sabato 27 giugno 2009

Corriere della Sera 27.6.09
In prima fila. L’editorialista americano spiega le due settimane trascorse a raccontare la protesta
La Teheran di Cohen: «Ho visto il coraggio»
di Paolo Valentino


WASHINGTON — Ha ricevuto molte email in questi giorni, Roger Cohen. E molte con un tema ricorrente: i media tradizionali contano ancora, hanno un ruolo importante. «Credo ci sia della verità: al fondo ciò che conta per rac­contare un avvenimento è la visione sul terreno», dice al telefono dalla sua casa di Brooklyn.
L’editorialista del New York Times è stato in Iran per quasi 2 settimane. Arri­vato alla vigilia delle elezioni, è stato uno degli ultimi giornalisti occidentali a lasciare il Paese, due giorni fa. Si è tro­vato nella mischia insieme al direttore, Bill Keller e all’inviato Robert Worth. Doveva analizzare, spiegare. Ma i fatti lo hanno travolto ed è tornato a fare il cronista, anche perché nel frattempo agli altri era scaduto il visto e lui era rimasto solo.
«È stata una delle esperienze più in­tense in 30 anni di lavoro. Non avevo mai visto un passaggio così rapido e brutale, da uno stato d’animo a un al­tro. L’atmosfera di Teheran alla vigilia era straordinaria. I dibattiti erano vigo­rosi, anche più di quelli di una campa­gna americana o europea. Poi, in 24 ore, un cambiamento radicale: repres­sione militare, poliziotti, milizie an­ti- sommossa, Guardie della Rivoluzio­ne che picchiavano la gente, tiravano i lacrimogeni, sparavano».
È stata una successione inarrestabi­le, segnata da una crescente atmosfera di paura, ma anche da coraggio e digni­tà. E Cohen ammette di essere stato «sempre più coinvolto sul piano emoti­vo ». Lo ha colpito «vedere centinaia di migliaia affrontare coraggiosamente l’apparato militare, giovanissimi insan­guinati, vecchi con le stampelle, nego­zianti che offrivano aiuto e cibo. So­prattutto le donne, le più eroiche di tut­ti, che tornavano a protestare anche do­po essere state picchiate e ferite, don­ne che incitavano gli altri a non arretra­re, donne che la notte gridavano dai tetti, morte al dittatore». Donne come quella ragazza che gli ha urlato «getta via la penna e il taccuino, vieni ad aiu­tarci, qui non c’è democrazia», prima di sparire verso la linea nera dei poli­ziotti che agitavano i manganelli.
Una sensazione strana, dice Cohen, «perché in questa età iperconnessa le possibilità per un giornalista di essere virtualmente solo in una storia di que­ste dimensioni è ormai remota, quan­do ti succede, ti accorgi quanto vale, forse è stato un modo di ricordare alle persone che i vecchi dinosauri, com’è di moda definire i giornali, possono es­sere ancora importanti». Un j’accuse al­la blogosfera? «No. La blogosfera ha un ruolo fondamentale, ma spesso è un circuito chiuso di persone che discuto­no fra di loro le rispettive opinioni. L’Huffington Post e altri siti celebri non hanno inviati sul campo, ma io cre­do che avere un occhio in diretta sugli avvenimenti sia cruciale e in questo ca­so abbia fatto una grande differenza».
Cohen però non nega che il suo lavo­ro sia stato aiutato e completato dalla tecnologia: «Soprattutto quando la re­pressione è aumentata e i fotografi non potevano più uscire pena l’arre­sto, l’abilità di migliaia di dimostranti di mandare al mondo messaggi e foto è stata decisiva. Ma una delle cose in­credibili della protesta è stato anche il passaparola, quando i cellulari non hanno più funzionato».
Il coinvolgimento emotivo non gli ha impedito di analizzare in profondi­tà gli avvenimenti: «Ho speso molto tempo in Iran quest’anno ed ero prepa­rato. Questo regime non ha più del 30% di appoggio popolare, ma finora aveva gestito con intelligenza il suo po­tere, usando la repressione in maniera selettiva. Sotto la crosta della Repubbli­ca islamica, l’Iran è una società con cer­ti margini di libertà: la maggioranza de­gli iraniani erano remissivi riluttanti».
Tutto questo è finito dopo le elezio­ni del 12 giugno: «Il popolo è passato da una forma d’insoddisfatta acquie­scenza all’opposizione aperta e nel lun­go termine ciò avrà conseguenze pro­fonde ».

Corriere della Sera 27.6.09
Una madre: «Non andare in piazza, sparano». Un ragazzo: è colpa vostra se esiste questo regime
Ora i figli della rivoluzione accusano i padri
di Andrea Nicastro


«Domani vado in manifestazio­ne ». È un colpo al cuore. La mamma tentenna un attimo, poi fa clic sul ta­sto «commenta» e scrive: «Ahmed, ti prego, non farlo. È pericoloso. Spa­rano ».
Ma capita anche di leggere l’oppo­sto e allora sono i figli a tremare per i genitori. «Finito l’ufficio, mio pa­dre è passato a prendere la mamma al lavoro e insieme sono andati in Piazza Rivoluzione, al corteo per Mousavi. Mi sento in colpa per non averli accompagnati. Ma io ho pau­ra e poi, sono convinta che non ser­va assolutamente a nulla. Questo Pa­ese non cambierà mai. Loro invece vivono come se, con la macchina del tempo, fossero tornati indietro di trent’anni. Gli sembra di rivedere la Rivoluzione di Khomeini e, fran­camente, credo siano felici anche so­lo di provare ancora certe emozio­ni ». Firmato Yasaman Shaerané, Gelsomino Poetico.
In Iran le conversazioni da tinello si sono spostate sui blog. I «diari» virtuali, aperti al mondo, mostrano due generazioni confrontarsi davan­ti all’idea della rivolta e delle sue conseguenze fisiche.
«Ieri, hanno rilasciato mio fratel­lo. Il papà l’ha aspettato tutto il gior­no davanti alla stazione di polizia che gli aveva indicato il suo 'contat­to'. Ha pagato 5 milioni di Toman — all’incirca 4 mila euro — per libe­rarlo. La tangente. Ora cammina con i piedi aperti, ha le orecchie piat­te, le guance a palla, non lo si ricono­sce dai lividi. I suoi begli occhi verdi sono annegati nel rosso dei capilla­ri.
Papà l’ha disteso sul letto e se n’è andato senza dire una parola. Ha preso le chiavi di casa e ci ha chiuso dentro. Adesso sono agli arresti an­ch’io ». Firmato Fati.
«Non possiamo piangere e nem­meno gridare — si legge in un mes­saggio rilanciato in una mailing list di femministe iraniane —. Ci ha pre­so una brutta malattia. Ci distrugge sapere che non puoi fare niente, ca­pire una volta per tutte che razza di gabbia opprimente ci hanno costrui­to intorno. Non abbiamo energie. Quella piccola forza che avevamo sta finendo». Pare la lettera di un giovane. Le repliche vengono dagli adulti. «Abbiamo già fatto una Rivoluzione, è il tempo di farne un’al­tra ». Oppure: «Non fate circolare questa mail, è demoralizzante. Ab­biamo bisogno dell’entusiasmo dei giovani per risolvere questa vicen­da».
Bahar, su Persianblog, attacca di­rettamente i genitori: «È colpa loro se siamo in questo regime. Sono lo­ro, quelli sopra i 50 anni, che l’han­no costruito con la Rivoluzione Isla­mica. E adesso vogliono impedire a me di migliorarlo? Due errori nella stessa vita sono troppi».
Un padre, Mohan, affida le sue previsioni al commento di un artico­lo sull’appannarsi della protesta. Ma sembra stia facendo un predicoz­zo ai figli adolescenti. «Oggi sono cominciati i tre giorni del 'concur sarasari' — il concorso nazionale di ammissione alle università, un pas­saggio fondamentale, capace di con­dizionare l’intera carriera futura — e i ragazzi che hanno studiato tutto l’anno non potevano permettersi di essere arrestati e saltare il 'concur'. Ora invece saranno liberi fino a set­tembre. Attenzione, bisogna fargli capire che sfidare polizia e basiji non è un gioco. Invece del 'concur' possono perdere la vita. Come Neda in strada o impiccati come moha­reb », nemici di Dio.
Confessa colui che sembra un adulto: «Scusatemi, scusatemi. Non riesco a guardarmi allo specchio. Ve­do mia figlia uscire per partecipare ai cortei e tremo all’idea di non rive­derla. E’ colpa mia se è costretta a vivere in questo mondo. Colpa mia. Per questo non riesco a trattenerla, mi vergogno troppo di me stesso».

l’Unità 27.6.09
Qui Chianciano
Ascoltare i senza quorum
di Luigi Manconi


In queste ore, a Chianciano, i Radicali offrono una preziosa occasione di confronto a tutti i segmenti della sinistra «senza quorum».
Marco Pannella intende fare di quel dato negativo uno strumento di crescita: tanto più utile perché all’interno di quell’area le tendenze alla depressione e, quale effetto ultimo, la «sindrome scissionista», impediscono, quasi fosse una maledizione, di imparare dalle sconfitte. A tale appuntamento non sembra interessato il Pd.
È un errore. Innanzitutto perché il Partito democratico, a sua volta, registra un risultato assai gramo, che rivela, un notevole deficit di insediamento territoriale e mobilitazione sociale. Non solo: tra «quelli senza quorum» sono molti coloro ai quali il Pd dovrebbe prestare attenzione e offrire spazio politico. I Radicali in primo luogo. La loro esperienza all’interno dei gruppi parlamentari del Pd è assai positiva. Non la si è potuta rinnovare in occasione del voto europeo, per responsabilità primaria della leadership democratica. Ma è lì, nel Partito democratico, il posto dei Radicali, a patto che – ma vale per tutte le componenti - si adottino regole di democrazia interna, puntualmente definite e rigorosamente rispettate.
Certo, l’assemblea di Chianciano potrà decidere per la ricostituzione della Rosa nel Pugno o per l’ennesimo «nuovo partito di tutta la sinistra», ma si rischia semplicemente di differire il vero problema. Che è, poi, quello di realizzare un «partito grande» e a struttura coalizionale. Un partito-famiglia allargata, dove diverse culture e tradizioni, varie generazioni e sensibilità, differenti percorsi ed esperienze possano trovare una sede accogliente. Nel Labour party, per anni, hanno convissuto Tony Blair e i più tetragoni trotskisti.
Si dirà: «ma in Italia le condizioni sono totalmente diverse». Sì, sì, ma perché mai Franceschini o Bersani dovrebbero aver paura della tenera Emma Bonino?

l’Unità 27.6.09
Da una generazione all’altra
L’ANPI, la CGIL e gli occhi della memoria
di Guglielmo Epifani


La fase che il Paese sta attraversando, sul piano politico, economico e sociale, porta già i segni di altri periodi storici, quando davanti all’impoverimento di molte fasce della popolazione e alla perdita di senso del ruolo della politica, si sono riaffacciate le antiche tentazioni della semplificazione della rappresentanza democratica, del decisionismo, dell’esclusione dei più deboli e dei diversi. A pagare il prezzo di tutto questo, oltre ai soggetti più deboli, dentro e fuori la nostra società, sono le generazioni più giovani, in un processo accelerato di sradicamento culturale e conseguente mancanza di senso e, quindi, di valori. Appare allora indispensabile che, davanti alla superficialità e alla vacuità di tante dichiarazioni gridate, fuochi fatui ma ingigantiti e reiterati dai media, perduri una memoria certa, persistente, viva.
L’autorevolezza delle tante donne e dei tanti uomini, che rischiarono spesso tutto per la libertà e la democrazia, ha contribuito a far sì che, a distanza di più di sessant’anni, il loro esempio permanga agli “occhi senza memoria” ma lo stesso formidabile rigore morale e il ricordo del sacrificio estremo dei tanti compagni che diedero la vita per quei valori di civiltà, li spingono oggi a interrogarsi sul futuro, sull’ineluttabile avvicendamento.
La visione del domani, da parte dell’Anpi, assume così il più alto momento di responsabilità: preparare il futuro per i figli è il gesto più altruista che ci si possa aspettare da un padre. Vanno quindi giustamente superati dubbi e consuetudini, dentro la logica del ricambio generazionale a tutti i livelli di direzione, facendo dell’Associazione il luogo d’incontro di tutti i democratici antifascisti, il luogo dei valori della Costituzione e della stessa Resistenza.
Per far ciò, però, per aprire questa casa, è necessario predisporne la ricollocazione al centro del dibattito politico, attraverso posizioni e proposte che misurino esclusivamente sul merito le distanze o le affinità con gli altri soggetti politici e sociali, al fine di salvaguardare l’identità portatrice dei valori democratici e civili. Questo ruolo democratico unitario potrà permettere per molto tempo di poter parlare ancora ai punti nevralgici di una società che si voglia basata sui principi di solidarietà, rispetto delle regole, difesa del bene comune; trasmettere i valori della nostra Costituzione ai giovani delle scuole e delle università, ai componenti delle forze dell’ordine, delle forze armate, della pubblica amministrazione, dialogando con le rappresentanze politiche e sociali, rapportandosi con le istituzioni.
In questo quadro, la Cgil, pur nel rispetto delle reciproche autonomie, è disponibile a sostenere il progetto, dando da subito la propria disponibilità a valutare con l’Anpi, sul piano organizzativo, tutte le possibili e opportune sinergie.

Repubblica 27.6.09
Minacce e disperazione
di Ezio Mauro


Con un passo in più verso il suo personale abisso politico, ieri Silvio Berlusconi si è collocato all´opposizione rispetto all´establishment internazionale di cui dovrebbe far parte come imprenditore e come capo del governo italiano. Sentendosi assediato dall´imbarazzo che lo circonda fuori dal paesaggio protetto del suo mondo televisivo, il premier ha attaccato tutto il sistema libero e autonomo che non accetta di farsi strumento del suo dominio: Banca d´Italia, organismi di analisi e di controllo internazionale, Europa, e naturalmente «giornali eversivi», vale a dire Repubblica.
Questa volta la minaccia è esplicita e addirittura sguaiata nella sua prepotenza, se non fosse un segno chiaro di disperazione. Il Cavaliere annuncia infatti che «chiuderà la bocca» a «tutti quei signori che parlano di crisi», alle organizzazioni che «continuano a diffondere dati di calo dell´economia anche di 5 punti», come ha appena fatto nel doveroso esercizio della sua responsabilità il governatore Draghi e come fanno regolarmente istituzioni neutre, libere e autorevoli nel rispetto generale dei leader democratici di tutto l´Occidente.
Nello stesso tempo Berlusconi rilancia la sua personale turbativa di mercato, invitando esplicitamente gli investitori a «minacciare» il ritiro della pubblicità ai giornali che a suo giudizio diffondono la paura della crisi.
Davanti a un premier imprenditore ed editore che chiede agli industriali di «minacciare» i giornali, con l´eco puntuale e ridicola del ministro Bondi che replica l´accusa di eversione a Repubblica, ci sarebbe poco da aggiungere. Se non notare una cosa: è la prima volta che Berlusconi esplicita la sua vera intenzione verso chi sfugge alla pretesa impossibile di narrazione unica della realtà.
Tecnicamente, si chiama pulsione totalitaria: anche se la deriva evidente del Cavaliere consiglia di considerarla soprattutto velleitaria, e a termine.

Repubblica 27.6.09
Dieci anni dopo il bestseller di Brian Greene l’ultima "teoria del tutto" divide gli scienziati
La guerra delle stringhe
di Marco Cattaneo


Il pioniere Veneziano: "Ci sono degli ostacoli ma anche punti forti"
I detrattori dicono che è un modello estetico perfetto ma inutile
Il fisico americano: "Questa è la strada per realizzare il sogno di Einstein"

Per i sostenitori, è la migliore candidata a diventare la "teoria del tutto". Quella capace di unificare le quattro forze della natura, di mettere d´accordo la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, di spiegare il complicato zoo delle particelle elementari, di chiarire l´evoluzione del cosmo e, forse, di dirci qualcosa sulle più enigmatiche entità che lo abitano, la materia oscura e l´energia oscura. Per i detrattori – non moltissimi, ma piuttosto agguerriti – è un fallimento, che ha impegnato due o tre generazioni di fisici teorici per partorire un modello esteticamente ineccepibile ma del tutto inutile. È la teoria delle stringhe, per cui le particelle non sono punti senza dimensioni, ma minuscole corde a una scala tremendamente più piccola di quella dei nuclei atomici, invisibili al più potente dei microscopi. Sarebbero le loro vibrazioni a produrre la materia e a governarne le interazioni.
Sono passati dieci anni da quando è arrivata al grande pubblico, grazie a un clamoroso successo editoriale. Più di un milione di copie vendute, finalista al Pulitzer nel 2000, L´universo elegante (Einaudi, 13, 50 euro) ha fatto di Brian Greene una star indiscussa della divulgazione. Ma era già da tempo uno dei più brillanti giovani fisici teorici. "A metà degli anni ottanta, mentre mi laureavo, le stringhe stavano catturando l´attenzione dei teorici. E per i giovani erano un´opportunità, gettando nuova luce su un interrogativo sollevato da Albert Einstein: esiste una teoria unificata che abbracci tutte le forze della natura? Mi ci appassionai".
Tanto che presto ha sentito l´esigenza di illustrarla in un libro divulgativo. "Le domande che hanno motivato me e altri fisici – spiega – domande del genere "come è nato l´universo?", "da dove viene il tempo?", sono le stesse che la nostra specie si pone dall´inizio della civiltà. E noi dobbiamo permettere al grande pubblico di gettare uno sguardo sui progressi fatti nell´indagare le leggi della natura. Peraltro in dieci anni il panorama delle stringhe è cambiato. Con due grandi novità. La prima è che abbiamo superato parecchie approssimazioni. E poi abbiamo iniziato a sospettare che la teoria possa descrivere moltissimi universi, e il nostro sarebbe solo uno dei tanti. Progressi che credevo impossibili quando ho iniziato a lavorarci".
Intanto anche gli oppositori si sono dati alla divulgazione. Nel 2007 sono usciti L´universo senza stringhe (Einaudi), di Lee Smolin, e Neanche sbagliata (Codice), di Peter Woit. "Lo scetticismo è nella natura della scienza", commenta Greene. "Io non credo che la teoria delle stringhe sia giusta; non credo che nulla sia giusto, finché non è confermato sperimentalmente. Penso però che sia la strada più promettente per realizzare il sogno di Einstein. Ma credo che la salute della fisica sia riflessa anche dal fatto che si adottino strategie diverse per affrontare i problemi irrisolti". Perciò, dice, è positivo che molti teorici si siano avventurati su sentieri diversi da quello delle stringhe. Alla fine, sarà la natura a dirci qual era la strada giusta.
Concorda con il giovane collega, Gabriele Veneziano, teorico al CERN di Ginevra e professore al Collège de France, che a 26 anni, l´età di Einstein quando elaborò la relatività speciale, introdusse per la prima volta la rivoluzionaria idea delle stringhe. "Sono passati 41 anni", dice con nostalgia. "Con altri, avevamo ipotizzato che le forze che tengono insieme un protone o un neutrone si potessero spiegare ammettendo che al loro interno ci fossero minuscole corde vibranti. Ma quella teoria non funzionava, e fu abbandonata. Poi, nel 1974, il francese Scherk e l´americano Schwarz pensarono che, riducendo drasticamente le dimensioni delle stringhe, avrebbero potuto descrivere la gravità, riconciliando meccanica quantistica e relatività. Perciò mi piace pensare che la natura, ingannandoci, ci abbia fatto scoprire la teoria delle stringhe".
In questa visione, le particelle elementari sono oggetti estesi, filiformi, che vibrano come una corda di violino. "Come la corda emette note diverse – spiega Veneziano – così i diversi modi di vibrare delle stringhe corrispondono a diverse particelle. La differenza è che le stringhe hanno bisogno della meccanica quantistica, che produce effetti che mi piace definire "miracolosi". Fra questi, predice l´esistenza di particelle prive di massa come il gravitone e il fotone. Ciò significa che è automaticamente una teoria della gravità, dell´elettromagnetismo e delle altre interazioni che conosciamo".
Però, dicono gli scettici, c´è anche qualche problema… "Sì – ammette Veneziano – c´è qualcosa di cui faremmo volentieri a meno: per esempio il fatto che perché la teoria sia consistente occorre ipotizzare che esistano sei o sette dimensioni in più delle quattro che conosciamo, oppure che predice anche particelle prive di massa che non vorremmo, perché producono interazioni che non si osservano in natura. E questo è un ostacolo che potrebbe renderla incompatibile con i dati sperimentali". Veneziano, però respinge al mittente l´accusa secondo cui la teoria, non facendo previsioni sui fenomeni, non sarebbe falsificabile. "La vecchia teoria delle stringhe fu abbandonata anche perché prevedeva l´esistenza di particelle che non si osservano nelle forze nucleari. E come la vecchia teoria è morta perché faceva previsioni non conformi ai dati, così potrebbe morire anche la nuova… Insomma, secondo me la non falsificabilità della teoria dipende dalla nostra attuale incapacità di risolverla abbastanza a fondo. Non è una questione di principio".
Tra tre mesi ripartirà LHC, il grande acceleratore del CERN. E anche i fisici teorici vi ripongono grandi speranze. "Lo scenario più pessimista – prosegue Veneziano – è che si trovi solo la famosa particella di Higgs, responsabile della massa di tutte le altre. Sarebbe una scoperta importante, ma farebbe un po´ morire la ricerca". Poi, potremmo trovare un nuovo mondo di particelle "cugine" di quelle che conosciamo, la più leggera della quali sarebbe un buon candidato per la materia oscura. Ma il fisico italiano si spinge oltre. "Per le stringhe un auspicio, per quanto improbabile, è osservare qualche effetto "esotico" delle dimensioni supplementari dello spazio. La cosa migliore, però, sarebbe trovare qualcosa che finora nessuno ha immaginato, fenomeni nuovi e inattesi. È questo il sogno di chi ama indagare la natura”.

Corriere della Sera 27.6.09
Il potere Il movimento integralista Hamas offre un salario a 13 mila famiglie: è il secondo datore di lavoro
Il mercato nero Un litro di latte israeliano costa due euro, un frigo 400. E l’85% dei palestinesi vive con meno di due dollari al giorno
Gaza sei mesi dopo: Onu e case di fango
di Francesco Battistini


Le Nazioni Unite maggiore azienda della Striscia. Disoccupazione al 60 per cento, 26 mila senza tetto
Gli aiuti. Tonnellate di merci spedite a gennaio da tutti i continenti sono finite nei magazzini egiziani di El Arish I tunnel I padroni dei valichi sotterranei chiedono 50 mila dollari per diventare partner: «In metà anno rientri dell’investimento» Il «Madoff di Gaza» Ihab Kurdi garantiva interessi del 100% a chi comprava merci che dovevano ancora arrivare: la piramide è crollata

GAZA — Case così, non s’erano più viste. Con le colonne, le cupole. Pure le decorazioni. Tutte di fango. Sabbia, acqua e fantasia. A Gaza hanno co­minciato a costruirle in marzo, quand’era chiaro che gli israeliani non avrebbero mai lasciato passa­re il cemento, il vetro, l’acciaio che temono serva a fabbricare razzi. «Cent’anni fa, le case di fango le facevamo anche qui — racconta il geometra Ah­med Taha, un 42enne tutto preghiera e betoniera —. Le tirava su il mio bisnonno. Ma era il tempo degli Ottomani. E nessuno ormai si ricordava la tec­nica ». Poi saltò fuori uno di Hamas, Ziad Zaza, mini­stro di un’Economia che non c’è. Ho fatto i cantieri nello Yemen, rivelò Ziad all’amico Ahmed: là è tut­to di terra seccata, so come si fa. Il geometra e i suoi operai hanno imparato subito. E ora scarriola­no, impastano, edificano fra le macerie di Zeitun. Quattro mesi di lavoro. Duemila mattoni al giorno, tagliati e rosolati sotto il sole. «Ci sono dei vantag­gi », dice il geometra. Si possono scavare fondamen­ta di non più d’un metro e mezzo. E costruire al massimo tre piani. E sfamare il triplo dei muratori che servono a una casa normale: naturalmente, so­lo gente fidata e fedele al movimento. «Alla fine co­priamo con un impasto di pietre, così da fuori sem­brano abitazioni come le altre». E se piove? «Deve cadere acqua come bombe, per distruggerle».
Dall’era del Piombo Fuso all’era del Fango Essic­cato. In sei mesi. Chiusa al mondo, dimenticata dal mondo, la Striscia campa come sa. L’altroieri, Bene­detto XVI ha chiamato la comunità internazionale alla «ricostruzione d’una terra ancora una volta ab­bandonata a se stessa». Ieri, una nave di pacifisti che volevano forzare il blocco da Cipro è rimasta nel porto. Ormai ne parlano, se ne occupano solo loro. Una puntatina di Tony Blair, una visitina di Jimmy Carter: gente che non conta molto. Il resto è silenzio. Da qualche settimana è comparsa una stra­na malattia, sulla pelle di migliaia di persone: un po’ di detergente, l’unica terapia, e si vedrà. Hanno anche girato un cartoon, «Fatenah», sulla storia ve­ra d’una donna malata di tumore che gli israeliani non fanno uscire dalla Striscia: credete che abbia avuto la stessa pubblicità di «Valzer con Bashir»? E vi ricordate le tonnellate d’aiuti spedite a gennaio da tutti i continenti, nella commozione per i bambi­ni massacrati? Nelle botteghe di Han Yunis, trovi qualche sacco di riso della Thailandia, i pacchi del World Food Program a prezzi da mercato nero. Bri­ciole: centinaia di tonnellate, cibo e medicinali, so­no ancora stoccate nei magazzini di El Arish, la cit­tadina egiziana a 40 km dal valico di Rafah. Sei me­si dopo l’operazione Piombo Fuso, il grosso è mar­cito. E i doganieri di Mubarak, nella generale indif­ferenza, hanno deciso di bruciarlo.
La prigione a cielo aperto più grande del mondo è ben sorvegliata, da israeliani ed egiziani. E gli aiu­ti diventano strumento di pressione politica. C’è un matrimonio, quando arriviamo nella vecchia zo­na industriale di Jabalya, uno dei sobborghi di Gaza City rasi al suolo. Si sposano Fahdi e Muna, 36 anni in due, nipoti d’un capotribù del paese, Abed Rab­bo. La cerimonia è minima, un vassoio di dolci e succo d’arancia: al 55enne Abed, per ricevere i cin­quemila del clan sono rimasti solo un divano scas­sato e un telo di plastica dell’Unrwa, piazzati davan­ti alle macerie di casa. Ogni invitato porta in dono ai Rabbo quel che è rimasto della sua, di casa: un mattone, un wc, un cavo, un pezzo di finestra, una piastrella. Fahdi e Muna ci stanno costruendo la lo­ro stanza, attaccata a un palazzo di sfollati.
«Eravamo contadini — dice il patriarca —. I cam­pi, è impossibile lavorarli: i canali d’irrigazione so­no distrutti, ci sono le mine». Un metro cubo d’ac­qua desalinizzata costa 10 euro e, quando li hai, li spendi per bere: «Se vuoi piantare un limone, lo pa­ghi tre volte il suo prezzo. Una volta eravamo un giardino. Adesso, in tutta Gaza è impossibile trova­re un albero da frutta. Hamas ha dato qualche sol­do dopo la guerra, per tenere tutti buoni. Poi, ba­sta. Aiuti e lavoro, solo ai suoi».
Le più grandi aziende della Striscia, le sole che offrono impiego, sono due: l’Onu, 16 mila stipen­diati, e Hamas che dà un salario a 13 mila famiglie. I veri centri di potere. In un mondo chiuso dove un poliziotto prende 250 euro al mese, un colon­nello 600. In una situazione che favorisce immagi­nabili abusi: il dirigente delle Nazioni Unite che ge­stisce anche un hotel per le delegazioni straniere, l’irreprensibile del movimento islamico che oltre­confine fa affari con gli israeliani... Ali Abu Shahla, classe 1946, ha tre diversi biglietti da visita e aveva una fabbrica di costruzioni con 30 dipendenti (ora sono tre): «Allo staff di Blair, inviato del Quartetto per il nostro rilancio economico, ho chiesto di rin­novarmi la tessera da imprenditore. Guardi qui: numero 911576742. È scaduta il 31 dicembre. Era il mio lasciapassare per fare contratti in Israele. Non mi hanno nemmeno risposto». L’unica com­messa che l’impresa di Abu Shahla ha in ballo, è per ricostruire la scuola d’un villaggio distrutto. Ma non a Gaza: in Afghanistan.
Nei dopoguerra, si sa, c’è chi sta meno peggio. E magari fa pure qualche soldo. Ci sono le case dei signori di Hamas, misteriosamente scampate alle bombe. C’è la Banca Nazionale Islamica, nuova di zecca: applica la sharia, che vieta di fare soldi coi soldi, ed è il salvadanaio degli stipendi, o la cassa­forte dei tunnel, un’economia mai doma. Il merca­to di Rafah lo chiamano Port Said, perché è come il duty free egiziano. Porta sottoterra latte israelia­no (2 euro al litro), carburante (prezzo raddoppia­to), computer (350 euro), cellulari (200), frigorife­ri (400) e cose carissime come frutta, giocattoli, cioccolata, merendine. Porta anche Valium e pillo­le antidolorifiche, richiestissime. Gente che fa sol­di, i padroni dei tunnel: 50 mila dollari e ti offrono la partnership, «sei mesi e rientri dell’investimen­to ». Gente che ha i ganci giusti: quando il mercato andava giù, prima della guerra, bastava una chia­mata ai soci delle Brigate Qassam, che lanciavano un razzo su Sderot e facevano chiudere dagli israe­liani i valichi, rivitalizzando l’economia sotterra­nea.
Ogni tanto, la macchina s’inceppa. Com’è succes­so a Ihab Kurdi, detto «il Madoff di Gaza»: anche lui aveva pensato d’applicare lo schema di Ponzi, a modello il re di Wall Street, e offriva interessi addi­rittura del 100 per cento a chi investiva su merci che dovevano ancora arrivare. Convincente, Ihab: gli imam, i capi islamici, interi quartieri s’erano de­cisi a versare. La guerra, i blocchi hanno fatto salta­re la piramide d’investimenti. Decine di famiglie so­no finite sul lastrico, qualcuno ha perso 200 mila dollari. In aprile, quando la truffa era ormai scoper­ta, è esplosa la rivolta di piazza. E il furbetto del minareto è finito in galera. Promette che restituirà. Come e quando, non si sa. Gli hanno pignorato la casa, intanto. Che non è di fango.

Corriere della Sera 27.6.09
L’obiettivo: liberare il celebre testo dagli arcaismi, usando parole schiette
E il «principe» diventa leader: Parks aggiorna Machiavelli
di Tim Parks


Il racconto delle difficoltà incontrate nel trasporre l’opera in ingleseGli ostacoli della traduzione: quando la gestione del potere è virtù

Tentare una nuova traduzione di Machiavelli non significa scarta­re le precedenti come inadegua­te. Ci limitiamo a constatare che alcune versioni esistenti attirano troppa attenzione su se stesse, come espressione linguistica dei vari momen­ti storici. Cosa piuttosto infelice nel ca­so di Machiavelli, il quale ribadiva che lo stile gli interessava solo in quanto strumento per trasmettere un contenu­to senza fronzoli o distrazioni.
«La quale opera», ci spiega, «io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamen­to estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata».
Ho preso questa dichiarazione di in­tenti dello scrittore come guida alla mia traduzione, tentando in ogni possibile modo di liberare il testo dagli infausti arcaismi di certe altre versioni inglesi, per raggiungere l’essenza dell’originale e trasmetterla in parole schiette.
Non è facile. Il primo problema, che ci prepara a tutti i successivi, è già pre­sente nel titolo: Il principe. Ma che cos’è un principe per Machiavelli? Un duca è un principe. Il papa è un principe. Un imperatore romano è un principe. Il re di Francia è un principe. Il Signore di Imola è un principe. Tutto questo non ha senso nell’inglese moderno. Gli ingle­si hanno il principe Carlo, e per ironia della sorte il principe Carlo non è re Car­lo e forse non lo sarà mai. Ma anche se dovesse diventare re, non potrebbe eser­citare nessun vero potere, nemmeno quel tipo di potere «soft» che detiene il Papa, e poi non si pensa mai al Papa co­me un sovrano o un principe.
L’unico altro riferimento a un princi­pe di cui dispone la lingua inglese è il Principe Azzurro, concetto davvero lon­tano dal brizzolato principe Carlo e an­cor più distante dal tipo di principe di cui parla Machiavelli. Per Machiavelli, infatti, «principe» non significa «figlio del re», e ancor meno «lo spasimante dei sogni». Il principe di Machiavelli si riferisce in modo generico a un uomo di potere, un uomo che governa uno Sta­to. Il principe è, semplicemente, il pri­mo (o il principale) tra i cittadini.
Il traduttore a questo punto è tentato di ricorrere al termine «king». Almeno in passato il re sedeva al vertice di un sistema gerarchico, era l’uomo che con­tava. Tuttavia è difficile, nel tradurre Ma­chiavelli, utilizzare la parola «king» quando si parla del Signore di Imola, o del Papa, o di un imperatore romano. Nel limite del possibile, ho risolto il pro­blema ricorrendo al poco seducente «ru­ler », governante, o addirittura al più ge­nerico «leader», sottolineando sempre che stiamo parlando del leader politico di uno Stato. Ma il celebre titolo del­l’opera deve rimanere così com’è, altri­menti nessuno capirebbe di che libro si tratta.
Ancor più spinosa è la traduzione di «virtù», assieme a tutta una serie di ter­mini raggruppati attorno ad essa. Sareb­be così facile ricorrere al termine affine in inglese «virtue», l’opposto del vizio, ma non è di questo che parla Machiavel­li. Non era affatto interessato alla polari­tà bene/male, quanto piuttosto a quelle di vincere/perdere, forza/debolezza, successo/fallimento.
Per Machiavelli la virtù era una qualsi­asi dote di carattere che consentiva al­l’individuo prima di impadronirsi del potere politico e poi di rimanerci salda­mente aggrappato: in breve, una caratte­ristica vincente. Poteva trattarsi del co­raggio in battaglia, o della forza di perso­nalità, o di astuzia politica, oppure pote­va essere persino quella crudeltà senza scrupoli che fa capire ai sudditi che si è pronti a tutto. Ma non è possibile tradur­re virtù con «astuzia» o «crudeltà», pur sapendo che in un preciso contesto a questo si allude, perché così andrebbe perso il connotato positivo che Machia­velli desidera infondere alle speciali qua­lità che va enumerando: se la crudeltà è indirizzata a risolvere certi problemi, a preservare il potere, a fortificare lo Sta­to, allora in questo contesto diventa una virtù.
Per quanto maldestra possa apparire la traduzione, sono stato costretto talvol­ta a rendere virtù con «positive quali­ties » o «strength of character», tranne ovviamente laddove — e non manca qualche esempio — Machiavelli inten­de per davvero le virtù morali: nel qual caso si affanna a ribadire che è cruciale far finta di possederle, anche quando so­no del tutto assenti. Adoperata scaltra­mente per un fine preciso, la capacità di fingere è anch’essa un’importante virtù. Il consulente d’immagine (spin doctor) aveva scritto una breve presentazione per il Machiavelli annotato da Napole­one, celebre falso ottocentesco pubbli­cato dalle Edizioni Silvio Berlusconi in tiratura limitata, per bibliofili, con in­troduzione di Vittore Branca.
Risponde Parks: «No, credo di no, perché Berlusconi vuol essere amato da tutti, e Machiavelli è molto chiaro in proposito: è meglio per il principe essere temuto piuttosto che amato. L’affetto, scriveva, è imprevedibile, non si sa quando si esaurisce. Già nel 2001, in un saggio per la 'New York Rewiew of Books', osservavo che Ber­lusconi è un uomo che ama essere vi­sto come un benefattore, non come uno che vuole fare tagli». Però Berlu­sconi è un personaggio che ha voluto il potere, ha saputo conquistarlo e vuole mantenerlo. In questo è simile al principe di Machiavelli. «Sì, però vuole convincere tutti gli italiani ad amarlo... Insomma, lui non è la Tha­tcher: di fronte a riforme impopolari, le pensioni per esempio, preferisce ri­mandare. Machiavelli, però, aiuta a ca­pire come uno come Berlusconi abbia potuto costruire il suo successo politi­co: ripete più volte, Machiavelli, che ci sono circostanze che favoriscono l’ascesa di uomini che in altri contesti avrebbero fallito. Ed è evidente che in un altro momento storico il Cavaliere sarebbe rimasto un signor nessuno».
Ma perché questa traduzione, ades­so? «Da circa otto anni non traducevo più. Con Machiavelli, comunque, ave­vo una lunga consuetudine. Senz’altro per il lavoro preparatorio de La fortu­na dei Medici ( Medici Money, uscito in Inghilterra nel 1999, in Italia da Mon­dadori nel 2006: per questo libro Parks è stato chiamato a curare una mostra sulle banche a Firenze nel ’400, che si terrà a Palazzo Strozzi nel 2010 ndr). Avevo dovuto leggere le Istorie fiorentine, già scontrandomi con i pro­blemi della sua prosa. Nel frattempo avevo anche scritto una introduzione al Principe, ma per la traduzione c’è vo­luta la richiesta di Penguin Classics. Che, va detto, paga molto bene, e in più garantisce al traduttore anche una percentuale sulle vendite». Che non è poco vista la fortuna di Machiavelli, di cui si continuano ad approntare tradu­zioni, in America e in Inghilterra, men­tre nel suo nome prospera una lettera­tura che va dai manuali per manager ai thriller.
Ha avuto problemi con la lingua di Machiavelli? «Meno di quelli che cre­devo. In realtà mi sono attenuto alle di­chiarazioni dell’autore che diceva di voler usare una lingua diretta, senza parole ampollose né ardue costruzio­ni. Voleva essenzialmente farsi capire. Ho voluto fare un’opera di mediazione con i lettori. Evitando il tono accademi­co, o quello stile un po’ ciceroniano, arcaico, di altre traduzioni. Rinuncian­do alla sintassi e alle parole latineg­gianti optando decisamente per lessi­co e costruzione anglosassoni». Da qui la decisione di sostituire prince con ruler o leader, così come la scelta di tradurre «virtù» con strength of cha­racter o simili. «Aggiungerei anche un’altra considerazione, un altro invi­to che viene dallo stesso Machiavelli quando parla della fortuna che è don­na 'et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla'. Ecco, qui for­se c’è un suggerimento sul come tratta­re il testo: bisogna violentarlo («urta­re » vuol dire prendere una donna con la forza, sbatterla di brutto), per estrar­ne il senso».
Oggetto di perenne scandalo nei se­coli, Il principe non ha mai finito di attirare anatemi e condanne. Ancora Bertrand Russell lo definiva «un ma­nuale per gangster». Ma già nel ’500 era attaccato da protestanti e cattolici. Nel teatro inglese, dagli elisabettiani a Shakespeare a Ben Jonson, Machiavel­li è citato circa 400 volte: con il suo no­me si indica il tiranno spietato, il catti­vo che fa il male senza scrupoli. Curio­samente, la rivalutazione democratica (Rousseau, Foscolo) è a dir poco ma­chiavellica: Il principe voleva svelare al popolo la nefandezza del potere. «Proprio in questo suo essere scanda­loso risiede una delle ragioni del suo successo duraturo. Machiavelli co­stringe il lettore ad affrontare la realtà com’è. Ci sono i precetti morali, è ve­ro, ma non ci sarebbero governanti, se questi volessero seguire solo i valo­ri etici. La realtà umana è imperfetta, possiamo scandalizzarci, ma proprio per questo bisogna accanirsi per rie­quilibrarla. Costi quel che costi. Certo non dice che il principe dev’essere un assassino, ma l’unica cosa che rimpro­vera a Cesare Borgia è di aver sbagliato nel favorire l’elezione del papa Giulio II».
«Ma c’è un’altra ragione per cui Il principe è un li­bro affascinante» conti­nua Parks. «È il fatto che non è un libro a tesi, cre­sce mentre Machiavelli lo sta scrivendo, quasi si stes­se convincendo che l’enu­merazione dei tipi di prin­cipati dell’inizio è inutile, perché sono modelli che non si possono seguire. Ve­de che il mondo è cambia­to dai tempi dell’Impero romano, sa bene che la ve­ra intelligenza è quella di chi sa adattarsi alle mutate condizioni. E quando comincia a parla­re di Cesare Borgia, il testo cessa di es­sere un trattato de principatibus e di­venta un’opera eccezionale e inquie­tante. Chi sa, forse è capitato a Niccolò quello che capita ai biografi e ai ro­manzieri che s’innamorano del pro­prio personaggio, più cattivo è meglio è. Forse la scelta del Borgia è stata una mossa suicida, ma senza quei capitoli il libro non avrebbe avuto la fortuna che ha avuto. Difficile dire se fu un’in­genuità o una suprema astuzia, o inve­ce una sorta di inconsapevole identifi­cazione. Certo, Il principe non lascia indifferenti, è fatto per turbare. A lettu­ra ultimata, per ognuno di noi è prati­camente impossibile pensare ai nostri politici e governanti nel modo con cui li guardavamo prima».
(Traduzione di Rita Baldassarre)

il Riformista 27.6.09
Il nuovo imperatore i suoi vassalli e il neofeudalesimo
di Rina Gagliardi


Sostituite il potere delle armi con quello dei soldi (e dei voti) e avrete, all'incirca, Berlusconi. Un imperatore neofeudale in pectore

L'Italia del Ventunesimo secolo sta "precipitando" nel feudalesimo? In una sorta di neofeudalesimo ovviamente molto diverso dai suoi antecedenti medioevali ma ad esso in qualche modo somigliante? La suggestione - lanciata su queste colonne da Rino Formica, a proposito del ruolo crescente della Lega - può apparire stravagante. Eppure, non va scartata a priori. Quando Veronica Lario parlò, nella sua ormai celebre dichiarazione, di «divertimento dell'imperatore», evocò, forse inconsapevolmente, un concetto assai preciso e forse non casuale. Imperatori non si nasce, si diventa: ecco la differenza rispetto ai re o ai principi, che sono tali per diritto di nascita e sangue. Imperatori, si può diventarlo anche se si è un parvenu, se si ha dalla propria parte il "consenso" dell'esercito - vedi Roma e il suo discendente quasi diretto, il Sacro Romano Impero, vedi, per citare un esempio moderno, Napoleone Bonaparte. Sostituite il potere delle armi con quello dei soldi (e dei voti) e avrete, all'incirca, Silvio Berlusconi. Un imperatore neofeudale in pectore (del resto in tempi non sospetti non si dichiarò l'«unto del Signore?»), che governa il suo territorio attraverso vassalli e valvassori (un subappalto territoriale di cui la Lega rappresenta oggi l'esempio più forte), ma che ha al contempo un rapporto "diretto", carismatico, sacrale, con il suo popolo. Un imperatore feudal-populista, che, come i suoi predecessori medioevali, dipende in toto dai suoi "vassi", quelli che presidiano i territori (geografici, televisivi, pubblicitari e così via), ma che è la sola fonte "legittima" del potere, il proprietario dei titoli. Ne consegue quell'intreccio di interdipendenza, ordine e caos che caratterizzò, in fondo, i "secoli bui" seguiti alla caduta dell'Impero romano, quando mancava ogni sicurezza (scorazzavano barbari, briganti e pirati), quando non restava che rifugiarsi (più o meno) in un castello, quando, per sopravvivere, non si poteva che affidarsi a chi deteneva la forza, appunto, delle armi.
Ma ci sono altre riflessioni, un po' più generali, che si possono proporre.
La prima, appunto, è la frammentazione dei territori, ovvero la crisi degli Stati nazionali moderni. Un processo indotto prima dalla globalizzazione, e reso ancor più complesso dalla crisi della globalizzazione stessa: quel che è colpito al cuore, in verità, specie in Europa (ma non solo) è l'idea di unità politica, di forza della politica, che lo Stato moderno ha rappresentato per un quasi due secoli. Pullulano le Nazioni, è vero, ma si moltiplicano le spinte centrifughe, le identità etniche, le pulsioni separatiste, spesso intrecciate con il caos sempre più disordinante del mercato globale, che oggi riversa i suoi guai (come appena ieri riversava i suoi fasti) sulla globalità dei territori. Se si prova a viaggiare attraverso l'Europa, si ha la sensazione di un continuum largamente unificato, per un verso, anche dal punto di vista antropologico, ma straordinariamente differenziato per l'altro verso. Immagino che ai (pochi) viaggiatori dell'epoca apparisse così, all'incirca, l'Europa di Carlo Magno (immagine): un luogo dai confini interni molto confusi, e mai del tutto stabili, un'unità molto in alto, lontanissima, astratta. Sacra, giust'appunto (la sacralità che ha oggi assunto il mercato, una divinità impalpabile, come capita a tutte le religioni monoteiste).
La seconda riflessione è che tutto questo disordine al capitalismo globalizzato sta a pennello: ci nuota come un pesce nell'acqua. Se potesse fare a meno, del tutto, della politica e degli Stati, ci sguazzerebbe ancora meglio. Ma, poiché questo obiettivo di dissolvenza non è realistico, si limita a fare del suo meglio per indebolire come può la forza degli istituti e delle istituzioni politiche. Un esempio? I partiti, come tali, sono sostanzialmente scomparsi, e con essi l'idea stessa di rappresentanza - quello che resta dei partiti, a sua volta, si è modellato su un ordine di tipo feudale. Partiti personali, correnti personali, sistemi diffusi di vassallaggi e cooptazioni - anche qui, come nel Medioevo, il vassus è sempre alle dipendenze di un Signore, ma, a sua volta, può disporre di suoi propri vassi. La catena infinita di un intreccio inestricabile di interdipendenze.
Infine, ultima riflessione, il neofeudalesimo di oggi è incentrato, come quello di ieri, su due dimensioni antropologiche decisive: la paura e il bisogno di sicurezza. Il Nemico è sempre alle porte, anche quando non lo vedi e magari non lo riconosci: ecco una delle chiavi di volta della crisi di civiltà contemporanea.
Quando, dopo il famoso risveglio dell'anno Mille, nacquero i Comuni, cioè la borghesia della prima rivoluzione borghese e commerciale, cominciò a nascere ciò che chiamammo "modernità" e culminò, politicamente, nella Rivoluzione francese.
Ne siamo usciti, dalla modernità, dopo le tragedie del Novecento. Per andare dove? Per tornare a quando?

tellusfolio.it 27.6.09
Vincere – e vinceremo!
di Guido Bussoli


Vincere, di Marco Bellocchio, cinema “Excelsior” di Sondrio. Ad Alessandra piace soprattutto l'interpretazione della Mezzogiorno - intensa, è questo l'aggettivo giusto? Io quando vado a cinema ho invece bisogno di credere, o forse lo credo davvero, che gli attori non siano attori, e quel che vedo sia una tra le tante possibili evenienze del reale. Per me John Wayne andava in bagno a cavallo, ecco. Un'attitudine che funziona molto bene con i film porno e meno non quelli di Marco Bellocchio: cinema di idee al massimo grado di concentrazione, qui ancora più che altrove. Eppure anche a me è piaciuto molto - estenso, è questo l'aggettivo giusto?
L'estensione delle teorie di Foucault sulla rimozione dell'elemento emotivo e passionale come premessa alla fondazione simbolica del Potere, qualsiasi potere, in cui ritorna come sintomo o degradata sublimazione, in Vincere trova un correlativo perfetto che potrebbe essere didascalico o pedante. Invece non lo è. Ida Dalser è ombra viscerale alla retorica linguistica del fascismo, ma è anche una donna, che forse proprio perché donna non riesce a conformarsi a un ordine del discorso fondato sullo sfasamento nominale. È questo il principio di civilizzazione: spostare il dato di realtà a un orizzonte ulteriore, dentro un codice espressivo che non contempla il corpo e l’adesso? Se bisogna vincere, allora, vinceremo: tempo futuro.
Ida Dalser, di sangue e nervi costituita, è dunque difforme a un potere totalitario basato sull'iperbole fasulla, che porta a una sorta di disallineamento o diacronia - il Re è nudo al balcone, ma l'uomo dentro il suo letto è velato e guarda altrove. Per questo viene espunta dall'ordine pubblico del discorso attraverso quella parentesi privata che è il manicomio, dove più tardi verrà internato anche il figlio, sintomo visibile ed “osceno” dell'infrazione linguistica. Qui entrambi moriranno rispettivamente a 57 anni (1937) e 26 anni (1942).
Ma fino a questo punto siamo forse ancora all'elemento generale e di continuità sotteso al cinema di Bellocchio, soprattutto quello in collaborazione con lo psicanalista Massimo Fagioli: la follia come testo sociale negato, che ritorna per mezzo di una diversa codificazione. La novità di contenuto, che si appoggia a scelte stilistiche controllatissime che la rilanciano, ossia la innalzano dentro una potente visione mai stemperata in sublimazione, sta forse nello sviluppo di un tema diverso seppure implicito, ugualmente dedotto dall'ultimo Foucault. Sto pensando alla “parresia”, argomento che fu al centro del suo ultimo ciclo di lezioni (1983) all'università californiana di Berkley. Parresia, che significa semplicemente “dire la verità”.
Ida dice la verità, l'afferma in continuazione. Ma non per convenienza, al contrario: per una necessità quasi corporea di far corrispondere il nome con la cosa propria, che è poi l'unica forma ammessa di esistenza sociale (“dammi un nome dammi un nome”, implora l'insetto nella celebre poesia di Mandel'stam). Così la sconveniente verità da proclamarsi con ogni mezzo, è che lei è la prima e legittima moglie del Duce e madre di suo figlio Benito Albino Mussolini - ecco il nome , l'esistenza negata attraverso la rimozione manicomiale. E non è molto importante sapere se ciò sia vero, non esistono prove storiche al riguardo, perché la virtù della parresia non consiste in qualcosa come una verificabile certezza, ma nella titolarità morale a dire il vero, che coincide con il rifiuto della retorica pubblica del Potere.
Gli italiani che alla fine si ribellano al fascismo e ne distruggono le icone, sono in fondo tutti dei Benito Albino, dei figli edipici che rivendicano il riconoscimento del proprio nome e della propria autonomia (libidica?), a cui avevano precedentemente abdicato in un'ebbrezza infantile: coincidere con il Padre. Ed è straordinario assistere, cioè letteralmente soggiornare dentro un’impalcatura allegorica vertiginosa, al regista più algido del cinema italiano che assume il tema caldo dell'emozione come verità “politica”, ma anche cinematografica. Infatti è proprio il cinema che si è occupato, in epoca recente, di reintegrare l'elemento emozionale, come la stessa pellicola ci ricorda per mezzo di numerosi inserti cinematografici. Perciò io trovo che Vinceresia un film politico ma in un senso lato, non c'entra insomma nulla con una critica traslata all'attualità politica italiana, come è stato suggerito, e direi quasi brechtiano o situazionista. Mostrando la responsabilità civile interna a ogni altro film - portare lo spettacolo ad una consapevolezza e responsabilità del ruolo di “integratore emotivo”, potremmo dire - o più in generale ad ogni enunciazione preverbale ed iconica.
Ma qui il discorso dovrebbe essere ovviamente esteso a quell'altro formidabile apparato iconico che è la pubblicità, rivelando la fondatezza dell'intuizione linguistica di Pasolini, quando la rubricava come “nuovo fascismo”. Se c'è dunque una critica politica di Bellocchio rivolta all'oggi, non è a Berlusconi ma al berlusconismo. Qui inteso come codice linguistico con ambizioni totalitarie, che si appoggia alla rimozione neofascista della vitalità naturale, interna e costituiva del sistema pubblicitario di promozione delle merci. In altre parole, al trasferimento della vita nella sua rappresentazione.

venerdì 26 giugno 2009

l’Unità 26.6.09
Il diritto mite e il testamento biologico
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi

La scorsa settimana, in un editoriale di Avvenire, Francesco D’Agostino discuteva un documento approvato dalla Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento. L’ex presidente del Comitato Nazionale di Bioetica si sofferma, innanzitutto, sulla posizione degli Ordini in merito alla nutrizione artificiale, che viene ritenuta da questi a tutti gli effetti una terapia, dunque un trattamento suscettibile di interruzione. Qui D’Agostino esprime le ben note riserve della cultura cattolica, ignorando il fatto che, tra l’altro, quel tipo di trattamento richiede il consenso informato.
Ma le critiche principali si rivolgono a un altro bersaglio: in particolare, contro l’auspicio degli stessi Ordini che il legislatore intervenga su tali materie, “delicate e intime”, con un “diritto mite”. Per D’Agostino quella richiesta di mitezza è un tratto ideologico “liberal/libertario” (così lo qualifica) insostenibile. Egli non vuole un diritto “mite”, ma un diritto “giusto” (come se le due cose non dovessero o potessero coincidere: forse “mitezza” è sinonimo di “iniquità”?); e pensa che le questioni di fine vita non siano “delicate e intime”, quasi che abbiano “un rilievo strettamente privato”, ma che siano altresì questioni “pubbliche”, come pubblica è la medicina.
Viene da chiedersi cosa intenda D’Agostino per “diritto giusto”: se stia cioè parlando di “acqua bagnata” (quale legislatore di un sistema democratico tende intenzionalmente a promuovere una normativa ingiusta?); o se faccia appello a un governo “etico” del diritto (teso a dirimere il bene dal male), che è prerogativa dei totalitarismi o delle teocrazie. La mitezza che egli tanto soffre è quel principio di “riduzione del dolore”, determinato dalla violenza di contraddizioni inconciliabili e di conflitti non mediabili, cui deve attenersi il diritto in un sistema liberale; e la capacità di astenersi dal prevaricare sulle scelte che riguardano la sfera privata delle persone, limitandosi a fornire strumenti affinché quella sfera sia intangibile all’autorità pubblica.
Il diritto previsto dal testamento biologico è un diritto “negativo”, per così dire: non ad avvalersi di qualcosa, ma a poter esprimere un rifiuto. È il diritto a non subire una coazione, a non veder violato il principio di sovranità sul proprio corpo. La stessa idea della morte come un fatto “pubblico”, in D’Agostino, è la manifestazione estrema di ciò che Habermas definiva “sistema” in contrapposizione ai “mondi vitali”: un’invasione della dimensione burocratico-statuale in quanto di più umano - intenso, intimo, esclusivo - possa esservi. Che paura.

Repubblica 26.6.09
"Clandestinità, reato incostituzionale"

ROMA - Nel giorno in cui Di Pietro sale al Colle per chiedere a Napolitano di fermare il ddl intercettazioni, due ex presidenti della Consulta, Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky, firmano un appello per denunciare l´incostituzionalità del reato di immigrazione clandestina. Da martedì il ddl sicurezza sarà in aula al Senato per l´ultimo passaggio parlamentare. Un gruppo di giuristi (Guido Neppi Modona, Stefano Rodotà), magistrati (Armando Spataro), avvocati (Oreste Dominioni, consiglieri del Csm (Livio Pepino) sostiene che il reato «presenta molteplici profili di illegittimità costituzionale». Oltre a essere «irragionevole» perché si sovrappone alle norme esistenti sulle espulsioni, contrasta con quanto affermato dalla Corte: «Non ha fondamento giustificativo criminalizzare la condizione di mera irregolarità di uno straniero».

Repubblica 26.6.09
Un saggio di Katie Hafner rafforza il mito del grande artista
Il pianoforte perfetto
L’ossessione di Glenn Gould
di Nicola Piovani

Più che il titolo, è il sottotitolo "la ricerca del pianoforte perfetto" a dirci di che libro si tratta: per duecento avvincenti pagine l´autrice ci racconta, ancor più che il suo amore per Glenn Gould, la sua passione per il pianoforte gran coda; o meglio per il gran coda Steinway, o meglio ancora per il gran coda Steinway CD 318, il pianoforte prediletto del grande maestro canadese. Il CD 318 era amato da Gould come si ama una persona, un´amante, una mamma, alla quale si perdonano anche i difetti - perché, a quanto risulta dalla lettura, il CD 318 di difetti doveva averne parecchi.
Il canadese Glenn Gould è stato un grandissimo pianista, come testimonia chi l´ha ascoltato dal vivo e come possiamo immaginare dalle seducenti registrazioni che ci ha lasciato. Ma è stato anche quello che oggi chiamiamo un mito, cioè un personaggio la cui fama travalica il valore intrinseco della sua arte per sedurre e entusiasmare anche folle di profani: Callas, Coppi, Maradona sono divinità anche per chi non sa di lirica, ciclismo, calcio.
Il libro di Katie Hafner (Glenn Gould, Einaudi, pagg. 240, euro 24) incoraggia molto i parrocchiani di questa mitologia. Ci dice ammirata: pensate era talmente ipocondriaco che se uno tossiva al telefono lui dall´altra parte della cornetta chiudeva la linea, per paura dei bacilli. Oppure: d´estate, in piena calura, genialmente vestiva col cappotto e coi guanti. Ci narra anche di un concerto della pianista ungherese Mary Kenedi a Ottawa, dopo la morte di Gould, in un repertorio che Gould non amava per niente: Liszt, Kodàly e Bartòk. Mentre lei suonava, il mitico CD 318 cominciò a scivolare sul palco: evidentemente i direttori di scena distrattamente non lo avevano fissato per bene. Sono cose che possono accadere e sono accadute a molti. Beh, i fan di Gould, compresa la Hafner, si sono convinti che l´amato CD 318 avesse tentato intenzionalmente di scivolare "più o meno verso ovest, cioè verso Toronto" per cercare di sottrarsi a quegli autori in programma così poco gouldiani: come si dice di fronte a certi entusiasmi, basta crederci.
A gonfiare la mitologia sproporzionata di G. G. ha contribuito negli anni Novanta Thomas Bernhard con Il soccombente, un romanzo che ha entusiasmato molti lettori - qualcuno però, come è capitato a me, si è un po´ irritato.
Comunque il libro affascina, a patto che si sia amanti del pianoforte, proprio perché mette a fuoco l´essenza di questo strumento frutto nello stesso tempo di antico artigianato sapiente e di modernissime tecnologie industriali.
La Hafner ci fa anche capire come i pianoforti Steinway, indubbiamente fra i migliori della storia, debbano la loro fama universale a un´astuta e lungimirante politica di immagine. Henry Steinway aveva intuito che bisognava convincere i più celebri concertisti a suonare in pubblico i suoi strumenti, col marchio ben in vista: era l´unico modo per battere la concorrenza dei Chickering, Mason, Baldwin. Spedì perfino un pianoforte da New York in Ungheria a Franz Liszt; il quale però dette buca, non suonò mai quello strumento. Ma la famiglia Steinway non mollò e nel 1872 il giovane William mise a segno il colpo Anton Rubinstein: il grande pianista russo fu convinto a esibirsi in 215 concerti negli Stati Uniti suonando su pianoforti Steinway. Da quegli anni l´etichetta di New York divenne la numero uno, lo Steinway divenne ufficialmente il miglior pianoforte del mondo. Evidentemente anche per i pianoforti, come per i grandi vini, l´etichetta ha il suo ruolo, che a volte travalica l´oggettiva qualità del prodotto.
La carriera di Gould, come ci ricorda questa suggestiva quasi-biografia, si apre e si chiude simbolicamente con due registrazioni della stessa opera: le Variazioni Goldberg di J. S. Bach. La prima del 1955, quando Gould era un semi sconosciuto di 23 anni. La seconda del 1982, pochi mesi prima della sua morte. Nella mia memoria di ascoltatore conservo come un feticcio la prima sublime versione, in vinile, che ho ascoltato a 13 anni: il primo disco di musica classica per il quale mi sono morbosamente entusiasmato.
La versione dell´82 si presenta più lenta in certe esposizioni, più estenuata e più pensosa, cristallinamente digitale. Dalla lettura di questo libro ho appreso che in quest´ultima registrazione Gould suonava su Yamaha: dopo una vita passata a provare maniacalmente pianoforti artigianali - Steinway, Bösendorfer, Bechstein - Gould ha chiuso la sua parabola di concertista incontentabile scegliendo un pianoforte giapponese di serie. E questo me lo fa ancora più simpatico.
Si racconta fra l´altro che, guidando pessimamente l´automobile, spesso passava col semaforo rosso. E si giustificava così: «E´ vero che sono passato col rosso diverse volte, ma d´altra parte mi sono fermato a un mucchio di verdi e non ho mai ricevuto elogi per questo».

Repubblica 26.6.09
I paradisi artificiali
De Quincey e Baudelaire l’oppio, la creazione, le tenebre
di Pietro Citati

Ecco come "Le confessioni" dello scrittore inglese ispirarono il celebre saggio del poeta
Il racconto autobiografico del "mangiatore" viene scritto nel 1821
L´autore dei "Fleurs du mal" se ne innamora: nel 1860 esce il suo libro
In ogni eccitante e in ogni droga i due letterati scoprivano un mondo diverso

Non so quello che i lettori italiani conoscano di Thomas De Quincey. Molti hanno letto Le confessioni di un mangiatore d´oppio inglese. Ma il resto? Il resto di quest´opera frammentaria, spezzettata, e vasta come l´universo? Dopo qualche mese di convivenza con Thomas De Quincey, dopo aver attraversato le confessioni, i racconti, i saggi, i capricci, i ritratti, gli scritti di prodigiosa erudizione, ne sono uscito con un´impressione di grandezza assoluta, come se uno spirito benigno mi avesse rivelato un nuovo continente. Ci sono molti dilettanti geniali, che hanno il dono di attirare e assimilare tutte le cose nella loro sfera, o di disperdersi in tutte le direzioni. Ma De Quincey era molto di più. Non era soltanto uno scrittore: era, da solo, una intera letteratura.
Immaginate un oratore greco del quarto secolo, che ha vissuto all´ombra di Demostene: quest´oratore rinasce al tempo di Tacito, ama e odia l´Impero romano, rappresenta le folle barbariche che premono contro i confini; e poi rivive nell´età di Agostino, nutrendosi del senso di colpa e di redenzione cristiano, ed ereditando quella meravigliosa retorica, colma di interrogativi, di parallelismi, di opposizioni, di ansie, di lacrime e di miele. Immaginate che quest´uomo rinasca nell´epoca elisabettiana, quando fiorisce una «pompa carnevalesca di esistenza appassionata, che respira, si muove, agisce, soffre e ride»: quest´uomo non ha la forza di imitare Shakespeare, ma contempla la sua poesia, scrivendo una stupenda prosa barocca, grondante della sapienza letteraria di ogni tempo. Col secolo successivo, miracolosamente egli si alleggerisce: conversa con le dame; compone un racconto secco, leggero, avventuroso come quelli di Voltaire (La monaca militare spagnola). Diventa romantico: amico o nemico fraterno di Coleridge e di Wordsworth: studia la metafisica tedesca: scrive un racconto di Kleist (Il vendicatore); intona la più morbida e solenne delle musiche dell´anima. Muore - ma la sua morte anticipa i tempi. Le sue figure del cuore, le sue folgorazioni liriche sono già quelle di Baudelaire: la sua Londra è quella di Dickens - e il paese del delitto, dove avanza con passo allucinato e implacabile, è quello di Dostoevskij.
Questo scrittore che attraversa i secoli ama il mistero. Ama tutto ciò che sta dietro i pesanti tendaggi del segreto. «Rimanere nascosto nella folla è sublime; passare di generazione in generazione, ignorato dalla moltitudine, è doppiamente sublime». In un saggio bellissimo, dichiara la sua passione per Le società segrete: per quegli uomini, legati da un amore fraterno e da una perfetta fiducia, che s´incontrano nel cuore della notte in sale nascoste per progettare «una lampada solitaria di verità» - verità metafisica, eterna, sempre eguale attraverso i tempi, che ferma il transitorio e vince il Tempo, «questo sinistro seminatore di confusione». L´opera di De Quincey non è diversa. Come una intera società segreta, eredita verità antiche di secoli e le fa conoscere ai figli del futuro, in modo che la catena aurea non venga mai interrotta. Assomiglia a un labirinto. Chi potrebbe dire di conoscerla veramente? Ci inoltriamo nelle sue strade, in migliaia di vie laterali, negli infiniti frammenti in cui il grande libro è esploso: incontriamo alberi, laghi, rocce, località sempre nuove; e via via che procediamo, affascinati dalle meraviglie del mistero, non riusciamo a raggiungere il cuore del labirinto, e ci convinciamo che l´ultima parola su questo scrittore-universo non verrà mai detta.
Su questo mistero grava il più strano dei paradossi. Thomas De Quincey non è uno scrittore che celi i suoi testi, come un Esseno o un Rosacrociano, in pochi codici o volumi, che pochissimi adepti possono leggere. Scrive per tutta la vita sui giornali e le riviste del tempo: obbedisce alle richieste del direttore e del redattore-capo: suddivide le sue opere in puntate o in schegge talora pubblicate a distanza di anni; e così il segreto, che egli vorrebbe conservare, viene gridato sui tetti, spalancato alle folle. Forse c´è, in De Quincey, una vena di mistificatore, che si prende gioco delle cose più care: o di traditore, che vende al pubblico la «lampada solitaria della verità». Lui, che scrisse un saggio in difesa di Giuda, ha un lato di Giuda. Come quella di Poe, la sua opera è divorata dai nervi, dalla fretta, dalla precipitazione, dall´ansia. Con lui comincia la tragedia della letteratura moderna, da Poe a Balzac a Baudelaire a Dostoevskij, legata alle prime forme della comunicazione di massa.
Thomas De Quincey sa benissimo che questa condanna è il suo privilegio. Il giornalismo gli impone un dono tremendo: la fretta. E la fretta dà una specie di felicità alla sua ispirazione: immagini sorprendenti, raccourcis geniali, rapidissime folgorazioni. Soprattutto la fretta e l´improvvisazione fanno «penetrare nella coscienza delle energie creatrici, che altrimenti sarebbero rimaste nel sonno per una vita intera». Con ciò il giornalismo rivela la sua funzione provvidenziale. Tutta l´ininterrotta esplorazione dell´ombra, la disperata interrogazione dell´inconscio, che la letteratura moderna comincia a intraprendere negli anni di De Quincey, non sarebbe forse venuta alla luce se il giornalismo non avesse imposto questa improvvisa accelerazione del processo creativo.
***
Non sappiamo quando Charles Baudelaire abbia letto per la prima volta Le Confessioni di un mangiatore d´oppio di Thomas De Quincey, scritte nel 1821. Quando le lesse, se ne innamorò perdutamente. E, nel 1860, pubblicò I paradisi artificiali. Oppio e Hascisc (BUR, ben curato da Nicola Mischitiello, pagg. 216, euro 8): uno dei suoi capolavori. Il libro comprende una traduzione parziale di De Quincey: un riassunto ugualmente parziale; e una parte che appartiene a Baudelaire. Tutto ciò che egli tocca, diventa interamente suo: egli è «l´ape che trae indifferentemente i suoi materiali dalla rosa e dalla fuliggine dei camini»; come se la sua vera vocazione fosse quella di esprimersi attraverso un altro, Poe e De Quincey, diventando ancora più profondamente sé stesso. Qualsiasi cosa traduca o trascriva, vi lascia cadere la sua eloquenza pastosa e liquida, la sua dolcezza vellutata, che placa tutte le nostre inquietudini, o quella acuta leggerezza, che stimola le più ardite invenzioni intellettuali. In quest´opera di trasformazione e di appropriazione, egli è un classico: Virgilio che assorbe Omero. Nella letteratura moderna, nessuno scrittore gli è, per questo aspetto, simile o affine.
Fin dalla giovinezza, Baudelaire praticava le droghe: l´hascisc, l´oppio e quel prodigioso eccitante che è l´alcol, e si interessava alla letteratura sulle droghe. Era un uomo fatto di sensazioni, come un altro è fatto di muscoli e carne. Le droghe gli permettevano di trasformare le sensazioni, raggiungendo qualcosa che non si trova in questo mondo: i loro effetti diventavano più intensi: si intrecciavano, si moltiplicavano e si fondevano; diventavano più aguzzi e penetranti, fino a raggiungere la punta acuminata dell´infinito - l´unica, vera meta dei suoi desideri. Il suono diventava colore, il colore diventava suono; e tutto avveniva in un variegato e vertiginoso spettacolo della mente. «Ci sono giorni - scriveva - in cui l´uomo si sveglia con un genio giovane e vigoroso. Appena le sue palpebre sono liberate dal sonno che le sigillava, il mondo esterno gli si offre con un rilievo possente, una nettezza di contorni, una ricchezza di colori meravigliosa. Ma cosa c´è di più singolare in questa condizione straordinaria dello spirito e dei sensi, che senza esagerazioni posso chiamare paradisiaco, se la paragono alle pesanti tenebre della comune esistenza quotidiana, è che essa non viene creata da nessuna causa visibile e facile da definire». Questo voleva Baudelaire: vivere il giorno paradisiaco.
Giunto in questa condizione, Baudelaire sentiva il fascino dell´acqua: quando le acque correnti, i getti d´acqua, i laghi trasparenti, le cascate armoniose, l´immensità azzurra del mare, rotolavano, dormivano, suonavano, cantavano, in fondo all´abisso del suo spirito. A volte, questa seduzione lo incantava sino al terrore. L´acqua diventava una qualità interna: una fluidità nervosa, nella quale si esprimevano tutti i suoi impulsi. Allora egli raggiungeva la qualità suprema: la liquida femminilità e la liquida androginia. «L´uomo - scriveva Baudelaire a nome proprio e di De Quincey - che, da principio, è stato a lungo immerso nella molle atmosfera della donna, nell´odore delle sue mani, del suo seno, delle sue ginocchia, della sua capigliatura, delle sue vesti morbide e fluttuanti, dolce bagno profumato dai suoi unguenti, vi ha contratto una delicatezza d´epidermide e una distinzione d´accento, una specie di androginia, senza le quali il genio più aspro e virile resta incompleto».
In ogni eccitante e in ogni droga, Baudelaire e De Quincey scoprivano un mondo diverso. L´oppio era il contrario dell´alcol. L´alcol era una fiammata: l´oppio dava calore eguale e costante. L´alcol disordinava le facoltà mentali: l´oppio le ordinava nel modo più squisito, le disciplinava, le armonizzava. L´alcol privava l´uomo del dominio di sé: l´oppio lo aumentava grandemente. L´alcol ottenebrava il giudizio, dando un´eccitazione innaturale ai sentimenti: l´oppio comunicava serenità ed equilibrio a tutte le facoltà, attive e passive. L´alcol conduceva alla stravaganza: l´oppio calmava ciò che era agitato, concentrava ciò che era disperso. L´alcol esaltava le parti umane e animali della nostra natura: l´oppio faceva dominare la nostra parte divina, diffondendo su tutte le cose la luce dell´intelletto. Un bicchiere di laudano faceva diventare simultanee le cose accadute in momenti diversi, liberandoli dalla successione del tempo: un´intera esistenza era rinchiusa in un attimo, un mondo concentrato in un barbaglio accecante. Così l´oppio affidava a De Quincey e a Baudelaire l´unico dono a cui veramente aspirassero: una scintilla d´eternità nel cuore della vita.
Nella cultura delle droghe, vi era un aspetto più terribile: l´esperienza del male, la conoscenza delle tenebra. I veleni, che Baudelaire scoprì specialmente nell´hascisc, gli sembravano non solo uno dei mezzi più sicuri di cui disponga lo Spirito della Tenebra per asservire gli uomini, ma anche una delle sue incarnazioni più perfette. Con tutta la forza della volontà, Baudelaire cercò di rinunciare alle droghe, ma non alla ricchezza di sensazioni che gli procuravano: il fervore e l´illimitatezza delle immagini, i colori e i suoni trasformati, la punta acuminata dell´infinito. Voleva trovare queste sensazioni nel cuore profondo della sua immaginazione e della sua poesia, ricevendo dalla grazia celeste i doni che Satana cercava di offrirgli. Come aveva scritto nell´epilogo delle Fleurs du mal, «Ho estratto la quintessenza di ogni cosa. Tu mi hai dato del fango, e io ne ho fatto dell´oro».

Corriere della Sera 26.6.09
Esplorazioni Il neurobiologo Derek Denton indaga i meccanismi che ci inducono a pensare. E forse ci avvicinano agli animali
Le quattro vie che portano alla coscienza
La visione del mondo, le emozioni, gli stimoli primari, la percezione del proprio corpo
di Edoardo Boncinelli

La «mente» è ciò che il cer­vello fa, affer­ma candida­mente Derek Denton nel suo Le emozioni primordiali. Gli albo­ri della coscienza appena uscito da Bollati Boringhieri. Ci sono persone per le quali tale affermazione suona assurda e inaccettabile e altre, compre­so me, per le quali non fa una grinza ed è, anzi, perfino ovvia. Temo che questi due gruppi di persone non po­tranno mai capirsi. A volere essere pre­cisi la mente è in effetti solo parte di ciò che il cervello fa: quest’ultimo in­fatti respira e metabolizza zuccheri, ma noi non definiamo mente tali atti­vità. Né definiamo mente molte altre funzioni complicatissime del nostro cervello come quelle di seguire con lo sguardo un uccello in volo o di portar­si un cucchiaio alla bocca. Noi chia­miamo mente ciò che di più alto, cioè a noi più gradito, il cervello fa. Un ca­pitolo particolare, e particolarmente gradito, delle estrinsecazioni della mente è poi rappresentato dalla co­scienza, ciò che ci permette (ad esem­pio) di sapere dove siamo in questo momento e di sapere che lo sappia­mo.
Quello della natura, delle proprietà e dell’origine della coscienza è uno de­gli argomenti più affascinanti dello studio degli animali superiori e del­l’uomo, che è stato oggetto di molti li­bri (ma di pochissimi articoli scientifi­ci) negli ultimi venti o trenta anni. Ci si sono misurati filosofi, psicologi e qualche scienziato, ciascuno con una sua visione e una sua proposta. Si trat­ta di definire che cosa è la coscienza, di illustrare come agisce e di quale uti­lità può essere per chi la possiede, di individuarne l’origine evolutiva e ma­gari di indicare quando, approssimati­vamente, è comparsa nel corso del­l’evoluzione degli animali superiori. Qualcuno infatti la considera appan­naggio esclusivo della nostra specie, mentre altri ne vedono una certa con­tinuità nelle specie animali diverse dalla nostra.
Derek Denton, neurobiologo di grande esperienza, studia da sempre i meccanismi fisiologici che sottendo­no la percezione e il soddisfacimento dei bisogni biologici essenziali come la fame, la sete, il sonno, il bisogno d’aria, l’appetito per i diversi sali mine­rali, nonché la percezione del dolore e il desiderio sessuale. Pensa, giusta­mente, che questi bisogni abbiano preceduto di gran lunga la comparsa della coscienza e che, forse, possano dirci qualcosa di molto interessante anche su di essa.
Per quanto riguarda l’origine del fe­nomeno «coscienza» o, per lo meno, del suo primo nucleo costitutivo, la co­siddetta coscienza primaria, c’è chi, come Gerald Edelman, chiama in cau­sa la percezione del mondo esterno e la sua rappresentazione. Su questa ba­se la coscienza primaria sarebbe capa­ce di «creare una scena», cioè una mappa interiore degli eventi, sulla quale poi lavorare per impostare un ra­gionamento o un’azione. C’è invece chi, come Antonio Damasio, chiama più direttamente in causa il mondo emotivo, per quanto ridotto all’essen­ziale, e vede la coscienza primaria co­me un nodo di sensazioni e risonanze emotive sulle quali si può poi costrui­re tutto il resto.
Denton propone un terzo possibile elemento costitutivo della coscienza primaria, l’enterocezione, cioè la per­cezione non degli eventi esterni, ma di quelli interni al nostro corpo, come appunto gli stimoli primari della fame e della sete, che non ci abbandonano mai e che accompagnano come un leitmotiv di fondo tutti gli attimi della nostra vita. Il contatto continuo con questa nostra interiorità «corporea» starebbe quindi alla base dell’emerge­re di una coscienza di sé che dovrebbe poi arricchirsi di tutti gli altri elemen­ti che conosciamo. Il libro ci conduce attraverso i dettagli teorici e sperimen­tali di questa coinvolgente proposta, che ha anche il merito di tracciare un’affascinante linea di continuità fra le diverse specie animali, che sfocereb­be poi nel nostro complesso, intellet­tualizzato e autoconversante modo di vivere la coscienza in ogni frangente della quotidianità.
Personalmente, trovo del buono in ciascuna di queste proposte e penso che la coscienza primaria sia un po’ tutto questo. Con l’aggiunta della pro­priocezione, la percezione che ognu­no di noi ha dello stato di tensione dei muscoli del proprio corpo e che mi permette di rendermi conto di stare in posizione eretta oppure di stare se­duto, comodo o scomodo, oppure sdraiato o in bicicletta o in macchina, in procinto di compiere questa o quel­la azione.
La coscienza è quindi il modo nel quale la percezione del mondo ester­no, ma anche delle condizioni mo­mentanee del mio proprio corpo, di­viene una cosa «mia», interiore, omo­genea a tutto ciò che già vi si trova, e «utilizzabile». Per cosa? Per poter «agire», materialmente, mentalmente o anche solo attraverso un’espressio­ne verbale. Può darsi che tutta la ma­gia del fenomeno coscienza si risolva nel portare alla ribalta del mio Io certi contenuti della percezione che siano «pronti per l’azione» o addirittura già azione: cose che stanno a mezza via fra la constatazione e la progettazio­ne, come dire «il progetto».

il Riformista 26.6.09
Bcc Persia. Il canale in farsi dell'emittente britannica è temutissimo dal regime. Sina Motalebi, il suo più ascoltato editorialista, ci spiega perché.
Perfida Albione. Rabbia ultrà contro l’ambasciata britannica in Iran
di F.D.L.

Londra. Bbc Persia fornisce informazione televisiva satellitare a tutta l'area geografica in cui si parla il farsi. Cento milioni di pubblico potenziale. E tra questi, il popolo dell'Onda verde che la segue sfidando i divieti del Regime. La sua influenza è cresciuta in modo smisurato durante i giorni delle elezioni presidenziali iraniane. Negli studi di Londra, abbiamo incontrato Sina Motalebi, principale editorialista ed analista del canale persiano della BBC.
In Iran la comunicazione è al momento imbavagliata, che difficoltà state incontrando in queste ore?Difficoltà ne abbiamo avute sin dall'inizio perchè ci hanno vietato di fare informazione sul territorio. Ci appoggiavamo a giornalisti locali che negli ultimi giorni sono stati minacciati e hanno dovuto interromprere la collaborazione con noi. Siamo riusciti a rimediare con una marea di contributi interattivi arrivati da gente comune iraniana.
Che idea si è fatta di queste elezioni. Si è trattato di un vero colpo di Stato?
Alcune stranezze hanno certamente insospettito l'opposizione. Penso per esempio al brevissimo tempo intercorso tra la chiusura dei seggi e lo scrutinio dei primi cinque milioni di schede. Alla proporzione del divario, tra i due candidati principali, rimasto assolutamente uguale durante tutte le operazioni di spoglio o all'assenza dei supervisori dell'opposizione in alcuni dei momenti cruciali del conteggio dei voti. L'arresto di tanti membri dell'opposizione e la dura reazione alle rimostranze della gente in piazza, non hanno poi senz'altro aiutato a mettere da parte questi sospetti.
Rafsanjani sarebbe a Qom per cercare di coinvolgere i grandi ayatollah nella destituzione della Guida Suprema. È credibile?
La lettera scritta da Rafsanjani prima delle elezioni alla Guida Suprema è stato uno degli attacchi politici più diretti, mai fatti, nei confronti del Leader. Il suo silenzio, dopo le elezioni, ha fatto aumentare i rumors sulla sua posizione, ma non sarà così semplice liberarsi di Khamemei. Anche se riuscisse ad ottenere il consenso del Consiglio degli Esperti, ci sarebbero altre basi di potere che dovrebbero essere d'accordo su questo, per esempio i Pasdaran. La cosa triste è che il prezzo di queste rivalità al vertice, lo paga la gente nelle strade e ritengo, per questo, che mezzi come Bbc Persia siano utili ad aiutare la gente a coalizzarsi e a scambiarsi informazioni.
Ahmadinejad è diretta espressione di Khamenei o è la Guida ad essere scotto scacco di Ahmadinejad e della sua forza militare?
Khamenei nella preghiera di venerdì scorso ha fatto comprendere quanto sia forte e chiaro il suo appoggio ad Ahmadinejad. Credo che nel complesso l'apparato militare sia fedele alla Guida Suprema più che a uno dei politici. Ahmadinejad è visto da Khamenei come candidato ideale per eseguire la sua volontà politica. Il Paese è comunque quanto mai diviso al suo interno. Non parlo solo della società civile, ma anche del corpo delle Guardie della Rivoluzione. Ci sono voci su divisioni all'interno dei Pasdaran, che sarebbero sempre più rilevanti con il passare dei giorni.
Che idea si è fatta dell'Onda verde?
Per la prima volta in trent'anni, un movimento di piazza ha riunito persone di diversa estrazione sociale, economica, culturale e religiosa. È composto da giovani moderni e da pezzi tradizionali di società. In queste manifestazioni non si rivendicano solo le libertà individuali, ma la democrazia e la possibilità di esprimere la propria volontà. È cominciato con un movimento di supporto a Mousavi, ma quando il regime ha spezzato i contatti tra la leadership e la gente, l'onda verde è rimasta senza guida. Anche se conservatori e democratici dovessero accordarsi, sarà difficile riuscire a controllare a il movimento. E un movimento senza leader può costituire un grave problema per il regime.
Quanto resisterà il movimento?
Non posso dirlo. So solo che qualsiasi cosa succeda, l'Iran non tornerà come prima. C'è stata una frattura fondamentale tra i politici, i religiosi e la gente. Queste spaccature rimarranno, muteranno d'intensità, ma non spariranno più. Non esiste possibilità di riparare queste divisioni, se non dando alla gente possibilità di esprimersi.

il Riformista 26.6.09
La stampa straniera aspetta Berlusconi al varco
La trappola del G8
Avviso del Financial Times «Si prepara la successione»
di Fabrizio d'Esposito

Voci di dentro. Fonti interne a Palazzo Chigi rilanciano l'ipotesi del «governo dei migliori». E i timori di un atto formale dei giudici in pieno G8, come nel '94. La caccia alla gola profonda.

Il Patriziagate mette a segno un altro colpo politico da novanta. Per la prima volta, infatti, le serie indiscrezioni sulla «fuoriuscita dal berlusconismo» - iniziate a trapelare sotto le insegne del Noemigate - approdano a livello internazionale.
A parlare con il Financial Times, autorevole quotidiano britannico, sono «alte fonti governative» che traducono in lingua inglese ciò che sta agitando la maggioranza da alcune settimane: un premier azzoppato che deve rinunciare ai suoi sogni di gloria per il Quirinale; un primo ministro di fatto che risponde al nome di Gianni Letta; il riposizionamento di alcuni esponenti chiave dell'esecutivo.
E ancora: la sensazione che la legislatura non arrivi alla scadenza naturale del 2013; l'immagine dell'Italia appannata e indebolita dagli scandali sessuali del Cavaliere. Per non parlare delle «pressioni della Chiesa» e del deludente risultato personale di Silvio Berlusconi alle europee.
Insomma, sono tutti gli ingredienti che la "Ditta", quell'intreccio trasversale di interessi e entità che vorrebbe un «governo dei migliori» - e chiamata così da una fonte interpellata dal Riformista a metà giugno - sta cucinando sin da quando il premier partecipò alla festa di Noemi Letizia a Casoria. Già il Cavaliere ha reagito una volta, denunciando «un piano eversivo contro di lui» per sostituirlo «con una persona non eletta». E di qui anche la decisione di ricorrere all'arma estrema delle elezioni anticipate da contrapporre a un governo di salvezza nazionale. Ma adesso il tormentone è ricominciato. Anche perché berlusconiani e teorici dei «migliori» a Palazzo Chigi sono accomunati dallo stesso timore, sempre più crescente. Una preoccupazione contenuta nella pagina che ieri il Financial Times ha dedicato «agli alleati di Berlusconi» che «pensano a un futuro senza di lui»: la ripetizione dello stesso scenario del 1994, quando al premier fu recapitato a mezzo stampa, anticipato dal Corriere della Sera, un avviso di garanzia per concorso in corruzione ai danni della Guardia di Finanza. Accadde a Napoli, durante una conferenza mondiale sulla criminalità. Di lì a poco ci fu il ribaltone.
In questi giorni la paura è che, come segnalano le «alte fonti» di Ft, alla vigilia del G8 dell'Aquila la procura di Bari formalizzi l'ingresso del premier nell'inchiesta sulle escort procurate dal manager Tarantini. In pratica, un altro avviso di garanzia che potrebbe scaturire dalle intercettazioni tra i due, Tarantini e Berlusconi. E stavolta il reato ipotizzato lascerebbe un segno devastante sulla tenuta del presidente del Consiglio: induzione alla prostituzione. In merito, le scuole di pensiero sono due. Ammettendo che il coinvolgimento del Cavaliere ci fosse, qualcuno sostiene che avverrà dopo il vertice internazionale dell'Aquila, altri prima.
Nelle stesse ore in cui il corrispondente del quotidiano britannico, Guy Dinmore, preparava il suo lungo servizio sulla successione a Berlusconi, sono state registrate varie scosse interne alla maggioranza, sempre più in subbuglio. Innanzitutto, all'assemblea della Confcommercio dell'altro giorno, e disertata dal premier (che ormai ha deciso solo di fare comparsate improvvise a piccoli eventi come quello di ieri in Abruzzo), c'è stata la pubblica esibizione di Letta e Tremonti, i due presunti pilastri del progetto per fuoriuscire da qui alle regionali dal berlusconismo. La settimana scorsa, a Palazzo Chigi, c'è stato invece un curioso colloquio tra lo stesso Letta e l'ex capo del Sismi Pollari. Perché?
Ma torniamo a Tremonti, indicato dall'Ft come «titolare di legami stretti con la Lega». Ieri, nei palazzi romani, si ricordava il pessimo rapporto tra il ministro dell'Economia e il quotidiano britannico. Ergo, chi sono le «alte fonti» ascoltate? Il riferimento alle «pressioni della Chiesa» conduce all'altro pilastro interno del Pdl su cui poggiare «il governo dei migliori».
Dentro il Pdl, però, ciò che sta facendo interrogare molti - dopo i dubbi e i sospetti sorti sui servizi segreti sulla sicurezza del premier - è il ruolo della Guardia di Finanza. A Bari sono infatti le fiamme gialle il perno vero delle indagini su escort, cocaina e appalti sanitari. Non a caso il pm che indaga si è rinchiuso in una caserma della GdF, disertando il palazzo di Giustizia. Così qualcuno non ha potuto fare a meno di notare che «in un casino del genere», martedì scorso a Roma, il ministro Tremonti ha svolto un lungo intervento alla festa per i 235 anni della fondazione della Guardia di Finanza. E ieri, con due giorni di ritardo, il Sole 24 Ore ha pure pubblicato uno stralcio dell'intervento nella pagina dei commenti. Titolo: «Più regole globali per la ripresa». Ma questa è solo una delle tante coincidenze che si stanno verificando. La "Ditta" ha ripreso il suo progetto.

giovedì 25 giugno 2009

l’Unità 25.6.09
La stampa straniera: «Passato il limite della decenza»
Dal «New York Times» all’«Independent», l’inchiesta di Bari e i suoi strascichi tengono banco sui media di tutto il mondo: «Il presidente del Consiglio nuoce al prestigio del paese»»
di C.Z.


La stampa estera non molla la presa su Berlusconi. Anche ieri i maggiori quotidiani del mondo si sono occupati nelle loro edizioni cartacee e online dell’inchiesta di Bari e dei suoi strascichi. Senza risparmiare, anche stavolta, dure critiche. A tenere banco è soprattutto l'intervista del premier al settimanale Chi, in cui attacca una delle teste dell'inchiesta pugliese, Patrizia D'Addario.
New York Times Il caso Berlusconi arriva anche Oltreoceano. Il New York Times in un articolo intitolato «Berlusconi si difende mentre scema la tolleranza dell’Italia per i suoi peccatucci», riporta l'intervista del premier rilasciata al settimanale Chi. Il quotidiano nota anche che Berlusconi ha vinto le elezioni, ma con un margine più basso delle aspettative. La sua residenza romana ha acquisito un’immagine da «Playboy Mansion».
The Times In una corrispondenza da Roma, dal titolo «Berlusconi nega di aver pagato per fare sesso in casa sua», si riporta l'intervista del premier citando anche il duro attacco di don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, che nella rubrica delle lettere del giornale scrive: «Berlusconi ha passato il limite della decenza».
The Independent punta ai risultati delle ultime elezioni amministrative, notando che «al di fuori dei confini dell'Italia sarebbe inconcepibile che un leader si comporti come un Imperatore di Roma antica senza pagare gravi conseguenze politiche».
La Vanguardia Il quotidiano catalano in un editoriale intitolato «Il prestigio dell'Italia», scrive che «Silvio Berlusconi ha un problema, un grosso problema: la sua vita privata sta cominciando a nuocere al prestigio dell'Italia nel mondo». Secondo il giornale di Barcellona, «l'Italia, un paese per il quale sentiamo grande rispetto e apprezzamento, merita un potere serio».
Le Monde Il giornale francese si sofferma sulle elezioni dello scorso weekend, e titola «Risultati in chiaroscuro per Silvio Berlusconi nelle elezioni locali», domandandosi quale peso abbiano avuto nell'esito politico le rivelazioni sulla vita privata del premier.
Sueddeutsche Zeitung Il quotidiano tedesco in un articolo interno, dà «Un consiglio a Berlusconi»: «basta con il privato, si concentri sul governo».

l’Unità 25.6.09
Dieci quesiti sul premier «privato»
Un comportamento che rende ricattabili mina la sicurezza, scardina le regole etiche e che ci ridicolizza, non riguarda tutti noi?
di Nando Dalla Chiesa


Gossip da Novella 2000 o affare di Stato? Credere al Tg1 o alla stampa di tutto il mondo? In proposito avrei anch’io, come si usa, dieci interrogativi da proporre.
Primo. A quanto pare il premier trascorre parte ragguardevole del suo tempo coltivando un universo di giovani donne. Pensando a invitarle, a intrattenerle, a inseguirle per telefono, a disegnare e acquistare regali per loro, a raccomandarle. Avere un capo del governo che si dedica a questo invece di lavorare per il paese, e che anzi per loro diserta appuntamenti ufficiali in cui è già stato annunciato, è un fatto privato o un fatto pubblico?
Secondo. Il capo del governo ha trasformato una sede privata (palazzo Grazioli) nella nuova vera sede della presidenza del Consiglio. Alla luce di quello che abbiamo saputo, su questa scelta ha senz’altro giocato un ruolo importante la possibilità di sbarazzarsi degli accertamenti troppo rigorosi di Palazzo Chigi sugli ospiti in entrata e in uscita. Il fatto che la sede del governo cambi per meglio consentire il viavai incontrollato di una folta corte pittoresca e border-line è un fatto privato o un fatto pubblico?
Terzo. Le molte giovani donne che hanno rapporti di amicizia, di tenerezza e di complicità con il capo del governo vengono ricompensate e talora risarcite con incarichi di rilievo nella politica, con candidature a ogni livello, dalle Europee alle Circoscrizionali, con posti nella pubblica amministrazione o enti vari. Il fatto che si sia affermato questo criterio di scelta per reclutare la classe dirigente è un fatto privato o un fatto pubblico?
Quarto. La normativa sulle intercettazioni telefoniche approvata dal Senato ha preso il via dalla pubblicazione di registrazioni che riguardavano le relazioni e i problemi del capo del governo con alcune giovani signore dello spettacolo, e dunque dalla preoccupazione del capo del governo di tutelare questa sua sfera di intimità. Vivere in un paese che per queste ragioni viene costretto ad abbassare la guardia contro la criminalità è un fatto privato o un fatto pubblico?
Quinto. Il capo del governo è visibilmente sotto ricatto. Chi ha fotografato, chi ha filmato, chi ha visto, chi ha sentito. Un numero sterminato di persone che deve essere zittito o acquietato (anche con posti e carriere). Ma può permettersi un paese di essere governato di chi è nella condizione di subire ricatti senza fine? Ed è questo è un fatto privato o un fatto pubblico?
Sesto. Da quel che ci è stato raccontato, donne sconosciute possono entrare nella dimora del presidente del Consiglio, fare foto e registrare. C’è una questione di vulnerabilità del governo. Chi evoca complotti ogni giorno non faticherà a capire che, una volta scoperta l’infallibile via d’ingresso, anche una potenza straniera ostile potrebbe avere accesso a informazioni privilegiate. È questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Settimo. Imprenditori arricchiti in pochi anni sono in grado di stringere rapporti preferenziali con il capo di governo facendo «bella figura» con lui grazie alla raccolta e consegna a domicilio di donne giovani e piacenti a pagamento. Che effetti ha sul sistema degli appalti, sulle cordate in affari, sulle concessioni, un rapporto preferenziale di questo tipo? Ed è questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Ottavo. Una ragazza senz’arte né parte, invitata a cena dal capo del governo, reclama di essere pagata perché «non lo faccio mica per la gloria». In qualunque paese un invito a cena dal capo del governo è motivo di orgoglio. Qui no, non più. Come se Cenerentola chiedesse di essere pagata dal Principe. Ma se il prestigio della carica cade tanto in basso, anche a causa dei comportamenti del capo del governo medesimo, è questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Nono. I giornali di tutto il mondo scrivono ciò che le nostre tv tacciono. Il nostro governo è lo zimbello dell’Occidente. È questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Decimo e ultimo interrogativo. Siccome la centralità politico-culturale dell’harem si è sviluppata di pari passo con lo svuotamento del Parlamento e l’imbavagliamento dell’informazione, si assiste a un surreale scivolamento istituzionale: dalla repubblica parlamentare verso il sultanato. È questo un fatto privato o un fatto pubblico?
P.S. Le stesse ossessioni del capo del governo segnalano qualche sua difficoltà ad essere, come dicevano i latini, «compos sui» (Veronica: mio marito non sta bene). L’equilibrio psichico di un capo di governo è un fatto privato o un fatto pubblico?

l’Unità 25.6.09
Il maschilismo del premier
Care first lady disertate il G8 di Berlusconi
di Angelica Mucchi Faina


In un articolo che scrissi per l’Unità nel 2004 mi lamentavo per l’uso di uno sgangherato linguaggio sessista da parte dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi e dei suoi “uomini” (la presenza di donne, ora come allora, era considerata irrilevante). Forse ricorderete le battutacce sul Primo Ministro finlandese, una donna, che Berlusconi disse di voler benevolmente corteggiare allo scopo di trarne vantaggi economici per il nostro Paese.
Non immaginavo, allora, che cinque anni dopo mi sarei trovata a promuovere, insieme ad altre due psicologhe sociali che insegnano all’università, un appello alle First Lady dei Paesi del G8 perché disertino l’appuntamento italiano. Quest’atto vuole essere una provocazione e dimostrare con forza che noi donne italiane siamo state molto (forse troppo) pazienti e fino ad oggi abbastanza (forse troppo) silenziose, ma che adesso non ne possiamo davvero più. Ora si tratta di fatti, non più solo di parole, e veramente i comportamenti che Berlusconi e la sua degna compagine ci indignano profondamente come donne, come docenti, come italiane. Si è passato ogni limite, la situazione è scaduta sempre più e con effetti devastanti. E non mi riferisco solo all’immagine dell’Italia che questa delegittimazione costante e sistematica delle donne trasmette all’estero (basta un’occhiata ai più importanti quotidiani europei per rendersene conto), né solo ai criteri da Tv show con i quali sono state selezionate le candidate alle scorse elezioni. Mi riferisco alle ricadute che questi comportamenti possono produrre sulle nuove generazioni, le quali crescono assistendo ad un simile spettacolo di arroganza del potere e di sopraffazione maschile. Ecco i modelli che sono proposti ai giovani dell’era Berlusconi: prepotenza e maschilismo ai ragazzi, disponibilità, ammiccamenti e intrighi alle ragazze. E noi psicologhe sappiamo bene quale deleterio impatto possano avere gli esempi negativi, soprattutto se circondati da un’aura di celebrità.
Abbiamo così raccolto, in maniera del tutto informale e in pochissimi giorni, più di cinquecento firme, duecento adesioni di docenti e ricercatrici universitarie a cui si sono subito aggiunti donne e uomini esterni all’università. Altre continuano ad arrivare al sito http://www.firmiamo.it/appellofirstladies. Invitiamo chiunque condivida le nostre idee, donna o uomo che sia, a visitare il sito per leggere l’appello e per firmare.
Infine, come reagiranno le First Lady? Siamo abbastanza sicure che in cuor loro appoggeranno la nostra protesta, ma sappiamo anche che protocolli e ufficialità renderanno problematico per loro prendere una posizione drastica come quella che chiediamo. Ma chissà mai che qualche parola di appoggio e solidarietà, anche velata, compaia in qualche intervista o discorso ufficiale.

l’Unità 25.6.09
Riparte alla Camera il testo sul fine vita
Sacconi: «È urgente»
di SU.TU.


Et voilà, tra un Bari-gate e l’ennesima foto de La Certosa, rispunta alla Camera il disegno di legge sul biotestamento. Ne ha riparlato ieri, d’improvviso, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, dicendo a L’Avvenire che si tratta di una «urgenza per il governo». Alcuni dicono si tratti di un modo per tornare all’«agenda di governo», altri di uno stratagemma per fare qualcosa di «gradito alla Chiesa». In ogni caso la tempistica è sospetta, e l’«urgenza» ancor di di più. Perché proprio dopo il caso Englaro e il sì del Senato, la maggioranza aveva ritenuto più opportuno accantonare un testo considerato eccessivamente restrittivo persino da una discreta fetta dei deputati di maggioranza.
Liberali, socialisti e finiani, infatti, si erano più o meno velatamente detti contrari alla parte più controversa del testo, quella che impedisce di rifiutare alimentazione e idratazione artificiali. Alcuni di loro avevano anche abbozzato delle modifiche. A breve, dunque, il fronte del no potrebbe tornare a farsi sentire. E così per la maggioranza, risolto un problema, se ne aprirà un altro.

l’Unità 25.6.09
La materia oscura dell’Universo nelle mani di una donna
Conversando con Lucia Votano, Direttrice dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso
di Cristiana Pulcinelli


A partire da settembre andrà a dirigere i laboratori di fisica del Gran Sasso. È la prima donna chiamata dal consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) a svolgere questo compito e ne è orgogliosa. Lucia Votano, 61 anni, dedica la sua nomina a suo figlio e alla memoria del marito che è morto pochi anni fa: «Mio figlio ha avuto la forza di accettare una madre che non era sempre presente. Mio marito mi ha dato la sua piena collaborazione senza la quale non ce l’avrei mai fatta».
È preoccupata?
«Diciamo che sento il peso della responsabilità: vado a dirigere dei laboratori unici al mondo».
Ci può spiegare che cosa sono i laboratori del Gran Sasso?
«Sono laboratori sotterranei dedicati ad un campo particolare della fisica: la fisica astroparticellare che è nata dall’incontro tra la fisica delle particelle, l’astrofisica e la cosmologia. È un campo che si è molto sviluppato negli ultimi decenni. Noi osserviamo fenomeni rari, ad esempio la cattura dei neutrini da un collasso stellare. Per fare questo abbiamo bisogno di un luogo protetto, cioè schermato dai raggi cosmici, le particelle che provengono dallo spazio e che colpiscono la Terra da ogni direzione. La montagna che sovrasta i laboratori scherma quasi totalmente questi raggi permettendo così di eliminare il disturbo di fondo. In questo modo possiamo osservare gli eventi e catturare le particelle che ci interessano».
Ci conferma che quelli del Gran Sasso sono i laboratori di questo genere più grandi del mondo?
«Sono i più grandi, ma anche i più attrezzati e i più facili da raggiungere. Generalmente si utilizzano le vecchie miniere per costruire laboratori di questo genere, ma l’accesso alla miniera è problematico. La struttura del Gran Sasso invece è al livello dell’autostrada: vi si accede dal tunnel che porta da Teramo a L’Aquila. Non è un vantaggio solo per il personale che vi lavora, ma anche per gli esperimenti: apparati in qualche caso anche da migliaia di tonnellate. È vero che vengono assemblati all’interno del laboratorio, ma anche i singoli pezzi che li compongono sono grandi e pesanti: invece di dover essere calati attraverso ascensori, qui vengono semplicemente portati all’interno a bordo dei camion. Una bella semplificazione. Tutto questo, accanto all’altissimo livello degli esperimenti, ha fatto sì che nei nostri laboratori vengano persone da tutto il mondo: tutti gli esperimenti sono collaborazioni internazionali».
Di che esperimenti si tratta?
«I filoni principali sono lo studio dei neutrini solari, la materia oscura e l’indagine sulla natura e la massa del neutrino anche attraverso lo studio del fascio di neutrini creati al Cern di Ginevra e indirizzati al Gran Sasso. Si tratta di esperimenti che cercano di rispondere ad alcune domande fondamentali della fisica: di che cosa è fatta la materia oscura? Qual è la natura del neutrino? Cosa sappiamo dell’interno del Sole? Cosa accade quando scoppia una supernova?»
Perché parlare di neutrini e di supernova è importante?
«Il neutrino è una delle particelle fondamentali che intervengono nei processi di interazione della materia in tutto l’Universo. Saperne di più vorrebbe dire conoscere meglio la struttura intima della materia».
E la materia oscura?
«Non possiamo vederla e non sappiamo di cosa sia fatta, ma costituisce il 90% della massa della nostra galassia. È difficile pensarlo, ma la materia così come la conosciamo è solo una piccola percentuale, circa il 5%, di quella contenuta nell’intero Universo. Di tutto il resto sappiamo che esiste perché ne vediamo gli effetti in maniera indiretta, ma non sappiamo esattamente cosa sia. Recentemente sono state ipotizzate particelle particolari, chiamate Wimp (Weakly Interacting Massive Particle), di cui potrebbe essere fatta la materia oscura. Gli esperimenti che si svolgono al Gran Sasso potrebbero dirci qualcosa di più».
Come è arrivata a questo incarico?
«Mi sono laureata in fisica nel 1971 alla Sapienza di Roma, poi, dopo alcune borse di studio, sono diventata dipendente dell’Infn. Prima ho lavorato a Frascati, poi qui al Gran Sasso, ma nel frattempo ho fatto esperimenti in vari posti del mondo».
Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a studiare fisica?
«Devo tutto a un professore non molto bravo. Facevo il liceo classico e, quando arrivai all’ultimo anno, mi accorsi di avere una preparazione in matematica e fisica insufficiente per affrontare la maturità. Così decisi di prendere lezioni private. Da quel momento mi si è aperto un mondo. Ho capito quanto un bravo insegnante possa influenzare profondamente le scelte di una persona».
Lei sarà la prima donna a dirigere un laboratorio dell’Infn. Come mai?
«Ci sono state e ci sono altre donne direttrici di sezioni Infn, ma mai nessuna a capo di un laboratorio. È quindi un ulteriore passo in avanti per l’Infn. Accade da noi quello che accade anche in altri settori: le ricercatrici al primo livello sono un discreto numero, ma quando si sale nella carriera, il numero diminuisce. Però voglio anche vedere il lato positivo delle cose: se stavolta è stata nominata una donna vuol dire che la situazione sta diventando più favorevole».
Ci può descrivere com’è la situazione finanziaria?
«L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sta soffrendo già da diversi anni, benché abbia una buona fama internazionale da spendere. Il fatto è che i finanziamenti non possono rimanere costanti o addirittura diminuire, se si vuole mantenere il passo bisogna investire. La questione più preoccupante è il reclutamento di giovani: se il flusso non è continuo e programmato anche quando i blocchi o le strozzature dovessero finire, ci troveremmo senza persone di talento perché non le abbiamo allevate».
Perché un paese dovrebbe finanziare queste ricerche?
«Noi facciamo ricerca fondamentale o di base, ma senza questo tipo di ricerca qualunque altra ricerca applicativa si inaridisce. Qualsiasi tecnologia osserviamo oggi, dall’elettricità ai satelliti, dai Gps ai telefonini, non è altro che il sottoprodotto della ricerca di base».
E un giovane perché dovrebbe scegliere questa strada?
«Perché, pur tra mille difficoltà e rinunce, potrebbe capitargli di andare a lavorare con piacere».

Repubblica 25.6.09
L’invisibile dentro la materia
di Nicola Cabibbo


I passi della fisica dalla lezione di Colombo, alle esplorazioni di Galileo sulla ricerca del "troppo piccolo per essere visto", fino alla meccanica dei quanti
Le tecniche sperimentate nei laboratori di Frascati e quelle future di Ginevra
Le nuove infinite possibilità offerte nello studio delle particelle elementari
Il testo che pubblichiamo verrà letto stasera da al Festival della Milanesiana.

«Ci sono più cose nei cieli e nella terra, Horatio, di quanto sogni la tua filosofia».
Con Amleto, rappresentato tra il 1599 e il 1600, siamo alla soglia della transizione dal mondo della filosofia a quello della scienza. I segnali sono nell´aria, dalla nuova astronomia di Copernico e di Tycho Brahe alla filosofia di Giordano Bruno. Per guardare in faccia l´invisibile bisognava però seguire la lezione di Cristoforo Colombo: muoversi, andare a cercare, sporcarsi le mani, passare dal pensiero all´azione.
Spetta a Galileo fare il primo passo. Galileo aveva seguito la lezione di Colombo, si era sporcato le mani per perfezionare le lenti del suo telescopio. Con la scoperta dei satelliti di Giove - le Stelle Medicee - delle montagne sulla luna, di una miriade di stelle mai viste prima, delle fasi di Venere e delle macchie solari, si era lanciato nella conquista dell´invisibile.
Il telescopio di Galileo apre l´esplorazione del "grande ma troppo lontano", e pochi anni dopo, nel 1624, lo stesso Galilei inaugura la ricerca del "troppo piccolo per essere visto" con un nuovo strumento, il microscopio, che affida ai naturalisti della Accademia dei Lincei.
Dobbiamo ricordare un´altra invenzione della scuola di Galilei, il barometro di Torricelli. Al di sopra della colonnina di mercurio si forma il vuoto, e nasce così una tecnologia essenziale per i moderni acceleratori, strumento di elezione per lo studio dei nuclei e dei loro componenti elementari, ma che hanno tante applicazioni nell´industria e nella medicina. Il telescopio e il microscopio acuiscono la vista, ma la rivoluzione si compie combinando questi strumenti con un´idea più antica: sostituire alla visione diretta quella mediata da una immagine, sia essa una pittura, una scultura, o una fotografia. Si apre così una infinità di nuove possibilità, fino ai metodi di visualizzazione usati nello studio delle particelle elementari. L´immagine può essere prodotta dalla luce visibile, ma anche da radiazione di lunghezza d´onda minore - raggi ultravioletti, raggi X, raggi gamma - o di lunghezza d´onda maggiore - gli infrarossi o addirittura le onde radio, in un radar o in un radiotelescopio. E ancora possiamo usare onde sonore, nell´ecografia, o fasci di elettroni, nel microscopio elettronico.
Una semplice spruzzata di limatura di ferro permette di visualizzare le linee di forza di un campo magnetico. Qualsiasi cosa che possa essere misurata - la pressione o l´umidità dell´atmosfera, le quotazioni della borsa, la febbre di un malato - può trasformarsi in immagine, e dato che un´immagine vale più di tante parole, la visualizzazione di dati scientifici si sta affermando come una disciplina a sé, dovunque in rapido sviluppo.
La lunghezza d´onda della radiazione determina i limiti alle dimensioni degli oggetti che si possono vedere. Se la distanza tra due dettagli in un oggetto è molto minore di una lunghezza d´onda, essi rifletteranno la luce, o altra radiazione, con la stessa fase e saranno quindi indistinguibili. Con la luce visibile, ad esempio, che si estende dai 0.38 micron (millesimi di millimetro) per il violetto ai 0.75 micron per il rosso, si potranno vedere distintamente batteri, di qualche micron, ma non dei virus che sono tipicamente cento volte più piccoli. Immagini più dettagliate richiedono lunghezze d´onda più piccole. Per superare i limiti della luce visibile bisogna quindi passare alla luce ultravioletta, o ai raggi X, o a fasci di elettroni.
La ricerca del piccolo ci ha rivelato una struttura complessa. Anzitutto gli atomi, i blocchetti del grande Lego della materia. Partendo dagli atomi si formano le molecole, dalle più semplici alle più complesse, come il Dna che codifica la materia vivente, o quelle nanostrutture, assemblaggi di centinaia o migliaia di atomi che sono alla base delle più promettenti tecnologie dei materiali.
Gli atomi sono essi stessi strutture complesse, composti da elettroni che ruotano intorno a un nucleo centrale, diecimila volte più piccolo. I nuclei sono composti da protoni, dotati di una carica elettrica positiva, e neutroni, elettricamente neutri. Il nucleo più semplice, quello dell´idrogeno, contiene un singolo protone. All´estremo opposto i nuclei più pesanti, come quello dell´uranio, che contengono oltre duecento tra protoni e neutroni. A loro volta protoni e neutroni sono composti da quark, particelle che allo stato delle conoscenze sono considerate elementari, cioè non ulteriormente scomponibili.
Con gli atomi, i nuclei e le particelle elementari entriamo nel regno della meccanica quantistica, un mondo strano e diverso, in cui non possiamo guardare un oggetto senza disturbarlo. La radiazione luminosa è composta da quanti, la cui energia è inversamente proporzionale alla lunghezza d´onda: a lunghezza d´onda più piccola corrisponde un´energia più elevata. Ed ecco il problema: per studiare un atomo dobbiamo usare quanti di luce la cui energia è sufficiente a disturbarne la struttura. Nel regno dei quanti l´osservazione modifica necessariamente l´oggetto osservato. Ma c´è di più: tutte le particelle, elettroni inclusi, si comportano come onde. C´è quindi una confusione di ruoli tra l´elettrone che circola in un atomo e il quanto di luce che usiamo per osservarlo. Ambedue sono particelle che si comportano come onde, osservatore ed osservato si confondono.
Guardare una particella significa farla scontrare con altre, siano esse quanti di luce, elettroni, o anche protoni, e registrare le conseguenze dell´interazione. Tanto maggiore l´energia delle particelle, tanto minore sarà la loro lunghezza d´onda, e di conseguenza più piccoli i dettagli che potranno essere rivelati. Per massimizzare l´energia totale delle particelle che si scontrano, la soluzione più efficace è rappresentata dai collisori, macchine in cui si fanno scontrare frontalmente due fasci di particelle di alta energia. Questa tecnica è stata sperimentata per la prima volta nei Laboratori di Frascati dell´INFN all´inizio degli anni Sessanta in una piccola macchina, ADA, realizzata sotto la direzione di Bruno Touschek, e la sua ultima espressione è LHC, il gigantesco collisore di protoni - 27 chilometri di circonferenza - che sta per entrare in funzione al CERN di Ginevra. L´energia dell´urto può trasformarsi in nuove particelle, tra cui molte che per la loro vita effimera non si trovano in natura. Tra le scoperte più sensazionali, i quanti delle interazioni deboli, i bosoni W e Z, e tre nuovi quark, l´ultimo dei quali, il quark t (top) è la più pesante particella sinora nota, quasi duecento volte la massa di un protone.
Lo sviluppo della fisica delle particelle ha offerto il campo a una eccitante gara tra teoria ed esperimento. In molti casi la teoria ha sopravanzato l´esperimento, prevedendo ad esempio le caratteristiche e la massa dei bosoni W e Z. Altre volte l´esperimento ha portato a scoperte inattese, come quella di una asimmetria tra materia ed antimateria. L´insieme dei fatti sinora accertati si inquadra nel cosiddetto Modello Standard, affinato e verificato con grande precisione negli ultimi decenni. Molti indizi mostrano però che il lavoro è ben lungi dall´essere completo. Il Modello Standard è ancora imperfetto, perché non comprende una corretta descrizione quantistica della forza di gravitazione. Un secondo indizio proviene dalla cosmologia: gran parte della materia nell´universo, la cosiddetta materia oscura, è composta da particelle mai osservate nei nostri laboratori. I teorici stanno mettendo a punto le possibili teorie del futuro, prima tra tutte la cosiddetta teoria delle stringhe. Ma solo l´incontro tra teoria ed esperimento, come ha insegnato Galilei, porterà un progresso decisivo, ed è quindi forte l´attesa per quanto il nuovo collisore LHC del CERN potrà rivelare.

Repubblica 25.6.09
40mila anni fa l’uomo scoprì la melodia
Scoperto il flauto dell’uomo di Neanderthal
di Elena Dusi


Uno studio degli archeologi dell´università di Tubinga sui reperti trovati in una grotta nella Germania del Sud Lo strumento, il più antico finora disponibile, fu ricavato dall´osso di un´ala di grifone e era lungo 34 centimetri
Quando l´Europa fu colonizzata nel Paleolitico esisteva già una tradizione musicale

Quattro flauti, la statuina di una donna dalle forme generose, i resti di una cena sontuosa a base di carne. A Hohle Fels, nella Germania del sud, tra i 35 e i 40mila anni fa dev´essersi svolta una serata squisita. Una festa, o più probabilmente un rito legato alla fecondità. Ma sono stati soprattutto i flauti a impressionare gli archeologi dell´università di Tubinga, che la scorsa estate hanno scavato nella grotta 20 chilometri a ovest di Ulm ritrovando i resti di quella cena del paleolitico superiore.
Uno dei quattro flauti, ricavato dall´osso di un´ala di grifone, lungo 22 centimetri (ma prima di spezzarsi arrivava a 34) e con un diametro di 8 millimetri, capace di suonare 5 note (tanti sono i fori sul suo fusto) è lo strumento musicale più antico mai trovato finora. Un oggetto simile, scoperto nel 1995 sempre in Germania tra le montagne del Giura è infatti stato declassato a semplice osso intaccato dai denti di un animale selvatico. Il flauto di Hohle Fels invece è inconfondibile, con la sua imboccatura intagliata a "V" e le scanalature laddove le dita dovevano essere appoggiate.
«Il grifone, con un´apertura alare di due metri e mezzo, aveva ossa perfette» spiegano Nicholas Conard e Susanne Munzel, autori del ritrovamento. A poca distanza, per fugare ogni dubbio, sono stati trovati altri tre esemplari simili (ma ridotti in frammenti più piccoli) scavati nell´avorio delle zanne di mammuth con una procedura che presuppone una grande abilità manuale (bisognava sezionare la zanna in due, scavare un solco lungo le due metà e poi ricongiungerle) e fa presupporre l´esistenza di strumenti musicali ancora più antichi. A 70 centimetri dal flauto più grande nella grotta di Hohle Fels è riemersa anche una statuina di 35mila anni d´età, la più antica rappresentazione scultorea di un corpo femminile. Molti altri resti di flauto, datati intorno a 30mila anni fa, furono trovati in passato nei siti di Francia e Austria, ricavati dalle ossa delle ali di uccelli (fra cui i cigni) privati del midollo al loro interno.
La musica nel Paleolitico doveva essere un piacere diffuso, concludono gli archeologi che oggi raccontano la scoperta su Nature: «Esisteva già una tradizione musicale consolidata nel momento in cui i primi umani iniziavano a colonizzare l´Europa. E la scoperta è ancora più importante se pensiamo che a suono e canto non sono legati un aumento delle chance di sopravvivenza o della capacità riproduttiva. Almeno non in modo diretto».
Ma quali fossero i ritmi dei primi Homo sapiens, se al suono si accompagnasse una danza o particolari riti religiosi, rimane oggetto di speculazione. La mancanza di indizi non ha impedito l´anno scorso al jazzista britannico Simon Thorne di organizzare a Cardiff un concerto intitolato "La musica dei Neanderthal", una specie che ha convissuto per un periodo con i sapiens ma si è estinta intorno ai 30mila anni fa. Thorne si è basato sulla teoria che parte dalla forma delle vertebre del collo di questi primitivi per dedurre che la loro voce doveva essere acuta e ritmata, e i loro "discorsi" non troppo dissimili da una canzone rap.
Anche se la sua ricostruzione della musica della preistoria ha valore più che altro come curiosità, è chiaro che già 35-40mila anni fa in nostri antenati non si accontentavano di mangiare, dormire e riprodursi. I primi barlumi di arte e cultura si stavano affacciando all´orizzonte della specie umana (a quest´epoca risalgono anche i primi monili) e la musica, fra le varie arti, non era seconda a pittura e scultura.

Repubblica 25.6.09
Giorgio Manzi, paleoantropologo: "Fu uno dei segreti del successo"
"Andare oltre la sopravvivenza ecco il segreto dei nostri avi"
di e.d.


Roma. «Non solo cacciatori. Quei precursori dell´homo sapiens avevano già iniziato a riempire il mondo dei loro simboli. Non si accontentavano di sopravvivere, sentivano il bisogno di esprimere il proprio mondo interiore» spiega Giorgio Manzi, paleoantropologo dell´università La Sapienza a Roma.
C´erano già altre forme d´arte all´epoca?
«Rare, inizieranno a diffondersi poco più tardi. Ma spesso nei siti dell´epoca troviamo statue di donne molto procaci che chiamiamo "Veneri preistoriche". Probabilmente simboli di fecondità».
Ha idea di come fosse la musica primitiva?
«La combinazione di flauti e Veneri ci fa immaginare dei riti accompagnati dalla musica e legati alla fertilità. Probabilmente esisteva anche una forma di danza. Ma ricostruire quelle prime melodie non è certo possibile».
In quel momento storico i primi sapiens convivevano con i Neanderthal. Anche questi ultimi amavano la musica?
«No, solo i primi sapiens, che sono i precursori dell´umanità moderna mentre i Neanderthal si sono estinti poco dopo. Non è escluso che questa capacità di andare oltre la mera sopravvivenza, sviluppando arte e socialità, sia stata proprio il segreto del successo dei nostri antenati e la causa della scomparsa dei loro cugini Neanderthal, che pure avevano un cervello di dimensioni simili».

Corriere della Sera 25.6.09
Digitalizzate le 21 mila carte dell’Opera del Duomo. Finora disponibili solo il 7 per cento delle fonti
La vera storia della cupola di Firenze
Brunelleschi «manager» in cantiere. In 20 anni di lavori un solo incidente mortale
di Pierluigi Panza


Il 19 agosto del 1418 fu bandito un concorso a Firenze. Si prometteva­no 200 fiorini d’oro a chi fosse sta­to in grado di «voltare» la cupola della nuova cattedrale di Santa Maria del Fiore, iniziata un secolo prima. Dalla me­tà del Trecento, la corporazione dell’Arte della Lana aveva commissionato numero­si modelli per la cupola, come quelli di Giovanni di Lapo Ghini e di Neri di Fiora­vanti. Ma nessuno era riuscito a realizzar­li, perché prevedevano una campata su­periore a 62 braccia (circa 30 metri). Pip­po, un orologiaio di quarant’anni figlio del notaio ser Brunellesco, presentò un suo modello di macchina di cantiere adatta a costruirla, sfidando il già noto Lorenzo Ghiberti. Ci stava lavorando dal maggio 1417. E Pippo, come Leon Battista Alberti chiamava Filippo Brunelleschi, fu l’uomo che riuscì a «costruire un cielo so­pra Firenze».
Non è che la storia dell’arte ogni volta sia da riscrivere, consegnando al cimite­ro dell’usato Manetti, Vasari, Sanpaolesi, Battisti, Bruschi, o anche il narrativo Ross King. Ma certo l’iniziativa Gli Anni della Cupola, ovvero la digitalizzazione critica dei 21 mila documenti dell’intero archivio dell’Opera di Santa Maria del Fio­re diretta da Margaret Haines (con la col­laborazione di Gabriella Battista, Rolf Ba­gemihl, Patrizia Salvadori, Lucia Sandri; Max Planck Institut, ECHO, Cnr di Pisa, Regione Toscana, fondazioni Getty e Mel­low), che sarà presentata lunedì a Firen­ze dopo 15 anni di lavoro (via della Cano­nica 1, ore 12, www.operaduomo.firen­ze/ cupola), svela particolari sulla figura di Brunelleschi e sul ruolo determinante delle maestranze. E consente di scrivere nuove microstorie sulla Firenze cresciuta intorno al cantiere del Duomo.
Si tratta della digitalizzazione critica e regesto di documenti amministrativi che vanno sotto il nome di «bastardelli di de­liberazioni », registri e quaderni di cassa. Non ci sono disegni. «Sino ad oggi la bi­bliografia sul ventennio di costruzione della cupola, dal 1417 al 1436, è basata so­lo sul 7% dei documenti che erano dispo­nibili agli studiosi», afferma la Haines (Harvard e Villa I Tatti). «Con questo pro­getto gli studiosi potranno reinterpreta­re la storia di quegli anni avendo a dispo­sizione il restante 93% gratuitamente su internet».
I documenti raccontano la storia di protagonisti e comparse dei 7.300 giorni del cantiere del provveditore Brunelle­schi — o come lo si scriveva allora, Bru­nelescho, Brunelesscho, Brunellescho, Brunellesco, Brunellesscho, Brunellezo — che funzionò come una specie «di pri­ma forma di 'management' edilizio», racconta la Haines. «Brunelleschi è il provveditore e a lui va ascritta la cupola. Certo. Ma dai documenti emerge una co­ralità costante nelle scelte del cantiere, merito dell’Opera del Duomo che non so­lo sostenne economicamente la costru­zione, ma fornì una struttura capace di sperimentare in corso d’opera le inven­zioni dell’architetto, specie grazie al so­stegno del capo mastro Battista D’Anto­nio ». Questo che emerge è un quadro sto­rico significativo, poiché testimonia il protrarsi del modello medioevale di can­tiere, come deposito di un sapere qualifi­cato, ma anonimo e collettivo, anche agli albori dell’età dell’«architetto» come ide­atore di un proprio progetto. Stagione che nasce ufficialmente nel 1452 con il «De re aedificatoria» di Alberti.
I documenti digitalizzati permettono varie osservazioni a questo proposito. Si scopre che nei vent’anni di costruzione della cupola ci fu solo un operaio morto e 8 feriti (come per la costruzione della Torre Eiffel e della diga di Assuan). Mor­to di cui l’Opera sostenne il costo dei fu­nerali. I documenti permettono di conta­re e misurare i componenti lapidei della cupola, che provenivano per la maggior parte da falde dalla cava di Trassinaia a Vincigliata, e dalla cava dei Salviati a Fie­sole. Dettagli inediti emergono sulle mae­stranze: massimo 50, ma generalmente dalle 25 alle 30 unità stabili per sedici an­ni di costruzione. Ufficiali pubblici, in turni di 6 per la durata di 4 mesi, control­lavano l’avanzamento dei lavori. In 480 tra notabili e grandi mercanti della città si occuparono di quello che occorreva per mandare avanti i lavori, che mai eb­bero interruzioni.
Emerge dal minutissimo lavoro critico anche qualche lotta tra i protagonisti. Il grande «occhio» di vetro istoriato con l’Incoronazione della Vergine per il tam­buro della cupola, presentato da Donatel­lo nel 1434, vince su quello del provvedi­tore Ghiberti. La sfida tra questo e Brunel­leschi, invece, «viene vinta da quest’ulti­mo a partire dai nuovi patti del 1426, quando, per la prima volta, guadagna il triplo: «Filippo di ser Brunellescho gho­vernatore della chupola maggiore» rice­ve fiorini 8 per un mese «a regime di 100 fiorini l’anno»; «Lorenzo di Bartolucio orafo sopra ghoverno della chupola mag­giore » prende fiorini 3 al mese. Brunelle­schi diventa così il «firmatario» della cu­pola e nel ’33 viene addirittura fatto arre­stare proprio perché «titolare» del cantie­re, ma non iscritto all’arte dei Maestri.
Brunelleschi vinse le sfida grazie so­prattutto all’ideazione della cosiddetta «colla» o «edificio dei buoi», una mac­china a tre marce (e una retro), azionata da una coppia di buoi, che gli consentì di alzare grandi pesi in quota, eludendo co­sì il problema della centinatura della vol­ta, costruita a doppia calotta. I documen­ti testimoniano di un Brunelleschi seve­ro con il bovaro che li conduce: gli sot­trae denaro per il tempo perduto («scio­perio ») durante le revisioni della «machi­na ». I registri documentano anche l’attivi­tà in cantiere del pittore Paolo Uccello e dello scultore Bernardo Ciuffagni.
L’archivio dell’Opera fu duramente colpito dall’alluvione del ’66. I codici uti­lizzati da «Gli anni della cupola», tranne quattro su trenta, furono danneggiati. Il «restauro virtuale» è stato reso possibile grazie alla collaborazione con l’Istituto per le Scienze di restauro Fachhochschu­le di Colonia, che nel torrido luglio del 1999 mandò esperti ad eseguire migliaia di riprese digitali a illuminazione ultra­violetta a bassa intensità. Per quanto ri­guarda l’edizione di testi, «è nostra in­tenzione — dicono i curatori — integra­re le fonti dell’Archivio dell’Opera di San­ta Maria del Fiore con la documentazio­ne riguardante l’Opera contenuta nell’ar­chivio della sua istituzione madre, l’Arte della Lana, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze». Per una completa ana­lisi di quegli anni andrebbero esplorati anche gli archivi dello Spedale degli In­nocenti e di San Lorenzo. Riutilizzati non come «feticci» ma come carne viva, documenti come questi sapranno avvici­nare i grandi artisti del passato, sottraen­doli dalla sfera del mito dove li collocaro­no Vasari e Bellori.

Corriere della Sera 25.6.09
Gli scritti filosofici di Sossio Giametta
Le ali di Nietzsche e il volo di Icaro
di Raffaele La Capria


La crisi speculativa coincide con quella della civiltà europea, il tramonto dell’Occidente

Chi leggerà gli elzeviri filosofici di Sossio Giametta raccolti nel volume Il volo di Ica­ro (Il Prato editore, pp. 372, e 15) sappia che questi scritti, brevi e chiari, sono la sintesi di un lungo lavorio preceden­te, di uno studio e un’applica­zione durati anni, da quando Giametta iniziò la collabora­zione con Giorgio Colli e Maz­zino Montinari, responsabili dell’edizione critica di tutte le opere di Nietzsche pubblicata da Adelphi. A lui, a Sossio Gia­metta, alla sua passione e alla sua laboriosità, si devono le molte traduzioni di Nietz­sche, e anche quelle dell’Etica di Spinoza, e di gran parte del­le opere di Schopenhauer. In­somma, questi elzeviri non so­lo hanno un pedigree di alta qualificazione culturale, ma toccano problemi filosofici di fondamentale importanza. De­vo premettere che io non so­no un cultore della materia, come si dice, e non ho una mente filosofica, ma so che la filosofia è una dimensione co­stitutiva della persona, così co­me la dimensione razionale, quella estetica, quella politi­ca, quella affettiva, e dunque questi elzeviri possono aiuta­re anche uno come me a capi­re molti problemi che sonnec­chiavano nel mio animo e ogni tanto apparivano in for­ma di domande cui sentivo di dover trovare una risposta. La prima di queste domande, quella che tutti ad un certo momento si pongono, riguar­da il rapporto con quella real­tà misteriosa ed enigmatica che è l’esistenza del mondo in sé, nella sua totalità. Pur re­stando indecifrabile, la filoso­fia lo rende pensabile — se­condo i canoni umani. Nel li­bro che ho citato Giametta scrive: «Ciascun essere viven­te è oggettivamente una inter­pretazione del mondo», e di conseguenza, anche senza rendersene conto, lo antropo­morfizza. Ed è questo che fac­ciamo tutti continuamente.
Accennerò a qualcuno dei punti per me più interessanti di questo libro che, per come è scritto, è destinato anche al lettore comune. Nel capitolo su scienza e filosofia si affer­ma che il metodo sperimenta­le (quello scientifico) va consi­derato come un limite e non come un’arma vincente, per­ché trova proprio nell’espe­rienza empirica un limite che non oltrepassa, mentre la filo­sofia può oltrepassarlo. Il mi­to di Icaro, che dà il titolo al libro, a questo allude, al volo che ad un certo punto è desti­nato a una precipitosa caduta. In un altro capitolo sono enunciati due nuovi princìpi, il principio di organicità e quello di massima determina­zione: il principio di organici­tà, che viene opposto a quello di meccanicità, e quello di massima determinazione, che si oppone a quello di indeter­minazione di Heisenberg.
Quanto a Nietzsche, Gia­metta potrebbe ripetere: «Va­gliami il lungo studio e il gran­de amore/ che m’ha fatto cer­car lo tuo volume» per la fre­quentazione di una vita che lui ha avuto con i testi del grande contestatore. A questo proposito fa osservare che la crisi della filosofia, che in Nietzsche si verifica, coincide con la crisi della civiltà euro­pea, con quel tramonto del­l’Occidente di cui la Prima e la Seconda guerra mondiale so­no l’evento conclusivo.
In questa parte si discute anche, tentando di darne una spiegazione diversa da quella corrente, sulla vera origine del fascismo e del comuni­smo, cercando in altri termini la chiave di comprensione de­gli ultimi due secoli di storia. Nietzsche giustamente non è considerato solo un filosofo, ma anche un poeta, uno psico­logo, un filologo e un morali­sta (come Montaigne) ed è questo suo multiforme aspet­to che lo distingue dagli altri filosofi. Egli è infine un dia­gnostico di quella crisi della civiltà occidentale di cui s’è detto. Il suo nichilismo libera l’uomo dai dettami che veniva­no dall’alto e dall’esterno, e gli restituisce libertà e respon­sabilità, con tutte le enormi conseguenze positive e negati­ve che questo ha comportato. Sono questi ed altri i temi e i motivi che rendono interes­sante Il volo di Icaro, un libro che anche nella forma propo­ne un uso particolare della scrittura di tipo aforistico, prendendo a modello alcuni esempi illustri del passato.

Il Foglio 25.6.09
Berlinguer ti voglio male
di Emanuele Macaluso


Anticipiamo l’articolo che apparirà nel prossimo numero della rivista "Le nuove ragioni del socialismo"

Nel venticinquesimo anniversario della sua scomparsa, la figura di Enrico Berlinguer è stata oggetto di discussioni, serie e meno serie, che inevitabilmente hanno richiamato il ruolo svolto dal Pci nella tormentata vicenda della democrazia italiana. Il ricordo della morte di Berlinguer suscita in me tante emozioni nel ricordo di una lunga comune militanza e anche perché, come direttore dell’Unità, vissi intensamente, in sintonia con milioni di persone, i giorni della sua agonia che seguirono il momento in cui si accasciò sul palco dal quale parlava ai cittadini dì Padova. infatti in quei giorni era in corso la campagna elettorale europea in un clima politico arroventato. Il Pci, in quella competizione, sull’onda dell’emozione che suscitò la morte di Berlinguer, si affermò come primo partito, sfiorando il 34 per cento dei voti e superando per la prima volta la Dc. Eppure quel successo, ottenuto con e per Berlinguer, segnò anche l’inizio di un declino del Pci segnalato, nei mesi e negli anni successivi, dai risultati del referendum per l’abolizione della legge sulla scala mobile (motivo di uno scontro durissimo con Craxi), dalle elezioni amministrative e da quelle politiche del 1987, Segretario del Pci era Alessandro Natta. Ma ecco il punto che in queste note vorrei discutere - il declino del Pci è dovuto al fatto che non ha più una guida forte, autorevole, popolare come quella di Berlinguer? O già con lui, si era aperta una crisi di ruolo del Pci, in un quadro in cui incubava una crisi del sistema? Si è più volte detto e scritto che Berlinguer aveva intuito i caratteri della eri- si, come testimonia la sua intervista a Scalfari sulla "questione morale", quando parlava della degenerazione dei partiti che occupavano lo spazio che doveva essere riservato allo Stato ecc. L’osservazione è giusta. Tuttavia c’è da chiedersi se il Pci fece un’analisi adeguata sulle cause che producevano quegli effetti e se elaborò una strategia per affrontare una crisi di sistema che lo coinvolgeva. Teniamo ben presente che parliamo della fase politica che si apre dopo che, con l’assassinio di Aldo Moro (1978), si era sostanzialmente sciolta la maggioranza che aveva retto ì governi di solidarietà nazionale presieduti da Giulio Andreotti. Tuttavia, nel congresso dei 1979 il Pci considera ancora valida la strategia che aveva dato vita ai governi di solidarietà, cioè un’alleanza con il Psi e con la Dc. Una politica che Berlinguer non identificava con il "compromesso storico" dato che metteva l’accento sul permanere di alcune emergenze che la giustificavano (crisi economica, inflazione, terrorismo). Ma era una politica che stava entro quello schema, lo schema togliattiano. Dopo la crisi dei governi di solidarietà e le elezioni del 1979 nella Dc i gruppi che avevano subito, ma non condiviso, la politica di Moro sì riorganizzarono, muovono una controffensiva moderata, vincono il congresso e riallacciano un rapporto privilegiato con il Psi di Craxi. Il quale aveva già archiviato la politica di alternativa alla Dc. Un successo consentito dal fatto che la direzione della Dc di Zaccagnini era fragile (Galloni vicesegretario attaccava il Pci ma non sapeva cosa fare) e dall’incertezza e oscillazione del Pci. II quale già subiva e, al tempo stesso, alimentava la conflittualità col Psi di Craxi. Berlinguer vede in questo resuscitato rapporto tra Psi e Dc un segno di una crisi di fondo, di sistema, e ha ragione. Infatti né la Dc del dopo Moro, né il Psi di Craxi colgono i segnali di crisi di un sistema senza alternative e ricambio di direzione politica. Moro, che aveva intuito i caratteri della crisi, non voleva portare il Pci al governo, ma tentò di rivitalizzare il sistema prefigurando alternative in cui fosse coinvolto il Pci, partito di governo. Berlinguer, però, tentò di reagire all’intesa Dc-Psi con la formula astratta dell’alternativa democratica (il Pci perno di un governo di salute pubblica), con la "diversità comunista", con una battaglia politica, parlamentare e di massa volta a dimostrare che ormai senza il Pci al governo il paese non è governabile. Sul piano internazionale, nel corso della crisi polacca (1981) Berlinguer, dopo la dichiarazione fondamentale sul Patto Atlantico, fatta nel 1976, aveva accresciuto il distacco dall’Urss. Si parlò di uno strappo irrecuperabile. Ed era vero, Il Pcus di Breznev osteggiava l’ingresso del Pci nell’area di governo più di quanto l’osteggiasse il governo americano guidato da Carter. Tuttavia, Berlinguer, allargava le distanze dall’Urss, ma non aveva mai messo in discussione l’identità comunista del partito e la sua vocazione anticapitalista, terzomondista e antimperialista. Cioè c’erano gli "strappi" ma non c’era una revisione di fondo, tale da collocare il partito nell’area del socialismo europeo. Enrico allacciò rapporti con alcuni leader socialisti, Palme, Mitterrand, Willy Brandt, sui temi del terzo mondo e della pace ma volle sempre mantenere non solo il nome, ma l’identità comunista. Poteva il Pci che rivendicava quella identità (nella versione italiana della via democratica), rompere tutti gli sbarramenti nazionali e internazionali e competere, non solo per la partecipazione, ma per la guida del governo? Questo fu il senso della sfida berlingueriana con la svolta del 1981. L’esperienza della solidarietà nazionale, vissuta anche criticamente, infatti, aveva fatto maturare nel gruppo dirigente il convincimento che il Pci poteva mantenere la sua identità comunista ed essere forza di governo. La contraddizione consisteva nel fatto che mentre si diceva convintamente che Moro era stato assassinato per bloccare un processo politico che innovava il sistema, facendo cadere la pregiudiziale anticomunista, dall’altro si pensava possibile un quadro politico più spostato a sinistra, col Pci al governo, da quello che aveva ispirato fa politica morotea. Ma il Pci non aveva tutto l’interesse di mantenere aperte le porte della politica di solidarietà nazionale che le forze conservatrici combattevano con tutte le armi? Anche perché sullo stesso fronte c’era tutto l’estremismo di sinistra quello che lottava alla luce del sole e quello che aveva scelto la lotta armata. La Dc si adegua subito alla spinta che la vuole come asse dell’area moderata e anticomunista, anche perché Zaccagnini e la sinistra non hanno più una politica. E il Psi che si sente schiacciato dal compromesso Dc-Pci cerca di uscirne offrendo alla Dc dorotea un’alternativa possibile, facendole pagare il prezzo del suo protagonismo che si concretizzerà nella presidenza di Craxi. Il Pci aveva due strade: reinterpretare la politica di solidarietà nazionale negando la leadership alla Dc e dando spazio al Psi col quale aprire un dialogo in termini nuovi; oppure sfidare il Psi sul terreno di un revisionismo di fondo che avrebbe collocato il partito nell’area del socialismo e giuocare la carta dell’alternativa alla Dc che Craxi si accingeva a mollare, Berlinguer come ho accennato, scelse invece una "terza via" (sempre disastrose le terze vie!). A questo proposito, mi ricordo che nel 1980 feci un’intervista al Mondo per dire che bisognava ricostruire la maggioranza della solidarietà nazionale (Dc-Psi-Pci) ma la direzione del governo doveva essere affidata a un socialista e non più a un Dc. Mi fu chiesto se quel socialista poteva essere Craxi e risposi di sì. Non capivo come sì potesse fare un accordo di governo col Psi, tagliando fuori il suo segretario. Non pensavo che quel governo potesse facilmente nascere, ma era un’occasione per mantenere un rapporto col Psi, non rompere il dialogo con la Dc e non dare alibi alla svolta moderata. Invece la segreteria del Pci, con un metodo inusuale, (l’aveva fatto nel 1947 con Terracini) emanò un comunicato per dire che si trattava di mie idee personali. Il che era vero, ma quel comunicato preparava la svolta isolazionista dell’81. Un segnale in questo senso era già venuto quando il Presidente della Repubblica aveva dato l’incarico per fare il governo a Ugo La Malfa e Berlinguer negò il suo sostegno. L’errore di fondo, a mio avviso, parte dalla sottovalutazione di tutti i processi sociali, politici e culturali che prepararono e consentirono la vittoria della Thatcher e di Reagan, di quella che fu chiamata la rivoluzione conservatrice. Il pentapartito, in Italia, sul piano della politica estera (gli euromissili) e su quelli della politica interna (decreto sulla scala mobile, progetti di rilancio del capitalismo e dei consumismo, promessa di riforme nel sistema politico che esprimevano anche una modernizzazione della società) era sulla scia di quell’ondata che coinvolgerà l’Europa. Il Pci, come una gran parte della sinistra europea, ebbe una posizione difensiva (simile a quella dei sindacati e dei laburisti inglesi) e non seppe mettere in campo una politica riformatrice adeguata a quella "rivoluzione". Ecco perché ho parlato di una crisi di ruolo del Pci. Tuttavia, il pentapartito craxiano che era su quella scia consumò la sua spinta, archiviò le riforme, tirò a campare in un giuoco di potere perverso. L’89 trova, quindi, forze di governo e di opposizione impreparate a cogliere il mutamento epocale che si produsse con il crollo del muro di Berlino. De Mita e Craxi si contendono la direzione politica di una sistema che va disfacendosi. Craxi pensa di tornare, costi quel che costi, a Palazzo Chigi e ricorre sempre più a finanziamenti illegali, non si fida più nemmeno del suo partito e non si accorge che va a sbattere. Occhetto e i suoi compagni con la svolta della Bolognina collocano il nuovo partito nel limbo e pensano di rifondare ed esprimere tutta la sinistra, e anche lui non si accorge che va a sbattere. All’inizio degli anni Novanta la crisi del sistema finisce di consumarsi tra promesse di svolta e rinnovamenti e con Tangentopoli che ne suggella la fine agevolando l’arrivo di uno dei beneficiari: Silvio Berlusconi. Non c’era più Berlinguer, ma quelli che abusivamente ritenevano di essere i suoi più fedeli eredi, che costituirono il gruppo dirigente del Pds.