l’Unità 14.12.13
Sindacati in piazza: «Vogliamo la svolta»
Sciopero nazionale dei lavoratori edili per il rinnovo del contrato di lavoro e
il rilancio del settore
di Luigina Venturelli
MILANO Dopo lo sciopero unitario di novembre, i sindacati tornano oggi in piazza contro la legge di Stabilità, con una serie di manifestazioni articolate a livello territoriale e un presidio a piazza Montecitorio a Roma a cui parteciperanno i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti.
La ragione alla base della nuova mobilitazione unitaria è sempre la stessa: al Paese serve «difendere e ridare futuro al lavoro», ma l’attuale legge di Stabilità in discussione in parlamento è considerata inadeguata, se non addirittura dannosa, dalle organizzazioni confederali.
E a modificare questo giudizio non basta l’approvazione del piano Destinazione Italia varato ieri dal Consiglio dei ministri, rispetto al quale il giudizio della Cgil risulta poco lusinghiero, se non sfavorevole. Certo, «contiene misure che possono aiutare, ma sicuramente non sufficienti per fronteggiare la crisi. È come voler curare l'infarto con l'aspirina» taglia corto il segretario confederale Fabrizio Solari. Sottolineando come «in questi ultimi anni il 10% del Paese che detiene il 50% della ricchezza non ha risentito della crisi, anzi in alcuni casi ne ha addirittura tratto vantaggio», mentre «gli effetti si sono scatenati sul restante 90%, fatto di giovani che non trovano lavoro, di lavoratori e pensionati che faticano ad arrivare alla fine del mese, di persone che si ritrovano disoccupate o in cassa integrazione, di imprese in difficoltà». Per questo l’unica vera leva a disposizione dell’esecutivo per uscire dalla recessione ed agganciare la ripresa è quella fiscale, «per togliere alle rendite improduttive e dare al lavoro». Non a caso, proprio ieri è stato lanciato un nuovo appello al Parlamento dai promotori della campagna 005 (una cinquantina di associazioni della società civile italiana, tra cui la Cgil) a sostegno di una tassa sulle transazioni finanziarie che recuperi risorse da destinare allo sviluppo sociale.
In fondo è questa l’unica vera richiesta che i tre sindacati confederali stanno avanzando al governo, «ridare risorse al lavoro». Che, a seconda delle categorie considerate, si declina nella rivalutazione delle pensioni, nella diminuzione delle pressione fiscale sulle buste paga, nella riapertura della contrattazione anche per i lavoratori pubblici, nel rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e nella ricerca di una soluzione di garanzia per tutti gli esodati. «E se questi obiettivi non verranno raggiunti» assicurano Cgil, Cisl e Uil, «la mobilitazione proseguirà».
Nel quadro della mobilitazione confederale, si muovono poi le singole ca-tegorie. A cominciare dagli edili e dagli addetti della logistica, che ieri hanno scioperato unitariamente per otto ore su tutto il territorio nazionale. Le costruzioni, in particolare, lamentano un contratto scaduto da un anno, per il cui rinnovo le trattative si sono interrotte lo scorso 21 novembre per «una palese irresponsabilità delle controparti» datoriali. Fillea Cgil, Filca Cisl, Feneal Uil chiedono poi misure di rilancio per «un settore strategico e di natura anticiclica», che ha bisogno di «rafforzare la qualità del lavoro, nel rispetto della sicurezza e dei diritti dei lavoratori» e non di imboccare la strada della competizione al ribasso e della sola riduzione dei costi e dei diritti.
E ieri hanno incrociato le braccia anche gli addetti delle cooperative della logistica, per la protesta proclamata da Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti a seguito della interruzione del dialogo con Confcooperative, Legacoop e Agci per l’adesione al contratto nazionale della logistica, del trasporto merci e delle spedizioni rinnovato ad agosto.
La Stampa 14.12.13
Sindacato in piazza contro crisi e forconi
di Marina Cassi
qui
il Fatto 14.12.13
Caos Sapienza
L’assalto degli studenti alla casta del rettore
I ragazzi in corteo dopo le cariche di giovedì: “Frati si dimetta”
Lui, sotto indagine per la nomina del figlio: “resto un altro anno”
di Luca De Carolis e Tommaso Rodano
C’è una nuova, grande scritta rossa ad accogliere il rettore della Sapienza all’ingresso dell’ateneo: “Frati vattene”. Gli studenti ieri l’hanno verniciata quasi dappertutto. Accanto alla porta del rettorato dove giovedì sono stati caricati dalla polizia, di fronte al dormitorio occupato di via De Lollis e su una delle fontane di marmo bianco all’entrata della città universitaria. “Erano diciassette anni che le forze dell’ordine non mettevano piede qui dentro - spiega uno dei ragazzi, Fabio - l’altro giorno il rettore li ha fatti entrare, permettendogli di colpirci alle spalle. Ora si assuma le sue responsabilità e se ne vada”. Giovedì gli studenti della Sapienza protestavano contro un convegno sulla green economy, al quale avrebbero dovuto partecipare anche Enrico Letta e il presidente della Repubblica (che hanno preferito rinunciare). Sono volate uova, fumogeni e bombe carta. L’intervento della polizia è stato tutt’altro che morbido. Durante le due cariche sono stati fermati due studenti, poi rilasciati con una denuncia a piede libero. Dopo gli scontri, gli universitari sono tornati a manifestare. Nella notte hanno occupato le facoltà di Scienze Politiche e Igiene. Ieri mattina si sono dati appuntamento a mezzogiorno, di fronte a Lettere. Un centinaio di ragazzi si è diretto verso l’Aula magna, mentre un’altra cinquantina ha occupato i corridoi del rettorato per alcune ore. Dopo un’assemblea congiunta, sono usciti di nuovo in corteo. Per tutto il percorso hanno scandito slogan contro Luigi Frati, chiedendone le dimissioni. Non solo per le cariche dell’altro ieri, ma soprattutto per la gestione del potere in cinque anni da rettore della più grande università d’Europa: “Se non se ne va da solo – scandiva un ragazzo al megafono – lo cacceremo noi”.
IL MAGNIFICO Frati, non fa una piega. L’ex preside di Medicina se ne rimarrà sulla sua poltrona, per il suo ultimo anno da rettore. In pensione come professore dal 1° novembre, rimarrà in carica sino al 31 ottobre 2014. “Rimango un altro anno perché lo prevede la legge Gelmini” dice Frati al Fatto, rivendicando: “Avevo diritto a una proroga di due anni, ma ho scelto la pensione per liberare risorse per colleghi più giovani”. Gli studenti lo accusano di aver chiamato la polizia. Ma lui nega: “Giovedì mi trovavo nell’aula della conferenza, da dove si sentivano botti e bombe carta: la polizia c’era già quando sono arrivato e avrà fatto opera di contenimento. Figuriamoci se ho dato ordine di caricare gli studenti, io stavo dentro”. Ma della protesta degli studenti che ne pensa? “Hanno mille ragioni, ma devono protestare in modo non violento”. Frati insomma tira dritto, nella Sapienza stipata dei suoi cari. La moglie, Luciana Rita Angeletti, insegna Storia della medicina, la figlia Paola, Medicina legale, proprio nell'ex facoltà del babbo. E sempre a Medicina insegna il cardiochirurgo Giacomo Frati, diventato professore associato a 31 anni, ora ordinario. Come raccontò Report, il figlio del rettore discusse la prova orale sui trapianti cardiaci davanti a una commissione composta da due professori di Igiene e tre odontoiatri. E proprio i rapporti familiari riemergono nelle carte giudiziarie. Pochi giorni fa, è arrivata la notizia della chiusura delle indagini (spesso il preludio al rinvio a giudizio) della Procura di Roma sul rettore. Secondo l’accusa dei pm Frati, assieme ad altre tre persone, avrebbe creato nel 2011 un’unità programmatica autonoma rispetto a Cardiochirurgia, mettendovi alla direzione il figlio Giacomo. Il rettore risponde così: “La notizia della chiusura delle indagini è assolutamente vera, ma io non sono stato mai interrogato. Quando verrò chiamato chiarirò tutto, non ho mai firmato nulla per mio figlio”.
il Fatto 14.12.13
Odissea Ateneo
"Io, fuori sede, senza un posto dove dormire"
Il viaggio del Fatto nelle Università. Ci vogliono le bombe carta e gli scontri con la polizia, come giovedì alla Sapienza di Roma, perché si torni a parlare dei guai degli atenei. Ma problemi di ordine pubblico a parte, in quali condizioni è l’istruzione? E come vivono gli studenti questa crisi infinita? Il nostro giornale vorrebbe rispondere a queste domande con un’inchiesta a puntate. Ma ha bisogno del vostro aiuto. Vi chiediamo di raccontarci le vostre storie, da tutto il Paese, su ilfattoquotidiano.it
il Fatto 14.12.13
Diritti negati
La Casa dello Studente occupata: è pronta da 10 mesi, ma non assegnano le stanze
di Beatrice Borromeo
“I posti ci stanno, perché non ce li danno? ”. Il cartellone di dieci metri, nero e arancione, è la prima cosa che vedi appesa al dormitorio De Lollis, a due passi dalla Sapienza. Ma i ragazzi che da tre settimane lo occupano, e che da molto più tempo cercano di denunciare lo “scandalo degli alloggi”, come lo chiamano loro, questa sera non hanno voglia di parlare. Alessandro e Federica, che giovedì mattina invitavano i giornalisti a “fare un giro dello studentato per vedere che è perfettamente agibile, eppure l’ente competente si rifiuta di assegnarlo a chi ne ha diritto”, solo qualche ora dopo perdono la voce. La perdono nelle cariche della celere, schivando le bombe carta. Gli studenti tornano al De Lollis a manciate, quando già è buio. Si calmano al ritmo di sigarette divorate e poi accartocciate nei fondi di bottiglie di plastica verdi. E si decidono, solo alla fine, a raccontare l’odissea dei fuori sede, perché “prova tu a studiare se non sai dove andrai a dormire”.
Nel piccolo mondo del De Lollis tutti gli occupanti hanno qualcosa in comune. Intanto, il diritto (su carta) di stare lì: “Ci siamo tutti conquistati una borsa di studio”. Poi il fatto di essere “idonei non vincitori”: cioè quelli a cui non è stato assegnato un alloggio, pur essendo in possesso dei requisiti di merito e di reddito previsti, per mancanza di disponibilità.
LA STANZA PROMESSA
Mogi e Dariush, 27 anni il primo, 20 appena compiuti il secondo, sono arrivati in Italia convinti di avere una stanza a disposizione. “Ci siamo conosciuti nell’aeroporto di Teheran e siamo andati insieme negli uffici di Laziodisu (l’ente per il diritto agli studi universitari nel Lazio, ndr) per recuperare le chiavi di casa. E lì abbiamo scoperto che di posti non ce n’erano più”. Mentre raccontano i loro primi tre mesi a Roma, Dariush apre la porta della camera occupata al terzo piano del De Lollis. All’entrata, il numero della stanza è scritto su un foglietto e attaccato al muro con lo scotch. Dentro, oltre a tre merendine su una mensola, manca tutto, anche il letto: “Ci dobbiamo ancora organizzare. Però abbiamo luce elettrica e un bagno grande”. Mogi, che alla Sapienza studia Comunicazione, è atterrato a Fiumicino con 3.000 euro in tasca. “Io ne avevo un po’ meno – dice Dariush, studente di Lingue – e non posso contare sulla mia famiglia. Sono semplici insegnanti, e per comprare un euro servono quasi quattro rial iraniani. Quando abbiamo saputo che non avevamo un posto per dormire siamo andati a cercarne uno in affitto, sapendo che avremmo potuto permettercelo solo per qualche mese”. E poi? “Poi per fortuna gli studenti del collettivo ci hanno accettati qui”. La camera in affitto, Dariush e Mogi la trovano nel quartiere Monte Sacro, a nord-est della Capitale: “500 euro al mese per una doppia”. Racconta Federica, tra le organizzatrici dell’occupazione al De Lollis: “Capita spesso che freghino gli stranieri, soprattutto se parlano male l’italiano. Che l’Ente li lasci soli è grave. Abbiamo quasi 90 mila studenti fuori sede a fronte di una disponibilità di appena 1500 alloggi pubblici. Siamo i soli in Europa a essere messi così male ”. Ed è per questo, raccontano, che il 19 novembre il collettivo ha occupato questa palazzina di cinque piani: “Doveva essere pronta lo scorso marzo. I lavori li hanno terminati ma non hanno i soldi per arredarla. Con questa scusa la tengono chiusa da mesi: ma noi preferiamo comprarci un materasso che pagare centinaia di euro di affitto”. Intanto, al piano terra, i ragazzi hanno organizzato un’aula studio e un piccolo ufficio stampa. Nelle stanze pensate per gli studenti disabili, e inutilizzabili per via di un gradino spesso qualche centimetro piazzato proprio all’entrata della camera (“per entrare con la carrozzella dovrebbero prendere la rincorsa”), dormono per ora le matricole. Il wi-fi se lo sono installati da soli: “Ogni giorno andiamo sul sito di Laziodisu per vedere se ci sono novità”, racconta Dariush. “Devo inserire il mio codice, 199, e sperare che mi assegnino un letto prima che il De Lollis venga sgomberato. In pratica io e Mogi dipendiamo da un computer”. Ma basta ascoltare gli altri studenti per capire che gli abusivi del De Lollis non sono, almeno per ora, quelli messi peggio. “I dormitori della Sapienza io li ho girati tutti. E non avete idea di cosa ho visto”, dice Alessandro.
LA FREGATURA DEI LAUREANDI
25 anni, di Lecce, Alessandro, a voce sempre bassa, racconta “la fregatura dei laureandi”. Tra i migliori del suo corso – studia Economia – A lessandro è riuscito a farsi assegnare un alloggio sin dal primo giorno di università: “Proprio adesso che sto per finire, nonostante io sia perfettamente nei tempi con gli esami e la tesi, l’Ente ha deciso che devo pagare 150 euro al mese. La mia camera è minuscola, il mio letto è attaccato a quello del mio compagno di stanza. Non abbiamo neanche la cucina: solo due fornelli, di cui uno rotto. Laviamo i piatti nel lavandino del bagno. E in più è vietato avere ospiti, anche se è tua madre”. Converrebbe quasi – sostiene Alessandro – affittare una stanza vicina all’università, pagando magari un po’ di più: “Almeno sarebbe una casa vera, dove se vuoi chiedere a tuo fratello di restare a cena, puoi farlo”. Prima di sbarcare al Mandrione (“i soldi me li dà mia madre, se non fosse per lei non potrei laurearmi”), Alessandro è stato costretto a cambiare alloggio all'inizio di ogni anno scolastico. “Ogni settembre ci sono i nuovi bandi”, racconta. Tra gli altri, è passato dallo studentato di Ponte di Nona (“è fuori dal raccordo anulare, ci vogliono quasi tre ore con i mezzi per arrivare all’ateneo”) e da quello di Valle Aurelia, che ospita 180 ragazzi: “Sembra un ospedale, con i suoi corridoi lunghissimi, il pavimento grigio, le porte blu elettrico. Non ci sono finestre. Gli unici spazi comuni sono le cucine. È un luogo demoralizzante, fa paura”. Ma il posto peggiore, giura Alessandro, resta il Civis, vicino allo stadio Olimpico (quindi lontano dall’università) dove ha vissuto per tre anni. 250 studenti per ogni ala, i bagni in comune – uno per corridoio – e gli scantinati che si allagano ogni volta che piove. “Ma il problema maggiore è quello della sicurezza – insiste lui – perché il palazzo è stato costruito negli anni Settanta e mai ristrutturato. Non ci sono nemmeno le uscite di emergenza. Infatti dicono che è inagibile, e che per questo non possono assegnare le stanze gratis agli aventi diritto. Sapete invece che cosa fanno? Le affittano. A prezzi di mercato”.
il Fatto 14.10.12
Certificazioni e trabocchetti
“Borsa di studio? In Italia è più facile averla se evadi”
di Emmanuele Lentini
CATERINA e Giulia non sono ricche, studiano a Roma da fuori sede ed entrambe hanno problemi con la borsa di studio: “I requisiti per percepirla dipendono dall’ateneo in cui ti iscrivi. Ma anche se hai le carte in regola, non è detto che alla fine tu riesca a ottenerla”, dicono all’unisono. È fondamentale l’Isee, l’Indicatore della situazione economica equivalente. Le dichiarazioni farlocche sono tante: due settimane fa, le Fiamme gialle hanno scoperto che a Roma il 62 per cento degli studenti fa il furbo quando si tratta di dichiarare il reddito. Così ragazzi che hanno il papà che gira con auto di lusso chiedono i sussidi destinati a chi realmente non riesce a sostenere tutte le spese universitarie.
Il rovescio della medaglia è la storia di Caterina: “Mio padre non ha macchinoni, fa l’operaio ed è in cassa integrazione. Mia madre è disoccupata”. Caterina ha 23 anni, studia Giurisprudenza a Roma e viene dalle Marche. “Il reddito della mia famiglia – racconta – è di 16 mila euro all’anno. Loro dichiarano tutto. Anche quel piccolo terreno, classificato come ‘edificabile’, che ha fatto schizzare in su l’Isee. Addio all’agognata borsa di studio”. C’è chi realmente ne avrebbe bisogno e se la vede negare, a causa di alcuni vincoli troppo stringenti, come Caterina. Ma c’è anche chi bara, “dimenticando” di dichiarare un reddito annuo di 70 mila euro, come hanno scoperto i finanzieri romani, e riesce a percepire i sussidi.
Diana Armento è coordinatrice di Link Roma, un sindacato studentesco. “Ci sono due requisiti principali per ottenere la borsa di studio – spiega Diana – Sono l’indicatore economico e il merito. Bisogna presentare l’Isee, che non deve superare i 17.800 euro, e ogni anno raggiungere un determinato numero di crediti, in base al piano di studi. L’Isee è determinato dal reddito percepito in un anno e dal patrimonio. Le borse di studio nel Lazio possono arrivare fino a 5 mila euro all’anno, per i fuori sede”. Ma non sempre i soldi arrivano. Giulia ha 26 anni, è di Terracina (LT) e vive stabilmente a Roma. “Studio Medicina e Psicologia. La borsa di studio l’ho vinta lo scorso anno. Cinquemila euro, il massimo. Ma all’appello mancano ancora 2 mila euro”, dice sconsolata. Non è certo l’unica che deve aspettare. C’è anche a chi va peggio. Nel Lazio quest’anno 16.600 studenti hanno diritto a una borsa di studio, ma 5.500 rischiano di non vedere neanche un euro, come ha calcolato Link Roma. La coordinatrice Diana Armento dice che “non ci sono abbastanza fondi, regionali e statali, per coprire tutti i contributi”.
il Fatto 14.12.13
L’altro salasso
A Medicina costano oltre 6 mila euro solo i libri di testo
di Carlo Di Foggia
PER LAUREARSI in Medicina si possono superare i 6.000 euro, per Giurisprudenza i 1.700 mentre per la triennale di Biologia si arriva anche a 2.200. E questo solo per i libri di testo. Benvenuti nell'Università italiana, dove un esame può arrivare a costare fino a 400 euro e se non ci si ingegna come si può tra fotocopie, prestiti e appunti passati di mano in mano, si rischia un salasso che spesso supera le stesse rette universitarie. Non sempre però è possibile. “L'atlante di anatomia costa 130 euro, il manuale 300. Una botta, ma a noi non conviene fotocopiarli, sono testi che serviranno anche in ambito lavorativo. Alla fine ti rassegni a comprarli”, spiega Riccardo, studente di Medicina a Roma Tor Vergata. Scorrendo i prezzi di listino delle tre Facoltà a Roma, Milano e Cagliari, raccolti dal sito Studen ti.it , il conto finale resta salato. A Milano per ogni esame di medicina gli studenti sborsano 142 euro (5000 in totale) in libri e materiali didattici; 190 euro a Roma Tor Vergata. A Cagliari, gli esami sono 38, e il totale sfiora i 6.000 euro con un costo medio di 155 euro. “Di solito si usano i libri indicati dal docente, che di regolarmente compare tra gli autori”, sorride Francesca, studente della facoltà di Lettere e Filosofia alla “Sapienza”. C'è chi giura, sotto anonimato, di aver portato all'esame la copia da far autografare al professore, per evitare il passamano. Esami d'oro - come Procedura Civile a Roma -, ma anche testi d'oro, ad ascoltare le voci degli studenti: 50 euro diritto privato, 45 diritto pubblico, 90 chimica generale. “In un anno ho speso 500 euro - spiega Paola, iscritta alla Facoltà di Economia di Tor Vergata – alla fine ci si arrangia come si può. Se si riesce a prende il libro in biblioteca lo si fotocopia. Purtroppo qui il costo è di dieci centesimi a copia, alla sapienza si arriva a cinque”. E ovunque fioriscono i centri stampa, dove il divieto di fotocopiare oltre il 15% del testo è aggirato con tessere ricaricabili e macchinari gestiti direttamente dagli studenti. “Ad un esame il docente mi ha chiesto di non fotocopiare il suo testo - ci dice Alberto - studente di Scienze della Comunicazione - pregandomi di comprare anche gli altri, quelli non firmati da lui”.
Per fortuna non è sempre così. “Negli ultimi anni la situazione è molto migliorata - ci spiega Marta Ferrucci, responsabile di Studenti.it - i Docenti sono consapevoli delle difficoltà economiche e degli sforzi degli studenti, e sempre più spesso utilizzano dispense o altro materiale che pubblicano su internet. Seppur lentamente, qualcosa si muove”.
il Fatto e The Independenti 14.12.13
Futuro dietro le spalle
Malvenuti nell’epoca della nuova povertà
di Andreas Whittam-Smith
La nostra epoca passerà alla storia come quella della povertà. Gli indizi negli ultimi tempi si sono andati accumulando in maniera preoccupante: i casi di malnutrizione raddoppiati dall’inizio della crisi, i dati sulle famiglie e sui bambini a rischio povertà, il rachitismo da carenza di vitamina D. Non sorprende quindi venire a sapere che il numero dei cittadini che si rivolgono alle opere assistenziali perché non hanno un tetto sulla testa o perché non hanno nulla da mangiare è in continuo e rapido aumento. Le pagine web delle opere assistenziali sono tra le più visitate della Gran Bretagna.
SASHA, MADRE SINGLE di Londra, ci racconta la sua storia. È senzatetto da un anno. Si è rivolta alle autorità locali mostrando il certificato di nascita di suo figlio e le hanno risposto che era in lista d’attesa per avere una casa popolare, ma finora non ha saputo nulla. “L’assistente sociale che segue il mio caso mi ignora. Dormo con il piccolo su un materasso sistemato sul pavimento di casa di una mia amica e lavoro dalla mattina alla sera”. E qui bisogna immediatamente fare una considerazione: oggi molto spesso il lavoro con i salari che vengono corrisposti non è sufficiente a evitare la povertà o a farti risalire la china. E poi c’è un altro punto dolente: i debiti.
In Gran Bretagna i debiti delle famiglie hanno toccato un livello record stando ai dati forniti dalla Banca d’Inghilterra. Le famiglie più povere hanno debiti pari a quattro volte il loro reddito annuo. Un povertà come questa non si vedeva in Gran Bretagna da molti decenni. Colpisce milioni di adulti e bambini. Ciò che confonde è il fatto che la povertà può essere definita in due modi. L’indicatore chiave è la cosiddetta “povertà assoluta”, vale a dire la mancanza di cibo, di una casa e della possibilità di fare fronte alle esigenze elementari della vita quotidiana.
Secondo l’economista cileno Manfred Max-Neef i bisogni sono “finiti, pochi e classificabili” contrariamente al concetto tradizionale dell’economia che li voleva infiniti e insaziabili. Ne consegue che non è difficile definire la povertà assoluta. Poi c’è la “povertà relativa”, l’indicatore che i governi in genere preferiscono e che definisce poveri i cittadini con un reddito del 60% inferiore al reddito medio pro capite del paese. Forse le persone al di sotto di questa ideale linea di demarcazione non muoiono di fame, ma certamente la loro vita è molto diversa da quella della maggior parte della popolazione.
Secondo questa definizione in Gran Bretagna il 21% delle famiglie versano in condizioni di povertà. Una percentuale stupefacente. Mentre i poveri come Sasha dormono sul pavimento o fanno la fila nelle mense pubbliche, i “poveri relativi” soffrono di disturbi psicologici e di un bassissimo livello di autostima.
Comunque si voglia definire la povertà, un fatto è certo: fino a poco tempo fa chi aveva un lavoro e quindi un salario non poteva in alcun modo essere povero. Poteva guadagnare poco, ma non era povero. Poteva condurre una vita modesta, ma non sprofondava nella povertà. Fino a tutto il 18° secolo, l’“indigenza” – così veniva chiamata la povertà – era considerata una condizione naturale dell’umanità da cui ci si poteva affrancare attraverso il lavoro o l’altrui generosità.
Oggi invece puoi avere un lavoro ed essere povero. Questi “nuovi poveri” sono le vittime del crollo dei salari e del vertiginoso aumento dei prezzi, un fenomeno che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni dell’economia. In genere il “nuovo povero” percepisce un salario assolutamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari dell’esistenza. Sfortuna vuole che non si veda affatto la luce alla fine del tunnel. La nuova tecnologia digitale non farà che distruggere altri milioni di posti di lavoro.
LA GLOBALIZZAZIONE continuerà a trasformare il pianeta in un unico mercato che consentirà al lavoro di migrare dove è meno pagato. Ne consegue che i salari continueranno ad aumentare in misura sempre inferiore all’aumento dei prezzi almeno nel breve-medio periodo. Nelle vecchie società affluenti dell’Occidente ciò comporterà un incremento del divario tra ricchi e poveri e la povertà continuerà a galoppare. In fondo basta mettere questi dati di fatto in fila per capire che i governi hanno scarsissime possibilità di intervento su dinamiche completamente al di fuori della loro portata.
Per fortuna le associazioni umanitarie e assistenziali possono fare molto per aiutare i meno fortunati. E poi c’è la risorsa della cooperazione: i “bravi cittadini”, avendo capito il problema, possono unire le loro forze organizzando banche del cibo, fornendo consulenza in materia di debiti, di alloggio e di altre problematiche che rendono impossibile la vita di molte persone. Non v’è dubbio che oggi le associazioni e il volontariato stiano facendo molto più dei governi per alleviare le sofferenze dei poveri.
FACCIO UN SOLO esempio, quello di Middlesbrough dove chiese di tutte le confessioni gestiscono 276 attività che hanno come missione quella di aiutare i cittadini più fragili e bisognosi. A queste attività prestano la loro opera oltre mille volontari. Due fine settimana or sono, alcuni volontari della Croce Rossa si sono recati nei grandi magazzini Tesco e hanno raccolto donazioni in generi alimentari e hanno incoraggiato i presenti ad acquistare qualcosa in più da dare alle associazioni per sfamare i poveri. Non era mai successo, dopo il 1945, che la Croce Rossa scendesse direttamente in campo per una operazione di queste proporzioni. Obiettivo era quello di sfamare circa 130.000 persone. Un obiettivo importante, ma ben lontano da risolvere il problema dei quasi sei milioni di persone che in Gran Bretagna non hanno abbastanza da mangiare.
Quindi, se da un lato aumenta la povertà, dall’altro aumenta la risposta della società civile. I politici, invece, stanno a guardare. Parole, qualche modesta iniziativa e per il resto nulla.
© The Independent Traduzione di Carlo Biscotto
Corriere 14.12.13
Gli euro-renziani votano contro il Pse
La mozione sull’aborto è un caso nel partito
di Al. T.
ROMA — Il sospetto è venuto a molti, guardando l’orientamento politico dei sei astenuti: cinque sostenitori di Matteo Renzi e uno di Beppe Fioroni. E così il collegamento tra il varo di una mozione europea dei conservatori, che ne ha annullato una più progressista sui diritti delle donne, contraccezione e aborto, è scattato automatico. Tra gli eurodeputati socialisti e democratici, infuriati, ma anche tra i colleghi della delegazione italiana.
Da tempo si lavorava alla cosidetta risoluzione Estrela, dal nome della socialista portoghese Edite Estrela. Una mozione che si occupava di tutela della salute, aborto, contraccezione, e «lotta contro la violenza in relazione ai diritti sessuali e riproduttivi». Risoluzione molto avanzata, ma non vincolante, perché su questi temi l’Europa non ha potestà legislativa. Al voto prima di questa, viene messa un’altra risoluzione, presentata dal Ppe e sostenuta dalla destra, che in pratica diceva che di tutti quei temi l’Europa non deve occuparsi, perché spettano agli Stati membri. La risoluzione, che fa cadere la Estrela, viene approvata a sorpresa: 334 voti a favore e 327 contrari. Decisivi i 35 astenuti, tra i quali sei italiani: Silvia Costa, Franco Frigo, David Sassoli, Patrizia Toia, Vittorio Prodi e Mario Pirillo. Nella complessa geografia politica democratica, sono cinque sostenitori di Renzi e uno di Cuperlo (Pirillo, fioroniano).
Spiega Roberto Gualtieri, eurodeputato vicino a Massimo D’Alema: «I sei astenuti italiani hanno fatto un errore politico davvero grave e inaspettato. Avrebbero potuto presentare singoli emendamenti soppressivi. Invece si sono astenuti su una mozione conservatrice, insultante per le donne. Uno schiaffo politico che ha messo in imbarazzo il Pd di fronte ai progressisti europei. Non solo: non hanno avvertito nessuno di noi».
Silvia Costa nega: «La mia posizione era ben nota, ho presentato 11 emendamenti e due note critiche alla mia delegazione. Quella risoluzione era troppo invasiva sugli Stati membri e con elementi non condivisibili: presentava l’aborto come “diritto umano”, non menzionava il diritto alla vita, consentiva ai minori l’accesso all’aborto senza il filtro dei genitori, riteneva l’obiezione di coscienza come un ostacolo all’aborto, prevedeva educazione sessuale obbligatoria. Cose non vincolanti, ma di impatto. Spero che si abbia ancora la libertà di votare in dissenso con il gruppo su temi etici, senza essere impiccati sulla pubblica piazza».
Quanto all’appartenenza renziana: «Non c’entra nulla, abbiamo deciso in libertà, secondo la nostra coscienza. E io la pensavo così ben prima di Renzi». Gualtieri è scettico: «Non credo proprio che ci sia stata un’indicazione da Roma — spiega — Anzi, credo piuttosto che così Renzi sia stato danneggiato». «Renziani? Stupidaggini — dice Paolo Gentiloni — Io, se fossi stato al loro posto, probabilmente avrei votato a favore. Ma gli astenuti hanno deciso in base alle loro idee. Tra l’altro i renziani, com’è noto, non esistono».
l’Unità 14.12.13
Aborto, astenersi a Strasburgo è stato un errore
di Roberta Agostini
NON MI HA CONVINTO L’INTERVENTO DI DAVID SASSOLI IERI SULL’UNITÀ PER SPIEGARE LA SUA POSIZIONE RISPETTO alla proposta di risoluzione sulla salute ed i diritti riproduttivi respinta qualche giorno fa al Parlamento europeo.
Sassoli dice: non votando quella risoluzione ho difeso la legge 194 ed «il suo delicato equilibrio tra diritti della donna, diritto alla vita e diritto all’obiezione di coscienza»
Ho letto e riletto il testo: approvarlo sarebbe stato, al contrario, molto importante anche per noi che abbiamo una buona legge ma che rischia di essere sempre meno applicata per l’impoverimento dei servizi pubblici e per l’abuso del ricorso all’obiezione di coscienza.
La risoluzione recita: «gli Stati membri dovrebbero regolamentare e monitorare il ricorso all’obiezione di coscienza nelle professioni chiave in modo da assicurare che l’assistenza sanitaria in materia di salute riproduttiva sia garantita come diritto individuale» perché «l’obiezione di coscienza è un diritto individuale e non una politica collettiva».
Nel nostro Paese la fotografia è impressionante, l’equilibrio è sempre più sbilanciato a favore dell’obiezione, l’Unità del 5 dicembre scorso ne dà un quadro abbastanza completo: nel Lazio su 391 ginecologi strutturati, 33 sono non obiettori, in Campania la percentuale dei non obiettori è del 16 per cento, in Calabria del 7 per cento.
È chiaro che la 194 rischia di essere carta straccia se non si prendono misure urgenti.
Per questo giudico un errore politico l’astensione di alcuni dei nostri parlamentari europei che, nei fatti, ha contribuito all’affossamento di una risoluzione che, peraltro, per sua natura, è un atto di indirizzo non vincolante e che dunque non può essere definita «un intervento a testa bassa». Al contrario, si è persa un’opportunità per condividere le migliori politiche europee sul terreno della salute riproduttiva e per far compiere quindi qualche passo avanti anche alle nostre politiche.
Il gruppo democratico alla Camera ha chiesto al governo, attraverso una mozione approvata qualche tempo fa, di aprire tavoli con le regioni per monitorare la situazione e rimuovere gli ostacoli che impediscono di garantire servizi ed assistenza alle donne che decidono di interrompere la gravidanza. Attendiamo dal governo indicazioni concrete e, se non ci saranno prime risposte, riproporremo con forza la nostra iniziativa parlamentare. Sulla piena applicazione della legge 194, il Pd deve dimostrare di essere coerente, in Italia, in Europa e nelle singole Regioni, dove le politiche si fanno e dove troppo spesso i servizi sono messi a rischio.
Siamo chiamati a dare risposte urgenti ed efficaci ai bisogni di salute e della vita quotidiana delle persone, risposte che si intrecciano con valori fondamentali di laicità delle istituzioni, di rispetto delle scelte dei singoli e dei diritti delle donne, che devono essere perseguiti, sempre, nella nostra iniziativa politica.
il Fatto 14.12.13
Pubbliche virtù e vizi privati del mattatore Renzi
Arriva in macchina ma si mostra in bicicletta
Fa finta di essere a Firenze e invece è ad Arcore da B.
“Oggi sono il Comune” E invece è a sciare
In libreria un nuovo libro su Matteo Renzi scritto da Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene, due giornalisti che seguono il rottamatore da anni rispettivamente per Asca e Reuters. E lavorare per le agenzie di stampa significa seguire un politico e scoprirne anche il lato più personale, quello che raramente viene mostrato. Da questo lavoro nasce “Matteo il Conquistatore”, la vera storia di un'ascesa politica del quale pubblichiamo alcuni stralci.
Arriva in bicicletta, ma svoltato l’angolo prende la macchina. Sfoggia grandi sorrisi in pubblico e riserva tremendi cazziatoni ai suoi collaboratori. Dice che va a sciare, mentre in realtà è a prendere il sole alle Maldive. Questo è Matteo Renzi. A una pubblica virtù spesso corrisponde un vizio privato.
La passione di farsi vedere in sella alle due ruote
A partire dalla amata bicicletta. A Renzi piace tanto mostrarsi in bicicletta. Alle conferenze arriva quasi sempre su due ruote, da buon sindaco di una smartcity. Ma a volte, si legge nel libro, a favore di operatori e fotografi il rottamatore non disdegna un trucco: la macchina (elettrica) parcheggiata dietro l’angolo. Il cambio è rapido: scende dall’auto prende le due ruote e si mostra a telecamere e fotografi. Poi oplà, di nuovo in bici. Destinazione? L’auto dietro l’angolo dove affida le due ruote superceologiche a un assistente che riporta il mezzo in Palazzo Vecchio, mentre Renzi sale in macchina.
Anche quando gira l’Italia per gli appuntamenti politici, evita il più possibile di arrivare davanti alla fila di telecamere in auto, men che meno seguito da quello che lui definisce “il codazzo”, ovvero il gruppetto di fedelissimi e assistenti che lo accompagnano. Accade spesso che auto e codazzo si fermino poco prima, il sindaco giunga da solo al luogo del comizio, giacca sulla spalla e sorriso smagliante. Il codazzo si disperde e i componenti arrivano alla spicciolata, evitando di dare nell’occhio. Un ragazzo normale che però è abilissimo nel dettare i tempi alle agenzie di stampa, a farsi rincorrere dai fotografi, a rilasciare dichiarazioni in favore di Tg.
“Oggi sono il Comune” E invece è a sciare
Di tanto in tanto, Renzi non disdegna neppure una bugia: la più famosa è legata alla B di Berlusconi. Il 6 dicembre 2010 l’ufficio stampa invia (in buona fede, non lo sapeva) il consueto sms ai cronisti: ‘Oggi Renzi non ha impegni particolari in agenda’. Era invece ad Arcore a pranzo con il leader del Pdl e quando la notizia uscì seguirono furiose polemiche. Altra bugia non da poco è quella con cui fu nascosto il viaggio a Berlino dell’11 luglio 2013 per incontrare la cancelliera Angela Merkel. L’ufficio stampa, questa volta consapevolmente, comunicò soltanto il saluto di Renzi a un evento della Scuola di Scienze Aziendali, glissando sugli impegni del sindaco nel resto della giornata. Un’altra bugia ha avuto meno conseguenze politiche: un giorno Renzi era ufficialmente al lavoro in Palazzo Vecchio, ma in realtà passò la giornata a sciare all’Abetone con la famiglia. Una sostenitrice lo smascherò: appena avvistato sulle piste pubblicò su facebook la notizia. A sciare, invece, disse di andare nel marzo 2009, quando in realtà era in viaggio alle Maldive con la famiglia.
Grandi sorrisi agli estranei grandi sfuriate allo staff
Alla voce C dell'alfabeto di Renzi ci sono i cazziatoni. A dispetto dei grandi sorrisi che sfoggia in pubblico, di Renzi si dice che a volte perde le staffe con i suoi collaboratori.
Succede che, quando qualcosa non va, chiami al telefono il responsabile, o si presenti improvvisamente nel suo ufficio, e giù sfuriate memorabili. Non è concesso diritto di replica”. Ironia della sorte, Renzi aveva affibbiato al suo predecessore l'appellativo che gli autori hanno poi scelto per lui: William: così con i suoi, in privato, Renzi ha definito il segretario provvisorio del Pd Guglielmo Epifani, qualche volta aggiungendo anche un appellativo: “il Conquistatore”. Vizi privati, pubbliche virtù del neosegretario del Partito Democratico, ex rottamatore oggi mattatore.
Corriere 14.12
Quell’ansia (postuma) di seppellire il Pci
«Renzi, viaggio al termine del Pci», mai titolo di libro è stato più esplicativo di questo. È l’eBook di due giornalisti, Mario Lavia e Fabrizio Rondolino, che provengono entrambi dal Partito comunista, le cui strade si sono incrociate, allontanate e poi di nuovo intersecate, a «Europa», il quotidiano di Stefano Menichini. La prefazione l’ha scritta Veltroni con una chiusa esemplare: «Lasciar tutto com’è non è la ricetta giusta. Si rischia di conservare — per dirla con un vecchio signore tedesco — soltanto le proprie catene». Solo che Renzi delle catene e dell’anziano germanico nulla sa, né niente vuole sapere, anche se, come tanti giovani, ha studiato Marx. In un «Paese normale», quello di D’Alema, non sarebbe un’eccezione, in Italia lo è. Primo perché è sotto i quaranta, secondo perché non viene dal Pci, anzi, ha «scippato» le chiavi di casa al partito che ha sempre avuto, nonostante le forme mutanti, l’egemonia. Lavia e Rondolino raccontano una lunga storia che si ferma in un fotogramma di «Zabriskie point», il film di Antonioni: quello in cui, alla fine, la casa esplode. Entrambi tifano per quell’epilogo. Che è la morte certificata di qualcosa che è già morto e seppellito: il fu Pci.
l’Unità 14.12.13
Decreto del governo: dal 2017 via i fondi pubblici ai partiti
(...)
Domani la «sorpresina» promessa da Renzi per Grillo: oltre alla rinuncia ai fondi pubblici potrebbe prevedere anche la disponibilità a restituire i rimborsi incassati. Ovviamente se Grillo sarà disponibile alle riforme. «A Grillo gli rispondiamo con una sfida: sei pronto ad approvare la nuova legge elettorale e l’abolizione del Senato? Bene, noi restituiremo tutto quello che c’è da restituire» è il messaggio nemmeno tanto cifrato di uno dei deputati più vicini a Renzi (è stato suo vicesindaco) Dario Nardella.
Certo la sorpresa in questo caso sarebbe anche per il Pd. Il bilancio 2013 infatti dirà che il 74% delle entrate, pari a 24,8 milioni, deriva dai rimborsi elettorali (politiche, europee e regionali) e che fra le uscite ci sono almeno 10 milioni (previsioni per il 2014) di spese per i dipendenti. Spesa in calo (grazie a una cinquantina di aspettative su 190 contratti a tempo indeterminato) rispetto agli 11,5 milioni previsti quest’anno e ai quasi 12,7 a consuntivo 2012 quando furono spesi anche quasi 9milioni in elezioni e propaganda e trasferiti 9,5 alle strutture territoriali (sul sito Pd si trovano tutte le cifre). «Sarebbe molto complicato perdere di punto in bianco i 3/4 delle entrate» spiega il tesoriere uscente Antonio Misiani che da lunedì (e per tre giorni già fissati in agenda) avrà una full-immersion sui conti col suo sostituto Francesco Bonifazi che sarà eletto domani dall’assemblea.
il Fatto 14.12.13
I soldi ai partiti? Restano (Letta dice che li ha aboliti)
Per evitare la beffa di dover versare la prima rata del 2014, il governo a un decreto.
Ma a regime, nel 2017, il risparmio sarò di soli 19 milioni
Nei prossimi tre anni, le forze politiche incasseranno la stessa somma (269 milioni)
Il nuovo sistema scatterà nel 2017, quando intascheranno 72 milioni al posto di 91
di Marco Palombi
Avevamo detto che avremmo abolito il finanziamento pubblico entro l’anno e l’abbiamo fatto”. Enrico Letta ha spiegato così il decreto approvato ieri in Consiglio dei ministri. Il nuovo testo del governo ricalca quello approvato il 16 ottobre scorso dalla Camera e debutterà nella commissione Affari costituzionali del Senato già mercoledì prossimo: praticamente si sostituirà al disegno di legge che giaceva abbandonato a Palazzo Madama da due mesi, ma con la differenza che le norme entreranno in vigore da subito. Il sistema che si va delineando, comunque, non costerà alle casse dello Stato molto meno di quello attuale: sostanzialmente si passa a regime, dal 2017, dagli attuali 91 milioni di euro a 72 milioni, mentre durante la transizione l’esborso è più o meno simile.
IL TESTO. Come detto, i contenuti sono quelli stabiliti dalla vecchia maggioranza a Montecitorio, dove il ddl del governo era stato approvato con qualche modifica a metà ottobre: si passa in tre anni dai rimborsi elettorali sui voti ricevuti a un sistema basato sui contributi dei privati (largamente incentivati).
A cosa serve il decreto? C’era il rischio, con i tempi biblici scelti dal Parlamento, di una piccola beffa. Il fondo per il finanziamento pubblico dei partiti (91 milioni di euro l’anno) viene infatti sforbiciato gradualmente e del 25 per cento già dall’anno prossimo. Solo che ritardando l’approvazione della legge oltre i primi mesi del 2014, almeno la prima delle due rate annuali sarebbe stata piena: in soldi significa che i partiti avrebbero incassato 46 milioni invece di 34, vale a dire 12 milioni in più (al lordo, però, del Movimento 5 Stelle, che rinuncia comunque alla sua quota). La decisione di Letta e Alfano annulla questa possibilità, perché i decreti entrano subito in vigore.
AGEVOLAZIONI FISCALI. Entrerà in vigore già dall’anno prossimo la possibilità di devolvere il 2 per mille della propria dichiarazione dei redditi a un partito – un contributo privato, che è però anche un mancato introito per l’erario – e di detrarre dall’Irpef il 37 per cento delle donazioni liberali tra 30 e 20 mila euro e il 26 per cento fino a 70 mila euro. Sempre dall’imposta sul reddito saranno scaricabili al 75 per cento (fino a 750 euro) le spese per la partecipazione a scuole o corsi di formazione politica. Le società, infine, avranno uno sconto fiscale del 26 per cento per i contributi versati ai partiti fino a 100 mila euro. Notevole che questo regime di facilitazioni sia assai più vantaggioso di quello riservato alle Onlus.
IL TETTO. Come deciso alla Camera, la soglia massima delle donazioni è confermata a 300 mila euro annui per i privati e a 200 mila per le imprese. Nessun contributo potrà essere comunque superiore al 5 per cento del conto economico complessivo del partito (questo penalizza un po’ Forza Italia, abituata al generosissimo Cavaliere).
STATUTO E BILANCI. Per accedere alle agevolazioni, però, i partiti (e pure le fondazioni, finalmente) dovranno iscriversi a un registro nazionale, dotarsi di uno statuto democratico e sottoporsi ai controlli di una Commissione di garanzia. I loro bilanci, poi, dovranno essere certificati da una società esterna. Altra condizione per accedere alle detrazioni fiscali è, infine, avere almeno un eletto in Parlamento o in un consiglio regionale oppure avere presentato candidati in almeno tre circoscrizioni. Il 2 per mille, invece, è appannaggio solo di chi abbia almeno un parlamentare eletto sotto il proprio simbolo, vale a dire solo i partiti più grandi.
SORPRESA: il costo finale. I fondi stanziati testimoniano che, a regime (dal 2017), il sistema costerà 72 milioni l’anno, cioè 19 in meno rispetto all’attuale, ma avendo per di più messo i partiti nella condizione di dipendere da privati e, soprattutto, imprese. Il 2 per mille, infatti, dal 2017 costerà al massimo 45,1 milioni l’anno, le detrazioni 15,65 milioni e la Cigs e i fondi per i contratti di solidarietà “11,25 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2016”.
TRANSIZIONE. Come detto, i 91 milioni l’anno di finanziamento diretto vengono azzerati gradualmente: meno 25 per cento l’anno prossimo, meno 50 nel 2015 e meno 75 alla fine del triennio, fino al 100 per cento dal 2017 in poi. In soldi significa un incasso di 136,5 milioni nel triennio, cui vanno aggiunti 98 milioni circa per compensare detrazioni e 2 per mille (che partono subito) e quasi 35 milioni per ammortizzatori sociali ad hoc. Insomma nel periodo 2014-2016 i partiti “costeranno” all’erario 269 milioni di euro anziché 273.
«che una donazione di 70 mila euro a una onlus possa avere uno sconto fiscale di 537 euro e a un partito di 18.200 (34 volte di più) è una disparità ardua da capire»
Corriere 14.12.13
Taglio deciso ma tempi lunghi
Il coraggio della dieta
di Segio Rizzo e Gian Antonio Stella
Evviva la concorrenza.
Se la tanto invocata abolizione (in differita) dei rimborsi elettorali decisa dal governo sia dovuta alla voglia di Enrico Letta di prendere in contropiede Matteo Renzi che stava per annunciare una netta accelerazione, non si sa. Come non si sa quanto possa aver pesato la scelta di Berlusconi e Grillo di cavalcare il ribellismo dei Forconi. Movimento ancora informe ma infettato, tra tante persone esasperate e perbene, da infami rutti contro i «banchieri ebrei» e insensati peana a favore dell’ungherese Viktor Orbán, l’anima bruna dell’Europa autoritaria post comunista.
Ma ciò che non era riuscito al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico passato nel '93 con il 90,3% dei voti né alle varie ondate di indignazione contro la crescita abnorme dei soldi ai partiti (+1.110%) nel primo decennio del secolo segnato in parallelo dal ristagno e dall’impoverimento degli italiani pare essere riuscito al peperoncino della concorrenza. Dentro la sinistra, dentro la destra, dentro l’opposizione a tutto e tutti.
È come si fosse aperta una gara a chi mostra d’avere una più forte e impaziente spinta riformatrice. Al punto di scavalcare per virtù dichiarata, nell’ansia di far perdonare alla politica la bulimia di questi anni, il resto d’Europa. Dove, come ricordano Piero Ignazi, Eugenio Pizzimenti e altri, solo la Svizzera non prevede alcuna forma di finanziamento.
Estremismi all’italiana: dalle abbuffate trimalcioniche alla dieta totale.
Dicono i grillini, i quali nei giorni scorsi sono riusciti a far passare un emendamento piccolo ma saggio perché consente di disdettare in 30 giorni una serie di esosi contratti d’affitto (11 sedi per il Senato, 20 per la presidenza del Consiglio, 21 per la Camera: assurdo) che il decreto voluto da Letta per tagliare corto con le meline parlamentari, è solo l’annuncio d’un progressivo esaurimento dei rimborsi che si compirà fra quattro anni. Vero. E mai come oggi i cittadini devono tenere gli occhi aperti su eventuali ritocchi, ripensamenti, giochini. Sarebbe ingeneroso, però, dire che non rappresenti un passo avanti. Sul piano dei risparmi ma più ancora sulla trasparenza. Non solo dei bilanci dei partiti, la cui pubblicazione online diventa finalmente tassativa: è prevista la diffusione sul web anche degli elenchi di persone e società che finanziano la politica. Bene. E bene le misure che potrebbero spingere alla fine dei partiti personali, le sanzioni in denaro per chi viola la parità uomo-donna, l’obbligo di indicare negli statuti di ciascuna forza politica la cadenza delle assemblee dove sottoporre le leadership alla verifica democratica.
Certo, che una donazione di 70 mila euro a una onlus possa avere uno sconto fiscale di 537 euro e a un partito di 18.200 (34 volte di più) è una disparità ardua da capire. Che continuerà a caricare sulle casse pubbliche una parte significativa dei costi. Per non dire degli altri capitoli meno vistosi del finanziamento, come i contributi ai gruppi parlamentari e alla stampa di partito: neanche sfiorati.
Staremo a vedere.
Una svolta radicale, del resto, è nell’interesse dei partiti stessi. Troppi denari pubblici, garantiti sempre e comunque, avevano reso quasi superfluo il rapporto con gli elettori. Creando un distacco inaccettabile. Essere obbligati a raccogliere euro su euro li costringerà a parlare, discutere, convincere uno ad uno i cittadini.
E, finalmente, ad ascoltare ciò che hanno da dire.
Corriere 14.12.13
Tesorieri in trincea: «È un imbroglio»
Il Pd però studia dove fare i tagli
di Monica Guerzoni
ROMA — I tesorieri dei partiti l’hanno presa male. Già a giugno, lanciarono l’allarme e agitarono lo spettro dei licenziamenti e della cassa integrazione. Sei mesi dopo, l’accelerazione voluta dal capo del governo ha riacceso la preoccupazione per il futuro
«Non parlo, non dico nulla sul decreto, scriva pure che non me ne importa un bel niente!». Per il senatore Ugo Sposetti non è stata una bella giornata. Lo storico tesoriere dei Ds è convinto che la legge che abolisce i rimborsi sia la morte della politica e non ha alcuna voglia di commentare il blitz del presidente del Consiglio: «Non mi va di fare la parte dell’ultimo giapponese nella giungla... La mia idea è che la politica ha un costo e mi sono anche stancato di ripeterla».
I cassieri dei partiti l’hanno presa male, sin dall’inizio. Già a giugno, quando Letta presentò il disegno di legge, i tesorieri lanciarono l’allarme e agitarono lo spettro dei licenziamenti e della cassa integrazione. Sei mesi dopo, l’accelerazione voluta dal capo del governo ha riacceso la preoccupazione per il futuro. Maurizio Bianconi, segretario amministrativo del Pdl ora in Forza Italia, è così arrabbiato che non riesce a dirlo senza insultare: «Soltanto il turpiloquio può descrivere il comportamento di questo nuncius di sciocchezze che è Enrico Letta, un vero cazzaro». Piano onorevole, sta parlando del presidente del Consiglio. «Lui e Renzi ci prendono per i fondelli. C’è l’imbroglio, lo Stato non risparmierà un euro». Forza Italia come farà? «Sarà una forza politica senza soldi, una tartaruga itinerante». E i dipendenti? «Ne ho già licenziati un po’, poveretti. Il direttore amministrativo mi ha portato un’altra lista che faceva paura, ma io non ho firmato nulla. I dipendenti non puoi tirarli nelle fogne di Roma e tirare lo sciacquone. Combatteremo e vediamo chi vince».
I berlusconiani sperano di fare asse con Grillo (che è anche tesoriere del M5S), il che però non basterà a fermare il decreto. La nuova maggioranza senza Berlusconi ha i numeri per farlo passare, ma difficilmente il testo arriverà in porto così com’è. Il Pd approva. Per il tesoriere uscente Antonio Misiani «l’impianto è condivisibile» e il decreto sarà convertito senza incidenti. Ma qualche modifica la chiedono anche i democratici: «Il Parlamento avrà tempo e modo di approfondire ulteriormente le norme». Da lunedì le mani nel forziere del Nazareno potrà metterle solo il renziano Francesco Bonifazi, che domenica prenderà ufficialmente il posto di Misiani. I due deputati si sono incontrati e il passaggio di consegne è stato soft, ma i problemi non mancano. Renzi sa bene che il partito, da qui a tre anni, sarà costretto a una riorganizzazione profonda perché la riduzione delle risorse sarà drastica. «Chi viene dopo deve tagliare», è andato ripetendo Misiani per settimane. Dove tagliare vuol dire ridurre il soccorso all’Unità — di cui il partito acquista copie e pubblicità — rassegnarsi a mandare in cassa integrazione parte dei quasi 200 dipendenti. E, con calma, traslocare dal Nazareno (che costa 600 mila euro l’anno) in una sede più piccola e meno scenografica. Quanto al quotidiano Europa il direttore, Stefano Menichini, taglia corto: «Noi non siamo in carico al Pd».
Le opposizioni protestano. Nichi Vendola era stato tra i primi a criticare il provvedimento e il tesoriere di Sel, Sergio Boccadutri, ne fa un questione di democrazia. Sostiene che il decreto «è una cosa molto grave», perché i partiti che godono di forti finanziamenti da pochi soggetti potranno spendere molti fondi in campagna elettorale, mentre chi riceve piccoli contributi da molte persone non avrà accesso alla rappresentanza: «Il che lede l’articolo 3 della Costituzione, comma 2. Noi siamo francescani, ma come faremo a contrastare il governo senza risorse? Non possono essere i privati a decidere chi può far politica e chi no».
C’è anche chi è contento. Mario Monti è l’inventore della «sobrietà» in politica e il suo cassiere Gianfranco Librandi esulta, convinto persino che i partiti riusciranno a raccogliere col nuovo sistema quanto hanno preso fino a oggi dallo Stato: «Basta un buon tesoriere e il gioco è fatto. A me il decreto piace, alla Camera però dovremo modificare alcuni punti, mettere un tetto più alto per le aziende e più basso per le persone fisiche». E i debiti di Scelta civica? «Due milioni e quattrocentomila euro, ma li stiamo pagando e il prossimo anno li avremo azzerati. Siamo molto oculati, noi...».
Repubblica 14.12.13
Panico nelle sedi di Pd e Forza Italia
“Pronti ai sacrifici se li fanno tutti i politici dovranno ridursi gli stipendi”
Ma gli azzurri contano su Berlusconi: lui ci garantisce
di Sebastiano Messina
ROMA — Escono rapidi, alzando il colletto e aggiustandosi la sciarpa, poi filano via verso la metropolitana. Non hanno proprio voglia di parlare, i dipendenti del Partito democratico che alle cinque della sera scivolano via dalla sede del Nazareno. Il freddo si fa sentire anche a Roma, ma la folata più gelida loro l’hanno sentita nel cuore, di prima mattina, quando Letta ha annunciato su Twitter l’abolizione per decreto legge del finanziamento ai partiti. Per le 154 persone che lavorano nella sede nazionale del Pd, dal fattorino al funzionario, quel taglio che nel giro di tre anni porterà a zero il contributo dello Stato può significare l’addio a quella scrivania, a quel lavoro, a quello stipendio. «Se io esco da qui, alla mia età, sono finita» confessa Francesca allontanandosi in fretta verso via del Tritone, facendo no, no con la mano alla telecamera di “Ballarò”.
Non vogliono parlarne con i giornalisti, figuriamoci in tv. «Ma è stata una doccia fredda: da stamattina non si parla d’altro, là dentro» rivela Gianni, che accetta di parlare solo dopo che le telecamere si sono allontanate. «In ascensore. In corridoio. Davanti alla macchinetta del caffè. Ci guardiamo in faccia, sconsolati. Ci scherziamo su, certo, per esorcizzare la paura, ma quella c’è. Eccome». E d’altra parte, chi non avrebbe paura, al posto loro? Il governo guidato dall’ex vicesegretario del partito ha chiuso il rubinetto dei soldi, e qui sta per arrivare un nuovo segretario che ha fatto dei tagli alla politica la sua bandiera. «Diciamo la verità: quello di Renzi che arriva e dice scusate, ma da domani dobbiamo rinunciare alla collaborazione di molti di voi, è un incubo che nessuno ammetterà mai. Ma è l’incubo di tutti».
Insieme all’incubo, aggiunge Gianni, c’è un po’ di amarezza per il modo. «Letta è uno dei nostri. Ha vissuto in queste stanze per anni. Ci conosce uno per uno. Sa perfettamente cosa significa la vita di un partito e quanto vale il nostro lavoro. Il gesto va bene, era un gesto politico, ma due parole sul fatto che i partiti sono preziosi per la democrazia, da lui ce le aspettavamo. E invece niente». Non è stata una bella giornata neanche per Silvana Giuffrè, una dei tre rappresentanti sindacali: «Se ne parlava già da sei mesi, ma è inutile negarlo: la preoccupazione c’è. E riguarda molte persone: segretari, funzionari, giornalisti, esperti del web. Finora abbiamo ragionato con il gruppo dirigente delpartito per capire come risolvere il problema, come affrontare la questione di eventuali esuberi. Adesso ne parleremo con il nuovo segretario. Con lo stesso spirito collaborativo di sempre».
Andrà davvero così? Arriva Laura, già imbacuccata in unparka nero. «Speriamo. Noi siamo pronti a rimboccarci le maniche e a vedere cosa si può fare. Ma anche loro, i politici, devono fare la loro parte. Come? Riducendosi lo stipendio, per esempio. In una casa, quando c’è qualcosa che non va, non butti fuori mezza famiglia. C’è un solo uovo? Bene, facciamoci le fettuccine così abbiamo tutti qualcosa da mangiare. Io dico che se ci mettiamo attorno a un tavolo la soluzione la troviamo, senza mettere paura alla gente. Io sono qui da vent’anni. Ne ho visti entrare e uscire tanti, ma tanti.E noi sempre qui, a metterci l’anima, per il partito. Riesce a capire che umiliazione sarebbe per uno di noi, uno qualunque, sentirsi dire una mattina “tu sei fuori”? Si rende conto? Noi non siamo mica i pesci piranha. Noi siamo la base della piramide della politica. Facciamo quelloche si chiama lavoro tecnico. Se tu lo togli, crolla il partito. Non so se la gente l’ha capito, questo. Forse i nostri dirigenti non l’hanno spiegato abbastanzabene…». Questa è l’aria che tira dalle parti del Nazareno. Un’aria di tempesta in arrivo, assai diver-sa da quella che si respira in piazza San Lorenzo in Lucina, nella sede di Forza Italia. Per carità, la fine del finanziamento pubblico ha fatto scattare l’allarme anche qui. «La paura di finire per strada c’è, e se ne parla: tutti abbiamo un mutuo, o un assegno di separazione da pagare, o un disabile da assistere – dice Alessandro Graziani, che entrò nel partito nel ’94 come impiegato e oggi è il funzionario responsabile dei servizi generali – però siamo confortati dall’attenzione che il presidente Berlusconi e i vertici del partito hanno sempre dedicato al personale, tutelandoci in ogni occasione. Nessuno è mai stato licenziato, qui». Il partito del Cavaliere, grazie anche alla separazione da quello di Alfano, conta oggi su un organico piuttosto snello: 32 dipendenti nella sede romana, un quinto di quelli del Pd. Ma a differenza dei democratici, qui i militanti non sono abituati a mettere mano al portafogli: pensava a tutto Berlusconi. «Adesso credo che metteremo in piedi un ufficio Fund Raising – rivela Graziani – e speriamo che Berlusconi resti il leader del partito: la sua presenza tranquillizza tutti».
Basterà, la garanzia del Cavaliere, a far quadrare i conti nonostante il limite ai contributi dei privati – 300 mila euro – stabiliti dal decreto? Qui sperano di sì. E Sandro Bondi, che del partito è l’amministratore, cerca di rassicurarli: «Speriamo di fare in modo che nessuno perda il posto. Dopo tanti anni di lavoro insieme, sono persone con cui condividiamo lo stesso progetto politico». Poi però aggiunge: «Naturalmente tutti dovremo fare qualche sacrificio... ». E anche nelle dorate stanze di Forza Italia si sente un soffio di vento gelido.
Repubblica 14.12.13
Sergio Boccadutri, tesoriere di Sel: una legge sbagliata
“Così la politica passa ai privati in Europa c’è il finanziamento”
di G. C.
ROMA — «Sel è per il finanziamento pubblico ai partiti, che c’è in tutta Europa e non si capisce perché debba essere cancellato in Italia, dove manca una legge sulle lobby e il conflitto d’interessi ». Sergio Boccadutri è il tesoriere vendoliano.
Boccadutri, il sentimento anti casta è fortissimo: Grillo lo cavalca, Renzi lo interpreta e Letta ha dato un segnale. Voi andate controcorrente?
«Noi siamo trasparenti e Grillo non lo è e infatti non pubblica i bilanci del M5Stelle e neppure la sua, personale dichiarazione dei redditi».
Quanti soldi ha intascato Sel?
«Un milione di euro nel 2013 come rimborso elettorale. Nel 2012 ne abbiamo preso 350 mila pubblici e 700 mila privati».
I privati vi amano?
«No, abbiamo il sistema di tesseramento centralizzato, tutto ciò che entra e viene poi distribuito sui territori. Quei 700 mila euro provengono dal tesseramento, dall’autotassazione dei consiglieri regionali in quel caso. Ora i parlamentari versano 3.500 euro al mese al partito».
Quanti dipendenti avete?
«Sei o sette».
Cosa succede adesso con il decreto del governo?
«Dobbiamo organizzarci e adeguarci. È un provvedimento sbagliato e i nodi verranno al pettine perché non si può lasciare la politica ai privati. I nostri elettori sono prevalentemente insegnanti, pensionati, studenti e in questo periodo di crisi non si possono togliere i soldi di tasca. Quindi sarà difficile. Anche se noi viviamo in modo francescano: i nostri dipendenti guadagnano 1.500 euro netti e lavorano a testa bassa.
Corriere 14.12.13
Parte subito la competizione.E Renzi progetta il rilancio
La partita vera si gioca sulla legge elettorale
di Francesco Verderami
Competition is competition. Renzi aveva preannunciato per domani una «sorpresina» a Grillo sul taglio dei soldi alle forze politiche, e ieri Letta ha fatto una «sorpresina» a Renzi anticipando il varo del decreto sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
È l’omaggio del premier alla vigilia dell’Assemblea nazionale che incoronerà il vincitore delle primarie del Pd a segretario. Cambiano i protagonisti della storia, ma la storia si ripete.
Servirà del tempo per capire se la competizione si trasformerà in faida, rinnovando così l’antica maledizione che ha accompagnato il centrosinistra per un ventennio. Una cosa è certa, o i novelli leader democratici troveranno il modo di convivere o saranno condannati entrambi al fallimento, in un’escalation conflittuale che minerà la stabilità del governo ma al contempo logorerà l’immagine del «rottamatore». La mossa di Letta è stata un colpo di avvertimento a Renzi, in vista di una sfida che non si giocherà sui costi della politica, bensì sulla riforma della legge elettorale. E il decreto con cui il premier gli ha strappato la bandiera su un tema così avvertito dalla pubblica opinione, è stato anche un segnale per rimarcare plasticamente il potere delle scelte che gli deriva dal ruolo, e stabilire la linea di demarcazione con il competitore.
Il capo dei democrat — rivendicando di essere stato «il pungolo» del governo — tradisce un certo nervosismo quando prova ad alzare la posta, promettendo che «la storia non finisce qui»: «Perché adesso bisognerà mettere mano ai rimborsi elettorali. E vorrò vedere come reagiranno gli amici degli amici...». L’esecutivo se lo attende e a sua volta si appresta a rilanciare sulla riduzione del numero dei parlamentari, in una corsa al riarmo che al momento non conosce sosta. Ma la zona contesa era e resta la legge elettorale, e non c’è dubbio che facendo spostare alla Camera l’esame del provvedimento Renzi abbia conquistato un vantaggio di posizione su Letta. Nessuno dei due può arrivare però allo scontro e di avvertimento in avvertimento si limitano a messaggi indiretti. Come Renzi attacca Alfano e Quagliariello non potendo attaccare Palazzo Chigi e il Quirinale, così Letta evoca Berlusconi e la breve stagione delle larghe intese per non citare il segretario del Pd, quando dice che «sono finiti i tempi degli aut aut e delle minacce quotidiane».
È un auspicio più che una certezza: il braccio di ferro sulla riforma del Porcellum infatti non è nemmeno iniziato. Renzi fa mostra di essere disponibile a qualsiasi tipo di modifica, «non mi interessano le tecnicalità», pur di ottenere presto una nuova legge elettorale. È uno dei temi su cui ha impostato la campagna delle primarie e deve subito dare una dimostrazione di forza per ricaricare l’arma delle urne che la sentenza della Consulta gli ha sfilato. Ma il punto è che in un quadro politico formato da tre poli e due Camere, non c’è legge elettorale che salvaguardi il bipolarismo e consenta di sapere chi ha vinto dopo lo spoglio. Per raggiungere l’obiettivo è necessario che la fiducia al governo venga data da una sola Camera, e per far questo serve riformare la Costituzione. Così i tempi si allungano, così è chiaro che il voto anticipato in primavera è un miraggio. A meno che Renzi non voglia tentare la roulette russa del proporzionale puro con le preferenze.
Non è così. Ma nonostante i contendenti conoscano il problema, la tensione sembra destinata a salire. Almeno fino a domani, quando il «rottamatore» sarà ufficialmente investito del nuovo ruolo. Dopo si vedrà se davvero tenterà la prova di forza muscolare a Montecitorio, che rischia di spaccare il Pd, oppure si farà prudente. Un segnale in tal senso Renzi l’ha già dato, altrimenti non si spiega come mai non ha mantenuto la promessa fatta un mese fa, quando disse che «entro l’8 dicembre» — giorno delle primarie — avrebbe presentato la sua proposta di riforma della legge elettorale. Di quel testo non c’è traccia. Come sembra fermo il dialogo con Berlusconi, che lo vezzeggia in pubblico mentre in privato lo critica e non si capacita della visibilità mediatica del «giovanotto»: «Tutti quei titoli di giornale... In fondo ha solo sostituito Epifani». E chissà se sarà giunta all’orecchio del Cavaliere la battuta (l’ennesima) di D’Alema sul suo nuovo segretario: «In vita mia ho visto tante di quelle meteore»...
La verità è che il cambio generazionale è in atto, e che i protagonisti della sfida — Letta, Renzi e Alfano — si trovano a un bivio: investire sul tesoretto politico o dissiparlo. Il leader del Pd lo sa, e si è già disposto alla trattativa, affidando al ministro Del Rio — suo braccio destro al governo — una ricognizione con gli alleati della maggioranza sulla riforma del Porcellum. Il titolare per gli Affari regionali ha già parlato con il centrista Mauro, favorevole a un doppio turno di coalizione, a patto che al primo turno i partiti si contino con un proporzionale e soglia di sbarramento.
Tutto in attesa dell’incontro tra Renzi e Alfano, in agenda fin da quando il leader del Nuovo centrodestra ha chiamato il «rottamatore» per complimentarsi dopo le primarie. Il vicepremier non ha fretta, ed esorta i suoi a non prendersela troppo per le «ripetute provocazioni» e certe «cadute di stile» del segretario democratico: «Noi il patto di governo l’abbiamo sottoscritto con Letta», ripete. Come dire che se Renzi volesse davvero far saltare il banco, se la dovrebbe vedere con il presidente del Consiglio. E con il capo dello Stato.
il Fatto 14.12.13
La gara tra i due leader che manda in crisi il Pd
Il premier, in gran segreto, fa il blitz contro la “sorpresina” di renzi
Il segretario prepara la contromossa
Al Nazareno temono le casse vuote
di Paola Zanca
“Di certo non ci mettiamo a restituire i soldi, a fare una cosa che ha già fatto Grillo... ”. Però, al di là delle mosse escluse (in questo caso dal deputato Pd Ernesto Carbone, renziano della prima ora), qualcosa, il neo segretario, se la dovrà inventare. La “sorpresina” che aveva annunciato (via Twitter) per la prima assemblea di domani è stata in parte disinnescata dalla mossa mattiniera del premier.
Alle 9 del mattino Enrico Letta, anche lui via Twitter, annuncia che il consiglio dei ministri che sta per presiedere abolirà il finanziamento pubblico ai partiti. Non lo ha anticipato praticamente a nessuno. Per capire il livello di segretezza del blitz, sintetizzano i più introdotti a palazzo Chigi, “lo sapevano lui, Napolitano e Quagliariello”.
QUI IL PUNTO non è tanto chiarirsi sulla fondatezza dei proclami dell’esecutivo: piuttosto, quello che ha animato la discussione dei democratici, ieri, è stata la gara tra i due - ormai sempre più smaccati – sfidanti alla prossima guida del governo. Il primo rivendica orgoglioso l’impegno mantenuto (“L’avevo promesso ad aprile... ”, da ieri “la maggioranza è più coesa”), il secondo si limita a condividere con un clic. Poi, più nulla, assegnando ufficialmente a ieri il titolo di giornata meno loquace da quando è diventato segretario. Parlano poco anche i suoi. Giurano di averla presa “benissimo”, i “risultati arrivano subito” (Dario Nardella, deputato), ricordano l’altro successo di due giorni fa, quando la riforma della legge elettorale è stata “scippata” allo stallo del Senato ed è passata all’esame – teoricamente più snello – di Montecitorio, dicono che “la nuova segreteria è un toccasana per il governo” (Isabella De Monte, senatrice). Il problema è capire chi passa all’incasso, di questo “effetto Renzi”. Formalmente, spiegano anche dalla commissione di palazzo Madama che ora prenderà in carico il decreto, l’accelerazione risponde a ragioni tecniche: se si fosse aspettato l’iter del disegno di legge già approvato dalla Camera, la rata di marzo sarebbe andata automaticamente in pagamento. Si era cercato di non arrivare alla forzatura, per evitare che sembrasse “una cosa fatta per rispondere agli umori della piazza”. Ma alla fine la scelta del decreto è stata inevitabile.
Adesso se ne riparla a metà febbraio, quando scadranno i sessanta giorni dell’iniziativa del governo. Al Senato non escludono che alla fine le norme possano essere blindate con la fiducia. A destra, il ministro Quagliariello dice: “I cambiamenti li farà il Parlamento e non il governo e questo è il metodo che intendiamo assumere per le altre riforme”. Il forzista Renato Brunetta la interpreta in maniera diametralmente opposta: “I furbetti del governino, dopo aver lasciato in freezer la legge elettorale per 8 mesi hanno tirato fuori qualche addobbo per nascondere la propria insipienza”. I Cinque Stelle annunciano il loro no al decreto del governo. Spiega Alessio Villarosa, capogruppo alla Camera ancora per qualche giorno. “Se loro vogliono farci partecipare ad una truffa nei confronti dei cittadini, se lo scordano. Per noi l’abolizione è solo una, completa, ed è quella della proposta che abbiamo depositato a inizio legislatura. Questa è una finta – insiste Villarosa – Ci sono le agevolazioni alle scuole di partito, il due per mille... è un finanziamento mascherato. E poi il tetto da 300 mila euro è inaccettabile: al massimo possiamo accettare donazioni che arrivano a 5, 10 mila euro”. Non vogliono passare per quelli che dicono sempre no. Per questo, nei giorni scorsi hanno presentato a Renzi la lettera con cui hanno rinunciato ai rimborsi, con il messaggio: “Firma qui”. E la settimana prossima – la data è ancora da definire – terranno il secondo Restituition Day. La cifra risparmiata da indennità e diaria, questa volta, dovrebbe aggirarsi sui 3 milioni di euro. Ma non sanno dove metterli: il Fondo per le piccole e medie imprese ancora non c'è, con enti e associazioni si rischia il voto di scambio, il fondo di abbattimento del debito pubblico è un “calderone” dove temono si perda tutto.
PER ASSURDO, è nel Pd di Letta e Renzi - quello che dovrebbe dare il sì incondizionato - che le nuove norme preoccupano di più. “I partiti saranno costretti a cambiare pelle – dice ancora l’ex tesoriere Misiani – Si creerà una situazione di incertezza e sarà necessaria una profonda riorganizzazione. Bisognerà andare a chiedere risorse ai cittadini. E soprattutto fiducia: la fase di transizione triennale serve anche a provare a riconquistare questa”.
l’Unità 14.12.13
Presidenza Pd, Cuperlo dice sì a Renzi. Sarà presidente del Pd
Accetta dopo il pressing dei suoi. Il sindaco: non ti chiedo di non dire la tua
Partita aperta per la Direzione. Domani il via all’assemblea nazionale
Fassina: «Da Gianni una scelta di responsabilità»
di Maria Zegarelli
ROMA Dopo il pressing della sua area e quello di Renzi, Gianni Cuperlo dice sì: sarà lui il presidente del Pd. Il sindaco lo ha rassicurato: nessuno ti chiede di non dire la tua. Fassina: una scelta di responsabilità. L’elezione avverrà domani all’assemblea nazionale. Ancora aperto il «nodo» della Direzione.
La riserva è stata sciolta poco dopo le 13.30. Gianni Cuperlo ha accettato la candidatura alla presidenza del Pd e domani l’Assemblea nazionale procederà all’elezione ufficiale. Il via libera è arrivato dopo l’ultima telefonata con Matteo Renzi e la garanzia che quello di presidente non sarà un ruolo «imbalsamato», né tantomeno limitante rispetto all’azione politica che Cuperlo, in quanto capo di una minoranza, intende continuare a svolgere. «Gianni, nessuno ti chiede di rinunciare a dire la tua», è stata la rassicurazione del neo-segretario.
Ma a spingere l’ex segretario della Fgci ad accettare è stata anche la pressione dei suoi. «Rinunciare alla presidenza è come rinunciare alla sfida di rilanciare questo partito e il segnale che è arrivato dalle primarie riguarda tutti, anche noi», è stata una delle cose che Matteo Orfini, giovane turco, ha sottolineato durante uno degli innumerevoli incontri di questi ultimi tre giorni. Ieri mattina Cuperlo ha incontrato a Montecitorio, tra gli altri, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, il ministro Andrea Orlando, e poco dopo la notizia. Quello che la sua area non avrebbe mai accettato era un passo indietro di Cuperlo per proporre altri nomi (si sono fatti quello di Alfredo Reichlin, di Pier Luigi Bersani e di Barbara Pollastrini). «Noi non accettiamo subordinate, Gianni, o tu o nessuno», è stata la posizione largamente maggioritaria. Chiarissime le motivazioni: «Anche per la presidenza è necessario mandare un messaggio di cambiamento». A fare da pontiere, oltre ai renziani della prima ora, anche il vicecapogruppo Antonello Giacomelli, che ieri ha parlato a lungo con Nico Stumpo.
Renzi non intende procedere come è stato nel passato, con il tutti contro tutti, vuole che la svolta passi anche attraverso il superamento del correntismo esasperato. «Accettare la presidenza puntualizza Orfini non vuol dire entrare in maggioranza, noi non siamo Area-dem, e con Matteo siamo in disaccordo su troppe cose, a partire dal lavoro e dalle letture economico-sociali. Ma questo non vuol dire remare contro, vuol dire portare avanti con lealtà una battaglia politica». Anche perché la consapevolezza unanime, il vero collante del partito, è che stavolta è l’ultima chance. «Ancora una volta, Gianni compie una scelta di responsabilità nell’interesse di tutti», dichiara Fassina, mentre plauso e in bocca al lupo arrivano da Gianni Pittella, Marina Sereni e molti altri big del partito.
LE ALTRE PARTITE
Se la partita della presidenza sembra ormai chiusa, altre sono quelle che si stanno giocando in queste ore. Deciso il tesoriere, sarà il toscano Francesco Bonifazi, restano da stabilire i nove componenti della commissione di garanzia (che dovrebbero essere definiti entro domani) e i membri della direzione. Ventidue a Cuperlo, diciassette a Civati e ottantuno a Renzi, queste le proporzioni venute fuori dal congresso. Oltre ai venti che sono di assoluta discrezionalità di Renzi (il segretario intende nominare personalità del mondo della cultura e della società civile) e a quelli che, statuto alla mano, ne fanno parte di diritto, cioè i capigruppo di Camera e Senato, del Parlamento europeo, il tesoriere e il segretario dei Giovani democratici.
Altro capitolo: quelli che potrebbero farne parte in virtù degli incarichi istituzionali che rivestono o hanno rivestito, dagli ex segretari (Veltroni, Franceschini, Bersani e Epifani) agli ex presidenti del Consiglio (Romano Prodi e Massimo D’Alema). Ieri Cuperlo ha chiesto a Renzi di ampliarne il numero, aprendo anche a presidenti di Regione e ministri (in questo modo Fassina e Orlando entrerebbero sotto questa “voce”), ma da Firenze è stata registrata una netta rigidità. Spiegano dal team del segretario: «Uno dei due criteri che ci siamo dati è che con le nomine di diritto e quelle di rappresentanza istituzionale non si possono alterare i risultati congressuali». Vale a dire: gli equilibri interni post-primarie non possono essere stravolti cercando di far entrare dalla finestra ciò che gli elettori hanno buttato fuori dalla porta. Ma la questione è tutt’altro che chiusa, tanto che Cuperlo e i suoi ieri sera si sono riuniti per definire la rosa di nomi e per fare pressing sul segretario.
L’altro criterio imposto da Renzi è quello di non rendere questo organo «elefantiaco». Per i bersaniani in quota Cuperlo dovrebbero entrare in direzione Stumpo, Fassina, D’Attorre, Campana e Martina, mentre tra i Giovani turchi i nomi dovrebbero essere quelli di Andrea Orlando (se non entra nella quota ministri), Orfini, Verducci, Velo. Tra i civatiani Laura Puppato, Felice Casson e Elly Schlein.
Agitazione nel Pd emilian-renziano perché ieri sera ancora non si conoscevano i criteri con i quali la maggioranza sta decidendo le new entry della direzione: la pratica è nelle mani di Renzi.
Repubblica 14.12.13
L’intervista
“Con il sindaco si può voltare pagina su lavoro e diritti battaglia comune”
Landini e l’asse con il leader: è più libero dei suoi predecessori
“Ambisce a diventare il presidente del Consiglio, mi pare naturale che la Fiom dialoghi con lui”
“Non condivido la parola rottamazione, ma serve un cambiamento profondo anche nel sindacato”
di Roberto Mania
ROMA — «Renzi ha un atteggiamento molto più libero sui temi della democrazia, del lavoro, della lotta alla precarietà rispetto a chi lo ha preceduto alla guida del Partito democratico». Chi parla è Maurizio Landini, leader della Fiom, sindacato politico per eccellenza, radicale di sinistra-sinistra, conflittuale, movimentista. Fino al punto da teorizzare e praticare l’“indipendenza” nei confronti della Cgil. Ma la frase di Landini, che non appartiene nemmeno alla stessa generazione di Renzi avendo compiuto 52 anni, dimostra che c’è davvero un’inedita sintonia tra il nuovo segretario del Pd e il capo della Fiom, nel passato più vicino alle posizioni di Sel e di Rivoluzione civile.
Landini, lei e Renzi vi incontrate, discutete, vi lanciate messaggi di reciproco interesse. Sta nascendo un nuovo asse a sinistra del tutto imprevisto: una strana coppia. Qual è il vostro obiettivo?
«Renzi è stato eletto — e non va sottovalutata la maggioranza che lo ha scelto — sulla base di un richiamo alla necessità di un cambiamento. Bene, è un bel po’ chenoi della Fiom diciamo che si deve cambiare perché non c’è mai stata una fase con questi livelli di ingiustizia sociale, così come non è mai stata così grande la svalorizzazione del lavoro. Renzi vuole voltare pagina, ambisce a diventare premier, mi pare naturale che la Fiom cerchi un confronto con lui nel reciproco rispetto dei ruoli ».
Quali sono i punti di incontro?
«Innanzitutto quello sulla democrazia. Renzi ha usato un processo ampiamente democratico per conquistare la segreteria del Pd. Al contrario — e Renzi lo ha capito — non ci sono più regole democratiche nei luoghi di lavoro. In questi anni si sono approvate leggi contro il lavoro, si sono cancellate le pensioni, e i lavoratori hanno perso il diritto di votare sui contratti e sugli accordi».
E lei — sempre che il suo ragionamento sia corretto — pensa che Renzi possa riportare nel mondo del lavoro le regole della democrazia?
«Sì. Come segretario del Pd può decidere che è fondamentale approvare una legge sulla rappresentanza e la democrazia sindacali ».
Ma Cgil, Cisl e Uil non hanno fatto a maggio un accordo con la Confindustria su questo? Addirittura venne definito un “accordo storico”.
«È gravissimo che non sia stato ancora applicato. Ma è la Confindustria che non lo vuole e punta a inserire un meccanismo di sanzioni per impedire l’esercizio del diritto di sciopero».
Un po’ il modello Marchionne. Quello che piace a Renzi. Come la mette?
«Intanto dico che quel modellopiace meno alla Corte costituzionale e poi suggerirei a Renzi, se proprio cerca un modello, di mettersi a studiare quello della Volkswagen».
L’economista più ascoltato daRenzi, Yoram Gutgeld, propone per i giovani un contratto unico a tempo indeterminato senza però l’articolo 18. Lei cosa ne pensa?
«Non sono d’accordo. L’articolo 18 è già stato manomesso.Quanti nuovi posti ha creato? Quante multinazionali sono venute in Italia? La verità è che il nuovo articolo 18 ha prodotto più licenziamenti per ragioni economiche. Serve altro: azzeramento delle forme di precarietà, inserimento del reddito minimo, riduzione degli orari, nuovi investimenti pubblici e privati, salvaguardando l’industria pubblica anziché svenderla con le privatizzazioni. Ma questo governo e questo Parlamento sono in grado di realizzare il cambiamento?».
Sulle privatizzazioni anche Renzi è contro.
«Mi pare una posizione di saggezza ».
Renzi ha apprezzato le sue posizioni critiche nei confronti del
sindacato, lei ricambia sulla politica? Serve la rottamazione?
«Non condivido la parola rottamazione, ma un cambiamento profondo comporta assolutamente anche un cambiamento delle persone».
Sembra pronto per iscriversi al nuovo Pd. Lo farà?
«Finché sarò il segretario della Fiom avrò solo due tessere in tasca: quella della Cgil e quella dell’Anpi».
Ma voterà Renzi quando si presenterà come candidato a Palazzo Chigi?
«Valgono i contenuti. La personalizzazione della politica ha già fatto troppi danni con Berlusconi ».
il Fatto 14.12.13
Mps, Gip si riserva su archiviazione suicidio David Rossi
IL GIP DEL TRIBUNALE di Siena Monica Gaggelli ieri si è riservato di decidere sulla richiesta di archiviazione avanzata dai pm Aldo Natalini e Nicola Marini titolari dell’inchiesta sulla morte di David Rossi, l’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi che secondo gli inquirenti si sarebbe ucciso gettandosi dalla finestra del suo ufficio la sera del 6 marzo. Contro la richiesta di archiviazione ha presentato opposizione a nome della vedova l’avvocato Luca Goracci producendo anche una perizia tecnica e nuova documentazione estratta dai computer di Rossi, quindi già in possesso degli inquirenti, dalla quale emergono dubbi sul fatto che si sia trattato di un evento suicidario. Goracci ha chiesto anche l’avocazione dell’indagine al procuratore generale. Durante l’udienza di ieri i pm hanno a loro volta prodotto nuova documentazione a sostegno dell’archiviazione, ma il Gip Gaggelli ha deciso di riservarsi sulla decisione.
Corriere 14.12.13
Il sondaggio Swg
Effetto primarie, il Pd vola al 35,6%
La vittoria di Matteo Renzi alle primarie tira la volata al centrosinistra. È quanto emerge da un sondaggio realizzato da Swg tra il 10 e l’11 dicembre. Se si votasse oggi, il 35,6% degli intervistati sceglierebbe il Partito democratico. Oltre alla percentuale, a stupire è la rimonta di più di 10 punti operata dai riformisti, che alle elezioni di febbraio si erano fermati al 25,4%. Di riflesso, è Forza Italia a perdere consensi: dal 21,6% totalizzato dall’allora Pdl alle Politiche si scende oggi a intenzioni di voto del 18,9%. Per la prima volta, spiegano i numeri di Swg, il partito di Silvio Berlusconi subisce un calo non dovuto alla scissione dal Nuovo centrodestra ma alle posizioni assunte dall’ex premier, che si è avvicinato tatticamente al Movimento 5 Stelle di Grillo e ha concentrato troppo la sua attenzione alla piazza. Le percentuali svelano infatti che una parte dell’elettorato del centrodestra difficilmente accetta quando dalla difesa del Cavaliere si passa ad altri temi. In calo anche il Movimento 5 Stelle: dal 25,5% del voto di febbraio, oggi i pentastellati sono a quota 18,1%.
l’Unità 14.12.13
Sparisce la distinzione tra figli «legittimi» e «naturali»
Stessi diritti per i figli di coppie sposate o di fatto e anche per chi è adottato
Il decreto governativo stabilisce l’uguaglianza giuridica anche come eredi
di Osvaldo Sabato
Una vera e propria rivoluzione che cancella dalle norme italiane la distinzione fra figli legittimi e naturali. Con l’approvazione di ieri del Consiglio dei Ministri del decreto legislativo di revisione delle disposizioni in materia di filiazioni, come ha spiegato il premier Enrico Letta viene «tolto dal codice civile qualunque aggettivazione alla parola figli: da adesso in poi saranno tutti figli e basta». In altri termini da ora in poi nella nostra legislazione non ci sarà più nessuna discriminazione fra i figli nati dentro e fuori il matrimonio. I piccoli delle coppie civilmente sposate avranno, quindi, gli stessi diritti delle coppie di fatto. Anche quelli adottati.
Il testo del decreto legislativo, predisposto nell’ambito della Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, guidata dal professore Cesare Massimo Bianca, prevede il principio dell’unicità dello stato di figlio e la conseguente eliminazione di ogni forma di discriminazioni fra i differenti status e il provvedimento garantisce la completa uguaglianza giuridica in materia civilistica e penale, rispettando così l’articolo 30 della Costituzione. Il tutto al fine di garantire «la completa eguaglianza giuridica degli stessi» ha precisato Letta. Questo significa che anche i codici di procedura civile e penale, la legge consolare, dovranno essere aggiornati alla luce della decisione di ieri. Un decreto che interessa moltissime persone, se si pensa che oggi in Italia un bambino su quattro è nato fuori dal matrimonio. Sono centomila i figli naturali nel nostro paese, il 20% del totale. In questo modo Palazzo Chigi cancella un’anacronistica differenza e si mette in linea con i principali Paesi europei.
Già nel novembre del 2012 la Camera aveva approvato il disegno di legge che parificava i figli legittimi e naturali. Nell’articolo 74 veniva specificato che «la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo». Ma quali sono gli effetti concreti del decreto legislativo del Cdm di ieri? Il più importante è il principio per cui la «filiazione fuori dal matrimonio produce effetti successori nei confronti di tutti i parenti, allo stesso modo in cui li produce la filiazione nel matrimonio». Eliminando così quelle norme che fanno riferimento ai figli «legittimi» e ai figli «naturali», sostituendoli con quello di «figlio».
Superata anche la nozione di «potestà genitoriale» sostituita dalla «responsabilità genitoriale». Non è una differenza di poco conto: cambia sostanzialmente tutto perché ad essere privilegiato è «il superiore interesse dei figli minori». In questo concetto rientra anche la cancellazione di qualsiasi discriminazione dei figli adottivi.
Quando ad essere adottato è un minorenne acquisisce lo stato di figlio «nato nel matrimonio». Se ad essere adottato è un maggiorenne non è previsto alcun vincolo di parentela con i parenti degli adottanti.
Questa parificazione ha conseguenze anche ai fini ereditari.
Molto importante è la parte del decreto che regolamenta le successioni: viene previsto un termine di prescrizione di dieci anni per l’accettazione dell’eredità per i figli nati fuori dal matrimonio e cancella il «diritto di commutazione» in capo ai figli legittimi fino ad oggi previsto per l’eredità dei figli naturali. In precedenza in base alla «commutazione» i figli legittimi potevano soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali. Ora non sarà più così: quando c’è di mezzo un’eredità tutti i figli, naturali o legittimi, avranno gli stessi diritti. E in questo modo viene soppressa la principale discriminazione (ex articolo 537, comma 2 del codice civile) ai danni dei nati fuori dal matrimonio.
Lo stesso decreto affronta anche il grave problema dell’abbandono dei minorenni da parte dei genitori. Quando si verifica i Tribunali dei minorenni segnalano ai comuni le condizioni di indigenza delle famiglie. È previsto anche l’ascolto dei minori, se capaci di discernimento, quando ci sono dei procedimenti che li riguardano e recependo la giurisprudenza della Consulta e della Cassazione il termine per proporre l’azione di disconoscimento della paternità è limitato a cinque anni dalla nascita.
Introdotto anche il diritto degli ascendenti di mantenere «rapporti significativi» con i nipoti minorenni. Ed è prevista una tutela per i nonni con la «legittimazione degli ascendenti» a far valere «il diritto di mantenere rapporti significativi con i minori» valutando le istanze «alla luce del superiore interesse dei minori».
il Fatto 14.12.13
Il governo si arrende sul 138: la Costituzione è salva (per ora)
Il ministro Franceschini ammette: “Non possiamo più procedere”
di Luca De Carolis
Basta con l’assalto alla Costituzione, avevano scherzato. Ovvero, la marcia indietro del governo che per stravolgere l’articolo 138 ha buttato tempo e soldi pubblici. Ma che ora deve rimangiarsi proclami e sondaggi on line e “mandare in pensione i saggi”, proprio come voleva Renzi (pentitosi in corso d’opera): perché non ha più i numeri. Ieri nella conferenza dei capigruppo il ministro per i Rapporti per il Parlamento, Dario Franceschini, ha fatto sapere che il governo “non procederà” alla Camera sul ddl costituzionale 813. Stop al testo che affidava a un comitato di 42 parlamentari il potere di riscrivere metà della Carta e derogava al 138, dimezzando da tre mesi a 45 giorni l’intervallo tra le due votazioni in ciascuna Camera sulle leggi costituzionali. Uno strappo per portare a casa entro il 2014 una Costituzione in chiave semipresidenzialista. Mancava solo il voto di Montecitorio, per il via libera definitivo al ddl. Ma è arrivato il semaforo rosso, perché dopo l’uscita di Forza Italia il governo non ha più la maggioranza dei 2/3 con cui avrebbe blindato il testo, rendendo impossibile un referendum. E allora dietrofront, già preannunciato martedì scorso da Letta alla Camera: “Lavoreremo sulle riforme con l’attuale procedura del 138”. Franceschini l’ha confermato nella capigruppo, su precisa domanda di Renato Brunetta (“Ma che fate sul 138?”). Lo ha reso noto proprio il capogruppo di Fi, con termini un po’ confusi: “Il governo ha formalizzato la fine della riforma Quagliariello dell’art. 138 sui Saggi, siamo soddisfatti”. Dal capogruppo del Nuovo Centrodestra, Enrico Costa, risposta al curaro: “Qualcuno deve avere informato male Brunetta. Cosa farà quando scoprirà che i saggi non c’entrano proprio niente, e che la deroga al 138 serviva a far lavorare insieme le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato?”. Schermaglie a destra, come sfondo all’ennesimo tonfo dell’esecutivo.
PER NAPOLITANO e Letta la riforma costituzionale era un pilastro delle larghe intese. O meglio, un collante per tenere dentro anche il Pdl, fautore del presidenzialismo. A gestire la partita era soprattutto il ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello: ex colomba Pdl, vicino al Quirinale, quindi saggio. Era lui a sovrintendere al comitato dei 35 esperti (diventati 33 dopo le dimissioni di Lorenza Carlassare e Nadia Urbinati) nominati da Letta su ispirazione del Colle. E proprio Quagliariello aveva voluto la consultazione on line sulla riforma, pubblicizzato su tv e media vari. Due questionari compilati da oltre 130 mila persone, come aveva rivendicato il ministro. Già ingialliti. Letta ha alzato bandiera bianca, di fronte ai numeri e all’insistenza di Renzi, che già prima dell’elezione a segretario del Pd l’ha invitato a pensionare i saggi. Trascurando il fatto che dei 33 esperti almeno due sono renziani conclamati. Ma il sindaco di Firenze aveva fretta di chiudere la vicenda, anche per impedire eventuali scambi tra Forza Italia e il governo (su giustizia e legge elettorale). La vittoria sul 138 è però di M5S e Sel: unici a opporsi a un testo contro il quale il Fatto ha raccolto 450milafirme.IdeputatidiM5S: “Se non avessimo fatto slittare di un mese da agosto a settembre questa scellerata volontà dei partiti, e se non fossimo saliti sul tetto di Montecitorio, la riforma avrebbe fatto in tempo a passare prima del passaggio di Berlusconi all’opposizione”. Gennaro Migliore (Sel) osserva: “Abbiamo vinto, perché abbiamo fermato il presidenzialismo. Il governo non poteva permettersi un referendum sul ddl, perché avrebbe rimediato una solenne bocciatura. Ora possiamo lavorare sulle vere riforme”. Ossia, discutere anche del ddl Quagliariello: il piano b del governo, che prevede il taglio dei parlamentari, il Senato delle autonomie e l’abolizione delle province.
l’Unità 14.12.13
Il leader dei Forconi si scaglia contro gli ebrei
Zunino: «L’Italia schiava delle banche ebraiche». L’indignazione delle Comunità
Niente marcia su Roma, ma solo un presidio «a oltranza»
di Salvatore Maria Righi
E alla fine, dopo una settimana di guerre stellari contro tutto e contro tutti, arrivarono anche gli anatemi verso gli ebrei. Al quinto giorno di forconi e di forconate, facendo una retromarcia che nemmeno uno dei Tir mobilitati per lo scopo (niente più marcia su Roma, si farà un «presidio a oltranza», probabilmente nella giornata di mercoledì), l’Italia scopre che anche l’antisemitismo può anche essere frullato insieme alle proteste contro Imu, canone Rai, carico fiscale alle piccole imprese, pedaggi e balzelli vari, se serve alla causa.
Forse a sua insaputa, come il lider maximo Danilo Calvani che arringa la piazza (e sfugge ai creditori) su fame e povertà senza rendersi conto del sei cilindri e degli interni in pelle della Jaguar, almeno secondo quello che racconta l’interessato, anche Andrea Zunino, 60 anni portati in modo ruggente, tra Briatore e l’ex portiere Stefano Tacconi, scivola su una buccia di banana che mescola tragedia e retorica, scatenando reazioni sdegnate e preoccupate. «Vogliamo la sovranità dell’Italia, oggi schiava dei banchieri come i Rotschild: è curioso che 5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei, ma è una cosa che devo approfondire» ha dichiarato Zunino in un’intervista a Repubblica. Mentre lui approfondisce, non farà fatica a trovare spunti visto che è probabilmente l’argomento più trito e ritrito del Novecento insieme ad Italia-Germania 4-3, e in fondo c’è una consequenzialità abbastanza sinistra, seppur involontaria, nel sentirlo dopo aver sentito le minacce di altri roghi di libri, non si sono fatte attendere le dure reazioni di chi, invece, queste cose non può che prenderle seriamente.
DURA REPLICA
E che sull’antisemitismo, vero o arruffato, non può che opporre la propria storia e la propria identità. Come, ad esempio, l’Unione Giovani Ebrei d’Italia che parla di affermazioni «vergognosamente antisemite». O come la comunità ebraica di Roma. «La boutade di Zunino afferma il presidente Riccardo Pacifici ripercorre le parole di nuovi e vecchi leader che nella storia del nostro continente hanno portato alla catastrofe e alla morte di milioni di cittadini. Facciamo dunque appello prima di tutto a coloro che sono nella disperazione di non farsi tentare dal fascino delle ideologie che immaginavamo sepolte». A proposito di orrori che si pensava, o meglio sperava, sepolti, ci sono sicuramente anche le liste di proscrizione che i forconi hanno messo in rete, compilandole con nomi e cognomi di decine di dipendenti dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia. La mail è stata inviata da un gruppo denominato “La Giusta Forca”. «Di seguito nomi di alcuni indegni aguzzini delle macchine fiscali che sono stati giudicati colpevoli dai comitati della Giusta Forca. Essi si sono macchiati di atti gravissimi contro persone, famiglie ed imprese, che hanno deliberatamente condotto alla catastrofe, e per questo meritano la forca». Nella lettera elettronica non mancano istruzioni agli adepti: «Ognuno di noi ha il dovere di colpirli per restituire giustizia al Popolo. Non agite in grandi gruppi poiché le forze dell'ordine sarebbero così facilitate nel monitorarvi. Separatevi in piccoli gruppi ed agite rapidi ed invisibili». Di fronte a questo modo di protestare e di rivendicare i propri diritti, c’è chi ha parlato di attacco alla democrazia e c’è chi, come Luca Zaia, ricorda che «quando la pancia è vuota, si fanno le rivoluzioni». Poi, il governatore del Veneto corregge il tiro: «L'essenza della protesta è sacrosanta, ma nel rispetto della legalità e delle regole. Questo è un Paese che non risponde più ai bisogni dei cittadini, ci sono i disoccupati, la gente non ce la fa più». Anche Crocetta apre ai forconi, a patto che depongano l’ascia di guerra della violenza. Di certo, il movimento sta ripiegando, spostandosi dai presidi occupati in questi giorni. Così a Ventimiglia dove la notte scorsa è stato riaperto al traffico il ponte sul fiume Roja, che era stato occupato da un gruppo di manifestanti. In Veneto, invece, sono scesi in campo gli studenti, proprio mentre Zaia dispensava quella ponderosa analisi della situazione: a Treviso, a Vicenza e soprattutto a San Donà di Piave, nel Veneziano, centinaia di ragazzi sono scesi in strada per solidarizzare. Traffico in tilt in diversi punti della Regione. Poi ci sono anche gli incompresi. «Volevo fare qualcosa per il mio paese», ha dichiarato una delle due persone arrestate a Torino per estorsione ma che non ha fatto granché, a quanto pare, per il titolare del bar che ha costretto con la forza ad abbassare la saracinesca, in un concetto di democrazia dal basso non proprio chiarissimo.
l’Unità 14.12.13
«Non sono sciocchezze, ma il termometro dei tempi»
«Anziché analizzare le ragioni di una crisi si scelgono facili scorciatoie
In Ungheria molti ebrei stanno scappando»
L’antisemitismo tra i Forconi
di Tobia Zevi
Di fronte alle dichiarazioni antisemite poi smentite di Andrea Zunino, portavoce dei Forconi, bene ha fatto Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, a esprimere la sua ferma condanna.
Perché da una parte non possiamo abbassare la guardia. Dobbiamo vigilare, denunciare, ammonire. A cominciare da quelle parole, come ha detto Gattegna, ispirate «dai più violenti e biechi stereotipi antisemiti», che offendono «non soltanto la memoria di milioni di individui che in nome dell' ideologia nazista trovarono la morte tra le più atroci sofferenze ma soprattutto l’intelligenza, la coscienza democratica e la maturità di quella popolazione italiana le cui istanze ci si propone di rappresentare, evidentemente in modo inadeguato, nella strade e nelle piazze di tutto il paese». Dall’altra parte, dobbiamo evitare che queste esternazioni facciano il gioco di sedicenti leader, inquinando e sporcando le ragioni di un movimento di protesta che, pur tra mille contraddizioni, esprime un disagio crescente in tutta la società italiana.
Il sentiero è assai stretto. Non possiamo permetterci di banalizzare, derubricando a sciocchezze affermazioni di una gravità inaudita (come quando si parla di «barbarie nazi-fascista», escludendo i lager dal novero delle manifestazioni umane, troppo umane), ma dobbiamo percorrere la via del ragionamento. In questo senso ci aiuta quanto descritto su queste colonne da Luigi Manconi, che ha raccontato il rogo recente, in Ungheria, delle poesie di Milós Radnóti, poeta e martire ebreo del Novecento, la cui memoria è presa di mira da gruppi nazistoidi ben coccolati dal partito di governo. Roghi di libri – ricorda qualcosa, sempre a proposito di Forconi? – cui è seguita la distruzione della statua dell’artista.
Solo pochi mesi fa il Congresso mondiale ebraico scelse di tenere la sua Assemblea generale a Budapest per destare l’attenzione del mondo su quanto avviene dalle parti del Danubio: discriminazioni nei confronti di ebrei e Rom; leggi liberticide nei confronti dei giornalisti (Beppe Grillo potrebbe prendere spunto!); impunità per milizie neo-naziste che agiscono e minacciano nei quartieri e per le strade. E vengono alla mente, nella nostra ignavia e nel nostro disinteresse, le parole pronunciate dal direttore dell’Agenzia di stampa ungherese pochi minuti prima di essere assassinato dai soldati sovietici, riportate da Milan Kundera nel 1984: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa».
Che cosa sta accadendo nel nostro continente? Marine Le Pen e i movimenti euroscettici sembrano rafforzarsi e persino prevalere un po’ ovunque, mentre la crisi economica non si interrompe, le diseguaglianze aumentano, e le istituzioni comunitarie si mostrano afasiche di fronte a drammi epocali come i flussi migratori dall’Africa e incapaci di fronte agli aneliti di libertà provenienti dall’Ucraina. I leghisti, dal canto loro, ospitano sia Le Pen sia i Forconi, trait d’union delle pulsioni più preoccupanti in circolazione. È la retorica dei «poteri forti», quella vergognosamente riassunta da Zunino. Una formula abusata che fa perno proprio sulla sua indeterminatezza. E che ha ovviamente grande presa sulla protesta disorganizzata, confusa, rabbiosa, sostanzialmente miope che si manifesta in questi giorni.
Anziché analizzare le ragioni di una crisi epocale, che affonda le sue radici nel ricorso esasperato alla finanza e al consumo di merci e del pianeta; anziché interrogarci sul modello di sviluppo che abbiamo sposato e sugli errori compiuti; anziché studiare i cambiamenti profondi imposti dalla globalizzazione nelle sue mille sfaccettature, ci si rifugia nella sciatteria e nel pressapochismo.
Si umilia la lingua. Ma mentre la precisione linguistica è una prova di qualità democratica (come spiegava George Orwell), la confusione è invece un primo campanello d’allarme. Si va alla ricerca di un capro espiatorio, spesso ancora sfuggente («tecnocrati», «euroburocrati»). Ma su questa china, prima o poi si finisce agli ebrei. Anche se oggi se la prendono anche con immigrati o zingari.
In questo momento gli ebrei ungheresi, se possono, lasciano l’Ungheria. Come mi disse anni fa un leader druso libanese, che certamente non conosceva la poesia di Bertold Brecht: «Quand les juifs partent, c’est un mauvais signe», («quando lasciano gli ebrei, è un brutto segno). Cerchiamo di fare qualcosa.
il Fatto 14.12.13
Ultrà, neofascisti e centri sociali: chi va nei cortei
LA PROTESTA dei Forconi non ha coinvolto soltanto gli autotrasportatori. In questi giorni sono scesi in piazza anche gli studenti, i cassintegrati, i precari, gli ambulanti. Ma il clima di tensione è l’occasione per il protagonismo di frange estreme pronte a cavalcare la rabbia: centri sociali, leghisti delusi, neofascisti di Forza Nuova e Casa Pound, ma anche gli ultrà di Milan, Toro e Juve.
CASAPOUND
Simone Di Stefano
“C’è una classe politica cialtrona e venduta che se ne deve andare, un sistema economico fallimentare da abbattere. Ma nei presidi solo il Tricolore, niente simboli nostri”.
FORZA NUOVA
Roberto Fiore
“Agricoltori, camionisti, commercianti, piccoli imprenditori, studenti, sono sociologicamente vicini alle istanze di Forza Nuova. Una maggioranza rumorosa vicina alle nostre tesi”.
ASKATASUNA
Lele Rizzo
“Non vi chiediamo di aderire in toto alle modalità, ma di starci dentro e provare a invertirne la rotta. Lasciare questa piazza in mano a fascisti e mafiosi può rivelarsi controproducente”.
EX LEGHISTI
In Veneto tra i Forconi ci sono anche ex militanti del Carroccio e diverse sigle territoriali. A coordinare i presidi c’è Lucio Chiave-gato dell’associazione indipendentista Life. Sul suo blog: “Basta Italia, basta Lega, basta tasse”.
Repubblica 14.12.13
Antagonisti di destra e di sinistra uniti il virus del contagio che spaventa l’Italia
Così l’esercito dei ribelli cova il sogno della grande spallata
di Gad Lerner
MILANO A ROMA gli occupanti della Sapienza mostravano un cartello: “E oggi non ve lo togliete il casco?”.
DOPO le botte prese, immagino gli prema distinguersi dai forconi: agli studenti la polizia mica ha concesso benevolenza. La differenza resta, d’accordo, ma quando il malessere sociale accomuna chi precipita nella scala sociale, e l’aria di rivolta serpeggia un po’ dappertutto, allora è il contagio a prevalere. Il pericolo non può che aumentare, con cadenza geometrica. Non si va più tanto per il sottile, fra destra e sinistra. Ma l’effetto contagio che suggestiona chi si attende una spallata antisistema è anche l’ambiguo contenitore di virus pericolosi, come dimostra la delirante uscita sulle colpe dei “banchieri ebrei” del leader dei Forconi piemontesi Andrea Zunino.
Non ho trovato fra i manifestanti nessuno che ne rivendicasse il complottismo antisemita, ma ben sappiamo che la ricerca del capro espiatorio, quando la miseria materiale s’intreccia con l’ignoranza e il pregiudizio, può avvelenare il senso comune di tanti disperati in buona fede. Radicalizzare il conflitto, da destra come da sinistra, comporta anche il rischio di resuscitare fantasmi e scatenare la caccia ai “nemici del popolo”. A chi si ritrova nelle università come nelle piazze, oggi è dovuto un surplus di precauzione.
Gli universitari romani ora chiedono le dimissioni del rettore Luigi Frati, accusato di clientelismo, ma l’episodio scatenante è stato l’invito da lui rivolto a Napolitano e Letta per un convegno nell’ateneo. Il capo dello Stato e il premier vengono additati come massimi responsabili della sofferenza generalizzata. Sono, per loro, il vertice di una classe dirigente da mandare tutta a casa, senza distinzioni. Non è forse la parola d’ordine contagiosa lanciata dai blocchi stradali di Torino, Genova, Milano?
Certo, a Scienze politiche sotto occupazione non si sente cantare “Fratelli d’Italia” come in piazzale Loreto a Milano, dove scandiscono la rima «Noi siamo il popolo, voi non siete un cazzo, uscite dal Palazzo ». Alla Sapienza usano un altro linguaggio, più politico, «Fuori i signori dell’austerity dall’università »; mentre in Loreto gridano «siamo apolitici» e sventolano il tricolore.
Eppure la diffidenza che nei primi giorni della rivolta teneva separati i centri sociali e la Fiom dal magma senza rappresentanza degli ambulanti e degli ultrà da stadio, ormai viene ritenuta eccessivamente schizzinosa anche da vecchi militanti della sinistra come Guido Viale e Marco Revelli. Èstato proprio Viale a ricordare che il lungo ciclo di lotte della nuova classe operaia a Torino fu inaugurato nel 1962 da una sassaiola contro la sede Uil di piazza Statuto, che ebbe per protagonisti dei giovanissimi balordi mescolati ai militanti di base del partito comunista. La citazione storica, mezzo secolo dopo, deve fare i conti con la demografia: ci sono, sì, i giovanissimi disoccupati, fra gli animatori dei blocchi stradali. Ma il coordinamento sembra piuttosto in mano a maturi esponenti di un lavoro autonomo impoverito, barbe lunghe e pancia grossa, qualche orecchino e codino trattenuto con l’elastico, decisamente brizzolati. Sono questi signori con l’aria di saperla lunga che ripetono come un mantra: «Noi siamo l’Italia, noi siamo il popolo, a noi la politica non ci interessa, ormai anche Grillo ha i suoi deputati che prendono lo stipendio».
Così accade che proprio piazzale Loreto, col suo richiamo evocativo ai partigiani trucidati e al regime appeso a testa in giù, diviene il laboratorio di questo guardingo annusarsi fra destra e sinistra.Tentate dalla spallata comune. Me lo dice chiaro Stefano, titolare di un’azienda di pulizie e ristrutturazioni, che qui viene riconosciuto come testa pensante: «Io sto pregando perché estrema destra e estrema sinistra si incontrino, metterle insieme è il nostro sogno. L’altra sera ci è toccato proteggere i ragazzi di Forza Nuova che ci avevano chiesto il permesso di venire con un loro striscione». Accanto a lui, per fare sì con la testa, il giovane Nicola si toglie la maschera di Anonymus e rassicura: «Se qui ci stiamo anche noi, gli antagonisti, è perché il pericolo di cadere preda dei fascisti non esiste. Dobbiamo credere nell’unità popolare».
Parte un coro di invocazioni da questa sorta di galleria di ritratti della marginalità sociale: «Ho 41 anni e da quattro non trovo lavoro. Sopravvivo perché mia madre ha venduto la casa per cui avevamo già pagato dieci anni di mutuo. Ti sembra giusto? È un paese marcio! ». «Io sono di destra ma l’ideologia politica non conta. Faccio assistenza tecnica per macchine da caffè, ma ora i bar li comprano i cinesi, sto facendo le carte per andarmene all’estero». «Siamo mamme arrabbiate, scrivilo!». Cantano: «La gente come noi nonmolla mai...».
Gli chiedo cosa vogliono, dopo quattro giorni che, a Rho come a piazzale Loreto, fermano le automobili per pochi minuti e aspettano via Facebook rinforzi che non arrivano mai. «Teniamo duro perché sentiamo che la gente è con noi, ci danno tutti ragione e poi non abbiamo nulla da perdere». Forse anche loro percepiscono che il contagio della rivolta si profila come un’eventualità tutt’altro che remota. Mi danno un volantino primitivo, di poche frasi: «Se non te ne sei accorto questa classe politica criminale ti sta pisciando addosso e ti racconta che è solo pioggia!».
Davvero pensate che con 2085 miliardi di debito pubblico il problema siano solo i costi della politica? «Lo sappiamo che in proporzione i soldi dei politici sono spiccioli, ma quella è la diga da rompere ». Credete anche voi alla teoria dei banchieri ebrei? «Macché, sono stupidaggini». Facebook li esalta con le fotografie di nuovi blocchi, altra gente in piazza. Sono sicuri di vincere. Confidano che nei prossimi giorni arriveranno gli indifferenti di ieri. Puntano sul contagio.
Corriere 14.12.13
Quasi 20 morti in Yemen
L’attacco dei droni sul corteo nuziale
di C. Zec.
Un copione già visto molte volte in Afghanistan e Pakistan: un drone americano in missione contro terroristi islamici, un corteo di auto sospetto avvistato dal cielo, l’attacco. E una strage di civili. Ieri è successo in Yemen: l’aereo senza pilota ha colpito un convoglio di macchine diretto a un matrimonio a sud della capitale Sanaa, vicino alla città di Radaa, passata alle cronache lo scorso anno per essere stata «conquistata» da Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa). I militanti affiliati al gruppo fondato da Bin Laden dopo aver liberato decine di detenuti avevano stretto un patto con la tribù locale per gestire insieme la città. Ed erano alcuni loro leader che ieri il drone Usa stava cercando.
Le prime informazioni dopo l’attacco parlavano di un clamoroso errore, l’ennesimo, e di soli morti civili. Dieci uccisi sul colpo, altri cinque morti più tardi per le ferite. In realtà più tardi fonti della sicurezza yemenita rivelavano alla France Presse che due altre vittime sarebbero stati «presunti membri di Al Qaeda», Saleh e Abdallah Al Tays, sulla lista dei ricercati dal governo centrale e dall’alleato Usa, l’unico a disporre di droni che operano dalla base di Gibuti. «Ma questo non toglie che tutti gli altri fossero civili senza alcun coinvolgimento con il terrorismo», ha aggiunto la fonte precisando che l’unico legame che legava i civili uccisi ai due militanti era l’appartenenza al clan dei Tays che a Radaa sono maggioranza. L’attacco ha riacceso così la polemica sull’attività degli aerei senza pilota degli americani, mai ammessa ufficialmente da Sanaa ma nemmeno smentita.
L’allarme in Yemen resta altissimo: solo la settimana scorsa un attentato spettacolare aveva sventrato il ministero della Difesa di Sanaa causando 56 morti. L’azione era stata rivendicata da Al Qaeda nella Penisola Arabica e motivata dalla volontà di colpire proprio una sala di controllo da cui esperti americani dirigevano le azioni dei droni. Ieri notte, la Suprema commissione della sicurezza yemenita ha difeso l’operazione appellandosi alla popolazione «perché non dia sostegno o rifugio a elementi terroristi» e chiedendo di «notificare alle autorità ogni sospetto».
Corriere 14.12.13
Dossier sull’integrazione
La Francia ripensa il modello repubblicano
Ma poi il governo è costretto a frenare
di Stefano Montefiori
PARIGI — A infastidire molti, prima di tutto, è il tono tra il burocratico e il sognante, a colpi di «vivere insieme egalitario», «produzione di possibili», «identificazione con un Noi inclusivo», «fare dell’“in comune”».
Poi ci sono le proposte concrete, contenute nei cinque capitoli del rapporto sull’integrazione consegnato al premier Jean-Marc Ayrault e messo online così com’è sul sito del primo ministro, come a convalidare e fare propri i consigli degli esperti. Che sono: «riconoscere la dimensione arabo-orientale dell’identità della Francia», «valorizzare l’insegnamento dell’arabo», «insegnare a scuola una lingua africana» e «sopprimere le disposizioni scolastiche discriminatorie, in particolare riguardo al velo».
In sostanza, il rapporto chiesto e pubblicato dal primo ministro come «base di discussione» è una marcia indietro clamorosa, la cancellazione di un decennio di politica di integrazione (la legge che proibisce il velo a scuola risale al marzo 2004), l’addio al modello francese dell’assimilazione, e invece l’apertura verso l’impostazione anglosassone (dalla Gran Bretagna al Canada) del multiculturalismo. Meglio abbandonare la pretesa di diventare tutti francesi allo stesso modo (assimilazione), e riconoscere piuttosto la diversità delle culture distinte che compongono la società francese (multiculturalismo). Anche se il modello anglosassone è ugualmente in crisi e sottoposto a ripensamenti pure a Londra, nel luogo che lo ha inventato.
Ad accorgersi che il rapporto sulla «rifondazione della politica di integrazione» era pubblicato sul sito di Matignon è stato il quotidiano tradizionalmente più schierato contro il governo e la sinistra, il Figaro , che ieri alla questione ha dedicato la prima pagina innescando una polemica molto violenta.
Nei giorni in cui uno dei maggiori successi in libreria è «L’identità infelice» di Alain Finkielkraut, tutto orgoglio europeo e difesa della République tradizionale, l’appello a «riconoscere l’identità arabo-orientale della Francia» è suonato imbarazzante a sinistra, e insultante a destra. Il premier Ayrault, che in un primo tempo aveva lodato «la grande qualità del lavoro», è corso a precisare che «il fatto di ricevere dei rapporti non significa che essi rappresentino le idee del governo», e ha aggiunto che «il governo non vuole affatto reintrodurre i segni religiosi nelle scuole».
L’opposizione è scatenata: il segretario dell’Ump Jean-François Copé parla di «Repubblica in pericolo», l’ex premier François Fillon critica un rapporto che «divide i francesi, alimenta tutti gli estremismi, risponde alla logica di una nazione mosaico e divisa in comunità». Dal Brasile, dove è in visita, un presidente Hollande irritato con il suo premier ha assicurato che quel testo «non è la posizione del governo».
Ma la nuova gaffe ai vertici delle istituzioni riattiva anche cervellotiche eppure antiche dietrologie.
L’Ump sospetta che il pasticcio non sia affatto involontario; piuttosto, cercato consapevolmente dai socialisti per scatenare una reazione nazionalista, sulla base della machiavellica lezione di François Mitterrand: più voti al Front National significano destra divisa, e sinistra forte.
Corriere 14.12.13
Arrivano a destinazione il rover Coniglio di giada e la sonda Chang’e
Ritorno sulla Luna
di Giovanni Caprara
Per i cinesi oggi è una giornata storica, una leggenda che diventa realtà. Per la prima volta sbarcheranno sulla Luna con la sonda Chang’e-3 e il robottino Yutu, coniglio di giada. Chang’e è la loro dea della luna, un mito della cultura popolare risalente addirittura al 221 avanti Cristo e, da allora, cresciuto senza sosta dedicandole persino una festa nazionale. Sulle bancarelle di Pechino si possono acquistare statuette della dea e la sua storia è rappresentata nei teatri. Chang’e volò sulla Luna dopo aver inghiottito la pillola dell’eternità, sfuggendo alla condizione di mortale alla quale era stata condannata sulla Terra. E lassù viveva con la sola e unica compagnia di un coniglio di giada bianco, simbolo della dolcezza estrema. Ora Chang’e e Yutu (nome scelto con un sondaggio online fra tre milioni e mezzo di persone) escono dalla leggenda e rivivono con le sembianze dei robot.
«Il sogno di volare sulla Luna ha profonde radici nel nostro popolo» ricorda Han Bin che ha guidato il progetto delle sonde nato quando Pechino, nel 1970, lanciava il suo primo satellite artificiale Dong Fang Hong diffondendo dallo spazio la musica de «L’Oriente è rosso». L’America era già sbarcata con i suoi astronauti Neil Armstrong e Edwin Aldrin nel mare della Tranquillità. Da allora il cosmo cinese ha guardato ai satelliti militari sviluppando le tecnologie necessarie sino a permettere nel 2003 il lancio del primo taikonauta Yang Liwei. La sua navicella aveva un’impronta russa, però ben più moderna, e da quel momento è stato un crescendo sino a conquistare passeggiate spaziali con scafandri made in China e a costruire la prima mini stazione Tiangong-1.
Intanto si guardava alla Luna e, nel 2007, veniva spedita intorno ad essa la prima sonda Chang’e-1. Tre anni dopo partiva Chang’e-2, più potente, e con i suoi «occhi» si sceglieva il futuro luogo dello sbarco, il cratere Sinus Iridum, una pianura di basalto ampia 400 chilometri, incastonata alla sommità del Mare Imbrium nell’emisfero settentrionale. Completata l’opera Chang’e-2 abbandonava l’orbita Lunare tuffandosi nel cosmo più profondo. Un passo dopo l’altro, sicuro, e ora Chang’e-3 appoggia le sue gambe molleggiate sulle sabbie grigie e polverose lasciando scendere il «coniglio di giada». «È il nostro robot più avanzato, capace di navigare da solo e indagare il suolo con i suoi strumenti: un grande balzo nell’esplorazione spaziale» nota Han Bin aggiungendo che l’80% delle tecnologie impiegate sono tutte nuove e realizzate apposta per la rischiosa missione.
Yutu, grande come una lavatrice e alimentato da pannelli solari, viaggerà per alcune centinaia di metri in maniera automatica. I tecnici del centro di controllo di Pechino impartiranno solo rari comandi quando sarà necessario.
Chang’e-3 era stata lanciata il 2 dicembre scorso e, dopo una traversata di sei giorni, arrivava intorno alla Luna abbassandosi progressivamente sino a un’altezza di 15 chilometri. Quindi, compiva diverse manovre per controllare il buon funzionamento dei vari sistemi e dei razzi, in particolare, che le devono consentire una discesa in sicurezza. Finora tutto è andato bene e oggi, per la prima volta, gli scienziati cinesi porteranno la navicella e il suo robottino sui panorami selenici. Nella difficile operazione saranno aiutati nei collegamenti dalla stazione dell’Esa europea a New Norcia, in Australia.
I primi a lanciare un rover, il Lunokhod, erano stati i sovietici nel 1970, ma il successore cinese è ben più intelligente, pur essendo minore nelle dimensioni. E, soprattutto, è solo il capostipite di una nuova generazione di robot Lunari su ruote in gestazione a Pechino. Questa missione è considerata il secondo passo dopo il volo delle prime due sonde in orbita, mentre il terzo e più ambizioso balzo è programmato per il 2017 quando un successore del coniglio di giada raccoglierà un campione del suolo riportandolo sulla Terra. Anche questa operazione già la effettuarono i sovietici, ma adesso le finalità cinesi sono diverse e precise, soprattutto perché mirano a quantificare le quantità di minerali utili da portare sulla Terra comprendenti dal titanio alle terre rare, dall’uranio all’elio-3. Così preparando la futura, ambita meta: lo sbarco dei primi taikonauti previsto per il 2025. Che stiano lavorando pensando al futuro lo ha fatto notare Eugene Cernan, il comandante dell’Apollo-17, protagonista dell’ultimo sbarco americano sulla Luna nel dicembre 1972. «La sonda è troppo grande per sbarcare il piccolo rover — ha commentato —: le sue dimensioni sono ideali per provare le tecnologie utili a portare l’uomo».
Corriere 14.12.13
Dal Kgb al Cremlino, le molte vite di Putin
risponde Sergio Romano
Ma Putin non era capo del famigerato Kgb durante l’era sovietica che ha spedito nei gulag in Siberia migliaia di dissidenti, tra cui scrittori, professori universitari, eccetera, la crema della società? Domanda inopportuna perché quello che conta è una futura collaborazione commerciale con la nuova Russia sulla base di decine di accordi rilevanti per l’economia del Paese. Che l’interlocutore non abbia un passato senza macchia è del tutto irrilevante.
Sibylle Abstoss
Cara Signora,
Vladimir Putin non fu capo del Kgb, scomparso dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma presiedette per un anno, dal 1998 al 1999, il suo successore, il Servizio federale di sicurezza (in russo Fsb). Negli anni in cui l’organizzazione della Lubjanka si chiamava ancora Comitato statale della sicurezza (in russo Kgb), fu per cinque anni, con il grado di colonnello, capo della stazione di Dresda, nella Repubblica Democratica Tedesca, dove teneva d’occhio i compagni tedeschi molto più di quanto raccogliesse informazioni sulle democrazie occidentali. Non è responsabile della sorte dei dissidenti sovietici perché le grandi purghe, i grandi arresti e le grandi deportazioni appartengono a un periodo che precede quello del suo debutto nei servizi d’informazione. Era stato reclutato a Leningrado nel 1975, subito dopo la sua laurea in giurisprudenza discussa con un professore molto intelligente, Anatolij Sobcˇak, che lo stimava e lo volle accanto a sé, come segretario generale della sua amministrazione, quando divenne sindaco di Leningrado e restituì alla città il suo vecchio nome imperiale. (Sobcˇak ebbe il merito di scrivere i regolamenti parlamentari della Duma post sovietica, una materia sconosciuta al Soviet Supremo dell’Ursss, dove si votava sempre sì, all’unanimità, per alzata di mano).
Eviterei comunque, cara Signora, di trattare i funzionari del Kgb alla stregua di rozzi e brutali sicari dello Stato e del partito. Erano selezionati fra i migliori laureati, conoscevano o imparavano le lingue straniere e facevano esperienze internazionali che li rendevano molto più realisticamente consapevoli delle vere condizioni del loro Paese di quanto fossero i membri del Comitato centrale del partito. Naturalmente erano molto legati da una forte spirito di corpo e si sentivano eredi dei migliori valori della rivoluzione bolscevica. Questo spirito di corpo fu molto utile a Putin quando venne chiamato da Boris Eltsin a presiedere il Consiglio dei ministri e gli succedette più tardi al vertice dello Stato. Per impadronirsi della macchina statale e consolidare il proprio potere, Putin poté contare sulla collaborazione dei suoi vecchi colleghi. Il Cremlino, soprattutto in quella fase, si riempì di «cekisti», come amavano chiamare se stessi gli eredi della organizzazione (Ceka) che Lenin aveva creato nel dicembre 1917 e affidato a Feliks Dzeržinskij per la repressione degli elementi «controrivoluzionari».
Incidentalmente, Putin non fu il solo uomo politico che raggiunse il vertice dello Stato dopo un passaggio attraverso i servizi d’informazione. Un suo illustre predecessore fu George H. W. Bush, padre di George W., direttore della Cia dal 1976 al 1977, vice-presidente di Ronald Reagan per otto anni e presidente degli Stati Uniti dal 1988 al 1992.
La Stampa TuttoLibri 14.12.13
Machiavelli e Steinbeck
Principe e Furore per resistere in Italia
Il fiorentino indica come scampare al naufragio l’americano anticipa l’odierna Depressione
di Antonio Scurati
qui
La Stampa TuttoLibri 14.12.13
Sul treno viaggia dio, si chiama Wittgenstein
Il filosofo del “Tractatus” in un album di scatti, dall’aurea Vienna al circolo magico di Cambridge
di Marco Belpoliti
qui
Corriere 14.12.13
La rivoluzione delle sante sottomesse e protagoniste
Paola e la figlia Eustochio, modelli di vita cristiana
di Pietro Citati
Al tempo di Gesù, le donne ebraiche erano quasi completamente escluse dalla vita religiosa. La Torà era il cuore ardente dell’ebraismo: ma esse non avevano il diritto di studiarla; e rabbi Eliezer, nel primo secolo dopo Cristo, giunse ad affermare che chi insegnava la Torà alla propria figlia era come se le insegnasse oscenità, tanto il sacro si capovolgeva nel profano. Sebbene nella sinagoga ci fosse un luogo riservato alle donne, esse non erano tenute alla recitazione quotidiana della preghiera; né a recarsi a Gerusalemme per le grandi feste, nelle quali non potevano leggere pubblicamente la Torà. Gli uomini, soprattutto i rabbini, non dovevano conversare con loro: in tribunale la loro testimonianza non era valida; l’ebreo maschio benediceva Dio tre volte al giorno, in primo luogo perché non l’aveva fatto pagano, poi perché non l’aveva fatto donna, infine perché non l’aveva fatto ignorante. Il marito poteva ripudiare la moglie per motivi futilissimi, mentre la moglie non aveva alcuna reale possibilità di ottenere il divorzio.
Tutto cambiò col cristianesimo. Nei Vangeli, Gesù parla continuamente con le donne: con la samaritana, con la donna impura, con le disprezzate ed umiliate, come la prostituta e l’adultera; e accetta che una peccatrice gli unga i piedi con del profumo, e glieli lavi con le sue lacrime. Maria di Magdala vede due angeli vestiti di bianco, seduti nel luogo dove il corpo di Gesù era stato deposto: quando scorge Gesù, non lo riconosce, ed egli le dice: «Non trattenermi perché non sono ancora salito verso mio Padre. Va’ a trovare i miei fratelli e dì loro che io salgo verso mio Padre che è vostro Padre, verso Dio che è vostro Dio».
Questa naturalezza e scioltezza di rapporti si arresta e si gela nelle lettere di Paolo. Sebbene egli affermi: «Non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Gesù Cristo», raccomanda: «Le donne apprendano in silenzio e in piena sottomissione»; «nelle assemblee le donne tacciano, perché non è loro permesso parlare; siano invece sottomesse come dice la Legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino a casa i loro mariti».
* * *
Lisa Cremaschi, monaca di Bose, ha curato un bellissimo libro, raccogliendo le storie delle prime eroine cristiane (Donne di comunione, Vita di monache d’oriente e d’Occidente , Edizione Qiqajon, pp. 316, e 25). Il libro comprende la Vita di Macrina scritta da Gregorio di Nissa; la Vita di Sincletica; la Vita di Maria-Marino; le Vite di Marcella e di Paola, scritte da san Girolamo; la Vita di Melania scritta da Geronzio; la Vita di Scolastica scritta da Gregorio Magno.
Sono tutti, o quasi tutti, testi straordinari; ma la Vita di Paola è un capolavoro assoluto, che san Girolamo scrisse in preda a un prodigioso furor retorico. «Anche se tutte le membra del mio corpo si trasformassero in lingue e tutti gli arti emettessero una voce umana, non riuscirei a dire niente che fosse degno della virtù della santa e venerabile Paola... E come una gemma preziosissima risplende tra molte gemme, come il fulgore del sole nasconde e oscura il debole scintillio delle stelle, così Paola con la sua umiltà superò le virtù e i prodigi di chiunque altro, e fu la più piccola di tutti per essere la più grande di tutti, e, quanto più si abbassava, tanto più veniva innalzata da Cristo». Paola era una ricchissima aristocratica; per parte di madre, discendeva dagli Scipioni e dai Gracchi; per parte di padre traeva il suo sangue — dice Girolamo con entusiasmo — da «Agamennone, il quale distrusse Troia con un assedio di dieci anni». A Roma, Paola aveva partecipato alle riunioni sulla Scrittura tenute nella casa di Marcella sull’Aventino, dove conobbe Girolamo, appassionato e furibondo come lei. Riceveva nella sua grande casa i vescovi invitati a Roma dall’imperatore: Epifanio, vescovo di Cipro, e Paolino, vescovo di Antiochia. Ma non poteva sopportare le visite e la consuetudine con le persone illustri e le famiglie nobili; si rattristava per l’onore che le rendevano, e si affrettava a fuggire la presenza di chi la lodava. Avrebbe voluto essere monaca nelle solitudini: dimentica della casa, dei figli, dei domestici, della proprietà, di tutto quanto avesse a che fare col mondo; e ardeva dal desiderio di recarsi «sola e senza seguito nel deserto egiziano caro ad Antonio». «Quando le morì il marito — racconta Girolamo — pianse quasi fino a morire essa stessa, quindi si volse al servizio del Signore a tal punto che sembrava aver desiderato la morte del suo sposo».
Trascorso l’inverno, quando il mare si aprì alla navigazione, viaggiò verso la Palestina. Giunse all’isola di Ponza, a Metone nel Peloponneso, attraversò le Cicladi, vide Rodi e Cipro. Poi arrivò ad Antiochia: salì in sella ad un asino, fino ad entrare a Gerusalemme. Il proconsole di Palestina, che conosceva benissimo la sua famiglia, ordinò di preparare per lei il palazzo pretorio di Gerusalemme, ma Paola preferì una modestissima cella, e fece il giro di tutti i luoghi sacri con tanto ardore e passione che non poteva lasciarli. Prostrata davanti alla croce, restava in adorazione, come se scorgesse il corpo del Signore. Entrata nel sepolcro, baciava la pietra che l’angelo aveva rimosso dalla porta, «e con le labbra, come se la sua fede fosse assetata di acqua, lambiva il luogo dove era stato disteso il Signore». Dopo aver distribuito denaro ai poveri e ai suoi compagni nel servizio di Dio, si diresse verso Betlemme, dove entrò nella grotta del Salvatore. «L’ho udita giurare — dice Girolamo — che vedeva con gli occhi della fede il bambino avvolto in fasce, che vagiva nella greppia, i magi che l’adoravano come Dio, la stella che risplendeva nel cielo, i pastori che venivano nella notte a contemplare il Verbo che si era fatto carne». Andò in Egitto: poi decise di rimanere per sempre a Betlemme, dove fondò una casa per i pellegrini vicino alla strada, perché Maria e Giuseppe non avevano trovato accoglienza. La prima virtù di Paola, secondo Girolamo, era l’umiltà: «Si abbassava a tal punto che chi andava a visitarla ed era impaziente di vederla a causa della sua fama, la prendeva per l’ultima delle ancelle».
Dopo la morte del marito, non mangiò insieme a nessun uomo, nemmeno se sacerdote. Non si recava mai ai bagni. Sebbene colpita da febbri gravissime, non usò mai materassini morbidi, ma riposava sulla terra durissima. Piangeva a tal punto i propri lievi o inesistenti peccati, che la si sarebbe creduta colpevole di delitti. Diceva: «Bisogna sfigurare questo volto che, contro il precetto di Dio, ho spesso dipinto con il belletto, il bianchetto e il bistro: bisogna mortificare questo corpo che si è dato a molti piaceri. Le lunghe risate vanno compensate con un pianto continuo; i morbidi lini e le preziosissime vesti di seta vanno mutati in una ruvida pelle di capra. Mi sono resa gradita a mio marito e al mondo, ora voglio essere gradita al Signore». Dispose molte giovani monache in tre monasteri, in modo che fossero separate nel lavoro e ai pasti, ma unite nelle preghiere e nelle salmodie. Dopo il canto dell’alleluia, nessuna sorella poteva restare inattiva. A nessuna era lecito ignorare i salmi, e non imparare ogni giorno a memoria qualche pagina delle Scritture. L’abito era eguale per tutte. A parte il cibo e il vestito, non permetteva che nessuna possedesse qualcosa. Le monache che litigavano le riconciliava con parole dolcissime. Spegneva l’esuberanza fisica delle più giovani con digiuni frequenti e ripetuti. Se qualcuna era troppo elegante, la rimproverava con la fronte corrugata e la fronte triste. Se notava qualche monaca pettegola e insolente, la faceva pregare tra le ultime, alla porta del refettorio, fuori dell’assemblea delle sorelle, e la faceva mangiare da sola. Conosceva a memoria le Scritture: ne amava il senso letterale, dicendo che era il fondamento della verità: ma preferiva il senso spirituale e simbolico, e con esso proteggeva l’edificio dell’anima. «Volle imparare la lingua ebraica, che in parte — dice Girolamo — io ho imparato fin dall’adolescenza con molta fatica e sudore; e ne ottenne una tale conoscenza, che cantava i salmi in ebraico, pronunciando quella lingua senza alcun accento latino».
Alla fine, ancor giovane d’età ma esausta dall’ascesi, Paola cadde in una malattia gravissima. In quei giorni, l’affetto della figlia Eustochio apparve agli occhi di tutti. Sedeva accanto al letto della madre, agitava il ventaglio, le sosteneva il capo, l’appoggiava su un cuscino, le frizionava i piedi con le mani, le scaldava lo stomaco, apprestava soffici coperte, preparava dell’acqua calda, le portava il vaso da notte, prevenendo ogni incombenza delle ancelle. «Con quali preghiere, con quali lamenti e gemiti correva tra il letto della madre e la grotta del Signore, supplicando di non essere privata della compagnia di lei, e di non continuare a vivere quando essa fosse mancata!». Ormai Paola sentiva che la morte era giunta. Ogni altra parte delle membra era fredda; solo nel petto palpitava il tepore dell’anima; eppure — dice Girolamo — «come se si recasse dai suoi e lasciasse in terra degli estranei, sussurrava i versetti: “Signore ho amato la bellezza della tua casa e il luogo dove abita la tua gloria; l’anima mia si strugge per gli atri del Signore”. Quando le chiesi perché taceva, perché non volesse rispondere ai miei appelli, mi rispose in greco che non soffriva, ma vedeva ogni cosa con tranquillità e quiete. Poi tacque: chiuse gli occhi, come se disprezzasse ogni realtà umana e ripeteva bisbigliando sempre gli stessi versetti, così che io udivo appena ciò che diceva. Tenendo un dito sulla bocca, tracciò sulle labbra il segno della croce. Il suo spirito veniva meno e anelava alla morte: la sua anima, impaziente di uscire, mutava in lode del Signore il rantolo con cui si chiude la vita dei mortali».
Corriere 14.12.13
La vena mistica di Renato Guttuso
In un libro di monsignor Valenziano «Guttuso credeva di non credere». Monsignor Crispino Valenziano, critico d’arte e docente di architettura sacra, racconta così Renato Guttuso in un volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana. «Artista mio conterraneo» lo definisce il sacerdote nel saggio, essendo entrambi siciliani: il loro primo incontro avvenne nel 1984. Per tutta la vita l’artista mantenne amicizie con uomini di Chiesa e manifestò attenzione ai temi religiosi. «Rileggere l’opera di Renato Guttuso con gli occhi dotti e attenti di Crispino Valenziano, teologo da sempre vicino all’arte che, spingendo il suo sguardo indagatore ben oltre le opere per scrutare le segrete ragioni dell’ispirazione degli artisti, apre nuovi scenari nella critica guttusiana», osserva nella prefazione del volume Fabio Carapezza Guttuso, figlio adottivo del grande pittore.
Repubblica 14.12.13
Vivere per 400 anni così un verme ci regala l’elisir della longevità
Pubblicato lo studio dei ricercatori californiani
di Elena Dusi
ILIMITI della durata della vita possono essere spostati. Negli esseri umani è già avvenuto: vent’anni guadagnati nel giro di un secolo. Ma in un vermicello usato in laboratorio — ilC. elegans— la lunghezza della vita è stata addirittura quintuplicata: mai prima d’ora la manipolazione dei geni aveva scardinato tanto i limiti dell’invecchiamento e della morte.
«SU MAMMIFERI come i topi sappiamo estendere la vita del 30-40%. Ma le potenzialità di miglioramento sono effettivamente enormi» spiega Pier Giuseppe Pelicci, condirettore dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano ed esperto di invecchiamento.
I ricercatori del Buck Institute in California hanno manipolato due geni del C. elegans. Uno — chiamato Iis — sente quanta insulina c’è nel corpo. L’altro — Tor — sente quanti aminoacidi sono disponibili. In studi precedenti il primo gene si era dimostrato capace di allungare la vita dei vermetti del 30% e il secondo del 100%. «Manipolandoli entrambi ci saremmo aspettati un’estensione del 130%. Invece abbiamo ottenuto un sorprendente 500%» spiega il coordinatore dell’esperimento pubblicato ieri su Cell Reports, Pankaj Kapahi. Per un uomo, un risultato simile vorrebbe dire vivere 400 anni.
A spostare l’asticella più in su lavora Claudio Franceschi, esperto di invecchiamento dell’università di Bologna, coordinatore del progetto europeo “Nu-age” e membro di quello “Human” che studia gli over 105 («i centenari sono diventati troppo comuni» spiega). Manipolare i geni negli uomini non è ipotesi fattibile. «Però abbiamo altri fattori potenzialmente sotto controllo ». Il nodo che si cerca di sciogliere a Bologna è l’infiammazione dei tessuti, causata da una perdita di efficienza dello “smaltimento dei rifiuti” delle cellule. «Ogni giorno — spiega Franceschi — molte cellule muoiono, o le proteine si danneggiano, o i mitocondri smettono di funzionare. Dove va a finire questo materiale di scarto? Nei giovani viene smaltito con efficienza. Negli anziani resta in parte nei tessuti e provoca infiammazioni. Ecco, noi siamo convinti che l’infiammazione sia causa dell’invecchiamento e si propaghi in tutti gli organi attraverso il sangue. La nostra strategia consiste nel ripristinare lo “smaltimento dei rifiuti” e ridurre le infiammazioni. Anche buona parte della ricerca negli Usa si sta orientando in questa direzione».
Oltre a combattere l’infiammazione, c’è un secondo sentiero che la scienza segue per allontanare l’orizzonte della vecchiaia. Riguarda il metabolismo,ovvero il consumo energetico dell’organismo. In mammiferi come topi e scimmie si è visto che riducendo il metabolismo la vita si allunga. «Esistono tre vie genetiche su cui ci concentriamo» spiega Pelicci. «La prima è quella che sente quanto glucosio c’è nell’organismo. La seconda è quella del gene Tor che sente la quantità di aminoacidi. La terzaquella del gene Sirt che sente la quantità di calorie. Nello studio sul C. elegans si è agito sulle prime due vie».
Per trasferire i risultati sull’uomo, anche qui occorre trovare un’alternativa alla manipolazione dei geni. Una strategia è la restrizione calorica: la riduzione del cibo a livelli di carestia. Oltre ad avere scarso appeal, questa ipotesi provoca effetti collaterali pesanti. La strada seguita dai ricercatori è allora la caccia a farmaci che producano gli effetti positivi della restrizione calorica senza gli svantaggi.
«Stiamo guardando al mondo delle piante» spiega Pelicci. «Loro hanno imparato a vivere molto a lungo. C’è chi sostiene che alcune specie siano immortali. E oggi molte aziende stanno lavorando in silenzio, alla ricerca di brevetti, per isolare le sostanze chimiche che permettono ai vegetali di non invecchiare». Vent’anni fa il resveratrolo — una molecola di cui è ricco il vino rosso — venne reclamizzato come elisir di lunga vita. «Le promesse non hanno retto alle sperimentazioni — spiega Pelicci — ma siamo convinti che altre sostanze possano dare risultati migliori. Non lo pensiamo solo noi ricercatori. Lo credono anche molti investitori. E fra due o tre anni sentiremo sicuramente parlare di questo settore in grande fermento ».
Repubblica 14.12.13
È morta la notte scorsa la giornalista di “Repubblica”. Stava per compiere sessant’anni
Addio a Luciana Sica, cronista della psiche
di Simonetta Fiori
«Ma dai, non sarà niente, ora mi passa». La falcata scalpitante, e quella chioma da leonessa. Così tre mesi fa Luciana Sica aveva accolto il “clandestino” improvvisamente atterrato sul collo: da combattente, estranea a ogni forma di piagnisteo o autocommiserazione. Era l’inizio del suo viaggio terminale, concluso nella notte tra giovedì e venerdì. Una malattia vissuta con lo stesso stile con cui aveva riempito la sua esistenza: fino alla fine desiderosa di letture, di film, di cene conviviali, di affetti e di amicizia, talvolta ritrovati con l’intensità che solo il dolore vero può dare. Profonda e imprevedibile, ancora capace di allegria, i grandi occhi luminosi che ti scrutano dentro, la risata improvvisa. «Nuvola, dove vai?»: a casa aveva ancora la vignetta che le aveva dedicato Angese, lei leggera e soffice come un pezzo di cielo che fugge lontano.
Era arrivata in piazza Indipendenzanell’Ottantanove, una datastorica che per Luciana significò anche una nuova vita professionale. In passato s’era occupata di cronaca politica, per tanti anni aPaese Sera, più tardi un passaggio allaNuova Sardegna. Ma aRepubblicapoté tradurre in passione professionale una curiosità che l’aveva accompagnata nel suo privato, ossia l’attenzione per i temi legati alla psicoanalisi e alla psichiatria. I libri, gli autori, le controversie, i punti di luce, soprattutto il rapporto con la vita.
Si muoveva su quel terreno con singolare sensibilità, nel tentativo costante di aprirlo al mondo. Diventò in poco tempo la “cronista della psiche”, genere poco praticato dalla stampa quotidiana. Non c’era un’idea o un dibattito che non animasse la sua curiosità.Intervistò i più grandi, tra gli italiani. Ed anche personalità di rilievo internazionale come Matte Blanco, André Green, Janine Chasseguet- Smirgel, Salomon Resnik, René Kaës, Luc Ciompi. Un lavoro di divulgazione che però non si limitava a tradurre per il grande pubblico le formule scolastiche della cittadella psicoanalitica, ma si sforzava di farla dialogare con la complessità della realtà sociale. «Finché c’è analisi c’è speranza», diceva spesso, riprendendo una battuta di Bernardo Bertolucci.
Non era solo una cronista. Nel tentativo di rianimare una disciplina sofferente, l’anno scorso pubblicò sul giornale Un manifesto in difesa della psicoanalisi, che avrebbe dato vita a “una nuova primavera” e poi al volume einaudiano Salvate il dottor Freud.Il suo sguardo lucido e anche libero le fece vincere il premio Musatti, riconoscimento in precedenza assegnato a personalità come Sanguineti, Bodei, lo stesso Bertolucci. Fu scelta dalla Società psicoanalitica italiana proprio per l’ostinazione con cui si sforzava a tenere in vita«la speranza dell’analisi». Lei andò a ritirare il premio alla sua maniera, zoppicante per una caduta dal motorino e senza alcun timore reverenziale. Disse che svolgeva il suo lavoro con una passione che non era solo intellettuale — «e a chi di mestiere fa l’analista», aggiunse, «sicuramente questo elemento non sarà sfuggito». E poi, con la consueta franchezza: «Basta con quella obiezione che sento da una vita e rischia di diventare uno stornello paralizzante: la psicoanalisi non sarebbe in nessun caso dicibile. Certo non è facile da dirsi e neppure averne dimestichezza. Ma il mio lavoro dimostra che non è impossibile intendersi, se alla base c’è un sentimento di considerazione reciproca, un po’ di coraggio, un po’ di umiltà, e se mi passate l’espressione: un qualche desiderio di compromissione con la vita ». Compromissione con il disordine della vita, un’attitudine che certo non le mancava.
Vitalità pura, a tratti caotica e travolgente, Luciana non conosceva mediazioni. Per questo più esposta alle ferite dell’esistenza,rispetto alle quali non si preoccupava di cercare riparo. Piglio energico, talvolta brusco, negli ultimi tempi aveva riscoperto la tenerezza. È lei stessa a rivelarci la chiave di questo suo percorso, in un articolo scritto poche settimane fa a proposito del nuovo saggio di Eugenio Borgna. Una riflessione sul dolore e sulla malattia che sembrava tagliata sulla sua condizione. La malattia le aveva permesso di esternare quella sua ricca interiorità tenuta a lungo protetta. Scrivendo della dignità umana colpita dalla sofferenza fisica, rivendicava «parole» e «gesti» affettuosi, un codice di «gentilezza» che favorisce «relazioni quotidiane dotate di senso». Le stesse che tumultuosamente aveva coltivato per una vita, costruendo intorno a lei una comunità d’affetti autentica. «Non sono cose dimostrabili», scrive citando Borgna, «ma il vivere e il morire sono intrecciati l’uno all’altro, e talora si muore quando non c’è più il desiderio di vivere, e talora non si muore quando ci sia il desiderio di vivere».
Luciana è morta con il desiderio di vivere. Le sue ultime telefonate erano dedicate per metà alla cartella clinica, per l’altra metà al destino professionale dei colleghi più giovani che avrebbe voluto veder crescere nel suo giornale. Il prossimo 16 gennaio avrebbe compiuto sessant’anni. Nella parete di fianco alla scrivania, campeggia il suo variegato mondo per immagini, tra un sorridente Che Guevara — s’era messa a studiare lo spagnolo, diventando anche un’esperta di letteratura sudamericana — e un ritratto di Amélie — il cinema, sua grande passione. E un foglietto, strappato da una raccolta di poesie. Biglietto lasciato prima di non andar via di Giorgio Caproni. «Se non dovessi tornare,/ sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua, dove non fui mai». Ciao Lu, con noi resterai sempre.
La direzione e la redazione di
Repubblica abbracciano il figlio Michele e i famigliari. I funerali saranno celebrati oggi alle 14 presso la Basilica Santa Maria in Trasteverea Roma.