è convinto che sia «necessario rendere più progressiva l'Imu e quindi di fare di quell'imposta una imposta più giusta» e cioè che a pagarla siano «le grandi ricchezze immobiliari, non sono per mettere delle patrimoniali sulle grandi ricchezze non immobiliari». Ma Nichi Vendola è d'accordo? «Penso proprio di sì», garantisce il leader del Pd. E Vendola, soffermandosi su un possibile accordo con l'ex pm Antonio Ingroia, afferma che «si deve fare un appello alla luce del sole, non la desistenza». Un modo per raccogliere l'invito che l'altro giorno aveva fatto lo stesso Ingroia, contrario a intese sottobanco.
Cgil, sì alla patrimoniale
Susanna Camusso ritiene che «sia indispensabile fare la patrimoniale». Una posizione contraria a quella del segretario del Pd Bersani: «Non ci raccontino che l'Imu c'è già o altro c'è già. Oggi c'è una straordinaria diseguaglianza tra chi paga regolarmente le tasse sul suo reddito e sulla casa e chi invece non paga sulla multiproprietà immobiliare e sulle rendite». Ed è su questo che, insiste la Camusso, «bisogna ricongiungere la forbice applicando la regola fondamentale, prevista dalla Costituzione, che la tassazione è progressiva sul reddito delle persone».
Il premier
Rispondendo via Twitter alle domande poste dal Forum dei giovani, Mario Monti illustra alcuni provvedimenti che ha in mente per favorire l'ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro, tema sul quale nei giorni scorsi era intervenuto anche Berlusconi proponendo un'esenzione contributiva per un certo numero di anni. Monti scrive al riguardo che «occorre introdurre forme di detassazione per chi assume under 30». E sottolinea anche la necessità «di migliorare i servizi di orientamento e consulenza per la ricerca di impiego». Il Professore ricorda poi a proposito dei modi con cui i giovani possono accedere al credito che «il piano famiglia prevede già mutui agevolati a giovani coppie per la prima casa».
Il leader dell'Udc
Pier Ferdinando Casini vede che il dibattito di questo avvio di campagna elettorale è popolato da «tanti smemorati». In tv, argomenta il leader dell'Udc alludendo a Berlusconi senza mai farne il nome, «ci sono tante Alici nel Paese delle meraviglie con un signore che, dopo avere alzato il prelievo fiscale per cinque anni, ci viene a dire che cancellerà tutto». Ma fa notare, «noi non possiamo dimenticare che dall'Imu al redditometro quelle imposte, le ha introdotte lui».
Movimento 5 Stelle
Beppe Grillo, nel suo tsumami tour che ieri lo ha portato a Brindisi, sferra un durissimo attacco alle organizzazioni sindacali: «Voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti. Le aziende devono essere di chi lavora».

Repubblica 19.1.13
Bersani: no alla patrimoniale. Camusso: sbaglia, è necessaria
di Alberto D’Argenio, Gabriele Isman


ROMA — Pierluigi Bersani dice no a una nuova patrimoniale, Susanna Camusso non gradisce, giudicandola invece «indispensabile», e i montiani lanciano le prime proposte sul mercato del lavoro. Il segretario del Pd parla a Radio24: «Io non credo affatto a una patrimoniale. Io intendo che si rafforzi la progressività di quella patrimoniale che si chiama Imu che favorisca chi è più in difficoltà ». Per Bersani «serve più tracciabilità per una maggiore fedeltà fiscale, non voglio fare Robespierre o Saint-Just, ma l’Italia deve gradualmente allinearsi all’Europa su questo punto». Più tardi il candidato premier del centrosinistra aggiungerà che anche Nichi Vendola condivide il no alla patrimoniale sulle grandi ricchezze non immobiliari e la scelta della tracciabilità.
La risposta di Susanna Camusso non tarda ad arrivare: «Il mondo è bello perché è vario, ognuno ha le sue opinioni — dice il segretario della Cgil — . Noi pensiamo che l’Imu rappresenti la tassa di proprietà sulle case, che sia una quota della tassazione dei patrimoni, ma non sufficiente a ricostruire un punto di equilibrio sulla progressività fiscale e sulla giustizia fiscale che è necessaria in questo Paese».
E intanto anche i montiani preparano le loro proposte, con la prima sintesi (rivedibile) del tavolo sul mercato del lavoro per completare l’agenda. Ci stanno lavorando, tra gli altri, Pietro Ichino, Benedetto Della Vedova, Andrea Olivero, Giuliano Cazzola, Irene Tinagli. Scelta Civica propone di intervenire sulla riforma Fornero, pur definendola
«un primo importante passo nella direzione del superamento del dualismo del mercato del lavoro, tra chi ha ogni tutela e chi non ne ha alcuna». Tre le principali novità: la prima è un nuovo contratto a tempo indeterminato «che assorba le forme attuali di contratto precario: più flessibile, meno costoso ». Il contratto previsto dai montiani prevede quindi soltanto un piccolo indennizzo in caso di licenziamento nei primi due anni. «Terminato questo periodo, il contratto sarà irrobustito nell’offrire — in caso di licenziamento — anche un crescente complemento supplementare di disoccupazione». La seconda proposta riguarda gli esodati, per aiutarli a rientrare nel mondo del lavoro attraverso incentivi e agevolazioni. La terza proposta è sul lavoro femminile e prevede di «incentivare il congedo paterno. Senza introdurre alcun obbligo converrà economicamente far sì che padre e madre si assentino dal lavoro per un periodo molto simile». Qualcosa in più del giorno di obbligo parentale obbligatorio introdotto per i padri dal governo Monti.
Dallo staff del premier intanto trapela rammarico per la definizione di «cancro della democrazia» utilizzata da Bersani.
«Ci spiace che usi questa parola irrispettosa di chi è malato».

l’Unità 19.1.13
Numero chiuso per le carceri
di Luigi Manconi


Che le carceri italiane siano uno schifo, nessuno pare metterlo in dubbio. E che, tra le cause di quell’intollerabile situazione, sia determinante l’abnorme sovraffollamento, è constatazione pressoché unanime. Pertanto, impedire che altri patiscano la stessa condizione «inumana e degradante» non dovrebbe essere il provvedimento più naturale del mondo?
E stabilire una sorta di «numero chiuso» non dovrebbe costituire la misura più ovvia, oltre che sacrosanta? Eppure, una simile ragionevole ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione nel nostro Paese.
Così, mentre ampio sembra il consenso intorno alle strategie di lungo periodo (in primo luogo: riduzione del numero di atti e comportamenti qualificati come fattispecie penali e riduzione del numero delle fattispecie penali sanzionate col carcere), è assai più controversa la valutazione sulle misure da adottare nell’immediato: come l’amnistia e l’indulto e, appunto, «il numero chiuso». Si tratta di un ritardo dalle conseguenze gravissime. Tuttavia, grazie al cielo, qualcosa si muove e qualcuno si rimbocca le maniche.
È il caso di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano. Qualche giorno fa, Bruti Liberati ha ricordato come il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa abbia sollecitato «i procuratori e i giudici a ricorrere, nella misura più larga possibile, alle misure alternative alla detenzione»: e ciò «sia in tema di misure cautelari che in fase di esecuzione». Il procuratore è uomo saggio, e le sue parole sono assai importanti. Per questo sarebbe significativo sapere cosa egli pensi a proposito del numero chiuso. Ovvero il rilascio o la non ammissione in carcere di detenuti fino a quando non vi siano spazi adeguati a una reclusione che rispetti i loro diritti fondamentali. Non si tratta di questione campata in aria.
Nel 2009 una Corte federale della California, di fronte a due ricorsi di reclusi contro le condizioni di detenzione, ha intimato al governatore di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, altrimenti avrebbe potuto avvalersi del potere di rilascio individuale dei singoli ricorrenti. Ciò in ossequio all’ottavo emendamento della Costituzione statunitense, che vieta le pene crudeli. La Corte federale ha fatto riferimento alle parole dello stesso governatore, che aveva riconosciuto come il sovraffollamento potesse causare gravi violazioni del diritto alla salute. Da qui un provvedimento che stabiliva un tetto al numero di reclusi. Nel 2011, la Corte suprema degli Stati Uniti, interpellata da un ricorso dello Stato della California, ha riconosciuto la correttezza della decisione di quella corte federale.
In quello stesso anno, la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sul ricorso di un detenuto contro la Corte di appello di Colonia, che gli aveva negato il sostegno economico necessario ad attivare un procedimento relativo alle condizioni di carcerazione cui era costretto. La Corte costituzionale ha richiamato una precedente sentenza della Corte federale di giustizia del 2010: in base a essa, se lo stato di reclusione è «disumano», una volta che soluzioni diverse si rivelassero improponibili, l’esecuzione di una pena detentiva deve essere interrotta. Questo, in virtù di un principio fondamentale, sancito sia dalla Corte federale sia dalla Corte costituzionale. Ovvero il valore della dignità della persona umana sempre e comunque: dunque anche in stato di privazione della libertà.
Perfettamente d’accordo, il giurista italiano Luigi Ferrajoli: «Il sovraffollamento contraddice due basilari principi della nostra Costituzione: quello secondo cui, come dice il 3° comma dell’art.27 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e quello della “pari dignità sociale” di tutti, stabilito dall’art.3. Contro una così clamorosa incostituzionalità c’è un solo, urgente rimedio: stabilire per legge il cosiddetto numero chiuso. I detenuti con pene o residui di pena detentiva di minore durata dovrebbero essere destinati, nel numero che eccede la capienza del nostro sistema penitenziario, a misure alternative, come la libertà vigilata o gli arresti domiciliari». Ben detto.

il Fatto 19.1.13
Vaticano: cercasi bancomat extracomunitario
di Marco Lillo


IL CAPO DELL’AUTORITÀ DI VIGILANZA TRATTA CON BANKITALIA SUL BLOCCO DEI POS E GUARDA ALL’ESTERO

La lettera che ha decretato la chiusura del bancomat in Vaticano porta la data del 6 dicembre 2012, ma da più di due anni la Santa Sede era informata dei problemi legali del bancomat della Deutsche Bank Spa. E almeno dal novembre 2011 la filiale della banca tedesca (soggetta alla vigilanza di Bankitala) sapeva di non essere in regola. Eppure nessuno aveva segnalato in tempo il pericolo al Segretario di Stato Tarcisio Bertone che non l’ha presa bene. Il direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani, è stato chiamato nei giorni scorsi a spiegare perché non siano state approntate valide alternative ai pos di Deutsche Bank.
L’IMPOSSIBILITÀ di accettare pagamenti con il bancomat ai musei vaticani e nella farmacia si sta rivelando un problema serio e in tutta fretta si sta correndo ai ripari. Giovedì scorso il direttore dell’Aif, l’Autorità di Informazione Finanziaria del Vaticano, René Brulhart, ha incontrato in via Nazionale i vertici dell’Area vigilanza della Banca d’Italia. La riunione istituzionale era fissata da tempo ma ovviamente buona parte dell’incontro è stato dedicato all’emergenza bancomat. Brulhart giocava fuori casa: l’esperto antiriciclaggio a novembre ha soppiantato la vecchia guardia dell’Aif, capeggiata dall’ex funzionario di Bankitalia Marcello Condemi, ispiratore della linea più rigorosa poi sconfessata da Bertone. Brulhart in Vaticano non è passato inosservato, sia per l’aspetto da attore di fiction che per la sua indubbia competenza. Nato in Svizzera a Friburgo 40 anni fa è stato descritto generosamente sui giornali italiani come un cacciatore di patrimoni dei dittatori, a partire da Saddam Hussein. Il suo bell’aspetto e l’abilità nei rapporti con la stampa (si è fatto fotografare abbronzato con le sue Alpi sullo sfondo) ha fatto dimenticare che l’Autorità da lui diretta per anni non è quella di un paese come l’Italia ma quella di un paradiso fiscale come il Liechtenstein.
Il suo sponsor in Vaticano è stato monsignor Ettore Balestrero, il 46enne sottosegretario ai rapporti con gli stati esteri.
Nonostante le sue arti diplomatiche, Brulhart non ha smosso i vertici dell’Area Vigilanza di via Nazionale dalle posizioni sostenute nel provvedimento del 16 dicembre. Leggendolo si scopre che il blocco dei pagamenti pos ha poco a che vedere con l’indagine della Procura di Roma, come sostenuto dalla stampa italiana. Il provvedimento ripercorre la storia dall’inizio: “A conclusione dell'ispezione di vigilanza condotta fra il 24 maggio e il 10 ottobre 2010 è stato contestato a Deutsche Bank Spa di prestare servizi di pagamento mediante apparecchiature Pos installate nello Stato della Città del Vaticano in assenza dell’autorizzazione ex articolo 16, comma 2, Testo Unico”. Dopo un carteggio con Deutsche, Bankitalia ha confermato all’istituto tedesco il 15 novembre del 2011 che “l’offerta di servizi di pagamento tramite Pos nello stato extra-comunitario (il Vaticano, ndr) costituisce una prestazione di servizi senza stabilimento all'estero”. Quindi soggetta ad autorizzazione, che però non era mai stata chiesta. In pratica da venti anni la Deutsche bank aveva un bancomat senza permesso. “La banca”, prosegue il provvedimento, “ha presentato il 18 maggio 2012, istanza di autorizzazione a sanatoria per lo svolgimento dell'attività di ‘convenzionamento’ degli esercizi commerciali”. E la risposta è stata picche. “Con lettera del 10 settembre 2012 Banca d'Italia ha comunicato all’intermediario che l’istanza relativa allo svolgimento di servizi di pagamento tramite Pos nello Stato della Città del Vaticano non era suscettibile di accoglimento”.
LA MOTIVAZIONE è una bocciatura del sistema antiriciclaggio e di vigilanza del Vaticano: “Mancando dei presupposti per il rilascio dell'autorizzazione relativamente all'adeguatezza della legislazione e del sistema di vigilanza, anche in materia di antiriciclaggio dello stato extracomunitario”. Ora il Vaticano può impugnare il provvedimento al Tar ma intanto deve risolvere il problema operativo subito. La soluzione è stata individuata in una banca extra Ue, quindi non soggetta alla vigilanza di Bankitalia. La Segreteria di Stato sta esaminando le offerte. In lizza ci sono una banca svizzera e un istituto americano. Presto i bancomat del Vaticano ricominceranno a strisciare lontano dagli occhi della Banca d’Italia.

La Stampa 19.1.13
Rapporto choc dei Nas. Inutile un cesareo su due
L’ipotesi: scelte mediche ingiustificate per ottenere rimborsi più alti
Per i parti naturali gli ospedali ricevono 1100 euro in meno
di Paolo Russo


La regione con la percentuale più alta di parti cesarei è la Puglia

Quasi un bambino su due poteva nascere con un parto naturale anziché con il cesareo, esponendo a meno pericoli tanto la salute della donna che quella del piccolo. Che in Italia nelle sale parto si faccia ricorso al bisturi molto più che nel resto d’Europa era cosa nota ma l’indagine condotta dal Ministero della salute con i Carabinieri dei Nas dimostra che il 43% dei cesarei sarebbero ingiustificati. Percentuale riferita a quelli eseguiti per via del feto in posizione non corretta e dunque destinata a salire perché il dicastero ha annunciato di voler presto passare al setaccio anche i cesarei motivati da «sofferenza fetale».
Intanto nel mirino sono finite le troppe diagnosi di posizione anomala del feto, condizione che rende consigliabile il cesareo. Un fenomeno che interessa soprattutto la Campania e, con un certo distacco, anche Lazio, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. Del resto già il Piano nazionale esiti dello stesso ministero aveva rilevato differenze assolutamente ingiustificabili, con percentuali di cesarei che vanno da punte superiori al 90% in case di cura come la «Mater Dei» di Roma, per precipitare al 4% dell’ospedale «Vittorio Emanuele III» di Carate Brianza. Da qui la decisione del Ministro Balduzzi di inviare i Nas, tanto negli ospedali pubblici che nelle cliniche private convenzionate. I carabinieri sono andati a spulciare 1.117 cartelle cliniche di strutture sparse un po’ in tutta Italia e in quasi una su due non si è trovata la documentazione clinica che confermasse quella anomalia della posizione del feto segnalata invece nella cartella di dimissione ospedaliera.
«Un falso in atto pubblico», denuncia il Comandante generale dei Nas, Cosimo Piccino, preannunciando l’invio della cartelle cliniche sospette alle singole procure per ipotesi di reato che, oltre al falso, contemplano anche quelle di lesioni personali gravi o gravissime e di truffa ai danni del Servizio sanitario pubblico. «Il ricorso inappropriato al cesareo incide pesantemente sulla salute delle donne e forse anche dei neonati», mette in guardia Balduzzi. La nota del ministero diffusa ieri parla chiaro: rispetto al parto naturale il cesareo triplica il rischio di decesso a causa delle possibili complicanze anestesiologiche, la possibilità di subire lesioni è ben 37 volte maggiore e l’eventualità di incorrere nella rottura dell’utero in una successiva gravidanza cresce di 43 volte. E poi quasi sempre quando si ricorre al bisturi la prima volta si continua a farlo anche in seguito.
Sul sospetto reato di truffa parlano i numeri. Ad oggi un parto cesareo viene rimborsato 2.458 euro contro i 1.319 di quello naturale. «Se verrà dimostrato che il 43% dei cesarei è inappropriato significherà che il servizio sanitario ha sprecato 80-85 milioni», lamenta il ministro. Che infatti ha già deciso di ridurre a 2.092 euro il rimborso del cesareo nel nuovo tariffario ospedaliero che a giorni approderà in Gazzetta Ufficiale. Ma dietro il boom del bisturi in sala parto c’è un altro fattore economico, secondo gli esperti del ministero, che incide e parecchio. Quello dei ginecologi che seguono le partorienti privatamente e che con il cesareo possono programmare la loro presenza in sala operatoria, contribuendo così a giustificare la parcella. Anche a costo di far correre qualche rischio di troppo a donna e neonato.

La Stampa 19.1.13
La clinica di Roma
“Troppi interventi? Le assicurazioni pagano di più”
di Pa. Ru.


Parioli, quartiere alto borghese della Capitale. Qui c’è la clinica «Mater Dei» che detiene il record nazionale dei parti cesarei. Quasi il 92%, dicono le statistiche del Piano esiti del ministero della salute, che misura le performance di ospedali pubblici e case di cura private. Qui è sempre stato considerato «chic» partorire tra le donne della Roma che conta e sempre qui Severino Antinori, che ha lo studio praticamente di fronte, indirizza le proprie pazienti, così come altri ginecologi che come lui praticano la fecondazione assistita. Per assicurare la gioia della maternità a donne che a volte superano la soglia degli «anta». Un business, quello del cesareo, che rende bene: circa settemila euro a parto. Il triplo delle tariffe rimborsate alle strutture del Servizio sanitario nazionale.
«Qui arrivano quasi esclusivamente donne che hanno già deciso di ricorrere al cesareo e che pagano di tasca propria», spiega il Dottor X, un medico che lavorando in clinica chiede l’anonimato. «Del resto – prosegue - l’età media delle partorienti è intorno ai 40 anni e a quell’età è sconsigliabile il parto naturale». In realtà nelle linee guida emanate a gennaio dall’Istituto superiore di sanità di limiti di età che giustifichino il ricorso al cesareo non c’è traccia e il responsabile del «Piano esiti» del ministero, Carlo Perucci, tiene a specificare che quel 91,9% della clinica romana «è un dato che tiene già conto dell’età media delle partorienti».
Ma è un fatto che alla Mater Dei il parto naturale è un evento. Anche perché chi viene qui a partorire è il più delle volte assicurato e, come spiega sempre Dottor X, «paradossalmente le assicurazioni rimborsano al 100% il parto cesareo, equiparato a tutti gli effetti a un intervento chirurgico e coprono solo il 30% di quelli naturali». Un vantaggio garantito soprattutto se il cesareo viene classificato dai medici come «urgente».
E se l’emergenza c’è davvero? «Quando sono venuta qui per la prima gravidanza difficile – racconta Anna (il nome è di fantasia) - c’era un ambulanza pronta a trasportarmi in un ospedale attrezzato ad affrontare problemi più gravi». Proprio quegli ospedali dove «non fa chic» partorire.

l’Unità 19.1.13
L’iniziativa in rete
No al femminicidio, gli studenti «ci mettono la faccia»


La Rete degli Studenti e l’Unione degli Universitari ha unito le forze per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla delicata questione della violenza femminile, la campagna è diventata un hashtgag e adesso viaggia veloce in tutta Italia.
L’idea è partita dal Veneto ma nel giro di pochi giorni ha incontrato l’adesione di giovani e di personalità celebri. Su Facebook la pagina ufficiale «Femminicidio: mettici la faccia» conta già migliaia di «mi piace» mentre l#iocimettolafaccia è stato tra gli hashtag più usati nei giorni passati. «Una campagna nata per lanciare un segnale forte non solo sociale, ma anche politico e culturale, contro la violenza sulle donne e contro tutte le violenze: un problema che sempre più coinvolge la società civile e che, ancora, non trova soluzione. Si tratta di donne, nostre madri, amiche, sorelle e compagne di scuola» Le adesioni, e le foto, sono già migliaia. E non mancano volti noti della cultura e dello spettacolo. Tra gli altri: don Andrea Gallo, don Luigi Ciotti, Stefano Fassina, Laura Puppato, Giuliano Giuliani, Marina Terragni, il cantante de Il Teatro Degli Orrori Pierpaolo Capovilla, Flavio Lotti, Claudio Bisio e il sottosegretario Marco Rossi Doria.

Corriere 19.1.13
Uomini che uccidono le donne. Una bacheca mette online i volti
Facce normali, rassicuranti, che tutte insieme diventano terribili
di Gian Antonio Stella


È un pugno allo stomaco il mucchio selvaggio di foto di mariti, fidanzati, conviventi, padri che hanno ammazzato la «loro» donna. Di bacheche zeppe di madri, figlie, fidanzate, amanti assassinate ne avevamo viste tante, in questi mesi. Ma mai una tale carrellata di assassini. Facce banali. Facce normali. Facce serene. Facce spesso «rassicuranti». E proprio per questo, messe tutte insieme, terribili.
La bacheca delle vittime e dei «sicari domestici», che si propone di diventare la banca dati per tutte le donne che si battono contro la violenza e per chi se ne occupa per i più diversi motivi professionali, dai poliziotti ai cronisti alle associazioni, è da oggi online. Si chiama inquantodonna.it ed è stata costruita giorno dopo giorno da Emanuela Valente, che per mesi ha raccolto nomi, foto, storie, documenti processuali, link di articoli, telegiornali, trasmissioni televisive per raccogliere la documentazione più ampia possibile intorno al cosiddetto «femminicidio».
Non ci sono tutte, chiariamo subito, le donne assassinate negli ultimi anni. Proprio perché la curatrice, che via via sta aggiornando l'elenco coi nomi e le storie anche delle vittime di cui non esistono le fotografie, non ha voluto mischiare tutti i casi insieme: «Se una poveretta è stata uccisa in una rapina in banca o per aver litigato su un prestito, ad esempio, ho preferito lasciar perdere. E questo per sottolineare quante siano le donne uccise proprio "in quanto donna". A causa di un "amore" malato, patologico, delirante. Meglio: a causa dell'idea di "possesso" che avevano i loro assassini».
Spiega il sociologo Marzio Barbagli, che forse meglio di tutti ha studiato la storia della criminalità in Italia, che «in realtà non è che oggi siano uccise più donne rispetto a una volta». Se ogni 100 mila abitanti venivano assassinate 3,4 donne nel 1865, la quota già dimezzata a 1,7 nel 1991 (l'anno più violento degli ultimi decenni) è calata nel 2007, ultimo anno di riferimento statistico, a 1,4: un terzo circa rispetto a un secolo e mezzo fa. Mentre in parallelo il tasso di maschi ammazzati scendeva in modo ancora più vistoso di quasi sei volte: da 20 omicidi ogni 100 mila cittadini subito dopo l'Unità a 3,6 oggi. «Quella che è cambiata però, grazie a Dio, è la percezione della gravità del fenomeno», insiste il criminologo, «insomma, l'omicidio di una donna massacrata "in quanto donna" ci sembra ogni giorno più insopportabile».
Giovanissime e anziane, poco vistose e bellissime, povere e benestanti, remissive o toste, orgogliose o rinunciatarie: erano una diversa dall'altra, le donne assassinate. Facevano le professoresse e le infermiere, le casalinghe e le operaie, le studentesse o le pensionate. E toglie il fiato scorrere quelle immagini di una quotidianità brutalmente interrotta: Elena con un vaso di fiori, Maria Silvana con lo zainetto in montagna, Giulia col vestito da sposa, Anna con un cappellino di paglia, Ilaria che brinda con un calice di prosecco, Lia che coccola il figlioletto nella culla... E fermano il fiato le didascalie che sintetizzano le tragedie da approfondire con un clic: «Emiliana Femiano, 25 anni, estetista. Massacrata con un numero indefinibile di coltellate (almeno 66 di cui 20 al cuore) dall'ex fidanzato che già l'aveva accoltellata un anno prima». «Mirella La Palombara, 43 anni, operaia. Uccisa con dodici colpi di pistola dal marito». «Alice Acquarone, 46 anni, dipendente di una mensa scolastica, mamma. Uccisa dal compagno che le ha fracassato il cranio con una chiave inglese, ha poi avvolto il corpo in un tappeto e lo ha gettato nel cortile condominiale».
Più ancora, però, se possibile, gela il sangue scorrere le foto dei tantissimi «lui». E se qualcosa nei nostri pensieri è rimasto impigliato degli studi di Cesare Lombroso intorno a certe facce che si distinguono «per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso deviato molto verso destra, le orecchie ad ansa» o certi «uomini bruti che barbugliano e grugniscono», la panoramica del nuovo sito web mostra tutta un'altra categoria di assassini della porta accanto. E se esistono rare facce che ti farebbero cambiar marciapiede la sera, in gran parte quegli omicidi rappresentano in pieno la banalità del male. La ferocia che si nasconde dentro esistenze apparentemente anonime. «Strano, era tanto bravo ragazzo...». «Mai dato problemi sul lavoro...». «Sempre così gentile, così educato...».
Alcuni, come Salvatore Parolisi (il marito assassino di Melania Rea) o Mario Albanese (il camionista che un anno fa uccise a Brescia l'ex moglie Francesca, il suo compagno, una figlia e il suo fidanzatino) son finiti sulle prime pagine. Altri hanno avuto qualche titolino qua e là. Quello che li accomuna, accusa Emanuela Valente, è la volontà di affermare il «dominio» sulla donna assassinata. E spesso l'aver beneficiato di una certa «indulgenza» giudiziaria.
Come «Ruggero Jucker detto Poppy, 36 anni, rampollo della Milano bene, Re della zuppa. Fa a pezzi la fidanzata con un coltello da sushi e lancia pezzi in giardino. Condannato a 30 anni in primo grado, pena patteggiata in appello e scesa a 16 poi ulteriormente ridotta a 13. Ha già usufruito di 720 giorni di libertà come permessi premio e sarà libero nel giugno 2013». O l'impiegato palermitano Renato Di Felice che qualche anno fa uccise la moglie Maria Concetta Pitasi, una ginecologa, durante l'ennesima lite davanti alla figlia. Non aveva mai avuto grane con la giustizia, era descritto come un uomo mite sottoposto dalla consorte a piccole angherie quotidiane, era difeso dalla figlia: «Non ne potevamo più». Dopo due giorni, in attesa del processo, fu mandato a casa perché «non socialmente pericoloso». Mesi in cella dopo la condanna: dieci.
Per non dire di certi recidivi. «Emiliano Santangelo appena esce dal carcere uccide la ragazza che lo aveva fatto condannare per violenza sessuale. Quando Paolo Chieco — condannato a 12 anni e 6 mesi poi ridotti a 8 anni e 4 mesi per il tentato omicidio della convivente Anna Rosa Fontana — ottiene i domiciliari, a 300 metri di distanza dalla casa di Anna Rosa, finisce di ucciderla. E lo stesso fa Luigi Faccetti: condannato a 8 anni per il tentato omicidio della fidanzata, dopo appena 10 mesi ottiene i domiciliari e la uccide con 66 coltellate: 52 in più rispetto alla prima volta». Quasi tutte le donne uccise, accusa la curatrice del sito, avevano subito già minacce e violenze, ma la maggior parte di loro non le aveva denunciate: «Quelle che l'hanno fatto, però, non hanno ricevuto alcuna protezione. Lisa Puzzoli, Silvia Mantovani, Patrizia Maccarini e molte altre sono state uccise dopo aver denunciato chi le minacciava, dopo aver chiesto ripetutamente aiuto. Monica Da Boit ha chiamato il 113, terrorizzata, poche ore prima di essere uccisa ma la pattuglia non è intervenuta. Sonia Balconi è morta per un "guasto elettrico al sistema informatico" che aveva fatto dimenticare le sue denunce...».

Corriere 19.1.13
Un altro (piccolo) balzo. Riparte l'economia cinese
Inversione di tendenza nell'ultimo trimestre del 2012
Il Paese torna a crescere, ma la forza lavoro è ai minimi
di Paolo Salom


PECHINO — Il piccolo balzo in avanti. La Cina chiude il 2012 con una crescita media del Prodotto interno lordo (Pil) del 7,8%, un risultato che riporta le lancette dell'economia indietro di 13 anni. E tuttavia ci sono ragioni di ottimismo. Perché, spiega l'Ufficio nazionale di statistica nel suo rapporto annuale, l'ultimo trimestre ha visto una crescita del 7,9% quando a metà anno gli indici avevano segnato un timido 7,4% con timori per il futuro (e un obiettivo ufficiale fissato al 7,5%: nel 2011 la crescita era stata del 9,3%). «La nostra economia si sta stabilizzando», fa sapere il direttore dell'Ufficio Ma Jiantang. Buone notizie, insomma, almeno sul fronte orientale. Tali da infondere ottimismo alle diverse Borse asiatiche che si sono trovate in terreno positivo soprattutto sull'onda delle novità in arrivo da Pechino.
Sempre secondo le statistiche ufficiali, questa inversione di tendenza negli ultimi tre mesi è dovuta soprattutto a due fenomeni. Da una parte i rinnovati, massicci investimenti del governo centrale nelle infrastrutture (ferrovie, strade, metropolitane) e dall'altra una politica monetaria più «indulgente» hanno favorito la ripresa di attività e consumi, spingendo verso l'alto gli indici.
E questo nonostante, per la prima volta nella sua Storia recente, la Cina abbia visto una contrazione della sua forza lavoro, dovuta ovviamente alla ultradecennale politica sul figlio unico: i cinesi compresi nella fascia di età tra i 15 e i 59 anni, infatti, sono diminuiti di 3,45 milioni, portando il totale a 937,37 milioni. Ciononostante, gli occupati (per via della migrazione interna) sono complessivamente aumentati così come i consumi interni, per quanto i bassi redditi medi dei cinesi non abbiano consentito di bilanciare del tutto il calo delle esportazioni dovuto alla crisi in corso in gran parte del mondo.
Naturalmente non mancano i timori: c'è chi esprime dubbi sulla tenuta dell'economia cinese nel lungo periodo. In particolare si pensa a una possibile bolla immobiliare o a una crisi a livello locale visto che il governo centrale ha posto limiti alla possibilità delle province di indebitarsi pur di completare il piano di crescita assegnato. Un altro problema è quello della disparità di reddito, per quanto — secondo i numeri ufficiali presentati in conferenza stampa da Ma Jiantang — il coefficiente Gini (inventato dallo studioso italiano Corrado Gini) è sceso a 0,474 dallo 0,477 del 2011 (il numero è compreso tra 0 e 1 e, quanto più si avvicina allo zero, tanto più indica armonia: l'obbiettivo per la Cina è 0,4).
Il tasto della disparità è molto sentito. È la prima volta in dieci anni che vengono forniti dati «ufficiali» che in parte contraddicono una percezione reale delle disparità da parte della popolazione, così come è riportata dai media del Paese. Ma avvicinandosi il cambio al vertice dello Stato — a marzo Hu Jintao dovrebbe passare a Xi Jinping l'ultima carica rimasta, quella di presidente, mentre Li Keqiang dovrebbe prendere il posto di Wen Jiabao a capo del governo — la Cina ha bisogno di stabilità e «pace sociale». Condizioni che soltanto una crescita sostenuta ma «non eccessiva» può garantire perché capace di raffreddare l'inflazione, vera nemica dei redditi medio-bassi. «I leader cinesi — ha detto Zhang Zhiwei, economista della Nomura, al Wall Street Journal — si concentreranno proprio sul controllo dei rischi di una finanza facile e sull'inflazione piuttosto che spingere ancor di più l'acceleratore dell'economia». Zhang si aspetta che il Pil della Repubblica Popolare cresca dell'8% nella prima metà del 2013 per poi attestarsi al 7,3 nella seconda metà dell'anno. Numeri quasi modesti per la Cina, e tuttavia adatti a mantenere stabile il Paese. Numeri comunque che per noi, in Occidente, restano un sogno.

l’Unità 19.1.13
L’Europa infelice
Il Nobel Amartya Sen: «Troppa austerità Non c’è spazio per crescita e sviluppo»
Ospite del Festival delle Scienze a Roma, quest’anno dedicato al tema della felicità, il docente spiega la sua vicinanza con il pensiero di Gramsci e con la sua filosofia spontanea. «Economia sociale e di mercato sono complementari»
di Bianca Di Giovanni


DEVE APPARIRE UN CONTINENTE DAVVERO INFELICE, L’EUROPA DI OGGI, AGLI OCCHI DI AMARTYA SEN. OSPITE DEL FESTIVAL DELLE SCIENZE (IN CORSO ALL’AUDITORIUM DI ROMA) dedicato quest’anno al tema della felicità, il premio Nobel dell’economia nel 1998 concentra tutta la sua attenzione sulla nostra parte di mondo. Usa termini inequivocabili: il «pasticcio», di più, il «disastro», il cammino «sbagliato» dell’Europa. Un percorso perseguito con cieca ostinazione, trasformandosi, secondo Sen, nella negazione della scienza economica. «L’economia insegna che se provi una cosa, e non funziona, la riprovi e ancora non funziona, allora devi imparare qualcosa e non continuare». Lo hanno fatto gli Stati Uniti negli anni 30, lo ha fatto il Giappone. Invece l’Europa non si ferma sulla strada dell’austerità che mette a rischio la sua storia, fatta di welfare state, la sua democrazia, inibìta da decisioni prese senza confronto pubblico, e infine il principio stesso di solidarietà su cui si fondava l’idea dell’unione nel manifesto di Ventotene.
Oggi «i tedeschi odiano i greci e viceversa», osserva il premio Nobel. Tutto questo a causa del rigore che oggi si confonde e si coniuga con le riforme. Qui sta l’errore. «L’austerità è una cosa, le riforme un’altra spiega -. L’Europa ha certamente bisogno di riforme, quella delle pensioni, quella dell’imposizione sui redditi. Ma non ha bisogno di austerità». Su questo punto, purtroppo, manca ancora un pensiero politico ragionato, una proposta alternativa riconoscibile.
Nell’incontro con la stampa che precede la lectio magistralis anticipa che la sua teoria della felicità è antitetica a quella di Jeremy Bentham e alla schiera dei suoi allievi. L’approccio degli utilitaristi è «ristretto, limitato, formale». Il tema è ben più complesso e articolato della lotta per i diritti che caratterizzò il pensiero degli utilitaristi. E molto, molto più ampio. «Più che a Bentham spiega Sen la mia ispirazione si rifà a Antonio Gramsci e alla sua filosofia spontanea» Difficile tracciare una differenza tra felicità di destra o di sinistra. «Molto dipende dalla definizione che si dà, che fin dai tempi antichi è stata molto fluida continua Sen Per esempio per Aristotele la felicità è ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».
All’interno di questa vasta gamma di attributi, può essere compresa la libertà umana. «E la disoccupazione, ad esempio è un fattore della libertà aggiunge pertanto economia e felicità sono collegate. Io affermo ad esempio che l’Europa è infelice a causa dell’economia. Diverso è quando affermo che l’Europa sbaglia, perché in questo caso do un giudizio personale». Ma quella distinzione tra felicità per la destra e per la sinistra esiste eccome. E risiede nelle priorità di ciascuna parte. «La sinistra ha sempre fatto più attenzione alle diseguaglianze e all’equità spiega ancora l’economista La destra in passato alla proprietà, oggi alla libertà. Io mi colloco sicuramente a sinistra, ma non per questo non credo che il tema della libertà non sia importante. Non c’è conflitto, ma restano valide le distinzioni, soprattutto sul ruolo dello Stato. È noto che la destra è sempre stata ostile all’intervento dello Stato nell’economia. Io credo che oggi ci sia bisogno di studiare attentamente questi due programmi. E trovo deprimente che nel Paese natale di Gramsci non  si veda un’agenda di sinistra ben riconoscibile». Poi il pensiero torna ai mali d’Europa, di cui aveva scritto nel 2011, poi nel 2012 e oggi le cose non sono cambiate. Il baratro in cui l’Europa si ritrova lo raccontano due telefonate, ricevute da Sen la stessa mattina. La prima dall’India. «Ha visto professore lo scenario deprimente dell’economia indiana, che quest’anno cresce solo del 6%?», gli chiede il giornalista. «Evidentemente prima cresceva di più», osserva Sen. Seconda chiamata da Parigi: «L’economia europea quest’anno è a zero, non le sembra che dobbiamo rallegrarci?» «Se questa è la domanda continua Sen l’Europa ha un problema». L’austerità sta danneggiando i Paesi periferici, ma oggi anche la Germania, che non riesce più a mantenere l’export se gli altri si impoveriscono. Berlino sta subendo un poderoso effetto boomerang, perché «le politiche deflazionistiche danneggiano non solo la domanda interna, ma anche quella estera. Lo sa l’Italia, ma lo sa bene anche la Gran Bretagna, che non aveva alcun bisogno di austerità». Quello che manca per fronteggiare questo disastro è una voce politica ragionata contro «quello che sembra essere un consenso tra i leader sulla politica finanziaria. Se fossi impegnato immagina Sen direi che occorre una dichiarazione congiunta paneuropea, dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda, dall’Italia, insomma di tutti. Ma per ora non la vedo. Occorrerebbe una visione che contrasti questi problemi, ma non c’è». La nuova visione economica è il leitmotiv da cui Sen non si allontana. Si irrita quasi con chi chiede se i tassi vanno abbassati, se l’euro è troppo forte. «Il problema non è qui. Potrei anche rispondere di sì, che i tassi vanno abbassati, e persino spiegarlo aggiunge Ma il disastro europeo non nasce qui, nasce dall’austerità». Vero è che il processo, secondo Sen, è nato male: per lui serviva prima l’integrazione politica e sociale, e solo dopo doveva arrivare la moneta. Si è fatto il contrario, ma l’euro comune senza politiche di bilancio integrate non fa altro che creare tensioni. Ma oggi sotto tiro c’è quel rigore che dimentica di coniugare l’economia di mercato al sociale. «Come diceva Adam Smith spiega il professore un mercato buono aumenta il reddito delle persone, una vita buona aumenta le entrate dello Stato per i servizi sociali e per la buona società. In questo economia di mercato e sociale sono complementari. Questa è in realtà la tradizione europea, quella che ha creato il servizio sanitario nazionale, che ha creato il welfare, e lo ha insegnato al resto del mondo. Ma oggi sembra tutto dimenticato».

l’Unità 19.1.13
Contraccezione e cattiva scienza
Il controllo delle nascite: una storia dolorosa sulla pelle delle donne
di Luca Landò


Nel libro di Carlo Flamigni presidente onorario dell’Aied il percorso travagliato
dei metodi per impedire il concepimento
Uno scontro tra posizioni etiche che ha sacrificato senza problemi generazioni di madri

CODE DI LUCERTOLE, MERCURIO E STERCO DI COCCODRILLO. SE PENSATE A HARRY POTTER SIETE FUORI STRADA: quelli che avete appena letto sono alcuni dei metodi usati dalle donne dell’antichità per non aver figli. Poco efficaci, come è facile intuire, ma ampiamente diffusi. Perché nel grande libro dell’umanità il controllo delle nascite occupa un capitolo molto ampio anche se poco conosciuto. Ce lo ha ricordato e spiegato Carlo Flamigni, ginecologo di fama internazionale e presidente onorario dell’Aied, nel suo bellissimo Storia della contraccezione uscito per Dalai Editore.
Come dice Flamigni, il controllo della fertilità, molto prima d’essere un problema tecnico, è una questione culturale. E come tutte le questioni culturali di amplissima portata anche questa è stata, ed è tuttora, accompagnata da grandi errori e robusti pregiudizi. Si è sempre pensato ad esempio che le donne dei tempi più antichi cercassero di avere il maggior numero di figli, spiegando che siccome la mortalità infantile era altissima, lo stimolo a procreare fosse molto intenso. È probabile che accadesse esattamente l’opposto e che in condizioni di scarsità di cibo l’arrivo di nuove bocche da sfamare venisse accolto come un problema più che una opportunità. Questo spiega come in mancanza di tecniche anticoncezionali efficaci, molto spesso le popolazioni primitive ricorressero all’abbandono o all’uccisione dei neonati. In molte società il destino dei figli era deciso, non dalla famiglia, ma dal capo del gruppo sociale o dai componenti più anziani che in base alla situazione del momento spostamenti, cibo, spazio a disposizione valutavano se la comunità poteva permettersi di mantenere i nuovi arrivati.
Fino a un paio di secoli fa, ricorda Flamigni, il parto rappresentava un momento cruciale, spesso pericoloso nella vita di una donna: «In un’epoca in cui le partorienti di bassa statura e quelle portatrici di bacini viziati morivano insieme al neonato, l’inizio di una gravidanza era vissuto da molte giovani come un annuncio di morte. D’altro canto è bene ricordare che fino alla metà del XIX secolo, nella clinica ostetrica della civilissima Vienna almeno un donna su dieci moriva di parto insieme al figlio».
Comparata alle altre, la nostra è sempre stata una specie poco fertile, ma il numero medio di figli per donna è diminuito con il passare dei secoli. Osservando gli scheletri femminili i paleo-patologi hanno stabilito che nel corso dei millenni il numero dei figli per madre è calato progressivamente: nel 2000 avanti Cristo le donne avevano in media cinque figli, mentre nella Roma imperiale il numero era sceso a 3,3. Sembra dunque che da almeno quattromila anni, forse prima, sia esistita qualche forma di controllo sulla crescita della popolazione. «È tuttavia probabile che questo controllo venisse affidato più all’infanticidio e all’aborto che alla contraccezione», spiega Flamigni. «Per migliaia di anni il concepimento è stato considerato un mistero insolubile, accompagnato, anzi rafforzato, da una ridda di ipotesi, miti e leggende che in alcuni casi resistono ancora oggi. Gli aborigeni australiani, che hanno mantenuto per secoli le stesse tradizioni culturali, sostengono tuttora che nel corpo delle donne abiti un piccolo bambino trasparente entrato in qualche modo durante il periodo dei giochi infantili: questo bambino, che di notte esce e va in giro, a volte viene trattenuto nel corpo della donna ed è a quel punto che, secondo gli aborigeni, inizia la gravidanza».
È chiaro che senza una chiara conoscenza dei meccanismi biologici i metodi per prevenire la fecondazione siano a lungo stati una miscela di superstizioni, magie ed empirico buon senso. In molte zone del Nord Africa esiste ancora oggi l’idea che i cadaveri abbiano un potere sterilizzante e che bere l’acqua utilizzata per lavare un corpo privo di vita renda una donna sterile. Ma i consigli anticoncezionali sono numerosissimi: mangiare un pezzo di favo contenente api morte o del pane con peli di mula bruciati e tritati; preparare misture contenenti bava di cammello o mangiare i baccelli della fave, uno per ogni anno di sterilità desiderata.
Nell’Africa centrale molte donne si imbottiscono la vagina con sassi o erba finemente triturata, con risultati spesso disastrosi, perché ostruendo l’uretra e ostacolando il retto si arriva spesso a provocare ritenzione di urina e feci. Nell’Ecuador le donne usavano una lavanda con una soluzione di succo di limone mescolato a un decotto di gusci di noce di mogano, un anticoncezionale usato successivamente dalle schiave nere della Guyana e della Martinica.
In Egitto il primo papiro che parla di anticoncezione risale al 1850 avanti Cristo e spiega nel dettaglio tre metodi: inserire in vagina una sostanza flessibile simile alla gomma in modo da ricoprire il collo dell’utero; utilizzare una miscela di miele e carbonato di sodio; polverizzare sterco secco di coccodrillo su una specie di pasta da inserire in fondo al canale vaginale. Le tre tecniche non erano prive di senso: miele, sostanze gommose e paste a base avevano tutte l’effetto di ridurre la motilità dello sperma. Lo sterco di animale aveva poi lo scopo di modificare l’acidità dell’ambiente vaginale, un po’ come viene fatto oggi con l’uso di spugne imbevute: è noto che il movimento degli spermatozoi viene arrestato in presenza di un ambiente acido e con pH inferiore a 6. Trecento anni più tardi, un secondo papiro (Papiro di Ebers del 1550 avanti Cristo) suggerisce di introdurre in vagina un tampone di garza imbevuto di miele e succo di acacia. La ricetta non sorprende: le foglie di acacia fermentando producono acido lattico considerato anche oggi un buon spermicida.
Nell’antica Cina la contraccezione veniva spesso mischiata con le pratiche abortive, come la ricetta che consigliava di assumere, a stomaco vuoto, mercurio cotto nell’olio. Nel Libro delle erbe, scritto 4000 anni fa, si consiglia di mangiare sedici code di lucertole cotte nel mercurio. Sempre in Cina, c’erano pratiche ispirate più all’autocontrollo che all’assunzione di sostanze. Le donne, ad esempio, venivano istruite a eseguire profondi respiri nel momento in cui il compagno raggiungeva l’orgasmo, contraendo nel frattempo i muscoli dell’addome e «pensando ad altro». Gli uomini dal canto loro potevano contare sul «coitus obstructus». La tecnica venne descritta nei dettagli nel VII secolo aC dal medico cinese Tung-hsuan. Secondo i medici cinesi, l’energia del seme maschile doveva essere trattenuta per consentire successivamente il concepimento di figli maschi.
Un capitolo importante, a volte devastante, nella storia della contraccezione è legato alle erbe.
Come la carota della morte (Daucus carota) dai noti effetti abortigeni ma usata a Roma nel primo secolo avanti Cristo come anticoncezionale, a dimostrazione di quanto anticoncezionali e abortigeni venissero spesso confusi tra loro. Gran parte della storia della contraccezione è stata scritta dagli erboristi e l’elenco delle erbe usate (spesso con effetti abortigeni) è lungo: melograna, artemisia, mentuccia, ruta, aloe, ginepro, mirra, cetriolo fino al tristemente noto prezzemolo.
Ci sono alcune cose che è bene sapere quando si va incontro alla contraccezione, dice Flamigni. La prima è che non esiste il metodo contraccettivo ideale, ma la scelta è sempre il risultato di una valutazione tra i costi e benefici. Il secondo è che non esiste un metodo valido per tutta la vita, al punto che sarebbe meglio parlare di un percorso contraccettivo fatto di scelte diverse legate a momenti diversi. La terza, che in un’epoca di scienza e ricerca le tecniche per il controllo delle nascite sono spesso avvolte da una fitta nebbia di pregiudizi e cattiva informazione. «Non c’è una sola ragione per affermare che la pillola del giorno dopo inibisca l’impianto dell’embrione dice Flamigni eppure questa spiegazione priva di ogni base scientifica viene ripetuta con grande facilità su giornali, tv e una parte del mondo politico».
Se in passato il controllo delle nascite era dettato dalle condizioni di vita, anzi di miseria, delle famiglie, oggi la scelta di avere o meno un figlio è un argomento delicato su cui forte è la pressione di convinzioni religiose e culturali. Non di rado i metodi per impedire la procreazione sono diventati il pretesto per uno scontro fra opposte posizioni etiche e giuridiche che divide tuttora la società. Peccato che in questa battaglia tra guelfi e ghibellini della bioetica la voce e i diritti delle donne giungano quasi sempre per ultimi. E qui arriva il quarto messaggio lanciato dal presidente dell’Aied: siamo davvero convinti, su questi temi, di aver abbandonato ignoranza e superstizione? Perché è vero che i roghi delle streghe sono stati aboliti, dice Flamigni, ma quando si parla di contraccezione c’è un’ombra medioevale che si allunga con sorprendente rapidità.
E fatica a scomparire.

Corriere 19.1.13
Buona politica in aiuto della scienza
Ricetta per un capitalismo migliore
di Emanuele Severino


Che cos'è oggi un «governo tecnico» in Europa — e, con qualche riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni, vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza scientifica, si propongono il benessere di quel popolo. Ma tale benessere non è lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa cattolica, il comunismo cinese, l'islam, ecc.: in generale, per le diverse concezioni culturali dell'«uomo» e del «bene». Appunto per questo, quando si produce un forte condizionamento politico dei partiti che sostengono un governo tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di competenza scientifica e di volontà politica e la competenza scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte hanno del benessere del popolo che esse intendono guidare.
Tale concetto non ha un carattere scientifico. L'azione politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la «politica» (l'azione politica) è un'«arte», avvolta quindi da quell'alone di arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto più lontana dalla coerenza scientifica quanto più accentuato è il contrasto delle forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la scienza ha un carattere puramente strumentale, il cui scopo non ha un valore scientificamente appurabile; ma è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al servizio della non-ragione, alla quale viene affidata la sorte del mondo. (Certo, si dovrà poi capire che cosa sta dietro la ragione scientifica).
Ma nei governi tecnici che agiscono nelle economie di mercato, il benessere del popolo, perseguito attraverso il condizionamento politico, è il benessere quale è inteso all'interno delle categorie della produzione capitalistica della ricchezza. In questa situazione, il capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo tecnico: la politica è un mezzo di cui il capitalismo si serve. Chi si propone ancora, nel mondo democratico, una economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le sinistre vogliono essere ormai lontanissime da ogni forma di marxismo o di economia pianificata. La contrapposizione tra destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore comune, è una lotta all'interno del sistema capitalistico. Parlare dunque di un condizionamento capitalistico dei governi tecnici e della politica sembra soltanto un'ovvietà. E lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di centro, destra, sinistra significa, innanzitutto, adottare correttamente e seriamente le regole dell'economia di mercato. Non è nulla di strano che il «riformismo» di Monti si rivolga a (quasi) tutte le formazioni politiche, facendo prender loro coscienza che (quasi) tutte, ormai, si muovono all'interno della logica capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui il capitalismo si serve per realizzare i propri scopi.
Senonché nemmeno il capitalismo è scienza. La scienza economica può sostenere che esso è la forma più efficace di produzione della ricchezza, ma all'essenza del capitalismo appartiene il rischio, l'azzardo, mentre la scienza è essenzialmente la volontà di evitare che le proprie leggi siano leggi a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del capitalismo, ha sostenuto che la sua crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la routine delle procedure tecno-scientifiche. D'altra parte, anche per il carattere rischioso del proprio agire, il capitalismo si sente autorizzato a porre come scopo primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento del capitale. Anche per il capitalismo si deve dunque affermare che esso, assumendo come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la scienza serva a realizzare la non-scienza, che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come «la ragione» per eccellenza) serva a realizzare la non-ragione.
Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente quando accade che la dimensione tecnica del potere sia condizionata non soltanto dall'economia capitalistica, ma anche, e magari fortemente, dalla dimensione religiosa, per esempio dalla Chiesa cattolica. In questo caso, l'intento è di tenere insieme capitalismo, politica e cattolicesimo (evitando le degenerazioni dell'agire economico e politico), servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica ulteriormente perché, mentre per il capitalismo lo scopo primario dell'agire economico e quindi del governo è l'incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto non deve essere il profitto, ma il «bene comune» quale è appunto concepito dalla dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa forma del «bene comune». Mezzo, e non scopo.
La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da tempo) che il capitalismo abbia come scopo il «bene comune» e non il profitto è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il capitalismo, assumendo come scopo primario il profitto, vuole, a volte non rendendosene conto, la distruzione della società cristiana. È un problema, questo, che non riguarda soltanto l'«agenda» Monti, ma tutte le presumibili coalizioni che governeranno l'Italia. (Quasi vent'anni fa, in un articolo sul Corriere poi incluso in Declino del capitalismo, Rizzoli, 1993, avevo preso in considerazione la proposta di Monti al Convegno di Cernobbio di quell'anno, di tenere insieme efficienza — capitalistica — e solidarietà — cristiana — e avevo mostrato le difficoltà a cui va incontro non solo tale proposta, ma ogni progetto politico che intenda conciliare democrazia, capitalismo, cristianesimo).
Dico questo, per rilevare come anche, ma non solo, in Italia si renda percepibile quella gigantesca trasformazione del mondo che è costituita dalla crisi del capitalismo (e del cristianesimo — e della politica). Un governo che assuma come scopo primario sia l'efficienza sia la solidarietà assume infatti uno scopo che non può essere né quello del capitalismo né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro fianco, in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove l'efficienza subordina a sé la solidarietà, servendosene, e la solidarietà, a sua volta, subordina a sé l'efficienza, servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in posizione paritaria sia l'efficienza capitalistica sia la solidarietà cristiana si illude, cioè si propone di realizzare una contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non abbia a realizzarsi, e magari con risultati soddisfacenti: significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori, instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò che crede di poter ottenere. Come di regola accade lungo il corso storico.
Comunque, sia illudendosi di unire efficienza capitalistica e solidarietà cristiana (e politica) sia evitando questa contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso dell'efficienza e della solidarietà e dunque della loro unione, proporsi come scopo tale unione servendosi delle competenze tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi ritenuta la più rigorosa della razionalità umana (la tecno-scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose di tale razionalità. Cioè la potenza di quell'agire è posta al sevizio della non potenza. E la potenza, la capacità di realizzare scopi, è insieme la ricchezza di un popolo.
Proporsi, come accade nell'«agenda Monti», di eliminare le degenerazioni della politica e dell'economia è però un passo avanti nella direzione lungo la quale si finisce col capire che le società diventano potenti e ricche non eliminando la «cattiva» politica e la «cattiva» economia, ma mettendo la buona politica e la buona economia (che anche risanate sono pur sempre forme meno rigorose dell'agire razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza — della tecnica il cui scopo è precisamente l'aumento indefinito della potenza.

Repubblica 19.1.13
Tutto lo humour del grande regista in un articolo sulle sue malattie immaginarie e sempre “mortali”
L’ipocondriaco
di Woody Allen


 “Una notte ho visto un segno sul collo e sono corso in un pronto soccorso. Mia moglie cercava di tranquillizzarmi. Pensavo di avere un melanoma, Era un succhiotto”

Confesso che il New York Times mi ha spiazzato quando mi ha chiesto di buttar giù due righe “da esperto” sull’ipocondria. Cosa mai potevo dire io su questo comportamento bizzarro quando, contrariamente a quanto si crede, non sono un ipocondriaco ma tutto un altro genere di svitato. Sono un allarmista, questo sì, che poi vuol dire essere in campo con gli ipocondriaci o, meglio forse, nello stesso pronto soccorso. Ma c’è una differenza fondamentale. I miei malanni non sono immaginari — sono reali.
La mia isteria si distingue nel senso che all’apparire di un minimo sintomo, ad esempio le labbra screpolate, subito salto alla conclusione che le labbra screpolate sono indice di un tumore al cervello. O forse di un cancro al polmone. Una volta ho pensato che potesse essere il morbo della Mucca Pazza. Il punto è che sono sempre convinto di avere una malattia mortale. Poco importa se quelli morti di labbra screpolate sono pochissimi. Qualunque doloretto mi porta ad andare dal medico per sentirmi dire che la mia ultima allergia non comporterà un trapianto di cuore o che a preoccuparmi è solo un’orticaria e che non è proprio possibile che un umano contragga la grafiosi dell’olmo.
Purtroppo mia moglie porta il peso di questi drammi patologici. Come quando mi sono svegliato alle tre del mattino con un segno sul collo che per me aveva chiaramente tutte le caratteristiche del melanoma. Che fosse in realtà un succhiotto è stato confermato solo più tardi in ospedale, dopo gran pianto e stridor di denti. Seduto ad un’ora assurda al pronto soccorso con mia moglie che cercava di tranquillizzarmi, stavo attraversando tutti e cinque gli stadi del dolore ed ero a “rifiuto” o “patteggiamento”, non lo so più, quando un giovane medico, scrutandomi con sguardo altero, mi ha detto sarcastico: «Il suo succhiotto è benigno».
Ma perché dovrei vivere sempre nel terrore? Sono uno che si cura moltissimo. Ho un personal trainer che mi ha portato a fare 50 flessioni al mese e, in combinazione con squat e addominali, ormai riesco a tirar su 45 chili col bilanciere solo con qualche minimo strappo alla parete gastrica. Non fumo, sto attento a mangiare, evitando accuratamente qualunque cibo sia fonte di piacere. (Fondamentalmente seguo la dieta mediterranea con olio d’oliva, noci, fichi e formaggio di capra, e a parte l’impulso ogni tanto ad andare in giro a vendere tappeti, direi che funziona). Oltre a fare tutte le analisi ogni anno mi faccio somministrare e iniettare ogni possibile vaccino, per essere immunizzato contro tutto, dal morbo di Whipple alla sindrome di Stendhal.
Quanto alle vitamine, le assumo ad ogni pasto e in genere riesco a prenderne un bel po’ prima che l’ultimo studio confermi che non servono a niente. Sulle medicine sono flessibile, ma prudente, perché se è vero che gli antibiotici uccidono i batteri, ho sempre paura che uccidano quelli buoni, per non parlare dei ferormoni, impedendomi poi di emanare vibrazioni sessuali negli ascensori affollati.
È anche vero che quando esco di casa per fare una passeggiata a Central Park o prendermi un latte macchiato da Starbucks potrei farmi fare un elettrocardiogramma veloce o una tac, così, per profilassi. Mia moglie dice che è stupido e che in fondo è solo questione di geni. I miei genitori sono arrivati tutti e due ben avanti con gli anni, ma si sono assolutamente rifiutati di trasmettermi i loro geni, perché erano convinti che un’eredità spesso sia una rovina.
Anche quando i risultati delle analisi sono perfetti, mi dite come faccio a rilassarmi sapendo che, nel momento stesso in cui esco dallo studio del medico, qualcosa può cominciare a crescere in me e nell’anno che manca al successivo checkup la mia lastra del torace somiglierà ad un quadro di Pollock? Tra parentesi questa incessante preoccupazione per la salute mi ha reso uno specialista dilettante. Non che azzecchi sempre tutto, ma quale medico non sbaglia mai? Ad esempio una volta ho convinto una donna che sentiva dei ronzii alle orecchie di essere vittima del batterio carnivoro, un’altra volta ho dichiarato morto un tizio che si era semplicemente appisolato su una poltrona.
Ma cos’è questa ossessione, questo senso di vulnerabilità? Quando mi impanico per sintomi che non richiedono altro che un’aspirina o un po’ di pomata di calendula, di che cosa ho paura in realtà? Di morire, direi a occhio e croce. Ho sempre avuto un terrore animale della morte, la cosa peggiore che mi possa capitare dopo l’essere costretto ad ascoltare un concerto rock. Mia moglie tenta di consolarmi riguardo alla mortalità e mi garantisce che la morte fa parte della vita e noi tutti moriamo, prima o poi. Stranamente queste rivelazioni sussurrate all’orecchio alle tre del mattino mi portano a saltare giù dal letto urlando, accendere tutte le luci di casa e a mettere su la marcia “Stelle e Strisce” a tutto volume fino a che non sorge il sole.
A volte immagino che la morte potrebbe risultarmi più tollerabile se mi spegnessi nel sonno, anche se in realtà non accetto di morire in nessuna forma, se non forse preso a calci da una coppia di sexy cameriere. Forse se fossi religioso, e non lo sono, anche se a volte mi viene da pensare che tutti potremmo essere parte di qualcosa di più grande, come nel marketing multilivello. Un grande filosofo spagnolo ha scritto che tutti gli esseri umani aspirano alla “eterna persistenza della coscienza”. Non è uno stato facile da mantenere, soprattutto se sei a cena con gente che non fa altro che parlare dei figli.
Eppure ci sono cose peggiori della morte. Molte le danno al cinema vicino casa vostra. Ad esempio non vorrei sopravvivere a un ictus e per il resto della vita parlare con la bocca storta come quelli che bisbigliano consigli sulle puntate all’ippodromo. Non vorrei neppure entrare in coma e stare in un letto d’ospedale ancora vivo, ma senza poter neppure strizzare gli occhi per far capire all’infermiera che guarda Fox News di cambiare canale. E poi chi me lo dice che l’infermiera non sia uno di quei pazzi angeli della morte che odiano veder soffrire le persone e che non mi riempia la flebo di benzina verde?
Peggio della morte è anche essere in terapia intensiva e ascoltare i miei cari discutere animatamente se staccare o meno la spina e sentire mia moglie dire: «Secondo me possiamo farlo, è già passato un quarto d’ora e stiamo facendo tardi a cena».
La mia massima angoscia è finire come un vegetale, qualunque vegetale, incluso il mais, che in circostanze più liete mi piace abbastanza. Ma è davvero così bello vivere in eterno? A volte in tv vedo servizi su certa gente alta che abita in zone di montagna piene di neve e nei villaggi tutti campano fino a 140 anni o su di lì. Ovviamente non mangiano altro che yogurt, e quando alla fine muoiono non vengono imbalsamati, ma pastorizzati. E non dimentichiamo che questa gente sana va sempre a piedi, perché vi sfido a trovare un taxi sull’Himalaya. Ma chi ha voglia di passare i suoi
giorni allo sprofondo, dove il massimo divertimento è vedere chi riesce a sollevare più in alto il bue a mani nude?
Riassumendo, esistono due gruppi ben distinti, gli ipocondriaci e gli allarmisti. Entrambi hanno i loro problemi e possono essere in qualche misura sovrapponibili, ma che uno sia ipocondriaco o allarmista, oggi come oggi è comunque meglio che essere repubblicano.
Traduzione di Emilia Benghi © and The New York Times Company All Rights Reserved This article originally appeared in “The New York Times”