sabato 30 settembre 2006

il manifesto 30.9.06
La necessità di ridefinire e riorganizzare i rapporti tra uomini e donne rischia di slittare insidiosamente verso una deriva androgina Intervista con Sarantis Thanopulos mentre è in corso il congresso sul transfert
Di fronte a una impasse del desiderio
Le isteriche di una volta mettevano in scena ciò che era coperto dal silenzio, mentre le ragazze anoressiche di oggi mettono in evidenza il vuoto che si nasconde dietro il troppo parlato Verrebbe da dire che ci si trova di fronte a una «frigidità» della psiche, la cui manifestazione clinica più diretta è l'incapacità di accogliere e elaborare il dolore
di Francesca Borrelli


In una contingenza storica che vede aggiornarsi il disagio della civiltà sotto la tirannide del godimento compulsivo e del consumo coatto di generi velocemente destinati all'obsolescenza, anche il dolore mentale si muove verso aree sempre più interessate da un rapporto problematico con il desiderio, l'immagine di sé e la relazione con l'altro. In questo orizzonte, che conosce oscillazioni drammatiche tra tentativi di conformarsi agli ideali del mercato e ribellioni solitarie e autodistruttive, la psicoanalisi si trova a fronteggiare nuove forme di rifiuto, inedite manovre psichiche per esorcizzare l'angoscia derivata dalla sensazione di vuoto, maldestre strategie di separazione dall'autorità dei genitori: disagi che sempre più spesso precipitano nella realtà concreta senza potersi affidare a una dimensione simbolica. Nella relazione analitica è come sempre il transfert a consentire la teatralizzazione del conflitto tra vita pulsionale e intelletto, offrendosi come scena per la riattualizzazione di esperienze remote, nascoste nella psiche. Ne stanno discutendo in questi giorni gli psicoanalisti freudiani riuniti nel loro XIII congresso nazionale, e tra questi Sarantis Thanopulos, uno tra gli esegeti di Freud più brillanti, greco di origine, ora segretario della Società Psicoanalitica Italiana. Da anni si occupa di studiare i rapporti tra la psicoanalisi, il sogno e la tragedia classica, indagando le dinamiche che presidono alla costituzione antinomica della soggettività e alla formazione del senso di responsabilità nei confronti di sé e degli altri. Prima dell'estate ha curato con Andreas Giannakulas un volume di saggi titolato L'eredità della tragedia e sta per uscire un altro libro da lui curato insieme a Olga Pozzi con il titolo Ipotesi gay (entrambi per Borla). Con Sarantis Thanopulos, cerchiamo dunque di fare il punto su alcuni tra i problemi che la psicoanalisi si trova a affrontare negli ultimi anni.
Una tra le formulazioni di Freud che ha retto meno bene al tempo è quella che distingue un transfert negativo, ossia dominato da sentimenti di ostilità verso l'analista, da un transfert positivo, che può presentarsi sia nella forma di una affettività irreprensibile sia nella sua variante erotizzata. Cosa hanno imparato a questo proposito gli analisti, in un secolo di esperienza?
Hanno imparato a capire che questa distinzione così essenziale e apparentemente semplice è, in realtà, difficile e complessa. L'aggressività può nascondere un desiderio autentico, non compiacente nei confronti dell'analista, che trova nella rabbia o nell'odio l'unica strada per esprimersi. Ma può anche succedere che l'analisi si svolga per anni in un clima positivo, raggiungendo a volte forme di scambio autentico, senza che una parte importante della domanda esistenziale del paziente sia adeguatamente inquadrata e accolta, perché la positività della relazione analitica compensa, in realtà, una visuale profondamente pessimista sulle prospettive di un cambiamento. Detto questo, la distinzione è ancora oggi importante e valida, ma è notevolmente cambiata la sua messa a fuoco. Si può parlare di positività del transfert tutte le volte che i pazienti investono libidicamente la relazione analitica, indipendentemente dai modi con cui esprimono questo investimento. Sto parlando dell'espressione spontanea di una soggettività desiderante, che cerca nel rapporto con l'analista un incontro con l'altro, tale per cui il desiderio prende forma e esiste come un modo di essere che tende verso l'appagamento. Ciò che più conta, nel transfert come nel sogno, non è l'appagamento di un desiderio concreto in sé, ma la sua legittimazione interna, la realizzazione della persona, l'affermazione del suo modo di sentire e di desiderare. Più problematica è la definizione del transfert negativo. Potremmo distinguere tra assenza di transfert e «reazione terapeutica negativa»: nel primo caso, l'esperienza traumatica del passato non può essere riprodotta, perché - come dice Winnicott - mentre quella esperienza aveva luogo, il soggetto non era lì per esperirla. In altre parole, il trauma non ha concesso alla soggettività di costituirsi. L'analista incontra un buco nella tela del transfert, cui corrisponde come segno positivo l'oscuro e angoscioso presentimento da parte del paziente che possa verificarsi per la prima volta una catastrofe, in realtà già accaduta senza che egli l'abbia registrata internamente. Sulla «reazione terapeutica negativa», ci si può riferire a André Green quando osserva come alcuni pazienti trasferiscano nella relazione analitica il loro desiderio di non desiderare, che deriva da una mortificazione estrema della loro soggettività: la cosa importante non è più appagare il proprio desiderio, ma dimostrare a se stessi di poter fare a meno di questa soddisfazione.
Oggi la forza di quella autorità simbolica che Freud faceva coincidere con il padre, e sulla quale si reggeva l'intero programma della civiltà, sembra essere tramontata, o comunque conoscere una esasperazione drammatica della sua inadeguatezza. Quel che sarebbe interessante capire è come questa perdita si riflette nei disagi psichici e se gli analisti notino, più spesso di quanto non capitasse in passato, scompensi nella formazione del super Io, soprattutto nei pazienti più giovani.
Lei tocca un punto spesso misconosciuto negli ultimi tempi, ossia l'importanza del padre nella formazione del Super Io, inteso non soltanto come coscienza morale, ma soprattutto come istanza che differenzia desideri e ruoli, garantendo l'assunzione individuale di un senso di responsabilità nei confronti dell'altro e di se stessi. L'acquisizione di un senso di colpa sociale, sul quale Freud giustamente insisteva e che le elaborazioni di Melanie Klein hanno messo successivamente in ombra, è decisiva tanto nella formazione quanto nella affermazione di un proprio modo di essere. Ora, la difficoltà di assumersi la responsabilità della propria esistenza in relazione agli altri è fin troppo evidente, non soltanto nei pazienti adolescenti ma anche in molti trentenni che vivono con paura la possibilità di fare scelte che li impegnino.
Lei ha scritto sulla tragedia greca e sulle affinità che - a partire dal procedimento catartico - la terapia analitica ha mutuato dalle sue dinamiche. Naturalmente, nonostante la società e l'organizzazione familiare siano velocemente cambiate negli ultimi decenni, il modello della tragedia classica vale ancora e varrà per sempre a dare rappresentazione ai movimenti dell'inconscio. Ma i personaggi che si presentano sulla scena analitica hanno spesso terremotato il loro rapporto con i ruoli tradizionali. Come riassumerebbe i cambiamenti più significativi ai quali ha assistito negli ultimi anni?
La tragedia mette in scena il disordine dei ruoli costituiti evidenziando il paradosso intrinseco all'organizzazione sociale e familiare, perché queste strutture traggono la loro legittimità solo dalla tensione dialettica con ciò che minaccia di sovvertirle: esse esistono in quanto strutture di trasformazione, che devono costantemente elaborare l'esperienza oscura e intuitiva di comunione con il mondo trasformandola in relazioni di scambio. Freud ha avuto la fondamentale intuizione di identificare il sogno come il luogo in cui il desiderio indifferenziato, ossia rivolto verso di sé, si trasforma in desiderio differenziato, ossia indirizzato all'altro. In questo senso egli è il vero erede della tragedia classica, che invitava lo spettatore a «sognare» l'impasse delle relazioni di scambio portate sulla scena, cioè ad attivare in se stessi uno spazio isterico, un luogo catartico capace di trasformare e riorganizzare dentro di sé queste trasformazioni. La questione di fondo è la rigidità che si può verificare nella distribuzione dei ruoli all'interno della organizzazione privata e pubblica della nostra relazione con l'altro, quando questa relazione è messa in pericolo. In una simile prospettiva, sempre più spesso sembra che le persone in analisi non siano in grado di riconoscere e usare il sogno come luogo di sovversione di un ordine dell'esistenza ingessato e immobile.
Un altro tra i fattori di cambiamento è imputabile alla magmaticità e talvolta dalla interscambiabilità di comportamenti e di ruoli sempre più svincolati dalla appartenenza sessuale. Nella sua esperienza psicoanalitica, come si disordina e come si riorganizza la psiche per rispondere a queste sollecitazioni sociali?
Penso che la necessità di ridefinire e riorganizzare i rapporti tra uomini e donne rischi di slittare insidiosamente verso una deriva androgina. A pagare le spese di una confusione dei linguaggi e dei ruoli è l'elemento femminile, presente in entrambi i sessi, ossia il desiderio di ospitare l'altro internamente. La parte femminile, accogliente di sé, è percepita come luogo di precarietà e di destabilizzazione, trattata con sfiducia e diffidenza, a volte persino con segreto disprezzo. Tutto ciò prelude a una riorganizzazione tendenzialmente fallica, autarchica, del proprio psichismo, che sospende il riconoscimento e l'elaborazione delle perdite.
In un suo libro recente sui disturbi alimentari, scritto a quattro mani con Uberto Zuccardi Merli, Massimo Recalcati nota che la nostra epoca è contraddistinta da «una ricerca di rimedi mondani al carattere imperfetto dell'esistenza». Poiché sembra che l'imperativo della civiltà contemporanea non sia più quello del dovere bensì quello del godimento, prima di tutto per i genitori è diventato problematico indicare e trasmettere il senso etico della rinuncia. L'assunzione di droghe, l'abuso di farmaci, gli attacchi di panico e un rapporto patologico con il cibo sono tra le risposte più frequenti all'esigenza di controllare il desiderio al di fuori della relazione con l'altro. Funzionano come strategie per organizzare una coesione narcistica di sé, e insomma assegnarsi una identità all'interno di una tendenza difensiva che ambisce all'omologazione con gli ideali del mercato, non certo alla loro sovversione. Lei come legge queste trasformazioni?
Gli ideali del mercato hanno una forza di penetrazione sbalorditiva, perché si incastrano con l'esigenza diffusa di evadere l'elaborazione del lutto, e in generale le perdite. Dietro le luci abbaglianti della globalizzazione è in crisi profonda l'organizzazione sociale delle relazioni di scambio, ossia la struttura più affidabile tra quelle che gli esseri umani hanno tradizionalmente usato per elaborare il lutto correlato al «carattere imperfetto dell'esistenza». L'esigenza di sostare come soggetti desideranti al di fuori della relazione con gli altri deriva dal fatto che questa relazione è diventata molto difficile. Accanto all'abuso di stupefacenti conosciuti e catalogati, assume dimensioni preoccupanti la tendenza a usare come «additivo» dell'esistenza tutto ciò da cui si può dipendere senza impegno, né costi mentali e psichici, siano essi relazioni o oggetti. Il che allarga enormemente la possibilità del mercato di vendere soprattutto «atmosfere», con i prodotti materiali che le «arredano». Gli psicoanalisti devono stare attenti a non partecipare a questa fiera, a non acquistare soprapensiero le proposte allettanti di «nuove forme del disagio psichico». Mi preoccupa la mistificazione di queste sofferenze e il loro spogliarsi di espressioni autentiche.
Come descriverebbe, partendo dalla sua esperienza clinica, queste recenti forme di disagio?
Si sta diffondendo sempre di più una isteria spostata sul suo versante narcisistico, melanconico. È un fenomeno noto e tutti ne parlano, seppure in modi diversi. Molto minore attenzione viene prestata, invece, a quei pazienti che tendono essenzialmente a mettere in scena un mondo privato, fatto di solitudine. Noi analisti vediamo questo disagio evidenziarsi in una esitazione drammatica messa in atto nella trama del transfert, perché esso consiste in primo luogo nel portare ciò che giace nel proprio mondo privato verso la relazione con l'altro. A tutti i futuri analisti consiglierei la lettura di un libro di Paul Auster titolato L'invenzione della solitudine, in cui vengono citati, tra l'altro, alcuni versi di una canzone di Billy Holiday che trovo di estrema attualità per ché danno voce a una solitudine che parla con lo scopo di mantenersi tale, ma anche di farsi ascoltare, per esempio nella relazione con l'analista. E chi la ascolta capisce che questo parlare colloca lui e il paziente al tempo stesso nel presente e nel passato: in un presente che rivela come la speranza del passato sia una illusione e in un passato che difende la speranza contro ogni tentazione di illusione attualizzata.
La diffusione così esplosiva dei disturbi della alimentazione, dalla anoressia alla bulimia alle loro numerose complicazioni, quali bisogni insoddisfatti ci segnala in particolare?
L'anoressia femminile è l'esempio più diffuso dell'isteria melanconica cui facevo riferimento poco fa. La pretesa di fare a meno dei propri desideri conduce alla disincarnazione dell'esperienza, perché il corpo è precisamente ciò che contraddice una simile pretesa. A venire pesantemente rifiutata è l'imbarazzante complementarità con l'altro; e non è sorprendente che la questione esploda nell'adolescenza, quando i problemi relativi ai rapporti tra i due sessi si manifestano in tutta la loro drammaticità Molte adolescenti soffrono la crescente difficoltà di identificazione femminile con le propri madri ma anche l'ingresso brutale nel campo della sessualità. Dico brutale, perché dietro una proliferazione dei «segni» propri alla seduzione è aumentato lo iato tra la spinta che anima il corpo desiderante e l'effettiva capacità dell'adolescente di gestirlo. Con il linguaggio corporeo «in negativo» delle ragazze anoressiche, che pare si diffonda per imitazione, prende forma una forte denuncia, sebbene inconsapevole, della ipocrisia intrinseca alle relazioni sessuali. Le isteriche di una volta mettevano in scena ciò che era coperto dal silenzio, mentre le ragazze anoressiche di oggi mettono in evidenza il vuoto che si nasconde dietro il troppo parlato. E in un certo senso le si può considerare emblematiche dell'impasse che lo spazio tragico conosce nella nostra epoca. Se il dilemma tragico sta nel fatto che l'altro è una minaccia per la nostra esistenza e insieme è costitutivo della nostra identità, l'anoressia testimonia l'impossibilità di sostare nel campo di questo dilemma.
Questo protagonismo del corpo nell'arte contemporanea, per di più violato, trafitto, sessualmente ibridato, cosa le suggerisce?
Verrebbe da dire che ci si trova di fronte a una «frigidità» della psiche, la cui manifestazione clinica più diretta è l'incapacità di accogliere ed elaborare il dolore. Mi viene in mente un film di tanti anni fa, L'uomo del banco di pegni, che ha per protagonista un sopravvissuto dei campi nazisti, diventato incapace di provare emozioni: un certo giorno piomba in una situazione che gli impone di soffrire, ma per l'appunto non è capace, e allora trafigge la propria mano con un fermacarte a forma di chiodo. Quel che al corpo viene domandato è di supplire alla mancanza di lavoro psichico. In questo modo il corpo è mandato allo sbaraglio, perde il suo «scopo» che è quello di tendere verso la relazione con un altro corpo che lo completi, perché capace di trasformare in esperienza emotivamente significative le spinte disordinate che lo animano. Un corpo senza emozioni, puramente sensoriale e senza un legame con la psiche che lo usa come la sua via di scarico, è un corpo cieco e disorientato, oggetto inanimato da manomettere.

Carta settimanale 30.9.06
Ma chi è Massimo Fagioli
Il sodalizio con Bertinotti, il settimanale Left, il voto alle elezioni e le feste di Liberazione. Lo strano incontro tra il Prc e Massimo Fagioli. Che non piace a tutti
di Rosa Mordenti


ERA SCOMPARSO da un po', è sulla scena a braccetto con Fausto Bertinotti, nell'estate dell'anno scorso, quando l'ex segretario del Prc decise di lanciare la sua candidatura alle primarie dell'Unione nei locali della libreria «Amore e Psiche». Al suo fianco, riecco Massimo Fagioli, lo «psichiatra artista»; davanti, un pubblico numeroso ed elegante. Chi, dentro Rifondazione, ha creduto che quella con Fagioli fosse solo una delle eterodosse e personali frequentazioni dell'ora ex segretario, ha dovuto ricredersi. Pare piuttosto un sodalizio che ha dato diversi frutti, non tutti facili da mandare giù, nel partito.
Come psichiatra, Fagioli è un ribelle: ha abbandonato la Società psicoanalitica italiana nel 1976, ed è considerato «un cialtrone» dai suoi ex colleghi: reazione corporativa? Agli incontri fagioliani di «analisi collettiva» [vedi scheda] partecipano decine, a volte centinaia di persone. Molti sono intellettuali e professionisti della borghesia romana, chiamati in città «fagiolini». Si è così formato un gruppo ricco di relazioni e possibilità, che ha permesso a Fagioli di dare vita a una casa editrice [la «Nuove edizioni romane»] e di disegnare e costruire una libreria [«Amore e Psiche» appunto, aperta nel '92 a due passi dal Pantheon], due piazze con fontane [in Largo Rolli e in piazza Cavalieri] un Palazzo a forma di vela nel quartiere Piccolomini. la «Scultura blu» nel cortile della Facoltà di Studi Orientali dell’Esquilino, e di occuparsi del restauro di un palazzetto nel cuore del centro storico dl Roma, in via Sant'Andrea delle Fratte. Poi c’è il regista Marco Bellocchio, naturalmente. con il quale Fagioli si è dato al cinema, affiancandolo nella sceneggiatura e perfino nella regia di film e altre opere «private».
Forti di tanto bagaglio. Fagioli e i suoi hanno infine incontrato il mondo del Prc. Qualche dirigente del quale ha fatto due conti, e ha calcolato che il «giro» dello psichiatra avrebbe portato a Rifondazione tremila voti a Roma. Qualche «fagiolino» è stato candidato nelle liste municipali, anche se i voti, si è visto poi, si sono divisi con le liste radical-socialiste della Rosa del pugno.
Però le strade continuano ad incrociarsi. Alla «Liberafesta» di Roma, Fagioli è stato chiamato sul palco [insieme a Daniele Capezzone e Gennaro Migliore] da Luca Bonaccorsi, direttore editoriale di Left, il settimanale nato dalle ceneri di Avvenimenti che dello psichiatra ospita una ampia rubrica [di nuovo, c'è chi ha calcolato che questo assicura la vendita di circa duemila copie]. Così alla festa, si è vista la «claque fagiolina». Anzi si è sentita, dato che da lì sono venute contestazioni imbarazzanti agli ospiti e interventi letti sul palco mentre in platea lo psichiatra-artista annuiva sorridente.
Il partito, alla base e ai vertici, reagisce in modo contraddittorio e soprattutto anonimo. C'è chi trova interessanti queste persone «flchissime», chi invece si lamenta di quella che chiama «una setta» o perfino «un nuovo cancro, l'ennesima metastasi nel corpo del partito».
A infastidire molti è stata per esempio un'intervista di Bellocchio al Corriera della sera: «C'è Fagioli dietro la sinistra che nega la violenza». Dice Elettra Deiana, deputata del Prc: «Bertinotti ha compiuto spesso 'mosse del cavallo’ che hanno prodotto spiazzamenti salutari. Ma la nonviolenza dentro Rifondazione viene da una filiera culturalmente lontanissima dal pensiero di Fagioli: viene dal femminismo, dal pacifismo, dalla nostra storia».
Almeno un problema però c'è. Fagioli definisce l'omosessualità «questione psicopatologica», «legata alla pulsione di morte», e ha dichiarato in un'intervista: «Massimo rispetto per tutti. Ai limiti, nella misura in cui gli omosessuali rivendicano i diritti civili, io vado con loro a fare la manifestazione. Se però vengono nel mio studio... dico: amico mio, tu questa omosessualità la devi affrontare, perché l'omosessualità non fa star bene». Titti De Simone, deputata del Prc ed ex presidente di Arcilesbica, risponde che sarebbe lieta di avere un confronto pubblico sul tema, mentre Saverio Aversa, responsabile nazionale «diritti e culture delle differenze», meno diplomaticamente avverte: «È il momento di sollevare questo problema. Io sono un omosessuale felice, e Fagioli dice cose vecchie».

Psicoterapia di folla
A sancire la separazione con la società psicoanalitica italiana non sono stati solo gli insulti di Massimo Fagioli a «quell'imbecille chiamato Freud» o le critiche a Franco Basaglia, ma soprattutto la tecnica che la psichiatra usa dal 1975 e che lui definsce «analisi collettiva». Viene chiamata anche «psicoterapia di folla»: vere e proprie assemblee con decine di persone che si svolgano in piazza San Cosimato. a Roma. Per partecipare è sufficiente una sottoscrizione [anni fa 10 mila lire] però ci si va anche quattro volte a settimana, affrontando un percorso, definito di «cura-formazione-ricerca» che può non avere fine. Negli anni, Massime Fagioli ha dato vita a una sua Scuola romana dl psichiatria a psicoterapia.

Oreste Scalzone
Né en 1947, à Terni, ville ouvrière, fief de la métallurgie italienne. Suite aux grandes émeutes qui secouent l’Italie en 1960, milite aux jeunesses communistes. Quitte les jeunesses communistes au milieu des années soixante, sur la ligne de fuite d’une contestation du mouvement ouvrier institutionnel. Pendant trois ans, "chien sans collier". Etudiant en philosophie, théâtre politique, piquet de grève, manifestations, occupation de l’université de Rome. En 1968, se trouve propulsé sur le devant de la scène en devenant un des leaders du mouvement étudiant. En 1969, fonde avec Franco Piperno et Toni Negri, le groupe politique Potere Operaio qui se developpe au moment des grands débrayages non institutionnels de la FIAT. En 1977 (année de la création des prisons spéciales par le général dalla Chiesa) Oreste devient, de fait, le leader de l’ensemble des groupes politiques rangés sous la banière de l’Autonomie. De nouveaux mouvements de révolte éclatent un peu partout en Italie, conjugués avec une vague d’occupation de toutes les universités ; un incendie qui s’annonce plus violent et plus désespéré qu’en 1968. En 1978, lors de l’ enlèvement et l’assassinat d’Aldo Moro par les brigades rouges, le groupe de la revue Metropoli, animé par Piperno et Scalzone, procéde à des tentatives de médiations. Le 7 Avril 1979, la police procède à 23 arrestations dont celles de Negri et Scalzone : c’est le tournant des grandes rafles, des inculpations de responsabilités collectives et morales, des délits de proximité. Le mandat d’arrêt parle d’une direction, occulte et centralisée de toute la subversion. Les inculpés du 7 avril sont accusés d’avoir chapeauté tous les groupes armés en plus de la mouvance de l’autonomie. Oreste, accusé de tentative d’insurrection armée contre l’Etat, sera condamné en 1988 pour constitution d’association subversive et de bande armée, à 9 ans de prison. Tombe très malade au cours de sa détention au point de devoir être hospitalilisé. A la suite d’une campagne publique (recueil de signatures etc...) il bénéficie d’une liberté provisoire pour raison de santé : il en profite pour fuir l’Italie et s’installe en France en 1981.

Giorgio Ferrara
Un «Italien», uomo di teatro e cinema, vince a Parigi. E per l'Italia è un momento di gloria. Giorgio Ferrara, nato a Roma nel 1947, che dal 2004 dirige l'Istituto italiano di cultura nella capitale francese, è stato infatti eletto presidente del Forum, che riunisce tutti i 38 direttori degli istituti di cultura presenti a Parigi e che organizza ogni anno circa duecento manifestazioni. Allievo di Luca Ronconi nella regia e spronato da Luchino Visconti a fare pure l'attore, Giorgio Ferrara nascondeva in famiglia la propensione a esibirsi in palcoscenico. La nonna materna era un'ottima pianista, il padre Maurizio, personaggio di spicco dell'aristocrazia comunista, scrisse un musical in versi con lo pseudonimo di «Anonimo italiano», e il più giovane fratello Giuliano fin da piccolo cercava di trovare lo spazio a lui più consono sulle scene affollate della politica di casa nostra. Per di più Giorgio sì è scelto per moglie la straordinaria e simpatica Adriana Asti, una delle migliori attrici italiane. E proprio lei. la compagna della vita, Ferrara ha voluto dirigere nei film «Un cuore semplice» del 1977, con cui Giorgio vinse il David di Donatello. e «Tosca e altre due» del 2002. In teatro la coppia Asti-Ferrara si è ritrovata anche nel campo interpretativo, dando vita ai due coniugi protagonisti de «Le sedie» di Eugène Ionesco. In questi mesi all'Istituto italiano di cultura — che ha sede a Parigi in rue de Varenne 50 e vanta la biblioteca «Italo Calvino» di circa 40 mila volumi riguardanti tutti i diversi aspetti della nostra cultura —, Giorgio Ferrara sta proponendo un nuovo spettacolo da lui diretto e scritto da Corrado Augias e Vladimiro Polchi: «Aldo Moro. Une tragedie italienne», la cronaca dettagliata del più tragico rapimento a scopo politico del dopoguerra in Italia.

venerdì 29 settembre 2006

Provenienze dei collegamenti con "segnalazioni" nel mese di settembre 2006
(in ordine di quantità di collegamenti)


1. Italy
2. France
3. United States
4. Portugal
5. Germany
6. Switzerland
7. Sweden
8. United Kingdom
9. Spain
10. Hong Kong
11. Netherlands
12. Belgium
13. India
14. Austria
15. Brazil
16. Czechoslovakia (former)
17. Norway
18. Canada
19. Argentina
20. Japan
21. Uruguay
22. Israel
23. Czech Republic
24. China
25. Hungary
26. Turkey
27. Morocco
28. Ireland
29. Mexico
30. Venezuela
31. Maldives
32. Chile
33. Kuwait
34. Cote D'Ivoire (Ivory Coast)
35. Denmark
36. Australia
37. Bolivia
38. Dominican Republic
39. Colombia
40. Finland
41. Croatia (Hrvatska)
42. Greece
43. Peru
44. Slovenia
45. San Marino
46. Tunisia
47. Malaysia
48. Nigeria
49. Taiwan
50. Ukraine
51. French Polynesia
52. Poland
53. Monaco
54. Yemen
55. South Africa
56. Vatican City State
57. Lebanon
58. Luxembourg
59. Latvia
60. Cook Islands
61. Algeria
62. Egypt
63. Albania
l’Unità 29.9.06
Cesare Salvi: Il socialismo non è passato
di Piero Di Siena


Perché è inaccettabile la tesi che il socialismo appartiene alle culture politiche del passato, e che chi vuole il “nuovo” deve essere pronto ad abbonarlo, o quanto meno a concorrere a superarlo?
Per la verità è da più di un secolo che, periodicamente, viene stilato il certificato di morte del socialismo. A dichiararlo irreversibilmente defunto furono in Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento Croce e Gentile, e lo stesso accadde in altri paesi europei da parte di autorevoli commentatori “borghesi” del dibattito aperto da Bernstein nella socialdemocrazia tedesca. Si sa che poi invece socialismo e comunismo sopravvissero a due guerre mondiali e furono tra i protagonisti di quello che Hobsbawm ha definito il “secolo breve”.
Dalla fine degli anni ‘80 il dibattito si è riaperto alla luce di una crisi e di una sconfitta. La crisi è quella della socialdemocrazia europea di fronte all’offensiva neoliberista, che impedì lo sviluppo della nuova fase di quell’esperienza, che pure si stava delineando (basti qui nominare Brandt e Palme, e l’incontro della loro elaborazione con l’originale percorso tentato da Enrico Berlinguer). La sconfitta è quella dell'idea della riformabilità dall'interno dell’Unione Sovietica e dei sistemi dell'Est europeo perseguita da Gorbaciov, e su cui aveva scommesso anche l'eurocomunismo. Si parlò addirittura di “fine della storia”. E tuttavia ancora oggi, ben dentro il nuovo millennio, le forze del socialismo costituiscono in Europa (all'Ovest come all'Est) una soggettività politica centrale.
La fine del “secolo breve”, segnata dall'affermarsi della rivoluzione neoliberista e dal crollo del comunismo, ha in effetti prodotto una grande cesura da cui non sono uscite indenni le stesse esperienze della socialdemocrazia europea. Ma la conclusione che ne ricava Anthony Giddens, da tempo il maggior teorico del superamento del socialismo, andrebbe, secondo noi, rovesciata. Per Giddens, se il socialismo è morto resterebbe però la sinistra, una sinistra che abbandoni ogni residuo “ideologico”, e, in particolare, faccia propri senza remore i principi del libero mercato. Probabilmente invece è vero che sono proprio la sinistra dominante nell'ultimo quindicennio e le sue culture “deboli”, delle quali Giddens è stato uno dei massimi teorici, ad avere esaurito la loro funzione, e che dalla crisi del socialismo è possibile uscire se si evita di riprodurre quelle culture e anche l'orizzonte entro il quale il dibattito si è sviluppato.
Da dove nasce, del resto, il malinconico tramonto del blairismo? Esso non è, forse, originato dal fatto che la sinistra residuale e “asocialista” che propone Giddens è non già la risposta, ma uno dei fattori della crisi? E allora le domande sono: c’è bisogno di una nuova sinistra? E il riferimento al socialismo va abbandonato o deve restare componente essenziale di questa nuova sinistra?
A noi pare che tutto ciò che ci circonda indichi la necessità che a queste domande sia data una risposta positiva. È una necessità che nasce dalle contraddizioni vecchie e nuove del capitalismo, che il modello neoliberista tende a esasperare. I processi di globalizzazione in atto, a partire dall'affermazione dei grandi colossi asiatici, poggiano le loro basi sul più grande esercito industriale di riserva che la storia dell'umanità abbia mai conosciuto. Il lavoro (tutto il lavoro, da quello intellettuale a quello manuale, dal lavoro stabile e garantito a quello precarizzato) costituisce il centro e il motore dello sviluppo. Altro che fine del lavoro! La globalizzazione ha determinato l'eliminazione o la riduzione delle tutele del lavoro costruite nel secolo scorso, ma non ne ha rimesso in discussione il ruolo centrale nella produzione della ricchezza. Una globalizzazione senza socialismo, affidata esclusivamente al mercato, fa aumentare fortemente e progressivamente su scala mondiale le ingiustizie e le differenze sociali. All'aumento della ricchezza complessiva corrisponde un aumento spaventoso della povertà per parti intere del pianeta, e negli stessi paesi occidentali sono sempre più estesi i ceti sociali tagliati fuori da un'equa distribuzione del reddito e delle risorse. E mai come oggi le giovani generazioni si sentono private del loro futuro.
È di fronte ai problemi del mondo contemporaneo, insomma, che noi crediamo legittimo porsi l'obiettivo del cambiamento dello stato di cose esistenti, un cambiamento dei processi in atto per indirizzarli verso un nuovo sviluppo della democrazia e della libertà, a cominciare (è ancora lecito dirlo?) dalla fondamentale ed elementare libertà dal bisogno.
Ma l’adozione di un punto di vista critico rispetto a una globalizzazione affidata al primato assoluto del mercato e la prospettiva di un agire politico che intende tradurre questa critica nella linea ispiratrice di una condotta riformatrice (o riformista, le parole non facciano paura) sono storicamente stati la sostanza del movimento socialista, per tutto l'arco del Novecento. Siamo davvero sicuri che oggi non serva più una soggettività politica che quella sostanza si proponga di far vivere negli scenari del nuovo millennio?
E qui torna la questione dell'Europa. Il dibattito un po’ provinciale (oltre le Alpi, come si sa, non ne parla nessuno) sulle ipotesi di allargamento dei criteri di adesione, e magari anche del nome, del partito del socialismo europeo riduce a un fatto organizzativo un tema che ha ben altro spessore. Il tema “socialismo e Europa” è un altro.
Il socialismo, come concretamente si è svolto e al di là della sua stessa aspirazione all’universalità, è stato un fenomeno essenzialmente europeo. Anzi, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, è stata parte costitutiva e decisiva della civilizzazione e dello sviluppo europeo. Quel modello europeo al quale spesso ci si richiama, che è fatto di Stato sociale, di diritti del mondo del lavoro, di ampia e diffusa partecipazione politica, di aspirazione alla pace e a rapporti più giusti a livello planetario, connota l’identità stessa dell’Europa: nella storia, non in astratte proclamazioni. E senza il socialismo (come pensiero forte e come azione politica) tutto ciò non sarebbe stato nemmeno immaginabile.
Proclamare la fine del socialismo non significa allora anche eliminare quelle differenze del modello europeo rispetto a modelli capitalistici dominati da altre logiche, che costituisce l'identità specifica e propria dell’Europa?
Spezzare il filone ideale e politico del socialismo implicherebbe la rinuncia a una parte importante di una storia e di un agire collettivo, che servono non per cullarsi in nostalgie passatiste, ma per realizzare due obiettivi decisivi oggi. Il primo è di indicare ai popoli europei le ragioni della loro unità, dopo il fallimento del progetto del trattato costituzionale. La seconda è rilanciare la funzione dell'Europa nella costruzione di nuovi equilibri politici e sociali multipolari: unico processo in grado di delineare una via d'uscita rispetto ai rischi catastrofici del conflitto tra fondamentalismi e della guerra come strumento per risolverli.
Decretare sommariamente la morte del socialismo, insomma, va contro la storia e contro ciò che concretamente serve: una nuova sinistra, che sappia rinnovarsi, senza nostalgie ma anche senza insostenibili abiure.

unitiasinistra.it 28.9.06
L'occasione unitaria a sinistra
Dibattito. Sinistra europea non è l'allargamento del Prc, non è subordinata al Partito democratico, ma deve essere la casa accogliente per chi non lo vuole
di Pietro Folena


La due giorni della Sinistra Europea (domenica, con l’assemblea che ha lanciato il congresso costituente in primavera; sabato, con la manifestazione alla Festa di Liberazione) ha, tra le altre cose, avuto il merito di far uscire allo scoperto un dibattito sulla natura e direi la “ragion d’essere” di un nuovo soggetto politico della sinistra. Dico subito come la penso: a mio parere esiste in Italia, e in Europa, l’esigenza di una sinistra di trasformazione. Non solo perché molti dei partiti socialdemocratici hanno dimesso quasi ogni riferimento al mondo del lavoro ed alcuni si dicono apertamente liberali, ma soprattutto perché non esiste, ad oggi, un soggetto politico in grado di indicare una uscita da sinistra alla perdita di legittimità del neoliberismo di fronte a parti ormai maggioritarie dei popoli occidentali. La guerra, la precarietà del lavoro e della vita, l’idolatria del “mercato”, la privatizzazione della vita, dei saperi e della natura, soprattutto grazie ai movimenti dal 2000 ad oggi, sono diventate realtà indigeste. Manca però un soggetto politico che – al di là della natura carsica dei movimenti – sia in grado di dare rappresentanza a idee, desideri, disagi condivisi globalmente.

Questo è il quadro nel quale nasce la Sinistra Europea prima come partito continentale ed oggi come soggetto italiano. Come si vede, è una genesi che poco ha a che fare con le vicende italiane legate al partito democratico. E, tuttavia, non si può nascondere neppure che il partito democratico – e processi differenti in altri paesi europei: la Grosse Koalition tedesca, il centrismo blairiano – ha e avrà una influenza nella velocità e nelle tappe con le quali ci si avvicinerà alla fondazione della nuova soggettività. Non è un caso, ad esempio, che in Liguria e Abruzzo il “correntone” Ds sia prossimo al cantiere della SE, così come in altre regioni si manifesti un interesse crescente. E neppure può essere sottovalutata la disponibilità dell’area di Cesare Salvi. O, ancora, ha a mio parere un significato molto forte la presenza a pieno titolo dell’Associazione Rossoverde – formata prevalentemente da compagni ex Pdci - dentro il percorso della Sinistra Europea, ma anche l’interesse dimostrato da una serie di soggetti (cito l’ARSinistra, che con Uniti a Sinistra e Rossoverde ha promosso il seminario di Orvieto)

E’ naturale che chi ha condotto una battaglia di sinistra e per l’unità della sinistra dentro i partiti, oggi guardi con interesse e favore alla formazione di un nuovo soggetto. Ed è altrettanto ovvio che chi sta mettendo le basi della Sinistra Europea non può non interrogarsi su come rendere la casa del nuovo soggetto più accogliente per quanti oggi sono ancora alla finestra e si interrogano – legittimamente – sul suo sbocco e sulla sua credibilità.
Ma da questo a subordinare l’avanzare del cantiere alle vicende esterne, ce ne corre. Perché non sfugge a nessuno, credo, che Partito Democratico o non Partito Democratico c’è bisogno di una soggettività della sinistra di trasformazione. Del resto già oggi i Ds sono il partito democratico. Non solo perché non hanno più propri gruppi parlamentari, e presto neppure consiliari. Non tanto perché nelle ultime tornate elettorali sono più i casi in cui la Quercia ha lasciato il passo all’Ulivo che il contrario. Ma soprattutto perché il programma politico di quel partito è oramai iscritto in un orizzonte che ha poco a che vedere con il socialismo, fatto salvo il richiamo al Pse e all’Internazionale non come soggetti che rappresentano una tradizione o un’idea ma come “campo di forze” (cito Massimo D’Alema). Insomma, ci diciamo socialisti – per ora – solo perché apparteniamo al Pse, ma non apparteniamo al Pse perché siamo socialisti.

La Sinistra europea, invece – lo ha sottolineato chiaramente Franco Giordano – sarà una forza socialista che, per dirla con Berlinguer, vuole fare il socialismo sul serio. Un socialismo inteso nell’accezione più autentica del termine: mettere al centro la società e la persona (non lo Stato, né l’economia); non la conquista del potere, ma la sua cessione alla società; non la dittatura del proletariato, ma la partecipazione di tutti e tutte alla democrazia. Un socialismo che è in grado di dire con forza con Riccardo Lombardi che l’economia viene dopo l’interesse generale e che la politica ha il diritto-dovere di intervenire sul capitalismo, sul mercato, non solo per fare il vigile urbano tra i soggetti privati, ma per indirizzare lo sviluppo senza avere paura di essere tacciata di dirigismo. I cittadini contano di più dei membri di un Consiglio di Amministrazione.

Per fare questa sinistra però occorre mettere da parte dubbi, incertezze, resistenze. E’ legittimo, sia chiaro, discutere e fino in fondo. Ma la sfida a cui siamo chiamati è troppo alta e troppo importante per essere sottoposta alle logiche interne dei partiti, oppure declassata ad un allargamento di Rifondazione comunista.
Il Prc ha con generosità aperto questa fase costituente. Si è messo a disposizione, già da Genova, per la creazione di una nuova sinistra. E’ necessario che oggi superi la tentazione di autoconservazione, che si metta in discussione fino in fondo. E’ uno sforzo che mi rendo conto essere gravoso. Uno sforzo inedito, che nessun soggetto politico sinora ha tentato in questi termini. Ma è uno sforzo necessario. Lo dobbiamo a quella compagna della Fiom che, intervenendo sabato dal palco, ha gridato l’esigenza per i lavoratori di sentirsi rappresentati anche nella politica. Lo dobbiamo ai lavoratori precari che senza questa sinistra non avrebbero nessuno – ma davvero nessuno – che si faccia carico di riproporre il contratto a tempo indeterminato come architrave della piena e buona occupazione. Lo dobbiamo ai tanti e tante che aspettano da troppi anni una novità unitaria a sinistra. C’è un mondo che va oltre noi a cui insieme dobbiamo rispondere sì.



Istituto dell'America Latina - Mosca 24.11.93
LO SPIRITO UMANISTA NELL'ISLAM
di TAUFIK IBRAHIM


All'interno della cultura musulmana si svilupparono differenti tipi di umanesimo: individualista, universalista, laico e religioso. La forma religiosa dell'umanesimo si rivelò in modi più chiari nel sufismo - vale a dire il misticismo musulmano - , e le sue radici risiedono nel Corano, che è la Parola di Dio e negli Hadith, che sono i detti del Profeta Maometto. Più avanti ci soffermeremo su alcune idee umaniste prese da queste fonti della rivelazione divina.
Nella versione musulmana dell'universo, l'essere umano non è soltanto una delle più perfette creature; egli rappresenta lo specchio nel quale osservare Dio stesso. "Io", dice il Creatore, "sono stato il tesoro nascosto e voglio essere riconosciuto: per questo ho creato il mondo". Ma, all'inizio, prima di creare l'essere umano, il mondo sembrava uno specchio non levigato. Ogni cosa in esso rifletteva uno degli infiniti "nomi" del Dio, uno degli aspetti dell'Assoluto. Prese tutte insieme nella forma dell'Universo, le creature consistevano in qualcosa di intero, che corrispondeva alla coscienza dell'Assoluto, di se stesso. Ma, senza l'essere umano, l'universo non può rappresentare qualcosa di intero, di vero: solamente l'uomo è colui che sintetizza tutte le forme dell'essere, solamente egli plasma in sé l'integrità del mondo e, ciò che è più importante, solamente egli è capace di prendere coscienza di questa integrità. L'uomo, l'Adamo si è fatto vero, "uno specchio levigato", nel riflesso divino. Nell'uomo, attraverso l'uomo, il Dio Assoluto arriva a prenderò coscienza di se stesso. L'uomo occupa il luogo centrale nell'universo perché egli è la causa dell'apparizione del mondo: "Se non fosse per te, io non creerei il cielo". E ancora, concordemente con una delle leggende del profeta, l'uomo serve come paradigma che genera il modello del futuro universo. In tal modo, l'uomo non è la copia sminuita dell'universo, il suo microcosmo, ma è il mondo stesso a rivelarsi come il riflesso dell'uomo, come macroantropo.
Nel racconto coranico della Creazione dell'Uomo, di Adamo, si dice che "Dio ha dato al primo uomo la figura che è stata composta nella maniera migliore". In uno degli Hadith si precisa: "Dio creò Adamo a propria immagine e somiglianza". L'essere umano prese una delle dimensioni divine quando il Creatore, secondo il Corano, "gli diede una parte del suo spirito". L'uomo, che è fatto a immagine di Dio e che partecipa dello spirito di Dio, fu inviato da Dio per fare da Ministro o Califfo sulla Terra e così Egli lo pose al di sopra delle altre creature che la popolano. Mettendo una speciale enfasi sullo status dell'uomo nel mondo, il Creatore inviò gli esseri supremi, gli angeli, a rendere omaggio al futuro Re della Natura.
Gli angeli adorarono l'uomo. Adamo, secondo una delle versioni, meritò questo tipo di onore per aver mostrato la superiorità della propria conoscenza rispetto a quella degli angeli. Essi non poterono dar nome alle cose, e Adamo mise i nomi alle cose. Dopo di che, si dice in uno degli Hadith, Dio si diresse agli angeli e disse: "Ora è chiaro che Adamo è colui che sa e voi siete coloro che pregano, e uno che sa è molto migliore di migliaia che pregano. Dovunque vi sia qualcuno che prega, questi deve riconoscere la supremazia di colui che sa".
In tal modo, l'antropocentrismo musulmano si complementa con una delle idee umaniste che, a prima vista, sembra un po' paradossale: il riconoscimento della ragione umana come valore supremo, un accento speciale sulla supremazia del sapere rispetto alla pietà. Il primato dell'intelletto, della sapienza, si rifletté nei seguenti discorsi del Profeta: "La riflessione di un'ora è meglio del servizio di settanta anni"; "Di sicuro l'inchiostro dei saggi è più prezioso del sangue dei martiri". Nell'Islam il prestigio della conoscenza è molto più grande che in altre civilizzazioni. E' con questa deduzione che termina il libro "Il trionfo della saggezza" ("Knowledge triumphant"), del famoso conoscitore dell'Oriente, il nordamericano F.Rosenthal. E' necessario dire che nel racconto coranico della creazione dei primi esseri umani è assente un dettaglio come la creazione di Eva dalla costola di Adamo. Nell'Islam, perciò, nessuno poneva domande riguardo al fatto se la donna è un essere umano e se possiede un'anima, questioni che i cristiani discutevano nei loro concilii. L'antropologia coranica non era terreno fertile per un tipo di conclusioni sulla forma metafisica secondaria della donna come le seguenti: se Adamo fu creato prima di Eva la donna dovrebbe stare sempre zitta, non può insegnare, come vien detto da San Paolo, non può essere testimone, non può giudicare, come disse Sant'Agostino.
Secondo uno degli Hadith, Eva fu creata insieme ad Adamo ed era sua sorella gemella. Nella tradizione musulmana ci sono al riguardo altre leggende che riproducono la versione biblica della creazione di Eva dalla costola di Adamo. Ma in bocca al Profeta questa leggenda assume un altro senso, che non è diretto contro la donna, ma in sua difesa: "Ella è creata dalla costola incurvata e, per questo, volendo tenerla più dritta, potrebbe succedere che la si rompa".
Non vi sono ragioni per l'antifemminismo nella storia coranica del peccato dei primi esseri umani. Non c'è alcuna traccia del ruolo di Eva come la prima a violare la proibizione divina di mangiare il frutto dell'albero, né del fatto che ella per prima abbia ceduto alle tentazioni di Satana. Ancora più sostanziale é, dal punto di vista della prospettiva umanista, il modo in cui la tradizione islamica sminuisce il significato del peccato originale e lo riduce solamente ad un piccolo errore. Adamo, secondo il Corano, semplicemente dimenticò il Testamento Divino e poi si pentì. Dio accettò la sua penitenza, "E lo avvicinò a sé e lo indirizzò verso la retta via". La fuga di Adamo ed Eva dal Paradiso può esser vista non come un castigo, ma come una possibilità data all'uomo di guadagnare col suo lavoro sulla terra il paradiso della vita futura.
Come si vede, all'Islam è completamente estranea l'idea del peccato originale come il grande crimine che cambiò sostanzialmente l'integrità degli uomini e che, in particolare, li privò della somiglianza con Dio, così come gli è estranea l'idea della responsabilità che tutte le generazioni future devono sopportare. Secondo gli studi islamici, l'essere umano è per sua natura innocente: non solo nasce puro, senza peccato, ma anche credente, e si trasforma in qualcosa di differente solo sotto l'influenza dell'educazione e dell'ambiente.
Il Corano non contiene informazioni sui castighi conosciuti, ai quali, secondo il racconto biblico, furono sottoposti i primi uomini e, successivamente, i loro discendenti come conseguenza del peccato originale. In particolare, secondo l'Islam, "guadagnarsi il pane col sudore" per mantenere la propria famiglia, non è il castigo per il peccato originale, ma é, al contrario, una delle azioni più devote. Ciò viene espresso nei detti del Profeta: "Ci sono altri peccati, per redimere i quali si può solamente guadagnare il pane di ogni giorno" o, secondo un'altra versione: "grazie al lavoro, mantenere la famiglia". Anche "partorirai i tuoi figli nel dolore", non è un castigo per Eva e, con essa, per qualsiasi donna in generale, ma al contrario, si tratta, secondo l'Islam, di uno degli atti più grandi di autosacrificio. Secondo il Profeta, il Creatore stabilì che ogni qual volta una donna soffre durante il parto, si tiene conto delle sue sofferenze e verrà poi premiata come una martire divina. Se il parto è andato a buon fine, le vengono perdonati tutti i suoi peccati precedenti, anche se sono stati molti, anche se sono tanti quanti la schiuma del mare. Inoltre, se una donna muore durante il parto, viene considerata una martire e starà in Paradiso fino all'ultimo giorno, quello della resurrezione, quando potrà riunirsi a suo marito, superando, per di più, per settanta volte le donne del Paradiso, le vergini. La glorificazione della donna madre trovò la sua più chiara incarnazione in queste altre parole del Profeta: "Il Paradiso si trova sotto i piedi delle madri".
L'orientamento umanista della fede musulmana si rivela con particolare chiarezza nell'attenzione continua per gli interessi terreni e per le necessità dell'uomo: "Il migliore di voi", dice il Profeta, "non è quello che rifiuta il terreno per il divino o viceversa, ma colui che prende da tutti e due". E' nello spirito della vocazione coranica "non proibire i beni permessi da Dio". Il Profeta metteva in guardia tutti affinché non fossero estremisti nel compimento degli obblighi religiosi. Egli rifiutava la devozione esagerata che si riscontra, tra l'altro, nel rinunciare ai beni terreni ed ai piaceri. E' molto conosciuta la sua reazione estremamente negativa davanti alla decisione di uno dei musulmani che aveva fatto voto di celibato: "Tu hai preso la decisione di essere un seguace di Satana o vuoi essere un monaco cristiano, quindi se vuoi farlo, fallo apertamente. Se sei uno dei nostri allora devi seguire i nostri costumi, che comprendono la vita nel matrimonio". In modi più laconici, la posizione antiascetica del Profeta si rivela in una formula molto diffusa: "Non ci sono monaci nell'Islam". Affermando l'erotismo amante della vita, l'Islam respinge il timore davanti alla carne e il rifiuto della vita sessuale come peccato, come macchinazione del Diavolo. "Quando i coniugi si accarezzano", dice il Profeta, "Dio li guarda con uno sguardo pieno di bontà". Il tratto umanista dell'etica sessuale dell'Islam consiste nel sottolineare la parte della donna nelle relazioni intime come soggetto in condizioni di eguaglianza. E' obbligo del marito essere attento alla soddisfazione dei desideri sessuali della moglie. In una delle lezioni del Profeta si dice: "Non gettatevi sulle vostre donne come fanno gli animali, costruite un ponte fatto di dolci parole e di baci". L'Islam non diffondeva tra i suoi credenti una visione apocalittica, basata sul timore costante di prossime catastrofi. Se pure viene sottolineato il carattere ineludibile della fine del mondo, viene anche detto che "Bisogna sforzarsi in questa vita come se essa fosse eterna".
Uno degli aspetti dell'umanesimo musulmano è relazionato con un modo speciale di amare l'essere umano, la bontà divina. "Nel nome di Dio, benevolo e misericordioso", con questa formula si apre il Corano ed ognuno dei suoi cento quattordici capitoli. Il Dio coranico si propose di essere misericordioso. Terminata la creazione delle creature, dice uno degli Hadith, il Creatore scrisse queste parole e le mise sul suo trono: "La mia misericordia è più grande della mia ira". In un altro Hadith si dice che Dio, dopo aver creato la misericordia, la divise in cento parti uguali. Una di queste parti la distribuì fra tutte le creature ed è per ciò che ogni tipo di amore, affetto, pietà e compassione sono parte di questo mondo. Le altre novantanove parti Dio le tenne per sé e le distribuirà fra la gente il Giorno del Giudizio Finale. Dio può perdonare tutti i peccati senza eccezione, si dice nel Corano. Solamente chi ignora la dottrina non crede nella Misericordia Divina: "Giuro su di Lui, che ha in mano la mia anima", disse una volta il Profeta, "che, se voi non commetteste peccati, il Supremo creerebbe altri affinché pecchino, si pentano e ricevano il suo perdono".
La rivelazione più chiara dell'amore di Dio per la gente e della sua indulgenza consiste nell'ordine da Lui stabilito, in base al quale tenere il conto delle azioni. Se l'uomo ha l'intenzione di commettere un atto buono, esso viene contato come un atto buono. Se l'uomo porta a termine questo atto buono, esso vale da dieci a settecento atti buoni. Se l'uomo ha intenzione di commettere un'azione cattiva, non se ne tiene conto. Dopo che l'azione cattiva è stata commessa, essa viene conteggiata solamente come una azione". Inoltre, un peccatore pentito può sempre contare sul perdono divino, come disse il Profeta: "Dio si rallegra di più per la penitenza del suo schiavo che tu del ritrovamento insperato di una cosa persa"; "A chi si avvicina a Dio di un passo, Dio gli si avvicinerà di cento passi; mentre uno si dirigerà al suo incontro camminando, Dio lo farà correndo".
Non è mai tardi perché un peccatore si diriga a Dio per chiedere il Suo perdono. Inviando Adamo sulla terra Dio gli promise: "Non chiuderò mai le porte della mia Misericordia davanti alla penitenza dei tuoi discendenti, anche quando si pentissero solo nell'estremo istante". Tuttavia il peccatore che non ha trovato il tempo di pentirsi durante la sua vita non deve perdere le speranze di salvazione, poiché coloro che, nel giorno del giudizio finale, saranno condannati alle sofferenze dell'inferno possono contare sull'aiuto degli angeli, dei profeti, dei saggi, dei martiri, compresi gli abitanti "semplici" del Paradiso. Va fatta una speciale menzione per il diritto dato ai bambini di difendere i propri genitori. Il bambino innocente, il quale ha la salvezza garantita, desisterà dall'andare da solo in Paradiso. Perciò, aggrappandosi alle vesti dei genitori, condannati per i loro peccati, li porta con sé in Paradiso, con il permesso di Dio. Anche quelli che vanno all'inferno, dopo aver scontato le proprie colpe di peccatori, vengono fatti uscire da lì. Questo felice finale spetta per primi ai musulmani - nel senso stretto della parola, i seguaci di Muhamad - e in un senso più ampio, ai monoteisti in generale. Poi, a tutti coloro che hanno una briciola di fede nel cuore; e, infine, secondo l'opinione di quasi tutti gli interpreti del Corano, a tutti i peccatori che abitano nell'inferno.
Nessuno deve disperarsi. Tutti possono sperare nel perdono, inclusi gli ultimi peccatori e il nemico acerrimo di Dio, Satana. Non è forse detto nelle Scritture: "La mia pietà è universale"?

Repubblica 29.9.06
L'ORGANIZZAZIONE SI SCIOLSE TRENT'ANNI FA. UN DIBATTITO SU "MICROMEGA"
GLI ULTIMI GIORNI DI LOTTA CONTINUA
di NELLO AJELLO


Nel numero di MicroMega che esce oggi è ospitato un dibattito su Lotta continua, a trent´anni dallo scioglimento dell´organizzazione.
Rimini, primi di novembre del 1976. Nel corso del suo secondo congresso, Lotta continua – uno dei movimenti più vivaci della sinistra estrema – si dissolve in maniera che a molti pare inspiegabile. L´Unità, organo di quel Pci che con la compagine politica di Adriano Sofri e Guido Viale non è mai stato tenero, rileva che i congressisti «hanno sostituito le emozioni alle mozioni» e scorge nell´evento una «crisi della militanza di estrema sinistra». Dal suo canto Lotta continua – il quotidiano che, nato del ´72, fa capo al movimento – rinunzia a fornire «un verbale esatto delle emozioni che ci hanno travolti». A Rimini, aggiunge con spontanea iperbole, si sono vissuti «cinque giorni tra la vita e la morte», fra «l´angoscia e la gioia».
Quei giorni di novembre non erano che l´epilogo di una situazione esplosa all´interno del movimento quasi un anno prima, durante un corteo in sostegno della legalizzazione dell´aborto, tenutosi il 6 dicembre 1975. Lotta continua vi partecipò con un proprio striscione. A un certo punto, le femministe che militavano nel movimento cercarono di separarsi dagli uomini, rivendicando una loro autonomia. Il servizio d´ordine di Lotta continua le ostacolò o represse. Sugli incidenti che ne nacquero si sarebbe dibattuto a lungo sia in Lotta continua che nell´intera galassia della sinistra radicale. Così scrisse, a botta calda, il Quotidiano dei lavoratori: «Compagno Sofri, sabato scorso l´avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo dimenticherà». Se ne avrà la prova a Rimini, appunto: lì sarà proprio l´ala femminista del movimento, se non a causare la sua fine, certo a forzarne i tempi.
Nel numero che è oggi in edicola la rivista MicroMega dedica all´evento un diffuso dibattito cui partecipano quattro ex esponenti di Lotta continua: Guido Viale, lo storico Giovanni De Luna, Franca Fossati, femminista storica, lo scrittore Erri De Luca, a suo tempo fra i dirigenti del servizio d´ordine. Tutti d´accordo nel collocare in quel novembre di trent´anni fa l´epilogo del movimento (mentre Lotta continua-giornale resisterà fino al 1981). La discussione verte, invece, sulla diagnosi politica del "caso", sulle sue ripercussioni a breve termine e perfino sulla modalità degli scontri che lo precedettero. De Luna si sofferma, ad esempio, sul rilevante «significato politico e simbolico» dell´incidente del ´75. Ricorda che, in un´assemblea svoltasi a Torino subito dopo, la stessa collocazione dei partecipanti rifletteva una drastica separazione: «In alto c´era la macchia scura degli operai, in basso quella delle donne; poi c´erano gli studenti, che non sapevano dove stare. Nel centro c´era una dirigenza schiacciata dall´incomunicabilità che si respirava in quell´aula». Ne nasce l´esigenza di fare luce sulle responsabilità di questa incomprensione. E qui lo storico accenna a un precedente. Risalendo all´atteggiamento tenuto dal movimento durante la campagna per il referendum sul divorzio (1974), trova che quello fu ritenuto un diversivo per «distrarre gli operai dalla dimensione salariale della lotta»: qualcosa di estraneo ai loro interessi. Si fece poi marcia indietro, e alla rigidità subentrò «un´apertura senza mediazioni»; ma il male era ormai senza rimedio. Operai e femministe «non si parlavano più».
«Sul problema delle donne – incalza Franca Fossati – Lotta continua ebbe una tardiva capacità d´ascolto». E, quando la nascita del femminismo diventò una realtà globalmente accreditata, ecco che esso assurse, per le donne del movimento, «un orizzonte totalizzante», determinando «un cambiamento nella nostra vita e in quella di molti uomini». Una questione dall´evidente «risvolto esistenziale». Si sfasciarono, ad esempio, «molte coppie».
Al riparo di un falso operaismo – qui la testimonianza della Fossati si fa accorata – lo stile di vita nel movimento prendeva «tutti i difetti peggiori della famiglia operaia patriarcale»».
Uno spirito separatista nasceva dai fatti. E ne derivava anche una certa dose di settarismo: «Noi, come tutte le neofite di un movimento, vedevamo le donne che non stavano con noi come traditrici. E fu molto ingiusto e crudele.».
Autocritica? Non è soltanto la Fossati a farne. In prossimità del suo epilogo, sostiene ad esempio Viale – d´accordo, in questo, con De Luna – «il movimento stava perdendo la capacità di capire quello che succedeva nel paese». E, in particolare, «l´esplosione del movimento femminista è stata una contraddizione lacerante, che ha trovato l´organizzazione impreparata». Per capire gli effetti che avrà in Lotta continua la contraddizione uomo-donna, occorre comunque tener presente che fra militanti si svolgeva allora una «vita in comune», animata da una contiguità di sentimenti.
Se non il più polemico, certo il più controversiale fra i partecipanti al dibattito è Erri De Luca. Egli discorda da Giovanni De Luna che vede alla base della decadenza di Lotta continua «l´esaurimento della forza operaia nelle fabbriche». Pone piuttosto alla base della crisi il mancato (benché promesso) sorpasso del Pci sulla Dc alla elezioni del ´76 e le insignificanti percentuali raccolte dalla sinistra extraparlamentare. Lo scrittore quasi non riesce ancora a crederci. «Un´organizzazione rivoluzionaria» ed extraparlamentare «che si lascia scompaginare dal risultato elettorale, è abbastanza ridicolo». A quel punto, le dimissioni del «gruppo dirigente di Lotta continua» erano nei fatti. Anzi, rivela De Luca, erano state decise già un anno prima.
Lotta continua e la violenza. Se quel movimento sia stato o no un incunabolo del terrorismo. Se il suo servizio d´ordine abbia rappresentato o meno un «corpo separato» prendendo la mano al movimento; se i suoi effettivi fossero armati o inermi. Temi scottanti che il dibattito di MicroMega ripropone con efficacia. I reduci si accalorano nel rievocarli. A volte si dividono con nettezza fra autocritici e «auto-innocentisti». Sempre tenendo presente – sono parole di Viale – che fra i militanti d´un tempo «si sono mantenuti poi dei rapporti di forte solidarietà».

giovedì 28 settembre 2006

Repubblica 28.9.06
Nel cuore di Bertolucci
Oggi Il regista riceve il premio Musatti
In questa intervista l'autore di "Ultimo tango a Parigi" racconta come l'analisi ha influenzato il suo cinema
di Luciana Sica


ROMA. «Finché c'è analisi c'è speranza»... Ma chi può osannare tanto la clinica di Freud, oggi tutt'altro che venerata? Molto contro corrente, ci vuole coraggio intellettuale, oltre a una vena d'ironia. La battuta - pronunciata con un sorriso - è di Bernardo Bertolucci, che in terapia ci è andato la prima volta all'età di 29 anni e oggi che ne ha 65 è alla sua quarta analisi. Un "Freud addicted", è l'autoironica definizione del regista di tanti film amatissimi e a volte odiati, atteso oggi a Siena per la consegna del Premio Musatti.
Per quest'intervista, siamo con Bertolucci nella sua elegante casa di Trastevere, piena di quadri e di foto che lo raccontano, come l'immagine di lui giovane a passeggio con la moglie Clare, sfacciatamente belli e allegrissimi, o anche il ritratto in bianco e nero del padre Attilio, il grande poeta scomparso sei anni fa. Bertolucci colpisce per la dolcezza, merce così rara ormai, è gentile e curioso, per niente snob ma estraneo a ogni faccia della banalità: questo sì. È un uomo molto inquieto, venato di malinconie, ancora attraente, nonostante la salute malferma.
Nel corso di un'edizione del Festival europeo di psicoanalisi e cinema, di cui lei è presidente onorario, venne presentato un suo cortometraggio dal titolo Histoire d´Eaux. In quel breve film c'era in sottofondo una canzone di Mina, con una frase che dice "e capirai in un solo momento cosa vuol dire un anno d'amore". Gli analisti le chiesero il perché di quella scelta, come se dietro ci fosse chi sa cosa... Lei trova che questo genere di domande a un cineasta siano pertinenti, assurde, cervellotiche o cos'altro?
«Non saprei dirle, francamente. Ma per quella che è la mia esperienza, devo dire che in genere gli analisti non chiedono, tendono invece ad ascoltare... Quella canzone di Mina era semplicemente un omaggio al mio amico Almodóvar che l'aveva messa in Tacchi a spillo, poi lui in La mala educación ha inserito Cuore matto che io avevo usato ne L'assedio. Tutto qui. Sono piccoli messaggi cifrati, trasversali, nient'altro».
Sempre in quell'occasione, lei disse che il tempo in sé non esiste e che ognuno di noi possa farne esperienza in modo personalissimo... Non siamo nel pieno dell'atemporalità dell'inconscio, tanto cara ai freudiani?
«Dell'atemporalità dei sogni, direi: è in questo senso che psicoanalisi e cinema hanno qualcosa in comune, e non a caso nascono insieme a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento. Il mio cinema credo sia molto vicino al mondo onirico, ed è comunque per questo che per me l'analisi è da sempre un'esperienza essenziale».
Ma davvero si può dire - con uno psichiatra di fama, Vittorio Volterra - che «alcuni suoi film sembrano verbali di una seduta psicoanalitica»?
«Mi sorprende, francamente... Senz'altro, all'inizio il mio cinema era molto chiuso, un po' punitivo, rigoroso come allora si diceva, proprio un cinema duro e puro che quasi non teneva conto del pubblico. Con l'analisi ho cominciato ad aprirmi io e si è aperto anche il mio cinema, sono passato da un continuo monologo a un dialogo con l'analista e con gli altri: le due cose sono andate di pari passo».
Lei comincia l'analisi nel '69 con Piero Bellanova, personaggio eccentrico, analista di fama ma anche in gioventù poeta futurista. Cosa le ha dato?
«Molto, mi ha consentito di scoprire tante cose. Andavo da lui e tendevo di più ad analizzare quello che stavo facendo che non me, ma quello che facevo ero io! È stato un analista molto partecipe, una guida eccezionale, quasi un complice... Certo, non è un caso che siano venuti, uno dopo l'altro, La strategia del ragno, Il conformista, Ultimo tango a Parigi».
L'indimenticabile Ultimo tango è del '72. Può dire come lo ha "elaborato" nella stanza d'analisi?
«Non discutevamo delle sequenze, io e Bellanova, naturalmente no... Portavo il materiale di un sogno, cercavamo di capire cosa volesse dire, magari mi rendevo conto del voyeurismo che c'è nel mio mestiere, di come la macchina da presa finiva con l'essere il buco della serratura che permette ai bambini di spiare mamma e papà mentre fanno l'amore, il veicolo per la scena primaria... Fare un film era in qualche modo ripetere quell'esperienza. Ma sa, è molto difficile da dire, perché l'analisi per me è sempre stata poesia e prosa insieme, un altro linguaggio».
Poi c´è stato Novecento, che lei ha addirittura presentato in un congresso della Società psicoanalitica a Venezia.
«Sì, e ricordo che fu anche imbarazzante. C'era Bellanova e tutti erano un po' come intimiditi: il dibattito fu un disastro... Ho rivisto quel film a Bologna, in giugno, dopo trent'anni. In tutto questo tempo mi era capitato di guardarne qualche pezzetto, mai tutto intero: del resto dura cinque ore e un quarto, è stato il picco della nostra megalomania, intendo mia e del mio analista. L'ho rivisto al di fuori da tutto questo intrigo tra la mia creatività e l'analisi, mi è sembrato di essermene riappropriato».
Quando Bellanova è morto, nell'87, lei era ancora in cura da lui?
«Sì... Non ha fatto in tempo a vedere L'ultimo imperatore, questo mi è dispiaciuto molto».
La sua scomparsa sarà stata un grande dolore per lei.
«Un grande lutto, sì. Avevo ancora i genitori, però».
Cosa pensava suo padre della sua passione per l'analisi?
«Mio padre rifiutava l'analisi, parlava delle sue nevrosi come di una malattia necessaria: per scrivere poesie, per essere creativi. A suo tempo anche Pasolini mi disse: stai attento, stai attento... Ma perché?, dicevo io. "Perché rischi di perdere la poesia. Leggilo Freud, devi conoscerlo, fai come me: l'ho letto tutto, ma non andare in analisi!". A me sembrava un'idea un po' vecchiotta, del genere genio e sregolatezza, un'idea propria di quella generazione. Io ho sempre pensato che si possa essere creativi, anche soffrendo un po' meno».
Se lei ancora oggi è in analisi, vorrà dire che non ha smesso di soffrire.
«Ma io ho sempre considerato l'analisi come un'esplorazione dell'inconscio che si riflette nel mio cinema, come un viaggio senza meta. È Freud a dire che non si guarisce mai, e allora perché avere un'altra separazione, oltre a tutte le altre che abbiamo nella vita: anche dall'analista, anche dall'analisi?».
Lei è un regista, e un intellettuale. Pensa, o meglio "sente" che la psicoanalisi ha ancora un peso nella cultura di oggi?
«È una domanda che ricorre periodicamente. Ogni tanto si legge un titolo del tipo "la psicoanalisi è morta". È la cultura che continua ad avere paura dell'analisi, a coltivare una sua forma di resistenza nei confronti di Freud. Io non sarei così pessimista: l'analisi non muore, si trasforma questo sì, perché è comunque immersa nella vita, nella quotidianità, nel presente».
Ha detto più volte che fare cinema, per lei, è terapeutico. È ancora così?
«Assolutamente. Credo anzi di essermi fatto del male, non lavorando. Oggi ho un gran bisogno di fare un film».
È la prima volta che la Società psicoanalitica italiana assegna il Premio Musatti a un regista: a lei.
«M'impressiona molto questo premio intitolato a Musatti, un personaggio che ho conosciuto già molto vecchio, ma talmente ironico, simpatico: era come una maschera veneziana. Più che un riconoscimento, lo considero un risarcimento, visto che sono un caso di analisi interminabile! Sono passati 37 anni - non solo per me ma anche per loro, gli analisti - e questo premio è la prova di una continuità che vivo come una vittoria: per non aver abbandonato l'analisi, per aver resistito... Alla fine è durata molto di più la passione analitica della passione politica, poco alla volta distrutta dal tempo».

Repubblica 28.9.06
La lunga storia del "transfert"
il congresso
di Luciana Sica


SIENA - Il Congresso nazionale della Società psicoanalitica italiana, in programma fino a domenica a Siena, si apre oggi in un clima di festa, con la consegna a Bernardo Bertolucci del premio Musatti, «perché pochi registi hanno saputo, come lui, indagare sull'irriducibile lotta tra Eros e Thanatos dentro il cuore dell'uomo e dentro la storia» - per dirla con Fernando Riolo, il presidente della Società.
Tema del Congresso è il "Transfert", parola tecnica che rimanda alla specificità della terapia analitica, ma per Freud un fenomeno umano generale, anche una perdita della propria libertà nell'idealizzazione dell'Altro: il leader, l'essere amato, il maestro. E ovviamente l'analista. Riolo ne parla così: «Ciò che è rimasto segreto e incompreso si ripete, fa ritorno, come un´anima in pena, che non trova requie finché non ottiene la sua liberazione. Il transfert rompe il segreto e revoca la ripetizione, perché grazie ad esso quei fantasmi del passato possono ri-presentarsi nella realtà dell'analisi ed essere trasformati in parole e in significati. Una volta le tossicomanie, i disordini alimentari, le perversioni, le somatizzazioni, erano patologie escluse dal campo operativo dell´analisi, condannate all'impensabilità. Non è più così, oggi: ne discuteremo in questi giorni».
A prendere la parola molti analisti di fama: da Domenico Chianese a Stefano Bolognini, da Antonino Ferro a Mauro Mancia, da Lucio Russo a Sarantis Thanopulos. Tra i relatori stranieri, Glen Gabbard, editor dell'International Journal of Psychoanalysis, curatore - con Ethel Person e Arnold Cooper - di un nuovo trattato di Psicoanalisi appena uscito da Cortina.

il manifesto 28.9.06
Psicoanalisi
Da Freud ai nostri giorni


I lavori del XIII congresso nazionale della società psicoanalitica avranno inizio oggi al centro didattico del policlinico Le scotte di Siena. La giornata si concluderà con l'assegnazione del premio Musatti a Bernardo Bertolucci. I temi delle sessioni plenarie e quelli discussi nelle aree di ricerca indagheranno le dinamiche della traslazione in tutte le sue declinazioni. A concludere, domenica mattina, una tavola rotonda sulla psicoanalisi nella cultura del nostro tempo, presieduta da Fausto Petrella con la partecipazione di Stefano Bolognini, Francesco Orlando, Vittorio Gallese, Fernando Riolo

il manifesto 28.9.06
Transfert. Sarebbe come se con abili esorcismi si volesse costringere uno spirito a risalire dagli inferi, per rispedirlo poi giù senza una domanda
Un luogo di fertile battaglia tra intelletto e pulsioni
di Francesca Borrelli


Considerato inizialmente un intralcio sulla via della cura, il transfert si rivelò ben presto la sua più potente forza propulsiva: una «palestra» indispensabile al dispiegarsi di ciò che si nasconde nella vita psichica
Qualche passaggio del percorso che portò Freud a mettere a fuoco il ruolo della traslazione, tema del congresso nazionale che riunirà da oggi a domenica a Siena la società psicoanalitica italiana


Concetto chiave per la comprensione delle dinamiche messe in atto dalla tecnica psicoanalitica, il transfert (o traslazione) informa a più riprese le riflessioni di Freud, che torna a occuparsene nei suoi scritti a distanza di anni, mostrando quell'incedere tipico del suo ragionamento, che procede per aggiustamenti progressivi, parziali revisioni, dilatazioni del campo e poi restringimenti del fuoco, via via che gli si chiariscono tanto la natura del problema quanto le sue possibili implicazioni nel processo terapeutico. E se oggi gli psiconalisti freudiani riuniti nel XIII congresso nazionale hanno eletto il tema del transfert a oggetto delle loro discussioni, questa scelta suona insieme come una necessità di addentrarsi nel cuore della relazione analitica rivedendone un pilastro ineludibile, e un omaggio al fondatore della psicoanalisi nel centocinquantesimo anniversario della nascita.
Basterebbe, a chi si accontentasse di stringere in poche pagine i problemi e i principi di soluzione interni al transfert, dedicarsi alla lettura della ventisettesima lezione tra quelle raccolte da Freud a partire dal 1916 in Introduzione alla psicoanalisi, dunque quindici anni dopo l'esposizione del caso clinico di Dora, che gli aveva offerto i primi materiali di riflessione sulle fantasie e sulle rappresentazioni inconsce che i pazienti trasferiscono sulla persona del medico.
Per accedere alla vita psichica
Dopo avere assicurato il suo uditorio che l'analisi non si propone di dispensare consigli di vita, né tanto meno intende agire in favore della moralità sociale - la quale lungi dall'essere guidata da una istanza di verità e di saggezza «costa più sacrifici di quanto meriti» - Freud ribadisce come l'effetto terapeutico della sua tecnica si basi sulla resa alla coscienza di quanto giace nell'inconscio. E, con una di quelle domande retoriche finalizzate a catturare a sé l'attenzione degli ascoltatori, si chiede come si debba procedere per raggiungere un tale risultato. Non basta - dice - scoprire i contenuti inconsci e comunicarli al paziente, perché non se ne otterrebbe altro risultato se non quello minimo di affiancare una nuova consapevolezza a quella già esistente. Quel che è necessario, invece, è favorire l'esperienza di quanto è sepolto nella psiche, andando a sondare i ricordi dell'analizzato e scoprendone le resistenze, ossia tutto ciò che fa da ostacolo al processo che tramite la conquista della consapevolezza indirizza alla guarigione.
Ma nel corso del trattamento analitico diventa facile accorgersi non soltanto del fatto che le forze pulsionali in gioco sono scarsamente o per nulla governabili, ma anche che il paziente va sviluppando nei confronti del suo medico un crescente e del tutto speciale interesse, grazie al quale verrà indebitamente distolto dalla sua patologia. All'inzio la situazione sembra nient'altro che promettente: in virtù di una particolare sintonia con l'analista, gratificato dalla stima e dalla riconoscenza del paziente, il procedere della cura è veloce e si accompagna a un oggettivo miglioramento esistenziale. Ma ben presto subentrano difficoltà che si manifestano nella riluttanza dell'analizzato a procedere nelle libere associazioni, tanto che non gli viene più in mente nulla degno di essere comunicato: è un turbamento, questo, causato proprio dalla traslazione sull'analista di quei sentimenti di tenerezza le cui origini non si trovano, tuttavia, in ciò che si sta svolgendo nel corso della cura, bensì in un serbatoio remoto di esperienze, momentaneamente inaccessibili al ricordo. Ci si aspetta dal medico - dice Freud - che la sua modestia e la sua perizia concorrano a evidenziargli come non sia la sua persona a determinare la nascita di quegli investimenti affettivi di cui si trova oggetto involontario, perché essi non fanno che riprodurre, piuttosto, accadimenti e modelli che risalgono all'età infantile del paziente. Solo passando da questa ripetizione inconsapevole di esperienze rimosse fino al ricordo si avrà accesso ai «più impenetrabili scomparti della vita psichica».
Tra sentimenti di affetto e ostilità
Dunque, fin dall'inizio della terapia il transfert agisce come un motore del lavoro analitico, anzi ne è la principale forza propulsiva, tanto che non sembrerebbe motivare preoccupazione alcuna. Ma quando l'affettività di cui il medico viene investito si rivela troppo forte, ecco che con ciò essa tradisce la sua origine da un bisogno sessuale, tanto da suscitare nel paziente la sua opposizione interna. E c'è il caso, anche, che i sentimenti anziché affettuosi siano ostili, così da giustificare il fatto di intepretarli come la riedizione di sentimenti conflittuali rispetto ai quali il medico si trova nella situazione di uno schermo, che riflette proiezioni antiche. Del resto, tutto questo movimento mentale è parte non solo del procedere analitico ma dell'evolversi del disagio psichico, che anche durante i passagi della cura continua il suo corso «come un essere vivente», e si riversa sulla persona del medico dando forma a una nuova nevrosi, che Freud chiama «di traslazione»: una nevrosi che ora evidenzia nei suoi sintomi il soddisfacimento di impulsi libidici repressi. Siamo alle prime formulazioni di un concetto sul quale il pensiero psicoanalitico ha conosciuto un notevole progresso, abbandonando, per esempio, sia la netta dicotomia fra un transfert negativo e uno positivo, sia la suddivisione di quest'ultimo in una componente sublimata e irreprensibile e una valenza marcatamente sessuale, quasi del tutto inconscia. Quel che si svolge nella psiche è più fluido e magmatico, dunque non si lascia facilmente sezionare, come fosse materia solida.
Presenti in qualunque relazione umana, i fenomeni di suggestione avevano già costituito la base sulla quale contava la tecnica ipnotica messa a punto da Bernheim, di cui Freud era stato allievo nel 1889; ma molte erano le differenze con ciò che avviene nel transfert, a partire dal fatto che nella suggestione ipnotica non trovavano posto le fantasie ostili e insomma tutte le accezioni negative dei sentimenti che potenzialmente investono l'analista. Nella sua ventottesisma lezione, dedicata alla terapia analitica, Freud approfitta di una ridiscesa alle fonti delle sue scoperte per chiedersi quale sia la differenza tra la terapia ipnotica e quella psicoanalitica: la prima - dice - «cerca di ricoprire e mascherare» i fenomeni che hanno luogo nella psiche, la seconda mira a metterli allo scoperto. «La prima opera come una cosmesi, la seconda come una chirurgia». E se la suggestione ipnotica si limita a «proibire i sintomi» con la conseguenza di rafforzare le rimozioni, la psicoanalisi si serve del transfert per penetrare in profondità, imponendo tanto al medico che al paziente un lavoro oneroso, il cui fine sarà modificare l'esito di quei conflitti. Prevenendo, inoltre, il riproporsi di quelle critiche che avevano indicato nel potere suggestionante del medico un rischio di condizionamento del paziente, ovvero la possibilità di guadagnarlo a idee estranee alla sua esperienza, Freud chiarisce come l'efficacia terapeutica sia subordinata al fatto che vi sia una coincidenza tra le anticipazioni di consapevolezza che il medico propone al paziente e «la realtà che è in lui». La terapia avrà effetto se e solo se le rappresentazioni dei conflitti che vengono indicate all'analizzato egli le sente effettivamente corrispondenti a quanto si agita nella sua vita psichica.
Adottando una tra le frequenti metafore militari di cui si serve la sua prosa, Freud definisce il quadro in cui agisce il transfert come «il campo di battaglia nel quale sono destinate a incontrarsi tutte le forze in lotta tra loro». E passa a una puntualizzazione dei caratteri della nevrosi che vale rissumere, non soltanto perché serve a ricapitolare quanto viene agito nel transfert, ma anche perché nelle sue sintesi fulminee precipitano significati di cruciale importanza. Il nevrotico - dice Freud - è un individuo incapace di godere perché la sua libido non è indirizzata a alcun oggetto reale: essa è ostaggio dei sintomi che le garantiscono l'unica gratificazione momentaneamente possibile. Tutto assorbito dallo sforzo di mantenere rimossa quella stessa libido, impegnato com'è a non soccombere ai suoi assalti, il nevrotico è altresì incapace di agire. Dunque, per avere ragione dei suoi sintomi sarà necessario risalire alla loro origine, ricreare all'interno del transfert «nuove edizioni» dei suoi conflitti interni, renderli presenti e attivi in analisi, così da indirizzarli verso un esito proficuo: funzionale a questo cammino sarà il fatto di attirare una parte della libido sulla persona dell'analista.
Al tempo in cui Freud si trovò a riconoscere per la prima volta che in qualità di medico era diventato oggetto di fantasie scatenate dalla relazione analitica, per sua stessa ammissione non era preparato a comprenderne le implicazioni. Aveva da poco concluso L'interpretazione dei sogni e - come scrive a Fliess nella stessa lettera dell'ottobre 1900 in cui gli annuncia la raccolta del materiale per la stesura della Psicopatologia della vita quotidiana - aveva in cura Dora, una ragazza di diciotto anni. Chi volesse ripercorrere storicamente la strada che il concetto di transfert si è aperta negli scritti di Freud dovrebbe partire da qui, dal poscritto a un'analisi di isteria. È questo il saggio che, elaborato con l'intenzione di portare un ulteriore contributo alla teoria del sogno, affronta per la prima volta esplicitamente il problema del transfert.
Vista la breve durata dell'analisi, e l'interruzione repentina per volontà della paziente, il caso di Dora si presentava a Freud come un trattamento difettoso, ma per ciò stesso passibile di inedite riflessioni su ciò che ne aveva determinato il fallimento. Fin dal principio era chiaro - scrive Freud - che anche grazie alla differenza di età Dora lo sostituiva nella sua mente al padre; ma - commenta - «io non riuscii a rendermi tempestivamente padrone della tralsazione». Introducendo un concetto nuovo, che si sarebbe rivelato fondamentale per spiegare il comportamento dei pazienti in analisi, dirà che Dora invece di andare a ripescare i suoi ricordi e le sue fantasie li aveva «messe in atto». Aveva copiato impulsi e fantasie remoti, originariamente suscitati da affetti dei quali aveva perso coscienza, e li aveva riattivati, vivendoli come sentimenti e emozioni attuali sulla scena della relazione analitica.
Già all'indomani del congresso di Salisburgo, che aveva avuto luogo nel 1908, Freud vide la necessità di scrivere una esposizione sistematica della tecnica psicoanalitica ad uso dei sempre più numerosi aspiranti alla professione, e a questo scopo tornò a riprendere le fila dei problemi legati alla traslazione precisando le sue osservazioni in una serie di brevi scritti tecnici datati fra il 1911 e il 1914. Tra i nuovi concetti che andava introducendo nella progressiva focalizzazione delle dinamiche psichiche, quello riassunto nella formula «coazione a ripetere» rivelava ancora una volta le sue ricorrenze più lampanti all'interno di quell'agone tra intelletto e vita pulsionale che è il transfert.
La lotta che vi si svolge, infatti, rivela come il paziente sia in preda a una sorta di costrizione che lo obbliga a riprodurre comportamenti dettati da resistenze irrisolte, da inibizioni, da tratti patologici del carattere, che si sostituiscono all'impulso a ricordare, rendendo manifesta la patologia come qualcosa che continua a agire nel presente. «Provincia intermedia tra la malattia e la vita» - così ora Freud la definisce - la traslazione si rivela dunque una «palestra» indispensabile al dispiegarsi di ciò che si nasconde nella vita psichica.
Poco meno di sei anni dopo, in quella complessa opera di revisione della teoria delle pulsioni che è Al di là del princio di piacere Freud tornerà sulla coazione ripetere, tra pagine che approdano a uno schema mirabile, dove riassume il modo in cui ogni esistenza singola ripete e riproduce la trama maestra della vita umana. È il gioco di un bambino, questa volta, a guidare il suo ragionamento. Mentre osserva come il piccolo ripeta più volte il gesto di gettare lontanto un rocchetto di filo per poi ritirarlo, sottraendolo alla sua vista e poi facendolo ricomparire, Freud ipotizza che nelle fantasie del bambino il suo gioco abbia preso il posto della madre e che dunque egli stabilisca una analogia tra la scomparsa di lei e quella del rocchetto. Ma perché industriarsi a riprodurre una esperienza così spiacevole? Perché il gioco consente al bambino di passare da un ruolo passivo a uno attivo: se prima era stato costretto a subire l'allontanamento della madre, ora mettendone in scena la scomparsa per il tramite del suo gioco non soltanto ne controlla la perdita ma la domina. Certo, ragiona Freud, nella ripetizione intrinseca al gioco infantile può anche essere contenuta una forma di piacere derivata dal desiderio di vendetta contro la madre assente. E finalmente si chiede quale sia la natura della ripetizione: se cioè essa possa venire considerata un evento primario, indipendente dal principio di piacere, o se sia una fonte diretta da cui nasce una soddisfazione di altro tipo. Per questa via, ancora una volta, Freud entra nel vivo della esperienza psicoanalitica e torna a congetturare sulla necessità del paziente di ripetere il passato, anziché limitarsi a rievocarlo.
Ai tempi di Anna O.
A chi volesse non soltanto godere di alcune tra le espressioni più efficaci e colorite del lessico freudiano, ma anche impadronirsi di ottimi argomenti per dissipare le speculazioni spesso origliate a proposito dei rischi di seduzione che si verificherebbero nel corso di una analisi, converrebbe fare un passo indietro e tornare all'ultimo dei suoi saggi tecnici titolato «Osservazioni sull'amore di traslazione». In queste pagine - composte avendo alle spalle sia la corrispondenza con Jung sul suo rapporto con Sabine Spielrein, sia il dialogo personale e scientifico con Ferenczi che teorizzava l'«umanizzazione dell'analista» - compare uno dei pochi accenni espliciti di Freud al problema del controtransfert, cui fa riferimento quando allude alla tentazione del medico di corrispondere ai sentimenti idealizzanti della sua paziente.
Non soltanto la possibile utilità del controtransfert nel processo interpretativo dell'analista è ancora lontana dalla mente di Freud, ma il suo interesse è catturato esclusivamente dalle situazioni che prevedono pazienti di sesso femminile in analisi con medici di sesso maschile; e a fare apparire datate le sue osservazioni contribuisce anche il fatto che, non avendo ancora elaborato l'idea di un continuum tra normalità e nevrosi, lascia intendere come le situazioni di transfert informino la vita quotidiana di tutti noi, ma riserva alla condizione isterico-nevrotica la caduta nel transfert erotizzato.
Benché ne scrivesse solo nel 1914, la sua scoperta risaliva all'epoca - tra il 1880 e il 1882 - in cui supervisonava il trattamento catartico di Anna O. da parte di Josef Breuer. Stando alla versione più accreditata, la fine della «talking cure» sarebbe stata decisa da Breuer per fare fronte alla gelosia della moglie, effettivamente trascurata durante lo svolgersi delle premure rivolte a quell'appassionante caso di isteria. Comunicata alla ragazza la brusca interruzione della cura, lo psichiatra viennese venne poco dopo richiamato e si trovò di fronte a una scena in cui Anna O. si contorceva in preda alle doglie di un parto isterico: «Adesso verrà il bambino che ho avuto dal dottor B.», affermava.
Né a Breuer né a Freud, tuttavia, quella gravidanza immaginaria sembrò segnalare un tratto di speciale interesse nel caso, tanto che in una lettera a Stefan Zweig del 1932 Freud confessò di essersela dimenticata. Quel che non scordò, invece, era relativo alle prime intuizioni circa il fatto che fosse lo stesso procedimento analitico a facilitare la comparsa di sentimenti erotici da parte della paziente, quando non di entrambi i protagonisti del setting.
Il valore della sincerità
Ma come dovrà comportarsi il medico per salvaguardare la riuscita del suo lavoro? La domanda è cruciale sia per le risposte che induce sia perché dà modo a Freud di ricordare come il trattamento psicoanalitico si fondi sulla sincerità e trovi in essa «buona parte della sua azione educativa e del suo valore etico». Quanto all'ipotesi di esaudire le richieste d'amore della paziente, esse sono ovviame+e escluse; ma privo di senso si rivelerebbe anche il tentativo di reprimerle, perché sarebbe «come se con abili esorcismi si volesse costringere uno spirito a risalire dagli inferi, per rispedirlo poi giù senza nemmeno fargli una domanda.»

Il Giornale 28.9.06
Melanie Klein. Il gioco dell’inconscio
di Idolina Landolfi


«Dissidenti rispetto ai loro ambienti d'origine e professionali, vittime dell'ostilità dei clan normativi, ma capaci anche di combattere senza quartiere per sviluppare e difendere le loro idee originali, la Arendt e la Klein sono donne indomite, il cui genio è consistito nel correre il rischio di pensare»: così conclude Julia Kristeva la sua introduzione a questo secondo volume (ma terzo in traduzione italiana) dedicato al genio femminile. Si tratta della trilogia uscita da Fayard tra il 1999 e il 2002:
Le génie féminin: la vie, la folie, les mots, ovvero Hanna Arendt (I), Melanie Klein (II), Colette (III). Le edizioni nel nostro Paese sono quelle di Donzelli, di cui la più recente, appunto, è questa Melanie Klein. La madre, la follia, a cura di Monica Guerra (pagg. 290, euro 23,50).
Indomita la Kristeva stessa, che da sessant'anni «corre il rischio di pensare», e cerca e ritrova in ciascuna delle sue «eroine» un po' di sé, della sua natura complessa, del suo genio femminile poliedrico.
Bulgara trasferitasi presto, dopo la laurea, a Parigi, dove continua i suoi studi di linguistica e di semiotica, vi affianca un lungo percorso psicoanalitico: ora insegna a Parigi - e, come visiting professor, in qualche altra università del mondo - ed è psicoanalista. I suoi interessi spaziano dalle scienze che abbiamo nominato a molto altro, la sociologia, la politica e ovviamente la letteratura: citiamo solo il bellissimo saggio del 1974 su Lautréamont et Mallarmé, o quello su Proust et l'expérience littéraire, del 1994. In Italia viene spesso e volentieri. A marzo di quest'anno era a Roma, dove le hanno assegnato il premio Amelia Rosselli per il volume su Hannah Arendt.
Ecco allora la biografia «totale», di Colette, in cui l'analisi delle opere è spesso preceduta o seguita da una lettura attenta dei dati biografici, particolarmente importanti soprattutto per un'autrice del suo genere: autobiografia e letteratura s'intrecciano senza posa, la sua libera vita, le sue avventure amorose, tutto si riverbera nelle sue pagine, lei per la quale, ricorda la Kristeva, «tutti i sensi sono organi sessuali».
Ed ecco quella di Hannah Arendt, con la sua visione della filosofia, della metafisica, che servano ad alimentare la vita dello spirito, donandogli la facoltà di rinascere infinite volte; e che sappiano «scendere in campo», coniugandosi con l'esperienza politica e sociale. «La Arendt afferma - ha dichiarato Julia Kristeva in una recente intervista - che il modo migliore di opporsi alle diverse forme di globalizzazione e di totalitarismo sta nel tentativo di ricreare nel pensiero e nel legame sociale il “miracolo della nascita”.
È il fondamento ontologico della libertà. Grazie al fatto che nasciamo, e ci sono sempre nuovi individui che vengono al mondo, siamo capaci di libertà».
Saga della conquistata - ritrovata - libertà, dunque, per le donne della sua trilogia: e accanto a «la vie» di una donna che si occupa di filosofia e di politica, «les mots» della scrittrice che attraverso la pagina raggiunge il pieno riconoscimento di sé, ecco «la folie» della fondatrice della psicoanalisi infantile, che ad essa approda dopo un percorso difficile di figlia (della terribile, prevaricante Libussa), di moglie e di madre a sua volta; colei che non si scoraggia dinanzi agli attacchi dei colleghi psicoanalisti, e che mai fa mancare l'amore a quello che considera «l'altro mio figlio: il lavoro».
Indagando in primo luogo se stessa, le proprie pulsioni (il legame quasi incestuoso col fratello Emanuel, ad esempio), e poi il rapporto con il marito e i tre figli - i suoi primi analizzati -, Melanie Klein, ebrea viennese, studia psicoanalisi con Ferenczi a Budapest, dove si trasferisce da sposata, e seguita a Vienna con Karl Abraham. Diviene psicoanalista a quarant'anni, nel 1922, ed acquisisce fama immediata dopo il suo trasferimento a Londra. Il saggio La psicoanalisi dei bambini, del 1932, sancisce definitivamente la sua posizione scientifica. Imprescindibili i suoi studi sulle psicosi infantili, sull'autismo; e il suo metodo fondato sul gioco (così ad esempio nel trattamento, ampiamente descritto, del figlio Erich): «giocare sarà la strada maestra dell'inconscio allo stesso titolo del sogno di Freud», in quanto vi si palesa tutta una gamma di segnali, linguistici, gestuali che l'analista, e co-giocatore, saprà interpretare.
Lavorando sulle teorie freudiane, la Klein ne amplia ed arricchisce la portata; la sua vis innovativa sta soprattutto nell'aver attribuito importanza capitale alla figura materna («Questa figura arcaica minaccia e terrorizza nella sua onnipotenza»), nella sua parte più emblematica (il seno) e nella sua totalità; con ciò che discende dalla loro alternanza di presenza/assenza.
La Klein sposta in un tempo assai più precoce (parla dei sei mesi) la sofferenza dell'individuo, il senso della perdita e l'angoscia di morte. La perdita, e il senso di colpa che l'accompagna, la sofferenza del lutto e la conseguente «riparazione», ovvero la simbolizzazione dell'oggetto perduto interno ed esterno, sono alla base della creatività: «le idee sono surrogati del dispiacere» scriveva Marcel Proust, essendo giunto per altre vie alla medesima conclusione.
«Freud incentra la vita psichica del soggetto sull'esperienza della castrazione e sulla funzione del padre», spiega la Kristeva; «senza ignorarle, Melanie Klein le fa poggiare su una funzione materna . Eppure la madre, così privilegiata, è lontana dall'ergersi a culto, come sostengono troppo semplicisticamente i suoi avversari. Il matricidio infatti, che la Klein fu la prima a concepire non senza audacia, è all'origine, insieme con invidia e gratitudine, proprio della nostra capacità di pensare». Matricidio metaforico dal quale prende avvio la crescita del soggetto, ovvero, ancora una volta, la sua capacità simbolica.
Il saggio della Kristeva, pur essendo molto tecnico, si apre tuttavia anche alla comprensione del pubblico non specialistico, che vi trova continui spunti per una lettura più approfondita del proprio vissuto, da considerarsi - e grazie alla Klein è ormai dato acquisito - a partire dai primissimi mesi o meglio dalla chiusa vita prenatale.

l’Unità 28.9.06
RICERCA
Antidepressivi. Consumo record tra le donne
di e.d.b.


BOLOGNA Nel Bolognese una donna su 10 ha preso almeno una volta un antidepressivo; lo stesso vale per un uomo su 20. È il boom nell’uso dei farmaci contro “il mal sottile”, la tristezza che logora da dentro e può portare a gesti drammatici: come quello di lanciarsi dalla finestra con la propria bambina in braccio, come è successo ieri in città. Secondo i dati del rapporto dell'Osservatorio metropolitano sulle dipendenze, il 46% della popolazione tra i 15 e i 54 anni ha avuto più di due prescrizioni per farmaci contro la depressione. E per un quarto del campione le ricette superano le quattro volte: significa che non tutti coloro che chiedono la pillola della felicità sono depressi cronici, tuttavia, dall’altra, indica il bisogno sempre crescente di ricorrere a questi farmaci occasionalmente, magari per superare periodi difficili della vita.
«I dati di consumo degli antidepressivi non corrispondono necessariamente a casi di depressione», spiega Luigi Tagliabue, direttore del Dipartimento di salute mentale dell'Ausl di Bologna. Ma non bisogna neanche credere che le prescrizioni da parte dei medici di base avvengano alla leggera. Tagliabue è netto: «I dottori generali sono validi e fondamentali professionisti. Da tempo in regione esistono progetti di ricerca e collaborazione con gli psichiatri del servizio pubblico per la prescrizione di antidepressivi e per condividere e migliorare i reciproci comportamenti».
Insomma non è colpa dei medici se aumenta la domanda, anzi. Giancarlo Pizza, il presidente dell’ordine, parla piuttosto di «una spia del malessere sociale» che non coinvolge solo Bologna. Il dato infatti è in linea con quello del resto d’Italia e più in generale con i paesi occidentali. «L’aumento delle prescrizioni - continua - non va imputato nè ai medici generici, nè agli specialisti privati nè tanto meno alle case farmaceutiche». Queste ultime se non altro ne hanno un bel guadagno: secondo il rapporto dell’Ausl il giro d'affari degli antidepressivi raggiunge i 10 milioni di euro, ed è un dato sottostimato.