sabato 23 gennaio 2010

l’Unità 23.1.10
Oggi Emma Bonino inizia il proprio tour elettorale dai mercati della Capitale.
Con Emma Bonino che questa mattina, più o meno alla stessa ora del summit Polverini-Storace, sarà con Nicola Zingaretti testimonial e insieme al segretario regionale del Pd Mazzoli, tra i banchi del mercato di Casal de Pazzi e poi in quello di via Gordiani. Un inizio dalla periferia romana. Prima tappa della due giorni di mobilitazione del Pd (domani sarà a Porta Portese, Campo de Fiori e nel circolo Giubbonari, dove il coordinatore si è dimesso contro il «metodo» Bonino) con cui di fatto prende avvio il tour elettorale di Emma.
Trovato anche il comitato, sul Lungotevere, non lontano da Santa Cecilia. E, non senza contrasti, si sta decidendo anche il coordinatore: in pole l’attuale segretario romano Riccardo Milana, che dovrebbe essere sostituito pro-tempore da un’altra ex popolare, Serena Visintin. Un modo per rimotivare, diciamo così, anche l’ala cattolica. ❖

l’Unità 23.1.10
La nostra civiltà la loro libertà
I figli degli immigrati
di Marta Meo

La fine dell’incubo del matrimonio combinato per Almas Mahmood è da considerare un successo e un monito perché purtroppo nel nostro Paese casi come questo sono solo la punta di un iceberg di realtà fatte di soprusi e violenze ai danni delle giovani e dei giovani figli di immigrati che, cresciuti nel nostro Paese, chiedono semplicemente di vivere una vita normale come un qualsiasi loro coetaneo.
Oggi sono contenta per Almas, ma scrivo queste righe soprattutto per Saana e per Hina e per le tante e i tanti giovani che purtroppo non ce l’hanno fatta, che hanno subito e continuano a subire. Scrivo queste righe per queste giovani donne e per chi vive in solitudine il peso del passaggio culturale che l’integrazione porta con sé perché credo che in nome delle grandi battaglie di civiltà di cui le nostre tradizioni politiche possono fregiarsi sia importantissimo che oggi il tema della libertà, della scelta, del rispetto dell’individuo, siano questioni che attraverso l’immigrazione tornano ad essere prepotentemente attuali.
Matrimoni combinati, delitti d’onore e segregazioni, sono cose che fortunatamente non appartengono più alla nostra “cultura” ma che tuttavia ci riguardano molto da vicino.
Casi come questi ci riportano prepotentemente ad una questione su cui si gioca un grande e grave interrogativo: siamo in grado di sostenere che, pur nel rispetto delle tradizioni, esistono leggi ed esiste un valore, quello della libertà individuale, per il quale siamo disposti a batterci? Siamo in grado di dire che noi democratici siamo portatori di un’idea di libertà che non si ferma sulla soglia delle tradizioni nostre ed altrui, sulla soglia delle case e delle comunità che vivono nel nostro Paese? Possiamo affermare che questi sono valori che difendiamo senza esitazioni, perché ci siamo liberati dai lacci di una subalternità culturale che per un certo periodo è stata pervasiva nella nostra riflessione politica che ha erroneamente prevalso sui nostri valori, prepolitici, di esseri umani? Siamo in grado, solo per fare un esempio, di non lasciare al silenzio o alla destra il tema delle più di 4000 donne che in Veneto, la mia regione, hanno subito mutilazioni sessuali?
Se deve esistere un luogo della politica italiana dove la crescita sana, serena e libera deve diventare un valore condiviso da tutti, credo che quello non possa che essere il Partito Democratico. Facciamo dunque di queste questioni una battaglia che ci veda uniti di fronte al Paese nell’affermare che la nostra civiltà oggi si misura anche attraverso la libertà che riusciamo a garantire alle giovani e ai giovani nuovi italiani.❖

Repubblica 23.1.10
Tra gli immigrati-fantasma di Rosarno "Nascosti nei ruderi, usciamo col buio"
di Attilio Bolzoni

Dopo la "caccia al nero" di due settimane fa sono rimasti in pochi, qualche decina I padroncini li vanno a prendere all´alba E dopo una giornata di lavoro nei campi li riportano indietro al tramonto
Ghienni, ventenne del Burkina Faso: "Perché non sono fuggito? Non sapevo dove andare". Minacce e insulti per i ragazzi dell´associazione contro il razzismo "Africalabria"

ROSARNO - Sono nascosti nei casolari, fra gli aranceti. Alla fine del viottolo ci sono le case abbandonate di uno dei tanti baroni Cordopatri di Calabria e nel campo davanti c´è Ghienni, uno dei braccati, uno di quei neri che cercavano per sparargli addosso. Siamo tornati dopo la grande caccia all´uomo, quindici giorni dopo siamo tornati fra i fantasmi di Rosarno.
Perché non sei fuggito? «Perché non sapevo dove andare», risponde Ghienni, ragazzo di vent´anni che viene dal Burkina Faso e che è rintanato come un topo fra queste mura cadenti e fradice di pioggia. La contrada si chiama Fabiana di sopra, un paradiso di orti e di alberi che è diventato l´inferno di Ghienni. È la sua prigione. All´alba lo viene a prendere con il buio il suo "padroncino" che lo porta dall´altra parte della Piana a raccogliere arance, al tramonto lo riporta lì. Sempre con il buio. Nessuno li deve vedere. Nessuno deve sapere che il ragazzo nero è ancora a Rosarno.
Dicono che sono centinaia. Ma non è vero. Sono solo voci che si rincorrono in un paese che, sulle voci, ha scatenato l´ignobile tumulto. I neri rimasti qui dopo la cacciata dei duemila africani di sabato 9 gennaio sono pochi: forse trenta, forse quaranta. Tutti segregati in qualche rudere come Ghienni. Tutti spaventati. Tutti al riparo dalle ronde e dai cacciatori di Rosarno.
In un altro casolare sulla strada che va verso Vibo Valentia sono in quattro. Due sono usciti sei giorni fa dall´ospedale di Reggio Calabria, altri due ieri mattina da quello di Gioia Tauro. Uno è Haiwa, il primo dei feriti nei giorni del disonore di Rosarno. «È stato alle tre del pomeriggio, ero vicino alla fabbrica dove dormivamo, mi hanno inseguito e mi hanno sparato con una pistola mirando in mezzo alle gambe», ricorda Haiwa, ragazzino del Togo che domani se ne andrà lontano da questa Calabria che non vuol sentirsi dire che è razzista e che è mafiosa. Con Haiwa ci sono anche Kunate e Musa, uno della Costa d´Avorio e l´altro della Guinea, tutti e due «sparati» venerdì sera vicino alla stazione di Rosarno. Raccontano: «Eravamo terrorizzati, stavamo provando a fuggire dalla folla quando si è avvicinata un´auto e hanno cominciato a tirarci contro». Musa, il più piccolo, ha ancora le gambe martoriate dai pallini. Se ne andranno via anche loro. Via da Rosarno, via per sempre.
Sulla strada per Nicotera c´è uno splendido vivaio dove lavora ancora Sogorobbea, uno del Mali. Da qualche giorno dorme in paese, per una settimana Nello Navarra – il proprietario del vivaio – gli ha sistemato una branda nel suo ufficio. Gli portava da mangiare, a mattina e a sera. Lo ha nascosto come se fosse un latitante. «Un giorno qualcuno mi ha visto con Sogorobbea e mi ha detto: ma tu ti fai vedere in macchina con i neri?». Rosarno Burning, Italia gennaio 2010.
L´ufficio della Western Union è sulla statale 118. Un ghaniano che è tornato in paese per prendere i soldi che gli doveva dare ancora il suo padrone («Ventidue giorni di paga») incontra Mamaduc del Mali, anche lui dimesso ieri l´altro dall´ospedale per una sprangata alla testa. «Uno sbaglio, non l´hanno riconosciuto, Mamaduc lavora per un possidente di rispetto: se l´avessero riconosciuto non gli avrebbero fatto niente perché qui Mamaduc è protetto», bisbigliano in paese. «Mamaduc non ha paura, Mamaduc non parla con i giornalisti», ringhia un giovane abitante di Rosarno, uno di quelli avvelenati contro chi ha raccontato le barricate dei bianchi e la grande caccia agli africani.
Ponte sul fiume Mesima, contrada Passo Nicotera, ore 11 del mattino. I vigili urbani di Rosarno sono di fronte a uno stabilimento dove una volta raccoglievano le arance. È diroccato e pieno di magrebini. «Il medico provinciale ha ordinato che ve ne dovete andare tutti fra oggi e domani», dice il capo della polizia municipale. Erano centoventi ieri l´altro, sono rimasti una trentina. Parla per tutti il marocchino Aziz: «È la nostra casa, se ci mandano via andremo a dormire per le strade». Il parroco del Duomo don Pino Varrà ha appena portato qualche panino. Ma i magrebini non riescono a mangiare, sono storditi. Denuncia Michele Trungadi di Africalabria, l´osservatorio dei migranti di Rosarno: «Solo poche ore fa abbiamo sentito le belle parole del presidente della Repubblica che tutti dobbiamo fare di più per gli immigrati di Rosarno. Ecco cosa fa di più il giorno dopo lo Stato per loro: li caccia».
I volontari di Africalabria un anno fa hanno fondato su Facebook un gruppo che oggi ha quattromila fan. «Gli africani salveranno Rosarno», c´è scritto sulla loro pagina. Un paio di settimane dopo, in paese, alcuni hanno fatto anche loro una pagina su Facebook: «Gli africani hanno rotto il cazzo a Rosarno». Giuseppe Pugliese, uno di Africacalabria, da una settimana non gira più per il suo paese. Gli hanno mandato messaggi, minacce. Ce l´hanno con lui perché «è amico dei negri». Benvenuti a Rosarno, Calabria, quindicimila abitanti, duecento affiliati alla ‘ndrangheta, tutti servitori di uomini che si chiamano Pesce e che si chiamano Bellocco.
È tutto un deserto alla fine della Gioia Tauro Road, la strada dove prima c´erano i neri e adesso ci sono soltanto i loro resti. Bombole del gas, biciclette, calzini, uova, materassi, scarponi, felpe, pentole, tende, specchi rotti. Gli oggetti della loro vita, lasciati nella fuga. È diventata una città spettrale questa vecchia fabbrica dove in duemila avevano trovato rifugio, era una Cayenna ed è diventata il simbolo di una Calabria cupa, prepotente. Un marchio.

Liberazione 22.1.10
Sindacato e migranti, un problema c'è
di Dino Greco

Il quotidiano di Vittorio Feltri ha avviato una nuova campagna denigratoria contro il sindacato confederale, questa volta prendendo a pretesto la difficoltà di quest'ultimo nell'offrire copertura, formale e politica, ad uno sciopero generale dei migranti, tema carsicamente riaffiorante nelle comunità immigrate e nei loro coordinamenti sindacali, ma ora - dopo i drammatici fatti di Rosarno - ripropostosi con nuova forza. Ora, che il neonato interesse de il Giornale per la sorte degli immigrati sia "peloso" è cosa certa e manifesta. Non abbiamo mai letto nulla (né mai nulla leggeremo) su quelle pagine, che somigliasse ad una critica, pur velata, alla legislazione xenofoba che genera clandestinità, o che contestasse al centrodestra il rifiuto di riconoscere il permesso di soggiorno a quanti, fra i migranti regolari, provassero a portare alla luce la propria condizione di sfruttati. Che oggi il Giornale usi la loro voglia di riscatto e la loro rivendicazione di dignità come corpo contundente contro i sindacati è una acrobazia politica talmente palese che è difficile immaginare possa trovare, persino fra i propri lettori, chi sia disposto a prestarvi fede.
C'è tuttavia un nodo, questo sì reale, che il sindacato non ha sino ad oggi saputo o voluto sciogliere. I migranti rappresentano ormai una percentuale a due cifre di tutti gli iscritti, fra gli "attivi". In alcune categorie, soprattutto nei settori manifatturieri, gli stranieri toccano o superano il 20% delle adesioni. Ebbene, accade che finché la tutela dei loro diritti e dei loro interessi coinvolge i diritti e gli interessi dell'insieme dei lavoratori, tutto fila liscio. Quando invece entra in gioco la specificità della condizione migrante, non direttamente assimilabile a quella dei nativi, le cose si complicano. Perché delle due l'una: o i lavoratori migranti si muovono come parte nel tutto - e si danno propri strumenti di rappresentanza, di decisione e di azione - ma questo urterebbe fragorosamente contro il carattere universalistico dell'azione sindacale; oppure tutti i lavoratori devono essere chiamati a sostenere la causa di una minoranza emarginata e discriminata. Se, dunque, uno sciopero generale "etnico", promosso cioè per una sola porzione del mondo del lavoro nel disinteresse dell'altra contraddice l' imprinting solidaristico e la natura confederale del sindacato, è del tutto evidente come la proclamazione di un'astensione di tutti i lavoratori debba fare i conti con i retaggi culturali, le tossine xenofobe largamente diffuse fra ampi strati dei lavoratori dipendenti, soprattutto del nord.
E' dunque ora che il problema - per troppo tempo rimosso ed eluso per il timore di contraccolpi non governabili - sia afferrato per le corna. Nel solo modo possibile. Vale a dire promuovendo una grande discussione di massa, dentro ogni luogo di lavoro. Se questo non si farà e se i migranti matureranno la convinzione che la loro diversità sia - persino dentro il loro sindacato - un ostacolo alla piena uguaglianza, finiranno fatalmente per trovare altre strade. E, paradossalmente, potrebbe essere proprio la destra a trarne beneficio.

l’Unità Firenze 23.1.10
Il candidato governatore della Toscana
Rossi ai lavoratori immigrati: «Appoggio il vostro sciopero»

(…) Incontro del candidato di Toscana democratica a Santa Croce «L’11 febbraio sarò alla manifestazione antirazzista della Cgil»
E Rossi ha espresso il suo sostegno alle 24 ore senza di noi promosse autonomamente dalle associazioni di migranti e che sul social network facebook hanno già raccolto oltre 40mila adesioni. Annunciando però, nello stesso tempo, la propria adesione ufficiale alla manifestazione regionale antirazzista Contro altre Rosarno indetta dalla Cgil al Mandela forum di Firenze per l’11 febbraio.
Ma soprattutto ha ribadito la sua idea di accoglienza, che «va regolata, altrimenti diventa caos». «L’immigrazione è una ricchezza e una risorsa fondamentale per la nostra macchina produttiva ha sottolineato Rossi ma l’accoglienza non può prescindere dalla legalità».
Tema su cui lo Stato deve costantemente vigilare e, naturalmente, non contribuire a crearla, come invece spesso accade: «Nel 2009 spiega il candidato sono stati richiesti 46mila permessi di soggiorno e ne sono stati rilasciati solo 13mila, ingrossando così il fiume umano della clandestinità».
Se sarà eletto, promette l’uscente assessore regionale alla Sanità, chiederà conto di questi ed altri paradossi al governo in carica e ai ministeri preposti e si impegnerà con atti concreti per favorire l’integrazione dei migranti.
Tra le sue proposte, l’istituzione, insieme ai sindacati, alle associazioni di categoria e al mondo della cooperazione e del volontariato, di un fondo di sostegno e solidarietà alle lotte dei lavoratori immigrati. Ma anche l’idea di favorire, attraverso sgravi fiscali da parte della Regione, le aziende che si offrano come garanti presso le banche, in modo da permettere ai lavoratori stranieri di accedere a forme di microcredito: «Mettiamo che un lavoratore immigrato abbia bisogno di un prestito per ammobiliare casa ha spiegato Rossi Bene, l’azienda in cui lavora faccia da garante presso la banca e da tutor per l’immigrato: in cambio avrà vari tipi di facilitazioni economiche da parte della Regione». ❖

l’Unità 23.1.10
«Sogno che uccidono papà»
La guerra di Gaza negli incubi dei bambini
Nel rapporto di Amnesty i racconti dei sopravvissuti all’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele un anno fa. Il blocco strangola la Striscia: disoccupazione al 40%
di Umberto De Giovannangeli

Quella tragedia è racchiusa in numeri, in storie, in volti. Quella tragedia non ha nulla di «naturale». È la tragedia di Gaza un anno dopo la fine dell’offensiva militare israeliana. A raccontarla è Amnesty International. L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto una serie di testimonianze di persone che ancora hanno difficoltà a ricostruire le loro vite a seguito dell’operazione «Piombo fuso», che provocò 1400 morti e alcune migliaia di feriti. «Le autorità israeliane affermano che il blocco di Gaza, in vigore dal giugno 2007, è la risposta al lancio indiscriminato di razzi contro il sud d’Israele da parte dei gruppi armati palestinesi. La realtà, tuttavia, è che il blocco non prende di mira i gruppi armati ma piuttosto punisce l’intera popolazione di Gaza, limitando l’ingresso di cibo, forniture mediche, strumenti educativi e materiale da costruzione», afferma Malcolm Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. «Ai sensi del diritto internazionale, il blocco rappresenta una punizione collettiva e va tolto immediatamente».
A Israele, in quanto potenza occupante, il diritto internazionale richiede di assicurare il benessere degli abitanti di Gaza, tra cui i loro diritti alla salute, all’educazione, al cibo e a un alloggio adeguato. Durante l’operazione «Piombo fuso», dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, furono uccisi 13 israeliani tra i quali tre civili nel sud d’Israele e decine furono i feriti a seguito del lancio indiscriminato di razzi da parte dei gruppi armati palestinesi. A Gaza, gli attacchi israeliani danneggiarono o distrussero edifici e infrastrutture civili, tra cui scuole, ospedali e impianti idrici ed elettrici. Migliaia di case vennero distrutte o furono gravemente lesionate. Delle 641 scuole di Gaza, 280 vennero danneggiate e 18 distrutte. Poiché più della metà della popolazione di Gaza ha meno di 18 anni l’interruzione dei programmi educativi a causa dei danni provocati dall’operazione «Piombo fuso» sta avendo un impatto devastante.
Un anno dopo, Amal 10 anni, porta ancora nella tasca ovunque vada due foto consunte di suo padre e di suo fratello morti durante l’offensiva di Tsahal. «Voglio guardarli sempre», dice, un anno dopo che sono stati uccisi. «La mia casa non è bella senza di loro». Anche Amal è stata ferita e dice che la testa e l’occhio destro le fanno ancora male. Ma il trauma psicologico di Amal è aggravato dal fatto che scappò prima che la madre e i fratelli e sorelle lasciassero la casa dopo gli spari. Quattro giorni dopo fu trovata, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock, una dei 15 altri sopravvissuti trovati nelle immediate vicinanze quando le ambulanze della Croce Rossa finalmente ottennero il permesso di avvicinarsi abbastanza per tirarli fuori. A scuola, le materie preferite di Amal sono inglese e arabo. «Non conosco molto l’inglese, ma mi piace», dice la ragazzina, che da grande vuole fare il dottore.
Kannan, adesso 13enne, ancora zoppica per il colpo di pistola alla coscia sinistra. Prima della guerra, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Anche per lui, l’impatto non è stato solo fisico. Nei mesi successivi alla sparatoria, ha avuto degli incubi – e fu trovato numerose volte a piangere nel sonno o a gridare «Vogliono uccidere mio padre». «Non va al bagno da solo», dice Zahawa, sua madre, aggiungendo che si spaventa facilmente – per esempio al suono dei colpi di pistola del vicino centro di addestramento di polizia di Hamas. Anche Kannan ha un album per gli schizzi – il consulente che lo ha seguito per quattro mesi dopo la guerra lo ha incoraggiato a disegnare. Dipinge la sparatoria contro suo padre... Bambini spaventati dagli aerei sopra di loro... Una moschea distrutta. Anche gli ospedali hanno subito le conseguenze dell’offensiva militare e del blocco. Le autorità israeliane negano spesso, senza fornire spiegazione, l’ingresso a Gaza dei camion dell’Organizzazione mondiale della sanità, contenenti aiuti sanitari.
I pazienti con gravi patologie che non possono essere curati sul posto continuano a vedersi negare o ritardare il permesso di lasciare la Striscia. Il 1 ̊ novembre 2009, Samir al-Nadim, padre di tre figli è deceduto dopo che il permesso di lasciare Gaza per subire un’operazione al cuore era stato rimandato per 22 giorni. Amnesty International ha parlato con molte famiglie, le cui abitazioni vennero distrutte. Un anno fa, durante il conflitto, Mohammed e Halima Mslih lasciarono il villaggio di Juhor al-Dik insieme ai loro quattro bambini. Mentre erano assenti, la loro casa venne demolita dai bulldozer israeliani. «Quando siamo tornati, c’erano tutte macerie», racconta Mohammed Mslih. La famiglia Mslih ha trascorso i primi sei mesi dopo il cessate il fuoco in una tenda di nylon. Ora è riuscita a costruire un’abitazione permanente ma teme che le continue incursioni israeliane possano abbatterla nuovamente. La disoccupazione a Gaza sta crescendo vorticosamente. Lo scorso dicembre, le Nazioni Unite hanno reso noto che il dato era superiore al 40%. «Il blocco sta strangolando praticamente ogni aspetto della vita della popolazione di Gaza. Il crescente isolamento e la sofferenza degli abitanti di Gaza non possono continuare. Il governo israeliano deve rispettare i propri obblighi legali in quanto potenza occupante e togliere il blocco senza ulteriore ritardo», conclude Smart. ❖

Repubblica 23.1.10
Fausto e Lella, fulmini in casa Bertinotti
di Filippo Ceccarelli

Il sito Dagospia parla di rottura tra l´ex presidente della Camera e la moglie. Lei avverte: attenti alle querele
Sul web la crisi della coppia Bertinotti Lella al telefono: ma Fausto è qui con me...
La signora reagisce: "Storia costruita da chi mi odia. Chi non ha momenti difficili?"
Una persona amica evoca un litigio a causa del figlio Duccio. "Già acca-duto in passato"

Si dice a Roma, di norma si dice al mercato e nelle portinerie, ma anche nei salotti, nelle redazioni dei giornali e un po´ in tutti i luoghi dominati dal pettegolezzo: «Nun ce posso crede!». Espressione che suona di sublime e rinforzatissima ambiguità, tenendo insieme tanto la meraviglia che lo scetticismo dinanzi all´ultima maliziosa diceria, dinanzi all´ennesimo «crostino scottadito».
Con tale spirito si è appreso ieri, intorno alle 16, dal preclaro sito Dagospia: «La gente mormora, il salotto gorgoglio» questo il piccolo rullio di tamburi che precedeva la rivelazione; e quindi, finalmente: «Sora Lella ha mollato Fausto Bertinotti». Sotto si vedeva la grafica di un gran cuore spezzato, con le foto della celebre coppia pure in frantumi. Presunti frantumi però, come occorre specificare sulla base dei successivi sviluppi.
L´esordio del servizio mostrava in effetti un certo deficit di autorevolezza, e non solo perché anonimo, ma soprattutto per il tono dichiaratamente parodistico: «Una mattina mi son svegliato,/ o Lella, ciao! Lella, ciao! Lella, ciao, ciao, ciao!/ Una mattina mi son svegliato/ e non ho trovato più l´amor...». Seguiva disamina sulla signora Bertinotti che da un po´ di tempo si recava ai ricevimenti triste, sola e a digiuno. Questa, in buona sostanza, la prova della rottura. Mentre la conclusione della nota, invero un po´ sibillina, recitava: «I nostri eroi si erano sposati nel ´65 in chiesa (of course) e dopo 45 anni hanno deciso che era sufficiente».
Il punto rimarchevole, se si vuole, o la premessa cognitiva, è che il giornalismo politico, entità divenuta al tempo stesso generica e polivalente, sta davvero abituandosi a tutto. Si pensi a ciò che, da Veronica in poi, è accaduto e continua ad accadere proprio in questi giorni in termini di impicci baresi, pochades bolognesi e paparazzate itineranti. Questo per dire che la famosa distinzione tra sfera pubblica e privata è andata definitivamente a farsi benedire; per cui rispetto al super-scoop di Dagospia il salvifico motto era destinato sì a risuonare, «Nun ce posso crede!», ma un po´ anche invano. Era vero o no?
Non solo, ma in linea con le più sinistre profezie di Debord sulla società dello spettacolo si è anche dilatata l´area del verosimile, o del falso realistico e simulacrale, o della verità manipolata per lieto scherzo, oppure da carbonizzare sull´ara di un nobile fine, tipo dimostrare la frivola ottusità dei media che si buttano sulle crisi coniugali così oscurando i grandi temi sociali della disoccupazione, della sanità, che di sicuro sono decisivi, ma intanto: che succedeva ai «Berty-nights»?
Chi ha parlato con gli assistenti di lui, che era la prima cosa da fare, l´ha trovati abbottonati, ma compresi del momento. Mentre lei, che con i giornalisti ha un rapporto di tipo catulliano (ne tecum ne sine te vivere possum, libera traduzione: siete degli adorabili scocciatori) restava sulla negativa, pure esternando il suo sdegno - come si può umanamente comprendere. Nel sottofondo telefonico si potevano sentire le voci dei nipotini e a un certo punto, per dare più energia al suo ridimensionare l´indiscrezione di Dagospia, Sora Lella ha passato l´apparecchio al marito, che era lì, anche se non ha ritenuto di intervenire sul tema.
Tale il quadro che si è raccolto «allo stato degli atti», come si diceva ai tempi di Forlani e del preambolo. Confermato del resto, poco prima delle 20, da un flash dell´agenzia Ansa intitolato: «Tranquilli, io e Fausto non ci lasciamo». Alla giornalista, la cui tranquillità non sembrava per la verità risentire della presunta crisi matrimoniale, la moglie dell´ex presidente della Camera ha anche detto: «È una storia costruita ad arte da una persona che vuole screditarmi e mi odia». Chi? Silenzio. «Questa stessa persona era presenta a una serata dove sono stata invitata e dove, tengo a sottolineare, ho mangiato tre piatti di pasta, altro che a digiuno perché triste». Al che la giornalista ha insistito sulla crisi: «Siamo nell´ambito del privato... quale coppia non litiga e non ha attraversato momenti più difficili di altri? Figuriamoci, allora, due come me e Fasto che stanno insieme da tanti anni... Ma non è neanche il caso di parlarne». Ecco, sì: «Nun ce se po´ crede».

Repubblica 23.1.10
Bari, il ciclone Vendola e la "capagira" del Pd
«Guaglio', calmi, che la capa gira!». È diventato lo slogan amaro nei quartier generali del Pd pugliese.
Ciclone Vendola in Puglia quell´Opa ostile sul Pd alla ricerca di un leader
Domani la sfida del "Berlusconi rosso" con Boccia
di Curzio Maltese

La "capagira", dicono a Bari, a indicare il misto di stordimento e rabbia con cui il partitone s´avvia a una sconfitta annunciata
Nel quartier generale del presidente il pellegrinaggio di consiglieri comunali e militanti democratici pronti ad appoggiarlo

La «capagira» significa il misto di stordimento, rabbia e impotenza col quale oggi il partitone s´avvia a una sconfitta annunciata contro il guerrigliero Nichi Vendola. «Uno che era finito sei mesi fa e noi siamo stati capaci di trasformare in Che Guevara» dicono i vecchi militanti. Soffiano mazzate di vento gelido sul lungomare di Bari e perfino quelle tirano per Vendola. Domenica la gente non andrà in gita e più gente va a votare le primarie, tanto più sale il vantaggio del governatore sullo sfidante. La domanda della gente pugliese non è se vincerà «Nichi o Boccia», dove già la scelta di nome o cognome segna una distanza. Piuttosto «di quanto vincerà Nichi». Se con il dieci, il venti o il trenta per cento. È raro in effetti assistere a una vigilia tanto univoca. Non solo nei sondaggi, per quel che valgono.
Ma nei discorsi, negli umori, nei segni sparsi per le strade. Almeno a Bari e dintorni, dove si gioca, cifre alla mano, la metà della partita. Basta confrontare la mestizia delle sedi del Pd con l´allegra sarabanda giovanile di Fabrica, il quartier generale di Vendola. Confrontare i muti e radi manifesti di Boccia con gli squillanti e felicemente populisti del Comandante Nichi, «Solo con(tro) tutti». Misurare con lo sguardo i luoghi della contesa. Mentre i dirigenti del partitone viaggiano per salette da convegno, sezioni desertiche e studi televisivi, Vendola attraversa bagni di folla e prenota per il gran finale di oggi Piazza Prefettura, roba da ventimila persone, che soltanto il Berlusconi dei tempi d´oro è riuscito a riempire con un comizio. L´altro giorno è arrivato finalmente a Bari il segretario Pier Luigi Bersani per sostenere la candidatura di Boccia e l´evento non è riuscito a colmare le trecento poltrone di una sala della Fiera. «Uno spettacolo avvilente e preoccupante» ammette il senatore dalemiano Nicola Latorre. «Non c´era uno della minoranza del partito. Tutti a sostenere l´Opa ostile di Vendola sul Pd». Lo sfascio del partitone in questa guerra insensata è del resto facilissimo da misurare. Nelle due ore trascorse a Fabrica ho assistito al pellegrinaggio di una decina di consiglieri comunali del Pd e all´arrivo di una comitiva di giovani di Molfetta decisa a organizzare una serata «pro Vendola». «Siete di Sinistra e Libertà?» «Macchè, siamo del Pd!».
«Per quale motivo, di preciso, avete deciso di suicidarvi?» ha risposto lo scrittore e senatore Pd Gianrico Carofiglio ai messi di Bersani e D´Alema che gli avevano chiesto se «almeno lui» se la sentisse di pronunciarsi per il candidato ufficiale. Dopo che decine di artisti, intellettuali, scienziati e premi Nobel, da Margherita Hack a Dario Fo, avevano aderito agli appelli di Vendola. Dalla parte di Boccia, a sorpresa, è arrivato un solo testimonial e piuttosto bizzarro: Franco Califano. Ma sì, il mitico. Sempre stato «nero». «Ma che te devo di´? Francesco è n´ amico. E poi ‘sto Vendola che fa la vittima m´ha veramente rotto li…». Così oggi Francesco Boccia, che sembra molto più solo contro tutti, si è consolato sfrecciando fra Foggia e Bisceglie su un´Alfa con al fianco "Er Califfo". «Alla faccia della sinistra da bere, meglio il Califfo» dice lo sfidante. «Prima o poi gli elettori capiranno che quella di Vendola è una truffa, retorica allo stato brado».
Prima di domani però pare difficile. Quanto all´altro califfo, Massimo D´Alema, ha deciso di rinviare la nomina romana al Copasir a martedì e di rimanere sulla barca del suo candidato fino all´ultima ora utile. Soltanto che la barca continua a prendere acqua e il ventennale califfato di D´Alema in Puglia rischia di chiudersi.
Chi l´ha fatto fare a D´Alema, a Bersani e al Pd tutto di ficcarsi nella trappolona pugliese? Alessandro Piva, regista barese che di «capagira» se ne intende, ha la sua teoria: «Vendola è un Berlusconi rosso e li ha fregati con lo stesso metodo che il Cavaliere usa da anni. E´ bravo a far la vittima, quello contro il sistema, quello che si è fatto da solo. E´ più moderno, è un comunicatore, si rivolge direttamente al popolo ed è capace di emozionare. Con lui gli avvisi di garanzia funzionano alla rovescia. È un combattente e ha dimostrato di avere nove vite come i gatti. È come Berlusconi».
Almeno un po´ deve essere vero, se il «Berlusconi rosso» non s´offende al paragone, sembra anzi quasi compiaciuto. Ma sugli errori degli ex compagni del Pci, Nichi Vendola ha anche un´altra spiegazione: «Hanno un rapporto nevrotico con la modernità e non hanno mai davvero chiuso i conti col passato. Ma di tutta la grande narrazione politica comunista, quelli come D´Alema e Bersani hanno conservato un solo tratto, il fascino supremo del comando. L´illusione di poter imporre alla base qualsiasi scelta, per quanto impopolare, in nome del fine superiore del partito. Soltanto che questo fine superiore non esiste più. E alla lunga, senza un´utopia, una trascendenza, la gente prima o poi si stufa di obbedire».
L´impressione è che il «poi» sia arrivato di colpo, oggi, qui, in Puglia. Dove il Pd di Bersani rischia di correre incontro a una crisi dura, non soltanto locale, ma nazionale. Per la tigna dalemiana, per incapacità di fiutare il vento, per il «rapporto nevrotico con la modernità», va´ a sapere. In ogni caso, a quarantotto ore dal voto delle primarie, perfino nel fronte fedele al candidato ufficiale, si discuteva soltanto di come rimediare alla sconfitta. Come rimettere insieme, da lunedì, i cocci di un´alleanza devastata dal palio delle sinistre. Michele Emiliano, il sindaco di Bari che appoggia Boccia, ma non perde mezza occasione di fare l´elogio di «Nichi», si ritaglia fin da subito il ruolo di grande mediatore per il dopo disastro: «Comunque vada a finire, le primarie del Pd hanno cancellato dalla scena politica il centrodestra e segnalato la ricchezza del centrosinistra agli elettori pugliesi. Boccia e Vendola sono due facce di una bella politica, destinate a collaborare da lunedì se il centrosinistra vuole davvero vincere. Ed è già troppo tardi. Perché se Francesco Boccia fosse stato in questi anni il vice presidente della Puglia e l´assessore al bilancio, come in molti avevamo suggerito a Nichi, oggi la Regione non avrebbe buchi, ma risorse da destinare allo sviluppo». Su una linea pragmatica è Alessandro Laterza, editore e presidente degli industriali pugliesi, che finora si è tenuto lontano dalla rissa: «Aspetto che finisca la disfida per tornare a parlare dei fatti. Per esempio dei tre miliardi di fondi europei che finora non siamo stati in grado di ottenere per la Puglia e che potrebbero cambiare la faccia all´economia della regione.
La sconfitta del Pd è annunciata, ma la catastrofe si può ancora evitare. Soprattutto se la vittoria di Vendola non sarà schiacciante, come dicono i sondaggi e il popolo del blog. Perchè altrimenti il vento si porta via tutti i personaggi. Magari al suono di una musica da circo, come nel finale di Otto e Mezzo di Fellini, che ieri mezza Bari bene è corsa ad applaudire al Petruzzelli, nella versione holliwodiana di «Nine». Per distrarsi col festival del cinema dal festival della politica, per sorridere alla fine di un´altra giornata amara.

Repubblica 23.1.10
Csm, radiato il giudice anti-crocifisso
La sanzione per il rifiuto di tenere udienza anche senza simboli religiosi in aula
Si astenne nelle aule dove era appesa la Croce. Ora, dice, farò ricorso
di Elsa Vinci

ROMA - Perde la toga il giudice anti-crocifisso. Luigi Tosti, il magistrato di Camerino noto per essersi rifiutato di tenere udienza nelle aule con il simbolo del Cristianesimo, è stato rimosso dall´ordine giudiziario. La durissima sanzione è stata inflitta dalla sezione disciplinare del Csm, che nel 2006 lo aveva già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Il giudice si era astenuto dal trattare 15 udienze tra il maggio e il luglio del 2005, comunicando il rifiuto con pochissimo anticipo. «Un atteggiamento mantenuto - ha sottolineato il procuratore generale della Cassazione - nonostante un´aula priva di simboli religiosi messa a disposizione dal presidente del tribunale». Per gli stessi fatti, un anno fa, la Suprema Corte aveva annullato una condanna a sette mesi per omissione di atti d´ufficio, ma solo perché il magistrato era stato sostituito e le udienze erano state regolarmente celebrate. Tosti, che davanti alla "disciplinare" si è difeso da solo, annuncia ricorso. In Cassazione e a Strasburgo.
«Non avevano scelta - ammette - o me o i crocifissi nelle aule di giustizia. Ne ho fatto un problema di carattere generale». E ricorda due sentenze di piazza Cavour, quella con cui la Corte giustificò il rifiuto di uno scrutatore di sedersi al seggio elettorale in cui era esposta la Croce, e il suo proscioglimento. Quando gli "ermellini" invitarono ad un «approfondimento».
È legittima l´esposizione del simbolo della cristianità nei luoghi pubblici? Offende la libertà di religione, viola il principio di laicità dello Stato? Nei tribunali il crocifisso è previsto da una circolare del 29 maggio 1926, firmata dal ministro Alfredo Rocco. Motivo di ripetute e recenti polemiche è stata la presenza della Croce nelle scuole pubbliche, voluta da due Regi Decreti del 1924 e del 1928. Il Consiglio di Stato ha deciso che va tenuta in cattedra «per la funzione simbolica altamente educativa a prescindere dalla religione degli alunni», ma lo scorso 3 novembre la Corte di Strasburgo ha imposto la rimozione nelle scuole italiane. Il governo ha già annunciato ricorso.
«Il Csm non è né la Corte Costituzionale né la Corte Europea. Non doveva risolvere e non ha risolto la questione della legittimità o meno di tenere il crocifisso in un´aula di giustizia - ha spiegato il vicepresidente del Csm Nicola Mancino - Tosti è stato giudicato per essersi rifiutato di celebrare udienza fino a quando in tutti i tribunali d´Italia non fosse stato rimosso il simbolo. Con l´intenzione di risolvere una questione di principio è venuto meno agli obblighi e ai doveri di magistrato».
Un giudice di lungo corso come Felice Casson non ritiene che il crocifisso infici il principio di laicità dello Stato. «E´ il magistrato - dice - che deve giudicare in maniera laica e garantire la Costituzione». Taglia corto il filosofo Massimo Cacciari: «Mi pare assurdo che uno si rifiuti di andare a lavorare».

Repubblica 23.1.10
Michele Ainis, costituzionalista a Roma: il ricorso gli darà ragione
"È una decisione gravissima in conflitto con la Cassazione"
di Vladimiro Polchi

ROMA - «È una decisione gravissima che apre, sotto traccia, un conflitto tra Csm e Cassazione». Michele Ainis, costituzionalista a Roma, difende il giudice Luigi Tosti.
Un conflitto, addirittura?
«Tosti era stato assolto dall´accusa d´omissione d´atti d´ufficio. Dunque la Cassazione gli aveva dato ragione sugli stessi profili che ora lo condannano davanti al Csm. Nei ricorsi, Tosti dovrebbe avere partita vinta».
La rimozione è dunque un errore?
«La giurisprudenza del Csm è spesso di difesa corporativa. Raramente usa il bastone. La sensazione è che si sia incattivita contro un giudice, perché isolato all´interno della stessa corporazione giudiziaria. E poi si tollera solo l´obiezione di coscienza per motivi religiosi, mai per motivi laici».

Liberazione 21.1.10
Luciano Canfora docente di filologia greca e latina all'università di Bari
1921, nasceva il Pcd'I Chi lo studia più oggi?
di Tonino Bucci

Ventun gennaio 1921, quel giorno nasceva, da una scissione, il Pci, anzi il Pcd'I. Un partito che oggi non c'è più. Non è per nulla facile parlarne, visto anche il perdurare di una damnatio memoriae cui hanno contribuito gli stessi ex dirigenti di quel partito, riluttanti ad ammettere il proprio passato comunista. Qualche tentativo, a vent'anni dalla Bolognina, c'è stato, i più recenti quelli di Lucio Magri con Il sarto di Ulm e di Guido Liguori, La morte del Pci . Forse un accenno ad andare oltre la memorialistica. O forse no. «Non sarei così ottimista. Il panorama non cambia», commenta Luciano Canfora, docente di filologia greca e latina all'università di Bari. «Siamo al livello di una nobile memorialistica, ma non c'è ancora un cambio di direzione. La storiografia sul Pci non esiste più, fatta eccezione per il volume di Martinelli in coda allo Spriano. Ognuno ha scelto la strada della salvazione individuale. Gli intellettuali che di quel partito erano considerati il nerbo, sono passati ad altre sponde, ad altri interessi».

Probabilmente si pensa che studiare la storia del Pci non serva a nulla perché si tratta di un'esperienza morta e sepolta. Non è così?
Da parte degli ex comunisti italiani è un alibi di comodo dire che, siccome è una storia finita, non vale la pena studiarla. Non si capirebbe allora perché si debba continuare a studiare il fascismo o le guerre puniche. L'argomento "è finito, ergo non ne parlo" non esiste. E' un alibi della coscienza. Forse nasconde il timore che parlando del Pci si possa apparire ancora legati a quella storia. Gli ex comunisti non vogliono che si pensi a loro come a dei nostalgici. Questo è il vero motivo, non perché l'esperienza del Pci è storicamente finita. Dover ammettere che la storia dei comunisti in questo paese ha un ampio residuo positivo, significherebbe per questi signori apparire dei nostalgici.

Un altro stereotipo è quello del Pci partito "istituzionale" e "moderato". Ma come, un partito che ragionò sull'egemonia, sul blocco storico, radicato nella società e artefice di una pedagogia popolare di massa, può essere etichettato "moderato"?
Sparare sul Pci andava di moda quando ci si poteva ancora permettere di ballare sulla tolda del Titanic. Quando si pensava che "papà" Pci sarebbe vissuto in eterno e sarebbe stato sempre forte. Poi si è scoperto che eterno non era e neppure fortissimo. Oggi che non c'è più stanno tutti a piangerne la scomparsa.

Alla Bolognina si diceva che il Pci andava sciolto perché ormai la crisi dell'Urss era irreversibile. Ma, oltre che della Rivoluzione d'Ottobre il Pci non è anche figlio della situazione specifica italiana, delle occupazioni delle fabbriche del '19-'20? è stato solo un riflesso della rivoluzione d'ottobre oppure è stato anche un prodotto specifico della situazione italiana?
Il PcdI è nato perché c'è stata la rivoluzione d'Ottobre, ovvio. La nascita di questo partito è stata molto controversa, molto sofferta, tanto che poco dopo la sua nascita Lenin spinse alla riunificazione con i socialisti - cosa che il gruppo dirigente d'allora, Bordiga in testa, respinse con forza. Lenin capì meglio degli italiani come dopo la Marcia su Roma fosse paradossale fare a pezzi la sinistra. La scissione del '21 è un fatto strettamente connesso alle dinamiche internazionali, al 1917, alla diffusione della rivoluzione in Germania e in Ungheria. La nascita del Pcd'I si lega a una crisi epocale. Il 1917 precede tutti i fatti nominati, viene prima delle occupazioni delle fabbriche e spiega tutto. La Rivoluzione russa è il figlio più importante della Prima guerra mondiale, è la risposta al conflitto. Gli sviluppi successivi sono una conseguenza di quella grande rottura. Poi, naturalmente, la storia del Pci prenderà una sua piega originale. Il partito di Togliatti sarà un "partito nuovo" nel vero senso della parola, un partito di massa e non più di sola avanguardia, impegnato a scrivere la Costituzione con gli altri e che si propone le riforme di struttura. Anche i giacobini italiani nascono sull'onda del '93 francese, però dopo imboccano una loro storia autonoma, persino conflittuale con la Francia. Peccato che non ci sono più storici a sinistra.

Nei "Quaderni" di Gramsci il Pci ha trovato un'analisi formidabile della storia nazionale: il Risorgimento mancato, la passività secolare delle masse, l'arretratezza culturale della borghesia nazionale, il fascismo. Eppure, oggi tutte le patologie di antica data della società italiana sembrano riemergere. Tutta fatica sprecata?
Nulla è definitivo nella storia. I partiti hanno svolto un'opera di educazione come mai forse è accaduto nella nostra storia. Oggi i partiti sono finiti, è subentrata una politica di tipo americana, carismatica, mediatica. La società si è trasformata, è diventata una società di ceti medi. La classe operaia è in estinzione numerica. Verranno fuori contraddizioni nuove che per ora non possiamo prevedere. Per esempio, lo sfruttamento del lavoro intellettuale e forme di schiavitù dei lavoratori immigrati. Per ora è la Lega che incamera il voto proletario di tipo razzista. Siamo alla guerra tra poveri.

venerdì 22 gennaio 2010

Repubblica Roma 21.1.10
Parla Diego Bianchi. Oltre 14 mila contatti in quattro giorni per l´ultima video-storia dedicata alla candidata
"Emma? Un monumento" il blogger Zoro dà la carica al Pd
"E Giggi (Bersani) deve festeggiarla come deve: farsi una canna col suo solito sigaro"
di Simona Casalini

In quattro giorni è stato cliccato da quasi quattordicimila aficionados, mai visti tutti insieme nelle sezioni Pd. Erano in tanti in questi giorni, nel centrosinistra romano ma non solo, a chiedersi "E Zoro? Che dice della Bonino?". Lui, alla fine, nella sua video-storia amatoriale che solletica anche "Parla con me" della Dandini, ha esternato: ciak, Bonina la prima... e via affabulando nel tifare Emma. Diego Bianchi, quarantenne di San Giovanni col suo videoblog "Tolleranza Zoro" da quasi sei anni è il grillo parlante del Pd. Traccia la linea dei più scapigliati. E nell´ultimo video, che ora è quello che conta, promuove in pieno la candidata radicale, anzi, di più, invita "Giggi", il segretario Bersani, a festeggiarla come del caso, a farsi una canna col sigaro sempre spento.
Allora tutto bene, si va dritto: ciak, Bonino la prima...
«Beh, sì. Dopo tanto tempo, ho avuto subito la sensazione della botta di fortuna. E anche se perdo, sarò più contento delle ultime volte che ho comunque perso. Ma non è detto che ci dica sfiga ancora, non sono pessimista a priori»
Radicali e Pd. Nel video incespica sui punti di contatto...
«C´è da sempre amore-odio, ma la Bonino riporta il partito su battaglie laicità dove il partito, diciamo così, ha vacillato. Mal di pancia interni? Quelli dell´ex Pci che si sentono male? Mi pare poca roba. E se uno del Pd ha votato Rutelli anche se aveva altre idee, ora si può turare meno il naso»
Gira voce che la candidatura della Polverini potrebbe saltare, non piace troppo a Berlusconi
«Ecco, parliamo della Polverini. Ci mettiamo poco ad esaltare gli avversari e ancora meno a deprimerci dei nostri. Sembrava una specie di wonder women, donna, battagliera, un fenomeno... Ma sono stati loro stessi a sgonfiarla. Diciamolo, no? E´ una sindacalista che ha più bandiere che iscritti. La Bonino invece è un monumento, non c´è confronto. E poi, sì, sulla Polverini ci sono dissidi interni. Beh, quando siamo divisi noi, è sempre un casino, ma ‘na volta che sono divisi loro, io dico: godiamocela e approfittiamone. Insomma, giochiamocela»
C´è sempre il rebus Udc, lei sui "casini di Casini" ci scherza su
«Ma nel Lazio mi pare che, grazie alla Bonino, l´abbraccio con noi sia scampato. Che sia per le idee di Emma o per una compensazione delle altre regioni, manco lo so. Ma voterò più rilassato».
E i cattolici del Pd? Voteranno Bonino?
«Se ci credono davvero a ‘sto partito strano fatto di tante anime, facciano anche loro uno sforzo di maturità. Noi Prodi e Rutelli li abbiamo votati, no? E allora... un po´ di disciplina»
Come convincerebbe una mini Binetti romana?
«Con le parole della Bonino: gli scontenti sono i bigotti»
Cosa dice a Emma?
«Dajè»
E alla Polverini?
«Che se la deve suda´ più di quanto previsto»
E a suoi del Pd?
«Che non sempre il c. ci assiste, diamoci da fare».


il Riformista 22.1.10
l Pd e i cattolici
La Bonino Opportunità o problema?
La Bonino è forte ma pure problematica Il rischio è la guerra aperta con la Chiesa
di Peppino Caldarola


Non sarà una passeggiata la corsa di Emma Bonino per diventare presidente della Regione Lazio. Un Pd sfinito ha accolto la candidatura della leader radicale quasi come una liberazione da un impaccio terribile. Già lo scandalo Marrazzo aveva ridotto le possibilità di competere per la riconferma di una personalità di sinistra alla guida della regione, poi c’è stato tutto lo psicodramma del candidato introvabile. Lo scontro fra le correnti aveva azzoppato tutti i (e le) pretendenti e il buon Nicola Zingaretti ha pensato bene di sottrarsi a questo gioco al massacro. Di qui lo sbocco Bonino. L’ex ministra si è autocandidata e il Pd gli ha detto di sì scontando un forte dissenso interno, che ha portato alla fuoriuscita di Carra e Lusetti e al mugugno di cattolici come Castagnetti. Non solo Vendola a Bari, ma anche Bonino a Roma è protagonista della più minacciosa Opa lanciata sul partito leader della coalizione di centro-sinistra. Molti, anche noi, all’inizio hanno festeggiato lo scontro fra due donne nel Lazio. Polverini e Bonino si sono presentate come due novità nei reciproci schieramenti. Poi si è scoperto che sulla Polverini è iniziato il fuoco amico degli anti-finiani, e del “Giornale” in prima fila, è emerso il mal di pancia di Berlusconi sull’alleanza con Casini, la minaccia all’immagine della segretaria dell’Ugl dopo lo scandalo del tesseramento gonfiato.
il testo dell’articolo prosegue qui

Repubblica 22.1.10
L'annuncio di Letta dopo lo stop di Strasburgo al simbolo nelle scuole. La soddisfazione della Cei
Crocifisso, ricorso contro la Ue "Cancellate quella sentenza"
di Elsa Vinci

ROMA - Crocifisso, pronto il ricorso contro Strasburgo. Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio e gentiluomo di Sua Santità, mantiene la promessa fatta al Papa. Il governo impugna la sentenza della Corte europea che ha imposto la rimozione della croce nelle aule scolastiche italiane, perché lesiva «della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni e della libertà di religione degli alunni». L´annuncio di Letta arriva durante una conferenza all´ambasciata italiana presso la Santa Sede. «Abbiamo fiducia - dice Letta - che la Corte dei diritti umani ripari a quello che consideriamo un grave torto alla cultura prima ancora che al diritto, allo spirito prima che al sentimento religioso». Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha lodato l´iniziativa. «La sentenza va contro l´oggettività storica dell´Europa e contro il sentire popolare della gente - ribadisce il cardinale - si deve auspicare che la Corte possa riequilibrare il suo pronunciamento nel rispetto di questa verità storica e del sentire delle persone».
Il caso era stato sollevato da una cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi, socia dell´Unione atei e agnostici razionalisti che, nel 2002, aveva chiesto all´istituto statale "Vittorino da Feltre" di Abano Terme, frequentato dai suoi due figli, di togliere la croce dalle aule. Il ministero dell´Istruzione rispose che il crocifisso era previsto da due Regi Decreti del 1924 e del 1928. La donna non si arrese e la battaglia proseguì davanti ai giudici. Prima di arrivare a Strasburgo la disputa è passata per il Tar del Veneto, per il Consiglio di Stato e la Consulta. Infine i sette componenti della Corte europea hanno sentenziato che la presenza dei crocifissi nelle aule può facilmente essere interpretata dai ragazzi di ogni età come un «evidente segno religioso» e disturbare quelli di altre religioni o gli atei. Stasburgo ha condannato l´Italia a risarcire con cinquemila euro la Lautsi.
Il ricorso è stato preparato ieri alla Farnesina. Letta è ottimista sull´esito del documento che sarà esaminato dalla Grande Camera della Corte europea. «Abbiamo fiducia perché per l´Italia è stato facile sollecitare la partecipazione di molti altri paesi dell´Ue, che stanno venendo sempre più numerosi a sostegno della nostra azione».
Intanto oggi al Csm arriva il caso del giudice Tosi, sospeso dal lavoro per il rifiuto del crocifisso nelle aule di tribunale.

Repubblica 22.1.10
L’anno orribile dell'Italia raccontato da Bocca
di Filippo Ceccarelli

"Sono anni che ci chiediamo se il fascismo tornerà Tranquilli... un po´ è già qui tra noi"
Un finale quasi elegiaco che lascia senza fiato e che sembra riscattare tutte le brutture
Nel suo nuovo libro un ritratto appassionato e amaro del nostro Paese e della vita
Uno sguardo sconsolato sulla modernità fraudolenta e servile

Quanta passione, ma quanta amarezza nell´ultimo libro di Giorgio Bocca! Se non fosse per i lampi di cattivo umore che di punto in bianco rischiarano la pagina, se non fosse per le zampate affibbiate in modo da sorprendere anche il lettore più scettico e smagato, o per quella specie di crudeltà colloquiale, «Sono anni ormai che ci chiediamo se il fascismo ritornerà, ma tranquilli amici, un po´ è già tornato...», si direbbe un libro sconsolatissimo, e niente più. Sull´Italia, com´è diventata, sulla modernità, sulla stessa vita, in fondo. E basti pensare a quei poveracci dell´Aquila, «sprovvisti di pass» nei giorni della grande festa dei potenti del G8. Bocca ci chiude un capitolo, e l´immagine resta lì sospesa.
E sì: Annus horribilis (Feltrinelli, pagg. 159, euro 15), ma il guaio supplementare è che il 2010 appena iniziato non è che butti poi molto meglio. Questo fascismo perenne e strisciante, tutto nostro, che oltrepassa le categorie della storia e della politica. Il piacere di servire «stampato addosso» ai portavoce dei potenti che si vedono all´ora del telegiornale, un marchio che si riflette «nei gesti, nello sguardo, nella voce». Il gusto, pure così italiano, di «accompagnare la fortuna» saltando sul carro del vincitore. Antiche maledizioni: Franza o Spagna pur che se magna. Nuovi consigli: sposatevi un miliardario. Seguono puntuali risatine.
Scrive Bocca, con misurato sgomento: «Abbiamo poco da stare allegri». Autoritarismo anarcoide. Retorica populista. Frenesia del comando «faso tuto mi» destinata a risolversi nell´inganno spettacolare, nella frode morale. Italia «mignottificio», «generale esibizione di gaglioffaggine», il «gigantesco swahili» che si parla sull´onda della televisione. Pure i nazisti si rifanno vivi, con le teste pelate, e i coltelli nei vicoli di Roma, violenza arcaica e tecnologia sfuggita di mano.
Berlusconi e Mussolini, per forza. I cinegiornali della bonifica delle paludi pontine e la vittoria del Cavaliere sull´immondizia a Napoli. Il melodramma e il Bagaglino. A un certo punto c´è una rivelazione piuttosto impegnativa dal punto di vista autobiografico, se non esistenziale. È piazzata circa a metà testo, dopo la descrizione di un quadretto vivente che in realtà dovrebbe essere la «foto scolastica» di chiusura del congresso fondativo del Pdl, con Berlusconi attorniato dai «nuovi gerarchi e gerarchetti», i ministri, e dalle ministre, «le gallinelle del padrone», tutti «con la faccina protesa verso il capo». Tra qualche istante – sembra di ricordare – intoneranno Fratelli d´Italia. E allora, conclude Bocca, questi «sono i giorni peggiori della nostra vita, quelli per cui possiamo mestamente pensare di averla vissuta invano».
E qui si metterebbe punto. Perché se «uomo di lunga vita», come si definisce lui; se un giornalista che ne ha viste tante arriva a tali apocalittiche conclusioni, è addirittura la speranza che se ne va alla malora. Sennonché, assegnato ai libri c´è anche il prezioso compito di commutare il male in bene, o se si preferisce di trasfigurare le peggiori disgrazie di un paese in una utile lettura, con il che accade che proprio da questo sconforto, da questa desolazione, da questa orribile annata vengano fuori dei gioielli di espressività giornalistica di cui, pur nel cupo combinarsi di sdegno e pessimismo, si rende grazie all´autore.
Sono immagini che paiono generate da stati d´animo viscerali, bozzetti venuti giù chiaramente di getto, considerazioni di varia natura per lo più atterrite o infastidite su una società, ad esempio, come «uno sciame di calabroni avidi». Il catalogo delle tristezze e delle idiosincrasie è ampio. I comici «da strapazzo che non fanno ridere neppure per sbaglio, neppure i carcerati di San Vittore, neppure i barboni del Giambellino». Il vuoto della piazza dopo il bagno di folla del demagogo. L´elogio della paura, «ma non per capriccio, per delle buonissime ragioni, a cominciare da quella fregatura delle fregature della creazione che è la morte».
Ancora. La metamorfosi delle scarpette da fondo «a forma di sommergibili atomici». Il «crampo» del lusso avvertito nella solitudine di una stanza d´albergo sulla costiera amalfitana. Gli applausi ai funerali. La rappresentazione dei covi dei camorristi, «arredati con gusto di adolescenti, il frigorifero, la televisione, l´immagine di Padre Pio, il passaggio sotterraneo di fuga». La tortura, infine, che tocca in sorte a chi scrive: «Al minimo errore il foglio strappato, un senso d´impotenza, il gusto giallo della sigaretta in bocca».
Racconta Bocca di un impiegato di banca, devoto ammiratore dei suoi libri, che gli fece fare degli investimenti poi rivelatisi un bidone. Perché anche l´economia infatti va a ramengo, i finanzieri rubano a man bassa, la pubblicità si mangia tutto, gli operai invidiano Berlusconi, perfino «i fabbricanti di pesto sostituiscono il basilico, che annerisce, con erbacce che conservano il verde in cui spargono profumo sintetico». E tuttavia, immersi nella dittatura morbida e nella democrazia autoritaria, posti di fronte a questo disfacimento che suona quasi pasoliniano, ci sono colleghi giornalisti che a suo tempo Giorgio Bocca hanno scelto come un ruvido maestro a distanza, che si portano dentro tanti suoi articoli, che considerano Il provinciale un meraviglioso romanzo e il Togliatti come un ineguagliabile modello di biografia politica, ecco, per loro la diagnosi del maestro stavolta suona come al solito autentica ed efficace, ma al tempo stesso è durissima da accettare.
Così alla fine ci si sorprende a cercare invano raggi di sole, ad almanaccare uscite di sicurezza che non ci sono. Ci sono invece due pagine e mezzo, le ultime, che tolgono il fiato per quanto sono belle, e si leggono come un´elegia a qualcosa che è quasi impossibile da designare perché troppe cose comprendono, in un unico capoverso. Gli estremi assoluti della vita, «l´immortalità divina», «la fragilità senza scampo», il bosco, le favole, la paura, il buio dei bambini, dei soldati, dei nemici. E allora sembra che la grazia della scrittura riscatti tutto il resto, l´annus horribilis e l´amarezza appassionata che lo alimenta.

Repubblica 22.1.10
L’Austria offre Croce d´onore per l´impegno a Boris Pahor

TRIESTE - L´Austria offre al novantesettenne scrittore triestino Boris Pahor, autore di Necropoli, la Gran Croce d´onore per la scienza e l´arte, in considerazione della sua opera e del suo impegno antifascista.
A consegnare l´onoreficenza sarà il Presidente della Repubblica austriaca Heinz Fischer, durante una cerimonia che si terrà a Vienna all´inizio di febbraio.
Lo scrittore italiano di lingua slovena, già candidato al Nobel, nelle settimane scorse era stato al centro di polemiche per avere rifiutato la benemerenza assegnatagli dal Comune di Trieste perché non conteneva, nella motivazione, alcun riferimento al regime fascista, ma solo a quello nazista, per l´internamento nel lager di Natzweiler-Struthof.

Repubblica 22.1.10
"Si poteva dire no" i cinquanta fascisti che salvarono gli ebrei
La Rai nel "Giorno della Memoria"
di Silvia Fumarola

Col documentario presentato anche il film di Negrin "Mi ricordo di Anna Frank"

L´abisso della crudeltà e il coraggio di chi non voltò la testa: la Rai celebra la Giornata della Memoria, mercoledì su RaiUno, con il film di Alberto Negrin Mi ricordo di Anna Frank e il documentario 50 Italiani di Flaminia Lubin, sulle storie di diplomatici, militari e gerarchi che salvarono migliaia di ebrei dai campi di concentramento. «Il ruolo della tv è essenziale per la Giornata della Memoria. Un grande impegno che pone problemi: come si può mantenere viva la memoria facendo in modo che l´inondazione di immagini, messaggi e parole non si riduca a una banalizzazione?», si chiede il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ospite alle anteprime alla Settimana della Fiction Rai a New York, con il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici e il presidente della Rai, Paolo Garimberti. «Eichmann, che è un genio del male - spiega Di Segni - sa che quando il numero delle vittime supera le centinaia diventa statistica e perde l´aspetto umano. Per questo il caso di Anna Frank è stato importante perché l´enormità del male è visto attraverso la storia di una singola persona, un´unica vittima simbolica». Nel film di Alberto Negrin prodotto da Fulvio Lucisano, interpretato dalla tredicenne Rosabell Laurenti Sellers, con Emilio Solfrizzi nel ruolo di Otto Frank, il padre di Anna, e Moni Ovadia in quello del Rabbino, spicca la figura Miep Gies (Bakonyi Csilla), la donna che nascose la famiglia Frank e salvò il diario di Anna, morta la scorsa settimana a 100 anni. La storia è ispirata al libro di Alison Leslie Gold basato sulla commovente testimonianza di Hanneli Goslar, la grande amica di Anna. «Rappresentare lo sterminio è impossibile - spiega Negrin - si possono restituire solo i sentimenti. Nella storia di Anna contano le domande. Quelle dei bambini: "Perché tanta cattiveria?", e l´interrogativo del rabbino al comandante del campo: "Dov´è finita la tua coscienza?"».
Il documentario 50 Italiani prodotto da Francesco Pamphili racconta invece come esponenti di spicco del regime fascista, militari e diplomatici (fra cui il console Guelfo Zamboni, il commissario Guido Lo Spinoso e il sottosegretario al ministero degli Esteri, Giuseppe Bastianini), salvarono oltre 50 mila ebrei nei Balcani e a Salonicco, sottraendoli alle deportazioni con ogni mezzo, producendo documenti falsi come il "permesso di cittadinanza provvisorio". «50 Italiani fa capire che si poteva disobbedire agli ordini - osserva il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici - Far vedere uomini che hanno agito secondo coscienza smentisce quella che è stata la litania al processo di Norimberga: "Dovevamo eseguire gli ordini"».

Repubblica 22.1.10
E l´attore presenta "Binario 21" uno spettacolo dal poema di Yitzhak Katzenelson che ora è diventato libro +dvd
Ovadia: urlo di dolore, dai lager a Rosarno
di Anna Bandettini

ROMA, «È un poemetto in 17 canti che per lucidità, rabbia, disperazione non è paragonabile a nessun altro. È un urlo che incarna la tragedia vissuta dagli ebrei nel suo svolgersi, senza infingimenti. E senza speranza. È una cosa che squassa l´anima. Un grido di dolore che oggi è contro tutti i genocidi. Da Auschwitz a Rosarno». Moni Ovadia torna a parlare di Olocausto: inevitabile per chi come lui, ebreo sefardita, ha nei confronti delle proprie radici e della propria storia un sentire particolare, la conoscenza e l´emozione giusti per capirla, per farne un monito contro i razzismi di oggi.
Lo fa con l´oratorio Binario 21. Il canto del popolo ebraico massacrato, tratto dall´omonimo poema di Yitzhak Katzenelson, che ora ha trasformato (per la Promomusic) in un libro e un dvd molto speciale perché vi si vedrà la registrazione, a firma di Felice Cappa, dello spettacolo in un luogo simbolo come il binario 21, il luogo della Stazione Centrale di Milano dove gli ebrei italiani partivano per essere deportati nei lager e dove il 26 gennaio, vigilia della Giornata della Memoria, verrà posta la prima pietra del Memoriale della Shoa. Non solo: lo spettacolo è stato registrato davanti a una sola spettatrice, Liliana Segre, «testimone unica - spiega l´attore - perché Liliana è una donna che ha attraversato quell´inferno», spiega.
E "quell´inferno" in Binario 21 è descritto in un oratorio duro e senza redenzione, carico di rabbia, pieno di dolore. Katzenelson, che era stato un intellettuale socialista, vivace animatore della vita culturale polacca, lo maturò proprio durante la Resistenza nel ghetto di Varsavia, dove perse moglie e figli. «Fu fatto fuggire proprio per raccontare al mondo la vita lì dentro, cosa vi succedeva. Scrisse in Francia questo poema, unico perché è la voce di un testimone simultaneo della tragedia. Quando fu poi arrestato, si dice, che prima di morire ad Auschwitz, seppellì il suo poema nei pressi di un albero. È l´ultimo Giobbe della storia dell´umanità», dice Ovadia.
«Questo oratorio per me è un monito: voglio farmi testimone per far sì che il giorno della Memoria non diventi il giorno della falsa coscienza, di chi visita Auschwitz e poi deporta gli africani. L´Olocausto riguardò milioni di slavi, rom, sinti oltre che di ebrei. Guai a togliere alla Shoa il suo valore universale. Io voglio cantare la grande battaglia che toccò agli ebrei per tutti quelli che subiscono altri genocidi, per quanti ancora oggi sopportano la malapianta dell´intolleranza. Da Auschwitz a Rosarno».

giovedì 21 gennaio 2010

Repubblica 21.1.10
Intervista con Massimo Recalcati
Così l’uomo ha perso l’inconscio
di Luciana Sica

Intervista con Massimo Recalcati autore di un libro provocatorio: "La nostra epoca minaccia l´intimità del soggetto. L´eccesso di stimolazioni uccide il desiderio"
"Assistiamo a una metamorfosi inquietante che ci impone il godimento"
"Quel ‘luogo´ non è un dato di natura: dobbiamo farlo esistere anche rischiando"

Un requiem per l´inconscio. È quello che intona Massimo Recalcati in un libro sorprendente, originalissimo, decisamente provocatorio. Cinquantenne fascinoso, si sente a suo agio nel ruolo di battitore libero: è un antiaccademico ma insegna all´università di Pavia, è un analista lacaniano ma assolutamente leggibile (quasi un ossimoro). Tutti i suoi saggi vantano questa cifra rarissima: argomenti solidi e mai scontati, nessun collage di citazioni roboanti e noiosissime, scrittura brillante e tutt´altro che banale. Ora questo suo nuovo libro, in uscita da Cortina, lo celebra come testa pensante della psicoanalisi contemporanea: L´uomo senza inconscio, si chiama titolo folgorante, di per sé destinato a far discutere (pagg. 336, euro 26).
«A mio giudizio, è un grave errore non contemplare la possibilità disastrosa che il soggetto dell´inconscio possa declinare, eclissarsi, persino estinguersi», si legge nelle primissime righe. In questa nuova mutazione antropologica c´è aria da thriller, e allora viene voglia di parlarne con l´autore, nel suo studio all´ultimo piano di un palazzo al centro di Milano.
Professore, chi è il killer dell´inconscio?
«È il nostro tempo che minaccia l´intimità più radicale e scabrosa del soggetto: è l´epoca dei turboconsumatori, dell´inebetimento maniacale, della gadgettizzazione della vita, della burocrazia robotizzata, del culto narcisistico dell´Io, dell´estasi della prestazione, della spinta compulsiva al godimento immediato come nuovo comandamento assoluto. L´inconscio è invece il luogo della verità, del desiderio più particolare, impossibile da redimere e da adattare "dal carattere indistruttibile", per dirla con Freud. Non è però un dato di natura, qualcosa che esiste in quanto tale, come un´espressione ontologica della realtà umana immune dalle trasformazioni sociali».
L´inconscio ha una sua valenza etica, lei dice con Lacan.
«Sì, è qualcosa che dobbiamo assumere, far esistere. Esige rigore, perseveranza, ma anche disponibilità a perdersi, a incontrare il caos, l´imprevisto. Soprattutto la capacità di esporsi al rischio della solitudine e del conflitto... Per la psicoanalisi è proprio questo l´infelicità: è tradire il programma inconscio del desiderio, quando non è solo mascherato ma soppresso da un funzionamento dell´Io che si modella unicamente sulle attese degli altri».
Perché la Civiltà ipermoderna è così antagonista a quello che lei definisce "il soggetto dell´inconscio"?
«Perché, come si esprimeva Heidegger riprendendo Nietzsche, "il deserto cresce" e il mondo si riduce a mero calcolabile. È il trionfo della misura a sostituire la questione della verità contrastando l´esperienza dell´incommensurabile. Il nostro tempo è sordo al tempo "lungo" del pensiero, maniacalizza l´esistenza con un eccesso di stimolazioni e oggetti di consumo, cancella la spinta singolare del desiderio in nome di un iperedonismo ben integrato al sistema, dell´affermazione entusiasta e disincantata dell´homo felix».
Scompare il vecchio Super-io, col suo carico insopportabile di sensi colpa, e quel che conta è l´imperativo al godimento illimitato. Si può dire così?
«Non proprio. Più che a un´abrogazione del Super-io sociale freudiano di tipo kantiano, oggi assistiamo a una metamorfosi inquietante nel senso che il comandamento sociale prevalente non impone la rinuncia al piacere immediato, in nome dell´inclusione nella morale civile, ma al contrario impone il godimento come forma inaudita del dover essere, come obbligazione. Sullo sfondo c´è quello che, già alla fine degli anni Sessanta, Lacan definiva l´evaporazione del Padre, inteso come principio fondativo della famiglia e del corpo sociale. Senza l´ombrello protettivo del Padre, l´insicurezza emerge senza più schermi difensivi: la vita va alla deriva, caotica, spaesata, priva di punti di riferimento, destabilizzata, smarrita, vulnerabile».
Devi godere! è questo il nuovo imperativo categorico?
«Sì, ma il godimento si dissocia, si sgancia dal desiderio e si afferma come volontà tirannica in una dissipazione sadiana, nociva, maledetta. Èuna sregolazione dove non c´è nessuno scambio con l´Altro non c´è Eros, che in psicoanalisi rappresenta il legame fondamentale tra gli esseri umani. Qui prevale Thanatos, una pulsione nel segno dell´autoaggressione e della potenza oscura della ripetizione che appunto attenta la vita, la porta alla distruzione e solleva lo scandalo della tendenza degli esseri umani a perseguire il proprio Male».
Leggendo le sue pagine, non c´è però soltanto quello che lei definisce lo strapotere dell´Es. C´è anche una soppressione conformistica del desiderio, l´aderenza assoluta del soggetto alla maschera sociale. Ma davvero potrà esserci un Io senza inconscio?
«Molte forme che oggi assume la sofferenza hanno interrotto ogni contatto con l´inconscio. La nostra non è solo la società dei legami liquidi, come dice Bauman, dello sbriciolamento dei legami sociali, dell´assenza dei confini simbolici che facevano da bussola nei percorsi della vita. La nostra è anche l´epoca delle identificazioni solide, dell´eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformista. Il soggetto non mostra alcun desiderio, si ancora al mondo esterno fino a perdere ogni contatto con se stesso, si annulla attraverso il rafforzamento narcisistico. Al posto del conflitto freudiano tra principio di piacere e principio di realtà s´impone un culto sociale che incalza la soggettività come un inedito dover essere».
È l´estasi della prestazione, un´immagine di segno mistico. Sembra un paradosso.
«Solo all´apparenza. Perché nel rafforzamento della volontà e dell´efficacia pratica, la prestazione si declina essenzialmente come un principio di godimento e non come un principio morale di sacrificio del godimento. È l´uomo della burocrazia anonima che prende il posto dell´uomo freudiano».
"Figure della nuova clinica psicoanalitica" è il sottotitolo del suo nuovo libro. Disordini alimentari, dipendenze dalle sostanze, depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni: sono tutte patologie che confermano la progressiva abrogazione dell´inconscio?
«Sì, vanno in questa direzione e rappresentano il tratto decisivo del totalitarismo ipermoderno. Io ne parlo come di una clinica dell´antiamore, utilizzando il riferimento alla psicosi piuttosto che alla nevrosi. È infatti la difesa dall´angoscia, la vera chiave di lettura del disagio contemporaneo».
Clinica dell´antiamore, bella espressione: che vuol dire?
«Nella varietà delle sue forme nevrotiche, la clinica è essenzialmente legata alle vicissitudini sentimentali. Per le donne è la ricerca dell´uomo che può farle sentire uniche, per gli uomini è l´eterno conflitto tra possederle tutte o averne una sola due fantasmi inconciliabili, com´è evidente. La nevrosi è malattia dell´amore, paura della perdita, tradimento, gelosia... Oggi però prevale il problema di trovare dei rimedi all´angoscia di esistere, e qui la nostra cura può dare prove della sua forza».
Missione possibile, ne è proprio certo?
«Solo se è chiara la posta in gioco. Per non essere ridotta a una superstizione arcaica, la psicoanalisi ha l´obbligo di ritrovare pienamente la ragione che fonda la sua pratica, diventando uno dei luoghi di resistenza a una mutazione devastante e però non ancora del tutto compiuta. Oggi il suo compito etico è quello di promuovere la singolarità irriducibile degli esseri umani contro quelle cure egemoni chi si limitano ad "aggiustarli"».

Freud e la cultura contemporanea
ROMA "Freud, ancora e sempre. Che cosa la cultura di oggi deve al padre della psicoanalisi". È il titolo di un incontro, domani a Roma, a settant´anni dalla morte di Freud (23 settembre del ´39). Ne parlano Simona Argentieri, Stefano Bolognini, Renata Colorni e Alberto Oliverio (coordina Anna Oliverio Ferraris). L´appuntamento organizzato dalla Bollati Boringhieri è alle tre del pomeriggio presso la facoltà di Psicologia in via dei Marsi, 78 (terzo piano, aula 13).

il Fatto 21.1.10
Marx 2.0: il ritorno
di Stefano Feltri

U na volta può essere una bizzarria, due una coincidenza, ma tre episodi
fanno una prova: Karl Marx è tornato a fornire un’interpretazione della finanza dopo l’autodafé delle opere ultraliberiste di Alan Greenspan e Milton Friedman. Prima il libro di Vladimiro Giacché, partner del fondo Sator di Matteo Arpe, “Il capitalismo e la crisi” (Derive e approdi editore): una selezione di scritti marxiani preceduta da una lunga introduzione che spiega come – marxianamente – la crisi non sia un incidente di percorso del capitalismo, ma un suo elemento imprescindibile che serve a risolvere gli squilibri dovuti a un accumulo di eccesso di capacità produttiva, all’eccesso strutturale di credito e al doppio ruolo delle merci (valore d’uso-valore di scambio). Poi esce lo studio di una serissima banca d’affari francese come Natixis che propone “A Marxist interpretation of the crisis”. Sulla base dell’andamento dell’economia reale e soprattutto dell’economia monetaria, questo studio appena uscito arriva alla conclusione che è plausibile proporre un’analisi marxiana (o almeno marxista) di quello che è successo: tutto comincia con un eccesso di accumulazione di capitali, continua con un boom della speculazione accompagnato dalla compressione degli stipendi dei lavoratori e finisce in una crisi finanziaria: “L’euforia dei business leader porta a un eccesso di accumulazione di capitale che a sua volta determina un declino del saggio di profitto se le compagnie non reagiscono comprimendo i salari e quindi una riduzione dei consumi” che trasferisce la crisi all’economia reale. Terza prova del ritorno di Marx: il Sole 24 Ore inizia a pubblicare in allegato al giornale i grandi classici dell’economia. Si comincia con Adam Smith e David Ricardo ma presto si arriverà a Marx in tre volumi. Vedremo chi venderà di più tra il teorico degli animal spirits e il barbuto filosofo di Treviri.

il Fatto 21.1.10
Costituzione, diritti e libertà
di Lorenza Carlassare

La Costituzione non soltanto tutela la persona dagli arresti arbitrari e da ogni altro intervento limitativo, ma le assicura anche una sfera libera intorno: nei luoghi in cui dimora (art. 14), nelle relazioni con gli altri (art. 15), nei movimenti (art. 16). L’art. 14 proclama “Il domicilio è inviolabile“, vietando “ispezioni perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi previsti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la libertà personale” . La garanzia è la stessa assicurata dall’art. 13 per la libertà personale: le limitazioni sono consentite soltanto se previste da un atto legislativo del Parlamento (e non da un atto normativo del governo) e disposte con atto motivato di un magistrato (non di un’autorità amministrativa o di polizia). Lo schema di tutela delle libertà è costante: “Riserva di legge” e “riserva di giurisdizione”; qui però subisce un’attenuazione in nome di un interesse pubblico preminente: “Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica, o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali” (comma 3). L’importante è che non se ne abusi a fini repressivi (penso alle norme che consentono perquisizioni per “blocchi” di edifici, davvero discutibili); l’art. 14 è in qualche modo un allargamento della libertà personale alla sfera più prossima alla persona, inviolabile al pari di questa. La tutela non riguarda solo l’abitazione, ma comprende i luoghi in cui la persona dimora o svolge la sua attività (purché chiusi e non aperti al pubblico). Lo studio professionale, ad esempio, la camera d’albergo, l’automobile o il mezzo di trasporto quando serve a scopi diversi dal trasporto stesso: la cabina del camion dove il camionista riposa, la barca per il navigatore (anche occasionale), il camper o l’autovettura per chi temporaneamente vi abita. Un concetto molto ampio, dunque, quello di domicilio, considerato la “proiezione spaziale” della persona: ricca e varia è la giurisprudenza in proposito.
L’art. 14 si colloca in una più ampia dimensione riguardante in generale la tutela da ingerenze esterne, il diritto alla “riservatezza”: da qualche tempo si è affermato il concetto di “domicilio informatico” e di “riservatezza informatica” (protetta art. 615 ter, Codice penale, introdotto nel 1993). Ma la difesa della privacy ha un largo campo di applicazione e traversa situazioni tutelate da diverse norme costituzionali, in primo luogo dall’art. 15 “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Intorno alla persona si costruisce una rete di tutela che comprende la sfera spaziale e anche la sfera delle relazioni con gli altri. Di questa sfera si occupa l’art. 15, inviolabile anch’essa e nelle consuete forme tutelata: ma la garanzia, qui, è la più forte. Il comma 2 riprende la formula consueta – “La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge” – ribadendo la competenza della “legge” e la necessità dell’atto motivato di un giudice.
La Carta non soltanto tutela la persona dagli arresti arbitrari, ma le assicura anche una sfera libera intorno: nei luoghi in cui dimora (art. 14), nelle relazioni con gli altri (art. 15), nei movimenti (art. 16)
Ma, a differenza di quanto stabilito per le altre libertà, la “riserva di giurisdizione” è invalicabile. Mai è consentita, nemmeno in situazioni eccezionali, la sostituzione provvisoria dell’autorità di pubblica sicurezza al giudice: solo il magistrato, e nessun altro, può interferire. L’art. 15 tutela non soltanto la libertà, ma anche la segretezza di ogni forma di comunicazione personale che, oltre al mittente, riguarda i destinatari della corrispondenza e, dunque la loro riservatezza è egualmente in gioco. Purché la forma sia davvero riservata (un telegramma, ad esempio, non lo è) la segretezza della corrispondenza, toccando la sfera personalissima e più intima della persona, non può dunque essere violata. Soltanto ragioni forti e inderogabili, collegate alla necessità di tutelare interessi costituzionalmente rilevanti come prevenire e reprimere i reati, possono legittimare restrizioni alla libertà di comunicazione. E il provvedimento del giudice deve avere una specifica e adeguata motivazione, diretta a dimostrare l’esistenza in concreto di esigenze istruttorie: varie sentenze della Corte costituzionale lo confermano. Rispettando la riserva di legge e la riserva di giurisdizione è possibile dunque il sequestro della corrispondenza, l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni verbali, le intercettazioni telefoniche. Alcune norme relative a queste ultime hanno destato perplessità: ora comunque è intenzione del governo limitarne fortemente l’uso, con il rischio, in alcuni casi, di pregiudicare le indagini, soprattutto le più difficili e delicate.
Diritti e libertà, pur garantiti da articoli diversi della Costituzione sono legati fra loro e talvolta non è facile distinguerli nettamente: il fatto di avere dei destinatari, e dunque di essere diretti “a persone determinate”, distingue la libertà di comunicazione dell’art. 15 dalla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21, uno dei cardini della democrazia. Poiché la tutela è diversa (quella dell’art.
15 è la più forte), interessa molto distinguerle: eppure in alcuni casi, soprattutto riguardo a nuove forme di comunicazione in rete, non è sempre agevole. L’incertezza della linea di confine fra corrispondenza intersoggettiva (ad esempio le mailing list chiuse) e attività comunicativa di tipo diffusivo pone problemi nuovi che toccano la stessa normativa antitrust (per le esigenze legate al pluralismo comunicativo). Il processo di convergenza tecnologica determinerà nuovi incroci tra chi opera in settori distinti; la comunicazione democratica può essere maggiormente a rischio.

l’Unità 21.1.10
Superiori, passano i regolamenti-riforma
L’opposizione dice no
Ora manca il via libera del Senato e il varo del Consiglio dei ministri. Licei e tecnici con meno ore in tutte le materie Ma Valentina Aprea, Pdl, esulta: ci sarà maggiore qualita
di F.L.

L’applicazione. Dovrebbe valere la riforma solo per le prime classi

Che il posticipo in marzo delle iscrizioni fosse l’anticamera di una accelerazione sulla riforma della secondaria se n’è avuta conferma ieri. In commissione alla Camera sono passati i regolamenti per la suddetta riforma (licei, istituti tecnici e professionali). «Abbiamo approvato i provvedimenti ha riferito la presidente della commissione Cultura della Camera Valentina Aprea a maggioranza compatta. L'opposizione (Udc compresa, ndr) su tutti e tre i regolamenti ha votato contro e ritengo che ciò sia un'occasione mancata per la scuola e una sconfitta della politica». «Ora finalmente ha concluso Valentina Aprea i nostri studenti si misureranno con ordinamenti che sono il frutto di una concezione moderna ed europea della scuola, che offrono maggiore qualità e che da un lato superano l'autoreferenzialità della scuola e dall'altra l'eccessiva frammentazione del nostro sistema che era arrivato ad avere oltre 600 indirizzi». La settimana prossima i regolamenti saranno al vaglio del Senato e tra una decina di giorni dovrebbero tornare al consiglio dei ministri per l'ok definitivo.
La scuola ha già perso. Per almeno tre motivi. 1) Passa una riforma scritta con la scure imposta dalla Finanziaria lacrime e sangue (ma solo per la scuola) di Tremonti del 2008; 2) La conseguenza è che si sono scritti regolamenti che partono da esigenze contabili e non formative. Che riducono secondo la logica della partita doppia le ore in tutte le superiori, con sottrazione di formazione generalizzata, altro che sfida europea. Finiscono le sperimentazioni, finisce lo studio della seconda lingua (disattendendo una direttiva europea); 3) Per la prima volta passa una riforma così importante per il futiro del nostro Paese senza un dibattito parlamentare vero né un autentico confronto culturale, né, tanto meno, il coinvolgimento dei principali attori, professori, ragazzi e famiglie.
La Aprea, autrice di un disegno di legge che una volta approvato lascerà alla mercè dei fondi privati l’istruzione pubblica, esulta e con lei il ministro. «Modernizzazione dei percorsi, superamento dell'autoreferenzialità delle scuole, personalizzazione dei percorsi, competenze europee e qualificate, queste saranno le caratteristiche della scuola italiana nei prossimi anni. Più italiano, più matematica, più inglese, più scienze, ma anche, a scelta ha osservato la presidente della VII commissione più musica più lingue più informatica, più arte, più tecnologie e maggior raccordo con il mondo del lavoro costituiscono da oggi opportunità a portata di mano delle giovani generazioni dentro un sistema scolastico più autonomo e che riscopre una nuova responsabilità sociale per una scuola nazionale e sussidiaria allo stesso tempo. Spiace aver dovuto constatare ha concluso Valentina Aprea la strumentalità dell'opposizione del Partito democratico, che ha preferito rinnegare i provvedimenti di Fioroni per cercare di intercettare un facile consenso in vista delle elezioni. E spiace anche osservare la pilatesca posizione dell'Udc, di solito più ricettiva delle istanze di innovazione del sistema scolastico».
Andate a vedere il sito http://nuovilicei.indire.it/ e vi accorgerete che tanto trionfalismo è del tutto immotivato.❖

Repubblica 21.1.10
Apre il primo centro di igiene mentale in Cina: sul modello di istituti analoghi a Trento
Il treno dei matti italiani scuote Pechino al via l´esperimento "manicomi aperti"
di Giampaolo Visetti

pechino La follia può fare miracoli. A Pechino, è successo. Ci sono voluti più di due anni, ma il viaggio più pazzo del mondo ha portato lontano. Nel 2007, tra mille scandali, un treno con a bordo 210 malati di mente italiani partiti da Venezia era arrivato in Cina. La via di Marco Polo, per dimostrare che solo l´amore, assieme alle medicine, può salvare chi è colpito dai disturbi psichiatrici. Ieri, nel quartiere Balizhuan della capitale, autorità italiane (guidate dall´ambasciatore Riccardo Sessa) e cinesi hanno inaugurato il primo centro di salute mentale del Paese.
Per la Cina è l´inizio di una rivoluzione. Le malattie psichiatriche, come ogni deficit, restano una vergogna da nascondere. Milioni di persone vengono recluse in casa dai famigliari, o abbandonate, lasciate prive di cure, o recluse in manicomi simili a quelli smantellati in Italia da Basaglia. Gli ospedali, spesso contigui alle carceri, sono inaccessibili. In questi due anni, il viaggio straordinario dei matti italiani ha però colpito i medici cinesi. Con l´umiltà e la curiosità che sta portando la nazione alla guida del pianeta, hanno voluto scoprire il segreto che aveva consentito a duecento malati di arrivare fino nel cuore della Città Proibita, iniziando l´uscita dal tunnel.
Scienziati e funzionari comunisti, ripercorrendo il tragitto al contrario, sono arrivati così a Trento, dove da una decina d´anni si è dato vita ad un´esperienza unica al mondo: gli Ufe, ossia "Utenti e Famigliari Esperti" coinvolti nella conduzione dei servizi psichiatrici. Un progetto semplice, capace di migliorare la vita dei malati di mente grazie all´affetto e alle responsabilità che ricevono. Gli Ufe trentini, che l´anno scorso hanno attraversato l´Atlantico in barca a vela, hanno folgorato la Cina. Al punto che il governo, dopo ripetuti scambi e corsi di formazione, ha deciso di ripensare il proprio sistema di cure.
Per tre giorni, a Pechino, i più importanti ospedali psichiatrici hanno aperto le porte ai visitatori. I primi tredici Ufe cinesi, già inseriti nella clinica di Haidian, hanno potuto raccontare pubblicamente la loro vita. Un incontro commovente, con i malati italiani. La clinica universitaria della capitale, centro di cura più importante del Paese, si è impegnata a diffondere sul territorio sia i centri di salute mentale che il nuovo rapporto con i pazienti. E´ la filosofia del «fare insieme», promossa dallo psichiatra Renzo De Stefani e adottata dal professor Yao Guizhong, responsabile del piano cinese. Non significa che la Cina abbia deciso di riconoscere come essenziale la centralità della persona e il suo diritto alla libertà. Ma se irrompe sulla scena la follia, non si sa mai. Prossima tappa: uno scambio di Ufe Italia-Cina, modello Erasmus, per dimostrare che dai malati c´è molto da imparare.

Liberazione 20.1.10
No Cgil, la Fiom discute. Le RdB: «Favorevoli, ma non il 1° marzo»
Sciopero degli stranieri, i sindacati frenano
di Roberto Farneti

La prima giornata di sciopero degli immigrati può attendere. I tempi non sono ancora maturi e in ogni caso, se sciopero sarà, dovrà riguardare tutti i lavoratori, italiani e stranieri. I sindacati frenano sull'idea di celebrare così la "Giornata senza immigrati" del primo marzo. La proposta, nata in Francia, ha raccolto molte adesioni da parte di associazioni politiche, soprattutto del volontariato di sinistra, ed è esplosa su internet (oltre 40mila gli iscritti al gruppo nato su Facebook). E tuttavia per fare uno sciopero non basta che sia giusto: bisogna che riesca, perché non si trasformi in un boomerang.
Da qui i dubbi dei sindacati. «Noi della Cgil - chiarisce Piero Soldini, responsabile immigrazione - stiamo con il gruppo del 1° marzo e con il gruppo del 20 marzo per organizzare iniziative comuni che siano più forti possibili. L'obiettivo è porre all'attenzione del paese la condizione dei migranti e il tema del razzismo istituzionale». La Cgil è però contraria a uno sciopero fatto da soli immigrati «perché - spiega Soldini - sarebbe "autoisolante"». Insomma, se c'è un problema di diritti da difendere, come c'è, questi devono essere difesi da tutti i lavoratori. «E' con questo spirito - ricorda il dirigente della Cgil - che abbiamo realizzato la manifestazione del 17 ottobre e che intendiamo costruire iniziative che possano coinvolgere tutti dal 1° al venti marzo». Tra l'altro la Cgil ha già fatto il 12 dicembre 2008 uno sciopero generale in cui, tra le rivendicazioni, c'era l'abolizione della Bossi-Fini». E il paragone con la Francia? «Anche lì non ci sarà uno sciopero dei lavoratori, né migranti né francesi, bensì uno sciopero dei consumi accompagnato da altre iniziative, proprio come vogliamo fare qui», replica Soldini.
Di come essere presenti il 1° marzo, così come nelle altre iniziative che si stanno costruendo, ancora si discute dentro il coordinamento migranti della Fiom e comunque la decisione «spetta alla Fiom». A precisarlo è Sveva Haertter, responsabile immigrazione dei metalmeccanici Cgil: «Il coordinamento migranti della Fiom - ricorda la sindacalista - ha mantenuto una interlocuzione con quella parte del comitato 17 ottobre che si è riunita in assemblea a dicembre, lanciando una assemblea nazionale aperta a tutti, che si terrà domenica prossima a Roma. Appuntamento che, dopo i fatti di Rosarno, assume una valenza ancora maggiore, perché è chiara - sottolinea Haertter - l'urgenza di costruire un percorso di mobilitazione che riparta dalla questione del lavoro e, all'interno di questa, del lavoro migrante».
A differenza della Cgil, le RdB sono «favorevoli» a uno sciopero dei migranti. «Ci stiamo lavorando ogni giorno - rende noto Aboubakar Soumahoro - con assemblee nei luoghi di lavoro. Pensiamo a una giornata di lotta nella quale i lavoratori migranti si ritrovino gomito a gomito in piazza con quelli italiani e i cassintegrati per rivendicare i diritti di tutti noi e per la salvaguardia della nostra dignità». Quando lo proclamerete? «Non appena i lavoratori ci faranno capire che ci sono le condizioni per farlo - risponde Soumahoro - 40mila adesioni su Facebook non bastano, preferisco lavorare su dati reali. Comunque noi il 1° marzo ci saremo, con varie iniziative, per segnalare la drammatica condizione dei migranti in Italia».
Filippo Miraglia dell'Arci non parla di occasione perduta ma avverte: «Su questa vicenda dell'immigrazione si sta giocando una partita decisiva per la nostra democrazia. Perciò penso che le condizioni siano mature - afferma - per uno sciopero generale specifico in difesa dei diritti di chi viene nel nostro paese per lavorare. Quando e come, spetta ai sindacati deciderlo, anche se auspico che sia il prima possibile».

Liberazione 20.1.10
I migranti sfidano Maroni:
«Permesso di soggiorno per tutti»
di Stefano Galieni

Parola del ministro Maroni:«Quello che è accaduto a Rosarno non sarebbe avvenuto se fosse stata applicata la Bossi Fini». Viene da domandarsi se trattasi di ignoranza o di cattiva fede. In ambedue i casi, dopo quanto è avvenuto nella piana di Gioia Tauro, logica vorrebbe che il ministro fosse già stato sostituito. La situazione di Rosarno, come in gran parte del lavoro agricolo nel meridione, non conosce altra legge che quella dello sfruttamento paraschiavistico da almeno 15 anni. Altro che responsabilità degli enti locali: nelle regioni in cui si è provato a proporre leggi di emersione dal lavoro nero, i governi di centro destra hanno fatto barricate. Maroni ieri era a Reggio Calabria e ancora una volta ha parlato di troppa tolleranza nei confronti del degrado, omettendo di nominare i veri responsabili di condizioni di vita a suo tempo denunciate da Msf come peggiori rispetto a quelle che si trovano nei campi profughi dei paesi in guerra. Oggi il ministro sarà a Caserta, definita dallo stesso una "Rosarno al cubo" per la alta concentrazione di lavoratori migranti presenti. Maroni ha reiterato il discorso che vede un discrimine fra "regolari" (buoni per natura e da accogliere) e "irregolari" (inevitabilmente fonte di problemi e da allontanare con ogni mezzo), non volendo accettare l'idea che solo attraverso pratiche di regolarizzazione si potrebbe combattere quello che lui chiama degrado.
Assurdo poi che in città e aree controllate dalle più grandi organizzazioni criminali del continente, il ministro si ostini a voler "far fuori" coloro che, rifiutando lo sfruttamento, si oppongono concretamente allo strapotere delle mafie. Il 28, per dare un segnale di lotta alla 'ndrangheta, ci sarà una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri a Reggio Calabria e già è partita la mobilitazione. Ieri in numerose città italiane si sono tenuti presidi per riconnettere i fatti di Rosarno a questioni di rilevanza sia locale che nazionale. Proprio a Reggio Calabria, nel pomeriggio, si è tenuta una manifestazione sotto la prefettura. Una delegazione di manifestanti è stata ricevuta dal Prefetto. Tra le richieste: protezione per tutti gli immigrati ancora presenti nella piana di Gioia Tauro, molti dei quali, anche se regolari, hanno raccontato di maltrattamenti subiti in questura; piano di accoglienza; "sburocratizzazione" delle pratiche per l'ottenimento dei permessi di soggiorno; contrasto reale al lavoro nero e non ai lavoratori. Il prefetto ha chiesto un rapporto dettagliato alle associazioni e alle forze presenti riservandosi di fornire risposte entro pochi giorni. I manifestanti hanno concluso il presidio lasciando alcune decine di chili di letame in piazza sormontati da un cartello recante la scritta "Maroni ancora 'cca stai?"
A Caserta c'è stata una grande giornata antirazzista iniziata all'alba, per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno. Molti degli immigrati fuggiti da Rosarno, circa 300, vivono in questi giorni nei paesi del casertano. L'iniziativa, molto partecipata, ha portato anche lì ad un incontro con il Prefetto, il quale ha garantito la velocizzazione delle oltre 600 pratiche di soggiorno ancora inevase e maggiore attenzione verso i "rastrellamenti" operati in Campania verso i lavoratori dell'agricoltura. Chi era in piazza ha polemizzato con l'idea di legalità esportata dal ministro dell'Interno fatta di esercito nelle strade e nessuna soluzione politica, quando la vera legalità potrebbe nascere garantendo chi denuncia di essere vittima dello sfruttamento. Da Caserta si è poi rinnovata la richiesta di una nuova regolarizzazione non limitata alle categorie del lavoro domestico, e si è chiesta una interlocuzione diretta con Maroni.
A Roma, alcune centinaia di persone si sono radunate sotto la prefettura sia per perorare la causa di chi è fuggito da Rosarno (alcuni erano in piazza) sia per chiedere nella città una politica di accoglienza reale e di contrasto al lavoro nero diffuso anche nella provincia romana anche se in condizioni diverse da quelle del meridione. Un ampia delegazione è stata ricevuta dal vicario del prefetto, dottoressa Giaquinto e da altri funzionari. La delegazione ha chiesto che la prefettura di Roma, come le altre di Italia si facciano carico della richiesta al ministro di un intervento di politiche sociali tali da impedire il ripetersi di condizioni simili a quelle meridionali. Esistono nella capitale numerose e mai risolte emergenze, lavorative e in primo luogo abitative che colpiscono soprattutto i migranti. Tra le richieste quella della proroga dei tempi di "attesa occupazione" (oggi di 6 mesi), scaduti i quali chi è licenziato finisce in clandestinità. Tra le novità emerse, la conferma che il Cie di Ponte Galeria verrà in tempi certi chiuso, anche se se ne costruirà un altro.