sabato 28 luglio 2018

Corriere 28.7.18
Quegli otto spari sui migranti in tutta Italia
di Fiorenza Sarzanini


Otto casi in un mese e mezzo. A questo punto sembra davvero difficile parlare di coincidenze. Gli spari contro gli stranieri, con armi a pallini o ad aria compressa, sono sempre più frequenti e tanto basta per far scattare l’allerta negli apparati di sicurezza. Gli ultimi due episodi, a Cassola, provincia di Vicenza dove un operaio di origine capoverdiana che stava allestendo un ponteggio viene colpito. Il responsabile si difende: «Ho sparato io, avevo mirato a un piccione». L’altro caso a San Cipriano d’Aversa (Caserta), un giovane della Guinea ferito da due giovani con una pistola ad aria compressa.
Roma In un mese e mezzo ci sono stati otto casi. E a questo punto sembra davvero difficile parlare di coincidenze. Perché è vero che gli episodi sono accaduti in città diverse — anche se a Caserta e Forlì è già accaduto per due volte — e differenti sono le modalità. Ma gli spari contro gli stranieri, con armi a pallini o ad aria compressa, sono sempre più frequenti e tanto basta per far scattare l’allerta negli apparati di sicurezza.
I controlli sui social
L’ipotesi valutata al momento è quella dell’emulazione, ma senza escludere che dietro alcuni «attacchi» possa esserci una matrice di odio razziale. Ecco perché carabinieri e polizia stanno cercando di ricostruire nei dettagli ogni vicenda, concentrandosi sulla possibilità che qualcuno possa essere stato fomentato attraverso la «rete» dei social. Un lavoro affidato alla Postale che sta monitorando «profili» e siti proprio per trovare tracce utili. Verifiche che si affiancano a quelle svolte da commissariati e stazioni dell’Arma per scoprire se dietro alcuni fatti possa esserci un’unica regia. Senza dimenticare quanto accaduto a Macerata nel febbraio scorso quando Luca Traini sparò e ferì sei stranieri «per vendicare l’omicidio di Pamela Mastropietro», la giovane che era stata adescata da un gruppo di nigeriani.
Gli spari in Campania
L’11 giugno scorso c’è la prima denuncia. Due ragazzi maliani — ospiti di una struttura per migranti — si presentano alla questura di Caserta e raccontano di essere stati colpiti da una raffica di colpi di pistola ad aria compressa sparati da una Panda nera in corsa. Uno ha una ferita all’addome. Parlano di tre aggressori, raccontano che inneggiavano a Matteo Salvini. Scattano le verifiche, intanto nove giorni dopo un altro giovane maliano viene colpito a Napoli da due ragazzi armati di un fucile a piombini mentre sono a bordo di un’auto per le vie del centro. L’ultimo caso ancora a Caserta è di ieri, con il ragazzo della Guinea, ospite in un centro di accoglienza, che racconta di essere stato colpito al volto con la pistola ad aria compressa. A Forlì sono due gli assalti contro gli stranieri. Il primo viene denunciato il 2 luglio da una donna nigeriana ferita a un piede. In realtà quando si presenta spiega che l’episodio è accaduto qualche giorno prima, ma spiega di aver avuto paura. Appena tre giorni dopo c’è un nuovo caso. Questa volta ad essere colpito all’addome è un ivoriano di 33 anni. Il suo racconto è preciso: mentre stava in bicicletta è stato affiancato da un’auto e qualcuno si è sporto dal finestrino sparando con una pistola modello softair. È lo stesso tipo di arma usato dai tre ragazzi denunciati mentre vengono sorpresi a fare fuoco contro le macchine in corsa. E gli investigatori non escludono che siano proprio loro, o comunque qualcuno a loro collegato, ad aver agito.
Il Lazio e i rom
L’11 luglio vengono presi di mira due nigeriani mentre aspettano l’autobus a Latina Scalo da sconosciuti a bordo di una vettura scura. Il sindaco Damiano Coletta non crede alla causalità, parla subito di «matrice discriminatoria». Più cauti sono i magistrati di Roma che indagano sul ferimento della bimba rom di 15 mesi colpita il 17 luglio in una strada trafficata mentre è in braccio alla mamma. Perché, spiegano, l’ex dipendente del Senato che ha sparato dal balcone del suo appartamento non mostra di avere alcuna tendenza razzista. Resta però da capire come mai non si sia presentato ai carabinieri pur avendo saputo di aver ferito la piccola e soprattutto perché avesse modificato l’arma per potenziarla. Non ha avuto il coraggio di dire che «volevo sparare a un piccione» come ha sostenuto l’uomo che in Veneto due giorni fa ha colpito alla schiena un operaio di Capoverde. Ma anche la giustificazione del «colpo partito per sbaglio» appare poco credibile.

Corriere 27.7.18
Sulle navi della Marina davanti alla Libia «Qui è tutto cambiato, non passa più nessuno»
Se incontrassimo un battello lo soccorreremmo, per noi valgono sempre le leggi internazionali
Ma adesso i libici sono molto più efficienti e possono bloccare gli scafisti prima che escano dalle loro acque
dal nostro inviato nel Mare di Libia Lorenzo Cremonesi


Acqua nera a mezzanotte, con le onde in abbassamento che non frangono più, temperatura 27 gradi, tasso d’umidità in diminuzione. Aggiungiamo la visibilità ottima, oltre al vento da nord sceso sotto gli 8 nodi e sarà naturale osservare quanto queste siano in genere condizioni meteo perfette della mezza estate per le partenze dei migranti dalla Libia. Ma soprattutto è il chiarore luccicante della luna piena riflessa sul mare, una sorta di cono luminoso aperto in direzione delle coste siciliane, che solo pochi mesi fa avrebbe rappresentato una sorta di incoraggiante autostrada della speranza per i battellini carichi all’inverosimile verso il «sogno Europa». Ora non più. «Nel nostro ultimo mese di pattugliamenti ininterrotti dal Canale di Sicilia, le coste della Tripolitania, al largo del Golfo della Sirte e sino alle zone a nord delle acque territoriali della Cirenaica, non abbiamo mai incontrato alcun naviglio di migranti e neppure i battelli delle organizzazioni non governative internazionali. Una situazione che ha caratterizzato le attività delle navi militari di Mare Sicuro anche nel periodo precedente il nostro turno», dicono, con la sicurezza di chi vede davvero le cose in diretta, sia i marinai che il 42enne Sebastiano Rossitto, comandante della fregata Virginio Fasan, l’ammiraglia della missione tutta made in Italy operante di fronte alla Libia sin dall’aprile 2015.
«Emergenza finita»
«Ovvio che se ora incontrassimo un battello di migranti, qui in mare aperto, li prenderemmo subito a bordo e non li riconsegneremmo ai guardiacoste libici. Per noi nulla è mutato, anche con il nuovo governo a Roma. Le leggi internazionali del soccorso valgono sempre. Ma posso anche ripetere che la situazione è completamente cambiata da cinque o sei mesi. Per ora l’emergenza appare finita, terminata. I libici, anche grazie all’aiuto italiano, hanno motovedette molto più efficienti, i loro sistemi d’intervento sono strutturati, possono mantenere due o tre imbarcazioni sempre pronte in acqua e si dimostrano in grado di bloccare gli scafisti con i migranti prima che escano dalle 12 miglia delle loro acque territoriali», dice l’ufficiale. A lui si affianca il Contrammiraglio Andrea Cottini, toscano, 55 anni, un veterano della Marina. «L’ultima volta che le cinque navi della Mare Sicuro sono state coinvolte direttamente nella questione migranti è stato agli inizi di giugno, quando hanno scortato al porto spagnolo di Valencia i circa 600 imbarcati sull’Aquarius della ong Sos Méditerranée. Altrimenti direi che, almeno per il momento, il problema è radicalmente mutato», ribadisce sottolineando che altre sono le priorità della missione.
Dietro il sonar
La cronaca di oltre 48 ore imbarcato sulla Fasan inizia il 24 luglio con l’elicottero Augusta della Marina Militare che in un’oretta dall’aeroporto di Lampedusa percorre oltre cento miglia per atterrare sul ponte appena beccheggiante. Le vibrazioni sono minime grazie ai due motori elettrici super-silenziosi e quattro generatori nuovissimi che impiegano gasolio verde. A bordo 185 marinai, di cui 14 donne. La nave è stata varata dai quartieri di Riva Trigoso nel 2014: un progetto italo-francese, arricchito da un sofisticato sistema di sonar anti-sommergibile che è l’orgoglio del tenente di vascello Maria Paola Ceracchi, 31 anni, da una dozzina arruolata, addetta alla strumentazione. «Il nostro è un congegno unico al mondo», spiega fiera. «Possiamo calare il sonar a oltre 300 metri di profondità. Ce lo invidiano anche gli americani».
Pescherecci a rischio
S’impone subito il sistema di regole e consuetudini che scandiscono la vita di questo microcosmo sociale galleggiante. Dal megafono giungono di tanto in tanto gli ordini alle varie squadre: i turni degli addetti alle pulizie, le guardie, gli spostamenti degli elicotteristi, i contatti periodici con le altre quattro unità al momento in missione. La nave-officina Gorgona con i suoi 60 membri dell’equipaggio è da mesi ancorata a Tripoli per assistere i libici nel mantenimento delle quattro motovedette donate l’anno scorso dall’Italia al governo di unità nazionale di Fayez Sarraj. La fregata Espero sta ad est, lungo le coste della Cirenaica. «Ha un compito difficile. Tra l’altro fa in modo di impedire che i nostri pescherecci entrino nella zona di mare davanti a Derna, dove il generale Khalifa Haftar sta operando contro Isis e le milizie jihadiste, imponendo unilateralmente il blocco del passaggio ai navigli stranieri. Un altro compito è evitare ai nostri pescherecci di cacciarsi eventualmente nei guai entrando a pescare il gambero rosso nel Golfo della Sirte, una zona contesa sin dai tempi di Gheddafi. Nell’aprile 2017 hanno dovuto pagare una multa di 5.000 dollari per riscattare due che erano stati sequestrati», ricorda Cottino. Il terzo, l’Orione (lo stesso che aveva scortato l’Aquarius in Spagna) sta navigando davanti alle coste tunisine. Sembra strano, ma i marinai italiani parlano con maggior preoccupazione della Tunisia che non della Libia. «Qui c’è un contenzioso antico, risale a oltre mezzo secolo fa, quando Tunisi impose il cosiddetto “Mammellone”, una vasta area di divieto alla pesca ai non tunisini ben oltre i limiti delle loro acque territoriali. L’Orione fa in modo di evitare fastidi in ottemperanza ad un accordo stipulato dal governo di Roma nel 1979. Però oggi, in termini di libertà di pesca e navigazione siamo in rapporti migliori con i libici che non i tunisini», dicono.
Le perquisizioni
Tutto questo è molto interessante. Ma ovviamente osservo di continuo i radar per seguire un eventuale passaggio di migranti. In plancia gli ufficiali mettono a punto gli strumenti, compresi i sensori a raggi infrarossi. «Con i radar si vede bene a oltre 30 miglia. Con quelli più ravvicinati siamo in grado di individuare anche un battellino alto meno di 40 centimetri sul pelo dell’acqua a oltre sette miglia. Ma non si vede nulla e questo da molto tempo oramai. L’anno scorso notavamo che se una volta i migranti partivano alla disperata, più di recente li trovavamo con i giubbotti personali indossati in Libia», dicono. Gli schermi restano però bui. Alle 18,15 siamo a 70 miglia dal porto di Tripoli. Una trentina di miglia a est si individuano le tracce radar di tre pescherecci italiani. Poco più nel centro sta transitando un grande naviglio che sembra diretto a Khoms, il vecchio porto militare di Gheddafi. Gli italiani si danno da fare per identificarlo. Pare abbia spento il trasponder, che è il meccanismo via etere per cui i dati di ogni nave possono essere in teoria letti da chiunque la centri col radar computerizzato. «Nostro mandato è controllare i traffici sospetti: contrabbando di esseri umani, petrolio e armi. Dall’inizio di Mare Sicuro nel 2015 abbiamo fisicamente perquisito almeno un’ottantina di navi che trafficavano con la Libia e la nostra intelligence in cooperazione con gli alleati Nato ha al momento almeno una decina di navi straniere in lista nera. I nostri commando armati possono salire a bordo, ovviamente sempre avendo prima ottenuto la luce verde da Roma», rimarca Rossitto.
Piattaforme sottocchio
Emergono così i compiti della Fasan, che navigando di fronte alle zone delicate comprese tra Misurata, Tripoli, Sabratha e il confine tunisino (dove storicamente sono gli scafisti più agguerriti), si trova anche a dover affrontare le incognite maggiori. «Al largo di Tripoli sono le sei piattaforme dove lavorano quasi una trentina di tecnici italiani dell’Eni assieme a quelli della compagnia petrolifera nazionale libica. Siamo in contatto permanente con loro. Come del resto lo siamo con i 280 che operano nell’ospedale militare italiano di Misurata, con il personale della nostra ambasciata a Tripoli ed eventuali cittadini italiani nel Paese. In tutto oltre 500 persone che potremmo dover evacuare di fretta dalle spiagge alla prima emergenza», dice il Contrammiraglio. Lui stesso fu coinvolto nella missione che nell’ottobre 2011, appena dopo la violenta defenestrazione di Gheddafi, vide i commando della Marina salire sulle piattaforme petrolifere abbandonate per verificare che nessuno cercasse di boicottarle. «Arrivammo che in Libia ancora si combatteva. Temevamo fossero minate. Le piste di atterraggio erano piene di detriti per impedire gli atterraggi degli elicotteri. Ma alla fine andò tutto bene», rammenta.
La calma e la «preghiera»
Alle otto di sera tutti sull’attenti per la cerimonia dell’ammaina bandiera. È un rito che si celebra da sempre. Che siano in porto o in navigazione, la bandiera scende sul ponte. Intanto un militare a turno legge al megafono la «Preghiera del Marinaio», scritta da Antonio Fogazzaro nel 1901. E subito dopo viene recitata brevemente la motivazione alla medaglia d’oro di un marinaio così come descritta negli annali dell’ammiragliato. Durante la notte il bel tempo si fa stabile. Ma è difficile notarlo dalla nave, sono gli strumenti a osservarlo con precisione: le unità militari di ultima concezione equipaggiate contro le armi chimiche e nucleari limitano quasi del tutto gli accessi degli uomini sui ponti. Non ci sono oblò, solo la plancia mantiene un’ampia veduta a prua. E comunque i radar restano muti, bui. «In una giornata così un anno fa potevano essere in mare sino a una quindicina di barche con 3.000 migranti. Nel 2013 ne prendemmo a bordo 1.500 in 24 ore. Oggi nessuno», sottolinea Massimo Nava, 40 anni, capitano di corvetta d’origine milanese. Tornato in elicottero a Lampedusa, un pescatore che vende insalata di polpo al porto se la prende col giornalista di passaggio. «Volete smetterla di parlare di emergenza migranti che poi i turisti scappano via?», grida. Venendo dal largo di Sabratha è difficile dargli torto.

Corriere 28.7.18
Impegno, programmi, fondi per gestire l’immigrazione
di Valerio Onida


Caro direttore, è spontaneo, per chi crede negli ideali universalistici del costituzionalismo — per cui «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) — esprimere dissenso e indignazione di fronte a certe manifestazioni di pensiero ed espressioni verbali del ministro dell’Interno a proposito di migranti: manifestazioni ed espressioni in cui risuona un atteggiamento di chiusura ed egoismo nazionalistici, di rifiuto dell’«altro», dello «straniero», più che di vero e proprio razzismo (si tenga presente che il primo senatore nero è Toni Iwobi, eletto con la Lega; prima di lui erano stati eletti, alla Camera, due deputati del Partito democratico). Tuttavia, se si vuole dare sostanza politica alle proprie idee e alle proprie critiche, e parlare delle politiche migratorie (che non sono appannaggio del ministro dell’Interno, ma spettano a Governo e Parlamento) non basta e non serve polemizzare con Salvini: occorre porre i problemi nella loro realtà e dimensione effettive, e chiarire che cosa occorrerebbe fare per affrontarli secondo linee conformi ai diritti umani e alla realtà storica.
Ciò significa non fermarsi al fenomeno degli sbarchi e dei salvataggi in mare. È infatti evidente che non siamo di fronte a naufragi occasionali, in presenza dei quali valgono le regole del diritto del mare (salvare le vite, porto sicuro più vicino ecc.), ma a un fenomeno di massa, epocale: la pressione di milioni di esseri umani che (ben al di là dei casi di profughi che possono chiedere asilo politico) aspirano a venire nelle nostre terre, più ospitali e ben più ricche di quelle di origine, dove le condizioni di sopravvivenza sono precarie. Questo fenomeno non si può né negare né esorcizzare: occorre governarlo al meglio, tenendo presenti i doveri di solidarietà umana e internazionale. Il che significa anzitutto — oltre che adottare interventi, necessariamente di lungo termine, di aiuto allo sviluppo dei Paesi africani — porre in essere leggi e misure che aprano le porte dei Paesi europei a una immigrazione legale.
Oggi di fatto cosa accade? Decine di migliaia di esseri umani, che nei propri Paesi di origine non trovano luoghi, gestiti dai Paesi europei, in cui rivolgere una domanda di immigrazione, pagano dei trafficanti, i quali organizzano il trasferimento attraverso il deserto fino alla costa del Mediterraneo, e in Libia «organizzano» la traversata, contando che, una volta in mare, scatteranno i salvataggi e quindi ci penseranno le navi dei soccorritori a far sbarcare i migranti in Europa: dove questi potranno chiedere asilo come profughi, o protezione umanitaria, oppure accontentarsi di «sparire» sul territorio degli Stati europei come migranti irregolari. Si è visto fra l’altro come, mentre prima li imbarcavano in barconi più o meno scassati che potevano attraversare il Mediterraneo, oggi di fatto li caricano a centinaia su gommoni, tutti uguali, destinati a fare poca strada, fino alle navi dei soccorritori. Cercare di prevenire gli imbarchi contando sulle forze dell’ordine o sulle milizie libiche (o sulla guardia costiera libica, che per definizione opera perché i migranti restino o tornino in Libia, anche se salvati dal naufragio) non è il modo giusto per gestire seriamente il problema delle migrazioni. Il problema dei migranti trattenuti in Libia, in situazioni spesso disumane, dovrebbe a sua volta essere adeguatamente affrontato, magari potenziando (e finanziando) una maggiore presenza attiva delle agenzie Onu, e mettendoci almeno altrettanto impegno e mezzi quanti se ne impiegano, suppongo, per salvaguardare gli interessi petroliferi in Libia dei Paesi come il nostro.
Ma non è un modo giusto nemmeno consentire che resti in piedi un’organizzazione permanente che si limita a soccorrere gli ospiti dei gommoni, lasciando che la partenza sia governata dai trafficanti che vi lucrano sopra, e limitandosi a trasferire i «naufraghi» sulle coste europee, salvo poi discutere in quali Paesi devono andare. Almeno nei secoli scorsi i migranti europei (quanti italiani!) verso l’America viaggiavano su navi sicure e sbarcavano a Ellis Island, dove le autorità americane gestivano le proprie politiche migratorie.
I «naufraghi» non chiedono solo di essere salvati, ma di lasciare la Libia per l’Europa («pas Lybie!», invocava la donna salvata qualche giorno fa in mare).
Il Governo attuale ha dichiarato guerra al sistema degli sbarchi dei «naufraghi», e in questo non ha torto: anche se le navi delle Ong non erano (come certo non erano) «complici» degli scafisti, di fatto finivano per costituire un oggettivo contributo al mantenimento e allo sviluppo di quel sistema. Combattere il quale, naturalmente, non può voler dire lasciar morire dei naufraghi in mare. Alle istituzioni e ai Paesi europei si deve chiedere non solo di aprire i loro porti (che intanto pure è giusto), ma anche di cooperare per una politica di immigrazione; chiedere — come questo Governo sta facendo, e gliene va dato merito — una politica comune sui flussi migratori e l’asilo. Tutti i Paesi europei, e dunque anche l’Italia, avrebbero il dovere di attivare canali legali di immigrazione controllata dall’Africa. E noi dovremmo cominciare a dare l’esempio: quando avremo dai Paesi africani un numero di visti di ingresso legale per l’Italia, rilasciati nei Paesi di origine, pari almeno a quelli di coloro che oggi vengono «accolti» come naufraghi, avremo inaugurato una seria politica migratoria.
Quanto ai migranti accolti in emergenza, essi non possono essere lasciati a se stessi, limitandosi a fornire loro un tetto e i pasti fino al compimento della procedura di richiesta di asilo o di protezione. Sarebbe necessario non solo distribuire opportunamente sul territorio la loro presenza, ma realizzare sistematicamente interventi diretti a conoscerne e valorizzarne la caratteristiche, le capacità e le aspirazioni, coinvolgendoli fin da subito in attività formative e in lavori socialmente utili, come alcuni Comuni fanno già, ma tutti dovrebbero fare, anche con mezzi assicurati dal Governo: evitando così che restino del tutto inattivi, o addirittura cadano preda di giri criminali. Tutto ciò richiede sforzi e adeguamenti organizzativi degli apparati pubblici, e risorse. Troppo difficile? Certo non facile, ma non per questo meno necessario.

Corriere 28.7.18
Ventimiglia, minorenni costrette a prostituirsi per emigrare
di Simone Disegni


Dietro l’odissea dei flussi migratori si nasconde, in troppi casi, anche il dramma dello sfruttamento sessuale. Sotto i nostri occhi, all’interno dei confini italiani. È la denuncia dell’associazione Save the Children, contenuta nel rapporto «Piccoli schiavi invisibili» pubblicato ieri.
I volontari parlano di survival sex, la mercificazione del proprio corpo per far fronte a un bisogno estremo di sopravvivenza. Ad essere costrette a ricorrere a questa tragica arma sono soprattutto giovani donne provenienti dai Paesi del Corno d’Africa o dell’Africa sub-sahariana: in molti casi minorenni. Indotte da passeurs disposti a tutto a prostituirsi in cambio dell’ultimo viaggio che le porti fuori dal nostro Paese, verso il Nord Europa, o semplicemente di cibo o di un posto dove dormire. «Private della possibilità di percorrere vie sicure e legali — denuncia l’Ong — queste ragazze sole sono esposte a gravissimi rischi di abuso e sfruttamento».
Una tratta che avviene lontano dagli occhi dello Stato, ma in pieno territorio italiano. Come al confine ligure con la Francia. «Ventimiglia è stata ed è tutt’ora non solo tappa per la continuazione del viaggio e dello sfruttamento, ma anche città di reclutamento di donne magari fino ad allora non sfruttate», denuncia un’altra associazione dedita all’accoglienza, Intersos, che punta il dito contro lo Stato: «il fenomeno è radicato ed è ampiamente noto alle autorità competenti».
Sfuggito dai radar dell’attenzione pubblica, il tema della prostituzione minorile resta quanto mai attuale anche lontano dalle zone di confine. Ad esserne vittima — riporta sempre nel dossier Save the Children — sono soprattutto ragazze rumene e nigeriane, spesso indotte dai propri sfruttatori a dichiararsi maggiorenni al momento dello sbarco in Italia, sfuggendo così al sistema di protezione previsto per i minori. Un modo per ripagare i debiti contratti per giungere nel nostro Paese, che per le giovani nigeriane ammontano a cifre tra 20 e 50 mila euro.
Un ricatto implicito che riguarda anche i minori stranieri ridotti in stato di semi-schiavitù: costretti a lavorare in condizioni massacranti per 2 o 3 euro l’ora per ripagare i debiti. Una piaga quasi del tutto sommersa, considerato che i casi accertati di lavoro minorile in Italia nel 2017 sono stati «appena» 220.

il manifesto 27.7.18
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero


Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri. La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica. La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.

il manifesto 28.7.18
Il declino di Facebook quotato al casinò capitalism
Internet. La società di Mark Zuckeberg brucia a Wall Street 118 miliardi di dollari per poca innovazione, privacy degli utenti ai minimi termini. E un algoritmo che privilegia i potentati economici
di Benedetto Vecchi


Tempi duri per Facebook, al punto che c’è chi parla dell’inizio del declino del social network, che in una manciata di ore ha visto le sue azioni crollare a Wall Street. L’accusa è quella di essere ormai una società poco innovativa.
La società di Mark Zuckerberg è accusata inoltre di non tutelare la privacy degli utenti, come è emerso nell’affaire di Cambridge Analytica. E sempre più rari sono le presentazioni di prodotti innovativi, fattore decisivo per reggere la feroce competizione in Rete e per fronteggiare i possibili nuovi player, in particolare quelli cinesi. E dalla Cina Facebook ha recentemente ricevuto un secco rifiuto alla richiesta di poter operare nuovamente nel paese, dopo che se ne era dovuto andare per aver rifiutato di partecipare alla campagna di censura di Internet.
Sembrano passati secoli da quando Mark Zuckerberg chiamava Barack Obama per nome, da quando annunciava la costruzione di una comunità globale di uomini e donne rispettosi delle diversità altrui. O di quando veniva indicato come il possibile candidato liberal alla presidenza degli Stati Uniti da contrapporre al populista Donald Trump.
Invece che secoli sono passati solo due anni, al termine dei quali Zuckerberg è salito sul banco degli imputati ed è stato interrogato dal Congresso Usa e dal parlamento europeo dopo l’accusa al social network di aver ceduto dati a una società che li ha usati per manipolare l’opinione pubblica. Poi è venuto il tempo di rendere pubblici i dati non brillanti del secondo trimestre 2018. La reazione non si è fatta attendere. Facebook ha infatti perso a Wall Street 118 miliardi in una manciata di ore. Una perdita enorme, che il social network ha potuto gestire vista la stratosferica quotazione del titolo in Borsa (fino a giovedì oltre 660 miliardi di dollari).
È probabile che Mark Zuckerberg decida di mettere le mani al suo portafoglio per rastrellare azioni e così tamponare le perdite di valore del titolo. Lo ha già fatto più volte in passato, a partire dal 2012 quando il social network debuttò a Wall Street e le azioni crollarono rispetto il prezzo stabilito per il debutto nel casinò capitalism. L’intervento diretto di Zuckerberg ha finora funzionato, nel senso che l’iniezione di dollari è stato interpretato come un gesto di stabilità, riconquistando così la fiducia agli investitori.
Rimane però un mistero il perché le azioni del social network hanno perso quasi il quindici per cento del loro valore. Certo il bilancio trimestrale non era splendido, soprattutto i dati che decretavano l’uscita di un bel po’ di milioni di utenti da Facebook. Ma gli altri dati (introiti pubblicitari, investimenti, ricavi dai Big data) non danno certo l’idea di una impresa in difficoltà. Certo in leggero calo nel fatturato, ma niente che giustifichi la vendita così massiccia di azioni. E neppure la causa può essere individuata nei guai che Facebook ha con l’Unione europea. Google ad esempio è stata multata dalla Ue, ma il suo bilancio trimestrale ha visto un aumento considerevole delle entrate del motore di ricerca, mentre il titolo azionario non è stato certo penalizzato.
Non c’è dunque una sola ragione del crollo di Facebook. Da una parte è emerso il fatto che la spregiudicatezza della società di Zuckerberg nel commercio dei Big Data non è apprezzata e viene per questo penalizzata. Zuckerberg ha annunciato che ci sarà un giro di vite nella liste delle società acquirenti dei dati, ma l’annuncio non è servito a diradare le nuvole sulla correttezza di Facebook. C’è poi il cambiamento di Edge Rank, l’algoritmo usato dal social network. Per molti utenti radicalizza quella tendenza alla ostruzione di tante, ristrette «comunità di simili» incomunicanti l’una con l’altra, con buona pace dello sbandierato progetto di costruzione di una comunità globale che ha tenuto banco per due anni la discussione sull’evoluzione dell’opinione pubblica e della trasformazione della Rete in un media interattivo e libero dai condizionamenti dei gruppi editoriali. Anzi, quel che emerge è che la nuova versione dell’algoritmo riduce la visibilità di articoli e servizi televisivi messi on line, elemento che segnala il fatto che Facebook ha fatto proprie le richieste proprio dei grandi gruppi editoriali di scoraggiare la pubblicazioni in Rete dei «loro» contenuti.
Infine, c’è la mancata chiarezza di Facebook sull’adesione o meno al progetto di Donald Trump di dare vita a una Internet a due velocità, dopo la cancellazione negli Stati Uniti della net-neutrality.
Facebook ha avuto un comportamento ambivalente. Inizialmente ha detto di no al progetto di Trump. In un secondo momento lo stesso Zuckerberg ha però dichiarato di essere disponibile a discutere un eventuale progetto di Trump di far pagare per alcuni servizi di qualità, mantenendo gratuiti per altri servizi a bassa qualità. Un atteggiamento che non è piaciuto agli utenti della Rete.
Tutti fattori che attestano le difficoltà di Facebook. È presto però dare per spacciato il social network, ma non è campata per aria l’ipotesi di dell’inizio di un suo declino. Da anni non emergono decisioni che attestano il dinamismo del social network, ma solo la conferma di un business model che continua sì a far cassa, ma che non ha più la capacità di esercitare una leadership nel capitalismo delle piattaforme. Facebook vale sempre 551 miliardi di dollari, ma è una cifra che non è tuttavia proporzionale alla capacità di continuare ad esercitare egemonia dentro e fuori la Rete.

Il Fatto 28.7.18
“Atac, i posti sono salvi. Dico no ai privati”
Virginia Raggi - La sindaca di Roma e il via libera al concordato per l’azienda del trasporto pubblico
“Atac, i posti sono salvi. Dico no ai privati”
di Luca De Carolis


“Stiamo salvando i posti di migliaia di lavoratori onesti e un’azienda che era e deve restare pubblica”. A sera in Campidoglio la sindaca di Roma Virginia Raggi celebra il decreto con cui il tribunale fallimentare ha ammesso alla procedura di concordato in continuità Atac, la municipalizzata dei trasporti su cui pesano debiti per 1,3 miliardi di euro. Un via libera che arriva dopo una prima, parziale bocciatura dello stesso tribunale, che a marzo aveva definito “inidoneo” il piano del Comune. Ma le successive controdeduzioni presentate dal Campidoglio hanno convinto i magistrati. E ora la giunta a 5Stelle, attende per dicembre l’assemblea dei creditori di Atac, che dovrà votare il piano.
Sindaca, la decisione del tribunale per voi è una boccata d’ossigeno.
No, è una vittoria dei cittadini. Stiamo raccogliendo i frutti di un lungo lavoro.
Cosa ha convinto il tribunale?
Abbiamo presentato un piano industriale serio e credibile. Il Comune ha impegnato 167 milioni per acquistare 600 autobus in tre anni, a cui aggiungeremo altri 50 mezzi grazie ad altri 18 milioni, stanziati con una variazione di bilancio.
Peccato però che la gara del 12 luglio indetta da Atac per acquistare 320 bus sia andata deserta. Non è proprio un buon viatico, no?
Risolveremo con la gara gestita da Consip che si terrà in agosto, e che sarà ripartita in più lotti. E poi ci saranno altri bandi.
Però la gara di luglio è stata disertata. Non offrivate buone condizioni o vi hanno remato contro?
Guardi, non siamo minimamente preoccupati.
Un altro punto fondamentale del vostro piano è il “sacrificio” del Comune, che ha postergato il suo credito di 450 milioni verso Atac. Tradotto, verrete pagati solo dopo che sarà stato soddisfatto l’ultimo dei creditori chirografari. Ma così si creerà una voragine nel bilancio.
Stiamo coprendo quella somma con gli accantonamenti nel bilancio.
È sempre un sacrificio. Non ha chiesto al governo un aiuto per coprire il buco? Magari a Luigi Di Maio?
No. E con Di Maio non abbiamo parlato del concordato, perché eravamo convinti del nostro piano.
Sarà, ma il decreto del tribunale sembra accogliere il piano più che altro perché è la soluzione migliore per soddisfare i creditori. Come dire, il concordato è il male minore.
Se Atac non avesse avuto problemi non saremmo qui a parlare. L’alternativa era il fallimento, che avrebbe comportato la perdita di migliaia di posti lavoro, l’interruzione del servizio. Anche i creditori avrebbero perso i loro soldi.
Un altro pilastro del piano è il prolungamento del contratto di servizio fino al 2021, che vi permetterà di drenare centinaia di milioni in più. Ma pochi giorni fa l’Autorità nazionale anticorruzione ha avanzato “seri dubbi di legittimità” sul prolungamento.
Qualcuno ha provato a strumentalizzare questi rilievi dell’Anac. Noi, come è noto, abbiamo un rapporto molto sereno e trasparente con Raffaele Cantone. E assieme a lui lavoreremo anche su questo.
Non pare un problema da poco. Anche perché per l’Anac serviva “una gara pubblica” invece che l’allungamento del contratto.
Lo ripeto, troveremo una soluzione con Anac. E comunque il decreto del tribunale di fatto legittima anche gli strumenti adoperati per il concordato, compreso il prolungamento.
Intanto a novembre è previsto il referendum sulla messa a gara del trasporto pubblico locale, chiesto dai Radicali italiani. Il Pd si è già schierato per il no. E lei?
Il privato ce l’abbiamo già a Roma con il Tpl, a cui siamo stati obbligati per legge a lasciare il 20 per cento del servizio, e funziona malissimo. Il Comune di Roma paga regolarmente le imprese, ma i lavoratori ricevono gli stipendi sempre in ritardo. Se questo deve essere il privato…
Quindi la risposta è…
Sono assolutamente per il no.

Repubblica Roma 28.7.18
La partecipata
Ok dei giudici al concordato Ora Atac in mano ai creditori
di Daniele Autieri e Giuseppe Scarpa


Esulta il management ma il destino della spa passa dal congelamento di 400 milioni di euro del Campidoglio
Alla fine il tribunale ha detto sì. Atac avrà il suo concordato. Con la soddisfazione di Virginia Raggi che per prima lo aveva sostenuto; e la pena dei cittadini romani che — alla luce del piano approvato dai giudici — saranno ancora una volta usati come tappabuco per le perdite finanziarie dell’azienda romana del trasporto pubblico. E infatti la novità determinante che ha portato all’approvazione del concordato, ufficializzata ieri con decreto dal tribunale fallimentare di Roma, è la rinuncia del Campidoglio a riavere indietro i suoi crediti nel breve periodo. Denari che non sono né di Virginia Raggi né dell’Assemblea capitolina, ma della comunità.
Le promesse di Atac
In sostanza, il nuovo piano proposto da Atac ( dopo la bocciatura della proposta precedente) ruota intorno alla posizione del Comune di Roma che, nonostante sia il primo creditore dell’azienda, viene relegato in coda alla lista e rivedrà i suoi soldi ( nella partita ballano circa 400 milioni di euro) non prima di dieci anni.
Questo significa che il Campidoglio dovrà trovare il modo di giustificare sul proprio bilancio una posizione che rimarrà incerta per molto tempo ancora. In sostanza dovrà coprire quel buco in qualche modo, per evitare che la passività derivata dal mancato incasso dei crediti Atac possa limitarlo nelle attività ordinarie. Sacrificato il diritto del Comune, e quindi dei cittadini romani, Atac blinda la sua posizione, garantendo al tribunale il pagamento entro il 2019 dei creditori privilegiati; il pagamento entro il 2021 dei chirografari per una quota del 30% del loro credito; e l’attribuzione ai creditori dei cosiddetti " strumenti partecipativi", una soluzione finanziaria che permetterebbe di restituire il mancante coinvolgendo i fornitori nella divisione degli utili dell’azienda (quando e se arriveranno) e nella ripartizione dei ricavi ottenuti dalla vendita del patrimonio immobiliare di Atac.
Il rilancio dell’azienda
Il ritorno di Atac all’utile passerà, secondo il piano presentato dai vertici aziendali e approvato dal tribunale, attraverso la cosiddetta " razionalizzazione dei costi indiretti", ossia la capacità di trasformare il personale (che oggi pesa per il 60% sui costi di Atac) da zavorra a risorsa.
Per farlo, i giudici hanno appoggiato una serie di misure, in parte avviate, in parte annunciate dal presidente Paolo Simioni. Tra queste le nuove turnazioni del personale, il blocco del turn over, l’accordo sindacale già firmato e il recente licenziamento di altri quattro dirigenti.
Tutte queste misure, sommate all’ingresso dei nuovi mezzi, già promessi dal Campidoglio, dovrebbero contribuire ad aumentare la produttività dell’azienda riportandola (dopo circa dieci anni) all’utile. Lo aveva detto lo stesso Simioni nel piano industriale presentato a gennaio scorso nel quale calcolava che il valore di produzione di Atac sarebbe passato dai 939 milioni del 2017 a 995 milioni nel 2021.
Il voto dei creditori
Adesso Atac ha davanti un’estate meno calda del previsto. Questo si legge nelle dichiarazioni del presidente Simioni che ieri si è lasciato andare all’ottimismo. « Sono molto soddisfatto — ha dichiarato dopo aver saputo della decisione del tribunale. — Quando sono arrivato a agosto 2017 l’azienda non riusciva più a pagare gli stipendi, i fornitori non rispondevano al telefono ed erano arrivati i primi pignoramenti dei conti correnti. Con il decreto di ammissione, il tribunale e la procura riconoscono all’azienda che la strada che abbiamo intrapreso a settembre era quella giusta».
Ma la sua è una soddisfazione momentanea perché Atac deve ancora superare lo scoglio più duro, quello che la espone al giudizio dei suoi creditori. Nel decreto di ieri il tribunale di Roma fissa per le ore 11 del prossimo 18 dicembre l’attesa adunanza, ossia la riunione di tutti i creditori, chiamati a votare l’ipotesi concordataria.
A loro spetta l’ultima parola sul futuro dell’azienda, perché una maggioranza contraria potrebbe far saltare il concordato e far ripiombare Atac sull’orlo del fallimento. Un’ipotesi che i vertici della municipalizzata e i piani alti del Campidoglio sono convinti di poter scongiurare. Certi che il sacrificio del Comune e di tutti i cittadini romani basti da solo per rimettere in sesto i bus di Atac.

La Stampa 28.7.18
I giornali della comunità ebraica inglese contro Corbyn
di Alessandra Rizzo


Un governo laburista sarebbe «una minaccia esistenziale alla vita degli ebrei nel Paese». Con queste parole i tre più importanti giornali della comunità ebraica britannica hanno attaccato il segretario Jeremy Corbyn, gettando nuova benzina sulla questione dell’antisemitismo nel Labour. Solo la settimana scorsa, una deputata laburista di lungo corso, Margaret Hodge, signora ebrea settantenne di solito assai moderata, si era scagliata contro Corbyn nei corridoi di Westminster, chiamandolo «razzista» e «fottuto antisemita».
Al centro delle accuse c’è la formulazione del codice di condotta del partito contro l’antisemitismo. Il codice riprende sì la definizione adottata dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, ma omette alcuni esempi chiave di antisemitismo: per esempio quello di accusare gli ebrei di essere più leali ad Israele che non al proprio Paese; o di paragonare le attuali politiche israeliane al nazismo.
Il Jewish Chronicle, il Jewish News e il Jewish Telegraph hanno pubblicato lo stesso titolo in prima pagina («United we stand») e lo stesso, durissimo editoriale. «Il partito che fino a poco tempo fa era la casa naturale della nostra comunità ha visto i suoi valori e la sua integrità erodersi sotto il disprezzo corbynista per gli ebrei e per Israele», hanno scritto.
Le accuse di antisemitismo rincorrono Corbyn dai tempi della sua ascesa a segretario del partito nel 2015. Radicale di sinistra, anti-imperialista e anti-americano, Corbyn nel passato ha chiamato Hezbollah e Hamas «amici» e si è dovuto difendere per aver criticato la decisione di rimuovere un murale chiaramente antisemita a Londra, invocando la libertà di espressione. E ad aprile in tantissimi hanno manifestato accusandolo di essere insensibile alle loro preoccupazioni. Sebbene la comunità ebraica britannica sia limitata, circa 270 mila persone, la polemica è un disastro d’immagine per Corbyn, che si ritrova inaspettatamente avanti nei sondaggi mentre il partito conservatore si lacera sulla Brexit.
Nel passato Corbyn ha ammesso l’esistenza di sacche di anti-semitismo nel partito, giurando di porvi rimedio, e ha incontrato i leader della comunità, senza alcun successo. Un suo portavoce ha detto che «un governo laburista non rappresenta alcuna minaccia di alcun tipo per gli ebrei» e ha promesso di tenere in considerazione i dubbi della comunità sulla definizione di antisemitismo. Ma, ha ammesso, «c’è molto lavoro da fare».

Repubblica 28.7.18
L’Europa e la Brexit
Londra e il rischio Weimar
di Timothy Garton Ash


Tra un anno o due potremmo ritrovarci di fronte a una Gran Bretagna acida e rabbiosa: una società lacerata da conflitti interni e difficoltà economiche, tradita dalle classi dirigenti, concentrato malsano di umiliazione e rancore. Una nazione simile rappresenta un pericolo, per se stessa e per i Paesi limitrofi. È una prospettiva che si realizzerà in tempi ravvicinati, più rapidamente, se, in assenza di un accordo sulla Brexit, la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea con « orribili conseguenze » , per citare la massima carica dell’amministrazione statale. Tra queste si prospettano code chilometriche di tir a Dover, paralisi dei voli, intervento dell’esercito per distribuire cibo e medicinali. In un caos del genere gli idrofobi tabloid britannici incolperebbero senz’altro i maledetti europei — soprattutto i francesi — chiedendo il blocco immediato della contribuzione all’Ue. Dominic Raab, nuovo ministro per la Brexit, ha già detto che Londra non pagherà i 39 milioni di sterline concordati per il divorzio se non si arriverà a un accordo soddisfacente. I britannici indignati continueranno a chiedersi per quale motivo le forze armate debbano proteggere gli europei che li fregano, e se non sia il caso di riprendere la tradizionale politica britannica del divide et impera sul continente.
Si potrebbe arrivare in tempi più lunghi a una situazione tale anche nel caso in cui gli altri 27 Stati membri dell’Ue imponessero alla Gran Bretagna un divorzio umiliante — una versione moderata e burocratica in tempo di pace del trattato di Versailles, l’accordo punitivo imposto alla Germania dopo la prima Guerra mondiale, che pose il germe del revisionismo nazionalista tedesco. I fautori britannici della Brexit vociferano già di una Brexit 2.0, a seguito e modifica di qualsiasi accordo raffazzonato per consentire l’uscita formale dall’Ue il 29 marzo 2019.
Sarebbe esagerato un parallelo con la Germania di Weimar? In realtà sì. Non ho certo in mente 6 milioni di disoccupati o un nuovo Hitler, né che Boris Johnson scateni una guerra mondiale, ma è meglio enfatizzare il rischio, in modo che tutti aprano gli occhi, piuttosto che fare come tanti che hanno sottovalutato i pericoli che la Brexit, e soprattutto una Brexit mal gestita, comporta per l’Europa. Sono già successe cose ritenute impensabili. Un partito nazionalista di estrema destra che in Germania eguaglia nei sondaggi i socialdemocratici? Impossibile! Un narcisista bugiardo e xenofobo alla presidenza Usa che minaccia la guerra nucleare su Twitter? Impossibile!
Per scongiurare il pericolo di una "Weimar britannica" servirà buon senso su entrambe le sponde della Manica. Sul versante britannico abbiamo bisogno di tre elementi tradizionalmente associati al nostro Paese, che però ultimamente scarseggiano: un realismo pragmatico, un processo democratico credibile, e un forte senso civico. Con tutte le sue pecche, il Libro Bianco di May sulla Brexit va in direzione del realismo pragmatico. Le persone serie nel governo sanno che Londra dovrà scendere a compromessi per arrivare a un accordo con i 27 Stati Ue. Dando per scontato che i 27 siano a loro volta pronti, il passo successivo di un processo democratico credibile è il "voto decisivo" del Parlamento britannico sull’accordo. A quel punto si apriranno varie possibilità, tra cui la conclusione di un accordo che garantisca una minima maggioranza parlamentare, la bocciatura seguita da nuovi negoziati, nuove elezioni, oppure un secondo referendum.
Al momento la palla è in mano all’Ue. Stranamente i leader non si confrontano seriamente sulla Brexit dalla primavera 2017. Da allora il negoziato è affidato al gruppo della Commissione europea guidato da Michel Barnier, funzionari statali, giuristi e teologi di Bruxelles che hanno avuto validi motivi per essere intransigenti, tutelare gli interessi dell’Irlanda e l’integrità del mercato unico, ed evitare che l’accordo con la Gran Bretagna fosse così allettante da indurre altri Paesi a seguirne l’esempio, pretendendo la botte piena e la moglie ubriaca. Ma mi colpisce che alcuni esperti britannici filoeuropei come Charles Grant del Centre for European Reform, inizino a sostenere che l’approccio dell’Europa a 27 sia troppo rigido, esigente e punitivo. L’esclusione della Gran Bretagna dal progetto Galileo è stato uno schiaffo gratuito.
I nostri partner europei potevano pretendere che May spiegasse le sue intenzioni, per risponderle. Bene, ora May lo ha fatto. La prima risposta di Bruxelles è stata cauta e cortese, tesa a chiarire il backstop, l’accordo di garanzia per mantenere aperto il confine interno in Irlanda. Ma in un ragguardevole articolo un gruppo di autori, tra cui Norbert Röttgen e Jean Pisani- Ferry, sostiene che l’Ue dovrebbe ragionare in termini politici, non solo burocratici, e indica la necessità di una riflessione strategica sul futuro dei rapporti tra le due sponde della Manica in 5-10 anni — il che impone una riflessione anche sul futuro dell’Ue.
Se si vuole evitare il rischio di una " Weimar britannica", con le conseguenze negative per il resto d’Europa, i leader devono impegnarsi in questo dibattito strategico. E il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk farebbe bene a inserirlo nell’agenda del meeting dei leader Ue che si terrà a Salisburgo il 20 settembre. In preparazione, i leader europei non farebbero male a fare un ripasso di storia nelle ferie d’agosto, compresa quella europea del Novecento, in cui risuonano i campanelli d’allarme "Versailles" e "Weimar", ma suggerirei anche Il Sacro Romano Impero, opera magistrale di Peter Wilson. Il saggio dimostra che quella primitiva Unione Europea durò tanto a lungo perché seppe adattarsi al mutare delle circostanze, convivendo con le diversità e le complessità ineliminabili in Europa, senza porre deroghe alle sue finalità e alla sua fede. Credo possa essere di valido insegnamento nella realtà di oggi.
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere 28.7.18
«Salviamo il cibo italiano». La crociata di Donpasta, dj filosofo
Nel suo docufilm I villani storie e volti di produttori: «Basta piatti surgelati, stiamo perdendo le nostre radici»
di Gabriele Principato


Quattro storie per raccontare morte e rinascita della cucina italiana. Un viaggio da Nord a Sud, tra uomini e donne che coltivano, pescano, allevano e cucinano come mezzo secolo fa, salvaguardando involontariamente il «vero» sapore del cibo, fatto di biodiversità e tecniche antiche. «Il docufilm I Villani attraversa la giornata, dall’alba al tramonto, di persone comuni che hanno scelto di sfuggire alle logiche moderne coltivando, ad esempio, varietà di semi autoctoni (e non quelli che “impone” la globalizzazione), impedendo così l’uniformarsi del gusto e la perdita della nostra storia» racconta Daniele De Michele alias Donpasta, 44 anni, l’attivista e dj, celebrato anche dal New York Times, che da più di vent’anni gira il mondo mixando musica e cultura (gastronomica). Il docufilm I Villani — di cui ha seguito la regia, scritto il soggetto e curato la sceneggiatura insieme al regista Andrea Segre — con la voce narrante del vignaiolo dell’Oltrepò Lino Maga, antesignano dei vini naturali, sarà presentato in anteprima a Venezia a settembre come evento speciale delle «Giornate degli Autori», per poi arrivare nelle sale. E sarà un viaggio alla scoperta di persone che hanno scelto di vivere controtendenza. «Perché per mangiar bene bisogna rispettare i tempi della cucina, le stagioni, la terra e il mare, tutto ciò che la modernità non fa più», spiega Donpasta. C’è Totò, 27 anni, contadino siciliano che raccoglie i limoni e suona gli stornelli in dialetto imparati dal nonno. Ci sono Modesto e sua figlia Brenda, 40 e 18 anni, che in Campania allevano animali e producono il provolone con tecniche tradizionali. E ancora Luigina, 60 anni, che in Trentino raccoglie erbe selvatiche da vendere al mercato. E poi Santino e Michele, 50enni pescatori e allevatori di cozze a Taranto. Storie che De Michele ha scovato negli anni di lavoro che hanno portato al libro Artusi remix (Mondadori, 2014): una raccolta di ricette popolari, quelle delle nonne, che si stanno perdendo sostituite da sughi pronti e piatti surgelati. «La cucina italiana è amata nel mondo perché chi la assaggia capisce subito che nasconde un patrimonio. E I Villani — prodotto da Malìa e Rai Cinema — è un grido d’aiuto per salvaguardarlo».

venerdì 27 luglio 2018

il manifesto 27.7
Il dramma ordinario di vite straordinarie
Storia delle idee. «Il tempo degli stregoni» di Wolfram Eilenberger, per Feltrinelli. 1919: il bivio cronologico per pensatori come Wittgenstein, Heidegger, Benjamin e Cassirer. 1929: a Berlino Walter Benjamin, «giornalista free-lance», è alle prese con le sue disastrose finanze
Mark Riley, «Todtnauberg Diorama (Martin Heidegger's Hut)», 2016 (particolare)
di Marco Assennato


Ha ragione Angelo Bolaffi nell’indicare Il tempo degli stregoni come esempio di ottimo giornalismo filosofico. Nel volume, scritto da Wolfram Eilenberger e recentemente tradotto per Feltrinelli (pp. 401, euro 25), il decennio cruciale 1919-1929 diventa un teatro teorico nel quale si incrociano le biografie di quattro grandi filosofi del novecento europeo: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein. In una scrittura assai gustosa e non priva di intelligente chiarezza, Eilenberger intende restituire al lettore quella che, indubbiamente con troppa fretta, viene definita l’ultima rivoluzione del pensiero. Non si tratta, tuttavia, di un testo nostalgico bensì di una ricostruzione che ha l’ambizione di parlare all’Europa di oggi.
LA SCENA SI APRE sull’Hotel Belvedere di Davos – lo stesso in cui Thomas Mann ambientò la sua Montagna Incantata. Ma è il 29 marzo del 1929 e i saloni dell’Hotel si apprestavano ad ospitare uno dei più celebri confronti della storia della filosofia: quello tra Heidegger e Cassirer. Sarebbe prudente allora fermare qui il paragone con il grande romanzo manniano. Perché, seppure qualche somiglianza è riscontrabile tra la figura del filantropo liberale Luigi Settembrini e Ernst Cassirer, difensore della Repubblica di Weimar, nulla lega d’altra parte il gesuita e comunista di origine ebraica Leo Naphta – personaggio nel quale più di un interprete ha voluto vedere György Lukács – con Martin Heidegger, filosofo della Selva Nera. Non così, secondo Eilenberger, che insiste nel paragone fino al parossismo.
D’altra parte la costruzione narrativa del testo è assai dinamica: Eilenberger allarga le coordinate geografiche e stressa le sincronie. 1929: a Berlino Walter Benjamin, «giornalista free-lance», si arrabatta alle prese con la sua disastrosa condizione finanziaria ed emotiva e cerca di combattere teologicamente la mercificazione della vita e del pensiero; mentre a Cambridge Ludwig Wittgenstein pretende, di fronte a due frastornati giganti della logica analitica, di aver «risolto tutti i problemi della filosofia». Cosa lega questa costellazione di vite, pensieri, rapporti sociali? La centralità di quel confronto, dice l’autore, la tempesta sulle cime svizzere che presto scenderà in terra.
Quattro uomini, quattro itinerari del pensiero, un solo problema: una gigantesca analessi ci porta indietro di dieci anni per ricostruire la genealogia incrociata di una svolta teorica e poi tornare a convergere sulla disputa di Davos – intesa dunque come momento sorgivo della filosofia novecentesca. Dov’è l’attualità allora?
In fondo Cassirer e Heidegger discutono del più classico dei problemi filosofici, tipicamente kantiano: Che cosa è l’uomo? Quali le sue condizioni di conoscenza e di libertà? Tuttavia, dice Eilenberger, essi lo fanno sotto l’incombente pressione della crisi economica e finanziaria, tra i detriti della guerra e nel fango di quella «miscela esplosiva di anticapitalismo, anticomunismo e antisemitismo» che trascinerà, da lì a poco, l’Europa intera nella catastrofe. Il corpo a corpo teorico, giocato sul solco della filosofia neokantiana di Cassirer – «bersaglio di tutti i giovani filosofi in cerca di novità» – ha dunque questa reale, dura, posta in gioco: pensare nella crisi europea, tenersi dentro l’apocalisse della Kultur, nell’incontenibile tracollo delle ipocrisie liberali e borghesi.
Buona intuizione, certo, e corretta. In effetti, la stessa congiuntura agita il pensiero di Ludwig Wittgenstein: figlio della Wiener Moderne di Mahler, Hoffmansthal, Musil, Kraus, Freud, Mach, Rilke; e il cui Tractatus deve essere letto, in questo quadro, come «un testo essenzialmente etico» volto a dimostrare che «l’immaturità patologica della cultura moderna consista nel postulato secondo cui i veri problemi filosofici andrebbero affrontati con metodi verificabili».
NULL’ALTRO, D’ALTRO CANTO, occupa il Benjamin critico-distruttore del carattere borghese: quella coscienza lacerata che non cessa di autorappresentarsi come «colpevole-incolpevole nello spazio del destino». La colpa, il destino, l’eterogenesi dei fini della società liberale: cifre, queste, perfettamente riscontrabili nell’immobilismo ideologico della Repubblica di Weimar schiacciata, come fu, tra il debito imposto dagli Stati del grande capitale, la rivoluzione comunista, e le metastasi nazionalsocialiste.
Urgeva, allora, trovare parole nuove per rivolgersi a questa «generazione di reduci, traumatizzati dalla guerra e dalla sconfitta» e, come comprenderà presto Toni Cassirer (la moglie del rettore di Amburgo) l’enfasi sulla grande Bildung tedesca, la riformulazione della domanda kantiana in termini di analisi critica delle forme culturali, su base collettivo-razionale non potevano bastare: «per scuotere la Germania di allora ci volevano mezzi diversi».
DAVOS, COM’È NOTO, fu il trionfo di Heidegger contro Cassirer. Il chiasma pre-esistenzialista tra «le più astratte questioni metafisiche» e «il dramma dell’esperienza ordinaria», l’insistere sull’«origine» e sull’«angoscia» come squarci che aprono «un altro mondo», l’enfasi sull’«autenticità» contro la vita falsa, il mito del «radicamento» come balsamo e «dimora dell’essere» potevano apparire una sostanza critica sufficiente a spezzare tanto la cultura accademica, quanto i principi morali e gli ordinamenti liberali dell’idealismo tedesco.
Ma, per tenere questa tesi generale, il costrutto narrativo di Eilenberger si obbliga a forzature di ogni sorta: il grande liberale, ultimo eroe borghese e i suoi antagonisti selvaggi, dice Eilenberger. Il primo verrà sconfitto, è vero, ma l’heideggerismo porterà al nazismo e Benjamin morirà suicida. Solo Wittgenstein troverà la forza di ricominciare, ancora e ancora, a fare filosofia. Qui il testo scivola pericolosamente e sembra servirci la solita sbobba degli opposti estremismi, irrazionali, contro la saggia e moderata morale liberale della vecchia Europa (o il veleno neoliberale dell’Europa odierna). Benjamin e Heidegger, scrive Eilenberger, «entrambi aspirano a una svolta rivoluzionaria (…) pur di evadere dalla strada a senso unico della modernità». Bene: e tuttavia come si può confondere il Benjamin costruttivista, il comunista brechtiano, uomo compiutamente metropolitano, con il sacerdote dell’essere e la sua Hütte? Così il quadro appare bloccato.
IN DUE MOMENTI tuttavia, questo grosso e intrigante racconto, sembra capace di una qualche apertura: negli accenni alle ricerche che Warburg e Cassirer impostano sul Rinascimento, come momento aurorale del moderno: «il contrario dell’astrazione e della coscienza contro il corpo», piuttosto «una riconquista della libertà a partire da una visione scientifica del mondo, con una lucida consapevolezza dei suoi limiti ed equivoci»; e poi nel capitolo dedicato ad Hannah Arendt, sabotatrice segreta del progetto heideggeriano: «al solipsismo esistenziale dell’essere-proprio – ricorda Eilenberger – Arendt risponderà con una filosofia del nascere e della pluralità». Scoperta dell’altro, nascita, Amor Mundi, critica della ragione. Ben altre rivoluzioni del pensiero saranno necessarie a percorrere, a partire dal secondo dopoguerra, questa rinnovata riscoperta del reale.


giovedì 26 luglio 2018

La Stampa 26.7.18
Mattarella mette in guardia dal razzismo
“Veleno che penetra ancora nella società”
Il Capo dello Stato: anche i rom e i sinti tra le vittime delle Leggi Razziali del fascismo. Salvini: basta parassiti
di Francesco Grignetti


Era il 26 luglio 1938, ottanta anni fa: il Duce riceveva in pompa magna a palazzo Venezia alcuni tra gli scienziati più illustri d’Italia per la consegna del Manifesto della razza. A rileggerlo, c’è da rabbrividire: «La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana... Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Fu la premessa delle leggi razziali. E ieri Sergio Mattarella ha voluto ricordare quel passaggio orribile della nostra storia. «Questa presa di posizione - afferma il Capo dello Stato - rimane la più grave offesa recata dalla scienza e dalla cultura italiana alla causa dell’umanità».
Parla del passato, Mattarella, ma in tutta evidenza parla anche dell’oggi perché il virus del razzismo è sempre più forte anche oggi. Non è un caso che Mattarella rievochi la crudeltà verso le popolazioni africane nelle nostre colonie, la persecuzione dei cittadini di religione israelita e la caccia spietata a rom e sinti. «Quelle mostruose discriminazioni sfociarono nello sterminio, il porrajmos, degli zingari», dice il Presidente sulla scorta di un dossier che La Stampa ha potuto consultare negli archivi del Quirinale. Guai allora a dimenticare le scelte che gli italiani compirono nel 1938. «Il veleno del razzismo - conclude Mattarella - continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere e allarga le divisioni. Compito di ogni civiltà è evitare che si rigeneri».
E se non sfugge la coincidenza tra questa ricorrenza e l’animosità della maggioranza giallo-verde nei confronti di stranieri e zingari, il ministro Matteo Salvini svicola con eleganza. «Il Presidente Mattarella - dice - con le sue parole ricorda un passato che non dovrà mai più tornare. È folle e fuori del mondo ritenere una razza superiore a un’altra». Ma intanto, a proposito dei Rom, usa toni brutali: «In Italia ci sono 150 mila persone rom ma i problemi sono limitati a 30 mila che si ostinano a vivere nell’illegalità. Il problema è questa sacca parassitaria».

La Stampa 26.7.18
Fanfani e padre Gemelli firmarono contro gli ebrei
di  Fra. Gri.


A firmare il Manifesto della razza furono 10 scienziati, alcuni notissimi come Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia dell’Università di Roma, o Nicola Pende, direttore dell’Istituto di Patologia alla stessa Università. I loro nomi sono noti, anche se poi alcuni cercarono di sottrarsi alla responsabilità, e qualche storico ha ritenuto che le loro firme fossero state in qualche modo «sollecitate» dal regime, visto che era stato Mussolini stesso a ispirarne parole e concetti.
Grave fu però la corsa di tanti intellettuali, ben 330, ad aggiungere la propria firma a quello che chiaramente era un passaggio ispirato dal Duce. Uno fu padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un altro, il giovane professore di Storia economica Amintore Fanfani. Oppure il poeta Ardengo Soffici, lo scrittore Giovanni Papini, il giornalista Mario Missiroli, il critico cinematografico Luigi Chiarini. A dare spazio alle teorie del razzismo italiano nacque una rivista specifica, La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi, giornalista distintosi per le campagne antisemite promosse sulle pagine del giornale Tevere e per un libro dal titolo Contra Judeos. Caporedattore era Giorgio Almirante.

La Stampa 26.7.18
Fin dal 1926 respingimenti e allontanamenti forzati
di Fra. Gri.

È una pagina semi-ignorata della storia italiana, la persecuzione degli zingari che il regime portò avanti fin dal 1926 con respingimenti e allontanamenti forzati di Rom e Sinti stranieri. Il Viminale diramò circolari per «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell’igiene pubblica per le caratteristiche abitudini di vita».
Furono coinvolte le forze di polizia e le prefetture dell’Istria e del Friuli, in particolare, nel tentativo di sbarrare la strada ai gitani dei Balcani che nel loro nomadismo tentavano di entrare in Italia. E siccome a loro volta la polizia del confinante Regno di Jugoslavia si rifiutava di accettarli, sono accertati i respingimenti clandestini a opera della Guardia di Finanza presso certi valichi di frontiera incustoditi.
Con il 1938, Mussolini si convinse che occorreva la pulizia etnica degli zingari nelle regioni di confine, in quanto tutti potenziali spie del nemico. Furono fatti rastrellamenti e deportazioni. Dall’Istria e dal Trentino gli zingari furono portati al confino in Sardegna. Il 20 ottobre 1942 il nuovo prefetto istriano Berti poteva dichiarare che con le ultime deportazioni in Istria non c’era più un solo Rom. I confinati si poterono allontanare dall’isola soltanto dopo il 1945.

La Stampa 26.7.18
Un richiamo necessario per un Paese smemorato
di Amedeo Osti Guerrazzi


Sono parole molto forti quelle che vengono dal Presidente della Repubblica, una delle poche autorità morali ancora riconosciute dalla stragrande maggioranza della società italiana. E forse era ora. Non esiste nessun mito più radicato nella nostra opinione pubblica di quello degli «italiani brava gente»; sebbene sia stato sfatato dagli storici, il concetto che gli italiani siano stati, anche durante il fascismo, fondamentalmente «buoni» è duro a morire.
Se anche si dice che il fascismo «sbagliò» nell’emanare le leggi antiebraiche, è opinione comune che queste furono applicate «all’acqua di rose», e che in fondo gli ebrei «non se la passavano tanto male». Nulla di più falso. La persecuzione fu durissima, e colpì ogni aspetto della vita degli ebrei italiani, rendendo loro impossibile lavorare, avere amici non ebrei, accedere a una istruzione superiore. La persecuzione, anche se non sfociò in un massacro operato direttamente dagli italiani, fu estremamente dura, e dopo l’occupazione tedesca fu la necessaria premessa al collaborazionismo fascista, e alla deportazione e allo sterminio di oltre 7000 cittadini italiani di fede ebraica.
Ma il Presidente richiama l’attenzione anche sulla sorte di sinti e rom. Chi ricorda che anche loro sono stati vittime del razzismo fascista? Chi conosce i campi di concentramento di Boiano e Agnone, dove centinaia di «zingari» furono rinchiusi durante la guerra, considerati come soggetti pericolosi per la patria italiana? Chi sa che le condizioni in quei campi erano difficilissime?
Tutto questo ha voluto ricordare Mattarella. È un richiamo duro, amaro da mandare giù, ma necessario. Necessario per un Paese che, oltre a essere smemorato, sembra continuare negli errori del passato.

Corriere 26.7.18
Famiglia Cristiana, affondo su Salvini: «Vade retro» Lui: pessimo gusto
di Giuseppe Alberto Falci


ROMALa Chiesa risponde ai toni duri usati dal ministro dell’Interno Matteo Salvini sul tema dei migranti. E lo fa servendosi del settimanale Famiglia Cristiana, da oggi in edicola. Per replicare alle prese di posizione del titolare del Viminale sugli stranieri in Italia la copertina è inequivocabile. Si vede una mano che si leva verso il volto del leader del Carroccio, accompagnata da un titolo sotto che recita così: «Vade retro Salvini».
Quando la notizia della copertina del settimanale si diffonde e arriva nei palazzi della politica il ministro dell’Interno si trova al Senato. Non sa ancora nulla. A un certo punto, quando esce da un’audizione viene però preso d’assalto dai cronisti che gli riferiscono del titolo di copertina. Salvini è sorpreso, non si aspettava un’uscita di tale portata. «Ciumbia, addirittura Satana?», è la reazione. Poi si ferma un attimo, riflette qualche secondo, e replica ancora.
Se c’è una cosa che non accetta è quella sentirsi paragonare a Satana. Infatti sbotta: «Mi sembra di pessimo gusto. Io non pretendo di dare lezioni a nessuno, sono l’ultimo dei buoni cristiani, ma non penso di meritare l’accostamento al diavolo». Il che lo induce a far sapere di «avere quotidianamente il sostegno di tante donne e uomini di Chiesa. C’è modo e modo di pensarla anche all’interno delle gerarchie ecclesiastiche. Il catechismo — chiosa — dice che l’accoglienza è un dovere nella misura del possibile ed in Italia la misura è colma». Dopo l’ennesima tragedia in mare il settimanale apre l’inchiesta con le riflessioni della Conferenza episcopale e ricorda i 1.490 morti dal 1 gennaio 2018. «Come pastori non pretendiamo di offrire buone soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti...».
L’obiettivo di Famiglia Cristiana è certamente Salvini ma il condirettore Luciano Regolo, precisa in un video, che «non c’è nulla di personale, nulla di ideologico».
La notizia fa il giro del palazzo e scatena in un attimo la reazione degli avversari dell’inquilino del Viminale. In particolare è l’ex premier Matteo Renzi il primo a reagire: «Se in campagna elettorale mostri in modo strumentale il rosario. Se fai finta di giurare sul Vangelo. Se fai le battaglie per il crocifisso nelle sale pubbliche. Se fai tutto questo, non hai il diritto di arrabbiarti per una copertina di Famiglia Cristiana». Poi tocca a Ettore Rosato: «Non capita di frequente che il giornale cattolico scenda in campo così vistosamente».
Roberto Fico, presidente della Camera e critico nei confronti di Salvini, preferisce non replicare: «Non commento». Dura invece la leghista Barbara Saltamartini: «Spiace constatare che Famiglia Cristiana sia diventato un organo di stampa politico. Oggi paragonare Salvini a Satana significa schierarsi dalla parte degli scafisti e dei commercianti di esseri umani».

Corriere 26.7.18
Torre del Greco (Napoli)
A Massimo Cacciari il premio «La Ginestra» dedicato a Leopardi


All’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, filosofo e docente universitario, è stato assegnato ieri il Premio nazionale «La Ginestra». Il riconoscimento, nato per celebrare la figura di Giacomo Leopardi, è dedicato a personalità della cultura, del teatro e dello spettacolo che si sono distinte nello studio e nella divulgazione dell’opera del grande poeta di Recanati. A Cacciari il comitato scientifico ha riconosciuto di «aver rinnovato potentemente la riflessione filosofica, portando il pensiero a misurarsi, in un processo mobile e continuo, con i suoi stessi fondamenti».
L’ex sindaco di Venezia, autore di una ricca produzione scientifica — basti pensare ai suoi più recenti saggi Labirinto filosofico (Adelphi) e Generare Dio (il Mulino) — ci porta «nel cuore del pensiero poetante di Leopardi e ne restituisce la straordinaria ricchezza e il fascino permanente». La cerimonia di premiazione è prevista per il 13 settembre a Torre del Greco (Napoli), nella villa delle Ginestre, dove Leopardi soggiornò dal 1836 al 1837 e compose alcune delle sue liriche più famose, tra cui La Ginestra e Il tramonto della Luna. La manifestazione, giunta all’undicesima edizione, è organizzata dal Rotary Club «Torre del Greco-Comuni Vesuviani».

il manifesto 26.7.18
Il Comune di Roma dà il benservito alla Casa delle donne
Il tetto che scotta. Ieri l’annuncio della revoca della convenzione con scadenza nel 2021. 60 giorni di tempo per impugnare la decisione. «Ci opporremo con tutte le forze»
di Alessandra Pigliaru


La notizia è giunta ieri nel pomeriggio: il Comune di Roma revoca la convenzione alla Casa internazionale delle Donne. Il direttivo di via della Lungara è stato convocato appunto ieri nella sede dell’assessorato al patrimonio alla presenza delle assessore Laura Baldassarre, Rosalba Castiglione e Flavia Marzano, che hanno annunciato quanto stabilito alla presidente Francesca Koch, Lia Migale, Giulia Rodano, Maria Brighi e Loretta Bondì. Attendevano da mesi, insieme alle migliaia che si sono mobilitate in sostegno della Casa, la risposta relativa alla memoria presentata a gennaio sulla riduzione del debito (833mila euro) richiesto con insistenza dal Comune che tuttavia non teneva conto dei servizi offerti, delle spese ordinarie e straordinarie sostenute dalla Casa. A niente sono valse le trattative intercorse in questi mesi, poi bruscamente interrotte grazie anche alla mozione firmata da Gemma Guerrini, consigliera e presidente della Commissione delle elette, presente anche lei ieri per notiziare a proposito della revoca della convenzione.
Non sono valse a niente neppure la pazienza, il tentativo di mediazione, la presa in carico di una responsabilità economica di saldare la morosità trovando un punto di incontro sensato. Così come a niente è servita la disponibilità espressa, nei mesi delle (finte) trattative, alla partecipazione a progetti che potessero consolidare il rapporto che dal 1992 la Casa ha con Roma Capitale che l’ha riconosciuta tra le sue opere. Servizi, spese vive sostenute, sia ordinarie che straordinarie, anche supplendo carenze delle istituzioni, sono tutte questioni che alla giunta 5stelle non interessano. Dunque memoria respinta in nome di una strada, che è quella della burocrazia, lasciando da parte, sempre, quella della politica. Ma è davvero così? Non si tratta di un «semplice» sfratto dai locali del Buon Pastore, la vicenda è ancora più grave di così proprio perché il merito è tutto politico. Si tratta dell’azzeramento, e conseguente appropriazione, di una esperienza attraverso cui il progetto della Casa è sorto, trasformandosi negli anni. Mettere a bando i servizi, rilanciare su ipotetici centri di coordinamento antiviolenza, non tiene conto del significato sotteso alla Casa. Sociale, culturale ma anzitutto politico. Ed è in quest’ultimo punto che la giunta 5stelle vuole intervenire, agendo in maniera dissennata e non tenendo conto di quante e quanti dalle piazze alle università, dall’Italia e dal resto del mondo, firmano petizioni, fanno appelli, manifestazioni, chiedono di essere ascoltati e ascoltate, sottoscrivono affinché possano mostrare sostegno pubblico e concreto a un progetto che è uno dei fiori all’occhiello di Roma e non solo. Non si può che rispondere a tutto questa violenta e unilaterale presa di posizione con una secca e ferma mobilitazione che non arretri di una virgola sul guadagno di libertà che risiede in luoghi come la Casa internazionale delle donne.
In un comunicato stampa diffuso ieri, le esponenti del direttivo presenti alla riunione, dicono infatti che faranno «opposizione a tutto campo. Non possiamo – proseguono – non rilevare che l’annuncio della revoca della Convenzione avviene alla vigilia di agosto, nella peggiore tradizione di ogni vertenza pubblica e privata nel nostro paese. La Casa Internazionale delle donne e tutte le attività e servizi che al Buon Pastore vengono erogati rischiano la chiusura a causa di questo ulteriore incomprensibile attacco della giunta Capitolina al femminismo e alla vita associata a Roma; noi abbiamo proposto una transazione che chiuda definitivamente la questione del debito; grazie al grande sostegno che abbiamo ricevuto con la Chiamata alle arti e con la grande mobilitazione in Campidoglio del 21 maggio, c’è a Roma e nel paese la consapevolezza di quanto negativo e grave sarebbe scrivere la parola fine alla esperienza della Casa Internazionale delle donne. Ci sentiamo per questo di chiedere a tutte e a tutti di sostenerci, di continuare la campagna di solidarietà e anche di sottoscrivere». Sembra incredibile ma una volta di più la giunta Raggi stupisce per totale mancanza di presa sulla realtà. E per sordità, prima di tutto politica.

La Stampa 26.7.18 Leonardo Coen
Un falso d’artista o un autentico sudario? La disputa scientifica sulla Sindone di Torino – che secondo la tradizione cristiana avrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la morte – dura da decenni. L’ultimo capitolo lo hanno scritto gli italiani Matteo Borrini e Luigi Garlaschelli: in base a esperimenti realizzati secondo le tecniche dell’antropologia forense, le tracce di sangue non sarebbero compatibili con la posizione del corpo, né sulla croce, né disteso nel sepolcro. Non è la prima volta che si dibatte sulle tracce ematiche. Ne abbiamo parlato con Garlaschelli e con il professor Baima Bollone, medico legale sostenitore dell’autenticità della Sindone


Intervista 1 “Tracce ematiche certamente irreali. Il telo è un dipinto”
Professor Garlaschelli, avete dissacrato la reliquia più famosa del mondo?
Non sono uno smontamiracoli. Non è colpa mia se in Italia vanno così forte. La Sindone è un oggetto misterioso per antonomasia. Io sono uno scienziato curioso. Non sono un credente. Ma Borrini lo è. Anzi, ha insegnato in Vaticano.
Cosa?
Un corso per esorcisti.
Curioso…
Curioso che nessuno si sia domandato perché sul lenzuolo della Sindone ci siano quei rivoletti di sangue così belli, didascalici. Si vede a occhio che non sono realistici. È un’opera pittorica.
Dicono che le vostre conclusioni siano frutto di un pregiudizio antireligioso.
Fu il cardinale Ballestrero a dire, a proposito degli studi sulla Sindone, che le ragioni della scienza spesso non coincidono con quelle del cuore. La Chiesa ufficialmente non prende posizione. Poi, nei fatti, dà spazio sostanzialmente ai sindonologi…
Che vi vedono come fumo negli occhi…
Abbiamo utilizzato tecniche e protocolli recenti di indagini forensi: per simulare la crocifissione con croci di forme e tipi di legno diversi, analizzando svariate posizioni del corpo, compreso quelle delle braccia. Ci siamo comportati come se avessimo dovuto ricostruire una scena del crimine. Per capire come potevano formarsi le macchie di sangue su polsi, avambracci; o quelle sul costato; ai piedi… insomma, le macchie che si vedono sulla figura della Sindone.
I sindonologi affermano che il vostro lavoro non è serio a livello scientifico.
Sapevamo che avremmo suscitato un vespaio: sollevato soprattutto da un piccolo gruppo di sindonologi fanatici che attribuiscono alla Sindone un’origine che ha più a che fare con la fede che con la scienza, contro ogni evidenza. Il nostro è stato un lavoro scrupoloso, il mio collega è un antropologo famoso e molto apprezzato.
Altra obiezione: studi di questo tipo erano stati già tentati.
In parte. Nessuno, però, ha fatto prove sperimentali.
Vi accusano di non aver tenuto conto che il sangue di un uomo flagellato, ferito, colpito e poi crocifisso scorre a velocità e piglia direzioni diverse da quelle provocate nei vostri esperimenti, con un manichino e in posizione inerte.
Il sangue che cola non è coagulato e se coagulato non colerebbe: che sia più o meno vischioso, non cambierebbe direzione. L’andamento delle macchie dimostra che le tracce non sono coerenti, fa supporre che siano state lasciate in momenti diversi. Se qualcuno riuscisse a spiegarlo… Le faccio un esempio. La famosa ferita sul costato, provocata da una lancia: ebbene, il sangue cola in lunghi e separati rivoli, va a finire sotto la scapola e lì si accumula. Non arrivava alla regione dei reni, per formare la cosiddetta ‘cintura’. Sia che il corpo fosse sdraiato nel sepolcro, sia sulla croce, le macchie sui polsi e sulla regione lombare non avevano una spiegazione logica.
Morte e resurrezione: le avete immaginate come sono state raccontate nei Vangeli?
Abbiamo seguito la narrazione tradizionale, supponendo tutta una serie di eventi e quel che avrebbero comportato, non analizzando la sostanza che ha formato le macchie di sangue, ma verificando come potrebbero essersi formate nella figura della Sindone. La scienza procede per ipotesi.
Che idea vi siete fatti della doppia immagine impressa in negativo sul tessuto di lino della Sindone?
L’immagine pare una sorta di proiezione ortogonale, troppo bella per essere vera. Mi spiego: provando a riprodurla su un lenzuolo delle dimensioni identiche a quelle della Sindone, ne esce fuori un’immagine deformata. Quella che vediamo è piuttosto una rappresentazione.
Intervista 2 “Ma un manichino  non sanguina come  un uomo torturato”
Professor Baima Bollone, secondo gli esperimenti di Borrini e Garlaschelli molte macchie di sangue della Sindone risulterebbero irrealistiche.
Le loro conclusioni si basano su un metodo di tecnica di medicina forense – il BPA – che ha dato luogo a diversi errori giudiziari e che è stato sconfessato dall’Accademia Statunitense delle Scienze.
Però la relazione sulla simulazione della crocifissione, per verificare come potrebbero essersi formate le macchie di sangue sulla figura della Sindone, è stata pubblicata dal Journal of Forensic Sciences, una rivista prestigiosa del settore…
Infatti è una delle riviste fondamentali.
Se il metodo utilizzato, come dice lei, non è affidabile, non dovrebbe avere rigore scientifico e non avrebbe dovuto apparire su una rivista così…
Premetto che si tratta di due studiosi stimabilissimi e che non sono polemico: io faccio il mio mestiere, in questo mondo c’è spazio per chiunque. Sulla Sindone c’è una sterminata letteratura scientifica e non. C’è di tutto. Studi con pregiudizi e studi senza. Nel caso specifico, il loro lavoro mi è sembrato un po’ a tesi.
In che senso?
Per esempio, l’illustrazione della Sindone che hanno utilizzato per l’esperimento è del 1931: da allora la tecnica fotografica ha fatto passi da gigante. Fossero venuti da me, gli avrei fornito immagini più recenti e dettagliate.
Hanno detto di aver utilizzato fotografie in scala reale, in altissima risoluzione.
Bastava che contattassero e avrebbero evitato alcune ingenuità.
Quali?
Intanto, hanno usato un metodo obsoleto; poi non hanno tenuto conto nella simulazione che il sangue dell’uomo crocifisso era sottoposto a stress, quindi, soggetto a fuoruscite ben diverse da quelle di un uomo in condizioni normali. Un’altra grossa sciocchezza riguarda la posizione, immaginare cioè una persona che stesse assolutamente immobile, quando invece, prima di morire, aveva riportato lesioni, traumi, ferite in differenti parti del corpo. Certamente, nell’atto dell’esecuzione, lo choc ipovolemico è tale da comportare flussi di sangue diversi, così come è diversa la viscosità.
Borrini e Garlaschelli hanno individuato delle incongruenze, a proposito di alcune macchie come quella che forma una cintura nella regione lombare. Dicono che somiglia a un segno fatto con un pennello o un dito. Che sia cioè un falso.
Non si può pensare al crocifisso simmetrico come siamo abituati a vederlo. Nel caso dell’uomo della Sindone, il gomito del braccio destro è piegato ad angolo acuto, mentre l’altro è disteso a 45 gradi. Ecco perché apparentemente molte macchie ematiche non trovano giustificazione….
Borrini e Garlaschelli sottolineano che le loro conclusioni sono in linea con le analisi già esistenti, come la datazione al radiocarbonio misurata nel 1988: la Sindone sarebbe un prodotto artistico medievale, risalirebbe tra il 1260 e il 1320…
A quella datazione col carbonio C14 non crede più nessuno. L’esame potrebbe essere stato falsato dalle vicissitudini della Sindone.
Eppure coincide con la prima apparizione pubblica (in Francia), avvenuta nel 1353, un bel mistero…
Si è parlato persino di Templari, tornati dalle crociate con il lenzuolo sacro. Esistono, in effetti, numerosi indizi che vanno molto più indietro nel tempo. L’imperatore bizantino Giustiniano II, per esempio, nel 692 fa coniare alcune monete d’oro e d’argento su cui rappresenta un volto di Gesù che è assai simile a quello della Sindone, persino con le sue macchie di sangue. Nel Codice Pray, una preziosa collezione di manoscritti medievali che si trovano alla Biblioteca Nazionale Széchényi di Budapest e che risalgono al 1192, c’è un disegno che evoca il tessuto della Sindone.

La Stampa 26.7.18
L’Italia “testarda” scopre vita su Marte
Pianeta rosso - Un lago salato sotterraneo
L’Italia “testarda” scopre vita su Marte
di Giunio Panarelli


e?” si chiedeva già nel 1973 David Bowie nella sua celebre Life on Mars. Ieri a dare una risposta a questo interrogativo che nel corso degli anni, oltre a ispirare il Duca Bianco, ha sempre affascinato l’opinione pubblica, è arrivato l’annuncio della scoperta di un lago, dal diametro di venti metri sotto i ghiacci del Polo Sud del pianeta rosso, che pare avere tutti i requisiti per ospitare vita al suo interno. Il lago si trova a circa un metro e mezzo sotto terra, è formato da acqua salata ed è protetto dai raggi cosmici: questi, dicono gli autori della ricerca, sono elementi che potrebbero addirittura far pensare anche a una nicchia biologica.
A rivelare la sua esistenza è stato il radar Marsis che dal 2003 orbita attorno al pianeta rosso a bordo della sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea. Ma se lo strumento è europeo, la scoperta è il risultato della collaborazione fra vari enti, tutti italiani: l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), le Università Roma Tre, Sapienza e Gabriele d’Annunzio (Pescara) e il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) che, nonostante i pochi mezzi a disposizione, hanno portato a termine una scoperta, pubblicata sulla rivista Science, destinata a rivoluzionare il futuro dell’esplorazione marziana. “Non troverete nulla, è impossibile guardare sotto Marte a quelle profondità. Il magnetismo delle rocce confonderà il radar, ci dicevano gli americani. Ma noi in silenzio facevamo e rifacevamo i nostri calcoli. Quanta testardaggine ci abbiamo messo”: hanno ricordato presentando la scoperta Elena Pettinelli, Enrico Flamini e Roberto Orose i tre scienziati senior che hanno gestito il team composto da 22 persone a cui sono arrivate anche le congratulazioni degli inizialmente scettici colleghi americani. Quest’ultimi hanno avuto da una parte il merito nel 1976 di compiere le missioni Viking sul pianeta rosso i cui dati indicavano con chiarezza che in passato Marte aveva avuto laghi, fiumi e mari, ma il demerito di non credere fino in fondo nella possibilità di trovare delle presenze di acqua ancora esistenti sul pianeta.
Infatti Roberto Orosei, sempre ieri, ha rivendicato come gli statunitensi “nel 2007 rilevarono un segnale simile, non lontano dal lago che abbiamo visto noi” ma “l’osservazione finì nel nulla”. Insomma per rispondere alla domanda iniziale: sì, c’è vita su Marte e se lo sappiamo non lo dobbiamo, per una volta, ai soliti ricercatori dai budget milionari della Nasa, ma a dei coraggiosamente testardi ricercatori italiani.

La Stampa 26.7.18
Moavero si smarca da Salvini sulla Crimea
“L’Italia non riconosce l’annessione di Mosca”
di Maria Corbi


Una politica estera italiana a due marce, quella di Matteo Salvini che difende la legittimità del discusso referendum sull’annessione russa della Crimea e quella europea di Enzo Moavero Milanesi che ieri, rispondendo a una domanda di Laura Boldrini durante il question time in Parlamento, ha chiarito la posizione sulla Crimea: «Il governo ritiene che vadano sempre rispettate le regole del diritto internazionale e l’Italia non ha riconosciuto le autorità regionali designate nel marzo 2014, aderendo alle sanzioni in accordo con quanto stabilito dall’Ue». Una dichiarazione che sconfessa quanto detto solo pochi giorni fa al «Washington Post» da Matteo Salvini che si era «allargato» su una questione che certo non è di competenza del suo ministero.
Moavero si era seccato per questa marcatura a gamba tesa del suo compagno di squadra. Ancora di più ovviamente si è seccato il governo ucraino che ha convocato in tutta fretta il nostro ambasciatore Davide La Cecilia per protestare e chiarire questa svolta nell’indirizzo della politica estera italiana. Il silenzio del ministro Moavero non ha certo aiutato, fino a ieri . E le sue parole adesso non lasciano spazio a interpretazioni, riportando l’Italia sulle posizioni europee. Anche per quanto riguarda le sanzioni alla Russia, di cui Lega e M5S più volte hanno prospettato l’eliminazione. «La posizione dell’Italia al Consiglio europeo – ha detto il ministro degli Esteri – è stata di non opporsi al consenso, e di consentirne quindi la proroga semestrale». «Sanzioni che devono avere un carattere strumentale per ottenere il rispetto degli accordi relativi al diritto internazionale. Non sono una punizione, ma devono servire al ripristino della situazione corretta», ha aggiunto riferendosi all’applicazione degli accordi di Minsk per mettere fine al conflitto tra Kiev e i separatisti filo-russi.
Laura Boldrini, autrice della domanda, ha sottolineato come la dichiarazione di Moavero di fatto smentisce quanto detto da Matteo Salvini. Una posizione che avrebbe messo l’Italia «in totale isolamento rispetto alla comunità internazionale. Le maldestre incursioni di Salvini in politica estera oltre a evidenziare le contraddizioni di questo governo creano imbarazzo e rischiano di far perdere credibilità al Paese». Salvini, dice ancora la parlamentare di Leu, «è sovranista a fasi alterne visto che non considera degna di tutela l’integrità della Crimea».
Perplesso sul doppio binario su cui sembra marciare il governo in politica estera anche Maurizio Gasparri, senatore di FI: «Qual è quindi la posizione del governo? Quella della Farnesina o quella di chi gerarchicamente ha un grado più elevato?. Più che un governo una gita scolastica, dove ognuno fa quello che vuole».

La Stampa 26.7.18
Le ultime 4 note di Bach
Nell’Arte della fuga un gioco di numeri e di relazioni segrete
di Sandro Cappelletto


Nella prima edizione a stampa dell’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach compare una misteriosa avvertenza: «Il signor autore della presente opera, a causa della malattia agli occhi e della morte che poco dopo lo ha colto, non ha potuto portare a termine l’ultima Fuga, nella quale egli si faceva conoscere col proprio nome».
Le quattro lettere che formano il nome Bach corrispondono nella notazione musicale che ancora usano gli anglosassoni e i tedeschi a quattro note. Loro non chiamano le note come noi - do re mi fa sol la si - ma con le lettere: B corrisponde al si bemolle, A al la, C al do, H al si naturale. Bach: quel nome è già musica. L’ultima fuga inizia con quelle quattro sue note. E non finisce.
L’arte della fuga, un’opera incompiuta. Ma prima ancora un paradosso. L’arte è soggettività, estro, invenzione. La Fuga musicale è un meccanismo inesorabile, con le sue rigide regole da rispettare. Come un’equazione: se salti un passaggio, non la risolvi. Come fa una fuga a diventare arte?
Un flop commerciale
Il titolo non è di Bach, l’ha deciso il figlio Carl Philipp Emanuel, uno dei suoi 20 figli, 7 dal primo, 13 dal secondo matrimonio. O forse è nato dalla fantasia di Friedrich Wilhelm Marpurg, un compositore e brillante critico al quale i Bach-figli si rivolgono dopo la morte del padre nel tentativo di far cassa stampando e vendendo le sue opere. In ogni caso, è un titolo postumo: Bach muore il 28 luglio 1750, a 65 anni, e il 7 maggio 1751 sul giornale di Lipsia, la città dove la famiglia vive da 30 anni, appare questo avviso: L’arte della fuga può essere prenotata «pagando in anticipo 5 talleri presso le migliori librerie della Germania, e a Lipsia anche presso la vedova, la signora Anna Magdalena». Il termine ultimo per la prenotazione è fissato al 29 settembre, giorno della grande Fiera di San Michele.
Nonostante il lancio pubblicitario, cinque anni dopo erano state vendute soltanto 30 copie. Il prezzo intanto era sceso da 5 a 4 talleri e il ricavato non bastò neppure per ripagare il costo delle lastre di rame usate per la stampa. Un flop. L’arte della fuga non prevede nessun luogo, nessuna data per la prima esecuzione. Cantate, Passioni, Messe, Oratori, Magnificat: per tutta la vita Bach ha scritto musica su commissione, rispettando obblighi, scadenze, festività, anniversari. I suoi ritmi compositivi sono inimmaginabili rispetto a quelli di un compositore nostro contemporaneo.
Come se dicesse: fate voi
Qui no. L’arte della fuga non gli è stata comandata da nessuno, non è dedicata a nessuno. Nasce dalla sua libertà e dalla sua scienza. Sullo spartito Bach non indica quali strumenti debbano suonarla. Come se dicesse: fate voi. E i musicisti si sono sentiti liberi di darle vita in mille modi diversi: col clavicembalo, col pianoforte, con l’organo, con un quartetto d’archi, con un quartetto di sassofoni, solo con violini, solo con viole, solo con violoncelli, con un’intera orchestra. La riconosci sempre, funziona sempre.
Ma torniamo a quell’avvertenza, forse scritta dal figlio, forse dall’astuto Marpurg: siccome l’autore è morto proprio a questo punto, allora abbiamo deciso di «rendergli omaggio introducendo a chiusura dell’opera il corale a quattro voci che egli, ormai cieco, aveva dettato a un amico». Ma come? Se Johann Sebastian malato, cieco, ha avuto la forza di «dettare a un amico» un Corale a quattro voci, non poteva trovarla anche per dettare il completamento dell’ultima fuga? Certo che poteva, ma non ha voluto. Una fuga musicale è come una spirale, come un disegno di Escher che moltiplica un’immagine all’infinito. È come i numeri, che non hanno mai una fine. Anche al numero più lungo, più immenso, più inconcepibile puoi sempre aggiungere: più uno.
14 e il doppio di 14
I numeri: prendiamo il cognome Bach e trasformiamo le lettere dell’alfabeto in numeri: B è la seconda, A la prima, C la terza, H l’ottava lettera dell’alfabeto: 2 + 1 + 3 + 8 fa 14. Bach era iscritto come membro numero 14 della Società per la Scienza musicale di Lipsia, che forse è la sola possibile, segreta dedicataria di quest’opera. E nell’Arte della fuga si ferma al Contrappunto numero 14.
Johann Sebastian Bach: le iniziali del suo nome e cognome sono J – S – B. Ma a lui piaceva firmarsi anche con altre tre lettere S - D - G: Soli Deo Gloria, Gloria all’unico Dio. La somma delle tre lettere J, S e B dà lo stesso numero della somma di S, D e G.: 28; 28, il doppio di 14. Bach due volte. I numeri e le loro relazioni segrete. L’ultima nota dell’ultimo incompiuto quattordicesimo Contrappunto dell’Arte della fuga, dove Bach si interrompe così bruscamente da toglierti il respiro, cade alla battuta 239. 2 + 3 + 9 fa 14. Nulla accade per caso.
Cieco e anziano
Come se avesse voluto dirci: io, cieco e anziano, mi sto avvicinando al momento del congedo, continuate voi, questo è il testimone che vi lascio. Bach: il suo cognome in tedesco significa ruscello, torrente. Ma Beethoven ha scritto che bisognerebbe chiamarlo mare, oceano. Un fiume, un mare di musica che è capace di portare con sé, e a noi, la felicità più profonda, misteriosa e indicibile. Johann Sebastian Bach, rigoroso come un matematico, fantasioso come un giocoliere. Continuate voi L’arte della fuga. Fai presto a dirlo. Chi osa mettere le mani su questa partitura? Meglio, molto meglio lasciarla com’è. Perfetta e incompiuta.

Repubblica 26.7.18
Bob Dylan, la prima volta di "Blowin’ in the wind"
di Ernesto Assante


ROMA Bob Dylan aveva 20 anni, era scapigliato, con la chitarra in braccio sul palco del Gerde’s Folk Culb il 16 febbraio del 1962. Stava per uscire il suo primo album (nel marzo seguente), doveva tenere un piccolo concerto: cinque canzoni in tutto, l’ultima delle quali era Blowin’ in the wind.
Quella esecuzione, la prima dal vivo della leggendaria canzone che sarebbe stata pubblicata solo l’anno seguente, è parte di Bob Dylan Live 1962- 1966, che esce domani e raccoglie alcune straordinarie gemme.
Rarità che fino ad oggi erano uscite solo in Giappone, 29 tracce che raccontano il Bob Dylan degli esordi e lo accompagnano fino al clamoroso abbandono delle scene del 1966, dopo la "svolta elettrica". Blowin’ in the wind, che apre la raccolta, è ancora soltanto abbozzata, composta solo di due strofe, ma non è l’unica "chicca" di questo straordinario insieme di perle rare: c’è una bellissima Masters of war registrata il 26 ottobre del 1963 alla Carnegie Hall di New York, c’è When the ship come in cantata da Dylan e Joan Baez alla marcia di Washington del 28 agosto del 1963, poco prima che Martin Luther King aprisse il suo discorso con le parole I have a dream. Ci sono le prime esibizioni in Inghilterra nel 1964 e quelle del maggio del 1966, quando con gli Hawks (che di lì a poco sarebbero diventati The Band) aveva "attaccato la spina", era diventato elettrico e scatenava l’ira dei puristi del folk. I brani che hanno fatto la storia sono tanti, da It’s all over now a Desolation row, da The times they are a- changing a It ain’t me babe, ma l’album è costruito come un avvincente racconto cronologico e permette di seguire la crescita del ventenne Dylan, da piccolo folksinger a portavoce di una generazione, in soli due anni, l’arricchirsi della sua musica, il poetico complicarsi dei suoi testi, le molte voci diverse con le quali interpreta sentimenti e passioni, visioni e storie, dal 1962 al 1966. Dopo questi concerti Dylan scomparve dalle scene per venti mesi. Quando tornò in concerto nel 1968 il vecchio Dylan, quello raccontato da questo album, non c’era già più.

La Stampa 26.7.18
Prete sorpreso in auto con una bambina: arrestato. Il testimone: “Lei aveva i pantaloni giù”
Calenzano: a notare il sacerdote un residente, che poi ha chiamato i vicini: evitato il linciaggio. La Procura di Prato ha scelto per lui la misura degli arresti domiciliari


È stato sorpreso in auto con una bambina di 10 anni e ha rischiato il linciaggio. Dentro quella macchina un prete di 70 anni della provincia di Firenze, don Paolo Glaentzer, poi fermato dai carabinieri e portato in caserma. La Procura di Prato, che segue il caso, ha scelto per lui la misura degli arresti domiciliari.
Il testimone: “La bambina aveva i pantaloni abbassati’” 
L’episodio, secondo quanto ricostruito, è accaduto lunedì intorno alle 22,30 in un parcheggio dietro ad un supermercato di Calenzano. Un residente della zona ha notato i due in auto in una zona buia. Insieme al padre si è avvicinato alla macchina e, dopo avere visto la piccola con i pantaloni abbassati, ha aperto lo sportello e fatto uscire la bambina avvisando anche i vicini. “La piccola aveva i pantaloni e la maglietta tirati giù e noi - racconta l’uomo che è intervenuto - abbiamo bloccato il prete”. L’uomo smentisce le voci di parapiglia “nonostante tutti i vicini lo volessero linciare”. Sul posto anche sanitari del 118. Per la bambina, seguita da tempo dai servizi sociali, è stato disposto un sostegno psicologico.
Il prete si difende 
Il sacerdote arrestato, interrogato dai carabinieri e difeso dagli avvocati Filippo Bellegamba e Valeria Fontana, avrebbe dichiarato anche di intendere il suo rapporto con la bambina come una relazione affettiva, e che sarebbe stata sempre lei a prendere l’iniziativa. Gli episodi, più di uno, sarebbero avvenuti sempre nella sua auto, durante il tragitto tra la parrocchia e la casa della bambina, sua parrocchiana, a cui lui avrebbe dato assistenza vista la situazione disagiata della famiglia.
- LEGGI TUTTE LE NOTIZIE SU IL TIRRENO -
qui
http://iltirreno.gelocal.it/prato


Repubblica 26.7.18
Firenze
Trovato in auto con una bambina e don Paolo sfugge al linciaggio
di Laura Montanari e Luca Serranò


FIRENZE Ha capito tutto un vicino di casa: «Quella bambina che a tarda sera era chiusa in macchina col prete, mi ha insospettito». Così è andato a controllare e le ombre sono diventate una brutta storia. Calenzano, paese di confine tra Prato e Firenze. Il sacerdote è stato arrestato per violenza sessuale aggravata nei confronti di una bambina di 10 anni. Ha rischiato anche il linciaggio, l’altra notte, quando dai palazzi di quella periferia, in diversi sono scesi in strada. Paolo Glaentzer, 70 anni, romano, frate benedettino, in Toscana da tempo, sacerdote di una piccola e sperduta chiesa fra gli olivi della collina, è rimasto immobile, con la testa bassa dentro l’auto mentre la gente lo insultava e i carabinieri stavano per arrivare. Poi le lacrime e, più tardi, davanti al magistrato della procura di Prato, l’ammissione che non era la prima volta, c’erano stati altri tre o quattro approcci negli ultimi due o tre mesi. Sempre con la stessa bambina.
Il prete la conosce bene, l’ha vista nascere, la sera di lunedì ha cenato a casa di lei e i genitori. Succedeva spesso. La Procura gli ha concesso gli arresti domiciliari vista l’età, stamattina a Prato ci sarà l’udienza di convalida. « Era una relazione affettiva, ha preso lei l’iniziativa » , ha detto don Paolo lasciando di stucco gli inquirenti. La bambina e la sua famiglia sono da anni seguiti dagli assistenti sociali: « Che vergogna, mi fidavo di quel prete » si tormenta il padre della piccola.
Le indagini coordinate dal procuratore Giuseppe Nicolosi proseguono ora per definire i contorni di una vicenda che ha molti aspetti da chiarire: bisogna stabilire, per esempio, se altre giovani vittime siano finite nella rete di abusi, se qualcuno sapeva e ha taciuto. La bambina al momento è rimasta in famiglia ed è assistita da uno psicologo. « Avevamo capito da tempo che qualcosa non andava — raccontano alcuni vicini — in quella casa c’era un via vai di persone strane, avevamo anche segnalato la cosa». La curia di Firenze ha sospeso il sacerdote. I carabinieri hanno perquisito la canonica e sequestrato computer e cellulare. Secondo le prime informazioni, gli investigatori non avrebbero però trovato elementi utili alle indagini. Paolo Glaentzer, discendente di una nobile famiglia, capellanno di un misterioso ordine teutonico, è incardinato in una diocesi del Lazio e risulta formalmente ospite della curia fiorentina. In una nota quest’ultima, « esprimendo piena fiducia negli inquirenti » e vicinanza alla piccola, ha precisato che «non erano mai arrivate informazioni o segnali che potessero lasciare intuire condotte deplorevoli né tanto meno comportamenti penalmente rilevanti » . In passato la bambina, viste le condizioni di disagio della famiglia, era stata data in affido a un istituto, ma dopo un ricorso era tornata a vivere coi genitori.