sabato 30 giugno 2018

Corriere 30.6.18
L’ex segretario pd
«Assegni per la villa da 1,3 milioni» Renzi sta cercando casa a Firenze
di Marco Gasperetti


FIRENZEMatteo Renzi ha trovato una nuova casa. È una villa da 1,3 milioni di euro nascosta in uno dei luoghi più lussuosi di Firenze, a sud di piazzale Michelangelo, il belvedere della città.
Secondo il quotidiano La Verità, Renzi avrebbe staccato quattro assegni da 100 mila euro ciascuno e firmato un preliminare di vendita. Il saldo, 900 mila euro, arriverà a breve. La villa si trova in via Tacca, ha 11 vani disposti su due livelli. E, come riportato nell’annuncio di vendita, ha una sala tripla, grande cucina abitabile, studio, tre camere e tre bagni, terrazza. Totale: 276 metri quadrati lordi e un giardino di 1.580 metri. In una nota l’ufficio stampa di Renzi precisa che al momento non è stato concluso né l’acquisto di un’abitazione a Firenze né la vendita dell’attuale abitazione di Pontassieve. «Quando il percorso sarà concluso tutte le informazioni saranno rese pubbliche, come peraltro prevede la normativa per la trasparenza dei parlamentari. — si legge nella nota — e resi pubblici anche i mutui, passati, presenti e futuri». Secondo La Verità, la villa, dopo un iter durato 31 anni, avrebbe beneficato di una sanatoria edilizia e di una sbarra di chiusura di un tratto di strada.
A gennaio Renzi aveva annunciato in un’intervista tv di avere nel conto corrente poco meno di 16 mila euro e di non essersi arricchito con la politica.
Repubblica 30.6.18
Chi ha visto questi Caravaggio?
di Francesca Cappelletti


Non c’è solo la “ Natività” rubata a Palermo nel 1969 su cui si è appena riaperta l’inchiesta. Tante sono le opere documentate del pittore scomparse nel nulla. A partire dalle tele di Berlino oggi note esclusivamente in fotografia
Per un Caravaggio rubato, come la Natività trafugata da San Lorenzo a Palermo nel 1969, su cui si è appena riaperta un’inchiesta, ce ne sono altri scomparsi nel nulla.
Dobbiamo essere molto grati a chi decise nel corso dell’Ottocento, al momento di distribuire dipinti seicenteschi italiani nella prima pinacoteca nazionale di Berlino, che l’Incredulità di San Tommaso di Caravaggio, uno dei quadri più significativi della pittura dal naturale, la grande rivoluzione dell’artista lombardo, non fosse all’altezza della situazione.
Proveniente dalla collezione romana del marchese Giustiniani, l’Incredulità venne avviata a una serie di peregrinazioni fra palazzi e castelli, rimanendo dal 1942 in quello di Rheinsberg, salvandosi quindi dai bombardamenti di Berlino. Oggi a Potsdam, nel castello di Sanssouci, si può ancora ammirare il gesto straordinario con cui Tommaso si avventura nella piaga del costato di Cristo e nelle difficoltà di comprendere la resurrezione. Solo alcuni dei quadri della collezione Giustiniani che Federico Guglielmo III di Prussia aveva comprato a Parigi nel 1815 finirono infatti nel museo di Berlino, quello di cui il re aveva sentito la mancanza probabilmente visitando le gallerie del Louvre.
Nell’Ottocento il gusto non era ancora incline a riconoscere nelle opere del Barocco la grande arte italiana e solo alcuni dipinti attribuiti a Caravaggio trovarono posto nelle gallerie ufficiali e anche questi con un intento più documentativo che a causa di un profondo apprezzamento estetico. Già intorno al 1940, dopo l’inizio del conflitto mondiale, insieme a molte altre opere d’arte, furono trasferiti in torri appositamente costruite e considerate un rifugio più sicuro.
Non doveva essere così. Poco dopo i bombardamenti e l’ingresso dell’esercito russo a Berlino nel 1945 una di queste, la Flakturm costruita nel quartiere di Friedrichshain, prese fuoco e, nel crollo dei depositi, scomparvero centinaia di quadri e sculture. Un primo elenco di queste opere fu pubblicato negli anni Cinquanta nel Burlington Magazine: vi figuravano i capolavori di Caravaggio già registrati nell’inventario del 1638 di Vincenzo Giustiniani, insieme ad altri quadri seicenteschi della raccolta, a numerose sculture e a dipinti italiani e fiamminghi di diversa provenienza. Nelle monografie che di lì a poco sarebbero state pubblicate sul pittore, Cristo con i discepoli nell’orto degli ulivi, il San Matteo con l’angelo e il Ritratto di Fillide Melandroni, tre dei capolavori a lui attribuiti dai documenti antichi, cominciarono a comparire con la didascalia che recitava solennemente, dopo il titolo, opera perduta. Qualche studioso, privando i lettori di qualsiasi speranza, scriveva, addirittura, opera distrutta. Più pietose e possibiliste, alcune delle diciture degli ultimi anni si limitano a indicarle già a Berlino, nel 1945. Si apre così un piccolo varco, per ora solo lessicale, al pensiero che in quelle giornate drammatiche dell’incendio qualche opera possa essere stata sottratta alle fiamme, trafugata invece che incenerita e che prima o poi la storia sia in grado di restituirla, forse ammaccata, forse solo in parte, quasi certamente proveniente da luoghi remoti. D’altronde proprio la bellissima e bistrattata Incredulità di San Tommaso
trascorse gli anni fra il 1945 e il 1958 nell’allora Unione Sovietica, prima di essere esposta al pubblico a Potsdam nel 1963.
Durante la preparazione della mostra milanese su Caravaggio del 1951 e per gli anni successivi gli studiosi non erano in grado di giudicarla se non attraverso foto in bianco e nero e, nell’assenza di documenti sulla storia della provenienza, rimanevano addirittura scettici sulla sua attribuzione. Ancora adesso soltanto attraverso una foto in bianco e nero conosciamo Cristo con i discepoli nell’orto degli ulivi,
la grande tela appesa all’inizio del Seicento a Roma, nelle stanze del fratello di Vincenzo, il cardinale Benedetto Giustiniani, figura che gli studi di Silvia Danesi Squarzina hanno consentito di recuperare in tutta la sua complessità. La foto consente comunque di leggervi la spericolata monumentalità delle opere di Caravaggio intorno all’impresa delle storie di San Matteo nella cappella Contarelli.
In primo piano la figura di Pietro ammantato, un vecchio maestoso probabilmente fatto adagiare dal pittore nella posa antica delle statue degli dei fluviali, mostra l’assimilazione peculiare della scultura romana che certamente proprio nelle raccolte dei suoi mecenati Caravaggio poté osservare. Se di un’opera di una bellezza equilibrata e matura come il Cristo nell’orto sentiamo certamente la mancanza, ancora più dolorosa, per alcuni versi, è
l’assenza del San Matteo con l’angelo, anche questo un quadro legato a Vincenzo Giustiniani, che secondo le fonti lo avrebbe ricomprato dopo il rifiuto da parte degli eredi Contarelli o del clero di San Luigi dei Francesi.
Probabilmente non andò così: ma certamente si tratta dello stesso soggetto che oggi vediamo sull’altare della cappella Contarelli nella chiesa dei Francesi, dove però un santo dalla potente eleganza di un filosofo antico è colto durante la scrittura del Vangelo, appena interrotto da un angelo fluttuante. Nella composizione che conosciamo dalla foto, l’angelo e il santo sono invece vicini, si sfiorano e si toccano, anzi l’angelo, con i piedi – almeno uno – ben saldo a terra, sembra guidare la mano di un Matteo dalle gambe accavallate e dall’espressione non troppo acuta, in una scena dalla tensione più domestica che divina.
Considerato al suo apparire a Roma un pittore capace di eseguire le “teste”, Caravaggio si dedicò anche al ritratto e un altro dei quadri oggi noti solo in fotografia ci dovrebbe raccontare il pittore a confronto con la sua modella Fillide Melandroni, celebre cortigiana romana.
Arrivata a Roma alla fine del Cinquecento poco più che ragazzina, con la madre e il fratello, Fillide era entrata nel poco rassicurante entourage di Ranuccio Tomassoni, l’avversario al gioco che Caravaggio doveva uccidere nella sfortunata serata del 1606. In una vita come quella di Fillide, piena di alti e bassi, gli alti coincisero con l’aver incontrato Giulio Strozzi, poeta dai nobili natali, che la famiglia cercò in ogni modo di allontanare da Roma e dalla bella modella.
Giulio aveva fatto però in tempo a commissionarne il ritratto.
Con un mazzetto di fiori in mano, di arancio o di mirto, con una pettinatura severa, anche Fillide ci guarda oggi solo dalla fotografia per fortuna fatta eseguire prima della guerra. Se Caravaggio eseguì almeno una ventina di ritratti, a prendere per buone tutte le testimonianze di fonti e inventari, davvero di questa attività ci è rimasto molto poco. Se del ritratto di Fillide si perdono le tracce a Berlino nel 1945, anche un altro dei più importanti ritratti attribuiti a Caravaggio, pubblicato da Roberto Longhi nel 1963, sembra al momento non più localizzabile. Si tratta del Maffeo Barberini, il cardinale poeta e futuro Urbano VIII. Ai tempi in cui conobbe Caravaggio e il suo amico pittore, mercante e sostenitore Prospero Orsi, Maffeo abitava nella “casa grande” ai Giubbonari.
Nel quadro il cardinale si volge all’improvviso, con un gesto ampio del braccio e uno scarto di tutta la figura: una sorta di ritratto in movimento, che si sottrae alla fissità e alla cura della somiglianza fisionomica richieste al genere.
Il “vero Maffeo” come lo chiamava Longhi nel titolo del suo articolo, è stato pubblicato più volte, come in collezione privata fiorentina.
Da qualche tempo però, nessuno sembra sapere più dove sia.
Insomma occhio a cantine, soffitte, caveaux, chiesette in campagna. Non si sa mai.
La Stampa 30.6.18
Il ritorno di Stirner, ribelle prima di Nietzsche


Può sembrare un paradosso che colui che ha esaltato l’Egoista, l’interesse personale senza limiti né leggi, abbia vissuto la sua vita come un miserabile. La nuova edizione del classico dell’anarchismo individualista, L’Unico e la sua proprietà, scritto da Max Stirner nel 1845, pubblicata da Bompiani con testo tedesco a fronte (ben tradotto da Sossio Giametta ma purtroppo minato da molti refusi), permette di ripercorrere la vicenda di un filosofo maledetto, fonte d’ispirazione per Black Bloc e insurrezionalisti di varia risma. 
Personaggio misterioso, di lui esiste solo un ritratto tratteggiato da Friedrich Engels dopo la sua morte. Lo raffigura come il tipico intellettuale con gli occhialini tondi e l’immancabile sigaretta da cui esce il fumo a forma di punto interrogativo. Ma Stirner non era un topo da biblioteca. Restio ad ogni regola e costrizione, dopo gli studi intraprende una breve carriera di insegnante in un istituto privato berlinese. La sua attività didattica si interrompe bruscamente dopo la pubblicazione de L’Unico che causa subito scandalo nei circoli intellettuali dell’epoca, egemonizzati dagli hegeliani di destra e di sinistra. E non deve stupire visto che il primo capitolo s’intitola, significativamente «Io ho fondato la mia causa sul nulla». In questa voluminosa disanima della società ottocentesca, non priva di sarcasmo, butta a mare Dio, Stato, società e financo l’umanità, considerata da lui una vuota chimera. 
Scrive: «Io, egoista, non ho a cuore il bene di questa ‘società umana’, non le sacrifico niente, me ne servo soltanto». Gli onesti e i moralisti gli fanno ribrezzo. Gli illuministi lo disgustano: «I nostri atei sono gente devota». La democrazia è un obbrobrio per l’egoista: «Che me ne importa a me di quello che vale per il popolo?». Dalle rovine del vecchio mondo borghese si erge «L’Unico», «la mia potenza», «Il godimento di me stesso», a fare da apripista al superuomo nietzchiano. 
Il libro viene considerato talmente radicale nelle sue tesi, così assurdo, che i rigidi censori prussiani non ritengono opportuno sequestralo. Ai dirigenti della sua scuola però non sfuggono le conseguenze dirompenti del suo discorso e viene licenziato in tronco. Ridotto all’indigenza, Stirner tenta di aprire una latteria, ma il negozio fallisce ancor prima di aprire. Inseguito dai debitori, costretto a vivere in una stamberga, finisce due volte in prigione per insolvenza. Negli ultimi anni sbarca il lunario come rappresentante di commercio. Muore a 50 anni per la puntura di un insetto. Questa la fine dell’Unico che rifiutò sempre di essere ingabbiato, addomesticato in schemi ideologici. È facile immaginarselo, questo filosofo solitario, che guarda con disprezzo i rivoluzionari che nei moti del ’48 pensano di poter migliorare la società, rendere il mondo migliore e più giusto.
Corriere 30.6.18
Filosofia.

Nato nel ’41, insegnò a Urbino
Addio a Losurdo Criticò Nietzsche giustificò Stalin
di Antonio Carioti


Non capita spesso che il «Financial Times» dedichi una recensione elogiativa a un autore italiano di tendenza comunista. Ed è piuttosto raro che la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» riconosca a un nostro connazionale il merito di aver fornito un’interpretazione valida e originale di un classico del pensiero tedesco. Ma al filosofo Domenico Losurdo (nella foto), scomparso all’età di 76 anni, erano accadute entrambe le cose. I suoi libri Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005) e Nietzsche, il ribelle aristocratico (Bollati Boringhieri, 2002) avevano suscitato interesse all’estero nonostante il loro orientamento ideologico, anzi forse proprio a causa del modo netto in cui prendevano posizione.
Nato a Sannicandro di Bari nell’ottobre 1941, Losurdo si era laureato all’Università di Urbino, dove poi aveva insegnato per quarant’anni, fino a diventarne professore emerito. Persona dal tratto cortese e gioviale, lavoratore infaticabile, aveva prodotto decine di libri, dedicandosi allo studio della grande filosofia tedesca, a partire da Immanuel Kant per arrivare a Martin Heidegger, ma anche alla battaglia delle idee su sponde comuniste.
Sul piano culturale Losurdo si dichiarava più hegeliano che marxista, ma soprattutto era convinto che non si potesse negare il carattere reazionario dell’opera di Nietzsche, tanto che su questo si era trovato a polemizzare aspramente con altri autorevoli studiosi di sinistra. In campo politico era un critico severo dell’Occidente, di cui biasimava soprattutto la vocazione imperiale, e vedeva nel liberalismo un’ideologia eurocentrica, alla quale riconosceva tuttavia la capacità di imparare dai propri avversari. E non esitava a difendere l’esperienza sovietica (anche se faticava un po’ a spiegarne il fallimento), con una coerenza ostinata che lo aveva portato persino a rivalutare, nel suo libro più discutibile uscito da Carocci nel 2008, la figura di Iosif Stalin.
Inoltre Losurdo guardava con simpatia alla Cina odierna, nonostante l’evidente reintroduzione del mercato capitalista effettuata dai governanti di Pechino: salutava l’ascesa del gigante asiatico come un utile contraltare al predominio degli Stati Uniti, che insieme a Israele erano il bersaglio favorito dei suoi pamphlet come Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007).
La Stampa 30.6.18
Addio a Domenico Losurdo l’ultimo dei baroni rossi
di Massimiliano Panarari


Non c’è (più) gusto a dirsi comunisti oggi in Italia, per parafrasare una nota massima. E, invece, di gusto ne trovava ancora molto Domenico Losurdo, che si è spento ieri. Uno studioso significativo nel panorama (desertificatosi) del pensiero marxista e neomarxista, il quale interveniva con costanza e spirito militante nella discussione pubblica, come pure in quella intra moenia al mondo politico che si richiamava al comunismo dove venne accusato da alcuni «ultra-ortodossi» di essere addirittura un «liberal-trotzkista». Per la verità, la cultura politica e filosofica del liberalismo ha rappresentato proprio il bersaglio principale e la bestia nera di molta della pubblicistica e della produzione editoriale di Losurdo, che si è appunto mantenuto fedele al marxismo-leninismo, con una spiccata simpatia per l’idea maoista della «pluralità della lotta di classe» (non soltanto quella del movimento operaio, ma anche quelle degli altri «soggetti subordinati», dalle donne alle popolazioni terzomondiali colonizzate).
Nato nel 1941, si era laureato con Pasquale Salvucci all’Università di Urbino, dove si svolse prevalentemente la sua carriera accademica di professore di Storia della filosofia e dove ha diretto l’Istituto di scienze filosofiche e pedagogiche. Il suo lavoro si è concentrato nei settori della storia delle idee e delle dottrine politiche, con una forte predilezione per una lettura politica del pensiero filosofico. Losurdo ha compiuto una rivalutazione dell’idealismo tedesco (Hegel e la libertà dei moderni, 1992). Si è dedicato al pensiero nietzscheano quale manifestazione intellettuale per antonomasia dell’aristocraticismo antidemocratico (Nietzsche. Il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, 2002), collocandolo sullo sfondo del suo contesto storico, quello di un Ottocento giudeofobo, imperialista e colonialista e ossessionato dall’eugenetica, ma non occultandone, al medesimo tempo – in quella che era la sua ambiguità costitutiva – la carica dissacratoria e demistificante. E ha studiato il suo erede Martin Heidegger (La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, 1991), riconducendolo al grumo dell’irrazionalismo tedesco primo-novecentesco dell’«ideologia della guerra», che lo porterà così naturalmente ad abbracciare il nazismo e a fare dell’antisemitismo uno dei nuclei duri e strutturali della sua filosofia.
Fiero avversario del postmoderno, ha soprattutto studiato il marxismo (da Lukacs a Gramsci), insistendo sulla distinzione tra uno «occidentale» e uno «orientale»; e ha difeso il materialismo storico, riproponendo nei suoi lavori la «metodologia» della dialettica e la lotta di classe (La lotta di classe, Laterza, 2013) come andamento e movimento hegeliano dello scontro tra il riconoscimento e il disprezzo dell’altro (al cui riguardo ha elaborato i concetti di «despecificazione politico-morale» e «naturalistica»). E ha effettuato una critica radicale, e totale, della cultura politica liberale (Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005), condotta su un piano di prassi ancor più che di teoria, ravvisandovi tutta una serie di «peccati originali» (dalla non opposizione di John Locke allo schiavismo nelle colonie al social-darwinismo) da cui, secondo Losurdo, scaturiva la matrice del male per eccellenza dei secoli XIX e XX, il colonialismo.
Da cui anche la critica della nozione di totalitarismo di Hannah Arendt considerata come troppo «generale», per arrivare sino a punte inusitate quali la riabilitazione dello stalinismo, nella cui condanna leggeva la creazione di una «leggenda nera» volta a screditare tutto il movimento comunista – una tesi che lo contrapponeva frontalmente al revisionismo storico liberale di François Furet, ma anche (e ancor più) a quello estremamente ambiguo – e che si occultava dietro il nazionalismo – di Ernst Nolte.
Il Fatto 30.6.18
Almirante & C. Le strade che indicano l’oblio
di Salvatore Settis


“I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno. Anche le idee più astratte e più speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose. Che dire allora dell’idea di Europa?”. Con queste parole si apre una pagina specialmente intensa del saggio Una certa idea di Europa di George Steiner (2004).
Steiner definisce la sua idea di Europa, per opposizione all’America, secondo cinque parametri, esposti con grande forza metaforica. Per citarne uno solo, l’Europa di Steiner è un luogo di memoria dominato dalla sovranità del ricordo. Perciò non ci sono né 5th Avenue come a New York né F Street come a Washington. Le nostre strade sono intitolate a personaggi storici, “prova di una fortissima volontà di ricordare”.
Non sono passati vent’anni, ed è già ora di chiederci se è ancora così. Se i nomi delle strade servono a ricordare, o non piuttosto a dimenticare. Che cosa, infatti, dovrebbe ricordarci l’iniziativa di intitolare a Giorgio Almirante una via di Roma? Non ripercorriamo, per carità di patria, la delibera del Consiglio comunale, la prima reazione del sindaco (“l’aula è sovrana”), seguita da un veloce dietrofront, le dichiarazioni del ministro dell’Interno “Ci sono via Marx, via Togliatti e via Stalingrado, non vedo quale sarebbe il problema – la storia non si processa ma si ricorda”. Chiediamoci: che cosa ricorderebbe una “via Almirante” agli smemorati consiglieri che dicono di averla votata perché non sapevano chi Almirante mai fosse? Per loro, i nomi delle strade servono per ricordare, o per legittimare l’oblio?
“Quale sarebbe il problema”? dice il baldanzoso ministro. Rispondiamo con le parole dello stesso Almirante, scelte fra tante, troppe, del tutto simili: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore. Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. La citazione (15.3.1942) è dalla famigerata rivista La difesa della razza, di cui Giorgio Almirante fu segretario di redazione. Dietro ogni sillaba ci sono famiglie distrutte, ebrei deportati, case e patrimoni saccheggiati, vecchi e bambini in carri bestiame, camere a gas, delitti infami. In nome della “purezza” del “sangue italiano”. Se Salvini “non vede il problema”, sarà perché gli consta che Almirante si è pentito della sua complicità con gli assassini? Da parte di un Ministro dell’Interno, sarebbe il minimo.
Steiner non poteva immaginare nulla di questo, scrivendo la pagina da cui siamo partiti. Ma non poteva trovare metafora più adatta dei parafulmini che “devono essere saldamente infissi nel terreno”. Oggi più che mai abbiamo bisogno di parafulmini, perché oggi più di ieri si addensano sulle nostre teste nubi nerissime, e i fulmini del razzismo tornano a imperversare. Forse ci sono già addosso, e non ce ne siamo accorti abbastanza. I fulmini, dico, non del passato che abbiamo ereditato dal fascismo, ma del futuro che ci minaccia. “Il gioco dei meticci e degli ebrei” era il bersaglio della Difesa della razza, e delle leggi razziali di cui ricorre quest’anno l’80° anniversario. La purezza della “razza italiana”, “della carne e dei muscoli” secondo Almirante, doveva essere l’ideale supremo. Ma se c’è un vanto che gli italiani dovrebbero rivendicare, è di essere meticci quanto nessun altro. Greci, romani, etruschi, italici, fenici, ebrei nell’antichità. Longobardi, arabi, catalani, francesi, slavi, albanesi nel medioevo. Turchi, spagnoli, austriaci, tedeschi, e altri ancora da allora in poi. È da questo straordinario, intrecciatissimo meticciato che nasce la civiltà italiana come la conosciamo. Per non dire di un altro e sempre vivo meticciato, il continuo innesto di migranti italiani in tutta Europa e in ogni altro continente. Perciò la lotta contro il “meticcio” è un progetto funesto e suicida.
Secondo la propaganda di cui Almirante fu paladino, gli ebrei vorrebbero astutamente “dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali”. A parole forsennate come queste, il MEIS (Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah) aperto da pochi mesi a Ferrara offre una risposta forte e pacata. La mostra di prefigurazione con cui ha aperto (catalogo Electa) ha un titolo eloquente: Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni. Per ricordare agli italiani (anche a quelli che delle leggi razziali non sanno nulla) che una comunità ebraica esiste sul suolo italiano da oltre duemila anni. E ricordarlo con la piana efficacia degli oggetti d’uso comune, dei poveri resti di esseri umani come noi. Oggetti, nomi di umili donne e uomini che percorsero le strade della Roma imperiale, e i cui discendenti abitano fino a oggi la stessa città. Poche volte, come al MEIS, l’archeologia ha saputo dimostrare la silenziosa potenza di quella che potremmo chiamare la memoria delle cose.
Memoria e oblio sono, entrambi, attori centrali del grande dramma della storia. Sta a noi scegliere. Sta a noi sapere, o ignorare, che la cultura e le tradizioni ebraiche sono una componente essenziale della storia nazionale italiana, e non una volgare furbizia di infiltrati. Che l’Italia, anzi, ha una responsabilità speciale nel coltivare la memoria della storia ebraica: perché da Roma partirono, con Tito e con Adriano, eserciti che distrussero Gerusalemme e il Tempio (nulla lo ricorda con tanta arte e tanta violenza come l’arco di Tito). Nell’Europa multiculturale che si va formando (e che nessun respingimento potrà fermare), inveire contro i meticci o celebrare chi lo ha fatto 80 anni fa è prova di dannosa cecità. Lo è anche quando venga cinicamente sbandierata per i micro-calcoli di una politica da quattro soldi, pronta a tutto pur di raccattare voti, alleanze, consensi effimeri.
La Stampa TuttoLibri 30.6.18
“Artisti, tornate a pensare in grande al Mondo serve un nuovo Rinascimento” Dall’amore per la letteratura alle ideologie moderne, gli scritti del premio Nobel sul potere della bellezza “Le mode, i soldi e il politicamente corretto sono trappole: per creare davvero bisogna essere in fuga”
di Leonardo Martinelli


Gao Xingjian è nato in Cina nel 1940; vive a Parigi dal 1988, con cittadinanza francese. Nel 2000 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Artista poliedrico, è scrittore, pittore,
drammaturgo e critico letterario, oltre che traduttore e regista teatrale e cinematografico. Tra i
suoi libri editi in Italia, ricordiamo «Una canna da pesca per mio nonno», «Per un’altra estetica», «La montagna dell’anima», «Il libro di un uomo solo» (tutti editi da Rizzoli), «Teatro» (Ets) e «Letteratura e ideologia» (con Claudio Magris, Bompiani).

Gira e rigira fra le mani l’edizione italiana di Per un nuovo Rinascimento. Gao Xingjian, nel suo appartamento a Parigi, osserva il libro, pubblicato dalla Nave di Teseo, con un bel sorriso: «Sono così contento di lanciare un appello così in quella che fu la patria del Rinascimento». Minuto e gentile, l’immagine del saggio cinese, Gao Xingjian ha 78 anni. Romanziere (vinse nel 2000 il Nobel per la letteratura, allora una plateale sorpresa), ma anche drammaturgo (le ultime pièce le ha scritte direttamente in francese: vive a Parigi in esilio dal 1988), regista cinematografico, pittore. E saggista, come con il nuovo testo, dove invita gli artisti a lasciarsi dietro il dogma della modernità, l’assillo delle proprie identità e le ideologie politiche di ogni sorta, per abbandonarsi a un nuovo Rinascimento in nome della bellezza. Il libro è una raccolta di discorsi e di «lectio magistralis» che Gao Xingjian ha tenuto nei posti più lontani, in tutto il mondo, anche in Italia. Ammette di averli scritti originariamente in cinese, lingua materna e del suo pensiero, per indagare il rapporto della letteratura con la libertà, l’ideologia, l’identità. «Liberiamoci dal banale utilitarismo – scrive -, non pensiamo all’arte e alla letteratura come a un’arma, né come a uno strumento o una merce».
Ma quando arriverà questo nuovo Rinascimento?
«Può nascere anche nell’immediato. Basta ritornare a creare arte senza alcun interesse: né politico, né economico. L’artista deve esprimersi liberamente».
Pensava al Rinascimento italiano, scrivendo i testi dei discorsi e delle lezioni, che compongono il suo nuovo saggio?
«Certo. Solo così si capisce come dall’arte contemporanea ormai la bellezza sia bandita. Prevalgono le mode o il design. Non una bellezza pura, è sparita la sensazione del bello. Non ci sono vere circostanze esistenziali e umane, i sentimenti e la loro complessità o l’angoscia. Ma solo piccole idee, rappresentate da una moda o dal design. È molto triste».
Per lei politica e propaganda sono le peggiori nemiche dell’arte. Eppure a lungo la letteratura doveva essere impegnata o non era…
«Significa imporre il principio del politicamente corretto all’arte. Ogni partito e ogni periodo storico hanno il loro. L’arte diventa propaganda e perde la sua profondità, il giudizio estetico, la conoscenza dell’umanità».
In quel modo, però, si dava vita a delle utopie, che erano pure rassicuranti, non trova?
«L’utopia comunista è la più importante del ventesimo secolo. Cos’ha portato? La dittatura totale. E dal marxismo non ne siamo ancora usciti, neppure dal nazionalismo o dal liberalismo. Sono contro gli -ismi. Con un -ismo si crea un sistema di pensiero: tutto è spiegato da un apparato prestabilito e predefinito. Ma la realtà è più complessa».
E dire che lei, autore cinese fuggito dalla Cina comunista, sarebbe stato un «letterato impegnato» ideale. Non ne ha mai avuta la tentazione?
«Rapidamente ci sono molti scrittori in esilio che diventano “dissidenti”. E fanno un’altra politica, opposta a quella da cui sono fuggiti, ma che rientra ancora una volta nel politicamente corretto. Io rifiutai subito quell’approccio».
In «Per un nuovo Rinascimento» invita a superare la logica della dialettica hegeliana. Perché?
«Altrimenti si resta bloccati in una dualità, che impoverisce, dove ci sono il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. Nero e bianco, rivoluzionario e reazionario. Hegel ha segnato il pensiero contemporaneo, tanto più che Marx l’ha assunto come base della sua filosofia, nella “negazione della negazione”. Si motiva la società con la rivoluzione, che fa tabula rasa di tutto quello che è venuto prima. Ma è una visione troppo riduttiva».
Nel suo testo scrive anche del vantaggio di essere uno scrittore in fuga…
«Serve a salvarsi, in tutti i sensi, non solo fisico. L’identità non è l’origine di un individuo ma solo una nozione ideologica e politica, imposta. Si può essere francesi, italiani o cinesi, ma nel profondo si è prima di tutto uomini. Non è l’identità che conta. È la tua vita ad avere un’importanza capitale. Penso a Dante. Anche lui fu un esule».
Conosce la Divina Commedia?
«Iniziai a leggerla in Cina, a 18 anni, all’università, nella traduzione in cinese. Da anni la tengo accanto al letto e la rileggo di continuo. È lì assieme ad altri testi, come la Bibbia o Shakespeare».
Nell’edizione italiana di «Per un nuovo Rinascimento» sono inseriti alcuni dei suoi quadri: anche nella pittura cerca di superare gli schemi dominanti?
«Quando mi chiedono se sono figurativo o astratto, rispondo che me ne frego di queste distinzioni. Tra i due esiste un vasto campo da esplorare. Mi piace evocare sogni con immagini sfocate e oniriche. Cerco di trovare un’espressione del subconscio».
Lei dipinge con l’inchiostro di china. Lo mai fatto con i colori?
«Sì, ma smisi dopo un viaggio in Italia. Fu uno dei primi che potei fare all’estero, dopo la morte di Mao, con un gruppo di artisti cinesi. Andai ad ammirare tutti i capolavori dell’arte italiana. Capii che con le mie pitture all’olio e figurative non sarei andato da nessuna parte. Cambiai genere».
Durante la rivoluzione culturale finì in rieducazione per cinque anni nella campagna. Riusciva a dipingere? O a scrivere?
«Solo scrivere, nascondendomi. Ne venne fuori un lungo romanzo proprio sulla rivoluzione culturale. Poi mi richiamarono a Pechino. E io andai nella piazza Tienanmen, in occasione delle proteste contro la politica di Mao, nel 1976, pochi mesi prima che morisse. Scattai delle foto. Dopo, rientrando a casa, mi resi conto che mi seguivano. Ebbi paura e bruciai quel manoscritto, che tenevo gelosamente con me. Ci misi una settimana. Lo facevo di notte, foglio per foglio, per non generare troppo fumo. Perché i vicini non capissero».
Piangeva mentre bruciava la sua opera?
«No, avevo troppa paura, non c’era il tempo di piangere».
Lei non è più ritornato in Cina: ha nostalgia?
«A me andò via subito, all’inizio dell’esilio. Ho sofferto troppo, per me la Cina è solo un incubo. E lì ancora oggi le mie opere e il mio nome sono censurati. Poi, il mondo è immenso e la mia vita è qui a Parigi. Ho troppe cose da fare: non ho il tempo neanche di avere nostalgia».
il manifesto 30.6.18
Interno familiare con gioco al massacro
Al cinema. «Il sacrificio del cervo sacro» di Yorgos Lanthimos, con Colin Farrell e Nicole Kidman, la tragedia greca e il lato oscuro della borghesia
di Cristina Piccino


Arriva dopo un anno dalla presentazione al Festival di Cannes, dove era in concorso (premiato per la migliore sceneggiatura), il film di Yorgos Lanthimos Il sacrificio del cervo sacro in cui il regista greco ritrova Colin Farrell, già protagonista della distopia di Lobster, qui con Nicole Kidman e un gruppo di giovani interpreti tra cui l’inquietante Barry Keoghan. In inglese, come già Lobster, Il sacrifiicio del cervo sacro tra le suggestioni disseminate in un racconto di vendetta filiale esibisce un legame con la tragedia greca, e soprattutto afferma un«cinema della crudeltà» che Lanthimos persegue nelle proprie scelte formali film dopo film.
Cosa significa? Sostanzialmente nella sua interpretazione rivendicare come impronta autoriale una «metafora» che sfigura i personaggi e costruisce un sistema chiuso, che si compiace fino alla nausea del proprio guardarsi filmare, e che in questo film tocca l’apice di un vuoto fine a sé stesso.
È come se le invenzioni del suo esordio-rivelazione, l’ormai lontano Kinetta (2005) abbiano trovato compimento in universi cinematografici concentrazionari, teatrini senza coraggio.
Nel «sacrificio» – un titolo che dice già il film – troviamo una coppia glamour di medici (Farrell e Kidman) con due figli «bellissimi», lui chirurgo che non sbaglia mai – la colpa è sempre dell’anestesista se qualcuno muore sotto i ferri – lei oculista, la prole talentuosa, musica, canto, bei voti a scuola. Ma in questo interno borghese asettico come le sale operatorie irrompe all’improvviso un adolescente in cerca di vendetta: Martin (Keoghan),corpo estraneo sin dall’aspetto fisico così poco accordato all’armonia della famiglia. Il chirurgo ha sbagliato e gli ha ammazzato il padre, lui lancia una terribile maledizione sulla famiglia condannata a morire finché il chirurgo non uccida lui stesso un familiare per essere pari.
Gli equilibri saltano, la famiglia (comunità) si sgretola, ciascuno in cerca della sua salvezza, del «cervo sacro» da sacrificare per sopravvivere, blandendo il carnefice e il suo strumento, il Padre, nelle cui mani tutto torna…Nel gioco al massacro, privo di sfumature, dal mito si arriva allo scoperchiamento degli ipocriti patti di convivenza che fondano una qualsiasi famiglia molto perbene.
Niente di nuovo, e non basta a compensare la mancanza di invenzione -registica, narrativa – il ghigno di crudeltà mal digerita. Le geometrie di Lanthimos sono pompose, le sue traiettorie banali, la «provocazione» appiattita dal bisogno di soddisfare soltanto le proprie aspirazioni. Troppo poco seriamente crudeli, purtroppo.
Corriere 30.6.18
Intervista al Nobel Carlo Rubbia
«Ero bravissimo nelle materie umanistiche Sono necessarie»
di Giovanni Caprara


«Scienza e cultura umanistica sono due cose diverse ma sono entrambe indispensabili. La cultura è unica e necessaria per crescere bene». Parola del Nobel Carlo Rubbia.
Perché, allora, si tende a distinguere?
«Da noi, a parte i giganti del passato, la scienza è giovane e si può dire iniziata con Enrico Fermi negli anni Venti-Trenta del secolo scorso. Prima di lui c’è un lungo vuoto tanto che per trovare un grande bisogna risalire all’Ottocento, ad Alessandro Volta. Quindi talvolta si tende a far prevalere l’importanza della cultura umanistica che ha radici più diffuse».
Ma lei, a scuola, preferiva la scienza o la letteratura?
«Per me la scienza è sempre stata una passione, sin da piccolo. Però ero bravissimo anche nelle materie letterarie. In molti mi dicevano che dovevo fare l’avvocato. Anche oggi la letteratura è complementare, anzi un elemento essenziale, non possiamo farne a meno. Sappiamo quanto la cultura umanistica italiana sia ricca e di grande aiuto nella scuola».
La cultura scientifica, comunque, è sottovalutata?
«Direi che da noi ha bisogno di crescere. Nonostante il fatto che i ricercatori italiani siano grandemente riconosciuti e apprezzati per i loro meriti nei più grandi laboratori del mondo. Siamo testimoni dei risultati che sanno raggiungere. È tuttavia determinante sostenere gli scienziati italiani ma anche stranieri che operano nei nostri centri».
Perché un giovane dovrebbe preferire la scienza? Magari per sognare il Nobel?
«Il Nobel è un riconoscimento ma non può essere un obiettivo per dedicarsi alla ricerca. Il motivo deve essere l’attrazione a fare qualcosa di nuovo. C’è ancora tanto da scoprire. La cultura scientifica offre grandi opportunità per sviluppare una mentalità adeguata al nostro mondo e capire la realtà in cui viviamo. Ma è altrettanto vero che la cultura umanistica ci apre le porte preziose della conoscenza e dell’evoluzione dell’intelletto».
La scelta può essere difficile, senza una passione travolgente...
«Ognuno deve scegliere la strada che ritiene più adeguata ai propri interessi, alle personali sensibilità culturali. Chi entra nel mondo della scienza ha la facoltà di esplorare cose nuove e immergersi in una dimensione globale. I ricercatori collaborano ormai su una scala mondiale, sia che lavorino in un laboratorio europeo, americano oppure cinese. La scienza, oggi più che mai, è davvero universale sotto ogni aspetto».
Nessuna contrapposizione, dunque, tra scienza e cultura umanistica anche nella formazione dei nostri giovani?
«Sono due aspetti dello spirito umano. In entrambi i casi è necessario incoraggiare i giovani a pensare in maniera originale. Nello stesso tempo, il Paese deve garantire i mezzi adeguati allo sviluppo della cultura in tutti i campi, sia scientifico che umanistico».
Corriere 30.6.18
Luciano Canfora, filologo classico e storico
«Steccati caduti ormai da secoli Il Liceo Classico non forma di più»
intervista di Alessio Ribaudo


«Umanesimo e scienza sono connessi in modo strettissimo. Non esiste più da secoli uno steccato fra la cultura umanistica e quella scientifica» dice Luciano Canfora, filologo classico e storico.
Per lei quando sono stati abbattuti gli steccati fra cultura umanistica e scientifica?
«Almeno dall’Ottocento quando tutto è cambiato grazie, per esempio, alla diffusione de l’Encyclopédie o all’Illuminismo».
Tornando a oggi, perché si continua a distinguere i due saperi?
«La distinzione è inesistente. Mi spiego: se parliamo di economia, è da classificare come umanistica o scientifica? Chi può sostenere una risposta in un senso o nell’altro? Nessuno, perché l’economia è allo stesso tempo scientifica e umanistica. In generale, è inesistente a tutti i livelli: da quello della vita concreta a quello della formazione scolastica».
Per alcuni in Italia ci sono troppi studenti che scelgono gli studi classici rispetto ai tecnici.
«Se si documentassero bene arriverebbero a conclusioni opposte. Ora siamo nel cuore degli esami di Maturità. Chi sostiene quella Classica è una parte piccolissima del “parco” degli studenti. Questo dato vanifica la teoria iniziale».
Per altri avere una formazione scientifica offre più sbocchi...
«Chi pensa che gli studi umanistici portino solo a scrivere poesie e racconti è fuori strada. I programmi di insegnamento aprono al sapere scientifico universitario. Galileo per esempio era uno scienziato o un letterato? Mi sembra un discorso da treno».
Cosa auspicherebbe per la nostra scuola?
«Una disciplina portante dei Licei è la storia del pensiero filosofico e scientifico. Auspico che venga insegnata in tutti gli altri ordini di scuole. In Cina, uno scrittore riporta che un imperatore, ai tempi di Alessandro Magno, fece distruggere tutti i libri di storia lasciando solo quelli di agricoltura perché pensava che i volumi di storia fossero pericolosi: portavano i lettori a criticare il governo vigente. Non sappiamo se è accaduto davvero, ma un cittadino senza formazione storica è debole. Le dittature esaltano il culto della tecnica e una lettura acritica della storia. Decurtare la formazione scolastica e post scolastica dal versante storico-filosofico significa creare cittadini indifesi e pronti a diventare sudditi».
In ateneo ha mai notato differenze di formazione o di approccio allo studio, a seconda della scuola di provenienza?
«I ragazzi sono molto diversi uno dall’altro ma non per la scuola di provenienza. Rifiuto le generalizzazioni e non penso che il Classico per forza formi meglio di altre scuole».
Cosa dovrebbe leggere oggi uno studente?
«La prefazione al De Rerum Natura di Lucrezio che Hermann Diels ha chiesto al suo collega Albert Einstein e ha pubblicato in Germania. Tratta del rapporto fra l’atomismo antico e le ricerche moderne sull’atomo».
Repubblica 30.5.18
Il dibattito sulla legittima difesa
Una pistola e una lezione
Il numero di suicidi e omicidi aumenta in modo proporzionale alla diffusione delle armi
di Michela Marzano


Per andare oltre il burrone che pensiamo di avere davanti, basta un attimo. E in quell’attimo non avere accesso a un’arma può fare la differenza » . Luca Di Bartolomei, figlio del calciatore suicida nel 1994, ha commentato così sui social i dati del Censis — secondo cui quattro italiani su dieci sarebbero favorevoli all’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma di fuoco — facendo circolare la fotografia della Smith&Wesson 38 con cui si era ucciso Agostino, nonostante questa pistola, il padre, se la fosse procurata «per la sicurezza della famiglia».
La replica di Matteo Salvini, che considera la modifica della legge sulla legittima difesa una priorità del Governo, non ha tardato ad arrivare: «Se una persona decide di suicidarsi e non ha una pistola si butta dal quinto piano», ha dichiarato ieri mattina il Ministro a Circo Massimo su Radio Capital, aggiungendo ironicamente: «Non possiamo chiudere tutti i balconi d’Italia». Matteo Salvini ha così mostrato di provare molta poca empatia non solo nei confronti del dramma vissuto da Luca Di Bartolomei quando era ancora un bambino, ma anche verso quelle molteplici tragedie che, forse, si potrebbero evitare se in casa non girassero armi da fuoco. Sono d’altronde numerosi gli studi e le ricerche che, dati alla mano, spiegano che il numero di suicidi e omicidi aumenta in maniera proporzionale alla diffusione di armi. « La sicurezza fai da te non risponde alle paure profonde degli italiani e porterà solo più spargimento di sangue » , ha risposto lo stesso Di Bartolomei al ministro. «Qui il tema non è il suicidio di un uomo, ma la falsa sicurezza che una maggiore diffusione di armi da fuoco porterebbe». Ma come si fa a essere sensibili a questo tipo di argomenti quando persino la disperazione umana viene dileggiata?
Nell’esistenza, ci sono drammi che non si possono evitare. Ci sono persone che si suicidano pur senza essere in possesso di un’arma. Ce ne sono molte che vengono uccise da chi un’arma se la procura in modo illegale. Ma ci sono anche tante stragi che forse si sarebbero potute evitare. Sono passati poco più cinque anni dal massacro della Sandy Hook Elementary School e da allora, negli Usa, ci sono state più di 1.500 sparatorie di massa; per non parlare poi dei suicidi il cui numero è nettamente maggiore negli Stati in cui è più facile ottenere un’arma. Ignorare questi dati, o far finta di non conoscerli, rispondendo con leggerezza — ma anche con una certa dose di disprezzo — a chi ha vissuto sulla propria pelle il dramma del suicidio del padre, significa ignorare tutto di quel “ burrone” di cui parla Luca e di fronte al quale può capitare a chiunque di trovarsi nella vita — un burrone fatto di sconforto e buio, perché si immagina che non possa mai cambiare nulla e che quel dolore che si prova è senza fine, ma che talvolta può anche essere attraversato.
Suicidarsi non è quasi mai il frutto di una valutazione fredda e razionale. Certe volte basta un secondo, come scrive il figlio del calciatore, per rimettere in discussione la decisione; basta un contrattempo, una mano tesa, una parola; basta non avere subito a disposizione un’arma. Certo, se si vuole veramente morire prima o poi il modo lo si trova. Ma ha mai pensato Salvini al fatto che talvolta si può essere attraversati da un raptus — accade tante volte, chi conosce dall’interno il dramma dei suicidi lo sa bene — e che avere un’arma evita anche la difficoltà di dover cercare il modo per farla finita? Ha mai anche solo una volta immaginato cosa si può provare quando ci si arrampica su un balcone per buttarsi giù? Si è mai chiesto cosa significa andare alla ricerca di farmaci, procurarseli a fatica, metterli pian piano da parte con un susseguirsi di incertezze e di cambiamenti che possono salvare la vita? Avere un’arma carica a disposizione è pericoloso per chiunque: basta un raptus, e non c’è più nulla da fare. Si apre un cassetto, si prende la pistola, si spara. E senza avere quell’attimo talvolta necessario per fermarsi, si scivola per sempre nel burrone.
il manifesto 30.6.18
La marcia delle donne: tra le 600 fermate c’è anche Susan Sarandon
Protesta contro le politiche sull'immigrazione di Donald Trump. Lo slogan scandito più volte è stato «I care», «Mi importa», un attacco polemico rivolto a Melania Trump che la settimana scorsa era andata a visitare uno dei centri dove sono detenuti i bambini, indossando una giacca dove sulla schiena campeggiava la scritta «A me davvero non importa, e a te?»
di Marina Catucci


NEW YORK  Centinaia di persone, per lo più donne, sono state fermate e fermate – eppure per un breve tempo – a Washington, durante una manifestazione organizzata dalla Women’s March, presso la sede del Senato. Il motivo della protesta è la linea della politica di Trump sull’immigrazione, che fino a ora ha creato un enorme problema di controversie legali e la separazione al confine con il Messico, di oltre 2mila bambini, figli di immigrati illegali, dai propri genitori.
GLI ARRESTI sono avvenuti a Capitol Hill, sede del Congresso, dove l’atrio del senato è stato invaso da centinaia di manifestanti che si sono seduti per terra alzando il pugno chiuso.
Molte donne avevano portato i fogli di alluminio che vengono dati agli immigrati, sia bambini sia adulti, quando vengono portati nelle strutture di detenzione alla frontiera degli Usa. Lo slogan scandito più volte è stato «I care», «Mi importa», un attacco polemico rivolto a Melania Trump che la settimana scorsa era andata a visitare uno dei centri dove sono detenuti i bambini, indossando una giacca dove sulla schiena campeggiava la scritta «A me davvero non importa, e a te?».
LA MANIFESTAZIONE è partita vicino al dipartimento di giustizia, con un breve comizio, durante il quale gli oratori hanno condiviso con i sostenitori le esperienze avute al confine con gli immigrati arrestati. Prima della marcia, i manifestanti si sono divisi in quattro gruppi per rivedere le procedure da mettere in pratica in caso di arresto. In molti erano scesi in piazza proprio con lo scopo di farsi arrestare per manifestazione non autorizzata, tattica di protesta non violenta, questa, comune negli Stati uniti, utilizzata per far clamore ed entrare nei notiziari tramite la disobbedienza civile e dare visibilità ai contenuti della protesta. A dare solidarietà e partecipare alla manifestazione sono arrivati anche senatori democratici, come Ed Markey del Massachusetts, Mazie Hirono delle Hawaii, Kirsten Gillibrand di New York e Richard Blumenthal del Connecticut; Tammy Duckworth, senatrice dell’Illinois, ha partecipato alla protesta sulla sua sedia a rotelle con la figlia sulle ginocchia. Tra gli arrestati è finita anche la rappresentante alla camera per lo Stato di Washington, Pramila Jayapal.
IL NOME che ha fatto più clamore è stato quello dell’attrice 71enne Susan Sarandon, anche lei tra le quasi 600 persone arrestate. Sarandon è un’attivista che non è nuova alle manifestazioni e agli arresti, non è la prima volta che si esprime contro Trump, l’aveva fatto anche subito dopo la sua elezione; a quel tempo, però, aveva ricevuto molte critiche, perché accusata di far parte di quella frangia di liberal inflessibili che per alcuni hanno contribuito a disperdere i voti. L’attrice, infatti, sostenitrice del socialista Bernie Sanders, non aveva gradito la candidatura di Hillary Clinton voluta dal partito, e aveva appoggiato la candidatura di Jill Stein, leader del Partito dei Verdi.
ORA CON L’HASHTAG #WomenDisobey si stanno organizzando altre manifestazioni di resistenza alle politiche di Trump che. Le donne e chi aderirà alle loro protestenon si limiteranno a sfilare nei cortei, ma verranno organizzati più eventi destabilizzanti di disobbedienza civile. Mari Cordes, candidata alla Camera del Vermont, anche lei tra le arrestate, dopo il rilascio ha dichiarato «Il nostro è stato un arresto da privilegiati. Non protestare da parte nostra, sarebbe colpevole».
Repubblica 30.6.18
La crisi dei democratici
Da dove il pd può ripartire
di Piero Ignazi


Come aveva allegramente dichiarato all’indomani delle elezioni del 4 marzo ora il Pd si trova all’opposizione. Un ruolo che ha già ricoperto nei primi anni della sua esistenza, fino alla fine del 2011. Con una grande differenza, però, visto che allora aveva di fronte l’avversario storico della “ Seconda Repubblica”, un Silvio Berlusconi trionfante. Ora il contesto è del tutto diverso: Berlusconi è ridotto in un angolo e irrilevante, mentre chi comanda il gioco sono due forze nuove un tempo minori della politica italiana. Quindi il Partito democratico si trova di fronte a una nuova, inedita, alleanza di governo dalla quale deve prendere le misure. Ma prima di questo è necessario capire cosa vuole rappresentare, a chi rivolgersi e cosa proporre.
Senza un consenso di massima su queste questioni forse nemmeno il Padreterno potrebbe salvarlo, come ha detto Romani Prodi. Le interpretazioni e le soluzioni invece vanno in molte direzioni diverse. Da un lato Renzi e i suoi pasdaran, semplicemente, non capiscono cosa sia successo. I celebrati mille giorni del governo Renzi — il governo Gentiloni non è nemmeno preso in considerazione ed e già molto che non venga considerato un usurpatore — sono stati così splendenti che è incomprensibile non siano stati premiati dall’elettorato. La caduta di Torino, Roma e della Liguria ancora prima della sconfitta nel referendum istituzionale del dicembre 2016 erano incidenti di percorso irrilevanti. Il semplice fatto che Matteo Renzi non tanto sia rimasto in sella dopo il referendum ma, per di più, sia stato plebiscitato alle primarie della primavera successiva dimostra che gran parte dei sostenitori democrat concordava con quella visione. Questo sentimento di adesione e condivisione attraversa ancora il Pd: una gran parte di militanti rimane legata alla mitologia del 40% e rimuove tutto quello che è successo dopo. Questo nocciolo duro, quasi fideistico, di totale identificazione nell’ex segretario rende problematica una rivisitazione critica di quanto successo. Non per nulla alcuni propongono di andare oltre il Pd per diluire questa resistenza.
D’altro lato, gli interventi, anche stimolanti, che vengono avanzati in questi giorni, come il “ manifesto” proposto da Carlo Calenda, evitano il nocciolo della questione: la svolta “ promarket” e “ antisindacale” ( per riassumere in una parola) della leadership del Pd va abbandonata oppure no? Va conservata perché è espressione di quel “ riformismo” tanto spesso evocato, anche a sinistra? Questo interrogativo si incrocia con il mutato profilo sociale dei votanti del Pd. In particolare, cosa significa la conquista dei bei quartieri delle grandi città? Il ceto medio-alto è stato attratto solo dalle politiche economico-sociali moderate promosse in questi anni o anche e soprattutto da quelle (meritorie) sui diritti civili? Se vale la prima ipotesi allora il Pd ha trovato la sua vocazione, quella di partito neoliberale e non ha molto senso invertire la rotta verso approdi più socialdemocratici come chiede la minoranza interna. Se invece vale la seconda, allora le prospettive sono del tutto diverse perché a quell’elettorato metropolitano, aperto, europeo, si potrà aggiungere un elettorato popolare conquistato da prospettive di giustizia sociale più efficaci e concrete di quelle proposte dai populisti oggi al governo. Un partito che coniuga le libertà del nuovo millennio con diritti sociali equivalenti, cioè non novecenteschi, ha davanti a sé orizzonti molto più ampi.
Questa prospettiva implica una riformulazione delle politiche seguite negli ultimi anni. Per questo provocazioni, manifesti, appelli, sono tutti utili per rimettere mano agli attrezzi della politica senza preoccuparsi di inseguire le “ salvinate” di turno. Anche perché il Pd ha perso il gusto per il confronto, trascinato da una libidine da beauty contest per trovare il leader, come se una politica dipendesse da una persona. Invece di rituffarsi nel rito ormai stanco delle primarie al Pd servono luoghi d’incontro per discutere e per ritrovare una autentica ragione d’essere. Il messaggio vale più del medium (il leader).
Corriere 30.6.18
La strada sbagliata del gruppo dirigente Pd
di Giovanni Belardelli


Come è sotto gli occhi di tutti, il governo Conte può giovarsi non soltanto del tradizionale periodo di luna di miele di cui gode normalmente ogni nuovo esecutivo, ma anche della scomparsa di qualunque significativa opposizione. Una tale assenza appare del tutto naturale sul fronte destro dello schieramento politico: FdI guarda benevolmente a un governo nel quale non avrebbe disdegnato di entrare, mentre Forza Italia non può certo avere un atteggiamento ostile verso chi, la Lega, potrebbe essere di nuovo suo alleato in una forse non lontana competizione elettorale. Quel che piuttosto colpisce è la sostanziale latitanza del Partito democratico, dal quale non sono venute né una riflessione seria sulle ragioni della sconfitta elettorale né una critica alla politica del governo che avesse un vero spessore politico. Il reggente del Pd Maurizio Martina, a un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse del fatto che la politica del governo verso l’immigrazione gode di un vasto consenso, ha risposto: «l’umanità viene prima di qualsiasi sondaggio». Posizione nobile, se si vuole, ma anche profondamente impolitica, che rinuncia preventivamente a interrogarsi sulle ragioni di quel consenso, attribuibili magari, più che a un sotterraneo razzismo degli italiani tutto da dimostrare, a paure, insicurezze, domande di protezione che il Pd sembra non voler neppure tentare di intercettare (ci aveva provato l’ex ministro dell’Interno Minniti, proprio per questo non molto amato a sinistra). Gli esponenti del partito di Martina potrebbero chiedersi, insomma, se molti di coloro che approvano la politica «muscolare» del ministro Salvini (spesso ex elettori Pd) lo facciano perché davvero ne condividono in tutto e per tutto certe (censurabili) dichiarazioni come quella sul censimento dei rom o non, piuttosto, malgrado quelle dichiarazioni; se, insomma, approvano quella politica perché almeno trovano nel leader leghista una risposta a domande alle quali altri non ha saputo o voluto dare ascolto.
Denunciare il fatto che il ministro Salvini «cavalca le paure» degli italiani, come hanno fatto più volte esponenti del Pd è del tutto sterile, se non ci si interroga sul malessere reale che si intravvede dietro quelle paure. Lo stesso bistrattatissimo sovranismo potrebbe segnalare non la presenza, in una parte dell’opinione pubblica, di simpatie per la «democrazia illiberale» rivendicata da Victor Orbán, bensì la speranza, non del tutto infondata, che solo il proprio Stato-comunità possa proteggere quanti si sentono emarginati, sconfitti, esclusi o comunque spaventati dalla società globalizzata.
Invece di porsi interrogativi del genere, invece di interpretare certi sentimenti profondi, anche certe pulsioni molto grezze (come spesso è, però, di tutto ciò che attiene al mondo dei sentimenti collettivi), il gruppo dirigente del Pd sta battendo purtroppo un’altra strada. Sta battendo, accompagnato da intellettuali e giornalisti che si sentono parte di una sempre meno facilmente definibile «sinistra», la vecchia strada consistente nel rivendicare quasi orgogliosamente la contrapposizione tra noi, che saremo pure minoranza ma vivaddio difendiamo «la ribellione morale, l’empatia, l’appello all’unità dei più deboli», e loro, che sono invece animati da «cinismo, indifferenza, caccia al consenso fondata sulla paura». Questa contrapposizione, che qui ho ripreso con le recenti parole che campeggiavano sull’infelice copertina di un settimanale, non fa che riproporre l’idea di un conflitto inconciliabile tra due Italie — quella di chi votava per Berlusconi e di chi invece per il centrosinistra — che dopo il 1994 caratterizzò per vent’anni il dibattito pubblico italiano. Ci fu allora chi, a sinistra, arrivò a parlare di una «cortina di ferro antropologica» che separava i due schieramenti del bipolarismo italiano. Ma questa idea di un conflitto tra due mondi inconciliabili risaliva ancora più indietro, all’esaltazione della «diversità» comunista (una diversità anzitutto morale) sostenuta da Berlinguer. Si trattò di una posizione che incontrò allora le critiche anche di alcuni dirigenti del Pci, da Napolitano a Natta (quest’ultimo, nel suo diario, lamentava «il tono moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri», della posizione berlingueriana); ma diventò rapidamente egemone. Renzi, che per età e storia personale non appartiene alla tradizione del post-comunismo, sembrava aver guarito la sinistra italiana dal «complesso dei migliori» (come lo ha definito in un suo libro Luca Ricolfi). C’è da sperare che, uscito lui di scena, quel complesso – e con esso l’illusione di poter dividere l’Italia in buoni (noi) e in cattivi (loro) – non ritorni di nuovo in auge.
il manifesto 30.6.18
Bettini: «Il nostro riformismo ha fallito. Senza congresso Pd a rischio»
Democrack/Intervista. Il padre fondatore dei dem: fra la nostra gente c'è sfiducia e sfaldamento, ora un confronto politico, al leader pensermo dopo. Zingaretti? C’è chi mi attribuisce un’influenza sui candidati. Sono stanco di leggende. Ma ricordo che le candidature a cui ho contribuito hanno vinto, quelle ufficiali del Pd no
intervista di Daniela Preziosi

«Pronunciamo in ogni occasione la parola “riformismo”, ma se alla fine di un ventennio nel quale per lunghi periodi abbiamo governato anche noi, ci sono in Italia oltre 5 milioni di poveri, di che riformismo parliamo? In quale misura si verifica se si è riformisti o no?». Fondatore del Pd, teorico e visionario dell’era delle origini, oggi europarlamentare molto, molto critico con il suo partito – al punto da mettere in discussione la sua appartenenza – Goffredo Bettini è il padre ’storico’ della proposta di un nuovo «campo democratico» – così si chiama la sua associazione fondata anni fa – un’idea di «andare oltre il Pd, ma non a destra, che oggi, soprattutto dopo la batosta elettorale, è diventata una necessità e ha trovato nuovi, inaspettati fan.
Sta dicendo che il Pd ha fallito la sua mission riformista?
Le parole rischiano di non nominare più niente e diventano così maledette. Le ragioni delle nostre difficoltà sono tante. Ma una le sovrasta tutte: l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze. Con la globalizzazione c’è chi è andato in miseria, i ceti medi si sono in molta parte disgregati, ma si sono accumulate anche enormi ricchezze e nuovi privilegi. La sinistra ha origine nella difesa di chi sta sotto nella scala sociale. Ci sarà una ragione se oggi a Roma ci votano ai Parioli e non a Tor Bella Monaca. Non abbiamo capito la forza e l’insidia di una globalizzazione guidata da un pensiero mercatista. Abbiamo pensato di alleviare le punte più aspre. Ma abbiamo accettato il paradigma avversario.
Il Pd è nato nel 2007, ben dopo gli anni 90 dell’euforia globalista. La rivolta di Seattle è del ’99. L’atto di nascita del Pd ha inglobato un peccato originale senza possibilità di redenzione?
L’élite progressista è stata punita e i cittadini si sono in gran parte buttati tra le braccia di Di Maio e Salvini. Occorre una ricollocazione politica ideale del nostro movimento.
Il Pd se l’è cercata. L’attuale gruppo dirigente, con o senza Renzi, non ha avuto l’autorevolezza e la forza, anche la spregiudicatezza, di provare a trattare con i 5 stelle. Perché?
Per ragioni interne, di conservazione di potere, dentro il partito. Oggi in Italia c’è una destra autoritaria e xenofoba al governo, con il M5s subordinato e in sofferenza. È la conseguenza di un errore madornale che abbiamo compiuto, appunto, per ragioni interne. Salvini e Di Maio non sono la stessa cosa. E i grillini sono un corpo composito e contraddittorio. Dovevamo aprire un confronto, cercare spazi in mezzo a loro. Abbiamo regalato a una destra aggressiva, collegata al peggio dell’Europa, una influenza sul 70% dell’elettorato italiano, che in realtà non ha.
Il Pd è un partito fallito? Non crede nella possibilità «costituente» del prossimo congresso?
Sul congresso dico una cosa semplice: sarebbe un ulteriore atto di irresponsabilità pensare di farlo dopo le europee. L’assemblea del 7 luglio deve fissare una data che non vada oltre il febbraio del 2019. Tra la nostra gente nei territori c’è disorientamento, sfiducia, sfaldamento. Occorre dare un’ancora certa che la rassicuri. E come dice bene Andrea Orlando, occorre pensare un percorso diverso. Una prima fase di confronto politico, una seconda dedicata all’elezione del segretario. Che non dovrà essere il candidato premier. Se il reggente Martina si fa promotore di questa visione, lo voto come segretario subito con pieni poteri.
Al congresso invece si schiererà con Zingaretti, a cui è da sempre molto vicino?
Con Zingaretti, dato il rapporto che ci lega, voglio avere un certo distacco e riserbo. Già nel corso degli anni mi è stata attribuita, in modo esagerato, un’influenza decisiva su leader e sindaci. Sono stanco di leggende metropolitane che servono solo a nascondere certi fallimenti. Da qualche parte oggi leggo, senza smentita, che gli ex o post renziani che hanno portato Roma al disastro chiedono a Nicola di marcare una discontinuità anche con me. È la solita miserabile solfa. Le candidature che nel passato ho contribuito a promuovere hanno sempre vinto. Compreso il defenestrato Marino. E segnalo che anche il successo di Ciaccheri e Caudo nell’ottavo e terzo municipio è stato possibile perché non erano le candidature ufficiali del Pd romano. Poi Zingaretti deciderà da sé, e dalle idee, chi è il passato e chi guarda al futuro. Io propongo idee, non seguo le “mossette” del momento.
Corriere 30.6.18
Risponde Aldo Cazzullo
Grillo come l’Uomo Qualunque che però si fermò al 5 per cento


Caro Aldo,
bella la proposta di Grillo di eleggere i senatori tramite estrazione a sorte tra tutti gli italiani, ma la perfezionerei. Non tutto il Senato dovrebbe essere composto dai partecipanti alla lotteria: andrebbe bene, per esempio, il 5%. Si darebbe così il modo all’uomo comune di essere responsabilizzato. È facile criticare asserendo farei questo e quello: occorre cimentarsi coi fatti! E occorre
pure favorire chi non lavora: alcuni senatori potrebbero essere estratti a sorte dagli uffici di collocamento tra i disoccupati. I media hanno cambiato la percezione della partecipazione: ad esempio, i reality show hanno trasformato conosciuti in star. Perché, dunque, non dare la possibilità a tutti di diventare dei politici?
Romolo Ricapito,

Caro Romolo,
Grillo non ha inventato nulla. Nel dopoguerra Guglielmo Giannini, il commediografo e umorista che fondò l’Uomo Qualunque, propose di abolire i politici e far amministrare lo Stato da un ragioniere, da cambiare a fine anno con un altro ragioniere. Si trattava di una provocazione, proprio come l’uscita di Grillo sui senatori da estrarre a sorte. Ma a parte il fatto che «provocazione» è parola inflazionata, in un tempo in cui nessuno si assume la responsabilità di nulla, le affinità tra Uomo Qualunque e Cinque Stelle sono impressionanti. Entrambi i movimenti, ad esempio, erano molto più forti al Sud che al Nord. Alla base c’era il disprezzo verso la politica e i partiti, e più in generale l’idea molto italiana per cui nessun uomo pubblico può fare qualcosa nell’interesse di qualcuno che non sia se stesso. Da qui il rifiuto della delega, della democrazia rappresentativa, e il sogno del governo del buon senso, che facilmente degenera nel senso comune. Allora non c’era la Rete: l’Uomo Qualunque nacque da un giornale. Alle amministrative del 1946 fu la prima lista in molti Comuni del Mezzogiorno. Ma a livello nazionale non superò mai il 5,27%. La Dc lo svuotò: dei trenta deputati eletti alla Costituente, un anno dopo metà se n’erano già andati. Nel 1948 quasi sparì, anche se Giannini rimase sulla scena come personaggio arguto. Era un tempo in cui gli italiani credevano in se stessi e nel futuro, e non pensavano che tutti i politici fossero ladri, tutti gli industriali corruttori, tutti gli imputati colpevoli.
Corriere 30.6.18
Sondaggio Forza Italia all’8,3%, Pd al 18,9%
La Lega supera il 31 per cento e toglie voti ai 5S
Forza Italia scende all’8,3%, dimezzata la Meloni
di Nando Pagnoncelli


La Lega «prosciuga» gli alleati di centrodestra e vola sopra al 31%, togliendo voti anche ai 5 Stelle. Non era mai capitato che, a soli quattro mesi dalle elezioni, si manifestasse una mobilità elettorale tale da far quasi raddoppiare i consensi di una forza politica che dalle urne era uscita terza. Forza Italia scende all’8,3%, dimezzata la Meloni, il Pd al 18,9%.
Non era mai capitato che a meno di quattro mesi di distanza dalle elezioni si manifestasse una mobilità elettorale tale da far quasi raddoppiare i consensi per una forza politica che è uscita al terzo posto dalle urne ed oggi è prima. Negli ultimo 30 anni tuttalpiù si era verificato il classico bandwagon, più o meno intenso. E negli anni precedenti il voto era una sorta di «atto di fede» e il consenso per i partiti si modificava di poco. Il sondaggio odierno fa registrare un ulteriore avanzamento della Lega di Salvini che consolida il primato attestandosi al 31,2% delle preferenze, seguita dal M5S, sostanzialmente stabile al 29,8%, dal Pd con il 18,9% (+0,3%) e Forza Italia che fa segnare un ulteriore lieve arretramento fermandosi all’8,3%.
Niente di eclatante rispetto alla rilevazione di due settimane fa: infatti, con l’eccezione della Lega (+1,1%), i singoli partiti fanno segnare variazioni di qualche decimale. Ma se confrontiamo le intenzioni di voto con i risultati elettorali del 4 marzo emergono cambiamenti importanti, oltre alla già citata imponente crescita della Lega: innanzitutto l’aumento dell’area dell’indecisione e dell’astensione, composta da elettori delusi, che aumenta del 5,5%; in secondo luogo la flessione di 2,9% del M5s, trionfatore alle elezioni, e quella ancor più significativa di Forza Italia, che perde 5,7%, di Fratelli d’Italia che si è quasi dimezzata, passando dal 4,3% al 2,3%, di Liberi e uguali che perde un terzo dell’elettorato (da 3,4% a 2,3%) e di Noi con l’Italia scesa dall’1,3% allo 0,4%. Al contrario Pd e Più Europa aumentano di 0,2%, mantenendosi sostanzialmente sui valori ottenuti alle politiche.
L’analisi dei flussi elettorali evidenzia l’elevata fedeltà dell’elettorato leghista (91% conferma il proprio voto) e la forte capacità di attrazione di nuovi elettori: quasi la metà di coloro che oggi voterebbero per il partito di Salvini provengono da altri partiti, in particolare per il 23% dagli (ex?) alleati di centrodestra (18% da FI e 5% dagli altri), il 10% dagli alleati di governo e il 9% da elettori che alle politiche avevano disertato le urne ma oggi ritornerebbero a votare scegliendo la Lega.
Tre elettori pentastellati su quattro confermerebbero il proprio voto al Movimento, i delusi propendono per l’astensione (13%) e la Lega (9%), ma non per il Pd (1%) e i voti in ingresso provengono prevalentemente dal centrodestra, mentre sembra essersi arrestata la capacità di attrarre consenso da sinistra e dall’astensione. La tenuta del Pd dipende dalla elevata fedeltà di voto (80%), e da una compensazione tra uscite (prevalentemente verso l’astensione: 13%) e nuovi ingressi, soprattutto da centrosinistra e sinistra, mentre il rientro dal M5s è marginale. Infine, meno di un elettore su due di FI (48%) continua a votare per il partito di Berlusconi, un terzo abbondante sceglie la Lega e il 10% si astiene.
La Lega consolida il proprio consenso presso tutti quei segmenti sociali che l’hanno scelta il 4 marzo e aumenta in modo particolare tra i ceti più popolari, le persone meno istruite, casalinghe, pensionati e disoccupati e tra i cattolici che partecipano saltuariamente alle funzioni religiose. Il M5S flette prevalentemente tra gli elettori meno giovani (presso i quali era già più debole), nella classe direttiva, tra i lavoratori autonomi, gli studenti, i pensionati e tra i cattolici con frequenza settimanale alla messa.
Insomma, è il momento della Lega e la sua forza dipende soprattutto dalla sostanziale continuità nella strategia comunicativa di Salvini rispetto alla campagna elettorale, una strategia basata su un’accurata scelta di temi sensibili (i migranti, le responsabilità dell’Europa, la legittima difesa, la rottamazione delle cartelle esattoriali, l’uso del contante, ecc.), su toni aggressivi (peraltro due italiani su tre ritengono che sia giusto che i politici utilizzino un linguaggio crudo e brutale per dire le cose senza tanti giri di parole) nei confronti di avversari politici, esponenti delle istituzioni nazionali ed europee (il presidente Macron su tutti), personaggi pubblici (da Balotelli a Saviano), sull’incessante appello a «ciò che vogliono gli italiani». Il leader leghista pur occupando un’importante carica istituzionale, si è dunque sottratto al processo di istituzionalizzazione, non a caso continua a esibire accuratamente sulla giacca il simbolo di partito e sarà protagonista del tradizionale raduno di Pontida di domani con al centro lo slogan «il buonsenso al governo».
È una strategia che si può permettere grazie alla complementarietà che rappresenta il tratto distintivo del governo: complementarietà degli elettorati della maggioranza, dei temi previsti nel contratto, della personalità e dello stile comunicativo di Conte, Di Maio e Salvini, cioè di una sorta di tridente, per usare una metafora calcistica, che garantisce una grande popolarità all’esecutivo. È un gioco di equilibri: la ricchezza delle diversità può consentire al governo di mantenere un consenso duraturo oppure di minare la coesione e veder precipitare il sostegno. Non è una situazione inedita: il primo governo Berlusconi nel 1994 riuscì a mettere insieme la destra di Fini e la Lega Nord di Bossi. Non durò molto, ma oggi il contesto è molto diverso e appare difficile prevedere se per il governo Conte prevarrà l’affermazione di Tucidide («la storia si ripete») o quella di Vilfredo Pareto («la storia non si ripete mai»).
Il Fatto 30.6.18
I migranti e la trappola degli Hotspot
di Marcello di Filippo
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Professore di Diritto internazionale

All’alba di ieri il Consiglio europeo ha adottato alcune conclusioni sulle migrazioni. Proviamo a capire se offrono spunti interessanti. Il documento finale è alquanto articolato e qui mi limiterò a parlare di luogo di sbarco per le persone soccorse in mare e dei cosiddetti hotspot. Le conclusioni indicano che, per eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi, occorrono due azioni complementari per lo sbarco delle persone soccorse in mare. In primis, istituire piattaforme di sbarco “regionali” presso gli Stati terzi disposti ad accoglierle e con il sostegno di Unhcr e Oim.
Lì verrebbero distinti i richiedenti asilo genuini dagli altri. In secondo luogo, coloro che non fossero smistati nei centri extra-Ue sarebbero trasferiti in centri collocati in Stati membri che abbiano dato il consenso. Anche qui verrebbe operato uno screening, con pieno sostegno logistico e finanziario dell’Ue. Le persone bisognose di protezione sarebbero poi ricollocate verso altri Stati membri in omaggio al principio di solidarietà, ma solo verso Stati membri che acconsentano a ciò: una solidarietà à la carte, cioè. Tutto quanto detto è configurato come una soluzione tampone, che lascia impregiudicata la riforma di Dublino (rimasta purtroppo sullo sfondo).
Che dire sugli hotspot esterni? L’esperienza dei centri di transito lungo le rotte migratorie (ad esempio in Mali o in Niger) o dei campi co-gestiti dall’Unhcr in Paesi di primo asilo insegna che questa via è irta di ostacoli politici e giuridici. Innanzitutto serve il consenso del paese di sbarco e poi quello di Unhcr e Oim. Per i primi, i potenziali candidati (Algeria, Egitto, Libia o Tunisia) hanno già negato un loro interesse. Si tratta di Paesi con problemi di vario ordine, che legittimamente possono dire di no. Del resto, è reale il rischio che le persone sbarcate restino a loro carico, vista la riluttanza degli Stati europei ad assumere impegni vincolanti e preventivi su tempi e numeri dei successivi reinsediamenti di rifugiati. Le promesse vaghe non bastano, come dimostrato nel caso del centro in Niger per le persone evacuate dalla Libia. Ma anche ove i paesi terzi acconsentissero, restano difficoltà giuridiche e pratiche di non poco conto. Unhcr e Oim hanno chiarito all’Ue che non si impegneranno in centri ove non sia garantito ai migranti il rispetto dei diritti fondamentali. L’Ue e i suoi Stati membri dovrebbero stare ben attenti al riguardo, per evitare di incorrere in responsabilità giuridiche (a proprio carico, come paesi, e a carico dei propri funzionari). E poi, chi gestirebbe le strutture o chi deciderebbe sui migranti? Come sarebbe tutelato l’accesso alla giustizia in caso di diniego? Infine, anche ammesso che questi centri fossero costituiti con adeguate garanzie (il che include il divieto di detenzione a tempo indeterminato), le persone non ammesse alla protezione internazionale dovrebbero essere rimpatriate. Ma dove? Gli stessi ostacoli pratici al rimpatrio che hanno gli Stati europei sussistono – e in misura anche maggiore – per quelli africani.
I migranti esclusi ricadrebbero probabilmente nel circuito dei trafficanti, pronti ad attenderli nei paraggi dei centri per offrire i loro “servizi”. Un vero e proprio corto circuito, insomma. Va meglio con gli hotspot in territorio Ue? Difficile dirlo. In teoria, con un preventivo accordo quadro tra una massa critica di Stati di ricollocazione e per numeri congrui di persone, potrebbero porsi le basi per alleviare il fardello degli Stati di prima linea. Ma pare che nessuno (o quasi) voglia accettare tali hotspot sul proprio territorio, così come nessuno (o quasi) sia disposto ad assumere in anticipo obblighi stringenti sui successivi ricollocamenti. Ottenere di volta in volta il consenso dei partner, del resto, non pare un’alternativa praticabile. In sintesi, delle conclusioni che sul tema qui affrontato non concludono un granché.
Il Fatto 30.6.18
Migranti: non cambia nulla. L’Europa rimbalza l’Italia
Accordo senza vincoli - Dopo la notte insonne a trattare, i 28 hanno mostrato soddisfazione soprattutto per l’unanimità espressa nella dichiarazione finale
di Giampiero Gramaglia


Hanno tutti partecipato allo stesso Vertice e hanno tutti sottoscritto gli stessi accordi, sui migranti, i dazi, la difesa, il rinnovo delle sanzioni alla Russia, la Brexit, il completamento dell’Unione bancaria e monetaria. Sono tutti soddisfatti, ma dicono tutti cose diverse: la scena non è inusuale, dopo un appuntamento multilaterale, ma questa volta l’effetto è particolarmente disorientante.
E il presidente del Consiglio Giuseppe Conte passa dall’euforia dell’alba alla circospezione del pomeriggio: ha bloccato per alcune ore le conclusioni, innocue, sulla politica commerciale e sull’Europa della Difesa, ha trattato spalla a spalla con il presidente francese Emmanuel Macron sui migranti, afferma a caldo che “l’Italia non è più sola”, ma poi ammette: “Avrei cambiato qualcosa nelle conclusioni del Vertice”. L’Italia avrebbe ottenuto Tripoli come “porto sicuro” e una definizione dell’area di competenza dei libici. Di solidarietà concreta, non solo a parole, ne ha raccolta ben poca. Il minimo comune denominatore di tutte le dichiarazioni è la soddisfazione per avere raggiunto un’intesa unanime, che pareva alla vigilia improbabile e che evita la deflagrazione dell’Unione. Ma è un’intesa fragile, dove la parola ‘volontario’ torna quattro volte: il prezzo pagato per l’unanimità è un documento – l’intesa sui migranti, il piatto forte di questo Summit – che accontenta tutti solo perché lascia ognuno libero di leggerci quello che gli preme e, soprattutto, di fare quel che gli pare.
L’accordo sui migranti è stato annunciato dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, dopo un negoziato durato 13 ore e mezzo. Le altre conclusioni sono state pubblicate nella giornata di ieri, al termine dei lavori: c’è pure l’estensione per sei mesi delle sanzioni economiche contro la Russia (ma l’Italia non era contraria?). Nelle decisioni sui migranti, si parla di ‘reinsediamenti volontari’ e di ‘base volontaria’ per l’apertura di centri negli Stati membri dove selezionare i rifugiati, da accogliere, e i migranti economici, che vanno invece rimandati nel Paese d’origine. Per il resto, la riforma del regolamento di Dublino s’allontana, mentre ci sono i soldi per il patto con la Turchia e per dare una mano all’Africa. Per Macron, i centri di accoglienza sorvegliati vanno fatti “nei Paesi di primo ingresso” (la Francia non lo è) e il porto di approdo deve essere quello sicuro più vicino, cioè uno italiano. Il premier belga Charles Michel conferma che resta “la responsabilità dei Paesi di primo ingresso”. Il capo del governo spagnolo Pedro Sanchez dichiara: “I nuovi centri in Spagna? Li abbiamo già”, lanciando l’allarme perché i centri di accoglienza sullo stretto di Gibilterra sono al collasso. Il premier greco Alexis Tsipras, invece, non è contrario ad aprirne nelle isole dell’Egeo. Tutti li vorrebbero fuori dall’Unione. Ma bisogna convincere ad accoglierli Paesi terzi. La Tunisia fa sapere che collaborerà ai salvataggi, ma – dice – “da noi nessun centro di accoglienza”. L’ipotesi Albania e Kosovo va negoziata e ‘comprata’, anche in termini di concessioni sulla via dell’adesione all’Ue dei due Paesi balcanici.
“Un buon segnale per l’Europa”, afferma la cancelliera tedesca Angela Merkel che, però, ci vede soprattutto un buon segnale per la sopravvivenza del suo governo. L’Austria, che dal 1° luglio avrà la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, ha pronto un suo piano per dare una stretta a flussi e asilo.
il manifesto 30.6.18
L’Europa finge di essere unita. Vincono i paesi di «Visegrad»
Consiglio europeo. Apertura di centri di controllo e redistribuzione dei rifugiati solo su «base volontaria». Nel documento finale si stabilisce la creazione di «centri di controllo», per distinguere - in fretta - tra «rifugiati». L’unica «vittoria» italiana è limitata alla «messa in riga» delle ong. Ok agli accordi bilaterali con la Germania di Grecia e Spagna sui «movimenti secondari» e «migranti economici», da espellere su due piedi.
di Anna Maria Merlo


«Controllo veramente effettivo alle frontiere esterne»; «impedire che si riproducano i flussi incontrollati come nel 2015»; «controllare di più l’immigrazione illegale»; «tutte le navi che operano nel Mediterraneo» devono «rispettare le leggi applicabili e non ostruire le operazioni della guardia costiera libica»; «evitare che si aprano nuove strade marittime o terrestri» di immigrazione; «assicurare ritorni rapidi» verso i paesi d’origine: i termini sono duri e senza ambiguità.
L’EUROPA SI CHIUDE. Non prende impegni su una migliore accoglienza dei rifugiati. Ma salva l’«approccio globale» al problema e promette che le «azioni esterne» («accresciute») e quelle «interne» avverranno «conformemente ai nostri principi e valori». Il Consiglio europeo, fagocitato dalla questione dei migranti messa sul tavolo dall’Italia a cui si sono aggregati tutti i governi dove è presente l’estrema destra, si è concluso con un compromesso che è un patchwork delle posizioni nazionali, dove ognuno può trovare degli elementi di «vittoria».
Gli europeisti, che giocavano in difesa, salvano i «principi»: Macron, Merkel e Sanchez riescono nell’esercizio bizantino di difendere i valori europei, senza però accollarsi il fardello che l’Italia avrebbe voluto scaricare. Poi, i capi di stato e di governo della Ue, che propongono soltanto soluzioni su «base volontaria» (piegandosi al diktat del gruppo di Visegrad), si affidano al vecchio adagio: l’intendance suivra, i mezzi si adatteranno costi quel che costi alle decisioni politiche. Sperando che la febbre cali, visto che la «crisi» non è momentanea ma è stata gonfiata ad hoc dai populisti, Italia in testa: il comunicato finale ricorda che i flussi sono calati del 95% dal momento più difficile, nell’ottobre del 2015.
CI SONO VOLUTE NOVE ORE di discussioni, fino alle 4 e mezza del mattino di venerdì, per completare questo capolavoro di diplomazia. La riforma dei regolamenti di Dublino III è rimandata, ci sarà un rapporto il prossimo ottobre.  Angela Merkel, che era arrivata a Bruxelles indebolita, torna a casa con una vittoria: la Spagna e la Grecia (Tsipras ha teso la mano, senza rancore) accettano accordi bilaterali con la Germania, per riprendersi i migranti dei «movimenti secondari».
I commenti sono tutti pro domo. Per Giuseppe Conte, «l’Italia non è più sola» (anche se, aggiunge «poteva andare meglio»). Angela Merkel ammette che c’è «ancora molto da fare per riavvicinare i diversi punti di vista», ma vede «un buon segnale». Per Emmanuel Macron, che fa l’equilibrista tra «principi» (aperti) e «azione» (chiusa) «molti hanno predetto il trionfo di soluzioni nazionali, ma è la cooperazione europea che ha vinto».
PER IL PRESIDENTE del Consiglio Ue, Donald Tusk, il testo di conclusioni ha evitato di dare «un numero crescente di argomenti ai movimenti populisti e antieuropei». Al prezzo di aver ceduto loro nella sostanza? Lo pensa il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki: «l’Europa ha adottato le posizioni del gruppo di Visegrad».
L’Austria, che dal 1° luglio prende la presidenza semestrale del Consiglio Ue, va avanti: «saremo in grado di far diminuire il numero di persone che arrivano in Europa solo quando faremo in modo che le persone soccorse in mare non siano portate sul territorio della Ue«, ha precisato il primo ministro Sebastien Kurz, soddisfatto che ci sia un’intesa che «permetta di distruggere il modello economico dei passeurs».
Il documento finale stabilisce che nella Ue dovranno essere creati dei «centri di controllo», per fare una cernita «il più in fretta possibile», tra «rifugiati» e «migranti economici», da espellere su due piedi. Ma saranno aperti «su base volontaria». Dove? Logicamente nei paesi di primo sbarco, Spagna, Grecia e Italia, che non ne vuole sapere.
LA FRANCIA NON È UN PAESE di primo arrivo, ha sottolineato Macron, quindi non avrà «centri», ma dovrebbe fare la sua parte per la spartizione dei rifugiati tra i paesi «volonterosi». I paesi di Visegrad al massimo pagheranno un pochino per evitare di dover accogliere. L’Italia incassa un rifiuto della richiesta di redistribuzione obbligatoria.
La Ue prenderà «tutte le misure legislative e amministrative» per evitare i «movimenti secondari», come chiesto in particolare dalla Germania ma anche dalla Francia, in vista della riforma di Dublino, che resta nel vago, ma che sarà fatta, assicurano i 28, «sulla base dell’equilibrio tra responsabilità e solidarietà».
L’OBIETTIVO DELLA UE è la creazione di «piattaforme di sbarco» al di fuori dei confini, in Africa in particolare (l’ipotesi di aprirle nei Balcani, Kosovo e Albania, come proposto da Danimarca e Austria sembra tramontata).
Anche l’Alto Commissariato ai Rifugiati dell’Onu ormai cede alle «piattaforme di sbarco» per cercare di evitare il naufragio generalizzato del diritto d’asilo nel mondo. L’Alto Commissariato e l’Oim (organizzazione internazionale delle migrazioni) la vigilia del Consiglio avevano inviato una lettera a Mrs. Pesc Federica Mogherini, ai presidenti Jean-Claude Juncker (Commissione) e Donald Tusk (Consiglio) per invitare i paesi del Mediterraneo a «riunirsi», per una «responsabilità condivisa» sulle migrazioni (già mille morti quest’anno).
MA TUNISIA E MAROCCO hanno già rifiutato di accogliere delle «piattaforme»; dalla Libia il generale Haftar tuona «nessuna presenza straniera con la scusa dei migranti». Macron ammette: «non è la panacea» e indica «una cooperazione con la Libia», che suscita «un’inquietudine insormontabile» all’Oim.
PER COMPLETARE, c’è una messa in riga delle ong, la sola vera vittoria italiana, assieme a un timido Fondo Africa aumentato di 500 milioni (c’è anche il via libera alla seconda tranche da versare alla Turchia in base all’accordo del 2016). La Cimade, organizzazione storica di aiuto ai rifugiati, commenta: la Ue ha scelto una politica di esternalizzazione dell’asilo e di controllo delle frontiere.
il manifesto 30.6.18
Se sull’immigrazione diamo i numeri, ecco quelli veri
Facile demagogia. Non è assolutamente vero che ci troviamo di fronte ad una grande ondata migratoria che rischierebbe di “sommergerci”. Dal 1990 al 2017 lo stock d’immigrati nati all’estero e censiti nei 27 paesi che fanno parte dell’Unione europea, più la Gran Bretagna, è cresciuto di 25,2 milioni. Ma di questi solo il 35% proviene da paesi del Sud del mondo. Ciò significa che gli africani, asiatici e latino-americani, di cui si cerca di popolare i nostri “incubi”, sono stati 8,8 milioni in 27 anni: una media di 327mila all’anno. Quando i migranti lavorano, i contributi al fisco eccedono del 60% tutto ciò che lo stato spende per il welfare. Nel 2016 hanno concorso all’aumento del 9% del Pil
di Ignazio Masulli


Dalla Brexit all’elezione di Trump, dall’ ondata nazionalista e xenofoba montante in un numero crescente di paesi dell’Unione europea fino al lacerante dibattito attuale al suo interno (testimoniato dalla conclusione del vertice), il punto di leva è una spregiudicata strumentalizzazione del fenomeno migratorio. Anziché preoccuparsi di curare le vere cause della perdurante stagnazione economica, delle crescenti diseguaglianze sociali, della crisi di legittimazione politica. Conservatori e sedicenti progressisti hanno pensato di lucrare sulla facile demagogia di attribuirne le cause ad una migrazione presentata come massiccia e squilibrante. Si tratta di una grossolana mistificazione, basta analizzare i numeri, ma quelli giusti.
Intanto, non è assolutamente vero che ci troviamo di fronte ad una grande ondata migratoria che rischierebbe di “sommergerci”. Dal 1990 al 2017 lo stock d’immigrati nati all’estero e censiti nei 27 paesi che fanno parte dell’Unione europea, più la Gran Bretagna, è cresciuto di 25,2 milioni. Ma di questi solo il 35% proviene da paesi del Sud del mondo. Ciò significa che gli africani, asiatici e latino-americani, di cui si cerca di popolare i nostri “incubi”, sono stati 8,8 milioni in 27 anni: una media di 327mila all’anno.
Non tolgono lavoro a nessuno. Chiunque confronti gli indici della disoccupazione con quelli dell’immigrazione negli Usa e nei maggiori paesi europei vedrà che non c’è alcun rapporto tra i due andamenti. Disoccupazione e precarietà del lavoro dipendono dalle strategie di massimizzazione dei profitti fatte dai gruppi economici dominanti (delocalizzazione produttiva, automazione spinta, finanziarizzazione del capitale).
I costi? Sono quelli voluti dai governi che detengono gli immigrati e li sottopongono a lunghe procedure per stabilire se hanno diritto a chiedere asilo o devono essere rispediti nei paesi di provenienza. Se e quando si permette loro di lavorare legalmente, i contributi che versano al fisco eccedono del 60% tutto ciò che lo Stato spende per loro in materia di edilizia convenzionata, sanità, pensione, istruzione e quant’altro.
Si veda, ad esempio, il bilancio italiano del 2016; ma ciò vale anche per gli altri paesi meta. Sempre nell’Italia de 2016, gli immigrati nati all’estero hanno concorso ad un aumento del Pil del 9% e altrove in misura anche maggiore.
L’apporto demografico degli immigrati è essenziale. Se consideriamo la popolazione dei 27 paesi dell’Ue, un cittadino troppo giovane o troppo anziano per lavorare, dipende da 1,8 persone in età lavorativa, che si ridurranno a 1,5 entro 12 anni. Il che prospetta una situazione insostenibile a detta della stessa Commissione europea.
Per quanto riguarda le spese sociali, il mantenimento degli attuali standard di welfare dei cittadini dell’Unione richiederebbe una base contributiva garantita da un aumento della popolazione europea di 42 milioni di persone in 5 anni. Cosa concepibile solo attraverso l’accoglienza e regolarizzazione di un numero di migranti molto maggiore di quelli che bussano attualmente alle nostre porte.
Purtroppo la mistificazione ha fatto strada. Sicché nel giro di pochi anni abbiamo assistito ad un crescendo di proposte ingannevoli e irresponsabili.
Prima governi e istituzioni dell’Ue sono andati alla cerca di guardiani capaci di sbarrare la strada ai migranti. Così è avvenuto con il finanziamento alla Turchia per chiudere la rotta balcanica. Più difficile è stato trovare un gendarme altrettanto agguerrito in Libia per bloccare le traversate del Canale di Sicilia. La situazione caotica determinatasi in quel paese ha incoraggiato politiche di respingimento ancor più spregiudicate ed aggressive. Si vedano gli accordi dell’ex ministro Minniti con la guardia costiera libica, con gruppi militari attivi nelle zone interne, nonché con governi di paesi di transito dei profughi. Anche questa escalation si è valsa del consenso di altri paesi dell’Ue e delle sue istituzioni centrali.
Ora, di fronte ai crescenti contenziosi e competizioni all’interno dell’Unione, sembra prender forma un ulteriore allargamento del raggio d’azione, fino a stabilire hot spot ai confini dei paesi di provenienza dei migranti. Il che equivale a bloccare ogni tentativo d’emigrazione sul nascere. Per non dire della guerra a chi salva i naufraghi.
E’ evidente che questa escalation non fa che calpestare in maniera sempre più aggressiva ogni diritto e confine di legalità stabilito da precise norme e trattati. Ed è altrettanto chiaro che una degenerazione morale e politica di questo genere si riflette inevitabilmente nelle situazioni interne dei paesi e aggrava la crisi di legittimazione della stessa Ue.
il manifesto 30.6.18
Siria/Israele. Il ministro della difesa Lieberman conferma l'invio di aiuti a chi scappa dai combattimenti ma ribadisce che non sarà fatto entrare alcun profugo siriano. Nei giorni scorsi era stata la Giordania a chiudere le frontiere
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Aiutiamoli a casa loro. Israele segue le orme di Matteo Salvini e fa sapere che ‎mandarà altri aiuti agli sfollati di Deraa e di altri centri abitati del sud della Siria ‎coinvolti nei combattimenti tra l’esercito siriano e le formazioni jihadiste, ma non ‎ne accoglierà alcuno nel proprio territorio. E a metterlo in chiaro è stato il ministro ‎della difesa Lieberman. «Seguiamo da vicino la situazione nella Siria meridionale» ‎ha scritto ieri Lieberman in un tweet «saremo disposti ad offrire ogni aiuto ‎umanitario per i civili, le donne e i bambini. Ma non accoglieremo alcun profugo ‎nel nostro territorio». Parole che mettono a tacere le poche voci che si erano levate ‎a sostegno dell’accoglienza, in particolare quella del deputato druso Saleh Salah che ‎aveva chiesto l’allestimento di un campo di tende sulle Alture del Golan, che, ‎peraltro, è un territorio siriano che Israele ha occupato nel 1967 e che poi si è ‎annesso unilateralmente.‎
 Sarebbero 120mila i civili siriani in fuga dai bombardamenti e dai combattimenti ‎tra governativi e jihadisti che si concentrano soprattutto intorno a Deraa, capoluogo ‎della Siria meridionale e roccaforte dell’opposizione islamista. Giovedì notte ‎l’esercito israeliano ha inviato da quattro punti diversi delle linee di demarcazione ‎con la Siria 300 tende, 13 tonnellate di cibo, 15 tonnellate di alimenti per l’infanzia, ‎attrezzature mediche, medicinali, vestiti e scarpe. Aiuti che poi sono stati trasferiti – ‎non si è capito bene da chi – nei campi profughi siriani a ridosso del Golan che ‎ospitano migliaia di siriani in condizioni precarie, senza accesso ad acqua, ‎elettricità, cibo. Ma gli aiuti umanitari non bastano a chi scappa da combattimenti ‎violenti. L’unico modo per garantire protezione ai civili in fuga è quello di farli ‎entrare almeno sul versante del Golan controllato da Israele. E il popolo ebraico, in ‎ragione della sua storia, dovrebbe sapere meglio di altri quanto è importante che sia ‎offerto un rifugio sicuro a chi fugge dalla guerra e dalla morte. Invece un portavoce ‎dell’esercito israeliano ha subito chiarito che non sarà consentito ai siriani di ‎oltrepassare le linee tra i due paesi. Posizione poi confermata dal tweet di ‎Lieberman, sostenitore peraltro delle politiche del governo di espulsione dei ‎migranti e richiedenti asilo africani nel paese.‎
 Israele che. come hanno documentato in passato anche gli osservatori dell’Onu, ‎ha avuto contatti con le formazioni islamiste che operano nel sud della Siria, ha ‎scelto la stessa linea della Giordania che qualche giorno fa ha annunciato la ‎chiusura della sua frontiera nord dove si sono ammassati migliaia di siriani. Il ‎ministro degli esteri giordano, Ayman Safadi, è stato perentorio quando ha ‎affermato che ‎«la Giordania non è in grado di ospitare altri rifugiati‎» perché il suo ‎paese già «ospita 1,3 milioni di profughi siriani‎». Sui social tuttavia tanti giordani ‎hanno contestato le sue parole e lanciato la campagna ‎«Aprite i confini‎» per dare ‎accoglienza ai siriani nonostante le difficoltà economiche del Paese attraversato ‎questo mese da proteste popolari contro il governo.‎
 Intanto è entrata in vigore a Deraa una tregua di 12 ore dopo che i gruppi jihadisti ‎hanno raggiunto un accordo con i russi che l’aviazione appoggiano l’offensiva ‎dell’esercito siriano. Mosca ha imposto all’opposizione siriana una serie di ‎condizioni da accettare tra cui quella di consegnare le armi pesanti e rinunciare al ‎controllo del valico di confine con la Giordania. I miliziani di Taiba, Saida, Umm al ‎Mayazan e Naseib, nella parte orientale e sud-orientale del governatorato di Deraa, ‎hanno accettato di consegnare le armi. ‎
Repubblica 30.6.18
La flotta di Tripoli
Le quattro motovedette donate a Gheddafi incapaci di salvare i naufraghi
di Alessandra Ziniti


ROMA Un altro gommone che affonda nel mare “bruciato”, senza più navi umanitarie e con la Guardia costiera italiana alla finestra.
Altre cento vittime che si aggiungono alle 220 degli ultimi giorni facendo schizzare a 1100 il numero dei morti nel Mediterraneo nell’anno in cui il calo delle partenze è dell’80 per cento. Un’altra giornata d’inferno per la Guardia costiera libica, rimasta sola a pattugliare la zona Sar appena iscritta nel registro dell’organismo internazionale marittimo. Un naufragio, altri quattro gommoni da soccorrere, il dispositivo di soccorso nel Mediterraneo dà mostra di tutti i suoi limiti a poche ore dall’esile intesa raggiunta dai paesi europei che si basa su un assunto che, almeno in questo momento, ha fondamenta assai esili: e cioè la capacità di soccorso in mare della Libia.
«Doneremo altre 12 motovedette alla Libia e formeremo gli equipaggi necessari», ha annunciato due giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ieri ha ribadito la chiusura dei porti italiani alle Ong per tutta l’estate. Ma mentre le navi umanitarie sono già state fatte fuori dal Mediterraneo e la Guardia costiera italiana ha già ceduto il coordinamento dei soccorsi a Tripoli, la “flotta” della Guardia costiera libica è ancora quella: quattro sole motovedette, classe Bigliani, dismesse dalla Guardia di finanza, donate da Berlusconi a Gheddafi nel 2011, danneggiate durante la guerra, riportate in Italia per riparazioni e ridonate l’anno scorso, prima due e poi altre due, dal governo Gentiloni. Mezzi vecchi, con pochissime dotazioni di bordo e un numero limitato di personale all’altezza del compito formato nei mesi scorsi in Italia.
Nulla a che fare con gli assetti della Guardia costiera italiana che nel pattugliamento nel Mediterraneo ha fin qui schierato due navi, la Diciotti e la Dattilo e sei motovedette d’altura. Un gap del quale il governo italiano è ben cosciente tanto da aver annunciato la donazione di nuove motovedette e la formazione di altri uomini.
Ma non è solo questione di mezzi. I veri nodi sono quelli del porto sicuro e del centro di coordinamento dei soccorsi. Fino ad ora nessuno ha mai ritenuto la Libia un porto sicuro, come prevede la Convenzione di Amburgo che impone che le persone soccorse vengano portate al più presto nel porto più vicino in cui vengano garantiti i diritti umani. Tanto è vero che l’Italia, in nessuno dei soccorsi coordinati, ha mai indicato un porto libico, certamente il più vicino, come meta di sbarco.
Adesso dovrebbe farlo il centro di coordinamento dei soccorsi di Tripoli. L’Imo, l’organismo internazionale marittimo, che ha da poco registrato la zona Sar libica, solo ieri ha riconosciuto l’esistenza di un centro di coordinamento dei soccorsi a Tripoli il cui numero di telefono era stato fornito nei giorni scorsi dalla sala operativa di Roma alle navi che incrociano in zona Sar libica.
Assolutamente inadeguati i soccorsi in mare e altrettanto inadeguata quella che dovrebbe essere l’accoglienza in Libia dove non esiste alcun centro protetto.
Quello che ha visitato Salvini nella sua trasferta a Tripoli la scorsa settimana con «cliniche, centri sportivi e assistenza psicologica», che lo ha spinto a parlare di una Libia con «centri d’accoglienza all’avanguardia dove le torture non esistono» è una struttura ancora in costruzione che entro luglio dovrebbe ospitare 160 persone per arrivare a mille entro l’ anno.
Ma in Libia i migranti intercettati vengono condotti quasi sempre nei due più grossi centri di detenzione di Tripoli, Trikk al Matar e Trikk al Sikka, dove ci sono 2mila persone a testa. Altre 3mila sono stipate in altre cinque piccole strutture ricavate in hangar o fabbriche dismesse.
Christophe Biteau, capomissione di Msf a Bani Walid, dice: «Da marzo l’80 per cento dei detenuti in questi centri sono persone intercettate in mare. Sono in condizioni terribili. Dai 12 anni in su anche i bimbi vengono tenuti insieme agli uomini. Un bagno ogni 500 persone. E hanno cominciato ad utilizzare persino lo zoo di Tripoli».