sabato 10 dicembre 2011

il Riformista 9.12.11
Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli

L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16)e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.

il Fatto 10.12.11
Santissimo immobile
La Chiesa esclusa anche dalle rivalutazioni catastali Bagnasco si limita a puntualizzare sull’Ici
di Caterina Perniconi


Un problema tra Ici e Chiesa c’è. La conferma arriva dalle parole del presidente dei Vescovi, Angelo Bagnasco, che si è detto pronto a discutere della questione.
Ma attenzione a non considerare la dichiarazione come un’apertura. É piuttosto la disponibilità a chiarire una posizione costituita: “Il primo atto da fare nei momenti in cui c’è un po’ di confusione e agitazione degli animi mi pare che sia quello di fare chiarezza e documentare le cose”, ha detto Bagnasco, lasciando poco spazio all’illusione di una volontà di cambiamento. “Come è noto – ha poi puntualizzato – la legge prevede un particolare riconoscimento e considerazione del valore sociale dell’attività degli enti no profit, tra cui la Chiesa cattolica e quindi anche di quegli ambienti che vengono utilizzati per specifiche attività di carattere sociale, culturale ed educativo. Bisogna aggiungere che laddove si verificasse qualche inadempienza si auspica un accertamento e la conseguente sanzione, come è giusto per tutti”.
DI INADEMPIENZE,
come hanno dimostrato i Radicali con i loro “video-denuncia”, ce ne sono molte, serve solo la volontà di far rispettare la legge. “Al cardinal Bagnasco – ha dichiarato Mario Staderini, segretario del partito di Pannella – vorrei ricordare che c’è poco da discutere o puntualizzare: una legge italiana non deve essere certo contrattata con la Cei. Il Parlamento deve semplicemente eliminare l’esenzione per chiunque svolga attività commerciali”. Ma il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha ribadito ieri di non essersi ancora occupato della questione. “Sono anche a conoscenza di una procedura europea sugli aiuti di Stato” ha aggiunto il premier. Facendo riferimento all’indagine formale per incompatibilità con le norme sulla concorrenza scattata già due volte nei confronti dell’esenzione dell’Ici.
Eppure la manovra del nuovo esecutivo rischia di replicare nella concessione dei privilegi i precedenti governi. Fu alla fine del 2005, poco prima delle elezioni, che Silvio Berlusconi approvò una norma che stabiliva l’esenzione dal pagamento dell’Ici per tutti gli immobili della Chiesa. L’anno successivo, dopo una lunga polemica, il governo di Prodi, per mano dell’attuale segretario democratico Pier Luigi Bersani, cambiò la normativa, prevedendo che l’esenzione si potesse applicare solo agli immobili “con finalità non esclusivamente commerciali”. E proprio l’avverbio “esclusivamente” ha permesso alla Chiesa di usufruire dell’esenzione anche per strutture turistiche, alberghi o ospedali, purché all’interno avessero uno spazio dedicato al culto. Nel 2008, poi, col decreto che ha cancellato l’Ici per la prima casa, i privilegi sono stati confermati.
MA A QUANTO pare non è tutto. Come rivelato ieri da Il Sole24ore, la manovra non conterrebbe a sorpresa alcuna rivalutazione delle rendite catastali per gli immobili del clero. Ovvero gli unici stabili su cui viene pagata l’Ici dal Vaticano, non cambieranno stima. Questo significa che mentre per le abitazioni il moltiplicatore è passato di colpo da 100 a 160, per i negozi e le botteghe da 34 a 55 e per gli uffici da 50 a 80, sugli immobili di classe B (dai collegi alle scuole, dai seminari ai convitti) l’asticella è rimasta a 140. Quanti soldi andranno persi con quest’operazione non è stato ancora possibile calcolarlo. Mentre l’Anci, associazione dei Comuni italiani, ha stimato che l’esenzione vale 400 milioni.
Davanti alla necessità di fare cassa, anche i supercattolici sono diventati improvvisamente laici. Sono infatti del Pdl i due emendamenti che chiedono alla Chiesa di pagare l’Ici anche sulle parrocchie, gli oratori, gli edifici di culto o, in subordine, di riscuoterla almeno da coloro che affittano campi di calcio o sale per le feste di compleanno. I proponenti sono Maurizio Bianconi, Viviana Beccalossi, Monica Faenzi e Francesco Biava. L’emendamento, spiegano, “renderebbe la manovra più equa”. Dubbio che non hanno mai avuto quando erano al governo.

il Fatto 10.12.11
Non pagano in troppi, dalle fondazioni alle ambasciate
I luoghi di culto beneficiano di un accordo con lo Stato, tranne i musulmani per le moschee
di Sara Nicoli


I sindacati. Ma anche i partiti politici. E le ambasciate, i consolati. E poi i cinema, i teatri, le camere di commercio. Le altre “chiese”, quella Valdese, quella Evangelica, la Luterana, l’Ebraica e persino l’Assemblea di Dio. La moschea invece no. Quella paga. Perché i musulmani non hanno firmato alcuna convenzione con lo Stato e, dunque, mettono mano al portafoglio.
Scorrendo l’ultimo decreto legislativo che nel 2008 rivide l’elenco delle esenzioni dall’Ici, si scopre, con un certo raccapriccio, che la Chiesa rappresenta solo una parte (non piccola) del mare magnum di “renitenti all’Ici”. Ora, non si sa ancora come l’Imu uscirà modificato dalla commissione Bilancio della Camera e se davvero ci sarà – come s’immagina – una revisione della casta degli esenti. Ma di sicuro, vista l’aria che tira, non sarà più così semplice giustificare davanti all’opinione pubblica, la permanenza di privilegi che in tempo di crisi nera non possono più sussistere con tale, magnanime, serenità .
A tutt’oggi, l’Imposta comunale sugli immobili – una delle tasse più odiate dai cittadini, che Berlusconi ha abbonato solo alle prime case mettendo in grande difficoltà le casse dei Comuni – non viene applicata per molte categorie di immobili pubblici e privati. Sono infatti esonerati i terreni agricoli che ricadono in aree montane e collinari se utilizzati per interventi volti al riordino agrario e fondiario. E subito dopo gli enti “non commerciali o che svolgano attività non esclusivamente di carattere commerciale”. E si scopre così che esenti Ici sono, ad esempio, tutti quegli edifici di proprietà di Stati esteri e di organizzazioni internazionali (le ambasciate, i consolati, la Fao) ; le Fondazioni culturali e liriche, le Camere di commercio, e anche ospedali, università, scuole. La norma è piuttosto chiara, anche se si presta a interpretazioni diverse a seconda degli ambiti di applicazione. I musei, per esempio, non sono tenuti al pagamento dell’Ici a patto però che non vi si svolgano attività di natura commerciale come book shop, vendita di oggettistica, caffetterie o ristorazione. Oppure i cinema, ma non le classiche multi-sale. Piuttosto le sale cinematografiche della comunità ecclesiale o religiosa, i cinema d’essai e simili. E per i teatri l’esenzione viene riservata a chi si avvale di compagnie non professionali. Ma, soprattutto, i sindacati. Cgil, Cisl e Uil, solo per citare la “triplice” maggioritaria, sono proprietari di centinaia di immobili (ciascuno) in giro per l’Italia che non sempre sono in uso alle sezioni, ma come per la Chiesa cattolica, sono affittati a esercizi commerciali, banche, imprese private. E siccome i sindacati sono “enti non riconosciuti senza fini di lucro” (quindi non hanno l’obbligo di presentare neppure un bilancio) è praticamente impossibile per il catasto censire le reali proprietà da sottoporre a tassazione. Insomma, per niente facile anche cambiare registro.
C’è poi un altro aspetto della norma, quello che rende esenti dall’Ici tutti quegli edifici pubblici destinati a compiti istituzionali posseduti dallo Stato, da enti territoriali come Regioni, Comuni, consorzi tra enti pubblici, comunità montane, unità sanitarie locali. E ancora le Università e gli enti di ricerca, le aziende pubbliche di servizi alla persona (ex Ipab). E siamo in una sfera pubblica. Ma c’è anche quella privata. E qui scattano le fondazioni, comitati dediti ad attività socialmente utili; organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni di promozione sociale, sportive dilettantistiche e le fondazioni risultanti dalla trasformazione di enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate. Ultima perla della normativa: a non pagare l’Ici sono anche i separati e i divorziati che abitano nella ex casa coniugale e che, ovviamente, non risultano assegnatari dell’abitazione. Insomma, gira che ti rigira, si fa prima a dire chi lo paga che chi ha il privilegio dell’esenzione. Ma stavolta, con la crisi che morde, il governo dovrà prendersi la responsabilità di cambiare registro. Almeno su questo.

Repubblica 10.12.11
Parrocchie e sale biliardini tutti quelli che non pagano
di Ettore Livini


CHIESA ma non solo. L'ombrello della norma Taglia-Ici non ripara solo gli immobili (quelli ad uso «non esclusivamente commerciale») del Vaticano. Certo il mattone di Dio - 115mila case, 9mila scuole, 4mila tra ospedali e centri sanitari - fa la parte del leone. Ma la platea dei beneficiari dell'esenzione dall'imposta è molto più ampia. Non pagano tutte le altre confessioni religiose. Zero tasse per le associazioni non profit, le ong, le ambasciate, le Fondazioni liriche, i palazzi intestati a Stati esteri. Niente Ici nemmeno per edicole, cappelle nei cimiteri, musei e per le proprietà di Comuni, Province e Regioni utilizzate a fini istituzionali. LA LEGGE prevede l'esenzione per gli immobili di enti senza fine di lucro «destinati allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Come succede per il patrimonio della Santa Sede, però, anche qui esiste una ampia area grigia dove l'uso «non commerciale» dei beni è difficile da certificare. Ci sono ospedali controllati da pseudo-Onlus (e accreditati con il servizio sanitario nazionale) che fatturano centinaia di milioni. Fondazioni che affittano case e palazzi di lusso incassando fior di quattrini ogni anno senza dover pagare un centesimo di imposta. Circoli sportivi e dopo-lavoro trasformati in piccoli - e ricchissimi - villaggi Valtur del tutto esentasse. Ecco l'elenco degli "utilizzatori finali" più importanti della norma Taglia-Ici. E quello delle realtà sociali più vicine al mondo dell'assistenza sociale che in realtà - malgrado di solito si pensi il contrario - sono costretti a pagarla. Onlus Molte cause in tribunale per gli immobili affittati TUTTE le Onlus e le Ong sono esentate dal pagamento dell'Ici, almeno per gli edifici che usano come sedi proprie e non a fine di lucro. Non paga Emergency, non paga Medici senza frontiere, non paga l'Associazione per la ricerca sul cancro e la Lega per il filo d'oro. Chi invece dispone di un patrimonio di immobili messi a reddito (cioè affittati) è costretto - almeno in teoria - a onorare con il fisco il pagamento dell'imposta, anche se la materia è ancor oggi oggetto di confronto giuridico. Scuole Niente tassa agli istituti legati agli enti no profit UN ALTRO tema delicato è quello delle strutture sanitarie e scolastiche. Le cliniche private (convenzionate o meno con sistema sanitario nazionale) devono pagare l'Ici. Gli enti non commerciali convenzionati con la sanità pubblica - tra cui diverse istituzioni religiose o Onlus - invece no, almeno sui reparti ospedalieri mentre sul patrimonio immobiliare a reddito si paga tutto. Zero Ici anche per le scuole private che fanno capo a enti non a fine di lucro indipendentemente dal livello delle loro rette. Partiti Pagano tutta l'imposta sulle abitazioni ereditate I PARTITI politici non beneficiano di alcuna esenzione Ici. «Noi per la sede di Torre Argentina sborsiamo 2-3mila euro l'anno» mette i puntini sulle "i" Mario Staderini, segretario dei Radicali. Paga il Pd, pagano le fondazioni degli ex-Ds cui è stato dirottato il patrimonio di case (5.800 immobili) girato dai militanti. Fanno la loro parte- perché obbligati dalla legge - pure gli eredi della vecchia Democrazia Cristiana. Anche se durante i burrascosi anni di Tangentopoli e della diaspora della Balena bianca è svanita nel nulla una dote di qualche centinaio di edifici di pregio. Sindacati Patrimonio milionario non ricevono sconti I SINDACATI (come Confindustria) pagano l'Ici. Sia per le loro sedi istituzionali che per gli altri immobili destinati a reddito. Si tratta di un patrimonio importante. Solo la Cgil ha oltre 3mila tra uffici e delegazioni lungo tutta la Penisola. La Cisl ne ha addirittura 5mila. Il mattone nel portafoglio della Uil ha un valore stimato di circa 35 milioni. Un "tesoretto" accumulato grazie a lasciti, donazioni e investimenti nel corso degli annie cresciuto sullo zoccolo duro dei beni ereditati (esentasse) per legge dalle vecchie rappresentanze sindacali dell'era fascista.


l’Unità 10.12.11
I sindacati: basta falsità noi paghiamo l’Ici

«Gli Enti non commerciali , tra i quali rientrano anche le associazioni sindacali, sono chiamati a corrispondere l'imposta Ici». Lo precisa il segretario confederale della Cisl, Piero Ragazzini. «Una bugia detta una volta, non può trasformarsi in mille bugie. Il sindacato ha sempre pagato regolarmente l'Ici. Nelle esenzioni non rientrano le associazioni sindacali trovando conferma in molteplici sentenze della Cassazione».

l’Unità 10.12.11
Bersani, simpatia per lo sciopero
«Migliorare le misure»
Il Pd: la nostra battaglia in Parlamento per cambiare il testo Si riapre il dibattito sulle alleanze. Maran, dell’area Modem chiede il congresso anticipato: «Con Monti è tutto cambiato»
di Maria Zegarelli


Un atteggiamento di simpatia verso l’iniziativa dei sindacati di lunedì prossimo». Questa la posizione del segretario Pd Pier Luigi Bersani anche alla luce delle polemiche che stanno attraversando il partito rispetto all’atteggiamento da avere nei confronti dello sciopero generale unitario di Cgil, Cisl e Uil. Se Enrico Letta, Beppe Fioroni, Francesco Boccia ma anche Franco Marini e Massimo D’Alema ritengono che in questo momento il Pd si debba concentrare per migliorare la manovra in Parlamento. Per molti sarebbe come tenere il piede in due scarpe: votare la manovra e protestare con i sindacati in piazza. Bersani cerca la sintesi: «Di fronte all’unità dei sindacati è il suo ragionamento e alla piattaforma dello sciopero che va più o meno nella direzione auspicata anche dal Pd su pensioni, ici e indicizzazione, il nostro non può che essere un atteggiamento di simpatia, anche perché qui nessuno chiede di stravolgere la manovra ma di migliorarla».
Posizione che, è di facile previsione, troverà più di qualcuno in disaccordo, soprattutto tra chi in questi ultimi giorni è tornato a prendere le distanze da quei dirigenti come Stefano Fassina e Cesare Damiano che hanno annunciato di andare al presidio del sindacati. «Non possiamo essere il partito di lotta e di governo», le argomentazioni di quanti, come Letta, vorrebbero lasciarsi «alle spalle, e definitivamente, il ricordo dei ministri e dei sottosegretari militanti che partecipavano alle manifestazioni organizzate contro quel governo Prodi di cui essi stessi facevano parte».
Ma non è solo lo sciopero ad agitare il partito. Sono ben altri i movimenti che in questi giorni si registrano tra i democrat.
Alessandro Maran, vicecapogruppo alla Camera, area Modem ma già iscritto al partito dei «montiani», parla apertamente di eventuale scissione se non si arriva ad una definizione della linea politica e chiede un congresso anticipato. Il governo ha cambiato la geografia politica, argomenta, «e non prenderne atto, per i vertici del Pd, sarebbe un errore molto grave». Come? «Con un congresso anticipato», altrimenti, «potrebbe accadere qualcosa. Persino una scissione».
Enrico Morando parla «di due modi diversi di relazionarsi» dentro il Pd rispetto al governo Monti: chi non vuole allontanarsi dalla linea uscita dal congresso e chi vorrebbe cogliere l’occasione «per diventare quel genere di partito riformista che noi tutti abbiamo sempre sognato». Beppe Fioroni lancia, invece, una doppia provocazione. La prima alla sua stessa corrente, «I modem diceormai sono diventati una categoria filosofica», poi al partito stesso: ma non è che si sta andando verso una grande coalizione alle prossime elezioni con il tripartito che oggi appoggia Monti? «Quando anche Franceschini apre al proporzionale per la nuova legge elettorale è evidente che si pensa ad altro.
«In quel caso sarebbe bene dirlo», aggiunge, spiegando che secondo lui il Pd dovrebbe archiviare Vasto e lavorare ad una coalizione con il terzo Polo. Ma a parlare apertamente di grande coalizione e del progetto a cui si lavora per costruire un grande partito di centro con pezzi di Pd e Pdl è Rocco Buttiglione: «Solo se ci fosse ancora Monti in campo si potrebbe pensare di andarealvotoconilPdl,ilPdeilTerzo Polo insieme. Casini, invece, potrebbe essere il leader di una coalizione che nasca dopo il voto». E aggiunge: «Non c’è nessun progetto di grande partito cattolico: esiste l’idea di costituire un partito laico di ispirazione cristiana formato da parte del Pd, noi e una parte o di tutto del Pdl».

Corriere della Sera 10.12.11
«Cento giornali a rischio» Lettera di otto direttori


MILANO — «Signor presidente, come Lei certamente sa la manovra che il Suo governo ha predisposto rischia di assestare un colpo mortale a un centinaio di giornali che attualmente usufruiscono dei contributi diretti all'editoria». Inizia così la lettera collettiva a Mario Monti dei direttori di Liberazione, l'Unità, Europa, Avvenire, il manifesto, Secolo d'Italia, Il Riformista e del presidente della Fisc, i settimanali diocesani, che campeggia sulle prime pagine di quei giornali impegnati in una corsa contro il tempo perché venga scongiurata la crisi occupazionale che una eventuale conferma dei tagli innescherebbe, con un aggravio dei conti pubblici superiore ai presunti risparmi ottenuti con quella voce della manovra. Gli otto direttori e il presidente della stampa settimanale cattolica (oltre un milione di lettori e un radicamento importante sui territori) chiedono da tempo la riforma strutturale del settore che anche il nuovo governo ha annunciato ma, avvertono, «se i tempi di questo auspicabile intervento di riordino dovessero risultare lunghi, e si procedesse nel frattempo con i tagli di risorse previsti, la riforma arriverebbe a situazione ormai compromessa, quando i giornali in questione avranno gioco forza cessato di esistere».

l’Unità 10.12.11
Pressing sul governo: editoria, cambiare l’art.29
Si mobilitano Fnsi e direttori dei giornali di idee, di partito e di cooperative: «Senza immediati correttivi oltre 100 testate chiuderanno sicuramente»
Il sottosegretario Malinconico: saremo attenti a salvaguardare il pluralismo
di Roberto Monteforte


È una certezza la chiusura immediata di oltre cento testate della stampa di partito, cooperativa e di idee con «riflessi gravissimi sul pluralismo dell’informazione e sulla stessa democrazia». Questo sarà l’effetto, senza immediati correttivi, della «manovra» del governo Monti che taglia ulteriormente i già scarsi e incerti «finanziamenti diretti» destinati all’editoria no profit. Lo denunciano con drammatica chiarezza i direttori delle testate coinvolte: Claudio Sardo de l’Unità, Stefano Menichini di Europa, Marco Tarquinio di Avvenire, quello della Padania, Leonardo Boriani, di Liberazione Dino Greco, quindi Norma Rangeri de il Manifesto, Marcello De Angelis del Secolo d’Italia, Emanuele Macaluso direttore de Il Riformista e il presidente della Fisc ( la federazione dei settimanali diocesani), Francesco Zanotti. Si muove lo schieramento trasversale che nei mesi scorsi nella battaglia per la difesa del pluralismo delle voci politiche e culturali nel rigore, nella «bonifica» del settore dalle false testate a favore dei giornali «veri», ha ottenuto l’autorevole appoggio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Questa volta scrivono al presidente del Consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani e ai segretari dei partiti presenti in Parlamento Alfano (Pdl), Pier Luigi Bersani (Pd) Lorenzo Cesa (Udc) Italo Bocchino (vicepresidente Fli), Antonio Di Pietro (Idv) e Umberto Bossi,(Lega Nord). I tempi sono strettissimi. Alla Camera si lavora agli ementamenti alla «manovra Salva Italia». I direttori dei giornali chiedono verà equità e sviluppo. Per questo auspicano una vera «bonifica» del settore, ma al tempo stesso che siano stanziate risorse adeguate a quel Fondo per l’Editoria che il comma 3 dell’articolo 29 della «manovra» vorrebbe, invece, cancellare a partire dal 2013. E che siano stanziate subito, perché questo settore, già in crisi,non può attendere oltre.
Al presidente Monti fanno presente una ragione in più, economica, oltre a quella della tutela del pluralismo, per correggere la manovra. I costi sociali che peserebbero sullo Stato per le «molte centinaia di posti di lavoro» tra giornalisti e poligrafici che andrebbero persi. Sarebbe «un volume di spesa persino superiore a quello che sarebbe necessario per reintegrare il Fondo per l’editoria». Chiedono un incontro urgente. Lo chiedono anche ai presidenti delle due Camere, ricordando loro l’appello rivolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano al precedente governo affinché venisse «scongiurato il rischio imminente della cessazione di attività per centinaia di testate, messe a repentaglio dal drastico abbattimento del Fondo per lì’editoria». Un appello ancora drammaticamente attualissimo.
Si confida in un rapido cambio di passo. Alla commissione Bilancio della Camera sono stati presentati emendamenti «trasversali». I deputati del Pd e della Lega Nord chiedono che sia mantenuto il Fondo. Che sia adeguatamente finanziato. Si avanzano proposte precise: l’utilizzo dei ricavi da una vera asta sulle frequenze del digitale terrestre. Che sul Fondo per l’editoria non pesino più quei 50 milioni di euro che lo Stato deve all’Ente Poste. Di aumentare dello 0,50 sul fatturato il costo delle concessioni per le emittenti nazionali. Le risorse possono essere trovate.
Che per il governo il Fondo debba essere mantenuto lo ha chiarito ad una delagazione della Fnsi il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per l’Editoria, Carlo Malinconico. Al segretario di Federstampa Franco Siddi, al presidente Roberto Natale e al direttore generale Giancarlo Tartaglia, il sottosegretario ha assicurato che l’azione dell’esecutivo «sarà attenta alle preoccupazioni sulla salvaguardia del pluralismo» espresse dal capo dello Stato. Che presterà la massima attenzione alla tutela dell’occupazione in questo comparto dell’editoria. Malinconico è tornato a chiarire che con il comma 3 dell’articolo 29 della manovra non si intende abolire dal 2014 il Fondo per l’editoria, ma modificarne le logiche.
Quell’articolo, però, al momento resta, come pure le preoccupazioni per gli effetti devastanti per il settore. Contro questa parte della «manovra» e per l’equità lunedì 12 dicembre sciopereranno e in modo unitario i poligrafici aderenti a Cgil, Cisl e Uil. La Fnsi ieri ha espresso «grande vicinanza» ai lavoratori poligrafici. Ha invitato i giornalisti ad essere loro concretamente solidali al loro sciopero, quindi «ad attenersi scrupolosamente alle regole contrattuali» evitando «commistione di funzioni e rifiutando qualsiasi prestazione che non abbia esclusivo carattere giornalistico».

l’Unità 10.12.11
Russia. Il governo schiera cingolati e un reggimento speciale ceceno
I cortei. Oggi in 40mila nella capitale. Manifestazioni in altre 80 città
Carri armati a Mosca Ma la piazza si prepara alla sfida decisiva
Cresce la tensione nella capitale russa: ci saranno più di 40 mila persone oggi in piazza contro Putin. Le autorità rispondono facendo la faccia dura: per le strade cingolati e reparti speciali.
di Emidio Russo


Sarà un sabato di fuoco, qui a Mosca. Da una parte i carri armati ed un battaglione di soldati direttamente dalla Cecenia. Dall’altra la più grande manifestazione di piazza mai vista nella capitale russa in almeno dieci anni a questa parte. Secondo le previsioni degli organizzatori e in base al numero indicato sull’autorizzazione municipale saranno in 30 mila, forse 40 mila, su piazza Bolotnaya (della Palude) per protestare contro lo «zar» Putin e l’esito delle elezioni, che anche secondo l’Osce sono state caratterizzate da brogli e violazioni. Non solo Mosca e San Pietroburgo: in 80 città scenderanno in piazza politici di professione e nuovi «dissidenti»: attivisti civili, blogger, intellettuali, artisti, studenti e classe media.
MEZZI BLINDATI
Quindi nella capitale si preannuncia un tranquillo week-end di paura. «I mezzi blindati che si sono visti fanno parte di una forza militare interna» dice Ilya Ponomarev, deputato di Russia Giusta, che ieri ha tenuto una conferenza stampa assieme ad altri esponenti dell’opposizione. «Sono da lunedì a Mosca e sì, vi rimarranno fino alla decisione definitiva sul risultato delle elezioni legislative di domenica scorsa». Si parla anche dell’arrivo del noto “reggimento ceceno” e il leader dell’opposizione conferma: «Sì, è già qui. Non è esercito, ma è una polizia speciale usata in particolare in Cecenia. Agenti più duri e spicci». Un corpo che nella repubblica caucasica «risponde direttamente al presidente ceceno Ramzan Kadirov».
Ma anche nell’opposizione, che si autoconvocata per oggi a Mosca con il tam-tam in rete e sui social network, c’è il rischio di una spaccatura: il «dove scendere in piazza» è stato il tema del contendere tra la fronda più oltranzista capeggiata da Eduard Limonov che non vuole rinunciare al primo luogo scelto, Piazza della Rivoluzione, sotto le mura del Cremlino e la fazione che unisce Ponomarev e Sergey Udaltzov, esponente di Altra Russia, più possibilista e disponibile a un compromesso. E ancora Boris Nemtsov, ex vice premier con Boris Eltsin, tra i fondatori del movimento Solidarnost’, che ha mercanteggiato con le autorità un maggior numero di manifestanti in cambio di un posto decisamente meno felice. Ossia proprio Bolotnaya ploshad, che ai tempi degli zar era il luogo dove venivano eseguite le impiccagioni. Anche a San Pietroburgo il permesso è stato accordato con un cambio di sito. Non più Piazza Vosstanja, ma la meno centrale Piazza dei Pionieri.
Nel frattempo, il potere non se ne sta con le mani in mano, tra provocazioni e aspetti anche surreali. La Novaya Gazeta lancia l’allarme su gruppi organizzati di provocatori pronti a disturbare la protesta: 200 rubli l’ora a chi griderà il nome di Putin in faccia agli oppositori, provocando risse e ingorghi. «La polizia bloccherà ogni tentativo di organizzare eventi non autorizzati», ammonisce il ministro dell’interno Rashid Nurgaliev, mentre il capo dei servizi sanitari russi invita a «non andare alla manifestazione, si rischia un’epidemia di influenza» sulla base delle previsioni meteo. Nei licei della capitale, un improvviso «esame di russo obbligatorio» è stato annunciato per oggi pomeriggio, giusto all’ora della protesta, il cui simbolo è un nastro bianco.
Quello con cui il Cremlino deve fare i conti è la rinascita di una società civile che non ha più nessuna intenzione di tacere. Dopo che la Commissione centrale elettorale ha ufficializzato la vittoria del partito di governo Russia Unita, la rabbia di molti è palpabile. È spuntata persino una vignetta con Putin travestito da Gheddafi che si guarda allo specchio: «Speriamo che con questa parrucca non mi riconosca nessuno», dice l’ex uomo del Kgb, determinato a tornare al Cremlino con le presidenziali 2012. Il solito Ponomarev oppone al premier addirittura un ultimatum: «Noi gli offriamo due settimane per darci ascolto e adempiere alle nostre richieste», ha detto il deputato di Russia Giusta. Ponomarev, classe 1975, è uno dei più giovani rappresentanti dell’opposizione, ma con un passato politico significativo, visto il suo recente abbandono del Partito comunista, che lui accusa di essere totalmente controllato dal Cremlino. «Se entro il 24 dicembre non avremo risposte, andremo avanti» dice il deputato, accusato da Putin di essere “al soldo” degli Usa.
Nonostante i proclami, le invettive di marca sovietica contro Washington e le prove muscolari, sono ore difficile per il potere russo. Ieri lo schiaffo al Cremlino è arrivato nientemeno che da due consigliere del presidente Dmitri Medvedev sui diritti umani: in polemica contro le frodi nel voto e la repressione delle manifestazioni di protesta, Svetlana Sorokina e Irina Iasina hanno lasciato il Consiglio della Presidenza russa sulle istituzioni della società civile e i diritti umani.

il fatto 10.12.11
La primavera (blindata) di Mosca
Truppe speciali e carri armati per la manifestazione dell’opposizione
di Francesca Mereu


Mosca Centinaia di agenti delle forze speciali Omon in assetto antisommossa e di poliziotti pattugliano le strade della capitale aiutati dai giovani di Nasha Armya, il braccio armato del gruppo giovanile del Cremlino Nashi. Nella periferia della città sono stazionati decine di mezzi militari pieni di soldati, mentre si confermano le voci che almeno sei carri armati sono arrivati alle porte di Mosca (uno di loro è stato persino coinvolto in un incidente stradale). Sul tetto del tetro edificio della Lubyanka, la sede dell’Fsb (l’erede del Kgb sovietico) sono stati avvistati invece diversi elicotteri.
COSÌ IL REGIME del premier Vladimir Putin si prepara ad accogliere la manifestazione di protesta di oggi, la quarta in meno di una settimana e quella che si prospetta essere la più grande degli ultimi dieci anni. In piazza sono attese più di 60mila persone che chiedono al Cremlino di annullare il voto fraudolento del 4 dicembre che ha visto il partito di Putin Russia Unita vincere con quasi il 50% del voto nonostante il forte calo di consensi.
“Vogliamo nuove elezioni, vogliamo che quelli che hanno organizzato i brogli siano puniti e il rilascio immediato delle persone arrestate nelle manifestazioni precendenti”, spiega a Radio Kommersant Yevgeniya Chirikova, uno degli organizzatori della protesta, la leader di un movimento ecologista che lotta per salvare il bosco di un sobborgo di Mosca.
Circa mille persone sono ancora in carcere dopo le manifestazioni degli scorsi giorni, tra questi i leader delle prime proteste il noto blogger Aleksei Navalny, che ha coniato la famosissima frase “partito dei ladri e dei farabutti”, diventata sinonimo di Russia Unita, e Ilya Yashin uno dei leader del movimento Solidarnost.
La manifestazione di oggi avrebbe dovuto svolgersi in Piazza Rivoluzione a due passi dal Cremlino, dove le autorità avevano dato però l’autorizzazione per un massimo di 300 persone. Alcuni degli organizzatori sono riusciti a raggiungere un compromesso e la manifestazione - che inizierà alle 14 ora di Mosca - è stata spostata in Piazza Bolotnaya, luogo più adatto, secondo le autorità cittadine, a contenere la folla di oggi.
A CONCORDARE il trasferimento è stato l’ex vice premier Boris Nemtsov, uno dei fondatori del movimento Solidarnost e l’ex deputato indipendente Vladimir Ryzhkov. Iniziativa ha però infastidito molti degli organizzatori che non volevano scendere a patti con il potere e dicevano che bisognava manifestare a tutti i costi in Piazza Rivoluzione. Verso sera ieri sono riusciti a raggiungere un accordo e oggi manifesteranno tutti in Piazza Bolotnaya. Per quelli ignari del cambiamento geografico in Piazza Rivoluzione ad attenderli ci saranno degli organizzatori che li guideranno poi nella piazza giusta.
Si prevedono numerose provocazioni da parte delle autorità. Secondo Radio Kommersant FM molti giovani sarebbero stati ingaggiati per spingere i manifestanti verso gli Omon e per provocare liti.
Il Cremlino cerca intanto di oscurare qualsiasi notizia sulle proteste. Su Twitter sono nati migliaia di account falsi che hanno postato informazioni fasulle. Mentre l’Fsb ha chiesto a VKontakte, la versione russa di Facebook, di bloccare tutte le discussioni tra gli attivisti.
LA REDAZIONE del giornale d’opposizione Novaya Gazeta e la sede del partito socialdemocratico Yabloko hanno subito invece attacchi telefonici. Una voce femminile registrata li ha chiamati per ore giovedì per dirgli: “Putin è buono. Putin ti ama. Putin rende felice la tua vita. ecc. ecc. ” Restii a partecipare alle manifestazioni rimangono i partiti della cosiddetta sistemnaya oppositsia, o l’opposizione di sistema, quella vicina al regime che non alza mai troppo la voce. Alcuni membri del partito Altra Russia hanno annunciato che vi parteciperanno come privati cittadini, ma ancora non è chiara la posizione del Partito Comunista e del nazionalista Partito liberaldemocratico.
Dimostrazioni contro il potere si terranno in più di 75 città russe e in decine di capitali occidentali.
Se le autorità moscovite hanno cercato di ostacolare la manifestazione di oggi, i nazionalisti hanno ottenuto facilmente il permesso di sfilare domani a due passi dal Cremlino per ricordare l’anniversario della morte di uno di loro.

il Fatto 10.12.11
Cina. Le proteste degli operai
Un miliardo di indignati
di Simone Pieranni


Pechino Chi ancora pensa ai cinesi come una popolazione di oltre un miliardo di sudditi probabilmente si sbaglia. Sotto la coltre ufficiale imposta dalla severità del Partito si agitano molti fenomeni sociali. E mentre tutti aspettano una reazione dalla classe media, stretta tra inflazione e prezzi delle case alle stelle, ecco spuntare gli operai. Ogni giorno un nuovo sciopero, una mobilitazione: vecchie e nuove generazioni di lavoratori cinesi che si incontrano sul terreno di spontanee rivendicazioni, salariali e di sicurezza sociale.
Il centro delle proteste è il Guangdong, polmone economico della Cina, che da solo costituisce un quarto delle esportazioni del paese e che da sempre costituisce il modello economico liberale, in contrasto con quello più statale di Chongqing. Non a caso i leader del Partito nelle due zone sono dati come prossimi membri del Politburo e come duellanti sul futuro modello di sviluppo cinese.
LA CINA, PERÒ, rallenta anche a causa della crisi economica europea e statunitense e a farne le spese sono gli operai. Nonostante gli aumenti previsti ad inizio d'anno per quanto riguarda i salari minimi, le condizioni sono ancora proibitive. Con l'inflazione che avanza, 200 euro di stipendio medio al mese non bastano più. Perché sono stati alzati i salari minimi, ma ai primi sintomi di crisi le aziende hanno chiuso i rubinetti degli straordinari, vera e proprie fonte di quel surplus vitale per la classe operaia cinese. In mezzo infatti, ci sono le aziende, in crisi di credito per la stretta ai prestiti bancari attuata dal governo per placare l'inflazione e la paventata possibilità di nuove tasse governative. Alcuni falliscono, altri provano a spostarsi per cercare manodopera a prezzi ancora più bassi. In alcuni casi, come la recente protesta presso uno stabilimento che produce per Hitachi, a Shenzhen, gli operai hanno denunciato una riduzione dei salari mensili da 4mila a 3mila rmb (poco più di 300 euro). Trasporti, elettronica, sanità sono tanti i settori all'interno dei quali si sono sviluppate lotte e scioperi. Per lo più sui media cinesi si accenna agli scioperi nelle aziende straniere: Pepsi, Hitachi, Hi-P, la singaporeana che produce per Apple e Motorola, ma secondo un attivista del lavoro in Cina, raggiunto telefonicamente e appartenente ad una ong di Hong Kong, “la maggior parte delle manifestazioni sono avvenute all'interno di aziende straniere, ma sappiamo per certo di proteste anche in fabbriche cinesi private e dello stato che riguardano principalmente i settori dei trasporti e della sanità”.
INTERESSANTE anche la composizione sociale di chi protesta: “I più giovani sono in prima linea nella protesta, ma ci sono anche anziani coinvolti, concentrati su temi di sicurezza sociale e compensazioni”. Due generazioni a confronto, con i più giovani che ormai utilizzano gli strumenti dei social network on line, per creare forme spontanee di lotta, focalizzata su rivendicazioni per lo più di carattere salariale: “Per lo più – spiega l'attivista - vengono chiesti aumenti salariali, ma ci sono anche dispute sugli straordinari, i pagamenti dei contributi, bonus e richieste di migliori condizioni di lavoro. Oltre a richieste di trattamenti migliori da parte dei manager delle aziende. Il fatto principale riguarda in ogni caso i salari che in molti casi sono stati ridotti a causa della riduzione del pagamento degli straordinari”.
Alla Hitachi ad esempio, i lavoratori, per lo più donne, avevano interrotto le trattative con la dirigenza al grido di “dovete darci il denaro” e cercando forme autonome di organizzazione: i sindacati ufficiali, infatti, sono completamente assenti nelle dinamiche di lotta: “Le azioni di sciopero non sono state organizzate dai sindacati ufficiali, ma sono nati per lo più in modo spontaneo, con un largo utilizzo anche di strumenti on line. I sindacati ufficiali non supporteranno mai gli scioperi, presi come sono per cercare una mediazione costante con le proprietà”.

Repubblica 10.12.11
Un filo spinato tra Egitto e Israele ecco il Muro che ferisce il Sinai
Dopo la caduta di Mubarak lo Stato ebraico blinda il deserto
di Fabio Scuto


EILAT - Percorre il deserto come una cicatrice mal rimarginata seguendone l'andatura di dossie dune, le parti in acciaio riverberano la luce del sole del Sinai che in alcuni momenti si fa accecante. Questa lunga striscia di cemento e metallo è il nuovo Muro che si sta costruendo lungo tutta la frontiera con l'Egitto. Perché questi duecentoquaranta chilometri di deserto - da Gaza sul Mediterraneo fino a Eilat sul Mar Rosso - sono l'incubo strategico per Israele. Una frontiera di sabbia vasta e ampia, quasi impossibile da controllare, percorsa da bande di beduini dediti a ogni tipo di contrabbando, da trafficanti d'armi e di uomini, da terroristi arabi. Il premier Benjamin Netanyahu approvò due anni fa il progetto del Muro nel tentativo di contenere l'immigrazione clandestina di sudanesi ed eritrei che attraverso l'Egitto entrano in Israele, ma la caduta del regime di Hosni Mubarak e la conseguente perdita di controllo del Sinai hanno fatto scattare l'allarme. L'attacco di diversi gruppi di terroristi lo scorso 18 agosto - con otto israeliani uccisi lungo la Highway 12 che corre lungo il confine - è stato poi l'atto decisivo per dare al Muro del Sinai una urgenza «di carattere nazionale e strategico». Per questo la costruzione viaggia a ritmi sostenuti, decine di ruspe e caterpillar sono al lavoro in 50 cantieri che corrono lungo il confine.
La parte in cemento del Muro è alta più di sei-sette metri e alla sua sommità altre barriere d'acciaio e reticolati. Solo quest'anno è stato consumato in questi lavori il 15% di tutto l'acciaio usato in Israele. I primi 100 chilometri saranno pronti in gennaioe l'intera struttura verrà completata entro il 2012.
L'ondata di immigrati clandestini provenienti dall'Africa, soltanto nel 2010 sono passati attraverso queste dune oltre 13.500 immigrati clandestini, è una vera emergenza per Israele perché nonostante la rigida politica di espulsioni il flusso è inarrestabile. Ma le priorità strategiche cambiano.
Questo confine un tempo era considerato il più sicuro, garantito dal trattato di pace di Camp David che regge da più di trent'anni, ma adesso i pericoli maggiori momento vengono da qui. Dopo il crollo del raìs lo scorso febbraio, le bande beduine - già molto attive prima - hanno guadagnato spazio mentre l'esercito egiziano ha via via perso il controllo della Penisola. Solo il gasdotto egiziano che rifornisce Israele ha subito nove attentati in dieci mesi, diversii tentativi di infiltrazione di gruppi terroristi. Il maresciallo Mohammed Tantawi che guida ora la giunta militare egiziana ha altri seri problemi interni da affrontare. L'attacco in grande stile di questa estate, poi, ha dimostrato che se questo confine non viene "sigillato", Israele dovrà prepararsi ad affrontare nuovi attacchi contro Eilat - la località balneare più frequentata in Israele - perché il Sinai è la base per infiltrare terroristi palestinesi. Il cuore del problema nel difendere il confine israeliano con l'Egitto è la vastità della regione desertica, che non può essere coperfoto="REP/NZ/images/NZ21foto0. jpg" xy="" croprect="" ta con un fitto dispiegamento dell'esercito. Il Muro, con i suoi radar, i suoi sensori farà questa parte. Ma il Sinai è un lungo fronte caldo. Un deserto estremo, ostile, dove solo i beduini riescono a sopravvivere muovendosi fra piccole oasi su piste millenarie fra la sabbia. Sono loro il nuovo nemico. Quattordici fra clan e tribù beduine si muovono tra queste dune sulle rotte carovaniere che ora percorrono sulle jeep e sui camion. Portano droga, clandestini, terroristi e armi, sono i signori del contrabbando di ogni merce. Il Sinai egiziano è terra di nessuno. Difficile anche per l'intelligence israeliana cercare di contrastare il fenomeno per capire da dove arriverà il prossimo colpo. I beduini non si muovono più in piccoli gruppi ma in bande ben organizzate, alcune hanno ricevuto aiuto e sostegno da Gaza - con cui hanno intensi rapporti per il contrabbando con i tunnel sotto il confine della Striscia - altre hanno legami diretti con gruppi della Jihad globale. L'alto livello dell'attacco dello scorso agosto ha rivelato capacità operative di questi gruppi. Il Muro nel tratto dove c'è stata la battaglia in agosto, è già stato completato ma mancano ancora 160 chilometri da portare a termine, "l'opera" però avanza rapidamente, quasi 800 metri al giorno.
Intanto palloni aerostatici armati di telecamere e sensori sono stati sparsi lungo tutto il confine, a loro per il momento il compito di segnalare arrivi pericolosi dall'altra parte e lanciare l'allarme ai comandi operativi israeliani lungo questa frontiera. La Barriera non include Eilat, la città israeliana sul Mar Rosso incuneata fra il confine egiziano e quello giordano, meta di turisti e vacanzieri ma anche teatro di attentati e attacchi terroristici negli anni passati. Un'altra speciale "cortina d'acciaio e di cemento" lunga tredici chilometri isolerà come una fortezza la città, con i suoi grandi alberghi, il piccolo aeroporto, i suoi centri commerciali, le spiagge. Sarà come andare in vacanza a Fort Apache.

Corriere della Sera 10.12.11
Vesta, la dea nemica del familismo
Vergine madre di Roma, custode del focolare domestico e della cosa pubblica
di Andrea Carandini


Il legame segreto tra noi e gli antichi
Pubblichiamo l'intervento che l'archeologo Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, terrà lunedì alle 21 al Palazzo Ducale di Genova, nell'ambito del ciclo di incontri pubblici «Noi e gli antichi», a cura della Fondazione Edoardo Garrone, del Comune di Genova e della casa editrice Laterza. Questi i prossimi relatori degli incontri: Eva Cantarella il 19 dicembre; Andrea Giardina il 9 gennaio; Giovanni Filoramo il 16 gennaio; Massimo Montanari il 23 gennaio; Maurizio Bettini il 30 gennaio; Giuseppe Cambiano il 6 febbraio; Luciano Canfora il 13 febbraio.

L'arcano dell'impero di Roma è nell'invenzione della «cosa pubblica», tanto forte da aver durato per 1.150 anni e aver improntato di sé la civiltà in Occidente. L'essenza di questa res publica fu una casta diva: Vesta, forgiata intorno al 750 a.C., su misura della città-Stato appena nata. Vesta era il fuoco pubblico di Roma, né ebbe immagine antropomorfa prima del I secolo a.C. Pensiamo che civitates e poleis si siano formate nel corso di secoli, mentre invece sono state «fondate» in un certo giorno. Sono state, in primo luogo, invenzioni teologiche e cerimoniali. Vi è somiglianza tra i fondatori di città e i fondatori di religioni: sovente eroi, figli di vergini fecondate da un dio, come Romolo e Cristo.
Per capire Vesta bisogna conoscerne il passato latino, anteriore alla città. Ma risalire così in alto è difficile, perché i Romani hanno cancellato i miti della dea, perché apparisse vergine senza trascorsi. Ma Vesta un passato lo aveva avuto, e sorprendente. Lo rivela il mito di Rhea Silvia, principessa di Alba Longa devota di Vesta — sua immagine riflessa — fecondata da Marte e genitrice di Remo e Romolo. La dea era dunque una «vergine madre», come Silvia e Maria. Anche le sacerdotesse di Vesta, le vestali, conservavano tracce della natura ambigua della dea. Somigliavano a vergini figlie, eppure anche a spose, di cui indossavano la veste, salvo il bianco velo e il diadema che segnalavano lo stato sacerdotale. I Romani hanno voluto adattare la Vesta pre-civica al loro progetto di città e mentre la plasmavano hanno concepito un'idea del pubblico che a noi pare più essenziale e radicale delle invenzioni cittadine dei Greci.
Infatti Vesta romana fu esclusivamente pubblica — sottratta ai fuochi privati — e le vestali erano costrette alla purezza per una generazione. Esclusivamente statale mai era stata la dea greca del focolare Hestia, né alcuna sacerdotessa greca ha conosciuto alla condizione simbolicamente vertiginosa delle vestali.
In origine Vesta presiedeva ai fuochi di famiglie, gentes, regie casate e anche di villaggi e rioni. Le fiamme ardevano allora nelle capanne accanto alla fossa-dispensa (penus) delle granaglie, che su quelle braci venivano cotte. Ma a Roma Vesta fu distolta da quei fuochi particolari e locali, come rapita dalla città, monopolizzata dallo Stato e relegata nel sua capanna (aedes), dove nessuno abitava o cucinava, e nel cui penus era non farro ma un talismano: il fascinus, cioè un fallo, segno di altri tempi. Le vestali abitavano in una loro capanna, davanti all'aedes, dove cucinavano e tenevano nel penus le provviste. Erano figure stravaganti, immagini viventi della dea. Dovevano preservarsi immacolate, impenetrate come le mura sante della città, e dovevano tenere il fuoco acceso durante l'anno nell'aedes, riaccendendolo ritualmente a capodanno. Se il fuoco si spegneva era una calamità grave. Rivelava che una vestale era stata violata: mostruosità da annientare, seppellendola viva.
Vesta era stata rapita ai fuochi particolari, come le vestali erano state bambine sottratte dal re alle famiglie, per divenire essenza divina esclusiva dello Stato, segno apicale della cosa pubblica. Essendo di nessuno, le vestali erano di tutti. Mai come a Roma lo Stato fu altro da un aggregato di famiglie: una entità centrale e gerarchizzata, sovraordinata rispetto rioni e parentele.
Quando i Greci fondavano una colonia, un «piroforo» recava in un vaso le braci della madrepatria con cui veniva acceso il fuoco nella città figlia, che da quel seme bruciante traeva vita. A Roma le cerimonie di fondazione furono due. Prima Romolo fondò l'epicentro dell'abitato sul Palatino, seguendo riti latini ed etruschi: era un 21 aprile, primitivo capodanno pastorale. Poi, durante il regno con Tito Tazio, egli fondò il centro sacrale e politico nel Foro-Arce: era un primo marzo, capodanno dei primi Romani. Il Foro era stato progettato tra due culti del fuoco. Accanto al fuoco domestico di Vesta risiedevano re e sacerdoti, in un fulcro di sovranità sacrale: al lucus Vestae. Accanto al fuoco bellico di Vulcano il re agiva con consiglieri e cittadini in assemblea, nel fulcro della politica, al Volcanal-Comitium. Fu allora che Vesta assunse il carattere pubblico della greca Hestia. Questa idea straordinaria era giunta forse da Cuma, per cui la fondazione della città era consistita in riti latini, etruschi e greci. Roma interiorizzò il cosmo, fin da principio.
Vesta nel Foro era sola, separata ormai da Vulcano e Marte e lontana dalle ragazze in ritiro prematrimoniale a lei devote, che con quegli dei si erano unite — pronuba la dea — per generare fondatori di città, come Ceculo, Romolo, Servio Tullio. Ora la casta diva era servita da sacerdotesse che, se violate, venivano sacrificate per preservare la salute della città. Quale differenza con la multiforme versatilità della dea originaria, con le sacre unioni che generavano eroi. Eppure qualcosa permaneva di quell'ardore originario, fatto di sovranità, purezza, fecondità, capacità difensiva ed energia nutritiva tesaurizzata.
Vigeva allora in Roma un'austerità puritana, che dell'imbarazzante passato pre-civico conservò traccia incongrua nel fascinus. La trasformazione servì a generare, nel coacervo di fazioni in lotta, il dispositivo della cosa pubblica. Mai era stato inventato un più perfetto correttivo pacificatore. Stava nella sublimazione del particolare nel generale, in un'essenza di virtù civica che rimane immortale: lezione anche per gli italiani che ristagnano ancora nel familismo amorale. Vesta e le vestali non erano di famiglia alcuna, tutt'uno col popolo romano. Vesta è dunque un'invenzione teologica artificiale, razionale. Il suo santuario e il Foro erano in un distretto esterno all'abitato e neutrale, per poter essere riconosciuto da tutti, come il Columbia District, in cui è Washington. I re di Roma furono stranieri per essere accettati dai contendenti locali — oggi diremmo tecnici super partes — e Vesta fu resa straniera a se stessa, per essere la vergine delle vergini, la sposa delle spose e perfino lo sposo degli sposi... Infatti le vestali furono le uniche donne di Roma ad avere i diritti civici dei maschi, compreso quello di sacrificare. Insomma, Vesta era onnipotente, come la Giunone di Lanuvio. Sembra contraddittoria, perché era ad un tempo polifunzionale e olistica. Nella sua sacrale eccezione si conciliava quant'era inconciliabile tra gli uomini. Vesta è il sistema antifamilistico e morale di Roma, simbolico capolavoro nella sua essenza estrema.
Gli antichi erano incerti se attribuire il culto pubblico di Vesta al tempo di Romolo, intorno al 750 a.C., o a quello di Numa Pompilio, intorno al 700. Scavando nel Santuario abbiamo scoperto che i primi edifici risalgono al 750 a.C.: la casa delle vestali davanti all'aedes Vestae e la domus dei re, che avevano lasciato il Palatino per abitare nel Foro. La discontinuità con il precedente abitato proto-urbano è assoluta. Per trasformare una palude nel Foro servirono numerosi interri accumulati dal 750 a.C. circa. Il primo pavimento in ciottoli si data intorno al 700 a.C.

Repubblica 10.12.11
L'Inghilterra discute su come si deve far studiare il passato
 Se la storia vcambia sempre padrone
di D. D. Guttenplan


«Chi controlla il passato», osservò George Orwell, «controlla il futuro». Non sorprende, quindi, che proprio la patria di Orwell sia diventata teatro del più recente dibattito sul significato della storia - e sul modo in cui questa dovrebbe essere insegnata. In occasione di due conferenze, tenutesi qui nelle ultime settimane, ai toni tradizionalmente pacati del dibattito accademico si sono sostituite accuse di razzismo, di semplificazione e di ignoranza bella e propria. Il tutto mentre alcuni degli storici più autorevoli del Paese esortano il ministro dell'Istruzione, Michael Gove, ad abbandonare il suo tentativo di riformare l'insegnamento della materia nelle scuole.
Durante una conferenza di storici tenutasi a Londra, David Starkey, autore di diversi volumi su Enrico VIII e le sue mogli, nonché ospite abituale di alcuni programmi televisivi, ha affermato che la scuola dovrebbe concentrarsi di più sulla cultura propria della Gran Bretagna. E al commento di un collega che gli ricordava come la Gran Bretagna dei nostri giorni sia "pittosto multietnica", Starkey ha replicato: «No, nonè vero. Quella della Gran Bretagna è perlopiù una monocultura», aggiungendo che vaste zone del Paese sono "indiscutibilmente bianche".
La scorsa estate Starkey era già salito agli onori della cronaca per aver affermato, a proposito di alcuni disordini che si protraevano da giorni, che la popolazione povera e bianca della Gran Bretagna era "diventata nera", e che tra questa si era diffusa «una cultura violenta, distruttiva, nichilista e malavitosa».
La scorsa settimana David Cannadine, professore di storia a Princeton, ha spiegato al ministro Gove che le affermazioni di coloro che lamentano una crisi nel modo in cui la storia viene insegnata ai giovani si basano sul "mito" di un "periodo d'oro", in cui ragazzi e ragazze erano in grado di recitare i nomi di tutti i re e le regine d'Inghilterra. In occasione di una conferenza presso la University of London, alla quale ha partecipato per lanciare il suo ultimo libro, Il giusto tipo di storia (in cui prende in esame il modo in cui la materia è stata insegnata nell'ultimo secolo), Cannadine ha affermato: «Le rimostranze per l'inadeguatezza dell'insegnamento della storia nelle scuole inglesi esistono da quando le scuole inglesi hanno iniziato a insegnare storia». Attualmente, in Gran Bretagna, ha fatto notare Cannadine, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei Paesi europei, gli studenti possono decidere di smettere di studiare storia a quattordici anni. Ma se il governo desidera migliorare la comprensione della storia, ha aggiunto, dovrebbe imporre l'insegnamento della materia sino all'età di sedici anni. La storia, che racconta le vicende di un Paese, è spesso considerata una materia controversa. Lo scorso anno, in Texas, la commissione statale per l'Istruzione ha votato affinché i libri di testo adottati nelle scuole di tutto lo Stato iniziassero a presentare i conservatori in una luce più favorevole, ed enfatizzassero il ruolo svolto dal Cristianesimo nella storia americana.
Negli anni Ottanta, in Germania, scoppiò la Historikerstreit, o "lite tra gli storici"; tutto iniziò quando Ernst Nolte, professore presso la Libera Università di Berlino, pubblicò un articolo nel quale di fatto descriveva l'Olocausto una «reazione sorta dalla paura» della rivoluzione russa.
Nolte era dell'opinione che i tedeschi dovessero smettere di scusarsi per il proprio passato, e che le imprese di Hitler fossero state «comprensibili, e, sino a un certo punto, addirittura giustificabili». Le sue idee scatenarono una polemica che si è protratta per diversi anni. Richard Evans, che all'epoca era un giovane storico presso l'Università di East Anglia, in Inghilterra, prese parte alla controversia, evidenziando le affinità tra le opinioni di Nolte e quelle a lungo impugnate dagli antisemiti, tanto in Europa che negli Stati Uniti.
L'attuale dibattito è invece sorto in Gran Bretagna nella primavera del 2010, quando Niall Ferguson, il professore ad Harvard, intervenne al Festival Letterario di Hay per lamentare il fatto che «in questo Paese, la maggior parte degli ragazzi non studia altro che Enrico VIII, Adolf Hitler e Martin Luther King». Ferguson aggiunse che ai suoi stessi figli non era mai stato insegnato Martin Lutero. Gove, che sedeva tra il pubblico, a quel punto alzò la mano: «Professor Ferguson», chiese, «crede che Harvard le permetterebbe di trattenersi qualche tempo in Gran Bretagna per aiutarci a impostare un programma di storia più entusiasmante e avvincente? ». In seguito, anche Cannadine e Simon Schama, uno storico britannico che insegna alla Columbia University di New York, furono reclutati per contribuire a rinnovare il programma nazionale di storia. Poi, a marzo, dalle pagine della London Review of Books, Evans - oggi Regio professore di storia a Cambridge - si è scagliato contro l'intera iniziativa, accusando il governo di voler imporre una lettura "celebrativa" della storia, che sorvoli sulle vicende più buie del passato della nazione e trascuri il contributo delle persone di colore al retaggio del Paese. Il rischio, ha ammonito, è quello di operare un «tipo di semplificazion e a s s o l u t a m e n t e ignorante». Ferguson, dal canto suo, nega di avere simili intenzioni. «Non so perché (Evans) senta la necessità di ritrarmi come una sorta di mostro reazionario. Un personaggio da dare in pasto alla febbrile immaginazione dei liberal, per farlo odiare», ha affermato in un'intervista.
«Chiunque legge ciò che scrivo sa che non propongo certo l'imposizione di una meta-narrativa pro-Tory». In seguito, Ferguson ha trovato un improbabile difensore in Eric Hobsbawm il quale lo ha descritto come «un uomo estremamente intelligente, nonché ottimo storico». «Per quanto io non sopporti l'idea di prendere le parti dei Tory, ritengo che in questo caso essi abbiano più ragioni di quanto noi accademici siamo pronti ad ammettere».
«La storia dovrebbe insegnare un senso di prospettiva e proporzioni», ha affermato Cannadine, lamentando il fatto che il dibattito si sia «polarizzato attorno a delle posizioni inamovibili: quella di coloro che privilegiano l'importanza della conoscenza dei fatti rispetto alle competenze storiche; di chi desidera una narrativa nazionale dai toni grandiosi, a scapito di una versione del passato che comprenda anche i momenti meno nobili, e coloro che vogliono concentrarsi sul Paese in cui viviamo anziché sui nostri rapporti con il resto del mondo».
Durante una recente conferenza il ministro Gove ha in parte disarmato i suoi detrattori. Pur tornando a lamentare il fatto che la storia britannica sia posta in secondo piano rispetto «a Hitler e agli Enrichi» o a una parte del vecchio West, che lui ha definito "indiani e cowboys", Gove ha definito "pericolosa" la volontà dei politici «di imporre sul programma scolastico nazionale tanti dei loro pregiudizi». Il ministro ha infine aggiunto di tenere la «mente totalmente aperta» circa l'opportunità di prolungare o meno l'insegnamento della storia sino all'età di sedici anni, e si è rifiutato di abbandonare il proposito di rivedere il programma, affermando che «dovremmo insegnare molta più storia», ed essere «molto più esigenti». «È in parte tornato sui propri passi», ha commentato Cannadine, aggiungendo che Gove «è chiaramente una persona con cui possiamo, e dobbiamo, lavorare».
(Traduzione di Marzia Porta) © The New York Times-La Repubblica

Repubblica 10.12.11
Bellocchio a gennaio sul set per il nuovo film
 Ispirato al caso Englaro

Partiranno a gennaio le riprese del nuovo film di Marco Bellocchio "Bella addormentata" liberamente ispirato al caso Englaro. In questi giorni si stanno decidendo i protagonisti.

venerdì 9 dicembre 2011

il Riformista 9.12.11
Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli

L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16)e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.

il Fatto 9.12.11
Non solo esenzione dall’Ici. Per la Chiesa nessuna rivalutazione delle rendite catastali
Ecco una delle sorprese contenute nel decreto salva-Italia, come rivela Il Sole24Ore con un effetto sulle casse dell'erario stimato in 400 milioni di euro l'anno. Insomma, un vero e proprio tesoretto per le zoppicanti casse dello Stato alla perenne ricerca di denaro fresco
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/09/solo-esenzione-dallici-chiesa-nessuna-rivalutazione-delle-rendite-catastali/176340/

il Fatto 9.12.11
Le “innocenti” evasioni  di Santa Romana Chiesa
di Marco Politi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/09/le-innocenti-evasioni-di-santa-romana-chiesa/176237/

l’Unità 9.12.11
Riccardi: verifica dei Comuni sull’Ici della Chiesa
Divampa in rete e nei partiti la polemica sull’Ici per gli immobili della Chiesa. Il ministro Riccardi: «Paghi sugli immobili adibiti ad attività commerciali». Berlusconi: «Libertà di coscienza per i miei».
di M.Ze.

Divampa su internet e dentro i partiti la polemica sull’esenzione dell’Ici per gli immobili della Chiesa. E dopo un’intensa giornata di botta e risposta tra favorevoli e contrari ecco a fine serata la dichiarazione del ministro per la Cooperazione e l'Integrazione, Andrea Riccardi: «Credo dice intervistato da Lucia Annunziata su Rai Tre che le attività di culto, culturali della Chiesa siano una ricchezza per il Paese e quindi l'Ici-l' Imu non va pagata. Per quelle che possono essere le attività commerciali gestite dalla Chiesa, dai religiosi, dalle associazioni cattoliche vigilino i Comuni o chi è preposto a questo per vedere se l'imposta viene pagata e intervenga. Inutile fare una grande battaglia. Si tirino fuori i casi, si valuti caso per caso e si intervenga: se c'è stata mala fede conclude si prendano le misure necessarie». Tema su cui si dibatte da quando Silvio Berlusconi ne decise l’abolizione ma che oggi di fronte alle misure lacrime e sangue della manovra -, è di grandissima attualità tanto che in meno di 24 ore l'appello lanciato da MicroMega che chiede di eliminare i privilegi sull'Ici dagli immobili della Chiesa cattolica ha superato 50.000 firme. «È scandaloso ha scritto Barbara Spinelli sul sito della rivista che la Chiesa italiana chieda più equità nella manovra, e non sia sfiorata dal dubbio che anche lei debba contribuire ai sacrifici chiesti agli italiani». IL DIBATTITO NEI PARTITI Nel Pd le posizioni sono diverse. «I patrimoni immobiliari della Chiesa, come quelli di altre organizzazioni destinati all'assistenza e a scopi umanitari, dovrebbero essere protetti dalla tassazione. Ma sugli immobili che determinano un profitto credo che anche la Chiesa debba fare la sua parte», sostiene Ignazio Marino. Intanto venti deputati Pd (primi firmatari Concia e Esposito) hanno presentato una mozione ad hoc, mentre il vicecapogruppo Pd romano, Fabrizio Panecaldo, presenterà lunedì in Campidoglio un'ordine del giorno per chiedere al Governo di imporre l'Imu al patrimonio immobiliare del Vaticano adibito ad uso esclusivamente commerciale». «L'Ici sui locali commerciali dice Beppe Fioroni la Chiesa già la paga, in base ad una norma voluta dal governo Prodi», ma all’ex ministro sembra rispondere indirettamente Marco Cappato, dai radicali: solo a Milano, dice, sarebbero 17 le strutture ricettive ecclesiastiche che si dichiarano esenti dall'Ici. «Altre 23 strutture non pagano né fanno dichiarazione», secondo quanto risulta dall'elenco reso noto dal consigliere comunale radicale «sulla base delle informazioni fornite su mia richiesta dall'amministrazione comunale». Giorgio Merlo, invece, spera «che il segretario Bersani non raccolga questa ventata laicista e che non aderisca alla moda, ricorrente, di colpire la Chiesa per rispondere ad un singolare e curioso istinto “progressista”». Non va meglio nel Pdl: Gabriella Giammanco chiede «un sacrificio alla Chiesa per aiutare i pensionati e chi, con tanti sacrifici, è riuscito ad acquistare una casa», mentre il collega Stefano Saglia si allarma: «Sulla tassazione degli immobili alla Chiesa cattolica il Pdl dovrebbe avere una posizione unitaria» e contrastare le «mistificazioni laicista». Denis Verdini e Nunzia De Girolamo spingono in direzione opposta e alla fine Silvio Berlusconi si chiama fuori. Dice: «Io non d’accordo, ma lascerò libertà di coscienza ai membri del mio partito». Fli, dal canto suo, presenta un emendamento per l'istituzione presso il Ministero dell'Economia di una Commissione paritetica mista Stato-Chiesa cattolica e altre confessioni religiose per individuare di comune accordo le fattispecie che danno luogo a esenzioni dall' imposta sugli immobili (ex Ici) », mentre Idv e Sel sono nette: nessuno sconto.

il Fatto 9.12.11
I crociati dell’Ici. La tassa vaticana spacca i partiti
Il fronte cattolico dal Pd al Pdl. Ma sul web è rivolta anti-privilegi
di Fabrizio d’Esposito

Una guerra trasversale nei poli. Per far pagare alla Chiesa l’Ici (o Imu) a Cesare, cioè allo Stato. Una questione che sul sito di Micromega in sole ventiquattr’ore ha già mobilitato 70mila persone. Anche in Parlamento la maggioranza potrebbe essere ampia. Lo dicono le due donne che, da un lato e dall’altro, conducono in prima fila questa guerra. Paola Concia per il Pd e Gabriella Giammanco per il Pdl. Sostiene Concia: “Da quando ho presentato la mozione mi stanno telefonando in tanti. Le firme per il momento sono trenta”.
Il segretario democrat Pier Luigi Bersani ieri non si è espresso in merito. L’ala cattolica, con in testa Beppe Fioroni, preme per stoppare il dibattito. In agosto, però, Bersani aprì a modifiche dell’attuale normativa che sì prevede già il pagamento dell’Ici per gli immobili commerciali di proprietà della Chiesa, ma introduce un escamotage: una cappella in un albergo, per esempio, porta all’esenzione. E si potrebbe continuare all’infinito.
CONTINUA Concia: “Bersani era favorevole a un esame caso per caso. Leggo che persino Casini è d’accordo sul principio e Fli e Idv vogliono fare degli emendamenti. Io presento una mozione perché comunque si arriverà a un voto. Chiediamo un censimento serio, non fumoso, delle proprietà e una quota del 30 per cento sul patrimonio della Chiesa. Se mettono la fiducia al decreto gli emendamenti saltano”.
Il punto è questo. Nel Pdl, Giammanco sta preparando un emendamento ma se ci sarà la fiducia sul “Salva Italia”, salta tutto. E sono pochissime anche le speranze di far entrare questa battaglia nel nuovo provvedimento. Di certo c’è che il Pdl per bocca del capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto vuole la blindatura con la fiducia. In più il segretario Angelino Alfano (ex democristiano) è contrario a mettere in discussione in privilegi del Vaticano. Silvio Berlusconi ha assicurato però che lascerà “libertà di coscienza ai membri del partito”. Dice Giammanco: “La posizione di Berlusconi mi rincuora. In un grande partito ci sono opinioni diverse. Io sto preparando un emendamento.
ll governo ha detto di essere disposto a ragionare sull’indicizzazione delle pensioni fino a 1400 euro e sulla riduzione dell’Imu sulla prima casa purché a saldi invariati. È indispensabile, perciò chiedere un sacrificio alla Chiesa per aiutare i pensionati e chi, con tanti sacrifici, è riuscito ad acquistare una casa. Preciso che dico queste cose da cattolica praticante, che ogni domenica va a messa”. Giammanco ritorna sulla questione dell’ultima legge che regola la materia, quella del 2006, con trucchetti annessi: “Per evitare inutili demagogie sull’argomento è bene chiarire che per legge dal 2006 gli immobili della Chiesa che non hanno esclusivamente natura commerciale sono esentati dal pagamento dell’Ici. Inserendo l’avverbio esclusivamente il legislatore ha trovato un escamotage per sottrarre al fisco gli immobili del Vaticano messi a reddito. È sufficiente, infatti, una piccola cappella all’interno di edifici usati per scopi commerciali per non pagare l’Ici”.
ANCHE nel Pdl, si parla di un fronte ampio. Il triumviro ancora in carica, Denis Verdini, ha detto che “da laico farebbe pagare l’Ici alla Chiesa”. Gli ex socialisti come Margherita Boniver, ma pure lo stesso Cicchitto, sarebbero favorevoli. Altri nomi sono questi: l’ex ministro Romani, Beccalossi (vicina a La Russa), Mottola, Rampelli. Dice la deputata Nunzia De Girolamo: “Siamo in tanti nel Pdl a pensarla così, il punto è capire se ci saranno o no gli emendamenti a causa della fiducia. In un momento d’emergenza e di crisi come questo la Chiesa ha chiesto equità ed è giusto che dia il suo contributo. Oggi a Milano, per fare un altro esempio, ci sono teatri che fanno beneficenza ma producono anche reddito e non pagano”.
Il fronte trasversale dei clericali che si oppongono e vogliono lasciare le cose così come sono ieri ha registrato l’adesione del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Un sindaco papista: “'Credo ci sia una polemica inutile attorno a questa vicenda perché c’è una legge dello Stato molto precisa che distingue gli immobili a uso commerciale rispetto a quelli di culto o utilizzati a scopi sociali. Se ci sono violazioni della legge basta fare denunce specifiche. Ho la sensazione che facendo un discorso confuso si voglia fare un’opera di discredito nei confronti della Chiesa cattolica”.
Stessa linea per il ministro per la Cooperazione, il cattolico Riccardi, mentre nel Pd Merlo invita Bersani a “respingere la menzogna laicista”. Nei due poli si stanno insomma delineando due partiti trasversali su Chiesa e Ici. E la mozione di Concia potrebbe avere una maggioranza laica. Forse.

La Stampa 9.12.11
Dilaga la polemica sull’Ici alla Chiesa

ROMA. MicroMega in un solo giorno ha raccolto oltre 50 mila adesioni per chiedere l’abolizione dei privilegi della Chiesa, su Facebook la pagina «Vaticano pagaci tu la manovra finanziaria» in tre giorni è arrivata oltre i 160 mila «mi piace». Il governo rimette mano all’Ici e subito si riapre la polemica, che dilaga dai blog alle dirette radio, dai giornali alle discussioni tra la gente. Con Avvenire e Famiglia Cristiana impegnate in prima fila nella contro-crociata. «È scandaloso - ha scritto Barbara Spinelli sul sito di MicroMega - che la Chiesa italiana chieda più equità nella manovra, e non sia sfiorata dal dubbio che anche lei debba contribuire ai sacrifici chiesti agli italiani». «Laicismo col trucco», ribatte il settimanale dei Paolini. «Chi riaccende ciclicamente la campagna di mistificazione sull’Ici non pagata non lo fa per caso, ma intende creare confusione e colpire e sfregiare la Chiesa e l’intero mondo del non profit: non sopporta l’idea che ci sia un altro modo di usare strumenti e beni e vorrebbe riuscire a tassare anche la solidarietà, facendo passare l’idea che sia un business, un losco affare, una vergogna», scrive il direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio che ieri ha ripubblicato pari pari l’editoriale del giorno prima al grido di «repetita juvant».
Sull’agenzia dei vescovi «Sir» il giurista e rettore della Lumsa, Giuseppe Dalla Torre chiarisce che l’esenzione dall’Ici è un «beneficio fiscale di cui gode non solo la Chiesa, ma anche la pluralità di organizzazioni ed enti laici, pubblici o privati, non commerciali e riconducibili al non profit».
Intanto il Parlamento si spacca trasversalmente tra «pro» e «contro». Venti deputati del Pd (tra i quali Pollastrini, Concia, Argentin, Touadì, Capano) hanno presentato a Montecitorio una mozione per proporre al governo di far pagare alla Chiesa almeno il 30% dell’Ici «dovuta». Contro l’«iniqua tassazione della solidarietà» si schierano, invece, i cattolici del Terzo Polo (Casini, Buttiglione, Baio, Binetti), Fioroni del Pd, Mantovano e Gelmini del Pdl. E sulla richiesta, arrivata da più parti, Pdl compreso, di introdurre l’Ici anche per i beni ecclesiastici, Silvio Berlusconi evidenzia come «tutte le risorse che la Chiesa risparmia vanno in opere e in aiuto a chi ha bisogno, ma sulla questione ho lasciato ai membri del mio partito libertà di coscienza». Il Fli intende affidare la soluzione a una commissione Stato-Chiesa.

La Stampa 9.12.11
Una norma “pasticciata” sotto la lente di Bruxelles
100mila immobili. A tanto ammonta il patrimonio della Chiesa in Italia Di questi, 9 mila sono scuole 26 mila strutture ecclesiastiche e 5 mila strutture sanitarie
Da subito erano state previste esenzioni per gli «enti non commerciali», ma dopo i limiti posti dalla Cassazione (2004), lo Stato è intervenuto con altre due leggi
L’Anci propone la mappatura di un possibile tesoretto da 700 milioni
di Paolo Baroni e Giacomo Galeazzi

Per avere l’esenzione totale basta che all’interno dell’immobile a uso commerciale ci sia anche una piccola struttura destinata ad attività di culto Gianfranco Mascia Promotore della biciclettata «Santa B-Ici» del Popolo Viola che ieri ha fatto tappa vicino ad alcuni edifici del Vaticano Il Vaticano è di nuovo nel mirino per l’esenzione dall’Ici dei suoi immobili
Ma la Chiesa l’Ici la paga oppure no? E se la dovesse pagare su tutti gli immobili ora esentati quale sarebbe il gettito previsto di un’operazione del genere? La polemica impazza e la confusione è davvero tanta. Come riassume nella sua «inchiesta» on line Arianna Ciccone, sul sito «viola» valigiablu.it, l’introduzione dell’Ici risale al 1992 ma da allora il legislatore ha previsto molte correzioni. Da subito erano previste esenzioni che riguardavano non solo la Chiesa cattolica, ma anche tutti gli immobili utilizzati da «enti non commerciali», il cosiddetto non profit (associazioni, enti, comunità, circoli culturali, sindacati, partiti politici, ecc.) «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive».
Nel 2004 la Cassazione, prendendo spunto da una caso legato ad un pensionato studentesco, introduce una prima novità e cancella l’esenzione per gli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, «destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali». Insomma, l’etichetta «non profit» non basta più a garantire l’esenzione: non deve esserci traccia alcuna di attività commerciale o economica. Nel 2005 lo Stato corre ai ripari e con una prima «interpretazione autentica» ripristina l’impostazione originaria della legge. Ma «questa impostazione - ricorda Ciccone, che per mettere le cose in chiaro si professa “non credente” - viene impugnata di fronte alla Commissione europea e denunciata come “aiuto di Stato”: gli enti non commerciali che svolgono quelle attività socialmente rilevanti sono comunque da considerare “imprese” a tutti gli effetti, e dunque l’esenzione costituirebbe una distorsione della concorrenza nei confronti dei soggetti (società e imprenditori) che svolgono le stesse attività con fine di lucro soggettivo». La palla a questo punto passa al governo Prodi che, con un decreto a firma dell’allora ministro dello Sviluppo Pierluigi Bersani, introduce un nuovo concetto, quello di attività «non esclusivamente commerciale» e affida ad una commissione del ministero dell’Economia la definizione dei dettagli. A Bruxelles la precisazione basta e la procedura contro l’Italia viene archiviata. I Radicali non demordono e chiamano in causa direttamente la Corte di giustizia di Lussemburgo. A sua volta, il nuovo Commissario alla concorrenza Almunia riapre il fascicolo sui possibili «aiuti di Stato». Entro maggio 2012 Bruxelles dovrà decidere se assolvere o condannare l’Italia con multa ed eventualmente porre fine ai privilegi e disporre il rimborso all’erario delle tasse non pagate in cinque anni dagli enti ecclesiastici» ricorda «valigiablu». Intanto, la questione Ici-Chiesa ha fatto capolino anche nella legge dell’agosto 2010 sul federalismo fiscale: introducendo la nuova imposta unica municipale il governo Berlusconi aveva deciso di togliere l’esenzione Ici su ospedali, scuole e alberghi a partire dal 2014. Poi, sono insorti dubbi interpretativi e si è tornati alla norma precedente.
A quanto ammonta il patrimonio della Chiesa in Italia? Si parla di circa 100 mila immobili, di questi 9 mila sono scuole, 26 mila strutture ecclesiastiche e quasi 5 mila strutture sanitarie. Per l’Agenzia delle entrate significa un potenziale introito di due miliardi di euro all’anno. Stime che risalgono al 2005 fatte dall’Anci, l’Associazione dei Comuni, ridimensionano questa cifra a 400 milioni che oggi, con le rivalutazioni decise col decreto Salva-Italia salgono a 700 milioni. Altri parlano di un miliardo. Solo a Milano denunciavano ieri i Radicali esistono 17 strutture ricettive che si dichiarano esenti dall’Ici (dalla Casa del Clero Domius Mater Ecclesiae a due immobili del Centro salesiano Paolo VI a diversi pensionati femminili gestiti da suore) e altre 23 che non fanno dichiarazione. A Roma il Popolo viola parla di 306 immobili tra case di accoglienza, case per ferie, domus, hotel e istituti vari Ici-esenti. Tra questi l’albergo Giusti, l’hotel Domus Pacis, l’hotel Villa Rosa. La confusione è tale e tanta che il nuovo presidente dell’Anci, il reggiano Graziano Delrio, dalle colonne dell’Unità ieri ha proposto un censimento generale per avere «un quadro preciso». E poi spiega: «Laddove è chiaro il carattere commerciale delle attività svolte in un immobile, per quei locali l’Ici va pagata. Se di fianco a un santuario c’è un bar, non credo che questo sia funzionale al culto».
La Chiesa cosa dice? Come risponde a questa nuova campagna? In Vaticano si fa notare che all’origine della controversia c’è l’eccessivo margine di interpretazione consentito dalla distinzione tra attività «commerciali» e «parzialmente commerciali». Anche per questo la battaglia dell’Ici è fatta più di parole che di numeri: alla stima dei 700 milioni di euro di esenzione non corrispondono «contro-cifre» da parte della Cei.


il Fatto 9.12.11
Manovra, quei soliti inciuci tra Vaticano e frequenze tv
Su previdenza e Imu intesa Pd-Pdl e Terzo polo
Il relatore “Le coperture? Non ci abbiamo pensato”
“Demagogia” l’imposta alla Chiesa
“Mica possiamo colpire Berlusconi”, la “spiegazione sulle televisioni
di Wanda Marra

Passando alla Camera in questi giorni capita di imbattersi in inediti capannelli: come quello di martedì, fuori dalla porta della Commissione Lavoro, in cui Giulio Santagata, Ciro Bocuzzo e altri deputati del Pd, carte alla mano, cercavano di spiegare a Giuliano Cazzola (Pdl) come e perché bisognava modificare la norma della Manovra sulle pensioni. Ne è uscito fuori un parere condiviso e ufficiale della suddetta Commissione. Ecco, nei sobri tempi dell’era Monti si fa così: vertici più o meno informali, estenuanti sedute di Commissione, riunioni dei gruppi per discutere (e per blindare il dissenso), proposte, modifiche e pareri “condivisi” dall’inedita maggioranza in Parlamento, Pd, Pdl e Terzo Polo. Martedì si sono incontrati i tre leader, Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pierferdinando Casini per mettersi d’accordo sugli aggiustamenti da apportare alla manovra. In Commissione Bilancio, quella che deve effettivamente trovare la quadra a livello parlamentare, a tenere le fila sono due mediatori, i relatori per Pd e Pdl, Pier Paolo Baretta e Maurizio Leo. Di “importanti convergenze” ha parlato il primo a giornata conclusa. E infatti Pd, Pdl e Terzo Polo sono sostanzialmente d’accordo su due questioni: le pensioni (e dunque, sulla necessità di portare l’aumento legato all’inflazione anche agli assegni fino a 1400 euro, e su quella di introdurre una maggior gradualità dell'innalzamento dell' etàpensionabile per il lavoratori) e l’Imu, ovvero le tasse sugli immobili di proprietà (l’ipotesi sul campo è quella di aumentare la franchigia sulla prima casa). Il punto, però, è quello delle coperture. E qui cominciano i guai. Leo ieri dichiarava (candidamente?): “Non ci abbiamo pensato”. Anche qui, le questioni in campo sono teoricamente tre. TEORICAMENTE, perché tassare gli immobili del Vaticano “è questione che non esiste”. Lo dice senza mezzi termini lo stesso Beretta, lo confermano un po’ tutti. “Questa è demagogia”, liquida la questione il piddino Francesco Boccia “Stiamo parlando di modifiche che richiedono coperture per 3 miliardi e mezzo - 4 miliardi di euro. Forse di più. E che ci facciamo con l’Ici al Vaticano? ”. Per la questione gara sulle frequenze tv la questione è un po’ più sfumata. Berlusconi ieri ha espresso un’altolà nel suo pieno stile: “La gara sulle frequenze? Andrebbe deserta”. E anche se nel Pd spingono perché si faccia, è Roberto Rao, fedelissimo di Casini, a chiarire il punto: “È difficile. Berlusconi penserebbe che ce l’abbiamo con lui”. E i Democratici, d’altronde, ripetono il mantra degli ultimi giorni: “Sta fallendo il paese, mica possiamo far cadere il governo per questo”. Rimane il prelievo sui capitali scudati. Si ragiona fino a un raddoppio (dall’1,5 di ora al 3 per cento per un gettito di 2 miliardi di euro): il Pd l’ha chiesto subito, il Pdl potrebbe cedere. Da sottolineare, però, che proprio ieri i tecnici della Camera hanno avvertito che potrebbe essere difficile applicare la tassa. Proprio quella dell’equità. STAMATTINA scade il termine per gli emendamenti. E il Pdl deciderà sempre stamattina se presentarli, il Pd si regolerà di conseguenza. L’Udc ha già detto che non lo farà e Fli ne ha presentati alcuni “di testimonianza”. Alla fine, nella sostanza, una volta che si sarà arrivati a un ventaglio di proposte condiviso, questo verrà presentato al governo. Forse già da stasera. Forse alla fine del week - end. Starà all’esecutivo - con il ministro per i Rapporti con il Parlamento Giarda nelle vesti di mediatore - dire di sì o di no. Dopodichè con ogni probabilità il tutto confluirà in un maxi-emendamento che arriva in Aula martedì e sul quale Monti porrà la fiducia (ieri è tornato a chiederlo lo stesso Berlusconi). Non prima di altri contatti più o meno informali con Alfano, Casini e Bersani, che dovranno sostanzialmente mettere il timbro su quel che hanno e non hanno ottenuto. Chi non lo farà sarà l’Idv. Per tutti, il capogruppo a Montecitorio, Donadi: “Quella di Monti è una manovra classista che tutela evasori fiscali e banche”.
il Fatto 9.12.11
Dopo il no all’accordo con la Svizzera
Intoccabili evasori
“Bocciata” anche la tassa sui capitali scudati
di Caterina Perniconi

Gli evasori fiscali italiani possono continuare a dormire tra due cuscini. I sacrifici per il Paese li faranno i pensionati, a loro non sarà chiesto nient’altro. L’accordo con la Svizzera, per tassare i capitali detenuti clandestinamente, appare impossibile. E anche la nuova tassazione sui soldi riportati in Italia con lo scudo fiscali sta sfumando.
IERI, INFATTI, i tecnici della Commissione Bilancio della Camera hanno manifestato dubbi sulla possibilità di applicare la nuova tassa “una tantum”. L’imposta, spiegano i tecnici, “potrebbe non trovare applicazione sul complesso dei capitali già emersi” visto che il contribuente potrebbe avere investito in altre attività o potrebbe avere “spostato la sua posizione presso un altro intermediario”.
Insomma, o pagavano di più subito, o adesso è difficile recuperare quell’1,5% richiesto dalla manovra Monti, e considerato comunque un valore molto basso. Perché tassando i capitali al 5%, il gettito aumenterebbe da 2 a 7 miliardi. Ma i problemi a far rispettare questa norma sono molti, a partire dalla privacy. Infatti per i tecnici della Camera è necessario un chiarimento supplementare sulla “garanzia di anonimato delle dichiarazioni di emersione delle attività da parte degli intermediari nei confronti dell’amministrazione finanziaria”.
Si potrebbe intervenire, quindi, su coloro che i capitali in Svizzera li hanno lasciati. Ma il governo, per voce del ministro dei Rapporti col Parlamento, Piero Giarda, ha escluso categoricamente questa ipotesi. Che non significava una caccia alle streghe, perché la lista degli evasori non è necessario che sia pubblica.
GRAN BRETAGNA e Germania hanno stipulato un accordo col paese elvetico affinché entro maggio del 2013 i cittadini dei due Paesi che esportano soldi all’estero paghino un’imposta tra il 19 e il 35% sulla media dei soldi presenti nella banca tra il 2003 e il 2010 e un’aliquota fissa del 25% sulle rendite di quel capitale. Le tasse vengono quindi riscosse dalla Svizzera a fronte della conservazione dell’anonimato dei clienti. “É assurdo – ha scritto il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, sul suo blog – che proprio l’Italia, cioè il Paese che più di tutti è flagellato dall’evasione fiscale e dalla fuga dei capitali all’estero, invece di essere il primo a firmare quegli accordi guardi da un’altra parte proprio come faceva Berlusconi. Di questo passo, caro professor Monti, di soluzione ne resta una sola: evasione impunita e ogni tanto un bel condono. Ci siamo già passati”.
Contemporaneamente la manovra impone alle Amministrazioni pubbliche di non fare più pagamenti in contanti oltre i 500 euro. Nella pratica significa che le Poste non potranno più erogare le pensioni cash. E gli anziani che non hanno un conto corrente saranno costretti ad aprirlo, spese incluse. Per la gioia delle banche e dei soliti noti. Berlino e Londra
Hanno stipulato un accordo con la Svizzera affinché entro il maggio 2013 i cittadini dei due Paesi che esportano soldi all’estero paghino un’imposta tra il 19 e il 35% sulla media dei soldi presenti nella banca tra il 2003 e il 2010 e un’aliquota fissa del 25% sulle rendite di quel capitale

il Fatto 9.12.11
I signori del Palazzo: sacrifici zero
La riforma delle pensioni non si applica ai dipendenti di Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale
di Eduardo Di Blasi

 Il dettaglio è nella Nota illustrativa del bilancio di previsione per il 2011 dell’Amministrazione della Presidenza della Repubblica, il documento che, per opera dell’attuale presidente in carica, rende un po’ più trasparente il bilancio del Quirinale. È qui che al paragrafo sull’andamento della spesa è scritto: “Per cercare di contenere la dinamica della spesa del comparto pensionistico, è stata di recente modificata in modo incisivo la normativa dei pensionamenti anticipati di anzianità, fissando a regime il limite di 60 anni di età e 35 anni di anzianità utile al pensionamento e introducendo misure dissuasive con la previsione di significative riduzioni di trattamenti pensionistici”. La nota ci informa di due cose. La prima, poco conosciuta ma sancita dalla legge, è che gli organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, governo, Camera, Senato e Corte costituzionale) conservano una propria autonomia organizzativa e di bilancio. La seconda è che, al Quirinale, dopo una modifica “incisiva” della normativa intervenuta nei mesi passati, si può andare in pensione al compimento dei 60 anni e con 35 anni di anzianità. E che ciò si potrà fare, nonostante la manovra del governo che impone da subito il passaggio al sistema contributivo “per tutti” e che allunga i tempi per la pensione di anzianità oltre i 40 anni di contribuzione. Il carico delle pensioni non è negato nella nota al bilancio. Pesa anzi enormemente sul conto del Colle ed è in continua ascesa: 92,3 milioni di euro per il 2011, contro gli 88,5 del 2010. Una cifra che copre il 37,8% del bilancio per il 2011, a fronte di una contribuzione previdenziale degli attuali dipendenti vicina agli 8 milioni di euro annui. Nonostante le rigide regole che valgono fuori dai Palazzi, all’interno tutto è regolato da direttive interne che lavorano su tempi diversi. Va dato atto al Colle di essersi fatto carico di inserire nel proprio ordinamento interno i due decreti economici sui tagli al pubblico impiego (il 78 del 2010 e il 98 del 2011), circostanza che è stata tradotta con una “riduzione del 5% e del 10% delle retribuzioni e delle pensioni per la parte eccedente i 90 mila e i 150 mila euro” (che ha prodotto un risparmio di circa mezzo milione di euro l’anno), il blocco delle progressioni automatiche delle retribuzioni e delle pensioni al tasso dell’inflazione programmata e il blocco delle progressioni automatiche di anzianità per le pensioni più elevate (qui il risparmio è stato più consistente, poco più di 2,7 milioni di euro l’anno). Sulla disciplina dei pensionamenti “anticipati” adottata, il dato del risparmio conseguito è ancora da calcolare.
COSÌ COME il Quirinale, anche Camera e Senato dispongono di un proprio bilancio interno che copre non solo deputati e senatori ma l’intero apparato statale che lì è assunto. Sulla vicenda che riguarda i primi, si sta cercando una convergenza sul tema dei vitalizi. Sul tema dei dipendenti, però, le leggi non ancora aggiornate ci dicono che al Senato “con le nuove e più restrittive disposizioni”, “fermo restando il collocamento a riposo d’ufficio per uomini e donne a 65 anni di età”, si può andare in pensione al compimento dei 60 anni se in possesso dei requisiti richiesti (20 anni di servizio effettivo e 35 anni di contributi), “conservando la facoltà di un’anticipazione” a 57 anni “ma con l’applicazione di forti penalizzazioni”. L’aliquota contributiva a carico dei dipendenti a decorrere dal primo gennaio 2011è addirittura scesa: è passata dal 9,7 all’8,8. Certo è da dire che sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, così come già detto per il Colle, sono stati applicati i parametri dei decreti di luglio. Sul fronte pensioni anche nel bilancio della Camera si prevede un “inasprimento dei requisiti per il pensionamento di anzianità”, ma la nota la bilancio 2011 non chiarisce quali siano. Anche per i bilanci di Camera e Senato, d’altronde, il peso delle pensioni è considerevole. I trattamenti previdenziali pesano ogni anno su quello del Senato per 182 milioni e su quello della Camera per 209.
SUL TEMA pensionistico, infine, la Corte costituzionale si adegua, per i propri giudici, al corso della previdenza in magistratura. Il regolamento interno deliberò che i membri della Corte venissero pensionati con un’auto blu di rappresentanza.
La Cgia di Mestre ha fatto i conti in tasca agli italiani per la manovra prossima ventura: costerà 830 euro l’anno netti a famiglia, quasi 2000 se si aggiungono a quella le precedenti manovre estive di Berlusconi. La mancata rivalutazione della pensione costerà di media 280 euro l’anno, con picchi di 311 euro in meno nel La-zio. Cioè, non proprio in tutto il Lazio. In alcuni palazzi di Roma la tempesta verrà affrontata, probabilmente, con maggior tatto.

l’Unità 9.11.12
Editoria: contro i tagli la Fnsi da Malinconico

Il sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico si incontrerà oggi con i vertici della Fnsi. Avrà modo di chiarire la contraddizione tra le sue rassicuranti dichiarazioni sul mantenimento del Fondo per l’editoria a tutela del pluralismo e quanto è prescritto dal comma 3 dell’articolo 29 della «manovra» Monti: la sua cancellazione, il cui effetto sarà la morte dell’editoria cooperativa, politica e di idee.
In queste ore il destino di oltre cento testate è appeso al filo dei possibili emendamenti al testo. Senza un’immediata inversione di rotta quattromila lavoratori rischiano di trovarsi per strada. Quali aziende arriveranno sino al 2014 senza il finanziamento pubblico e a cosa servirà un Fondo senza risorse? È a rischio il pluralismo del nostro Paese. Lo denunciano «Il manifesto» e «Liberazione», i periodici diocesani, le altre testate «vere», come l’Unità e Avvenire, che hanno potuto usufruire del finanziamento «diretto» a compensazione delle distorsioni del mercato pubblicitario. Se è un settore «debole» dal punto di vista finanziario che ha già vissuto stati di crisi e tagli, costituisce un patrimonio essenziale per la ricchezza culturale e dell’informazione nel nostro Paese. Lo ha riconosciuto anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che rispondendo alla lettera dei direttori di cento testate, aveva sollecitato il governo Berlusconi a tutelare questa realtà. Ora il governo Monti terrà conto di questa raccomandazione? Farlo significa definire da subito criteri rigorosi per l’assegnazione dei fondi da predisporre per gli esercizi 2011 e 2012: meno di cento milioni di euro. Su dove reperirli insistono il portavoce di Articolo 21, Beppe Giulietti e il senatore Vincenzo Vita (Pd): «Attuando una vera asta competitiva per le frequenze digitali».

La Stampa 9.12.11
La crisi. Le ricette del Pd
Intervista a D’Alema: “Questa volta pagano pure i ricchi Non era mai successo”
“Le pensioni? Il governo ascolti le richieste dei sindacati”
di Riccardo Barenghi

ROMA. Leader democratico Massimo D’Alema è stato segretario del partito, premier e più volte ministro Ultimo incarico: presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti
Il governo Monti e la sua manovra, i sacrifici per gli italiani e i sindacati che scioperano, i rischi per il Pd che deve convincere la sua base sociale insoddisfatta, le elezioni tra sei mesi o tra un anno e mezzo, le prospettive di un'Europa a rischio. Ne parliamo con Massimo D'Alema.
Molte tasse, pochi tagli, poca equità, poca crescita, pensioni sotto tiro, assenza di una vera patrimoniale... Soddisfatto D'Alema?
«Mi pare francamente una sintesi totalmente inappropriata, non è questa la manovra. Innanzitutto, vorrei ricordare le parole del presidente Napolitano: " Eravamo sull'orlo di una catastrofe". Il rischio era che andasse deserta l'asta sui titoli di Stato e ciò avrebbe significato non pagare le pensioni e gli stipendi dei lavoratori pubblici. Se non teniamo conto di questa situazione reale, le dissertazioni appaiono non adeguate alla gravità del momento».
Però la manovra del governo non è stata accolta da cori di giubilo, soprattutto a sinistra.
«Difficile gioire quando bisogna sacrificarsi. Ma bisogna rendersi conto che eravamo arrivati a un punto di non ritorno grazie a Berlusconi. Oggi sembra che Berlusconi sia un fenomeno di cent'anni fa, invece è stato capo del governo fino all'altro ieri. E per tre anni ha fatto finta che la crisi non esistesse».
Nessuna responsabilità del centrosinistra che pure ha governato per sette anni negli ultimi quindici?
«Chi dice che la colpa è di tutta la politica, dice una colossale balla. Nel 2008 noi abbiamo lasciato il debito pubblico al 103,2, la percentuale più bassa degli ultimi vent'anni. Lo Spread era a quota 32. E queste sono cifre, non opinioni. Certo, c'è stata la crisi, ma questo non basta a giustificare i dati di oggi. Se la crisi fosse stata affrontata e non negata, saremmo in una situazione diversa dall'attuale. Ma noi non ci limitiamo a recriminare sulle responsabilità di Berlusconi. Non abbiamo chiesto le elezioni, nonostante i sondaggi a noi favorevoli, e abbiamo votato la fiducia al governo Monti assumendoci una grande responsabilità nell'interesse del Paese. D'altra parte, due mesi di campagna elettorale avrebbero fatto precipitare l'Italia nella condizione della Grecia o peggio. Una classe dirigente seria sa sfidare anche l'impopolarità per riparare i guasti provocati dalla destra».
Ora c'è il tecnico a riparare questi guasti, secondo lei ha fatto un buon lavoro finora?
«Il professor Monti si è trovato ad operare in una situazione di drammatica emergenza e con pochissimo tempo a disposizione. Anche per questo non era facile improvvisare innovazioni, che richiedono tempo e analisi approfondite. Oggi, però, possiamo partecipare al Consiglio europeo con le carte in regola. E magari cominciare a far sentire la nostra voce affinché ci sia una svolta nella politica europea, altrimenti le manovre nazionali serviranno a poco».
Una svolta di quale genere?
«Bisogna dare alla Bce un ruolo più attivo in modo che possa intervenire direttamente sui mercati. E’ molto opportuna l'iniziativa di Draghi sul taglio dei tassi di interesse, ma qui servono decisioni politiche. Bisogna puntare sugli Eurobond e convincere la Merkel, che non ne vuol sentir parlare. Bisogna attivare un piano europeo di sviluppo e di investimenti sulle infrastrutture. Bisogna mettere in campo e armonizzare politiche sociali e fiscali. L'Europa è a un bivio: o fa questo salto di qualità oppure non reggeranno neanche le conquiste fin qui realizzate».
Torniamo alla manovra, lei la giudica tutta positiva?
«E' positivo che non siano state aumentate le aliquote Irpef, imposta che pagano gli italiani onesti. Ed è positivo che si siano cominciati a tassare i patrimoni, soprattutto le seconde case e quelle di lusso».
E le case del vaticano vanno tassate?
«Certo, bisogna studiare una soluzione, esentando gli edifici adibiti al culto e quelli utilizzati per fini sociali».
A proposito di patrimoni, non si può dire che anche i ricchi piangono.
«Non so se piangano, ma so che per la prima volta si introduce un prelievo sui patrimoni e si fanno pagare di più coloro che hanno riportato in Italia i capitali dall'estero. Si tratta ancora di prelievi bassi. Si possono alzare anche per venire incontro alle richieste comprensibili dei sindacati sul tema delle pensioni».
Questo è proprio il capitolo più doloroso, tanto che i sindacati per la prima volta da sei anni hanno indetto uno sciopero unitario: era proprio necessario colpirle così duramente?
«E' vero, si tratta del capitolo socialmente più pesante. Per questo abbiamo presentato proposte in Parlamento per mantenere l'indicizzazione sulle pensioni che arrivano al triplo di quelle minime e vedo che si sta andando in questa direzione. E sarebbe giusto anche lasciare liberi di andare in pensione coloro che hanno svolto lavori usuranti. C'è poi la questione importante della detrazione Ici sulla prima casa. E infine si possono recuperare risorse sull'assegnazione delle frequenze radiotelevisive, altra richiesta del mio partito».
Ma lei aderisce allo sciopero di lunedì come hanno già fatto altri del Pd?
«Noi lavoriamo in Parlamento per cercare di migliorare la manovra e renderla più equa, per rispondere con i fatti alla protesta. E consiglio caldamente il governo di accogliere alcune richieste dei sindacati, che sono anche le nostre».
Lei che ha sempre rivendicato il primato della politica non pensa che in questo caso la politica abbia abdicato al proprio ruolo rifugiandosi dietro un governo tecnico? Non sarebbe stato meglio andare alle elezioni?
«Guardi che l'alternativa non era tra governo tecnico o elezioni, ma tra governo tecnico o permanenza di Berlusconi. Se non si fosse concretizzata l'ipotesi di Monti, la maggioranza di centrodestra non si sarebbe sfarinata e noi avremmo ancora il Cavaliere a palazzo Chigi. Altro che politica morta… Si è trattato, al contrario, di una positiva operazione politica».
Se il governo Monti durasse un anno e mezzo, cos'altro si dovrebbe fare oltre al risanamento finanziario?
«Una nuova legge elettorale e una riforma istituzionale che modifichi il bicameralismo perfetto e riduca drasticamente il numero dei parlamentari. Soprattutto così si tagliano i costi della politica».
Ma tra un anno e mezzo sarà ancora in piedi quell'alleanza con Vendola e Di Pietro che tutti i sondaggi consideravano vincente?
«Le alleanze non sono prodotti alimentari che scadono, non vanno a male se passa il tempo. Non mi spaventa che ci possano essere, in certi passaggi, opinioni diverse, ma occorrono correttezza e serietà nella discussione. In questo periodo non si devono scatenare polemiche assurde, perché questo sì, sarebbe lacerante. Dopo una settimana che si è votata la fiducia, dire che questo governo è un inciucio tra destra e Pd è inammissibile. E vorrei che si guardasse al di là dell'emergenza per realizzare una prospettiva di governo per il Paese. Si tratta di ricostruire l'Italia su basi più giuste e assicurare un futuro di progresso. Questo richiede un'alleanza che vada oltre il centrosinistra e punti a una collaborazione con il Terzo polo. Guai ad assumere oggi comportamenti che compromettano questa prospettiva».

l’Unità 9.12.11
Vendola
«No a misure inique, ma è sbagliato dividere il centrosinistra»
Il leader di Sel: «Attenti a non uccidere l’orizzonte di un’alternativa Abbiamo il compito di piegare l’agenda di governo nel segno dell’equità»
intervista di Andrea Carugati

Nichi Vendola non cede alle sirene che arrivano dalla sua sinistra, e anche dall’Idv. Non strappa col Pd, nonostante un giudizio fortemente critico sulla manovra del governo dei professori, definita «iniqua e per questo anche inefficace». «I nostri maestri di politica ci hanno insegnato che in strettoie drammatiche come queste servono “calma e gesso”. Non si può pensare di dividere la sinistra. Ho un giudizio più critico del Pd rispetto alle scelte di Monti, credo che Bersani dovrebbe avere toni meno ultimativi verso l’Idv, ma a Di Pietro dico: non è giusto accusare il Pd di tradimento o di inciucio. Abbiamo tutti il dovere comune di non uccidere l’orizzonte di una alternativa, perché sarà il centrosinistra a dover completare la de-berlusconizzazione dell’Italia». Non sembra un compito facile tenere unita la coalizione...
«Eppure tutti insieme abbiamo il compito di piegare l’agenda politica e di governo nel segno della giustizia sociale. Tra noi forze del centrosinistra vedo una convergenza nell’idea che non si possa affrontare la crisi devastando il welfare e impoverendo il ceto medio. Dobbiamo fare tutti insieme una grande battaglia per la patrimoniale. A salvi invariati, bisogna battersi per spostare i pesi dai pensionati e dal ceto medio verso i forzieri della ricchezza. E trovo stucchevoli le parole del ministro Giarda, che ha detto di non poter fare quelle intese con la Svizzera sulla tassazione delle ricchezze che pure hanno fatto Germania e Gran Bretagna. Non è una questione tecnica, ma di volontà politica».
La Commissione Ue esprime perplessità su quelle intese con la Svizzera... «Se la Commissione pensa a una procedura di infrazione, allora bisogna alzare la voce contro il cinismo di questa Europa. Vorrei che quelle procedura si aprissero quando la disoccupazione supera certe soglie. E invece sembra che si possano toccare tutti i diritti tranne le ricchezze».
Se fosse in Parlamento voterebbe no alla manovra?
«Il problema non sono io. Di fronte a critiche così larghe e fondate, dalla Chiesa ai sindacati, il Parlamento non può restare indifferente. E man mano che i cittadini si renderanno conto del danno subito crescerà il disagio sociale, la protesta».
Lei è stato critico sulla nascita del governo tecnico. Dopo le prime mosse è cambiato il suo giudizio?
«Il congedo dal circo mediatico della politica ridotta ad avanspettacolo ha prodotto una discontinuità che consente di riabilitare l’immagine del Paese. E tuttavia si tratta di un’operazione tecnocratica costruita con spirito giacobino, senza un elemento strutturale di consenso con i grandi attori della società, e per questo ad alto rischio. C’è un’impostazione ideologica che acceca, impedisce di vedere le alternative, spinge l’Europa in un angolo buio dove rischia di squagliarsi. E per fortuna che c’è Prodi che ci aiuta a decifrare le miserie di questa Europa franco-tedesca».
La sua è una bocciatura totale?
«Le cose sono ancora peggiori di come appaiono. C’è qualcosa di feroce nel mutamento della qualità della vita che colpirà milioni di persone che già arrancavano. La manovra avrà anche effetti collaterali finora non considerati, come la fuga verso la pensione negli ospedali. Rischiamo di perdere centinaia di medici senza neppure poterli sostituire per il blocco del turn over».
Eppure lei non strappa col Pd...
«Nel passato in fasi come queste di crisi e recessione è dilagato il populismo reazionario, e la sinistra si è divisa, con i risultati tragici che tutti ricordiamo. Per questo, e per il ruolo di lampara che il popolo ha affidato al Quirinale, mi sono sentito in dovere di non rompere un patto di coalizione, di non sconnettermi da un sentimento popolare così diffuso».
Ferrero e Di Pietro la incalzano...
«Deve prevalere uno sforzo comune di pressione per guadagnare cambiamenti, discutere della patrimoniale, dell’asta delle frequenze tv, delle spese militari. Se i tre principali sindacati scioperano insieme, i “migliori” al governo non sono esentati dal dovere della condivisione. Altrimenti, se un governo presentabile fa le stesse cose di quello impresentabile, nasce una domanda. Ma la nostra critica al berlusconismo era solo estetica? Io non voglio fare giochi tattici per guadagnare qualcosa sulla pelle del Pd, che ha fatto una scelta difficile. E tuttavia, se tra i democratici non ci fossero così tante voci più realiste del re nei confronti del governo, avremmo più forza per pretendere maggiore equità».
Eppure i sondaggi sembrano premiare questo Pd “governista”...
«Ai miei compagni di partito ho detto di non leggere i sondaggi per i prossimi 3-4 mesi. Gli effetti, e vale per tutti, li vedremo dopo che si saranno dispiegati gli effetti della manovra. Nel momento in cui si conclude il carnevale berlusconiano e si dice al Paese che erano a rischio gli stipendi, è chiaro che il governo Monti, e con esso anche il Pd, vengono percepiti come un’alternativa al baratro. Il problema è che la violenza della crisi produrrà populismo e noi dovremo fronteggiarlo, per evitare che la salvezza venga individuata fuori dalla politica».
Lei coltiva ancora la prospettiva del voto nel 2012?
«Oggi la priorità è salvare il Paese, cambiare la manovra, e far pesare di più nei vertici internazionali un vero progetto europeista. Monti ha le carte in regola, ma deve avere più coraggio nel sostenere gli Stati Uniti d’Europa. Servono un fisco e un welfare comune, e soprattutto una legittimazione democratica reale di chi prende le decisioni».

il Fatto 9.12.11
Breivick
Delitto e castigo
risponde Furio Colombo

   Caro Furio Colombo, propongo il caso della pena detentiva da applicare ad Anders Breivik, il massacratore norvegese di 77 persone. Il procuratore Inga Bejer Engh ha dichiarato: “Una persona psicotica non può essere condannata alla prigione. Può solo essere chiusa in un ospedale psichiatrico. Anche a vita”. L'avvocato di Breivik si è unito agli avvocati delle vittime per affermare: “L'importante è che non possa camminare per strada”. Ma in questo modo si dà per scontato che sia inutile curare uno come Breivik perché non potrà mai guarire. Mi sembra che vinca la vendetta sulla razionalità.
Franco

   COMINCIAMO con il ricordare che il fatto è enorme e raro. Le vittime, come ricorda il nostro interlocutore, sono più o meno come quelle di un kamikaze. Ma il kamikaze è un suicida che intende compiere un atto di guerra. Quasi sempre però (vedi il caso della Columbine, scuola americana resa celebre dal documentario di Michael Moore) il vero problema, in tempo di pace, è la mancata identificazione di un pericolo che altri (insegnanti, medici, amici) avrebbero dovuto notare in tempo. Un solo caso ricorda Breivik. È quello del giovane soldato Timothy Mc Veight, che sarebbe stato l'autore solitario della strage di Oklahoma City (1995, esplosione nel palazzo degli uffici federali, con 150 morti fra cui 48 bambini) , che è stato processato subito, condannato a morte in pochi giorni, sentenza eseguita entro una settimana. Su quel gravissimo evento restano dubbi (era solo? con altri? mandante? vere ragioni?) che gravano tuttora sull'America. Intorno a Breivik c'è, come per Mc Veight, il caso raro dell'attentatore da processare. Ma a differenza che a Oklahoma, è stato studiato, accertato, accolto il principio della malattia mentale come causa. A questo punto non resta che la reclusione in una istituzione medica. Se gli ospedali giudiziari norvegesi non sono come gli orrendi luoghi italiani documentati dal senatore e medico Ignazio Marino, non c'è dubbio che l'impegno della cura prevarrà su quello della vendetta.

il Fatto 9.12.11
La trinità della Repubblica italiana
di Nicola Tranfaglia

Un gruppo, formato da Giuseppe Casarrubea e Mario Cereghino e da chi scrive, ha ricostruito, attraverso ricerche negli archivi inglesi e americani aperti dopo il decreto del presidente Clinton nel 2000 e liberati dal segreto di Stato che invece in Italia domina ancora. La ricerca storica ha dimostrato che nel nostro Paese le resistenze alla democrazia repubblicana sono state più forti dei partiti politici e delle correnti culturali che volevano fondare un nuovo Stato, democratico e repubblicano. Leggendo con attenzione i documenti che vengono dagli archivi del Terzo Reich, ma anche da quelli del Regno britannico e degli Stati Uniti del presidente Roosevelt, ci si rende conto di alcuni elementi che gran parte degli storici, nel primo cinquantennio di lavoro ricostruttivo dopo la Seconda guerra mondiale, hanno senza dubbio trascurato. Il primo è l’atteggiamento filotedesco che il pontefice Pio XII (ossessionato dal timore di una vittoria comunista in Italia) tiene negli ultimi due anni di guerra, 1943-‘45, sperando fino all’ultimo nella vittoria finale della Germania nazionalsocialista.
SULLA POLITICA del Papa cattolico si rivela perfetto il giudizio storico, emesso alcuni anni fa da Giovanni Miccoli che ha messo in luce nel suo libro su Pio XII del 2007, l’eccezionalità della crisi vissuta dal pontificato e l’indubbia incapacità di papa Pacelli di cogliere la difficoltà, insuperabile per la Chiesa cattolica, di difendere la causa nazista e fascista, pur di fronte alla difficile e contraddittoria alleanza politica tra le potenze democratiche e l’impero sovietico. Il secondo elemento importante è la grande rinascita della mafia siciliana, segnalata più volte dagli agenti inglesi e americani (in particolare dell’Office of Stategic Services degli Stati Uniti), che sottolineano nello stesso tempo, il tentativo di riorganizzare il fascismo in Sicilia e nell’Italia meridionale, secondo un progetto che era stato a suo tempo del segretario del Pnf Alessandro Pavolini e che vuole mettere insieme le disperse forze contrarie al bolscevismo e al pericolo comunista. La logica diventerà, dopo il 1947 e per molti anni, quella non di De Gasperi (in quanto autonomo dalla Santa Sede) ma della destra democristiana, a cominciare da Giulio Andreotti.
Emerge con chiarezza dai documenti anglo-americani e tedeschi come le istituzioni dominanti della società italiana siano schierate contro i partiti storici della sinistra (comunisti, socialisti e azionisti) e che abbiano già stabilito un legame forte con la rinata organizzazione mafiosa siciliana che esercita nell’isola un indubbio potere di cui si sentiranno presto gli effetti. Il 2 giugno 1946 la Repubblica ha vinto, ma troppo forti sono gli ostacoli e i condizionamenti che vengono dalle istituzioni che hanno resistito, la mafia siciliana e il papato antibolscevico. Di qui la persistenza, nei 70 anni dell’Italia repubblicana, di colpi ricorrenti contro l’ordinamento costituzionale e la democrazia, di un potere invisibile più forte di quello pubblico e controllabile dagli italiani. Lo denunciò Norberto Bobbio più di vent’anni fa.

La Stampa 9.12.11
Fame di diamanti per l’India e la Cina
La produzione mondiale non regge la loro richiesta
di Ilaria Maria Sala

PECHINO. I diamanti, si sa, dovrebbero essere «per sempre», ma sembra che la fame di gemme dei nuovi ricchi cinesi e indiani stia mettendo a dura prova le riserve, che potrebbero non durare poi così a lungo: secondo l’ultimo documento prodotto dalla Bain & Co (un gruppo di consulenze che si occupa del settore del lusso), la richiesta di diamanti aumenta del 6% l’anno, in particolare grazie all’allargarsi del mercato in Cina e in India. L’offerta, invece, aumenta solo del 2,6% annuo, e la prospettiva è dunque di un incremento prossimo dei prezzi, in particolare per le gemme più grosse. L’investimento in diamanti è più delicato che quello nell’oro o nell’argento (anche questi preziosi molto richiesti sia in Cina sia in India), dal momento che il mercato è meno trasparente e la valutazione delle pietre meno precisa che per i classici metalli-rifugio. Ma questo non scoraggia chi può permettersi di puntare grosso. Così, in India, ecco che Amitabh Chandel, stilista e discendente di una famiglia aristocratica, ha deciso di lanciare una nuova linea di camicie che hanno diamanti al posto dei bottoni e che sono cucite con discreti fili d’oro vero – «per l’uomo reale contemporaneo», dice Chandel, che trova che aggiungere diamanti all’abbigliamento maschile sia un modo per ricondurre lo stile degli indiani contemporanei a quello opulento dei rajah del passato. Per il rajah moderno, basteranno circa 80.000 euro per concedersi una camicia degna di questo nome. Per il momento almeno i cinesi non hanno ancora pensato a cucirsi addosso dei diamanti, ma la loro passione per i preziosi non è da meno. La più grande gioielleria del mondo si trova ad Hong Kong, si chiama Chow Tai Fook e sta per entrare in Borsa in quella che tutti gli osservatori prevedono sarà la più importante quotazione iniziale dell’anno: si ipotizza che ottenga più di 2 miliardi di euro, e il multimiliardario americano George Soros ha già reso noto che acquisterà azioni per circa 40 milioni di dollari Usa.
La Chow Tai Fook ha più di 1400 negozi in Cina, e progetta di aprirne molti di più nei prossimi anni per posizionarsi ancora meglio fra i consumatori di «lusso di massa»: la Cina, infatti, dovrebbe diventare il primo mercato per la gioielleria di qui al 2015, sorpassando gli Usa, anche per una tradizionale preferenza cinese per i beni di valore facilmente trasportabili, che è andata radicandosi in più di un secolo e mezzo di frequenti sconvolgimenti politici. Hong Kong, con i suoi innumerevoli banchi pegni dalle grandi insegne al neon pronti a servire i nuovi immigrati dal continente cinese, lo testimonia, tanto quanto il successo della Chow Tai Fook. Fondata nel 1929 a Canton, l’azienda è ora controllata da Cheng Yu-tung, tycoon dell’immobiliare, e da suo figlio Henry Cheng. Per i suoi diamanti, la Chow Tai Fook si serve direttamente dal distributore di De Beers, la Diamond Trading Co, e da Rio Tinto Plc, il colosso australiano delle miniere. Tanto entusiasmo per le gemme, però, non è senza problemi. Il gruppo Global Witness, la principale Ong di monitoraggio del modo in cui sono utilizzate le risorse naturali, ha appena abbandonato il Piano Kimberley creato dopo anni di pressioni per cercare di arginare il fenomeno dei «diamanti di sangue» – ovvero, proventi dalle miniere di diamanti, in particolare in Africa, utilizzati da regimi violenti e repressivi per finanziarieguerre e abusi, come venne divulgato dal popolare film «Blood Diamond» del 2006, con Leonardo DiCaprio. «I consumatori ancora non hanno modo di verificare da dove vengono i loro diamanti», ha dichiarato Charmian Gooch, uno dei fondatori di Global Witness, «né se servono a finanziare la violenza armata e i regimi repressivi».

Repubblica 9.12.11
Quel massone di Mosè
L´origine misteriosa dell´ebraismo
di Adriano Prosperi

Finalmente tradotto in Italia il fondamentale studio di Reinhold gesuita, poi protestante e "libero muratore"
Il relativismo che propone confronti e analizza le relazioni è il motore che fa avanzare la conoscenza
Il profeta è visto come un capo politico che ha fatto della sapienza egizia la religione del suo popolo

Il relativismo è la bestia nera di tutti i fondamentalismi religiosi. Chi propone una verità esclusiva non tollera che la sua merce sia messa sullo stesso banco delle altre, paragonata e soppesata e magari individuata come un prodotto storico, con tanto di data di nascita e rapporti di parentela con quelli della concorrenza. E tuttavia non c´è dubbio sul fatto che la cultura occidentale è impastata di relativismo: lo scopriamo ogni volta che ci confrontiamo con l´alterità culturale di paesi dove – è storia di questi giorni – i meccanismi elettorali democratici portano al potere partiti religiosi. Naturalmente, qui si impone una distinzione necessaria: c´è un relativismo banalizzante, quello che si esprime nella considerazione che non c´è niente di nuovo sotto il sole; e c´è un relativismo stimolante, quello che confronta, analizza e cerca di cogliere le relazioni. Quando Niccolò Machiavelli confrontò Mosé con Numa Pompilio e la religione antica di Roma con quella della Roma cattolica, fece il salto di qualità che distingue il relativismo banalizzante dal distacco intellettuale di chi si pone come osservatore al di fuori e davanti all´oggetto osservato. In termini di storia della cultura, la conquista del punto di vista dell´osservatore occupò la cultura europea su di un lungo arco di tempo, dal ´400 italiano fino all´Illuminismo, passando attraverso la scoperta dell´America e le tragedie delle guerre di religione e del colonialismo benedetto dai missionari cristiani.
Ma questo stesso percorso si propose e continua a riproporsi nella vita delle persone e può essere compiuto nello spazio di una vita individuale. Lo dimostra il caso di Carl Leonhard Reinhold, un autore importante nella cultura di lingua tedesca che solo oggi trova per la prima volta un editore italiano. Sulle sue qualità di scrittore basti dire che senza la sua opera la filosofia di Kant non avrebbe conquistato il mondo della scuola e dell´università nel secolo d´oro dell´idealismo filosofico. Ma la ragione che riporta tra noi questo scritto va cercata nella biografia intellettuale di uno dei più noti e letti studiosi del fenomeno religioso e della teologia politica. Senza questo scritto forse Jan Assmann non avrebbe avuto l´idea di fondo del suo Mosé l´egizio. Perché questo è precisamente il tema del piccolo libro di Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa, edito da Quodlibet (pagg. 258, 18 euro), a cura e con un saggio di Gianluca Paolucci e con una introduzione scritta appositamente da Jan Assmann. Davanti a un titolo che parla dell´ebraismo come la più antica massoneria forse qualche lettore si chiederà se non si tratta per caso dell´accusa di complotto giudaico-massonico scagliato contro i rivoluzionari francesi a fine ´700 dall´abate Barruel e diventato la fissazione dei gesuiti della Civiltà cattolica negli anni di quella feroce battaglia antigiudaica e antimassonica che li vide condividere l´antisemitismo del "socialismo degli imbecilli". Il fatto è che Reinhold fu gesuita e massone. Un fatto solo apparentemente singolare, che ci aiuta a capire come la storia cambi continuamente i colori delle cose e i significati delle parole. Nel suo tempo tra Compagnia di Gesù e Massoneria ci fu un´intensa simpatia; i gesuiti frequentavano le logge stimolati dall´idea che presiedeva all´origine del loro Ordine, quella della fiducia nel potenziale rivoluzionario dell´intelligenza come strumento d´azione di una piccola élite illuminata da Dio.
Carl Leonhard Reinhold (nato in Austria nel 1758, morto a Weimar nel 1823) cominciò la sua carriera come gesuita e lo rimase fino allo scioglimento della Compagnia, un evento traumatico per un Ordine religioso che si sentì mal protetto dal papato e che vide la dispersione degli ex membri. La storia dei gesuiti nell´impero asburgico e dei loro percorsi massonici, come ha mostrato un ottimo libro di Antonio Trampus, vide i membri del disciolto Ordine religioso confluire nelle logge massoniche per dividersi poi tra un versante illuministico aperto a idee rousseauiane e un versante reazionario di appoggio all´assolutismo. Reinhold non seguì né l´uno né l´altro filone: convertitosi al protestantesimo per l´influsso di Herder, trovò in Kant il maestro della sua vita, colui al quale dedicò la sua straordinaria capacità di divulgatore e di docente universitario nella fase matura della sua attività. Da questo rapido curriculum si può già intuire come i percorsi della sua vita lo avessero predisposto al relativismo e stimolato alla comparazione. La Compagnia di Gesù aveva portato un suo straordinario contributo in tal senso quando, sul fondamento di un impulso mistico all´azione salvifica, aveva innestato il suo metodo che fu detto dell´accomodamento: porsi dalla parte dell´altro, imparare la lingua di giapponesi, cinesi, indios d´America, abituarsi a vedere le cose coi loro occhi come mezzo per poter meglio conquistare neofiti al cristianesimo. Ma il mezzo era rischioso, come intuirono i rivali domenicani. Comportava da un lato l´abitudine a ricercare analogie e parentele, e dall´altro la semplificazione delle dottrine, col risultato di spogliare il cristianesimo della lussureggiante vegetazione di culture europee cresciuta sul suo tronco. Quanto al lavoro della comparazione, i punti obbligati di riferimento erano sempre quelli: la religione ebraica, madre che resisteva all´abbraccio e alle vessazioni dei figli cristiani; e la misteriosa religione egizia, con quelle piramidi e quei tipi umani così simili ai reperti archeologici delle culture dell´America centrale da suggerire l´ipotesi di una lontanissima migrazione di popoli mediterranei oltre Oceano.
L´idea di Reinhold fu semplicissima: mentre altri sviluppavano comparazioni superficiali cercando analogie formali fra miti pagani antichi e racconti biblici, egli propose l´idea di un nesso diretto, un anello storico di trasmissione tra i misteri egizi e la religione mosaica. L´anello sarebbe stato Mosé, una specie di massone ante litteram, un capo politico che avrebbe fatto della sapienza segreta degli egizi la religione del popolo ebraico. Era un passo ulteriore rispetto all´intuizione di Machiavelli. Si poteva così ritrovare il nucleo della religione di Mosé in quei misteri egizi così familiari ai frequentatori delle logge massoniche e prima che a loro all´erudizione curiosa e raffinata della cultura gesuitica del ´600. Dalla comparazione nasceva un´ipotesi di derivazione e di sviluppo. È su questa base che si doveva sviluppare ai nostri giorni la ricerca di Jan Assman. Ma anche, prima e più in generale, doveva partire da qui l´impulso a porre la comparazione come metodo al centro della moderna scienza storica delle religioni in un assetto statale del sapere.

Corriere della Sera 9.12.11
Quei ratti che sono altruisti e solidali
L'altruismo non è solo umano
La solidarietà fra i ratti ha fondamenti biologici molto simili ai nostri
di Massimo Piattelli Palmarini

L'altruismo non è una qualità soltanto umana. Secondo gli esperimenti condotti dal neurobiologo Jean Decety dell'Università di Chicago la solidarietà fra ratti esiste, ha fondamenti biologici molto simili ai nostri: i roditori sono capaci di empatia. La ricerca apre nuove prospettive sull'evoluzione e sul mondo animale.

T ra ricevere una tavoletta di cioccolata e liberare un compagno ingiustamente imprigionato, cosa sceglieremmo? Penso proprio che apriremmo quella cella. Molti di noi, potendo fare entrambe le cose, sceglierebbero di liberare il compagno e poi dividere con lui la cioccolata. Normalissimo. Era assai poco prevedibile, però, fino ad oggi, che anche un roditore, un ratto, posto di fronte a una simile scelta, preferisce liberare il suo compagno e rinunciare al saporito pasto, oppure condividerlo con lui.
Il neurobiologo Jean Decety, dell'Università di Chicago, pubblica oggi su «Science» questo risultato. Con i suoi collaboratori Inbal Ben-Ami Bartal e Peggy Mason, Decety ha messo ripetutamente in una curiosa nuova situazione due ratti che avevano a lungo condiviso la stessa gabbietta. La nuova situazione consiste nel porre uno dei due, ben visibilmente, intrappolato in uno stretto tubo trasparente. Il piccolo prigioniero mostra palesi segni di malessere, agitandosi nella sua prigione. L'altro, che è invece libero di circolare nella solita gabbia, osserva la situazione e presto impara che, toccando con il muso una porticina, può liberare il compagno. E lo fa. In una variante di questo esperimento, oltre al tubo di plexiglass con dentro lo sventurato altro ratto, c'è anche un simile tubo che contiene cioccolata. Il ratto fuori dal tubo è libero di mangiarsi tutta la cioccolata. Invece, in molti casi, prima libera l'altro ratto e poi divide la cioccolata con lui. Oppure prima mangia una parte della cioccolata, poi libera il compagno e gli lascia divorare il resto.
In sostanza, questi roditori mostrano che il piacere di liberare il compagno è pari a quello di mangiare la cioccolata (cibo ambitissimo anche dai roditori, superato solo dalla massima loro golosità per la polpa di avocado). Come questi autori ragionevolmente concludono, si verifica in tal modo che i roditori sono capaci di empatia e di altruismo. Provare empatia significa soffrire quando si osserva soffrire un altro e gioire quando si vede gioire un altro (ma la gioia sarebbe arduo mostrarla in un animale). Il mondo degli esseri umani è pieno di empatia e alcuni dati, ancora non solidissimi, avevano rivelato che l'empatia esiste anche nelle scimmie. La sua esistenza nei roditori, ora dimostrata, fa girare indietro il filmato dell'evoluzione di decine di milioni di anni. Le radici neurobiologiche e neurochimiche dei comportamenti sociali altruisti sono, quindi, non solo molto più antiche di quanto si sarebbe supposto, ma sono rimaste proprio le stesse, dai roditori a noi.
«L'empatia», mi dice Decety, «si basa su processi neuronali e ormonali coinvolti anche negli scambi affettivi e nel nostro profondo legame con i figli, specie quando sono piccolissimi. I circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l'amigdala, l'ipotalamo, l'insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell'attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l'ossitocina, la prolattina e la vasopressina». Mi spiega che questi esperimenti sono stati effettuati sia sulle femmine che sui maschi, con risultati identici. Ma si trattava di ratto femmina con ratto femmina o maschio con maschio. Come mai non avete provato anche con femmine che liberano un maschio o viceversa? «Abbiamo impiegato due anni a mettere a punto questi esperimenti e ad analizzare i dati, compresi i correlati neurobiologici e ormonali, che pubblicheremo tra breve. Osservare empatia e altruismo tra i due sessi aggiunge una complicazione. Lo faremo in futuro».
Negli esseri umani, empatia e altruismo variano tra un individuo e un altro. Anche nei ratti si hanno queste variazioni individuali? «Sì», risponde Decety, «alcuni ratti sono più lenti di altri nel liberare il compagno e alcuni, circa un 30 per cento, non lo liberano affatto. Questo potrebbe anche essere un problema cognitivo, per esempio alcuni animali potrebbero non capire bene la situazione o non accorgersi che esiste la possibilità di aprire la porticina».
Lo incalzo con una domanda inevitabile: al di fuori del mondo delle neuroscienze, cosa possono dire di interessante questi risultati al lettore non specialista?
«Innanzitutto, che il provare empatia per chi soffre e cercare intenzionalmente di venire in soccorso è qualcosa di radicato nell'evoluzione biologica da lungo tempo. Inoltre, nei roditori possiamo studiare il fenomeno alla base, osservando dei mutanti, modificando i centri cerebrali, somministrando o bloccando gli ormoni responsabili, variando la situazione sperimentale. Cose che, ovviamente, per ragioni etiche, sarebbe impossibile fare con gli esseri umani». Il che pone implicitamente un problema etico: è giusto far soffrire un animale che sente un po' come noi? Vien da rispondere con la scienza: è giusto, perché a noi sta più a cuore la nostra specie di quella dei ratti.
Decety ama molto il passaggio di un discorso di Barack Obama dell'agosto 2006, prima che diventasse presidente: «Si parla molto del deficit federale, ma dovremmo parlare di più del nostro deficit di empatia, dell'abilità di metterci nei panni altrui: il bimbo che ha fame, il metalmeccanico che è stato licenziato, la famiglia che ha perso la casa nell'uragano. Quando allarghiamo così l'orizzonte delle nostre preoccupazioni fino a includere degli estranei, diventa arduo non agire, non aiutare». Decety aggiunge che l'empatia non va confusa con il fenomeno più viscerale chiamato contagio emotivo: ridere quando gli altri ridono, essere tristi vedendo facce tristi intorno a noi. Questo processo istintivo, in genere, non produce alcuna azione. Invece l'empatia, quella vera, è un processo cognitivo più astratto, invita a fare qualcosa, a venire in soccorso. Ce lo insegnano Decety, Obama e, assai più umilmente, i roditori.


La Stampa 9.12.11
“Il mio Fidelio tra libertà e amore coniugale”
L’opera di Beethoven diretta da Noseda con la regia di Martone apre stasera la stagione del Regio di Torino
di Sandro Cappelletto

TORINO. Fidelio, o l’amore coniugale, l’opera di Beethoven che inaugura questa sera la nuova stagione del Teatro Regio, è un atto di fede, nella libertà di tutti e di ciascuno. Nella loro indissolubile relazione: posso essere libero e amare soltanto se sono cittadino di un mondo che pone questo valore come fondante la comunità degli uomini. C’è una «gioia senza nome» nel ritrovarsi di due sposi - ed è lei, con immenso coraggio, a liberare lui - alla fine di molte peripezie, c’è una felicità perfino indicibile nel sentire l’aria fresca che accarezza il volto dei prigionieri usciti dalla tenebre delle loro galere. Di questo soggetto illuminista e, ai tempi, rivoluzionario Beethoven si innamora, e con Fidelio compone l’unico suo titolo operistico.
Un soggetto eroico? «Da un lato il carcere, dall’altro l’aria, simbolo di libertà. In mezzo, uno spazio da scoprire. Sulla dialettica tra buio e luce verte la nostra messinscena», racconta Mario Martone. In Noi credevamo, il film dedicato al Risorgimento, il regista napoletano ha fatto emergere non l’entusiasmo, piuttosto le ambiguità del nostro cammino verso l’unità nazionale. Né con i Borboni, né con i Savoia, è sembrato dire, se gli umili rimangono comunque oppressi, schiacciati. Una visione che conferma anche in occasione di questa regia operistica: «Proprio guardando alle nostre tormentate vicende risorgimentali, si capisce quanto poco retta sia la linea che viene percorsa dalle lotte, individuali o collettive, per gli ideali di giustizia. Il viaggio è scandito da ambiguità e fallimenti non meno che da conquiste eroiche».
In un’opera che debutta a Vienna, occupata dalle truppe napoleoniche nel 1805 e che Beethoven, dopo l’iniziale insuccesso, rivede radicalmente fino alla versione definitiva del 1814 (scelta anche in questa occasione, e senza la celebre ouverture Leonore n. 3), Martone percepisce «intuizioni romantiche» e così spiega la scelta di un impianto scenico fisso: «La forza di Fidelio deriva dall’intreccio dei tanti caratteri che lo attraversano: c’è il lato comico e quello eroico, quello familiare e quello tragico. Il pubblico vedrà una serie di azioni sovrapporsi, simultaneamente».
Con Fidelio, Gianandrea Noseda prosegue un percorso beethoveniano che lo ha portato alla recente esecuzione integrale delle Nove Sinfonie: «Nelle sue partiture tutto è subordinato all’espressione, è questa la forza nuova che Beethoven imprime alla musica». Ma nell’opera, in particolare nelle scene iniziali, ambientate nel carcere dove è tenuto prigioniero Florestano, l’azione si sofferma anche su minuzie quotidiane, domestiche: «È proprio questa la caratteristica principale e Martone l’ha resa magistralmente. L’eroismo di Leonore, la moglie di Florestano che arriva in quel carcere vestita da uomo e facendosi chiamare Fidelio, nasce dal rapporto coniugale, ed è vivendo la normalità del quotidiano che si può arrivare a cambiare la storia». E così i sommersi potranno diventare i salvati. Inizio alle ore 20, collegamento in diretta di Rai-Radio Tre, repliche fino a domenica 18.